I SIMBOLI NELLA STORIA DELL’UOMO
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NATALE SPINETO
I SIMBOLI NELLA STORIA DELL’UOMO CON CONTRIBUTI DI
FIORENZO FACCHINI E JULIEN RIES
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Š 2002 Editoriale Jaca Book SpA, Milano Tutti i diritti riservati Prima edizione italiana settembre 2002 Edizione in formato ridotto aprile 2018
Il testo di Julien Ries è stato tradotto da Rosa Maria Parrinello Grafica di copertina Break Point/Jaca Book
Stampa e legatura Centro Stampa Digitalprint Srl, Viserba (Rn) aprile 2018
ISBN 978-88-16-60543-5
Editoriale Jaca Book via Frua 11, 20146 Milano; tel. 02 48561520 libreria@jacabook.it; www.jacabook.it Seguici su
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SOMMARIO
INTRODUZIONE
Pag. 7 I simboli e il loro studio. I simboli religiosi. Una ermeneutica dei simboli? Premesse di metodo.
LE ORIGINI DELL’UOMO E IL SIMBOLISMO
di Fiorenzo Facchini Pag. 15 Attitudine simbolica e linguaggio. Simbolismo sociale e funzionale. Il simbolismo spirituale: l’arte, il culto dei morti. Simbolismo, senso religioso e cultura.
I SIMBOLI NELLA VITA DELL’UOMO PREISTORICO
di Julien Ries Pag. 27 Il simbolismo nella vita dell’uomo arcaico. Il simbolismo funerario nel Paleolitico. Il simbolismo presso gli artisti del Paleolitico superiore. L’uomo neolitico e i suoi simboli.
EGITTO
Pag. 47 Mondo divino e immagine simbolica. La scrittura geroglifica. Simbolismo e architettura. Figure simboliche.
L’INDIA E IL TIBET
Pag. 65 L’India prima dei Veda. Il simbolismo nella religione vedica e brahmanica. L’immagine e il suo statuto nell’Induismo. Gli dèi e i loro attributi. Il tempio. Il simbolismo della luce. Simboli del centro. Il linga. La ruota. Il calore. Il Buddha e i suoi simboli. La fase “aniconica”. Le rappresentazioni del Buddha. Il mapdala.
LA CINA
Pag. 87 Gli animali. I vegetali. I minerali. I manufatti. La scrittura. Yin e Yang.
LO SHINTOISMO
Pag. 105 Il linguaggio della natura. Specchi, spade e gioielli. Manufatti simbolici. Lo spazio quotidiano come spazio simbolico: il giardino.
LA GRECIA
Pag. 115 Symbola. Simboli in Grecia. Gli elementi “naturali”. Le acque e la realtà primordiale. La rappresentazione. Oggetti cultuali.
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ROMA
Pag. 131 Figure di animali nella religione romana arcaica. Monumenti e cosmo. Il simbolismo funerario.
IL NORD EUROPA E I GERMANI
Pag. 145 Il sole. Le acque. La terra. Simboli naturali. L’albero Yggdrasill.
L’EBRAISMO
Pag. 153 Immagini bibliche. Simbolismo e raffigurazione. L’eclissi del simbolismo figurativo e la letteratura rabbinica. Il simbolismo cabbalistico.
IL CRISTIANESIMO DEI PRIMI SECOLI
Pag. 167 La piantagione, l’albero della vita, la vite, il vino. L’acqua viva. Il pesce. La nave. La palma. La corona. Il sole e la luna. Gli animali. La croce.
L’ISLĀM
Pag. 183 Simbolo e rappresentazione. Luoghi del simbolo: l’immagine letteraria. Luoghi del simbolo: le lettere e la scrittura. Luoghi del simbolo: l’arte senza figure.
LA MESOAMERICA Pag. 201 Gli Aztechi. I Maya.
AFRICA
Pag. 217 Presupposti terminologici. Il corpo umano. La natura. Colori e segni.
L’AUSTRALIA
Pag. 227 Il “tempo del sogno” e la definizione dello spazio. L’ordine simbolico. Un esempio: i simboli geometrici.
NOTE CONCLUSIVE
Pag. 235 I simboli oggi. Il simbolo fra specificità culturale e generalità.
APPENDICE Pag. 238
INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE Pag. 245
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INTRODUZIONE I SIMBOLI E IL LORO STUDIO Il termine “simbolo” deriva dal greco symbolon, che designa, in origine, un segno di riconoscimento ottenuto spezzando un oggetto in due frammenti. Due persone che, allontanandosi, volessero conservare una traccia o una prova del loro rapporto, potevano trattenere ciascuna una parte dell’oggetto. Quando poi si fossero riviste (oppure i loro eredi o i loro emissari avessero avuto occasione di rincontrarsi) avrebbero potuto riunire i due frammenti, a ricordo e testimonianza delle relazioni che le avevano legate. Platone, nel Simposio (190-191), narra un mito secondo il quale Zeus, per punire gli uomini, li avrebbe tagliati in due parti, senza mai più ricomporli. Da allora, scrive il filosofo, ognuno è symbolon di un uomo: è la metà mancante di una totalità della quale va in cerca. Non è il caso di ripercorrere la storia del termine nella terra in cui ha avuto origine: su di essa ci si soffermerà sommariamente nel capitolo dedicato ai Greci. Va solo segnalato che l’etimologia consente già di indicare alcuni tratti del simbolo che, nei secoli successivi, saranno valorizzati. Il primo è il rinvio ad altro: l’oggetto simbolico prende senso nel momento in cui lo si considera di per sé insufficiente, lo si intende come parte di qualcosa che sta altrove e a cui esso rimanda. Il simbolo, scrive Umberto Galimberti, «evocando la sua parte corrispondente, rinvia ad una determinata realtà che non è decisa dalla convenzione, ma dalla ricomposizione di un intero». Un secondo tratto è il carattere unificante: il simbolo concilia le differenze, mette in comunicazione, media realtà diverse, eterogenee, anche contrastanti. È stato messo in evidenza come il suo opposto sia il termine diabolos, che, in qualità di aggettivo, significa “calunnioso”, “denigratore”, “mendace” e, in qualità di sostantivo, “maldicente”, “calunniatore” e, quindi, “diavolo”. Gli scrittori cristiani antichi di lingua greca usano il vocabolo symbolon nel senso di stendardo, emblema, portento, segno, ma lo impiegano anche – e soprattutto – con una accezione religiosa: il significato degli atti liturgici, il tipo, l’immagine delle realtà celesti, la formula rituale e sacramentale, l’acqua del battesimo, l’olio santo, l’acqua e il vino prima della consacrazione, le sacre specie dopo di essa sono per loro symbola. Uno dei significati di simbolo che – nel cristianesimo – si impongono maggiormente è poi quello di «segno di riconoscimento fra cristiani» e quindi, di conseguenza, di formula che esprime sommariamente le verità della fede. Si parlerà, dunque, di simbolo apostolico, o di simbolo niceno-costantinopolitano, ad indicare il credo. Il significato di «rappresentazione visibile dell’invisibile», comunque, s’impone; questo avviene anche nella letteratura cristiana latina, a partire dal iv secolo. Nel vi si sviluppa una vera e propria teologia simbolica, influenzata dal neoplatonismo, grazie a Dionigi Pseudo-Areopagita. La verità può
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1. La presenza di azioni rituali è documentata fin dalla preistoria ed è attestata in culture e luoghi diversissimi. Si vede qui un esempio proveniente dall’India, collocabile nell’età del bronzo. Si tratta di una pittura rupestre situata a Sujanpura (Bhanpura-Chambal) che, secondo E. Anati, mostra una riunione di sette bucrani (teste di toro stilizzate) in semicerchio attorno a un motivo labirintiforme e con la presenza di un piccolo antropomorfo in basso. 7
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essere, secondo l’impostazione di questo autore, trasmessa in maniera logica oppure simbolica. Il simbolo spinge all’estremo l’inadeguatezza dell’immagine ad esprimere il sacro e così si dimostra essere il mezzo più opportuno per rivelarlo, perché il vero è invisibile, illimitato, inattingibile e non è possibile dire ciò che è, ma soltanto ciò che non è. Ad esso si ascenderebbe – tramite i simboli – attraverso un processo interiore di purificazione, illuminazione e perfezione. Nel vii secolo Isidoro di Siviglia definisce il simbolo, coerentemente con lo sviluppo che la nozione ha avuto, come segno che dà accesso a una conoscenza soprasensibile. Le vicende successive del termine “simbolo” si intrecciano, ovviamente, con quelle della fortuna del simbolo come oggetto, nell’arte (si pensi, per fare solo qualche esempio, a quella bizantina, al romanico, ai simbolismi complessi di Hyeronimus Bosch, a quelli enigmatici di Giorgione, alle allegorie di Albrecht Dürer e di Albrecht Altdorfer, al Manierismo), nella letteratura, nelle scienze e nelle discipline esoteriche (per esempio l’alchimia, l’astrologia, la magia), nella filosofia (dove il concetto viene sottoposto ad indagine, tra gli altri, da Gottfried Wilhelm Leibniz e Immanuel Kant). Nel xix secolo, con il Romanticismo, il simbolo diventa oggetto di un interesse crescente ed è ripreso e studiato in opere delle quali le ricerche contemporanee sono in parte debitrici. È, prima di tutto, la psicoanalisi di Sigmund Freud a rinnovare gli studi sul simbolo, rivolgendo l’interesse all’inconscio e ai meccanismi simbolici tramite i quali esso si manifesta nell’esperienza dell’uomo. Tra le correnti psicologiche che hanno posto al centro delle loro considerazioni il tema del simbolismo vanno poi menzionate almeno quella junghiana e quella lacaniana. Contemporaneamente, si sviluppano le ricerche sul simbolo dal punto di vista sociologico, a partire dall’opera di Émile Durkheim, che sottolinea il potere aggregante dei simboli e che apre la strada alla teorizzazione della società come sistema simbolico. Anche nell’antropologia il simbolo diventa oggetto di dibattito, così come all’interno delle discipline linguistiche, della filosofia e della storia delle religioni.
I SIMBOLI RELIGIOSI
2. Figura umana con le braccia alzate e lo sguardo rivolto altrove. Particolare da un gruppo di personaggi dipinti in rosso scuro su di una roccia dell’Australia del Nord a Nabarlek, Terra di Arnhem. In ogni luogo, roccia, animale, specchio d’acqua l’artista australiano è pronto a individuare segni millenari riconducibili ai miti e agli spiriti ancestrali che originano il mondo e gli conferiscono significato. La scena è realizzata con una sintassi artistica la cui matrice culturale potrebbe situarsi alla fine del Paleolitico (da D. Lewis, 1988).
Le impostazioni che si sono menzionate – con i loro referenti filosofici e teorici diversi – suggeriscono già un dato che verrà confermato dalla rassegna delle teorie cui si alluderà nell’appendice storiografica a questo volume: la difficoltà di farsi un’idea precisa di che cosa si debba intendere quando si usa la parola “simbolo”. Scrive l’antropologo Clifford Geertz: «‘simbolo’, come ‘cultura’, è stato usato riferendosi a una grande varietà di cose, spesso a parecchie insieme e contemporaneamente. Da certuni è usato per ogni cosa che significhi per qualcuno qualcos’altro: le nuvole scure sono i precursori simbolici di una pioggia imminente. Da altri è usato solo per segni esplicitamente convenzionali di questo o quel tipo: una bandiera rossa è simbolo di pericolo, una bianca di resa. Per altri ancora è limitato a qualcosa che esprime in modo indiretto e figurato ciò che non si può esprimere in modo diretto e letterale, così che vi sono simboli nella poesia ma non nella scienza, e logica simbolica è una denominazione errata. Al-
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tri ancora, tuttavia, lo usano per ogni oggetto, atto, avvenimento, qualità o rapporto che serve da veicolo per un concetto». Come caratterizzare, allora, la nozione di simbolo? Le scienze logiche e matematiche forniscono definizioni chiare, che non consentono tuttavia di applicare il concetto di “simbolo” ai fatti religiosi e non aiutano a comprendere il senso che il termine possiede nel lessico di tutti i giorni. Lo stesso si deve dire per la teoria di Charles Sanders Peirce, secondo la quale il simbolo è un segno in cui significante e significato sono uniti grazie a una regola, una convenzione (come un segnale di sosta vietata, dove l’immagine – significante – è associata al divieto – significato – perché un accordo fra gli uomini, sancito da una legge, lo stabilisce): paradossalmente, infatti, tutto quello che i poeti romantici, i pittori surrealisti, alcuni storici delle religioni chiamano simbolo non rientra nella categoria di segni così delimitata. Una delle definizioni più diffuse – e più generiche – vuole che il simbolo sia un oggetto che sta per qualcos’altro (per non citare che un caso, la si trova nell’articolo “Simbolismo” di J.W. Heisig, nella Enciclopedia delle Religioni diretta da Mircea Eliade). Poiché questo oggetto rientra nelle nostre esperienze di esseri parlanti, lo si può dire un segno. Per esempio, quando si parla di un albero si usa un segno. Per rendere simbolico questo segno, occorre attribuirgli un altro significato (oltre a quello di organismo vegetale dotato di certe caratteristiche, che gli appartiene): è così che l’albero può diventare un axis mundi, pilastro che sorregge il cielo (l’esempio è di Angelo Brelich). Continua ad essere se stesso ma acquista, inoltre, il carattere di rinvio a qualcos’altro. In questo senso, è possibile impiegare la nozione di simbolo per indicare tutte le produzioni culturali umane. Come scrive Claude Lévi-Strauss, «ogni cultura può essere considerata come un insieme di sistemi simbolici in cui troviamo al primo posto il linguaggio, le regole matrimoniali, le relazioni economiche, l’arte, la scienza, la religione». Ma che cosa contraddistingue un simbolo religioso rispetto a un simbolo di diverso tipo? Per cercare di chiarire questo punto è possibile richiamarsi a un altro esempio, presentato ancora una volta da Brelich. Quando un indigeno della Nuova Guinea costruisce un’imbarcazione, lo fa usando strumenti razionalmente idonei allo scopo che vuole raggiungere: si procura del legno delle dimensioni adatte, lo lavora per dargli una forma che possa galleggiare eccetera. Produce così un manufatto che servirà agli spostamenti o alla pesca. Tuttavia, non tutto ciò che l’indigeno compie è direttamente funzionale al fine che persegue: la sequenza di alcuni dei suoi atti, per esempio, può essere stereotipata e non giustificata da una effettiva necessità; ma, soprattutto, la costruzione di una piroga non è mai disgiunta da certi segni grafici che sono intagliati sulla prua. Si potrebbe osservare che tali segni sono mere decorazioni, utili ad appagare la vista, però, senza considerare la loro obbligatorietà, che mal si concilia con una funzione meramente estetica, va detto che essi non sono casuali, ma prendono a modello una certa figura – che nel caso specifico è quella del coccodrillo –, si ritrovano in altri manufatti e hanno un corrispettivo nei racconti mitici. In altri termini, denunciano, ai nostri occhi, l’esistenza di uno scarto rispetto all’ottica utilitaria caratteristica della costruzione. Ciò non significa che l’aborigeno abbia coscienza di questo scarto: per lui le procedure impiegate al fine di fabbricare una imbarcazione possono essere quelle e
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3. Un motivo neolitico scandinavo, da un graffito rupestre rilevato da Baltzer: su di una stessa roccia si ritrovano incisi uomini e un disco solare i cui raggi si trasformano in mani. Lo stesso motivo, nota lo studioso di preistoria Gabriel Camps, si è rinvenuto nel medesimo periodo anche in Spagna e in Egitto. L’immagine del sole è nell’arte preistorica non di rado collegata all’opera dell’uomo. 9
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4. Dall’Africa, una pittura rupestre di colore bianco situata nel Malawi centrale (area di Dezda). È attribuibile a gruppi di lingua bantu che hanno sviluppato negli ultimi 400-500 anni un linguaggio visivo dallo stile particolare, culturalmente collegato a società agricole organizzate in villaggi. Nel disegno viene illustrato un dialogo tra un essere umano, il cui atteggiamento sembra d’implorazione, e un uccello, forse un antenato. In alcune grotte che presentano pitture eseguite in questo stile si sono rinvenuti oggetti rituali che possono indurre a collegare i simboli dell’arte rupestre a processi iniziatici o a cerimonie segrete (E. Anati, cui è dovuto anche il rilievo qui rappresentato).
soltanto quelle, senza che sia neanche concepibile una piroga che non presenti certi motivi grafici e senza che il significato pratico e quello che noi definiamo religioso siano coscientemente discriminati. Ma ciò non esclude l’utilità, per chi analizza la cultura dell’indigeno della Nuova Guinea, di una distinzione del genere. Lo studioso italiano impiega questo esempio per mostrare la possibilità di qualificare una condotta e una credenza come religiose, senza usare una definizione forte del termine “religione”. Il significato dei motivi iconografici a forma di coccodrillo viene colto in rapporto al sistema culturale nel quale essi si inscrivono. Infatti, «le cose più svariate possono vedersi attribuita una valenza religiosa: si parla comunemente di idee, di convinzioni, di credenze, narrazioni religiose, azioni individuali e comportamenti stabili, di norme, divieti, rapporti determinati dalla religione, di personaggi, animali, piante, materiali, oggetti naturali o elaborati, che si definiscono “sacri”, di luoghi, immagini, simboli sacri o religiosi eccetera»: tutti elementi che possono essere investiti di una valenza sacrale ma possono anche non esserlo, in conseguenza di una serie di scelte compiuta all’interno di ogni singola civiltà in maniera differente. Il simbolo costituisce un tramite per questa operazione: «in base al valore simbolico avvertito nelle cose – scrive ancora Brelich – anche le azioni più semplici della vita pratica [...] possono assumere un aspetto religioso». Se, nella prospettiva di Brelich, la religione ha la caratteristica di «ricondurre alla portata dell’uomo ciò che è umanamente incontrollabile, investendolo di valori umani, attribuendogli un significato», in questa attribuzione di significati è possibile vedere l’elaborazione di un sistema simbolico. Partendo da altri presupposti, Ernst Cassirer scrive, analogamente, che «attraverso il simbolo l’uomo riconosce ed esprime in forma sociale o rituale le potenti forze che sente intorno a sé, in questo modo le domina e le conduce al controllo sociale». Quanto agli aspetti peculiari del simbolo religioso, si può richiamare una osservazione proposta da Jean-Pierre Vernant. Nel corso di uno studio in cui i fatti religiosi sono considerati come segni che acquistano senso in rapporto al sistema simbolico generale in cui si inscrivono, lo studioso definisce «uno dei caratteri essenziali del segno religioso»: «il segno religioso non si presenta come un semplice strumento di pensiero, non mira solo ad evocare nella mente degli uomini la potenza sacra alla quale rinvia, ma vuole sempre anche stabilire una vera comunicazione con essa, inserire realmente la sua presenza nell’universo umano. Ma, cercando così di gettare come un ponte verso il divino, deve nello stesso tempo sottolineare la distanza, accusare l’incommensurabilità fra la potenza sacra e tutto quello che la manifesta, in modo necessariamente inadeguato, agli occhi degli uomini». In questo senso, nei fatti religiosi ritroviamo, in forma particolare e in maniera più evidente, uno dei tratti caratteristici del simbolo in generale: quello di richiamarsi ad una realtà non del tutto conosciuta (o conoscibile). Una definizione piuttosto comune vuole che il simbolo rinvii a qualche cosa di «assente o non percettibile», o che il suo referente sia «non chiaro» (J.W. Heisig). Dan Sperber ritiene che si ricorra al simbolo quando, essendo l’espressione concettuale inadeguata a dare conto di una informazione nuova, si fa riferimento a un campo semantico parzialmente indetermina-
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to; analogamente, Umberto Eco attribuisce ai simboli un significato indeterminato e impreciso. Comunque si valuti questa imprecisione, sembra esservi simbolo dove il significato non viene espresso tramite strumenti razionali. A questo dato è associata la polisemia, la pluralità di significati del simbolo. La religione sviluppa in maniera particolare tali proprietà dell’espressione simbolica. Secondo la prospettiva appena descritta una religione è già, di per sé, un sistema simbolico e, dunque, una trattazione dei simboli nelle religioni tende a identificarsi con una storia delle religioni. Ma è possibile anche introdurre una idea più stretta di simbolo, richiamandosi al lessico. Nel linguaggio comune, parlando di simboli religiosi, ci si riferisce soprattutto a oggetti o immagini (per esempio elementi naturali quali l’albero e le acque, oppure manufatti di vario genere: tutti quei motivi che compaiono nei numerosissimi dizionari dei simboli esistenti), piuttosto che ad atti rituali, miti, esseri divini. In quanto sensibile, il simbolo è legato all’immagine: è qualcosa di visibile e di rappresentabile. Ma la parola “immagine” è usata anche ad indicare il parlare figurato: un simbolo può essere rappresentato, ma anche evocato da un brano letterario, dal racconto di un mito, da un testo sacro. In certe tradizioni religiose che diffidano della rappresentazione grafica, questo tipo di simboli assume un ruolo preponderante. Al problema dell’immagine va dedicata una attenzione particolare: tutta una parte della letteratura critica intorno ai simboli si è interrogata, infatti, sul ruolo e le caratteristiche dell’immaginazione simbolica.
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UNA ERMENEUTICA DEI SIMBOLI? Il punto di vista dal quale si è voluto affrontare il tema del simbolo, che sarà anche quello che si adotterà nel prosieguo di questo libro, è di carattere storico e critico. Tale punto di vista ha precisi limiti – tanto di oggetto quanto di metodo – e l’indagine che sulla sua base è possibile effettuare si deve arrestare di fronte a questioni che esulano dal suo ambito specifico. Tra queste, ve ne è almeno una che gli studi sul simbolo hanno più volte impostato e dibattuto: qual è il rapporto fra i simboli e il sacro, o l’essere, o la verità delle cose? Il solo fatto di porre il problema implica che si riconosca ai simboli un valore rivelativo e che sia quindi fondamentale interrogarsi intorno a ciò che, attraverso di essi, si rivelerebbe all’uomo. Questi temi sono stati specialmente sviluppati dalla tradizione romantica, per la quale il simbolo è l’oggetto che media il rapporto con una realtà razionalmente indescrivibile, ma attingibile attraverso la poesia o l’arte. Nella seconda metà del Ventesimo secolo, la questione è stata affrontata da alcune prospettive ermeneutiche. È possibile esemplificare la riflessione ermeneutica sul simbolo facendo riferimento a due dei suoi massimi esponenti: il francese Paul Ricoeur e l’italiano Luigi Pareyson. Ricoeur sottolinea come nel simbolo esistano aspetti linguistici e non-linguistici. I primi, che accomunano il simbolo alla metafora, sono quelli espressi dai termini “senso” e “significato”. Nella metafora, la tensione fra interpretazione letterale e non letterale dà luogo alla creazione di senso,
5. Dalla grotta più famosa del Paleolitico spagnolo, Altamira, un’incisione rupestre interpretata come un uomo, mascherato da animale, che solleva in alto le braccia: è un atteggiamento umano molto diffuso nell’arte preistorica che si ritiene indichi stupore, venerazione, qui collocato all’interno di uno spazio verosimilmente distinto da quelli di uso quotidiano (rilievo di Henri Breuil). 11
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6. I disegni riproducono simboli ebraici e cristiani assodati, che si riferiscono alla prima diffusione del cristianesimo (er-Ramthaniyye, Giordania). Si trovano incisi sulle architravi d’ingresso di abitazioni giudeo-cristiane probabilmente in rapporto con il valore simbolico attribuito alla soglia (disegno di E. Leso).
cioè produce un significato nuovo. Cosicché la metafora non può essere ridotta senza residui a una serie di concetti che ne costituiscono la traduzione: è bensì parafrasabile, ma a condizione che la parafrasi sia infinita. Il simbolo condivide questi tratti ed è oggetto di una esegesi senza fine. Ma esso ha anche, secondo lo studioso, caratteri nonlinguistici: è cioè “legato”, ancorato ad attività non simboliche o prelinguistiche. Il simbolo religioso metterebbe bene in evidenza questo radicamento, per la sua connessione con le configurazioni del cosmo: «nell’universo sacro la capacità di dire trova il suo fondamento nella capacità del cosmo di significare». Il simbolo di Ricoeur manifesta, da un lato, l’arcaico; dall’altro, è tensione teleologica: possiede due vettori, che rappresentano anche le due direzioni nelle quali si svolge l’interpretazione. «Ogni simbolo è infine una ierofania, una manifestazione del vincolo dell’uomo con il sacro». Secondo Pareyson, il trascendente è per l’uomo ciò che supera i suoi limiti e gli resiste, è l’alterità da cui si sente circondato, è l’inoggettivabile. Come è possibile, allora, farne esperienza? Il linguaggio astratto non è d’aiuto, poiché rende oggettivo ciò di cui parla; rimmagine simbolica, invece, si presta allo scopo: la sua natura fisica, sensibile, concreta è, per il filosofo, adatta a esprimere la divinità, perché riconosce la propria inadeguatezza e, così facendo, la riscatta. Il simbolo eserciterebbe la sua funzione irradiando significati: esiste per Pareyson una corrispondenza fra questa irradiazione, infinita, e l’inesauribilità del trascendente. Se e in quale misura prospettive di questo tipo possano essere adottate all’interno di una ricerca che voglia essere storico-religiosa è oggetto di discussione. Uno scambio, in ogni caso, ha avuto luogo: Paul Ricoeur, per esempio, fa sovente riferimento alle opere di studiosi delle religioni come Gerardus Van der Leeuw e Mircea Eliade e quest’ultimo, da parte sua, ha definito la propria posizione come “ermeneutica”, tentando di conciliare l’indagine storica con una concezione del sacro come realtà trascendente che si rivela attraverso i simboli.
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PREMESSE DI METODO Comunque si ponga il problema della verità dei simboli, va detto che ogni considerazione di carattere filosofico non può che avere, quale base e presupposto, l’esame storico-critico. È da questa prospettiva storica ineludibile che il presente libro intende affrontare il tema del simbolo. Dall’impostazione storica deriva anche l’ordine che si seguirà e che non sarà, come avviene nella quasi totalità dei volumi dedicati a questo argomento, di tipo tematico: verranno invece prese in considerazione diverse civiltà, delle quali si cercheranno di descrivere certi “simboli” caratteristici. Con alcune avvertenze: la prima è che, se ogni cultura può essere intesa quale sistema simbolico, l’individuazione di simboli in senso più stretto dipende da una serie di varianti, tra le quali si devono ricordare almeno i caratteri generali del sistema religioso in questione e la sua maniera di concepire il rapporto fra mondo divino e rappresentazione. Per esempio, nella religione della Grecia antica e in quella romana, è difficile riconoscere il riferimento ad alcuni oggetti propriamente simbolici. Nell’ebraismo e nell’Islam si trovano motivi simbolici, in contesti caratterizzati da una particolare reticenza nei confronti delle immagini visive, mentre in altre civiltà, come quelle dell’India, la rappresentazione figurata appare fiorentissima. Insomma, la considerazione dei tratti generali del sistema religioso porta, all’interno di ogni singola area culturale, a trattare il simbolo in maniera ogni volta diversa. Anche la letteratura critica di riferimento presenta una certa varietà di atteggiamenti di fronte al concetto di simbolo: se in alcuni casi utilizza la nozione di simbolo senza porla particolarmente in questione, sul piano teorico e metodologico (come avviene per l’India), in altri ne fa un uso più parsimonioso e problematico (ad esempio, per la Grecia); talvolta, infine, comporta veri e propri dibattiti sulla liceità dell’adozione di una prospettiva “simbolica” (come succede nello studio delle culture orali). Tutto questo spiega una certa disomogeneità della trattazione proposta, che, volta per volta, intende tenere conto della maniera particolare in cui si pone il problema del simbolo all’interno delle singole civiltà, senza trascurare lo stato della letteratura critica. La disomogeneità, comunque, serve a valorizzare, ancora una volta, il diverso disporsi delle circostanze e dei tratti storici. È evidente che non sarà possibile toccare tutte le singole culture, ma neanche isolarne alcune che siano più rappresentative o preminenti: la scelta che è stata fatta risponde alla volontà di dare un quadro esemplificativo e, nello stesso tempo, di una certa ampiezza, dei simboli in alcune religioni. Nel delimitare la nozione di simbolo va fatta ancora una precisazione. La statua di un dio è un manufatto, è una immagine, rinvia ad altro, ha un significato religioso. Lo stesso vale, ad esempio, per la raffigurazione di un episodio mitico o di una vicenda riguardante la storia sacra di un popolo. Non si potrà qui parlare, tuttavia, di simboli in senso stretto. La ragione è che si tratta di segni o complessi di segni che significano, già di per sé, il dio o l’episodio che rappresentano. Alcuni concetti sono prossimi a quello di simbolo ma in qualche modo se ne differenziano. Bisogna dunque precisare il loro significato, prima di affrontare l’indagine sui simboli quali si presentano nelle diverse tradizioni religiose, anche se occorre avvertire che le definizioni che se ne daranno 13
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7. Particolare del disegno di un murale che si trova nel Tempio dell’Agricoltura a Teotihuacan, una vera e propria metropoli precolombiana dell’altipiano centrale messicano. La sua decadenza si situa intorno al 650-750 d.C., ma la sua cultura è neolitica. Nell’immagine qui riprodotta un personaggio, all’interno del Tempio, porge con riverenza un volatile, probabilmente un pappagallo, simbolo solare, luminoso (disegno di F. Jacomelli).
hanno, più che altro, la funzione di rendere più ordinato il discorso ma rimangono, talvolta, discutibili. L’emblema è una immagine che viene volontariamente adottata da una persona o da un gruppo per designare una entità politica, sociale o religiosa. Si tratta, per esempio, della bandiera di un paese, delle immagini presenti sulle monete, dello stemma di una casata (le api della famiglia Barberini, il sole di Luigi xiv, l’aquila napoleonica), o anche di quello che viene chiamato il “logo” di una ditta. L’attributo è una immagine che rimanda a una figura umana o divina, oppure alla personificazione di un concetto astratto. Per esempio, la clava è un attributo di Herakles; l’aquila, come la saetta, lo è di Zeus, la bilancia della giustizia. Si tratta di elementi che servono a identificare l’essere cui appartengono, oppure, se presenti da soli, a sostituirlo. L’allegoria rappresenta una idea astratta o un evento in termini concreti, tramite immagini oppure tramite un racconto: per esempio, una donna con una cornucopia può essere l’allegoria dell’abbondanza. Tutte queste nozioni, in quanto rinviano ad altro, hanno natura simbolica; se quest’altro, poi, è un essere sovrumano o un mito, si possono considerare anche simboli religiosi. Del simbolo in senso proprio, però, non hanno la caratteristica di rinviare a qualcosa che non è del tutto esplicitabile e il loro significato è relativamente univoco. Va tuttavia detto che, nella letteratura critica intorno ai simboli nelle differenti civiltà, la distinzione può mancare o essere trascurata e che, al di là delle definizioni, risulta talvolta difficile discernere il valore in senso stretto simbolico di un oggetto rispetto alle sue valenze allegoriche, emblematiche o di attributo. Nella redazione di questo volume ho avuto l’opportunità di valermi dell’aiuto di molti studiosi, che mi hanno dato indicazioni, suggerimenti, consigli preziosi e trasmesso materiale. Sarebbe impossibile menzionarli tutti. Intendo tuttavia esprimere, in particolare, la mia gratitudine a quanti hanno avuto la pazienza e la gentilezza di prendere in considerazione alcune parti del libro e di discuterle con me: i professori Françoise Dunand, Giovanni Filoramo, Pierre Lory, Corrado Martone, Maria Chiara Migliore, Giulia Piccaluga, Mario Piantelli, Fabio Scialpi e Roberto Tottoli. Vorrei ringraziare, infine, Sante Bagnoli, Maretta Campi e Julien Ries, che mi hanno generosamente messo a disposizione il ricco materiale che possiedono.
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LE ORIGINI DELL’UOMO E IL SIMBOLISMO
Pietra lavorata
Spazio abitativo
Sepolture
Figure animali
Figura femminile
La comunicazione simbolica è alla base della cultura di tutti i popoli. Le sue manifestazioni interessano le diverse espressioni della vita individuale e sociale. L’attività simbolica è espressa in tante forme: suoni, segni grafici, immagini, manufatti. Ogni segno o comportamento, ogni attività umana che rimanda ad altro nelle intenzioni di chi la realizza acquista un valore simbolico. È questa una concezione ampia della simbolizzazione, per la quale resta essenziale la differenza tra segno e simbolo. Secondo Ricoeur, il carattere univoco del segno è legato alla pura funzionalità o a fenomeni fisici, il simbolo ha un carattere di plurivocità, contiene una sovrabbondanza di senso. Ogni segno che rimanda ad altro attesta un’attività simbolica. «Segno e simbolo sono due elementi essenziali dell’immaginario dell’uomo. Il simbolo è un segno che rimanda a una realtà invisibile con la quale esso mette in comunicazione l’uomo facendo passare la sua intelligenza dal visibile all’invisibile» (Ries). «Il simbolo si basa sulla capacità dell’uomo di cogliere gli impulsi che partono dall’ambiente elaborandoli nel suo mondo interiore. Giustamente è stato osservato che il simbolo costituisce la carta di identità dell’Homo sapiens» (Durand). A mio modo di vedere questa affermazione è da intendersi per l’uomo in quanto tale, cioè in quanto caratterizzato da psichismo riflesso, senza limitarla alla fase evolutiva recente, quella rappresentata da Homo sapiens degli ultimi 100.000 anni, come vorrebbero alcuni Autori. Certamente nelle espressioni culturali degli ultimi 100.000 anni, in particolare nelle raffigurazioni dell’arte parietale e dell’arte mobiliare del Paleolitico superiore, il simbolismo è più evidente. Le più antiche sepolture (circa 90.000 anni fa), le sculture, le pitture, le incisioni rupestri degli ultimi 30.000 anni hanno riferimenti simbolici, anche se non tutti di immediata e facile lettura, che si legano ai mondi vitali dell’uomo preistorico. 15
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Ma un valore simbolico va riconosciuto anche ad altri comportamenti dell’uomo preistorico che esprimono la sua vita interiore, le sue attitudini. A nostro modo di vedere il concetto di simbolizzazione si lega all’identità dell’uomo ed è possibile cogliere l’attività simbolica fin nelle fasi più antiche dell’umanità.
ATTITUDINE SIMBOLICA E LINGUAGGIO
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In campo archeologico alcuni Autori ritengono che la prove sicure del simbolismo si hanno solo con Homo sapiens sapiens, la forma anatomicamente moderna che si ritrova diffusa nell’Antico Continente da circa 40.000 anni (Noble e Davidson). Altri collocano l’origine del linguaggio, come lo conosciamo oggi, tra 100.000 e 70.000 anni fa. Anche secondo Leroi-Gourhan la capacità di pensiero astrattivo e simbolico sarebbe da riconoscersi solo a Homo sapiens. In campo paleoantropologico non mancano posizioni analoghe, che vengono messe in relazione con le interpretazioni relative al linguaggio articolato, una proprietà che sarebbe da attribuire soltanto alla forma moderna (Lieberman). Effettivamente sia il linguaggio che la simbolizzazione sono da ritenersi in connessione tra loro. Ma sebbene il linguaggio non fossilizzi, non mancano evidenze anatomiche che depongono per capacità fonatorie e lo sviluppo delle relative aree cerebrali per l’uomo di epoche assai antiche. Lo studio della base cranica di Homo erectus rivelerebbe un abbassamento della laringe e un ampliamento dello spazio faringeo necessario per la formazione dei suoni (Laitman). Il calco endocranico di Homo habilis evidenzia per l’emisfero sinistro uno sviluppo delle aree di Broca (per la motricità del linguaggio) e dell’area di Wernicke (per la comprensione del linguaggio) (Tobias, Falk). Alle evidenze anatomiche si aggiungono quelle archeologiche desunte dallo sviluppo delle tecnologie, della vita sociale e dalla trasmissione della cultura che richiede la mediazione del linguaggio simbolico. Un approccio globale al problema delle origini del linguaggio suggerisce questa forma di comunicazione fin nelle fasi più antiche dell’umanità. Homo technologicus, Homo loquens in quanto Homo symbolicus. Escludere questi attributi per le forme che hanno preceduto Homo sapiens significa non riconoscere a loro il livello umano, contrariamente a quanto si desume da altre manifestazioni culturali (fabbricazione di strumenti, pratiche funerarie ecc.).
SIMBOLISMO SOCIALE E FUNZIONALE
1. Disegno di un ciottolo lavorato ritrovato a Melka Kunturé, Etiopia. Si tratta di una “industria” su ciottolo risalente a 1,6-1,8 milioni di anni fa (Fase Gomboré i di Melka Kunturé). Il disegno mostra chiaramente che la scheggiatura è limitata a un tratto del margine su un solo lato. Questo tipo di manufatto viene chiamato “chopper”.
In realtà, alla base della posizione che esclude l’attitudine simbolica nelle fasi più antiche dell’umanità sta una concezione restrittiva della simbolizzazione. Ma il concetto di simbolo è più ampio di quello che si riconosce alle manifestazioni dell’arte o della religiosità, anche se queste forme di simbolizzazione rivelano una indubbia capacità di trascendimento rispetto alla sfera biologica, ai bisogni e agli interessi legati alla sopravvivenza. Non manca neppure chi si rifà a una concezione riduttiva, del tutto opposta, riconoscendo valore simbolico a certe forme di comunicazione del mondo animale che si possono osservare a seguito di processi di apprendimento. Ciò che sta alla base della comunicazione simbolica è il significato che il segno assume nel contesto di vita, nel mondo immaginario dell’uomo. Si tratti
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di suoni, di segni grafici, di pitture, ma anche di altri prodotti dell’attività umana. «Le symbole donne à penser» (Ricoeur). Secondo Cassirer tutta la realtà può assumere «una pregnanza simbolica» e il simbolo rappresenta il significato che nella coscienza acquista la realtà oggettiva. In ogni caso è l’uomo che attribuisce significati simbolici alle cose o coglie nei fenomeni della natura e negli elementi cosmici il rimando ad altro. Secondo questa ermeneutica «l’apparato simbolico è costituito da tutti i gesti possibili dell’uomo e dalle immagini prime e universali (volta celeste, sole, e così via)» (Ries). La capacità simbolica può riconoscersi anche negli strumenti fabbricati dall’uomo preistorico e nell’organizzazione del territorio e forme di vita. Dove si manifesta una intenzionalità, un significato, il rimando a una utilizzazione molteplice dello strumento che viene conservato e assume importanza nel contesto di vita, si può parlare di attività svolta con attitudine simbolica. Lo strumento evoca l’idea dell’uso al quale è destinato. Le espressioni di simbolismo legate a bisogni di ordine materiale (come può essere la creazione di uno strumento o l’organizzazione del territorio) contengono elementi rivelatori di una intelligenza astrattiva e di concetti che vanno oltre l’uso immediato. Riteniamo si possa parlare di simbolismo funzionale. Esso va riconosciuto nell’uomo preistorico, come nell’uomo di ogni tempo, accanto ad altre espressioni simboliche, come quelle che fondano la comunicazione sociale, in particolare il linguaggio, o quelle rappresentate dall’arte e dalla religio-
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2. Chopper raccolto nella gola di Olduvai, Tanzania. È questo sito che ha dato il nome alla prima cultura dell’Homo habilis, quella, appunto, “Olduvaiana”. 3. Grande chopper della fase Gomboré i, di Melka Kunturé (disegnato nell’illustrazione precedente), appartenente al periodo olduvaiano (Foto Dumontier). 17
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4. Una visione delle montagne della regione di Afar, nell’Africa orientale. L’importante spedizione internazionale del 1972 ne ha fatto uno del luoghi privilegiati per la ricerca di fossili riguardanti gli Ominidi. L’attuale paesaggio ci dà ancora un buon esemplo della savana secca, ambiente in cui si è sviluppato il bipedismo e perciò l’andatura eretta, con la sua conseguenza di ampliare la visione del territorio e dell’orizzonte. 5. Ricostruzione di capanna di Homo habilis. Il cerchio di pietre delimita l’ambiente e serve con alcune sovrapposizioni a tenere saldi i rami che costituiscono l’intelaiatura di pareti e copertura, su cui vengono intrecciati altri rami e frasche. Il risultato è una forma a cupola vagamente semisferica che costituisce un prototipo fondamentale dell’architettura di tutta la storia umana. La capanna diviene così la riproduzione sia delle grotte naturali sia di quella volta celeste da cui l’uomo si trova ricoperto nella notte. 6. Suolo di habitat olduvaiano evoluto della fase Garba iv a Melka Kunturé, in Etiopia (risalente a 1.400.000 anni fa): utensili, schegge e ossa. 7. L’Homo habilis organizza il suo terreno abitativo e di lavoro. Cerchio di pietre (in nero), industrie, cioè pietre scheggiate (△) e ossa di animali (□) nel suolo di occupazione DK a Olduvai.
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ne, per le quali si può parlare di simbolismo sociale, per le prime, e di simbolismo spirituale per le seconde. Dunque, lo strumentario e l’organizzazione del territorio, orientati alla sussistenza e alla vita del gruppo familiare, costituiscono un sistema simbolico di relazioni che si sviluppa durante la storia evolutiva. Un valore simbolico va riconosciuto a quei documenti che nei complessi antropici più antichi (campi di caccia o nei campi base familiari di Homo erectus e anche di Homo habilis) attestano relazioni intenzionali con il territorio e una organizzazione sociale (per la caccia o per la fabbricazione di utensili). Le strategie per la ricerca del cibo richiedevano un rapporto con il territorio per lo sfruttamento delle sue risorse, la conoscenza degli spostamenti degli animali, l’organizzazione della caccia dei grandi mammiferi, l’utilizzazione di materia prima (selce, ossa) per la fabbricazione degli strumenti. La flessibilità negli spostamenti, la scelta di luoghi per il monitoraggio della selvaggina e per la caccia, l’organizzazione del territorio comportavano capacità cognitive e predittive e un sistema di rapporti e di organizzazione sociale. Per vari siti preistorici di Homo erectus (Olduvai, Melka Kunturé, Okote, Bilzinsgleben ecc.) si hanno evidenze di tali organizzazioni territoriali e sociali (Facchini, 1999). Queste forme di simbolismo legate alle forme di vita e al contesto sociale sono espressione di un simbolismo funzionale e sociale e sono da ritenersi in stretta relazione con la comunicazione linguistica. La capacità simbolica dell’uomo preistorico va vista nei suoi diversi comportamenti e manifestazioni: dalla fabbricazione e conservazione degli strumenti alle strutture abitative, all’organizzazione della caccia, agli insediamenti, alle forme di approvvigionamento, alla vita sociale. È appunto in
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8. Statuetta in avorio con evidenti seni e glutei trovata a Gagarino presso Lipetsk, Russia, oggi al Museo di Antropologia ed Etnografia di San Pietroburgo. 9-10. Ricostruzione a disegno di statuette in avorio raffiguranti un cavallo e un bisonte. Risalgono a 34-30.000 anni fa e fanno parte della cultura Aurignaziana. Trovate nella grotta Volgelherd, Ulm, nell’attuale Germania. 11-13. Statuette femminili in avorio del Paleolitico superiore (30-20.000 anni fa) nell’attuale Europa orientale. Le statuette trovate a Kostienki presso Voronej in Russia e conservate nel Museo di San Pietroburgo (f. 11 e f. 12) presentano caratteri simili alla f. 8. La stilizzazione rende evidente il seno nella statuetta trovata al Dolní Věstonice, oggi nel Museo Moravo di Brno (foto K. Pollesch).
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relazione a una certa complessità di relazioni sociali che va vista la comunicazione simbolica attraverso il linguaggio. Linguaggio, vita sociale, tecnologia, caccia richiedono comunicazione e trasmissione di conoscenze e di esperienze che con il tempo si arricchiscono e consentono un progresso delle manifestazioni culturali. L’uomo può essere definito come «specie simbolica» (Deacon).
IL SIMBOLISMO SPIRITUALE: L’ARTE, IL CULTO DEI MORTI Un cenno particolare meritano le espressioni dell’arte preistorica e le pratiche funerarie. I temi figurativi dell’arte mobiliare (documentata da incisioni su placchette di osso o di pietra, da bassorilievi, statuette e sviluppatasi in Europa nell’Aurignaziano [circa 30.000 anni fa], prima dell’arte parietale), sono spesso costituiti da animali che l’uomo caccia o che vivono nel suo ambiente (cavallo, bisonte, rinoceronte, mammuth, lepre ecc.). Alcune rappresentazioni hanno un evidente riferimento sessuale (ad esempio le impugnature falloidi di strumenti o le rappresentazioni di donne gravide). Frequenti sono le statuette femminili (Savignano, Willendorf, Brassenpouy, Lespugue, Vestonice, Kostienki ecc.) in cui sono accentuate le parti relative alla maternità, forse per una esaltazione, in forma magico-religiosa, della fertilità, anche se non manca chi vede in esse una semplice rappresentazione del corpo femminile (Leroi-Gourhan) o forme reali, opulente di donne paleolitiche (Muller Karpe) o qualche ideale erotico. Sembra però difficile non riconoscere nell’enfatizzazione delle parti connesse con la maternità un riferimento alla fecondità con qualche intendimento magico-religioso o comunque propiziatorio, quasi evocando forze, se non divinità superiori. Ciò si desume più chiaramente nelle raffigurazioni neolitiche della dea madre, che, secondo la Gimbutas, si innestano nella tradizione delle Veneri aurignaziane. Piuttosto complessa l’interpretazione dell’arte parietale le cui rappresentazioni, per lo più zoomorfe, si riferiscono ad animali cacciati dall’uomo. Sono ben note le raffigurazioni parietali delle grotte di Altamira, Lascaux, Les Combarelles, Tue d’Audoubert, Niaux, Les Trois Frères, Chauvet. I grandi attori sono gli animali che l’uomo caccia, specialmente il bisonte, l’uro, il cavallo, il cervo, il mammuth, lo stambecco, il rinoceronte. Non manca, sebbene rara, qualche figura umana, l’uomo ferito nel pozzo di Lascaux, o antropozoomorfa, come lo “stregone” di Les Trois Frères. In queste raffigurazioni si riconosce una ispirazione naturalistica, ma il significato resta alquanto oscuro. I contenuti simbolici non sono di facile lettura e non possono ricondursi a un’unica e medesima ideologia. È stata avanzata anche l’interpretazione dell’arte per l’arte, ma in questo caso non
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14. Rilievo dello scheletro (da T.D. Mc Cown) trovato a Skhul in Israele. Si vede come tra la cassa toracica e il braccio destro sia volontariamente stata posta la mandibola di un grande Suido. Si tratta perciò di un “segno” posto sul corpo sepolto. 15. Raffigurazione (da A.P. Akladnikov) di una sepoltura ritrovata a Teshik Tash, in Uzbekistan. Un cerchio di corna di capra con le punte rivolte verso il basso circonda il cranio e una parte dello scheletro. Qui ci troviamo di fronte a un’organizzazione di “segni” in una sepoltura. 16. Bilzingsleben, Germania: tibia d’elefante con 7 incisioni divergenti verso l’estremità e 14 incisioni laterali (da U. Mania). Datata a 400.000 anni fa. Siamo probabilmente di fronte a segni con differenziazione di significato. 17. Riproduzione sperimentale di strumenti tipici dell’industria musteriana associata all’Uomo di Neandertal: metodo di scheggiatura Levallois per la produzione di una scheggia di forma prestabilita. Anche l’elemento estetico è indiscutibile in questo tipo di industria.
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si capirebbe l’insistenza su alcuni animali e la frequente associazione di alcuni (bisonte, cavallo) né la loro collocazione non casuale nelle pareti di anfratti o al fondo di cunicoli non facilmente raggiungibili. Leroi-Gourhan vede nel bisonte e nel cavallo il simbolo, rispettivamente della femmina e del maschio. Laming-Empereur richiama l’attenzione sui possibili rapporti di un certo gruppo umano con specie animali, pur riconoscendo la complessità del simbolismo rappresentato e mettendo in guardia dalla facile trasposizione del metodo etnografico. L’Autrice prospetta anche una distinzione di significato tra l’arte dei siti all’aria aperta e le opere dei santuari sotterranei. Il riferimento alla caccia e alla fertilità animale, e di riflesso a quella umana, è abbastanza evidente in molti casi, ma è difficile ricondurre i diversi motivi a un unico sistema simbolico. Anche un significato in ordine a momenti importanti per la vita dell’individuo e del gruppo (ad esempio per l’iniziazione) può essere supposto. Sembra di riconoscere un carattere religioso e sociale, anche se non è detto che tutti i comportamenti simbolici dell’uomo preistorico avessero un significato religioso. «Non tutte le produzioni artistiche sono fatti cultuali» (Schebesta). Ma a motivo della intensità con cui l’uomo preistorico viveva il rapporto con la natura doveva esserci uno stretto rapporto tra sfera religiosa e mondi vitali (fertilità, vita sociale). Diversa si presenta l’arte nel Neolitico, schematica e anche informale, improntata a scene di vita (allevamento, agricoltura), alla lotta tra individui armati di archi e di lance, ma anche alla esaltazione della maternità, come nelle statuette femminili di varia forma e atteggiamento interpretate da Gimbutas come espressione del culto della dea madre. Un carattere squisitamente simbolico va riconosciuto alle pratiche funerarie. Le prime inumazioni, ritrovate a Qafzeh e Skhul, in Palestina, risalgono a 90.000 anni fa. L’interesse o il culto dei crani è documentato in epoche anche più antiche, nel Paleolitico inferiore, in vari depositi antropici, tra cui Chou-kou-tien, con il Sinantropo. Le forme e i contenuti possono dunque variare nel tempo, ma il carattere simbolico di queste espressioni culturali non può essere messo in dubbio.
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SIMBOLISMO, SENSO RELIGIOSO E CULTURA
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18. Un fulmine. L’attenzione dell’uomo preistorico alla volta celeste e agli eventi atmosferici può essere stata uno degli spunti che mobilitarono il suo interesse verso fuochi casuali.
L’attitudine alla cultura può ritenersi una costante nell’uomo fin dalla sua comparsa, ma le sue espressioni variano nel tempo in relazione alla capacità innovativa propria dell’uomo stesso, alle risposte alle diverse condizioni poste dall’ambiente. È evidente un progresso sul piano tecnologico e nella intensificazione dei rapporti sociali. Ciò è dovuto molto all’accumulazione di conoscenze e di esperienze che vengono trasmesse anche in forma extraparentale. Vi sono ragioni per ritenere che sistemi simbolici di comunicazione fossero alla base della vita sociale, non solo nel Paleolitico superiore, come attestato dallo sviluppo dell’arte e delle tecnologie litiche, o nel Neolitico, in cui si instaura un nuovo rapporto con il territorio con la formazione dei primi villaggi, ma anche nei periodi precedenti (Paleolitico medio e inferiore). La fabbricazione di bifacciali, la domesticazione del fuoco, gli sviluppi della tecnica Levallois rappresentano manifestazioni che rivelano capacità progettuale e contenuti simbolici. Attraverso questi comportamenti si rivelano capacità intellettive e interessi che non sono strettamente legati alla funzionalità dei manufatti. La lavorazione simmetrica dei bifacciali del Paleolitico inferiore non ha solo uno scopo funzionale, ma spesso rivela intendimenti di ordine estetico. Se poi, come in qualche caso, la lavorazione del manufatto ha conservato in posizione centrale un fossile (conchiglia), come in vari bifacciali acheuleani di Norfolk, in Inghilterra, tale intendimento si fa più evidente. Altrettanto dicasi per certe incisioni lasciate su ossa di animali, come la costola di bovide di Pech de l’Azé (livello acheuleano) di epoca rissiana o le incisioni praticate su una tibia di elefante, trovata a Bilzinsgleben (Germania) risalente a 400.000 anni fa. Anche la presenza di ocra rossa segnalata in vari depositi assai antichi (cfr. Oakley) o la stessa domesticazione del fuoco, che viene fatta risalire ad almeno 500.000 anni fa, possono rivelare un’attitudine simbolica. Gli interessi del mondo vitale dell’uomo sono sempre i medesimi, il modo con cui esprimerli o realizzarli si arricchisce nel tempo. È a questa capacità simbolica che va riallacciato il senso religioso dell’uomo preistorico, le cui manifestazioni possono riconoscersi in molti documenti dell’arte preistorica, ma anche in altre testimonianze, come ad esempio le pratiche funerarie, molto più antiche delle prime inumazioni di 90.000 anni fa. La capacità simbolica e la percezione di forze o realtà superiori sono espressione della stessa intelligenza astrattiva, dello psichismo riflesso. L’uomo è faber, perché sapiens e si rivela sapiens anche nell’essere faber, perché attribuisce un valore simbolico ai suoi elaborati. A questa attitudine si riallaccia il senso religioso, nel desiderio di dare risposta alle domande che scaturiscono dalla capacità di pensiero astrattivo dell’uomo. Tutto ciò è espresso nella e dalla cultura le cui caratteristiche si possono riconoscere nella progettualità e nella simbolizzazione. Esse sono strettamente connesse, come le facce di una medaglia. Il simbolismo va oltre la tecnologia, ma è alle radici della tecnica realizzata dall’uomo; non si esaurisce nella tecnica, ma va oltre, attraverso la comunicazione sociale, specialmente il linguaggio, e attraverso la creatività artistica. La cultura, in forza della progettualità e della simbolizzazione, può essere vista come strategia adattativa, nel senso che rappresenta un elemento determinante nei processi di adattamento, modificando l’ambiente e adattando l’organismo all’ambiente. Osserva Dobzhansky che mentre gli altri organismi si adattano all’ambiente cambiando i geni, l’uomo si adatta mo-
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19. Bifacciale lanceolato dell’Acheuleano finale (Paleolitico inferiore) trovato a Ozzano dell’Emilia, Italia. La ricerca della simmetria appare evidente in questo manufatto al quale la stessa mentalità moderna può guardare come a una scultura.
20. Disegno di un bifacciale (o ascia a mano) in selce del periodo Acheuleano ritrovata a West Tofts, Norfolk (Inghilterra). Al centro presenta una conchiglia fossilizzata di mollusco bivalve del Cretaceo superiore (Sponylus spinosus). Evidentemente il fossile si era formato milioni di anni prima del suo utilizzo come bifacciale e fu rispettato intenzionalmente dall’artefice del bifacciale che lo volle al centro del manufatto. 25
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dificando l’ambiente. Mediante la cultura si allenta la selezione naturale, anche se essa continua a operare. È questa una peculiarità del comportamento della specie umana. Nello stesso tempo la cultura è costituita da comportamenti che non sono regolati da leggi biologiche o di ordine fisico, pur essendo molti di essi legati o orientati a esigenze di ordine naturale. La cultura rappresenta l’ambiente dell’uomo, la sua “nicchia ecologica” (così l’abbiamo definita), nel senso che caratterizza il suo rapporto funzionale con l’ambiente (Facchini, 1988, 1992). Nel passaggio alla forma umana, ha notato lo stesso Dobzhansky, si ha un trascendimento evolutivo, perché le leggi delle società umane non sono più quelle del mondo biologico. Questo trascendimento, secondo lo stesso Autore, che riprende un concetto di Teilhard de Chardin, segue dopo molto tempo un altro trascendimento, quello che si è avuto con il passaggio dalla materia organica alle prime forme di vita. La cultura, profondamente radicata nell’esperienza biologica dell’uomo, rivela aspetti che possono considerarsi extra-biologici, caratterizzati dalla intenzionalità e dalla simbolizzazione. Essa impregna in varie modalità il mondo dell’uomo preistorico.
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Fuoco
Toro e dea
Uso dell’ocra
Animali e segni
Oranti
IL SIMBOLISMO NELLA VITA DELL’UOMO ARCAICO A partire dal 1959, numerose spedizioni scientifiche in Tanzania, a sud del lago Turkana, nelle valli dell’Awash, dell’Omo, nella Rift Valley etiopica e altrove in Africa hanno messo in luce una copiosa documentazione archeo logica e paleoantropologica che attesta l’esistenza di Homo habilis da più di due milioni e mezzo d’anni (Facchini, 1990). Quest’Uomo è l’inventore della prima cultura, detta cultura d’Olduvai, dal nome di un sito del Kenya (Coppens, 1983). Homo habilis ha manifestato le sue capacità di creatore: ciottoli tagliati, raschietti, raschiatoi, dentellati e altri utensili. La sua mano destra in movimento su un ciottolo percuoteva un altro ciottolo per farne un utensile: cosa che presuppone in lui un progetto, nonché il senso dell’organizzazione del lavoro. Le diverse scoperte attestano una scelta dei materiali in funzione della loro solidità, della loro resistenza e del loro colore, e quindi l’esistenza di una coscienza estetica. Ancora sporadico, il taglio ad amigdala fa pensare a una certa nozione che l’operatore doveva avere della simmetria. Elencheremo alcuni indizi dell’esistenza di un immaginario e di una coscienza simbolica nell’uomo arcaico. A partire da un milione e seicentomila anni fa, a Homo habilis succede progressivamente Homo erectus (già scoperto a Giava nel xix secolo): egli perfeziona l’utensileria, sa di sapere, non cessa più di creare; si estenderà in tutto il Mondo Antico, lasciando numerose tracce dei suoi insediamenti: campi a cielo aperto, aree delimitate da circoli di pietre, resti di capanne con sistemazioni interne specializzate per il taglio degli utensili, per la preparazione della selvaggina proveniente dalla caccia, per il soggiorno della famiglia. Il taglio ad amigdala si genera lizza, facendo così nascere la prima industria litica, chiamata acheuleana (Terra Amata, presso Nizza). Homo erectus inventerà il fuoco intorno a 500.000 anni or sono: è il segno di un grande mutamento psichico e simbolico nella crescita dell’umanità. 300.000 anni fa, Homo erectus comincia a scomparire. La creazione dei 27
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1. Mezin presso Novgorod-Seversk, Ucraina: ossa di mammut dipinte con ocra rossa. Museo Archeologico di Kiev (Foto S. Michta). La foto illustra un manufatto del Paleolitico superiore con meno di 30.000 anni di anzianità. Ma l’ocra rossa inizia ad avere un uso simbolico nel Paleolitico medio e inferiore sino a 400.000 anni fa.
primi utensili da parte di Homo habilis e la progressione costante di essa presso Homo erectus sono un fatto culturale importante, segno di una coscienza simbolica (Tobias). Secondo Mircea Eliade, il simbolismo è un dato immediato della coscienza dell’uomo che si scopre come uomo. Per Bergson, questo dato immediato irrompe nell’immaginazione creatrice e spinge all’azione. Il cosmo non è muto, è carico di senso e di significati: volta celeste, movimenti solari, fasi lunari, rivoluzione degli astri danno all’uomo l’intuizione del mistero. L’uso del fuoco porta una profonda modifica nel comportamento dell’uomo attraverso la cottura dei cibi, ma anche per la riunione del gruppo sociale e familiare e per i rituali che gli sono collegati. Agli occhi di C.G. Jung il simbolo è una macchina per trasformare l’energia e ha perciò un ruolo centrale nel processo di civilizzazione.
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2. Ricostruzione del sito e della capanna di Terra Amata sulla Costa Azzurra del Mediterraneo, frequentata da Cacciatori Paleolitici 400.000 anni fa. Nello spazio delimitato dalla capanna sono state trovate l’impronta di un piede umano lungo 25 cm e tracce di focolare. Attualmente il sito si trova nell’omonimo Museo di Terra Amata, dentro la città di Nizza, a 500 metri dalla costa.
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IL SIMBOLISMO FUNERARIO NEL PALEOLITICO L’Uomo di Neandertal e di Cro-Magnon Le prime tombe sono legate alla cultura detta musteriana del Paleolitico medio, che va da 250.000 anni fa a 35.000 anni fa. Vi si trovano associati l’Uomo di Neandertal e l’Uomo di Cro-Magnon. Le più antiche tombe furono scoperte in Israele, a Skhul e a Qafzeh, e risalgono a 90.000 anni dal presente (Facchini, 1984; Broglio-Kozlowski; Defleur; Chavaillon). Fin dalle prime tombe si constata che Homo sapiens ha la tendenza a vivere in prossimità dei suoi defunti. Il fenomeno si amplificherà, sicché nella civiltà natufiana, tra 12.000 e 10.000 anni or sono, nei villaggi del Vicino 29
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Argilla
Roccia Strato sabbioso-argilloso Scheletro
3-4. Nel 1908 gli abati L. Bardon e J. e H. Bouyssonie scoprirono per la prima volta in una grotta di La Chapelle-aux-Saints presso Brive (Corrèze, Francia) una sepoltura neandertaliana. Venne alla luce uno scheletro completo, ma soprattutto fu dimostrato come uomini molto più antichi di noi conoscessero pratiche di culto paragonabili alle nostre, senza finalità materiali. A sinistra sezione longitudinale, a destra pianta della grotta. 5. Pietra di copertura di tomba, con incisioni di coppelle, da La Ferrassie, Dordogna, Francia. Oggi nel museo di Les Eyzies. Secondo lo scopritore, D. Peyrony, le coppelle sarebbero state eseguite dall’uomo di Neandertal del Paleolitico medio (da S. Gideon, 1965). Le coppelle sono “segni” che testimoniano probabilmente una ritualità e, in ogni caso, un linguaggio simbolico.
Entrata
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Strato archeologico
Oriente, i cimiteri saranno vicini alle abitazioni. Un altro fatto va ricordato: i viventi moltiplicano le misure di protezione del cadavere. Gabriel Camps ha rilevato una serie di esempi a Corrèze, in Dordogna, nell’Uzbekistan. La lapide della sepoltura 6 di La Ferrassie mostra con quanta cura si proteggesse il cadavere di un bambino. Vi sono poi i gesti compiuti dai viventi al momento della deposizione del defunto nella tomba, che costituiscono un indizio dei primi riti funerari. La tomba 4 di Shanidar in Irak è eloquente: uno scheletro deposto su un letto di steli di efedra con fiori gialli e blu si trova al centro di un cerchio di blocchi. I polloni permettono di risalire alla data della sepoltura: 50.000 anni fa. Ci troviamo qui in presenza di una simbologia del mistero della vita al di là della morte. Il corredo funerario, le offerte e gli alimenti deposti in alcune tombe di Neandertaliani confermano questa interpretazione e permettono di parlare di homo al tempo stesso symbolicus e religiosus (Facchini, 1991; Ries, 1993).
6. Spettacolare scena di culto dei morti in una rappresentazione rupestre africana della fine del Paleolitico (Zisab Gorge, Brandberg, Namibia). Dalle evidenze archeologiche sembra di poter dedurre che i Neandertaliani e gli uomini del Paleolitico tendessero a tenere separata la dimora dei vivi da quella del morti, ed è stato anche ipotizzato che tali dimore dei morti fossero luoghi cerimoniali, mentre nel Neolitico le dimore del vivi e quelle del morti tendono ad avvicinarsi fino a coincidere. 7. Pitture rupestri con bisonti nella grandiosa grotta di Altamira nel nord della Spagna, uno del più complessi santuari del Paleolitico in Europa.
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La simbologia funeraria di Homo sapiens sapiens Homo sapiens sapiens continuerà le tradizioni neandertaliane, ma apportandovi una cura maggiore alla protezione del corpo del defunto, come hanno sottolineato gli studiosi di preistoria (Piveteau; De Lumley). Una prima innovazione si manifesta nell’uso frequente dell’ocra rossa, un ossido di ferro di tinta giallastra che sotto l’azione della fiamma diventa rosso. Il trattamento dell’ocra con il fuoco per la sua utilizzazione funeraria è diventato una sorta di industria: vere e proprie scorte di ocra rossa si trovano talvolta a fianco del corpo e della testa del defunto. Si trattava di una semplice cautela per motivi igienici o di un uso che simboleggiava la vita post mortem? In entrambi i casi l’ocra rossa ci orienta verso il colore del sangue e pertanto verso la vita. L’ocra rossa esprime, per i viventi, la coscienza di una sopravvivenza dei loro defunti (Binant). Un’altra innovazione consiste negli ornamenti applicati al morto: conchiglie bucate, denti di animali perforati, vertebre di pesci, perle e pendenti in osso e in avorio, piccoli ciottoli raccolti sulle spiagge. In uno studio molto corposo, Yvette Taborin mostra che, se Homo sapiens del Paleolitico medio conosceva già le conchiglie, il suo successore, il Sapiens sapiens ne ha fatto collane per metterle attorno al collo dei defunti, creando così un linguaggio simbolico sistematico. Questi dati si ritrovano, d’altra parte, nella scelta di perle utilizzate nella confezione di collane funerarie. Alle perle si aggiungono i denti: incisivi di bovini, di cavalli, di stambecchi, di antilopi, di cervi, di volpi, di lupi, forati e infilati per servirsene da ornamento della testa del defunto, circondando il capo, la fronte, le tempie o la nuca. La scelta della testa è assai rivelatrice del pensiero simbolico del Sapiens sapiens. Va anche sottolineata l’importanza simbolica degli utensili deposti al fian-
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co del defunto: raschietti, coltelli a lama, punte in selce o in osso, palchi di cervidi collocati nella mano o vicino alla mano, alla cintura o alla testa. Si tratta inequivocabilmente di un’allusione al lavoro del defunto. Nel Mas d’Azil un cranio della civiltà magdaleniana scoperto nel 1958 portava nelle orbite oculari placche estratte da una vertebra lombare di cervide, che davano, quasi fossero occhi artificiali, l’illusione della vita. Un rito simile – caratterizzato dal simbolismo degli occhi dell’eternità – si è trovato anche altrove (Camps). Riassumendo, possiamo dire che Homo sapiens sapiens ha moltiplicato le tombe, ha reso più raffinata la loro sistemazione, ha utilizzato regolarmente l’ocra rossa, ha coperto il defunto di ornamenti ponendo in evidenza il ruolo privilegiato della testa e gli ha messo a disposizione gli oggetti e gli utensili necessari al suo lavoro quotidiano. Si può parlare di un’opulenza simbolica di riti funerari e della loro diversificazione da Qafzeh e Skhul a Lascaux e Rouffignac, dal musteriano al magdaleniano.
IL SIMBOLISMO PRESSO GLI ARTISTI DEL PALEOLITICO SUPERIORE 8
L’arte del Paleolitico superiore si estende lungo un periodo che va da 34.000 a 8.000 anni or sono, all’interno del quale si colloca, all’incirca fra 25.000 e 10.000 anni fa, l’arte parietale franco-cantabrica. La civiltà magdaleniana costituisce l’apogeo dell’arte paleolitica (da 18.000 anni fa a 10.000 anni dal presente) con più di 150 grotte ornate, considerate come santuari realizzati nelle profondità della terra (Leroi-Gourhan, 1971; Anati, 1995; Vialou; Ruspoli; Clottes-Courtin; Nougier). Tra queste grotte occorre citare Le Gabillou, Lascaux, Les Combarelles, Font-de-Gaume, Rouffignac in Francia, e in Spagna: Altamira, Monte Castello, Ekain, Santimamine. Presente nel Vicino Oriente all’incirca 90.000 anni fa (tombe di Skhul e di Qafzeh in Israele), Homo sapiens sapiens è arrivato in Spagna all’incirca 40.000 anni fa e in Francia circa 35.000 anni fa. Le sue opere d’arte sono la testimonianza del suo pensiero, del suo immaginario, della sua ideologia, del suo livello culturale, che si diffonderà in tutta Europa. Dopo aver esaminato la sua simbologia funeraria, cercheremo di comprendere il simbolismo dell’arte delle grotte. Alcune chiavi di lettura
8. Famosa riproduzione fatta da H. Breuil dell’incisione rupestre di una figura in parte uomo in parte animale, denominata “Lo Stregone”. Probabilmente si trattava di uno stregone camuffato da animale. Grotta di Les Trois-Frères nell’Ariège, Francia. 9. Accumulazione di segni su una sporgenza rocciosa, nella grotta di Niaux, Ariège, Francia. Alcuni dei segni sembrano avere valore numerico, altri appaiono come completamento della forma naturale del supporto (Cortesia J. Clottes).
Le chiavi di lettura che presenteremo costituiscono altrettanti strumenti creati dagli specialisti per comprendere e interpretare i simboli contenuti nelle composizioni figurative delle caverne. a. Henri Breuil (1877-1961) Chiamato “il papa della preistoria”, ha costruito la sua interpretazione sulla base della teoria della magia finalizzata alla caccia. Egli accordava una grande importanza agli animali feriti e alla zagaglia, un’arma da lancio in osso o in palco di renna, onnipresente nella decorazione magdaleniana e riteneva che l’arte delle caverne fosse espressione di riti magico-religiosi inseparabili dalla caccia. Le varie cerimonie rappresentate sulle pareti dovevano assicurare la fecondità degli animali e il successo nella caccia. Ricorrendo a questa simbologia magica e rituale, l’abate Breuil ha spiegato il “Grande Stregone” della grotta dei tre fratelli (Ariège) e i numerosi fori di zagaglia a Niaux e a Montespan (Alta Garonna). b. I mitogrammi. André Leroi-Gourhan (1911-1986) Nel 1962, nella sua tesi di dottorato, Annette Laming-Emperaire, appog-
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10. Questi disegni, di difficile interpretazione, sono tracciati con carbone in una delle zone profonde della grotta di Altamira, Spagna.
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11. Bisonte, grotta di Niaux, Francia. Disegno di Leroi-Gourhan.
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giandosi sulla simbologia del raggruppamento di animali, pone la questione della mitologia. A. Leroi-Gourhan, da parte sua, si dedica allo studio dei mitogrammi. Nel suo libro Le geste et la parole (Parigi 1964) aveva sviluppato l’ipotesi del legame esistente tra la tecnica e il linguaggio: quest’ultimo è, secondo lui, dipendente dall’utensile e i due sono indizi di coscienza, d’intelligenza e di riflessione nell’uomo. Con il Paleolitico incomincia il grafismo, nuova tappa – essenziale per l’uomo – nello sviluppo della funzione simbolica, che si manifesta in modo particolarmente intenso nell’arte delle caverne. Il grafismo è inseparabile dal linguaggio. Per il nostro autore, sulle volte e sui muri sono dipinti mitogrammi, enunciati simbolici che avevano bisogno di essere animati da un discorso. Occorreva dunque una guida capace di realizzare il collegamento fra il mito a le figure, al fine di animare i protagonisti del mito per l’iniziazione. Attualmente ci restano i mitogrammi e i pittogrammi, ma l’iniziatore, il maestro del discorso è scomparso. Il nostro lavoro consiste dunque nel ritrovare il senso del discorso che spiegava il significato dei mitogrammi. A. Laming-Emperaire e A. Leroi-Gourhan hanno intrapreso questo difficile passo. c. L’ipotesi dello sciamanismo Già proposta da A. Lommel, l’ipotesi dello sciamanismo è stata ripresa da Jean Clottes e David Levis-Williams. L’esame delle pareti, delle volte e del
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suolo sembra suggerire un tentativo di penetrare le superfici per andare al di là delle pareti: il che è indizio di una concezione sciamanica del cosmo. Inoltre, molte immagini paiono galleggiare sulla superficie delle rocce e le impronte delle mani sembrano legate a riti sciamanici. Sensi simbolici dell’arte parietale Di quale senso e di quale messaggio sono portatori i segni e i simboli dipinti sui muri e sulle volte delle caverne? Le chiavi di lettura proposte si basano sulla disposizione delle figure, sul loro raggruppamento, sul loro numero e sulla loro natura, sulla loro ambientazione, sullo spazio occupato, sulle scelte e le opzioni degli artisti. L’analisi degli animali feriti, che induce alla conclusione che solo il 15 per cento dei bisonti presenta ferite, inficia l’interpretazione simbolica della magia di caccia. L’esame dell’arte delle caverne in relazione con la società paleolitica permette a Leroi-Gourhan di arrivare a diverse conclusioni: la ricorrenza degli animali principali (cavalli-bovidi); la lunga durata su un vasto territorio; il passaggio dalla luce all’oscurità nella grotta sembra simbolizzare il passaggio da un mondo a un altro; l’accostamento delle figure nei mitogrammi sembra condurci alle radici dei grandi miti cosmogonici e dei miti d’origine; tracce di passi di giovani sono indizi di cerimonie di iniziazione (Leroi-Gourhan, 1981; 1992). Può qui intervenire il ruolo dello sciamano, maestro di iniziazione grazie ai poteri speciali e alle conoscenze che possiede. Grande iniziatore dell’arte, Homo sapiens sapiens, che è nostro antenato diretto, non smette di sedurre gli studiosi di preistoria per il suo immaginario e le sue capacità. L’intelligenza simbolica che possiede gli ha permesso di realizzare dei capolavori che hanno svolto un ruolo primario nella formazione del pensiero concettuale (Anati, 1988; 1989). Louis René Nougier ha fatto notare che 15.000 anni fa circa «le pareti delle grotte e delle caverne [...] costituivano la nostra prima letteratura in immagini». La ricerca attuale mostra che ogni grotta decorata è un santuario legato alla cultura della popolazione circostante. Studi puntuali hanno
12. Associazione di figure e simboli, isolati, nel disegno, dalle numerose sovrapposizioni. Caverna del Volp, Ariège, Francia. Un personaggio-bisonte suona l’arco, strumento musicale ancora oggi in uso presso popolazioni di cacciatori. Al centro, una figura zoomorfa, metà cervo e metà bisonte, è preceduta da una renna e associata a segni tra cui una silhouette femminile (da H. Breuil - H. Begouen, 1958).
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fornito delle interpretazioni interessanti sul simbolismo del clan di fronte alla potenza del cielo, sulla mano considerata come archetipo religioso del rifiuto delle forze ostili, sui miti cosmogonici e agrari, sull’iniziazione dei giovani e anche sulla saggezza (Ries, 1993; 1999). Un vasto campo di ricerca si apre dunque sul simbolo, sul mito, sul rito e sul sacro nella vita di Homo sapiens sapiens.
L’UOMO NEOLITICO E I SUOI SIMBOLI La rivoluzione culturale e religiosa del Neolitico Ancora cacciatore e raccoglitore, Homo sapiens sapiens è già in grado di essere un creatore di senso attraverso le forme che produce sui soffitti e sulle pareti delle caverne, forme nelle quali si manifesta una concezione del mondo. Tra 12.500 e 10.000 anni fa, dall’Eufrate al Sinai, l’Uomo procede a una sedentarizzazione progressiva, «a uno stanziamento sul suolo, in agglomerati di abitazioni costruite, di comunità sempre più numerose, che vivono in un ambiente stabile». Si tratta dei primi villaggi della civiltà natufiana, con sepolture semplici o collettive nascoste sotto le case o rag-
13. Secondo E. Anati, «Una delle caratteristiche delle fasi arcaiche di Cacciatori Evoluti durante il primo Olocene sono serie di figure animali che hanno un ritmo quasi musicale. L’assecondarsi di curve, dorsi e coppie di gambe in lunghe sequenze di animali con cadenze armoniche ed eleganti, è una delle caratteristiche di queste fasi. Nei rilievi che qui vediamo, questa serie di animali di Cacciatori Evoluti si sovrappongono a diverse fasi di grandi figure animali e a linee di contorno di Cacciatori Arcaici». Irangi presso Kondoa (foto N. Cirani). 14. Uno dei corridoi della grotta di Altamira in Spagna. La scelta stessa delle grotte come luogo rituale è simbolica. 37
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15. Ricostruzione di una delle prime abitazioni, circa 9.500 anni prima di Cristo, degli uomini che hanno deciso di sedentarizzarsi (Mureybet in Siria, terza fase del cosiddetto periodo Mureybetiano). La ricerca formale, simbolica, è evidente nell’organizzazione dello spazio abitativo. 16. Figurine femminili in terracotta del Mureybetiano antico (Siria, ix millennio a.C.). 17. Pitture rupestri neolitiche che raffigurano una danza rituale davanti a due cani. La posizione dei personaggi è quella convenzionale degli oranti, a braccia alzate e gambe divaricate. Huashan, Cina.
gruppate in cimiteri. Ritroviamo qui la simbologia della prossimità dei viventi e dei defunti osservata all’inizio del Paleolitico. I Natufei raccoglievano i cereali selvatici. La loro arte è essenzialmente zoomorfa come l’arte franco-cantabrica occidentale (Valla; Cauvin, 1978). Circa 9.500 anni or sono, quando l’agricoltura non era ancora stata inventata, apparivano a El Khiam, in Palestina, e poi a Mureybet sull’Eufrate, figurine femminili in terracotta e in pietra, e anche dei crani completi di uro. Secondo Jacques Cauvin si tratta della “rivoluzione dei simboli”, perché la predominanza di queste due figure, quella della donna e quella del toro, è il segno di un mutamento mentale che si attua nell’uomo e che avrà ripercussioni nella vita sociale. La dea sarà la chiave di volta del sistema religioso che si organizzerà attorno ad essa a partire dal v millennio
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e si prolungherà in tutto il Vicino Oriente nel corso del Neolitico. Ella si troverà fiancheggiata da un paredro maschile assimilato al toro (Cauvin, 1997). A Çatal Hüyük in Anatolia, un enorme toro è attorniato da piccoli personaggi vestiti di pelli di pantere. In Valcamonica (Italia) e nel Vicino Oriente, compare il tema dell’orante con le braccia alzate. Tra la divinità e l’uomo si stabilisce una relazione di subordinazione. Vediamo la dea rappresentata come genitrice universale, talvolta su un trono di fiere che costituiscono attributi regali. Secondo Jacques Cauvin (1987), è in questo contesto di rivoluzione mentale dei simboli che l’uomo prenderà coscienza «dei cicli naturali della riproduzione del mondo vivente» e diventerà il produttore dei propri mezzi di sussistenza. A partire da 9.000 anni dal presente, inventerà l’agricoltura. La rivoluzione neolitica costituisce una svolta
18. Graffiti rupestri sulla Roccia di Naquane, Valcamonica, Italia. Serie di “oranti” del periodo neolitico della civiltà Camuna. 39
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determinante nella storia umana. Secondo Gordon Childe sarebbe l’homo oeconomicus l’autore di questa rivoluzione culturale grazie all’invenzione dell’agricoltura. Nella teoria di Childe l’uomo ha infatti costruito i primi villaggi per trovarsi in prossimità dei campi da cui trarre la propria sussistenza. Basandosi su documenti archeologici indiscutibili, Jacques Cauvin ha tuttavia confutato questa ipotesi mostrando che è stata la simbologia cultuale e religiosa ad operare una rivoluzione, nel contesto di un mutamento psichico dell’uomo sedentarizzato; e questo spiega l’emergere dei due simboli del divino: la dea e il toro. Il simbolismo e la religiosità neolitica a. La dea: simboli e funzioni Nel corso dei secoli si evidenzia il potere della dea sulla vita, sulla natura, sugli animali e sulla morte. L’area di espansione del suo culto si estende a tutto il Vicino Oriente, all’Europa del Sud-Est, ivi comprese le isole dall’Egeo all’Adriatico, l’Europa centrale, Cipro e Malta. Nella città agricola di Çatal Hüyük in Anatolia, la dea è presente in numerosi santuari. Ella è il simbolo della vita e della fertilità; è signora degli animali, della caccia, e della natura. Accompagnata dall’avvoltoio, regna sul mondo dei morti. Nella vicina città di Haçilar (tra 6.000 e 5.000 anni fa), numerose figurine della dea-madre rappresentata come donna incinta confermano il suo ruolo di procreatrice, di dea della fertilità, dell’opulenza e della vita. Una simbologia simile si ritrova nelle statuette scoperte nei villaggi anatolici di Can Hasan, di Çucurkent e di Erbada. Grazie agli scavi pluriennali realizzati nei siti neolitici della Vecchia Europa da Marija Gimbutas, disponiamo di una copiosa documentazione di prima mano (Gimbutas, 1974; 1991a; 1991b). Le figurine più tipiche dell’Europa antica (6.500 a.C.-3.500 anni fa) rappresentano varie immagini della dea, dei suoi assistenti e dei suoi animali. Sono state ritrovate sugli altari, nei forni, nelle corti, nelle grotte e nelle tombe. La loro ubicazione ci fornisce dati indispensabili per interpretarne le funzioni. Un primo gruppo di dee rappresenta la generazione. Si tratta di dispensatrici della vita e di signore degli animali e delle piante: madri partorienti, dee sedute tra due leopardi o circondate da cani o da leoni. Poi viene la dea gravida dell’agricoltura, la Terra Madre, rappresentata con il maiale, l’animale privilegiato come simbolo della fertilità dei campi. La dea uccello appare con un becco, un lungo collo, seni, ali, talvolta con natiche sporgenti. Rappresentata sotto forma di avvoltoio, di gufo o di uccello da preda, simboleggia la morte. Il suo animale sacro è il capro. La dea-serpente è il simbolo della continuità della vita, dell’energia vitale, della fertilità e della rigenerazione. Un secondo gruppo ci orienta verso le dee della morte: una forma di esse è la dea messaggera della morte simboleggiata da un gufo o da una donna vestita di bianco e senza seni. C’è anche la dea bianca, nuda, senza seni e senza braccia, senza bocca ma con un grande triangolo pubico, simbolo di rinascita. Infine un ultimo gruppo simboleggia la morte e la rinascita. Per questo gruppo disponiamo di un’abbondante simbologia: l’utero, il triangolo pubico, il doppio triangolo, la vulva, uova dipinte di rosso, un’ape, una farfalla, un pesce. b. Il toro A partire dal x millennio la dea appare affiancata da un paredro maschile assimilato al toro. Tra 8.700 e 7.000 anni fa, nell’immaginario delle popolazioni del Levante, il toro assumerà un posto essenziale, sebbene subordinato alla dea-madre. Le radici della sua simbologia si devono ricercare
19. Proviene da Bitola in Macedonia questa dea in argilla con il corpo a guisa di tempio. 20. La Dea Gravida con le mani posate sul ventre rigonfio. Originariamente era seduta su un trono. Questa figurina mascherata è solcata da due linee sulla spalla. Inizio della cultura di Sesklo, Grecia settentrionale (Acheillon, Tessaglia, 6400-6200 a.C. Da uno scavo di Marija Gimbutas). 21. Figurina di terracotta della cultura di Butmir che indossa una maschera raffigurante il becco aperto della Dea Uccello (Butmir, presso Sarajevo, Jugoslavia occidentale, inizio del v millennio a.C.). La cultura di Butmir è una cultura del Neolitico recente (v-iv millennio a.C.). 22. Statuetta in marmo, proveniente da un’isola dell’Egeo, che rappresenta una dea serpente. Il serpente, secondo M. Gimbutas, è una fondamentale immagine di vitalità e continuità della vita, è il guardiano dell’energia nella casa e simbolo della vita familiare. 23. Figurina in avorio di una rigida Signora della Morte rinvenuta in Spagna. I lunghi capelli fluenti, che fanno pensare alle acque mosse di un fiume, sono resi con due bande a spina di pesce. Tomba a Torre del Campo, provincia di Jaen. Inizio del iii millennio a.C. 24. Dea della Rinascita sotto forma di Ibrido rana-donna. Figurina in terracotta da Haçilar; Anatolia centrale; seconda metà del vi millennio a.C. 25. Dea della Rinascita raffigurata su una perla di onice. Arte minoica. Qui l’associazione di corna di toro, ape o altro insetto (notare la testa, gli occhi e le braccia di insetto), e farfalla (il doppio triangolo orizzontale o “doppia ascia”) è evidente. I cani alati che la fiancheggiano rafforzano il tema del divenire. Tardo periodo minoico ii (Cnosso, Creta, xv secolo a.C.).
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nelle greggi di uri del Medio Eufrate. I primi bucrani si trovano sepolti nello spessore delle costruzioni di Mureybet come simboli della resistenza dell’edificio a ogni distruzione. A Çatal Hüyük le rappresentazioni di tori sovrabbondano, scolpite o dipinte. Un affresco che rappresenta una caccia occupa tutto il muro di un santuario. La “natura straordinaria” dell’animale è rappresentata tramite le sue dimensioni esagerate rispetto ai cacciatori che lo circondano (Cauvin, 1987). Siamo in presenza del divino personificato da una forma animale, mentre nel caso della dea il divino è simbolicamente personificato da una forma umana. Il culto del toro si diffonderà in tutte le province del Levante e passerà in Europa: Grecia, Cipro, Malta. Il bucranio – testa di toro con le sue corna – diventerà anch’esso un simbolo della rinascita. Così, dagli inizi del Neolitico fino alla fine della cultura minoica, l’arte ceramica ha associato le teste di toro a vari simboli di energia vitale e di rigenerazione (Cucuteni, Bitnir in Bosnia e gli ipogei sardi). Simbolismo funerario neolitico
26. Figurina femminile (Museo del Louvre): cultura Halaf, Mesopotamia (vi millennio a.C.). La cultura Halaf è durata duemila anni ed è stata una cultura di grandi agricoltori sparsi su un vasto territorio. La figurina femminile mostra i segni della fertilità e ne è un simbolo eccellente.
La rappresentazione simbolica della divinità da parte dell’Uomo del Neolitico ha avuto come conseguenza la costruzione dei primi santuari, alcuni modelli dei quali appaiono a Çatal Hüyük (40 case sacralizzate) e nel
27. Un toro da Tello, Mesopotamia (oggi conservato al Museo del Louvre di Parigi), cultura Ubaid, seconda metà del v millennio (foto Missione di Larsa). 43
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28. Affresco dipinto di Çatal Hüyük: toro e uomini armati (Turchia, vii millennio a.C.). Tratto da J. Mellaart. 29. Ricostruzione dell’interno di uno dei numerosi santuari dell’abitato di Çatal Hüyük riportato alla luce tra il 1961 e il 1963 dagli scavi condotti dall’archeologo inglese James Mellaart. Nei muri in mattoni crudi e nel sedili sono conficcati teschi di toro e di ariete (rappresentazioni della divinità maschile), mentre le pareti erano ornate con rilievi e pitture. Al centro trionfa il grande rilievo della Dea Madre nell’atto di partorire. Sotto le piattaforme del pavimento, in cui si apriva anche un focolare, venivano inumati i morti; chiaro esempio di coabitazione tra vivi e morti nel Neolitico nascente.
vi millennio a Lepenski Vir sul Danubio. Questi prototipi delle metropoli megalitiche ci conducono a trattare dei riti funerari. Dall’viii millennio a Gerico si trovano numerosi depositi di crani disposti in cerchio. Nella stessa epoca a Mureybet i crani scoperti sono posti sul suolo, lungo le mura, ciascuno su una zolla di argilla rossa. J. Cauvin (1972) ha realizzato un prezioso inventario delle pratiche funerarie del vii millennio: queste mostrano che i viventi vogliono mantenere presente, nella comunità, l’immagine di alcuni loro defunti. Nel vi e v millennio, in Siria-Palestina, la presenza di ceramica nelle tombe è la prova di offerte alimentari ai defunti. A Byblos, nella “casa dei morti”, una grande stanza centrale, con terra rossa artificialmente apportata, conteneva una trentina di scheletri. Nel vii e viii millennio, a Çatal Hüyük, si inumavano i morti sotto la terra delle piattaforme, con ornamenti e oggetti personali. Marija Gimbutas (1991a) ha studiato la presenza della dea nel simbolismo funerario. A Çatal Hüyük, dei seni ricoprono i crani di avvoltoi nelle sculture in rilievo sui muri: si tratta di simboli della rigenerazione. Nell’Europa
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30. Uno dei santuari sotto la roccia, trovati a Lepenski Vir, in Serbia, con due sculture in situ. 31. Altro santuario di Lepenski Vir in Serbia con le sculture in situ. Lepenski Vir sul Danubio vicino a Portes de Fer è un sito jugoslavo dell’inizio del Neolitico, vi-v millennio a.C. 32. Figura scolpita nello stile a “raggi x”. Arenaria grigia, altezza cm 37. Lepenski Vir, Serbia. 45
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I SIMBOLI NELLA VITA DELL’UOMO PREISTORICO
mediterranea e occidentale il ricorso alle sepolture collettive è frequente nelle tombe megalitiche. Le tombe individuali si presentavano sovente in forma d’uovo, con elementi decorativi che ricordavano la dea: utero, natiche, triangolo pubico, talvolta il corpo intero della dea. Nel corso del Neolitico, in Anatolia e in Europa, molte tracce fanno pensare a un rituale funerario in due fasi: una scarnificazione o una decomposizione del cadavere e in seguito la deposizione delle ossa e specialmente del cranio del defunto. La pratica della scarnificazione sembra illustrata da certi affreschi di Çatal Hüyük nei quali la dea appare sotto forma di avvoltoio che discende sui corpi senza testa. A Lepenski Vir le ossa sono state raccolte e deposte sotto gli altari dei santuari. A Malta, nei santuari megalitici, appaiono numerosi simboli che fanno allusione alla dea della rigenerazione: triangolo pubico, figura di donna incinta, offerte di alimenti, ocra rossa, figurine di pesci, uova dipinte (Anati, 1983).
CONCLUSIONE Abbiamo fatto un percorso di più di due milioni di anni nell’immenso campo dell’ominazione e dell’umanizzazione. Nel corso di questa esplorazione abbiamo constatato che «il simbolo è la carta d’identità dell’Uomo» (G. Durand). Ogni simbolo è un significante che attinge in parte la sua figurazione nel cosmo visibile agli occhi degli uomini, ma che si radica anche nei gesti e nei ricordi. L’immaginario umano costituisce un dinamismo organizzatore che orienta verso il significato: e questo appare solo in trasparenza, ma con una apertura sul mistero. Secondo Mircea Eliade il pensiero simbolico si presenta come una struttura immanente all’uomo, il quale viene da essa orientato verso la scoperta di una dimensione trascendente. Questa scoperta si manifesta e progredisce con la crescita dell’Uomo. Essa diviene evidente nel momento in cui Homo sapiens si china sui suoi defunti e li depone nelle tombe: è il gesto di un homo religiosus. Un notevole progresso del pensiero simbolico si afferma con l’arte delle caverne. Infine, Homo neolithicus opera una vera rivoluzione creando due simboli del divino, la dea e il toro: nascono così le prime grandi religioni nel Vicino Oriente e nel mondo mediterraneo.
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Piramide
Occhio
Scarabeo
Croce ansata
Colonna Djed
Ka
MONDO DIVINO E IMMAGINE SIMBOLICA Gli dèi egiziani sono misteriosi e nascosti. «Al contrario degli Ebrei e dei Musulmani, gli Egizi non sono sottoposti al divieto di realizzare rappresentazioni di un dio, ma stabiliscono una netta distinzione fra l’immagine e la ‘vera forma’, che è rivelata agli occhi umani soltanto nei casi più eccezionali» (Hornung). I documenti letterari ci parlano di uomini che avrebbero avuto esperienza diretta delle divinità: un naufrago si imbatte in un dio in un’isola remota e sconosciuta (Racconto del naufrago) e in qualche caso personaggi eccezionali o faraoni avrebbero avuto sogni – o visioni, che non sono nella letteratura egiziana chiaramente distinte dai sogni – di dèi. In entrambi i casi, l’incontro con il divino avviene in zone di frontiera o in territori che si trovano al di fuori del mondo ordinario e ha luogo soltanto quando ci si spinge al di là dei confini dell’universo conosciuto oppure quando la coscienza non è vigile. Ma, secondo i Testi dei Sarcofagi (ct vi, 69 c, 72 d), è nell’oltretomba che gli uomini vedranno gli dèi in maniera chiara. Comunque, manca una descrizione dell’aspetto degli esseri sovrumani: i testi si soffermano piuttosto sui fenomeni naturali che accompagnano le loro epifanie – terremoti, tuoni, lampi, frastuono – oppure sui sentimenti che prova chi viene a contatto con loro – amore, paura, rispetto – o ancora sulla loro luminosità o sul profumo che si diffonde alla loro apparizione. In altri termini, è la reazione dell’umanità al loro avvento che viene descritta, gli dèi sono i protagonisti principali di un’arte che li raffigura con una particolare ricchezza e varietà di moduli espressivi. Sebbene rimangano misteriosi, infatti, essi si presentano in molte forme: queste non ne esauriscono l’essenza, né li esprimono fedelmente, ma ne rendono visibili certe caratteristiche intime, certe funzioni o certe prerogative. Insomma, hanno carattere prettamente simbolico, in quanto rinviano ad una realtà di per sé non conosciuta, che evocano tramite elementi particolari senza che un dio sia compreso totalmente nei suoi attributi: Henry Frankfort le definisce “ideogrammi”. 47
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1. Pesatura del cuore del defunto, davanti a Osiride in trono. Egitto tolemaico 332-331 a.C. Papiro dipinto, frammento dal Libro dei morti. Museum of Fine Arts, Boston.
Per il periodo neolitico non è possibile individuare oggetti che abbiano una natura simbolica certa; sono stati trovati invece animali inumati risalenti al iv millennio che fanno pensare a un culto animale; sono del periodo proto-dinastico statuette di forma umana, delle quali non è tuttavia lecito affermare che rappresentino divinità. Esistono comunque, in età predinastica e protodinastica, simboli che indicano i distretti amministrativi e le gesta del re in forma di toro. È con le prime due dinastie che compaiono dèi rappresentati con i tratti di uomini, mentre permangono le divinità zoomorfe. Alla fine della seconda dinastia risalgono invece le prime figure di divinità con il volto di animali. È possibile poi riconoscere evoluzioni e mutamenti delle concezioni che stanno alla base della raffigurazione animale nella civiltà faraonica: per esempio, da un’idea della rappresentazione come messa in luce di un aspetto della realtà si giungerà, lungo un complesso itinerario, fino a prefigurare addirittura una funzione di tipo allegorico delle immagini. Il fatto che queste non siano considerate come specchi della vera fisionomia degli dèi è testimoniato anche dalle molte forme che possono acquistare: lo stesso personaggio può essere scolpito, per esempio, con tratti umani, animali, misti e, all’interno di queste tre categorie generali, in vari modi. Anche il caso di una figura animale con testa umana (si pensi alla sfinge, oppure all’uccello-anima) è frequente. Va poi aggiunto che alcuni motivi iconografici (come il sole e il leone) si riferiscono a molte divinità e che certi attributi sono intercambiabili. Per quanto dunque il linguaggio simbolico degli attributi abbia la sua sintassi, non è possibile ridurlo a un insieme di poche regole meccaniche. La dea Hathor si trova rappresentata come donna magra, con una parrucca, due corna e un disco solare in mezzo ad esse, oppure in forma di vacca, o ancora con una testa di vacca, talvolta con un viso umano; prende poi le sembianze di una leonessa, di un serpente, di un ippopotamo o di un albero. Si può dire che la dea possieda la tenerezza materna della vacca, la ferocia della leonessa e l’imprevedibilità del serpente. È possibile individuare alcuni elementi caratteristici delle singole divinità. Essi si trovano principalmente sulla loro testa, con la quale sono, usualmente, intercambiabili, con l’eccezione dei casi in cui l’attributo sia una
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cosa (se si escludono esempi insoliti, risalenti all’epoca del Nuovo Impero). Gli oggetti che le divinità tengono tra le mani, invece, sono comunemente espressione di certe prerogative generalmente divine, piuttosto che di caratteristiche proprie e peculiari dei singoli personaggi mitici: un esempio è il segno della vita, che gli dèi trasmettono ai defunti. Con le dovute eccezioni: Osiride, per esempio, è caratterizzato dal bastone ricurvo e dal flagello. Tenendo conto di tutti questi dati, è possibile tracciare una sintesi degli attributi principali di alcune divinità, che riprendiamo da un elenco tracciato da Sergio Donadoni: - Amon porta sul capo due penne verticali. Gli scende dalla nuca un’appendice lunga come il corpo. - Anubi è connesso con una pelle animale appesa a un palo. - Atum, sovrano, ha le corone regali. - Bastet ha in mano un cestello e al braccio un’“egida”. - Le divinità solari hanno generalmente il capo di falco, sormontato dal disco solare con l’ureo (il cobra). - Geb (dio della terra) ha sul corpo disegni di piante. - Hathor ha corna di giovenca in mezzo alle quali sta il disco solare. Suoi attributi sono il sistro e il contrappeso della collana. - Horo è collegato al motivo simbolico dell’occhio. - Iside ha una iconografia particolarmente ricca. Ci si può limitare a ricordare che la forma egiziana del suo nome vuol dire «seggio», «trono» e che il trono reale è spesso raffigurato come suo attributo. - Khnum ha il tornio da vasaio dal quale plasma l’umanità. - Maat ha la penna di struzzo. - Min ha quale attributo un edificio, una pianta (forse la lattuga) e un flagello. - Mut ha un’acconciatura a forma di avvoltoio. - Nefertum ha un fiore quale attributo.
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2. Disegno di Khnum, con la testa di ariete, che forma gli uomini sul tornio da vasaio. 3-6. Disegni di Dominique Vivant Denon effettuati durante la spedizione in Egitto di Napoleone e pubblicati nel 1802: Maat, Min, Hathor, Osiride. Maat ha come attributo caratteristico la penna di struzzo. Il cosmo, una volta plasmato dal demiurgo, ha un ordine che nasce dall’equilibrio e dalla coesione delle parti delle quali è composto. Maat, che rappresenta quest’ordine, corrisponde dunque a una nozione chiave della religione egizia. Maat è, oltre all’ordine, ciò che ad esso si conforma: la verità, la giustizia, la rettitudine. Sicché, durante la pesatura delle anime, su un piatto della bilancia è posto il cuore dell’uomo; sull’altro la piuma o un occhio.
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- Neit ha arco e frecce. - Osiride ha una corona particolare con corna e piume, il pastorale e il flagello. - Ptah ha in mano i segni della durata, della stabilità e della vita riuniti in un unico scettro. È calvo e ha barba corta e diritta, mentre gli altri dèi l’hanno lunga e curva in avanti sulla punta. - Seth ha come attributo il rosso. - Shu, dio del vuoto (dell’aria) ha una piuma. - Sokaris ha una barca speciale portata su una sorta di carro senza ruote. - Sopdu ha barba e abito all’asiatica. - Thot e Khonsu hanno il disco lunare sul capo. - I re portano corone e scettri e, come Osiride, hanno il pastorale e il flagello; come le divinità solari hanno l’ureo. Indossano un perizoma speciale con dietro, spesso, una coda d’animale, un particolare copricapo e una barba posticcia.
LA SCRITTURA GEROGLIFICA
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7. Jean-François Champollion, dettaglio del rilievo di Ramesse il Grande sul suo carro, Nubia. Champollion, il decifratore della scrittura egizia, ci fornisce in questo suo rilievo la riproduzione di un esempio di scrittura geroglifica. Nei monumenti egizi i geroglifici sono tradizionalmente collegati alla pittura fino a formare un unicum di scrittura e immagini.
All’inizio del periodo dinastico, contemporaneamente alle prime rappresentazioni degli dèi in forma umana, va collocata l’“invenzione” dei geroglifici. Il nome con il quale sono conosciuti è greco: lo scrittore cristiano Clemente Alessandrino li definisce grammata hieroglyphika, letteralmente “lettere sacre incise” (Strom. v 4, 20). Per quanto essi non si trovino sempre e necessariamente scolpiti sui monumenti e per quanto li si possa considerare meri segni convenzionali, il nome è stato adottato anche dagli studiosi. Se, comunque, è certo che sono utilizzati per convenzione, è anche vero che gli stessi egiziani li consideravano di natura divina. Chiamano infatti “dèi” i geroglifici e assimilano alcuni di essi a certe particolari divinità. È possibile dunque attribuire loro, entro certi limiti, un carattere simbolico. Va notato inoltre che alcuni geroglifici che indicano concetti astratti tendono a distaccarsi dal contesto della scrittura e ad assumere un valore simbolico autonomo: così la vela, che significa il vento, si può incontrare in raffigurazioni sepolcrali, a indicare che il defunto può respirare e dunque sopravvivere alla morte; lo scettro rimanda alla potenza; il pilastro alla stabilità. In altri casi, il nesso con il valore visivo originario sembra dimenticato e il segno si presta a indicare significati nuovi: il segno della vita, così, può essersi distaccato dal suo valore grafico originario (che, secondo alcuni, era forse la cinghia del sandalo). Ma il tema del valore simbolico dei geroglifici supera l’ambito della civiltà egiziana e del suo studio per assumere rilievo nella storia culturale dell’Occidente. Già i Greci manifestavano una particolare attenzione per la cultura egiziana che, reinterpretata e trasfigurata, è diventata un luogo dell’immaginario cui la nostra civiltà non ha mai cessato di fare riferimento. Di questo Egitto mitizzato, la scrittura geroglifica, che solo recentemente è stata interpretata, costituiva una delle componenti. Così nel Rinascimento si impone l’idea che il sapere degli egiziani abbia un duplice livello: sia cioè, per certi aspetti, esplicito e da tutti conoscibile ma per certi altri, più profondi e più veri, riservato a pochi: i geroglifici sarebbero, appunto, uno dei mezzi per esprimere messaggi cifrati. Nel 1422 Cristoforo Buondelmonti diffonde un testo, intitolato I geroglifici di Orapollo di Nilopoli, che questi ha composto nella parlata egiziana, e che Filippo ha tradotto nella lingua greca, nel quale viene fornita una chiave per comprenderne il senso: per esempio, si dice che sole e luna indicano l’eternità, fuoco e acqua
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la purificazione. Il trattato ha, nella cultura del tempo, un ampio influsso, che culmina con i Hieroglyphica di Pierio Valeriano Bellunese, un’opera in 58 libri in cui le spiegazioni non sono più relative, come in Orapollo, ai fenomeni naturali, ma vengono elaborate in base alla letteratura classica e alle Sacre Scritture. Non è possibile, qui, tracciare la storia dell’interesse per i geroglifici nella nostra cultura. Ma va almeno citato un altro studioso, Athanasius Kircher, che, nel xvii secolo, cristianizza le simbologie pagane riconoscendo in esse il segno di una tradizione metafisica comune. I geroglifici costituirebbero un linguaggio adeguato all’espressione di questa tradizione. Con gli sviluppi degli studi nei secoli successivi, l’indirizzo che vede nella scrittura egiziana un insieme di simboli il cui significato travalica quello che era loro
8. Tebe, Valle delle Regine. Tomba di Nefertari. La regina compie un atto di culto. La scrittura si incunea nell’immagine. 9. La dea della scrittura mentre scrive il numero degli anni di regno del sovrano. Nuovo Regno. Da R. Lanzone, Dizionario di mitologia egizia. 51
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attribuito dalla civiltà che li ha prodotti è fatto oggetto di critica: Johann Joachim Winckelmann, nella seconda metà del xviii secolo, scriveva che «la spiegazione dei geroglifici nei nostri tempi è un tentativo vano, e un modo di rendersi ridicoli». Nel xix secolo, quando nasce e si afferma l’egittologia come disciplina scientifica e viene intrapresa, grazie a Jean-François Champollion, la decifrazione della scrittura degli egiziani, metodi e strumenti di analisi si fanno decisamente distanti da quelli di Athanasius Kircher. Ma l’idea di una sapienza segreta egiziana e di un linguaggio misterioso che può coglierla, tanto compenetrata nella nostra cultura, rimane vitale.
SIMBOLISMO E ARCHITETTURA
10. Menfi, Saqqara. Sezione della piramide a gradoni del faraone Gioser (iii dinastia). 11. Complesso di Abusir. Sezione della piramide di Neferirkare (v dinastia). 12. Ricostruzione al Museum of Fine Arts di Boston della piramide n. 3 di Nur, Sudan, vii secolo a.C.
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Le tombe monumentali collocabili nell’epoca delle prime due dinastie erano costruite in mattoni crudi ma alcune delle loro parti più rilevanti, come la camera funeraria, erano di pietra. In esse è già possibile individuare due motivi simbolici caratteristici dell’architettura sacra egiziana: il primo è costituito dalla grandiosità e dall’imponenza; il secondo dai materiali, che diventano più solidi nelle zone più importanti dell’edificio, ad evocare probabilmente un senso di perennità e di immutabilità. Risale alla terza dinastia la scelta di costruire l’intero monumento sepolcrale in pietra, con l’opera dell’architetto Imhotep, che realizzò una tomba di forma scalare e a sei gradoni per il re Gioser. L’uso della pietra risponde a una esigenza di maggiore solidità, legata anche, verosimilmente, alla volontà del sovrano di realizzare un monumento più durevole di quello dei suoi predecessori, anche per riaffermare il suo ruolo di re-dio dell’intero Egitto. La forma a gradoni è stata attribuita da alcuni a semplici ragioni costruttive, ma pare più verosimile riconoscerle un significato simbolico. Nei Testi delle Piramidi si trova la direttiva: «Dire le parole: È spezzata per te l’offerta dinanzi a te, mentre tu vai verso quegli dèi del Settentrione, le Stelle Imperiture» (cap. 414), che sono le stelle fisse circumpolari; si parla anche degli dèi che costruiscono una scala al sovrano defunto: è chiara, dunque, l’idea di una ascesa al cielo attraverso la scala.
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La piramide compatta, a superfici lisce, compare con la iv dinastia. La sua forma caratteristica, ancora una volta, sembra derivare da una esigenza simbolica, piuttosto che da una pura scelta formale. L’idea che la sottenderebbe, infatti, non è più quella di una salita del sovrano verso le Stelle 52
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Imperiture, ma quella di un re che si affida a Ra, dio solare di Eliopoli, il cui simbolo era una pietra di forma piramidale, il ben. Il luogo di culto della piramide non è più rivolto a nord – verso gli dèi del Settentrione – ma ad est, la direzione del levar del sole. In genere, nella parte meridionale
13. Piramide di Chefren. 53
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dell’Egitto i cimiteri sono collocati sulla riva occidentale del Nilo, mentre i centri abitati sono sulla riva orientale: la bipartizione implica, da un lato, una distinzione di sfere geograficamente sottolineata; dall’altro, un orientamento della necropoli nella direzione del tramonto del sole. Esistono diverse tipologie di templi in Egitto, ma possiamo qui limitarci a menzionarne due. La prima è quella del tempio solare, dedicato, appunto, al sole, cui si offriva cibo. Il più antico, oggi quasi scomparso, era collocato a Eliopoli. Vi si trovavano diversi obelischi, simboli solari la cui cuspide piramidale è appunto il ben, che richiamava Ra e gli dèi identificati con lui, Amon e Horo. Gli altri dèi erano onorati nei cosiddetti templi a cella, che prendono nome dalla loro parte più importante, il luogo in cui era custodita la statua cultuale. La collocazione del simulacro, di non facile accessibilità, 14
14. In una ricostruzione grafica della spedizione franco-toscana del 1828-29, si notano due obelischi posti all’entrata del palazzo di Luqsor; costruito nel xvi secolo a.C., l’obelisco a destra si trova dal 1836 a Parigi, al centro di Place de la Concorde. 54
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15. Scarabeo alato da un sarcofago dell’Egitto tolemaico, xxx dinastia, 380-330 a.C. Museum of Fine Arts, Boston.
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è simbolicamente connessa all’idea, sulla quale si è già insistito, degli dèi come esseri invisibili: alla loro immagine, calata nell’oscurità del cuore del tempio, accedono soltanto, per i loro rituali quotidiani, i sacerdoti. Anche quando sono portate in processione, le statue sono nascoste in una edicola che le sottrae alla vista. In generale, il tempio è considerato come un microcosmo, una immagine del mondo: i suoi portali monumentali (i piloni) sono le montagne fra le quali si leva il sole; il soffitto, talvolta dipinto con stelle, uccelli, carte stellari, è la volta celeste; la parte inferiore rinvia alla terra, dalla quale nascono le tre piante – il papiro, il loto e la palma – rappresentate dalle colonne.
FIGURE SIMBOLICHE L’acqua Nei rituali l’acqua ha una funzione purificatrice: è utilizzata per abluzioni e libagioni e non viene bevuta. Il ruolo che assume nella vita religiosa non deriva soltanto dalla constatazione generale delle sue caratteristiche fisiche e della sua virtù di rendere pulito ciò che lava, ma anche da circostanze specifiche alla cultura egiziana, che trovano espressione nelle credenze mitiche. Vanno menzionate due di queste credenze, cui corrispondono altrettante forme di rito: la prima è che il sole sia uscito dall’Oceano primordiale (Nun) e che di là continui ad emergere ogni giorno. L’acqua è quindi simbolo di rigenerazione, di costante rinascita; anche il loto – che secondo certe tradizioni sarebbe scaturito per primo dalle acque – diventa simbolo dell’apparizione del sole, che da esso sarebbe emerso. Nel Libro dei morti Ra emerge dal loto e il defunto manifesta il desiderio di diventare un loto sacro. In particolare, un valore sacro era attribuito al loto blu, che, nel Nuovo Regno, ristora i morti con il suo profumo. Il fiore, insomma, assai presente nell’iconografia, è associato all’idea di creazione e rinnovamento del mondo e della vita. L’acqua come simbolo di rinascita corrisponde a un rituale di “lustrazione solare”, il cui scopo è quello di dare esistenza e realtà al suo oggetto (per esempio al faraone e ai riti che in seguito compirà). La seconda credenza è che l’acqua che inonda il territorio egiziano, indispensabile alla fertilità della valle del Nilo, scaturisca dal corpo di Osiride, dal quale trarrebbe il suo potere fecondatore. Il rito svolto con le acque del Nilo è quello della “lustrazione osiriaca”, che rende la vita al defunto. I due tipi di lustrazione si ritrovano spesso all’interno dei medesimi rituali e la loro distinzione non è radicale. Quello osiriaco tende a imporsi, ma senza che quello solare venga mai meno. D’altra parte, per entrambi il significato ultimo è la creazione della vita e il Nilo, in epoca tolemaica, è
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16.Tempio di Amada, Cartiglio di Amenofi ii. Disegno realizzato da J.F. Champollion. Nel cartiglio di Amenofi ii è inscritto uno scarabeo. Plutarco scrive che lo scarabeo è sempre maschio e depone il suo seme nella sfera che quindi spinge davanti a sé con le sue zampe posteriori, a immagine della corsa del sole. Nella scrittura, l’immagine dello scarabeo con le zampe tese indica il verbo kheper, che significa venire all’esistenza assumendo una certa forma. È considerato simbolo di generazione spontanea e di rinnovamento. A Eliopoli, assume il ruolo di manifestazione solare e indica, a un certo punto, il sole levante. Si trova assai frequentemente come amuleto. Grandi scarabei sono posti sulle mummie o incastonati nel loro pettorale e portano spesso iscritto un brano del Libro dei morti in cui si parla del destino del cuore.
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17. Dettaglio di sarcofago di legno stuccato e dipinto, fine iii-inizi ii millennio, di provenienza ignota. Bologna, Museo archeologico. Nei Testi delle Piramidi, due occhi sigillano la chiusura della porta dell’aldilà. L’occhio è associato alla luce e al fuoco: il serpente (ureo) è considerato come l’occhio del dio sole che sputa fuoco e gli occhi di Horo corrispondono al sole (il destro) e alla luna (il sinistro). Il sole è anche denominato «occhio di Ra» e alcuni miti lo vedono come protagonista. Durante il combattimento contro Seth, Horo perde uno dei suoi occhi e il cielo notturno precipita nell’oscurità. Vinto Seth, riprende il suo occhio e lo offre a Osiride. Il nome di Osiride è rappresentato, nei geroglifici, come un occhio sopra un trono. Presente nel sarcofago fino alla xviii dinastia a indicare gli occhi tramite i quali il defunto poteva trovare la sua strada, la figura dell’occhio assume poi la funzione di amuleto ed è diffusissima nei corredi funerari.
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18. Disegno ripreso da un papiro in cui compare l’occhio. I leoni evocano gli orizzonti occidentale e orientale e portano il disco solare (Libro dei morti di Her Ouben, xxi dinastia). 19. Veduta del Nilo.
chiamato Nun. Anche l’architettura sacra è influenzata da queste due concezioni. Le colonne dei templi e delle tombe possono avere varie fogge, ma due forme tipiche sono quelle del loto e del papiro. La forma del loto non può non evocare il motivo simbolico cui si è accennato: la pianta rimanda al rinnovamento del sole. Ma anche il papiro ha significati analoghi: il geroglifico che lo indica designa la crescita della vegetazione e, quindi, simboleggia le piante cui l’inondazione del Nilo dà vita; come colonna, esso fa appunto da supporto al tempio, nel quale è celebrata quotidianamente la rinascita del cosmo. Il papiro ricorda anche il luogo del Delta nel quale Iside dà alla luce Horo dal defunto Osiride. E Osiride viene identificato con l’aspetto notturno di Ra, il sole. È stato supposto che il prevalere, nel Nuovo Regno, delle colonne papiriformi sia dovuto proprio all’imporsi dell’idea di resurrezione collegata a Osiride su quella solare.
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20. Veduta del Nilo, nel tratto della prima cateratta, ad Assuan. 58
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Il serpente L’immagine del serpente è particolarmente frequente e assume vari ruoli e vari significati, tanto da far sorgere dubbi sull’opportunità di considerarla come un motivo simbolico. Una enumerazione dei suoi significati più ricorrenti può tuttavia essere utile a esemplificare quali ruoli, nell’Egitto antico, venissero associati a un animale sacro. Il serpente è, innanzitutto, considerato come demiurgo o come prima manifestazione della realtà emergente; ha poi il ruolo di componente mostruosa di un universo che precede l’instaurazione dell’ordine del cosmo; circonda il mondo con le sue spire, con la coda, che tiene in bocca dando luogo a una forma uroborica, oppure camminando. È associato alla terra e al mondo sotterraneo, di cui è guardiano; il serpente Apopi, malefico, insidia il dio Atum e viene sconfitto dalla barca solare: esso rappresenta l’oscurità che il levar del sole scaccia. Figura poi come dio acquatico. Come figura femminile, è il cobra, che si trova principalmente in posizione eretta. Una immagine assai comune rappresenta il cobra che porge un segno di potere o di prosperità a un re o a un dio; un’altra lo raffigura con il sole sul capo. Questa forma
21.Tempio di Kalabsha. Raffigurazione di Horo, realizzata da Cherubini durante la spedizione franco-toscana del 1828-29. 22. Il cobra Uadjet in equilibrio su dei papiri. Rilievo pubblicato nel Panthéon di Champollion. 59
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23. L’architetto Anherkhau mentre adora la fenice, xx dinastia. Tomba di Anherkhau.
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del serpente indicherebbe, secondo i documenti, l’ordine del mondo. La barca del sole è trainata, nel suo viaggio diurno attraverso il cielo, da cani o sciacalli; nel suo viaggio notturno nel mondo sotterraneo, da cobra. La dea-cobra Uto è la divinità tutelare del Basso Egitto. Ancora, il cobra che compare sulla testa dei faraoni o delle divinità solari è un simbolo di sovranità e il serpente assume il valore di simbolo del potere sull’Alto Egitto, mentre l’avvoltoio simboleggia il Basso Egitto. La “fenice” Gli egiziani veneravano un uccello solare (benu) che ha alcuni tratti comuni con quella che, nel mondo classico, è chiamata fenice. La scoperta, a Eliopoli, di rappresentazioni dell’uccello ha fatto pensare a una sostanziale identità fra i due esseri mitici e all’esistenza di un rapporto di derivazione della seconda dal primo. Sebbene l’argomento sia discusso, si può ritenere che, tuttavia, i due animali abbiano una origine distinta. Il benu si incontra nei miti di creazione: un Testo delle Piramidi parla dell’uccello come di una delle manifestazioni, insieme allo scarabeo, di Atum, associato al dio solare Ra. Lo stesso scritto stabilisce un rapporto fra la collina che emerge dalle acque primordiali e il ben, la pietra conica di cui si è già parlato. La fenice sarebbe il simbolo del dio creatore; il ben della collina. Benu e ben, d’altronde, derivano entrambi dal verbo wbn, che indica il sorgere irraggiando e il brillare. L’uccello diventa dunque simbolo della creazione del mondo e della vita. Esso sembra assumere anche un’altra caratteristica 60
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24. Ortografia della parola “costruzione” (Gardiner, 1927). 25. Statua del ka del re Hor. Dahshour, fine della xii dinastia. Museo del Cairo.
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propria del dio solare: quella di generare se stesso. Come manifestazione del dio della creazione e quindi del dio solare e come simbolo della creazione della vita, il benu è altresì oggetto di identificazione per il defunto e viene considerato una forma di Osiride, che nel Nuovo Regno tende ad essere assimilato a Ra. Anche la nozione di un benu che muore e risorge, collegata al sole che nasce e tramonta quotidianamente, non è sconosciuta in Egitto, sebbene sia attestata di rado. Il benu si ritrova poi nella festa Sed, durante la quale si rinnovava, dopo trent’anni dall’incoronazione, la regalità del faraone e nelle celebrazioni del primo giorno della inondazione del Nilo, in cui si festeggiava una sorta di Capodanno. In tutti i casi, esso è associato a un contesto di ricreazione. A differenza della fenice classica, il benu non è tuttavia mai collegato all’idea di una morte e di una riapparizione periodica che abbia luogo dopo un certo numero di anni. L’antropologia egiziana e il ka L’uomo si compone, per la cultura egiziana antica, di un complesso di parti fra loro correlate, delle quali non riusciamo sempre a cogliere con chiarezza il ruolo esatto e che possono o meno trovarsi, in maniera diversa a seconda dei casi, anche negli dèi e negli animali. Esse sono: il corpo, il ren (nome), il ka, l’ib (cuore, cioè immaginazione e memoria), il ba (che designa l’identità personale ed è traducibile genericamente con “anima”); vanno aggiunti l’akh, il carattere e l’ombra. Queste componenti dell’umanità sono talvolta rappresentate simbolicamente. Si può ricordare che il ba viene raffigurato dapprima come un trampoliere e quindi, dopo la xviii dinastia, come un uccello con testa d’uomo e che l’akh va inscritto nell’ambito del simbolismo della luce: si tratta infatti di uno stato di “essere di luce potente” riservato, dapprima, al faraone defunto, mentre poi, almeno dalla fine dell’Antico Impero, è considerato proprio di chi abbia rispettato l’armonia cosmica e abbia meritato l’accesso al mondo divino. Dal Medio al Nuovo Impero l’idea della divinizzazione come illuminazione si impone sempre più e la teologia, parallelamente, insiste sulla consustanzialità di Ra (dio della luce) e Osiride (dio morto e risuscitato, con il quale i defun-
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26. Karnak. Tempio del dio Amon, xviii dinastia. Deattaglio di statua le cui mani impugnano il segno della vita ankh. 27. La famiglia reale di Akhenaten che adora il dio Aten, i cui raggi, che terminano a forma di mani, trasmettono il segno della vita. 28. Amuleto in ceramica rappresentante una Colonna Djed. Ägyptisches Museum, Berlino.
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ti sono identificati). Il ka è rappresentato dal geroglifico costituito da due braccia rivolte al cielo, in forma di U, che evoca un abbraccio; lo si trova anche impersonato da una figura che segue il defunto, oppure raffigurato come statua con il segno sul capo. Il ka simboleggia il potere vitale. Come tale, è proprio degli dèi, che sono vitali per eccellenza e che lo possiedono in quattordici differenti forme (corrispondenti ad altrettante qualità divine, come forza, potenza, dominio, splendore, ecc.), mentre altri quattro ka indicano le gioie terrene. Gli dèi possono trasmettere il ka agli uomini. In quanto vivente, ogni uomo possiede un ka, identificato con la buona fortuna, che passa di generazione in generazione, trasmessa di padre in figlio. Esso è inteso altresì come potenza maschile, simboleggiata dal toro, il cui nome viene scritto dagli egiziani con lo stesso segno. Quando sopraggiunge la morte, si dice che l’uomo si “riunisca al proprio ka”, non perché si creda che la vita comporti una separazione da esso, ma perché, morendo, si perde la forza vitale, che viene poi ricuperata tramite i riti. Osiride è presentato come il ka di Horo, in quanto ne è il padre ed è la fonte della sua fortuna, ma, nel rituale, è Horo ad abbracciare Osiride: si può dire che ognuno dei due trasmetta il ka all’altro, in quello scambio di ruoli e di funzioni che intercorre tra il re che muore e il figlio che prende il suo posto. 63
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Terra
Stella
Sole
Luna
Luce solare
Acqua
Montagna
Montagna all’alba
Il simbolo della vita ankh Il segno ankh è costituito da una T sormontata da un cerchio allungato e può essere chiamato, convenzionalmente, “croce ansata”. Come geroglifico, significa vita. Lo si trova fra le mani delle divinità – delle quali la vita costituisce una prerogativa – e diverse rappresentazioni mostrano un dio che lo porge al faraone. Talvolta, l’ankh è posto vicino alle narici del re, a indicare il rapporto fra la vita e il respiro: una nota immagine rappresenta il faraone Akhenaten e la sua famiglia sotto un disco solare, dal quale partono raggi; alcuni di questi raggiungono le narici dei sovrani e assumono la forma di croce ansata. Segno di vita, l’ankh indica anche la sopravvivenza dopo la morte. Lo si trova perciò nelle rappresentazioni del destino dei defunti. Socrate Scolastico racconta che quando, alla fine del iv secolo, venne demolito il tempio di Serapide, furono trovati, incisi sulla pietra, geroglifici dalla forma di croce. Nacque allora una discussione fra i cristiani e gli Hellenes sulla pertinenza di quelle figure alla religione degli uni o degli altri: i primi sostenevano che esse evocavano la passione di Gesù; i secondi che erano segni comuni a Serapide e a Cristo, ma di diverso significato. A questo punto alcuni convertiti, che conservavano memoria della loro antica fede, spiegarono che si trattava del simbolo della zoe eperchomene (Socrate Scolastico, Hist. Eccl. v 17), la vita ventura (Rufino, Hist. Eccl. xi 29). Sia in virtù della sua forma che in virtù del suo significato, l’ankh viene adottato da parte del cristianesimo. Si trova infatti riprodotto sovente nell’Egitto cristiano, su stele funerarie, tessuti copti, pitture murali. La colonna Djed Il geroglifico che la rappresenta significa “durata” e implica, quindi, qualcosa di saldo e di solido; essa è definita come pilastro su cui poggia il cielo e, in questo senso, ha la funzione di un asse cosmico. È chiamata «colonna vertebrale di Osiride». La celebrazione del seppellimento di Osiride avveniva in concomitanza dell’erezione della colonna, il 30 del mese di Choiac; si riteneva che la colonna riproducesse l’erica di Byblos, nel cui tronco, secondo una versione del mito osiriaco, stava il cadavere di Osiride e che fu usata per fare da colonna al palazzo del re Malcandro. Il pilastro, che disposto orizzontalmente evocava la morte della divinità, eretto simboleggiava la sua risurrezione: era perciò issato ritualmente ogni anno. Il giorno dopo, cominciava la stagione dell’emersione della terra dalle acque inondate dal Nilo e avvenivano, talvolta, le incoronazioni. L’innalzamento della colonna implica dunque l’immortalità di Osiride e la sua funzione cosmica e fa da presupposto alla incoronazione, che ripete il passaggio della regalità al figlio di Osiride, Horo.
29. Alcuni simboli naturali dell’Antico Egitto secondo R.T. Rundle Clark. 64
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Liṅga
Stupa
Ruota
Impronte del Buddha
Loto
Maṇḍala
L’INDIA PRIMA DEI VEDA Nell’India nord-occidentale sono state individuate testimonianze di civiltà precedenti l’elaborazione dei primi testi sacri indiani, i Veda: tra i manufatti emersi dagli scavi, vi sono alcuni oggetti in steatite, denominati sigilli – anche se il loro uso rimane incerto – sui quali sono presenti raffigurazioni animali: tori, elefanti, rinoceronti, tigri, bufali. Si tratta, probabilmente, di immagini di carattere simbolico, ma, poiché le brevi iscrizioni che le accompagnano non sono ancora state decifrate, risulta impossibile stabilirne con certezza il significato. Si trovano altresì animali fantastici (tigri cornute e unicorni) e un personaggio con due corna, nella posizione che sarà poi tipica degli yogin, con una serie di anelli sulle braccia. Ora, la posizione “yogica” è un elemento che interverrà sovente nell’iconografia successiva. Un’immagine che avrà grande fortuna nella civiltà indiana compare sia ad Harappa che a Mohenjo-Daro: la croce uncinata o svastika, orientata sia verso destra che verso sinistra. Sono stati inoltre ritrovati oggetti interpretati come matrici e altri nei quali è stata riconosciuta da alcuni studiosi una forma di fallo; l’identificazione, tuttavia, è sub iudice: la struttura conica e una decorazione striata a volte presente possono infatti far pensare ad oggetti di diversa carica simbolica. Sono state inoltre rinvenute figurine femminili, che trovano corrispettivi in età posteriore al crollo degli harappei e anticipano il popolare culto della Devi e di altre entità femminili dotate di forme vistose. 65
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1. Sigillo, Mohenjo-Daro, 2500 a.C. circa. Mohenjo-Daro, come Harappa, è uno dei centri in cui si è sviluppata la civiltà della valle dell’Indo, precedente i Veda. Un animale si trova di fronte a un recipiente con supporto. 2. Sigillo, Mohenjo-Daro. Personaggio con due corna nella posizione che sarà poi tipica degli yogin, con una serie di anelli sulle braccia.
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IL SIMBOLISMO NELLA RELIGIONE VEDICA E BRAHMANICA
3. Sigillo, Mohenjo-Daro, 2500 a.C. circa. Vi è raffigurato un toro, motivo particolarmente frequente e significativo nel Neolitico tra Mediterraneo, Mesopotamia e India.
In quella fase della religione indiana che ci è testimoniata dai Veda il tempio, come struttura stabile e autonoma, non esiste ancora, ma esiste la piattaforma sacrificale, importante costellazione di simboli; anche la casa, che possiamo ricostruire dalle descrizioni dei rituali di fondazione e costruzione, presenta aspetti simbolici: essa si regge su nove colonne, la principale delle quali, posta al centro, ha un valore di axis mundi. Ma è nel rituale e, in particolare, nel sacrificio che si manifesta l’aspetto simbolico della religione indiana più antica.
4. Sigillo, Harappa, 2500 a.C. Una figura divina femminile si trova all’interno di una pianta a forma di lira; a destra, un personaggio presenta un’offerta animale; in basso stanno sette figure femminili.
1. Il sacrificio Il fattore essenziale del sacrificio è il fuoco, che veniva prodotto facendo ruotare alternativamente nelle due direzioni, con le mani, un pezzo di legno secco, verticale, su un altro pezzo di legno, disposto orizzontalmente.
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L’attrito provocava, nel secondo, un incavo, denominato yoni (il termine che indica anche l’organo genitale femminile). In questo rituale è abbastanza esplicita, dunque, una simbologia sessuale. Nell’area sacra del focolare sono presenti un braciere circolare, domestico, a Ovest; uno quadrato, per le offerte sacrificali, a Est; uno semicircolare a Sud, che fronteggia la morte. I tre focolari simboleggiano i tre livelli dell’universo: terrestre, celeste, sotterraneo. Il fuoco è, nello stesso tempo, elemento e divinità (Agni). All’epoca dei Brahmapa, il simbolismo cosmico del rito sacrificale appare in maniera particolarmente esplicita: gli dèi hanno offerto in sacrificio il Purusa (uomo o maschio primordiale), dal cui smembramento derivano le parti, i settori, le sfere nelle quali si articola la totalità del cosmo e il sacrificio umano ripete questo atto primordiale. L’azione rituale richiama la ricostruzione dell’unità a partire dalle divisioni, del tutto a partire dalle parti. I sacrifici principali erano quelli del Soma, del cavallo, dell’insediamento del re. Senza entrare, per ovvie ragioni, nei particolari di tali cerimonie, ci si può limitare a indicarne, a titolo di esempio, alcuni tratti simbolici. Si dice che la pianta da cui si ricava il Soma cresca in montagna e, nel contempo, nel cielo e nell’ombelico della terra: in altri termini, in una dimensione trascendente e posta al centro dell’universo; quando le foglie sono pressate, il mortaio fa un rumore simile a quello del tuono, il filtro attraverso cui il liquido prodotto passa è come le nubi, il succo è la pioggia che fa crescere la vegetazione e l’intero procedimento è assimilato a una unione sessuale. Insomma, alla produzione della bevanda è attribuito un valore cosmico. Al sacrificio del Soma può essere collegato un ulteriore rito, che consiste nella costruzione di una base per il fuoco a forma di uccello rapace, edificata con più di mille mattoni in cinque strati. Le ali dell’uccello rappresentano il Cielo e la Terra, il petto il Vento, la testa il Fuoco, la coda la Luna e il cuore il Sole. Costruendo la base, il sacrificante realizza un nuovo Atman, il cui simbolo è una statuetta antropomorfica d’oro inserita nella piattaforma sacrificale. Il sacrificio del cavallo possiede anch’esso un significato cosmico: l’animale è identificato con il cosmo (Prajapati) e il rito che lo vede come protagonista comporta una rigenerazione dell’universo. Durante l’investitura, il re prende un arco e tre frecce, che simboleggiano le quattro direzioni nelle quali si estende la sua vittoria e, con le braccia alzate, rappresenta l’axis mundi. 2. Simboli cosmogonici Non è qui il caso di entrare nei dettagli delle cosmogonie vediche. Si possono tuttavia evocare alcuni temi cosmogonici che fanno ricorso a imma-
5-6. Croce uncinata o svastika, orientata verso sinistra e verso destra, Harappa, 2500 a.C. circa, Londra, British Museum. Dello svastika presente nelle civiltà della valle dell’Indo non si possono individuare i significati, se non in maniera estremamente congetturale. Più tardi il senso della croce uncinata diverrà abbastanza trasparente, perché si troverà l’immagine al posto del sole, come simbolo del dio Surya. Lo svastika va accostato anche a Viṣṇu che, con le sue quattro braccia, domina le direzioni dell’Universo, le caste, la struttura quadripartita dei Veda, i quattro stadi della vita. Nel Buddhismo è impiegato a esprimere il dharmacakra, ruota della legge, che a sua volta è l’insegnamento di Buddha e manifesta l’ordine dell’universo; costituisce, infine, una riduzione del mandala.
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7. Raffigurazione moderna di Agni, dio del fuoco: lo si riconosce per la corona di fiamme che porta sul capo. 67
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8. Kumbha-melā: saluto al dio Sole e le offerte principali agli dèi, ai saggi rishi e agli antenati. Da Pierre Amado, Le bain dans le Gange. Sa signification.
gini con forti connotazioni simboliche. Innanzitutto, va menzionata l’idea della nascita dalle acque. Nel Rgveda si parla di Agni, che nasce dalla confricazione degli strumenti lignei in forma di pene e di vulva a ciò deputati; poiché tali strumenti sono ottenuti da piante che si considerano nate dalle acque, Agni è loro progenie; lo è anche in quanto identificato con il Sole, che nasce dall’oceano orientale. Un secondo motivo cosmogonico vuole che un essere primordiale, il gigante Purusa, venga sacrificato, dando luogo alle diverse componenti dell’universo (cielo, terra, luna, sole, vento, gli dèi, le diverse categorie sociali). Ne deriva che esiste una corrispondenza precisa fra uomo (l’uomo primordiale) e cosmo e che le parti del mondo sono fra loro collegate da un reciproco richiamo e dal riferimento comune al tutto dal quale derivano. Nei Brahmapa, Prajapati si riscalda, attraverso l’ascesi, e crea il brahmap e le acque, che penetra. Da queste nasce un uovo, da cui derivano la terra, il cielo e lo spazio intermedio. Crea quindi gli dèi e offre loro se stesso, dando luogo così al sacrificio. Ora, le parti di Prajapati (identificato con il tempo) sono le cinque stagioni dell’anno e i cinque strati della piattaforma sacrificale. Prajapati, attraverso la creazione, si è esaurito e il sacrificio lo ricompone nella sua fondamentale interezza.
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L’IMMAGINE E IL SUO STATUTO NELL’INDUISMO Nella religione indiana più antica, dunque, il simbolismo è principalmente legato da un lato all’azione rituale e dall’altro alla presenza di particolari motivi nei racconti mitici. A un certo punto, tuttavia, la riflessione dei commentatori dei Veda comincia a rivolgersi anche al problema dell’immagine e dei suoi rapporti con le divinità: un commentario a carattere etimologico del vi secolo a.C., il Nirukta, si chiede quale sia la forma esteriore degli dèi e risponde dicendo che questi possiedono un aspetto umano e nel contempo non lo possiedono; essi sono collocati “nell’intervallo” fra gli uomini e l’Uno che regge ogni cosa. Tutto è divino: anche fuoco, vento, terra. Le prime Upanisad assumono un atteggiamento abbastanza negativo nei confronti delle forme, che vanno negate e superate per conseguire l’assoluto, il brahmap, ma va detto che l’interesse per i corpi degli dèi è sempre stato, in India, vivace, e alcuni testi del corpus upanisadico cominciano a interessarsi del concetto di forma. Intanto, si sviluppa l’arte figurativa indiana, che raggiungerà il suo apice durante l’epoca dei Gupta (iv-vi secolo d.C.). Si fa strada una concezione per la quale l’invisibile diviene percettibile proprio attraverso la realtà visibile, che diventa quindi simbolica: nella pratima, sia essa una statua cultuale, o il supporto temporaneo che la può sostituire
9. Khajurāho, Tempio di Lakshmaṇa, lato est. Il tempio è stato edificato nel 954 ed è dedicato a Viṣṇu. 69
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– vaso d’acqua, monticello di sabbia, specchio, al limite un essere vivente – è presente la divinità, che vi è invocata con rito apposito. La pratima, così, ne costituisce il corpo ed è perciò oggetto di adorazione. Si sviluppa un’architettura templare e si moltiplicano le immagini – soprattutto scultoree – degli esseri divini, che diventano oggetto di culto. Il simbolismo dei riti assume nuove forme: la puja, per esempio, è un insieme di atti cultuali che non prevedono l’uso del fuoco e che costituiscono l’adattamento dell’antichissimo rituale di accoglienza dell’ospite. Il rito è rivolto alla divinità di elezione della famiglia, ma gli smarta, che debbono praticare il servizio in onore delle cinque divinità, fanno precedere alla puja altri quattro riti rivolti agli dèi che hanno esclusi. Questi possono essere rimpiazzati, nel culto domestico, da simboli: un fossile nero di ammonite per Vispu; un sasso bianco ovale per Viva; un minerale con una striatura dorata per Vakti o Devi; un pezzo di cristallo per Surya e un sasso rosso per Gapeva. Si può trovare una teorizzazione del nuovo statuto dell’immagine nella Vastusutropanisad. Secondo questo trattato, le forme visibili non si trovano al di fuori del sacro, ma sono parte di esso e perciò rimandano al brahmap, sono «il brahmap che ha forma». Il brahmap è senza qualità e, nello stesso tempo, dotato di qualità. Se non possedesse questo carattere duplice, non potrebbe manifestarsi nell’universo e non sarebbe perciò raggiungibile tramite la devozione. Tesi di questo genere trovano il loro corrispettivo nella molteplicità di forme, nella selva policroma, variegata, lussureggiante di immagini che caratterizzano l’arte indiana. Sicché uno studioso dell’inizio del ventesimo secolo, A.S. Geden, poteva scrivere: «Tra tutte le religioni dell’Oriente [...], l’Induismo è quella che fa il maggiore uso di simboli». Geden proseguiva cercando una spiegazione di questo dato: poiché gli induisti considerano la verità ultima inconoscibile e indefinibile, cercano oggetti e immagini attraverso i quali accostarsi sempre più a essa, senza mai giungere ad attingerla. In altri termini, enfatizzano il valore del simbolo, quale entità mediatrice fra una realtà incomunicabile e una mente umana inadeguata. Ma allora l’immaginazione simbolica tende, nell’Induismo, a identificarsi con la religione stessa. Si tratta di un problema comune alle diverse forme religiose – che, da un certo punto di vista, realizzano universi simbolici all’interno dei quali è difficile definire una nozione di simbolo in senso stretto – ma che, nel mondo induista, appare con particolare evidenza.
GLI DÈI E I LORO ATTRIBUTI 10
10. Offerte disposte in piccoli vassoi che verranno abbandonati alla corrente del Gange durante il rituale del Kumbha-melā.
I canoni iconografici delle divinità indiane sono stati oggetto di una codificazione che stabilisce simboli, gesti, atteggiamenti distintivi: già nel vi secolo, la Brhatsaqhita presenta un repertorio delle caratteristiche degli dèi estremamente ricco, sebbene ancora abbastanza impreciso nelle descrizioni. Sarebbe impossibile proporre una sintesi, anche a grandissime linee, di questa letteratura; si possono tuttavia riportare, a titolo di esempio, alcune convenzioni iconografiche e simboliche che presiedono alla rappresentazione di Brahma, Vispu e Viva. Brahma ha quattro teste, orientate secondo i punti cardinali, a indicare la signoria del dio sullo spazio; porta i Veda, una verga, un recipiente che contiene l’acqua del Gange, un rosario o un cucchiaio sacrificale. I suoi attributi sono legati alla casta dei Brahmapi. Lo si trova spesso, come, d’altronde, Vispu e anche il Buddha, seduto su un fiore di loto. Vispu ha di solito quattro braccia, che portano la conchiglia, il disco, la clava e il loto. Nei templi vaispava (cioè dei seguaci del vispuismo) si rende
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11. Manaku di Guler, Viṣṇu venerato dal poeta Jayadeva, tempera su carta, Pahaˉ rıˉ, 1730, Museo di Chandigarh. Il dio è omaggiato dal poeta che lo ha celebrato nel Gıˉtaˉ govinda. Sul muro di fondo, sono rappresentati i dieci avataˉ ra, “discese” nel mondo, di Viṣṇu.
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omaggio separatamente all’icona cultuale e a un paio di sandali del nume, secondo un uso da ricollegarsi al Ramayana, in cui Rama (uno degli avatara, “discese” nel mondo di Vispu) in esilio lascia al fratello i sandali da mettere sul trono fino al suo ritorno. Un altro avatara del dio è Vamana, il nano: questi chiede al re Bali (un re degli Asura), che si è impadronito dell’universo, che gli venga donata tanta terra quanta può percorrerne in tre passi. Dei tre passi il primo attraversa la terra e il secondo il cielo. Non essendovi più luoghi in cui mettere il piede per il terzo passo, Bali, fedele alla parola data, offre al nano la testa chinata con reverenza. Vamana pone il piede sul capo dell’Asura e, premendo, lo fa sprofondare nel mondo sotterraneo del Patala, pieno di alberi gemmati e caverne meravigliose, dove regnerà da quel momento in poi: ora, i vaispava portano sulla fronte, quale marchio verticale, l’impronta dei piedi di Vispu. Viva è rappresentato dal linga, del quale si parlerà più avanti. Gli è associata anche la yoni, organo sessuale femminile. Il dio possiede un terzo occhio sulla fronte, che ha miticamente una funzione distruttiva, sprigionando fiamme. I tre occhi sono interpretati anche come il Fuoco, il Sole e la Luna e come il passato, presente e il futuro. Può avere nella sua parte destra gli attributi maschili (capelli intrecciati, falce lunare, tridente) e nella sinistra quelli femminili (un segno sul capo, una mammella, uno specchio e un loto). Sacro a Viva è il toro. Lo spicchio di luna significa l’amrtakala, ossia il digito lunare che sopravvive alla progressiva scomparsa degli altri durante il passaggio dalla fase di luna piena a quella di luna nuova, visibile come alone cinerino nella notte di novilunio. La sua sopravvivenza come residuo indistruttibile, a partire dal quale la luna torna ad accrescersi fino al plenilunio, ne fa il ricettacolo della bevanda d’immortalità, amrta, che, colando dalla luna posta sulle sue chiome, rende Viva immortale; tra l’altro, la bevanda vivifica il teschio che sta vicino alla luna, il quale ride della vanità dei mortali effimeri, che credono di durare per sempre. Il tridente allude a tutta una serie di triadi: alle Potenze di Volontà, Conoscenza e Azione con cui Viva pone in essere la cosmogonia, alle sue tre funzioni di creare, preservare e distruggere il mondo, ai tre modi della materia (oscurità o inerzia, energia e irraggiamento, equilibrio luminoso), alle tre arterie (di sinistra, di destra e di centro), che possiede il corpo sottile secondo lo yoga. Il dio porta serpenti al collo (i trattati d’iconografia e il culto conoscono
12. Śiva danzante. Bronzo del xii secolo conservato al Rijkmuseum di Amsterdam. Śiva è spesso rappresentato mentre danza, secondo un tipo iconografico particolarmente diffuso, nel quale si associano un’immagine del dio ispirata a compostezza e impassibilità e un senso di movimento ritmico. Da questo movimento si irradia l’universo. L’energia e la potenza del dio sono rappresentate da un cerchio o da un’ellisse di fuoco che ne circoscrive la figura. Sulla testa di Śiva è raffigurata Gaṅgaˉ , il Gange, che scende dal cielo e, passando fra i suoi capelli, mitiga l’irruenza con la quale scorre; sotto i suoi piedi sta, invece, il demone dell’ignoranza.
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13. All’interno del santuario dedicato a Śiva, nell’isola di Elefanta, nei pressi di Bombay in India, si trova la raffigurazione monumentale di Śiva tricefalo. La figura in mezzo rappresenta l’aspetto creatore del dio, quella di destra il suo aspetto protettore e quella di sinistra il suo aspetto distruttore. 14. Copia di naˉ ga, tempio di Konarak, secolo xiii. Tra gli esseri zoomorfì che hanno particolari valori simbolici, vanno menzionati i naˉ ga, rappresentati come serpenti, come uomini con il serpente sulle spalle o come esseri semiferini. Il naˉ ga, che è protagonista di diversi racconti mitici, può essere un’arma divina. Il tridente di Śiva appare, nel Mahaˉ bhaˉ rata, come un serpente fiammeggiante dalle molte teste. Il naˉ ga è quindi minaccioso, ma è anche un protettore. Reca, nel cappuccio, una gemma o una perla che può riportare in vita coloro che sono morti da poco. È collegato a Viṣṇu fra una distruzione del mondo e una sua nuova manifestazione e si trova intorno al corpo di Śiva.
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otto grandi cobra divini attorti alle sue membra), talvolta con una collana di teschi. Reca il tamburello, usato dagli asceti e legato ai suoni ritmati che scandiscono l’alternanza di involuzione ed evoluzione del cosmo; segno di ascesi è anche la folta capigliatura raccolta; sono correlate alla sua figura la fiamma e la scure. Talvolta ha tre teste, che rappresentano i suoi aspetti di “sprigionatore”, conservatore e distruttore dell’universo; oppure ha cinque teste, che alludono alle quattro direzioni del cosmo (cui va aggiunto lo zenith, verso il quale guarda il quinto volto), a cinque mantra vedici, i cosiddetti cinque brahmap, e alle cinque sillabe dell’invocazione “namah Vivaya”, corpo sonoro del nume. Possono ricevere culto come cinque figure divine distinte, con colori e attributi specificati nei testi. Agli dèi sono associati, oltre che oggetti inanimati, gli animali. Il simbolismo animale si esprime, in India, negli animali mitologici (come i naga, cobra), negli esseri componenti le schiere che accompagnano le figure divine, che sono spesso zoomorfi e nei cosiddetti vahana, “veicoli” degli dèi. Questi costituiscono altrettanti elementi del corredo simbolico proprio delle singole divinità, cui sono collegati abbastanza univocamente. Indra, così, ha, quale cavalcatura, l’elefante bianco Airavata (ma anche il cavallo Uccaihvravas); Vispu Garuda, il re degli uccelli e il grande cobra divino Ananta (il primo quando è attivo, il secondo quando dorme tra un periodo di annientamento dell’universo e il suo nuovo sprigionamento); Viva il toro Nandin; Brahma l’oca selvatica, Haqsa e Sarasvati sua sposa ha come vahana il pavone; Gapeva il topo (Musika, letteralmente “il ladruncolo”); Durga il leone o la tigre.
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IL TEMPIO Nell’epoca vedica verosimilmente non esistevano templi: centro della religiosità era il sacrificio ed è significativo che fosse la costruzione di piattaforme sacrificali ad avere il ruolo che sarebbe poi spettato all’architettura templare. L’architettura in materiali resistenti appare più tardi e le più antiche testimonianze di costruzioni cultuali risalgono all’epoca Gupta. Durante il Medioevo, la struttura dei tempi diventa via via più complessa. I templi sono simboli dell’ordine cosmico, come lo è l’altare del fuoco vedico. In generale, infatti, essi ripetono, in scala ridotta, la struttura dell’universo; poiché, poi, anche il corpo è considerato un microcosmo, si avrà tutta una serie di corrispondenze fra uomo, tempio e universo. Tutti e tre possiedono un aspetto grossolano – il fisico umano, la costruzione templare, l’universo come “corpo” di dio –, uno sottile – l’anima vivente, la figura divina adorata nell’edificio, l’aspetto sottile dell’universo –, uno trascendente: la realtà suprema, che nell’uomo è l’Atman. La pianta dei templi ha, quale elemento determinante, il quadrato, suddiviso in quadrati più piccoli, ma anche trasformato in altre figure. Al centro sta Brahma, circondato da altre divinità. La torre posta al disopra della zona centrale rappresenta la montagna, pilastro cosmico e centro dell’universo (a Bali, in Indonesia, paese esposto all’influenza della cultura indiana, i templi prendono, appunto, il nome di Meru, il monte che si trova nel centro del mondo), mentre la camera che ospita la divinità principale fa riferimento alla grotta e al cuore, sede del Sé.
15. Vaˉ stupuruṣamandala. Diagramma rituale per la costruzione di un tempio descritto nella Brhat Saṃhitaˉ di Varahamihira, secolo vi. 16. Tempio di Brahmeśvara a Bhuvaneśvara: elevazione e assonometria. Il tempio fu costruito intorno all’anno 1000. 73
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L’edificio templare simboleggia l’itinerario dell’uomo verso la liberazione: la sua parte esterna, coperta di immagini umane e sovrumane, evoca il dramma cosmico in cui l’uomo si trova e le forze divine che dominano il suo mondo; la parte intermedia, in cui le figure sono assenti, è lo stato psichico privo di dualità; quella più interna, costituita dal santuario, immersa nella penombra, è il luogo della realtà suprema (brahmap). Ma la simbologia del tempio va colta, oltre che in questa dimensione per così dire orizzontale, anche in quella verticale: al di sopra del santuario si alza, come si è detto, una torre: essa si restringe in cima e al suo vertice sta una sorta di cupola, sormontata da un vaso a punta. La simbologia implicita in questa struttura rimanda, con il passaggio dalla base ai livelli superiori, fino alla cima del tempio, a un itinerario che procede dalla molteplicità all’unità, dalla forma all’informe, o a ciò che si trova al di là di ogni forma.
IL SIMBOLISMO DELLA LUCE 17. Caṇḍi Śiva, il maggiore dei templi della regione di Prambanan, nell’Isola di Giava, attuale Indonesia, ricca di santuari dell’viii e del ix secolo. Il Caṇḍi Śiva è un’espressione esemplare di arte indiana.
Nel Rgveda il Sole è considerato come la vita di ogni cosa e i Brahmapa intendono lo sperma come manifestazione del sole. La luce è legata quindi al divino e alla fecondità. In un passo delle Upanisad essa è identificata con l’essere, che sta al di fuori e all’interno dell’uomo. La realizzazione
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piena del Sé (dell’Atman) si esprime attraverso una esperienza della luce interiore. Sempre nelle Upanisad, il percorso verso l’essere e l’immortalità è simboleggiato dal passaggio dalla tenebra alla luce. Asceti e yogin vedono, nel loro itinerario spirituale, luci di vario colore. La luce è inoltre il segno della maestà degli dèi e dell’eccezionalità di certi uomini: sui saggi talvolta aleggia una fiamma e intorno a loro brilla un’aura. Eliade parla di una «metafisica panindiana della luce», che si manifesta in tre modi: innanzitutto la rivelazione della divinità si esprime tramite la luce. Vispu, per esempio, appare in una luce simile a quella di mille soli; Krspa si manifesta ad Arjuna in forma ignea: «Lo splendore di mille soli, sorti insieme nel cielo, solo questo potrebbe somigliare allo splendore di questo Santo» (Bhagavadgita, xi 12); «Con braccia, ventri, volti e occhi molteplici io ti vedo dovunque, fornito di forme infinite. In te non vedo fine, mezzo o principio, o Signore del Tutto, Onniforme. Io ti vedo come una massa di splendore, risplendente dovunque, colla corona, colla mazza e il disco, te difficile da vedere, circondato tutt’intorno dallo splendore brillante del fuoco e del sole, inconoscibile!» (Bhagavadgita, xi 16-17). E più avanti Vispu ha il volto simile a fuoco (19), occhi fiammeggianti (24), bocche come il fuoco (25). In secondo luogo, coloro che sono giunti a un grado elevato di realizzazione spirituale irradiano la luce; ancora, la cosmogonia è simile a una epifania luminosa.
18. Kṛṣṇa che inghiotte le fiamme della foresta incendiata. Scuola di Chambaˉ, 1760 circa, Londra, Victoria and Albert Museum. 75
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19. Diagramma cosmologico in seta, tessuto in Cina durante la dinastia Yuan e quindi portato in Tibet, conservato oggi a New York, Metropolitan Museum of Art. Il monte Meru, asse cosmico, è circondato da sette catene di montagne d’oro alternate a sette oceani blu scuro. Una montagna di ferro, rappresentata da due cerchi esterni di rocce stilizzate, circonda l’universo. Le quattro direzioni e i quattro continenti (contrassegnati da emblemi di forma differente) galleggiano sul mare, colorato in vari modi a seconda della direzione. Sul monte Meru è posto un loto a otto petali, a simboleggiare l’ottuplice sentiero rivelato dal Buddha Śākyamuni.
SIMBOLI DEL CENTRO Il mondo è concepito dal Rgveda come un’estensione che parte da un punto. E presente, sempre nell’India vedica, anche l’idea di un asse del mondo. La si ritrova nel palo sacrificale (yupa), tratto da un albero, del quale lo Vatapathabrahmapa dice che con la cima sostiene il cielo, con la sua parte centrale riempie l’aria, con la sua base consolida la terra. Colui che celebra il sacrificio appoggia una scala al palo e quindi vi sale, da solo o insieme a sua moglie, dicendo di raggiungere cosi il cielo. Afferma altresì di essere diventato immortale. La scala, come il ponte – evocato dalle fonti a questo proposito – è simbolo di ascensione e implica l’idea di un cambiamento di stato, di un passaggio verso una condizione di prossimità al divino.
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La cosmologia induista comporta un centro del mondo, costituito dal monte Meru, d’oro, sulla cui vetta risiederebbe il paradiso di Indra, oppure, secondo altre tradizioni, la città di Brahma. Anche la città è costruita a immagine dell’universo: la sua fondazione ripete la cosmogonia, nel suo centro è posto simbolicamente il monte e le sue quattro porte acquisiscono un significato cosmico. Il simbolismo del centro e della costruzione di uno spazio orientato è, infine, legato a quello della terra.
IL LIṄGA La parola sanscrita linga può essere tradotta con il vocabolo “segno”. Essa è impiegata in diversi ambiti: per esempio, nel linguaggio della logica, la scuola del Nyaya, studiando l’inferenza quale strumento di conoscenza corretta, utilizza il termine linga per indicare un segno associato a un oggetto, che rimanda invariabilmente a un altro segno; altrove, linga designa
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il genere grammaticale, la prova, il sesso e, quindi, il pene come “segno” del sesso maschile. Il linga, già presente, come si è accennato, nella civiltà che precede i Veda, diventa, nella letteratura e nella pratica di culto Vivaita, simbolo del dio Viva. Le fonti lo classificano secondo diverse tipologie, una delle quali è quella dei linga prodottisi spontaneamente (per esempio, pietre a forma ovoidale che ricordano l’“uovo cosmico”) e un’altra è quella dei linga consacrati dall’uomo. Questi comportano tre parti: una base quadrangolare (la “porzione di Brahma”); una parte ottagonale, la “porzione di Vispu” e il linga vero e proprio, la “porzione di Rudra” (altro nome di Viva). Il linga poggia su un oggetto a forma di yoni (vulva), che rappresenta la Potenza divina (Vakti), che è anche consorte di Viva. Frequentissimo nell’iconografia induista, è raffigurato come un cilindro la cui parte
20. Nel complesso di Elefanta si trova un santuario che racchiude il linga di Śiva. 77
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superiore è arrotondata, e che presenta, in forma di linee stilizzate, un accenno della fisiologia del pene. Esso simboleggia tutti i settori della realtà, mentre lo spazio vuoto che lo sovrasta rappresenta la realtà ultima, priva di forma. Un mito racconta l’apparizione, di fronte a Brahma e Vispu, di una colonna di fuoco altissima. Il primo dio si levò in volo, sotto forma di un’oca selvatica, per raggiungerne la vetta; il secondo, assunto l’aspetto di un cinghiale, scavò per trovarne la base, ma nessuno dei due riuscì a vedere le estremità della colonna poiché questa, espressione dell’essenza di Viva, era infinita. Tali caratteristiche fanno sì che il linga diventi segno dello stesso Brahmap, l’assoluto. Il linga viene così simbolicamente collegato al sostegno cosmico, al palo sacrificale, al Grande Yogin. 21. La ruota della legge sul tetto del tempio del Tibetan Children Village di McLeod Ganj, nell’India settentrionale, dove risiedono molti rifugiati tibetani. Si tratta di una ripresa buddhista del simbolo della ruota.
LA RUOTA Nei Veda la ruota era già impiegata quale simbolo del trascorrere del tempo. La religione induista elabora poi una complessa concezione tempora-
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le, fondata sulla successione ciclica di ere cosmiche: la ruota diventa una espressione particolarmente adeguata del ripetersi, secondo un ritmo prefissato e immutabile, degli stessi periodi. Oltre che di ciclicità, la ruota è simbolo della impermanenza delle cose, del loro trascorrere e perire ineluttabile e, dunque, del saqsara. L’immagine è quindi ripresa con diverso significato dal Buddhismo e dal Jainismo. La ruota ha, nell’Induismo, anche altri significati: è simbolo solare (e quindi del dio Surya) e indica la totalità del cosmo e la sua perfezione: di Brahma, viene detto che è come una ruota. Vispu impiega un disco, che diventa, quale arma, il simbolo della sua potenza.
IL CALORE Secondo il tantrismo, l’universo è caratterizzato da due principi contrapposti: Viva e Vakti. Il primo è maschile, spirituale, immobile, passivo; il secondo è femminile e vitale. Essi sono presenti tanto nell’uomo quanto nella totalità del cosmo. Attraverso la pratica yogica, l’uomo mira a ricongiungere queste due componenti: la Vakti, che si trova in una condizione di riposo, in forma di serpente, alla base della spina dorsale, viene risvegliata e fatta risalire all’interno del corpo, finché non raggiunga Viva, collocato nella sommità del capo. Le opere tantriche parlano di più coppie di opposti, che occorre unificare. Il risveglio della Vakti si manifesta attraverso una sensazione di calore e la sua unione con Viva è segnata, analogamente, da un senso di calore particolarmente intenso. L’idea del calore come manifestazione della potenza divina è connessa con quella del fuoco in quanto espressione simbolica del sacro. La si ritrova nella nozione di tapas: il vocabolo, inizialmente da intendersi con il significato di “calore intenso” o “ardore”, viene a significare l’ascesi. Prajapati emana da sé il mondo riscaldandosi, con uno sforzo che dà luogo a essudazione. Nelle Upanisad, la coscienza dell’identità fra la luce del cosmo e la luce che l’uomo porta dentro di sé è contrassegnata dal calore.
IL BUDDHA E I SUOI SIMBOLI I racconti riguardanti la vita del Buddha sono ricchi di immagini e di motivi di carattere simbolico. Se ne può citare uno, a titolo di esempio. Appena nato, il Bodhisattva, sotto un parasole bianco, fa sette passi verso nord e dice, tra le altre cose, di essere il più alto e il primogenito del mondo. Il racconto, che ci è noto in diverse varianti, è interpretabile simbolicamente: i sette passi corrispondono ai sette piani del cosmo e ai sette cieli in cui questo si articola; per loro tramite, il Buddha trascende, oltrepassa l’universo in cui si trova. Abolisce così lo spazio (diventa il più alto di tutti) e il tempo (è il primogenito). La primogenitura del Buddha si spiega anche in riferimento a un’altra immagine: quella dell’uovo. Quando, tra le tante uova di una gallina, una si schiude e un pulcino viene alla luce, si dirà che questo – e non quello uscito dalla prima fra le uova deposte – è il primo nato. Lo stesso vale per il Buddha, il più vecchio tra gli uomini, perché il primo ad avere raggiunto l’illuminazione. L’uscita dal tempo e dal mondo, che equivale all’illuminazione, viene espressa simbolicamente attraverso le immagini della elevazione e della rottura dell’uovo, che riprendono tematiche precedenti (come quella dell’ascensione sul pilastro cosmico dei Veda o quella dell’uovo cosmogonico) in un contesto filosofico e ideale differente.
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22. Stupa Dhāmekh di Sārnāt presso Benares, in India. Nel luogo dove aveva predicato Buddha, l’imperatore Aśoka nel iii secolo a.C. fece costruire uno dei primi stupa. Oggi ci rimane lo stupa Dhāmekh fatto costruire in epoca Gupta (iv-v secolo d.C.). 79
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LA FASE “ANICONICA”
23. Sāñchıˉ, Stupa iii, i secolo. Secondo un’iscrizione, lo stupa contiene le reliquie dei primi due discepoli del Buddha. Si può notare con chiarezza la struttura classica degli stupa: calotta emisferica coronata da una edicola che fa da base a un parasole. 24. Capitello con leoni, iii a.C. secolo, arenaria lucidata, Museo di Sārnāth. Aśoka, un grande sovrano buddhista, per diffondere la sua fede, fece incidere precetti buddhisti su rocce e colonne. Il capitello qui raffigurato ha la forma di una campana, secondo un’immagine che diverrà frequente nell’iconografia indiana, con al di sopra la ruota simbolo del dharma e, in cima, i leoni, che vanno associati all’ideologia della regalità. Il capitello con i leoni, così come la ruota, è diventato, in epoca recente, simbolo dell’India. 25. Venerazione del Buddha Amarāvatıˉ. Sātavāhana, ii secolo a.C., Museo di Madras.
In un primo tempo, il Buddhismo presenta una fase per così dire aniconica, forse in seguito a precise prescrizioni del suo fondatore. Astenendosi dal rappresentare il Buddha i suoi seguaci potevano ritenere, d’altra parte, di favorire la contemplazione e di mantenersi più fedeli a un messaggio che implicava il distacco dalle realtà terrene. Il Buddha era dunque venerato attraverso i luoghi nei quali si era svolto il suo cammino terreno (quello della nascita, quello del risveglio, quello in cui tenne il suo primo discorso, quello della sua entrata nel Mahaparinirvapa, il Nirvana completo), o attraverso l’impiego di certi simboli: la ruota, il loto, l’albero, il parasole, lo stupa, le impronte dei piedi, il trono vuoto. L’albero è il pippala, sotto il quale Siddhartha Gautama raggiunge l’illuminazione. La ruota è l’antico simbolo induista, cui vengono associati nuovi significati: nell’ideologia regale dei Maurya (dinastia che domina l’India settentrionale dal 322 al 185 a.C.) – e presumibilmente anche prima – la grande ruota divina è uno dei tesori del re perfetto, il Cakravartin (“Giratore della ruota”), che ne beneficia assieme al ministro perfetto, alla regina perfetta, all’elefante perfetto, al cavallo perfetto, ecc. Egli non ha che da incedere verso uno dei punti cardinali e la ruota lo precede a mezz’aria, sottomettendogli i monarchi rivali senza bisogno di combatterli. Il Bodhisattva sarebbe destinato a divenire il Cakravartin della sua epoca, se rinunciasse ad essere Buddha: tale l’oggetto di una delle tentazioni di Mara. Ma diviene Buddha, e il suo “girare la ruota” coincide con la predicazione della dottrina. Come ruota della legge (dharmacakra), la ruota indica l’insegnamento del Buddha e l’ordine dell’universo; di solito ha otto raggi, che simboleggiano l’ottuplice sentiero, insieme di norme prescritte dal Buddha per ottenere la soppressione del dolore. Il parasole è segno regale. Lo stupa è una costruzione la cui
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forma classica è quella di un emisfero con sopra una edicola cubica, a sua volta sormontata da parasoli, che possono venire interpretati come altrettanti livelli cosmici. Scopo dello stupa è custodire le reliquie del Buddha o di altri personaggi eminenti oppure oggetti che, in qualche modo, lo sostituiscano (come i testi della legge). Gli stupa non sono soltanto reliquiari, ma diventano simbolo della morte del Buddha, o, meglio, della sua entrata nel Mahaparinirvapa. Sono circondati da balaustre con porte monumentali, che simboleggiano il passaggio dal mondo materiale a quello spirituale. Le impronte e il trono vuoto evocano una presenza che è anche un’assenza, in quanto il Buddha è giunto alla piena liberazione.
LE RAPPRESENTAZIONI DEL BUDDHA In un secondo tempo, dalla seconda metà del ii secolo d.C., si comincia a rappresentare il Buddha, attribuendogli le qualità degli uomini eminenti. Si distinguono, sulla persona del Buddha – e quindi anche di Gautama – trentadue caratteristiche, cui se ne aggiungono altre ottanta secondarie, con qualche variazione nelle diverse tradizioni. Se ne possono menzionare alcune: il Buddha è circondato da una “ghirlanda di raggi” – segno di regalità – e una fiamma gli arde sul capo; la sua testa ha, sulla sommità, una protuberanza, simbolo di regalità e indice di distanza rispetto agli uomini comuni. I capelli che, dopo essere stati tagliati al momento in cui il futuro Buddha rinuncia al mondo, hanno la lunghezza di due dita, sono nerissimi e formano «ricci attorti in senso orario», richiamando il movimento del sole e la circumambulazione rituale. Fra le sopracciglia sta un cerchio “lanoso” bianco; i denti hanno un numero superiore al normale (sono quaranta), a sottolineare la sua natura sovrumana; l’incarnato è dorato; i muscoli non devono essere definiti ed evidenti. Quest’ultima caratteristica, che vale anche per la scultura induista, deriva da un principio fondamentale dell’estetica indiana, teorizzato dai trattati di medicina e di astrologia: un corpo è ben formato quando
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26. Copertina di un manoscritto buddhista tibetano, metà del ix secolo, collezione C. Cristi. Il disegno rappresenta otto petali di loto che formano tre ruote del dharma. 27. Il naˉ ga Erapata venera il Buddha. Śuṅga, dallo stupa di Bhārhut, secolo ii a.C., Calcutta, Indian Museum. La presenza del Buddha è qui suggerita dal trono sotto l’albero dell’illuminazione.
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28. Caṇḍi, Borobuḍur, stupa traforato della sommità. La struttura del maṇḍala si trova anche nell’architettura sacra. L’esempio più noto è quello del tempio giavanese di Borobuḍur, un complesso architettonico edificato intorno all’850 che presenta diverse particolarità di difficile interpretazione. Fra gli studiosi che se ne sono occupati, vanno citati N.J. Krom – secondo il quale Borobuḍur rappresenta simbolicamente l’universo – e P. Mus. Mus ha sottolineato come lo stupa corrisponda al corpo mistico del Buddha e alla struttura del reale: il pellegrino che visiti il tempio assimila, in un itinerario ideale, tutta la dottrina buddhista, ascendendo verso la cima del monumento e guardando le immagini che esso presenta. Il percorso nel tempio corrisponde a un percorso di elevazione spirituale, che conduce da un universo di forme a un mondo privo di forma. Le sculture delle zone inferiori esprimono il dramma dell’umanità, mentre nelle parti più alte stanno stupa traforati, dalla forma di campane su fiori di loto, che contengono i Buddha. Nella struttura tripartita del complesso è simboleggiata la dottrina dei tre corpi del Buddha.
29. Il Buddha della medicina, Tibet, inizio xv secolo, tempera su tela, collezione privata. Il dipinto ha tre registri: in quello superiore si trovano i sedici arhat tibetani e alcuni saggi indiani; in quello inferiore, figure storiche tibetane, i guardiani delle quattro direzioni e Jambhala, dio della ricchezza, che porta una mangusta che vomita gioielli. Il Buddha è rappresentato in vesti monastiche, con una ciotola di erbe nella mano sinistra e con la destra che tocca la terra; alla sua destra sta Mañjuśrıˉ, bodhisattva patrono della gnosi, che porta, sopra i due fiori di loto che lo incorniciano, la spada con cui taglia il nodo dell’ignoranza e un libro sacro; alla sua sinistra si trova il bodhisattva Avalokiteśvara.
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30. Buddha Śaˉ kayamuni con gli eventi della sua vita, Birmania o Bengala, xi-xii secolo, pietra, collezione privata. Al centro, il Buddha Śaˉ kayamuni è riparato dai rami dell’albero dell’illuminazione, mentre tocca terra a indicare la vittoria sulle illusioni. In alto è rappresentato il Mahāparinirvaṇa con lo stupa; a destra sono riprodotti la discesa dal Paradiso degli dèi tusita, il primo sermone, la nascita, la protezione da parte del naˉ ga Mucalinda; a sinistra, l’addomesticamento dell’elefante Naˉ laˉ giri, la dimostrazione della grande illusione agli eretici, il dono della ciotola di miele da parte della scimmia e la pratica ascetica.
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tutte le sue parti (ossa, nervi, muscoli) sono unite fra loro in un’unica forma compatta, senza che le si distingua dall’esterno. Sotto la pianta dei piedi del Buddha vi sono ruote. Ad esse la tradizione iconografica aggiunge poi altre figure (come lo svastika, il parasole regale, vari loti, sole e luna, la folgore di Indra, lo stendardo divino). Il Buddha è spesso avvicinato a un parasole e siede su un trono leonino, simboli entrambi, come si è già visto, di regalità. Fra gli attributi che le convenzioni iconografiche gli associano va poi segnalato il Triratna, una struttura che ricorda il tridente di Viva, che consiste nel Buddha, nel suo Dharma e nel suo Sangha (la comunità degli asceti da lui fondata), che si trova, come la ruota, rappresentato sulle sue mani o sui suoi piedi. Le mani del Buddha (come, d’altra parte, quelle degli dèi indiani) possono avere diverse posizioni (mudra) alle quali corrispondono altrettanti significati, rigorosamente codificati. La rappresentazione del Buddha in forma umana non comporta la scomparsa dei simboli utilizzati nella fase aniconica, che continuano al contrario ad essergli accostati. Nel Buddhismo tantrico troviamo il fulmine a quattro od otto fiamme, talvolta associato al campanello e al coltello sacrificale. 31
31. Schema di Maṇḍala, tracciato da A. Heller.
IL MAN.D.ALA
32. Maṇḍala di Cakrasaṃvara, Tibet, xiv secolo, tempera su tela, collezione privata.
Il termine “mapdala” significa, originariamente, “orbe”, “cerchio” (ad esempio quello solare); applicato ai testi sacri, indica un capitolo o un libro; in ogni caso, designa uno spazio delimitato. Costruire un mapdala equivale a
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33. Kumbum e santuari di Gyantse. Il complesso è stato costruito dai principi di Gyantse, che hanno un ruolo centrale nella realizzazione delle strutture politiche e religiose del Tibet tra la fine del xiv e il xv secolo. Domina il paesaggio lo stupa bianco e oro.
definire uno spazio che diventi il luogo, la sede di una divinità. Il mapdala è una figura centrata, nella cui struttura il cerchio e il quadrato (e comunque la quadripartizione o la quaternità) hanno un ruolo determinante; lo si ritrova nell’Induismo, specialmente tantrico, e nel Buddhismo. Nel Buddhismo tibetano esistono principalmente due tipi di mapdala: il primo rappresenta il palazzo del Buddha, che si trova al centro, circondato da Buddha, bodhisattva, dèi e demoni; il secondo invece si riferisce alla struttura dell’universo. I mapdala sono realizzati in onore di maestri scomparsi, per essere utilizzati nel corso delle iniziazioni e per accumulare meriti. Giuseppe Tucci scrive che il mapdala è uno «psico-cosmo-gramma». Si può dire, infatti, che possieda essenzialmente tre valori; innanzitutto, un valore cosmografico: rappresenta l’universo, il cui centro è costituito dal monte Meru, i cui confini possono essere segnati dall’oceano primordiale o da una muraglia. Anche i diversi livelli, le parti, le determinazioni del mondo vi sono rappresentati, in tutta la varietà che presta loro l’immaginazione mitica indiana. In secondo luogo, il mapdala è teofanico, cioè costituisce lo strumento di una sorta di rivelazione divina. In questo caso, è dedicato a un dio, di cui riporta simbolicamente le vicende e gli elementi caratteristici, di cui rappresenta la folla di demoni e di entità correlate. Altre tipologie sono invece puramente geometriche e rimandano, piuttosto, a un essere non rappresentabile. In terzo luogo, il mapdala ha un carattere psicagogico: guida chi lo guarda lungo una via di perfezionamento spirituale, indirizza la meditazione.
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LA CINA
Drago
Montagna
Tartaruga
Specchio
Simboli vegetali
Scrittura
Yin Yang
«Di fatto, una delle caratteristiche del pensiero cinese è di procedere per manipolazione di simboli», scrive il sinologo Jacques Gernet. Molti aspetti della realtà acquistano, in Cina, il valore di simboli, di emblemi, di attributi divini. Si cercherà di descriverne alcuni, senza, ovviamente, pretese di esaustività, ordinandoli secondo i settori della realtà ai quali appartengono e privilegiando gli elementi taoisti e confuciani rispetto a quelli buddhisti, che, per quanto originalmente vissuti e reinterpretati, sono in parte comuni alla civiltà indiana.
GLI ANIMALI Il rapporto fra animali e divinità è complesso e vario: alcuni esseri sovrumani possiedono tratti o forma animale, ma queste caratteristiche, probabilmente essenziali nei periodi più antichi, tendono a scomparire, almeno nei culti ufficiali; i geni malvagi sono spesso rappresentati con aspetto bestiale; esistevano dei geni-antenati di singole specie (come il genio dei topi o quello dei buoi); ancora, vi sono corrispondenze fra divinità e animali (gli esseri piumati sono associati, per esempio, ai geni dei fiumi e dei laghi; quelli con i peli ai geni delle pianure). A questo fattore di complessità va aggiunta la polivalenza di diversi motivi simbolici, derivata da un lato dal sovrapporsi di tradizioni differenti, dall’altro dalla stratificazione storica. Va detto, infine, che molte figure sono di difficile identificazione e che certe immagini acquistano significati differenti a seconda dei gruppi di simboli nei quali, volta per volta, sono comprese. Gli animali fantastici si trovano con maggiore frequenza nel periodo più antico, mentre, a partire dalla dinastia degli Han (che va dal 202 a.C. al 221 d.C.) e forse fin già dalla fondazione dell’impero, tendono a perdere il 87
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CINA
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1. Insegna di rango o “quadrato di mandarino”, inizio dinastia Qing (fine xvii - inizio xviii secolo), ricamo su seta, Parigi, Musée Guimet. Nel 1652, i Qing adottarono le insegne dette “quadrati di mandarino”, già imposte ai funzionari dalla dinastia Ming alla fine del xiv secolo, per segnare l’ordine gerarchico dei nove grandi ufficiali. Gli uccelli vi erano utilizzati a indicare i funzionari civili; altri animali
a indicare i militari. Sul mantello di corte erano cuciti due quadrati identici, uno nella parte posteriore e un altro, diviso in due, nella parte anteriore. La gru qui riprodotta, detta “gru degli Immortali”, rappresenta il primo rango degli ufficiali letterati. In basso, fra le onde, vi sono un libro e un corno di rinoceronte, entrambi emblemi dei letterati.
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LA CINA CINA
2. Vaso di porcellana della metà del xiv 2.Vaso porcellanacon della metà del secolodidecorato la figura di un drago XIV secolo decorato con la figura di che si snoda sulla superficie. unMusée drago Guimet, che si snoda Parigi.sulla superficie. Musée Guimet, Parigi.
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3. Vaso da vino zun, fine dinastia Shang, 3.Vaso da vino zun, fine dinastia Shang, xiii-xii a.C. secolo, bronzo, Londra, British secolo XIII-XII a.C., bronzo, Londra, Museum. Il vaso, rinvenuto in un corredo British Museum. Il vaso, rinvenuto tombale, era destinato a conservare il vino; in un corredo tombale, era destinato ha la forma di due arieti accostati, coperti a conservare il vino; ha la forma da una decorazione a scaglie. La parte di due arieti accostati, coperti da una inferiore dela scaglie. vaso reca un motivo “taotie”. decorazione La parte inferiore del vaso reca un motivo “taotie”. 4. Entrata di una tomba del distretto Mizhi, di dinastia Han dell’Est, pietradiincisa, 4.diEntrata una tomba del distretto Xi’an,dinastia Shaanxi, Museo lapidario della Mizhi, Han dell’Est, pietra incisa, Foresta delleMuseo Stele. Silapidario riconoscono, Xi’an, Shaanxi, della sui due battenti della porta, In cima Foresta delle Stele. Si uccelli-fenice. riconoscono, sui è riprodotta unaporta, scenauccelli-fenice. di caccia. due battenti della In cima è riprodotta una scena di caccia. 33
e a aspetto diminuire d’importanza, probabilmente a causa dell’ostilità manifestata loro pittoresco e a diminuire d’importanza, probabilmente a cauda Confucio nei confronti dei prodigi. In ogni caso, alcuni animali sa dell’ostilità manifestata da Confucio nei confronti dei prodigi.fantastici In ogni permangono e mantengono il loro peso. I principali sono e la caso, alcuni animali fantasticitutto permangono e mantengono tuttoilildrago loro peso. fenice, rispettivamente assunti a emblemi dell’imperatore e dell’imperatrice. I principali sono il drago e la fenice, rispettivamente assunti a emblemi Il drago è un essere che combina in sé le caratteristiche di diversi animali: è dell’imperatore e dell’imperatrice. serpentiforme, ma può avere tratti propri degli uccelli – come becco e piume Il–drago un essere combina in Può sé leavere caratteristiche di diversi animali: e dei èpesci, comeche scaglie e coda. testa di bue, zampe di fenice,è serpentiforme, ma può avere tratti propri degli uccelli – come becco e piume occhi di gambero, corna di cervo. Legato all’acqua e alle piogge feconde di –primavera, e dei pesci, comesegno scaglie coda. Può di bue, zampe di fenice, diventa di eprosperità e diavere vita etesta incarna il potere sovrano. Nel occhi di taoista, gambero, corna Legato all’acqua e allel’infi piogge sistema si tratta di di uncervo. simbolo yang che rappresenta nito: feconde si pensavadi primavera, diventadisegno di prosperità di vita incarna il poterescendesse sovrano. che all’equinozio primavera salisse al ecielo e a equello d’autunno nelle profondità nelle acque;didai e dalleyang acque la sua potenza. Masi Nel sistema taoista, si tratta uncieli simbolo chetraeva rappresenta l’infinito: il drago,che come ogni altra cosa, ha, oltre alsalisse suo aspetto anche un aspetto pensava all’equinozio di primavera al cieloyang, e a quello d’autunno yin, è visibile volando fra le nuvole, dunque, manifesta ma la nello scendesse nellee invisibile: profondità nelle acque; dai cieli e dallesiacque traeva sua potenza. Ma il drago, come ogni altra cosa, ha, oltre al suo aspetto yang, anche un aspetto yin, è visibile e invisibile: volando fra le nuvole, dunque, si manifesta ma nello stesso tempo si nasconde. I draghi tengono fra gli artigli delle perle, oggetti che Zhuangzi considera simboli del Tao.
5.Taglio di tessuto per un abito di corte, inizio della dinastia Qing, secolo XVII, Parigi, Collection Myrna Myers. Le manifatture seriche governative seguivano scrupolosamente le norme rituali cui doveva conformarsi l’iconografia del drago imperiale. Il centro del tessuto è occupato da un grande drago con una perla fra le spire; più in basso e più in alto si trovano altri quattro draghi. Lo sfondo d’oro giallo, colore emblematico della dinastia Qing, è decorato da nubi spiraliformi e da figure rosse che rappresentano i lampi, mentre nella parte inferiore sono riprodotti onde e picchi, due conchiglie (simbolo buddhista) e due corna di rinoceronte (simbolo dei letterati).
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ci, uno arte ortali”,
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5. Taglio di tessuto per un abito di corte, inizio della dinastia Qing, xvii secolo, Parigi, Collection Myrna Myers. Le manifatture seriche governative seguivano scrupolosamente le norme rituali cui doveva conformarsi l’iconografia del drago imperiale. Il centro del tessuto è occupato da un grande drago con una perla fra le spire; più in basso e più in alto si trovano altri quattro draghi. Lo sfondo d’oro giallo, colore emblematico della dinastia Qing, è decorato da nubi spiraliformi e da figure rosse che rappresentano i lampi, mentre nella parte inferiore sono riprodotti onde e picchi, due conchiglie (simbolo buddhista) e due corna di rinoceronte (simbolo dei letterati).
La fenice è considerata presagio di pace e prosperità. La madre di Confucio avrebbe concepito suo figlio grazie al fatto di aver camminato sulle tracce invisibili di un liocorno e lo stesso animale comparve al saggio poco prima della sua morte. Si riteneva che i liocorni, il cui passo è tanto leggero da far sì che camminino sull’erba senza schiacciarla e senza uccidere gli insetti che stanno a terra, annunciassero un periodo di pace e di giustizia; essi fanno anche da cavalcatura alle divinità che portano i bambini e ancora oggi sono considerati di buon augurio. Il taotie è un motivo iconografico costituito da un disegno variabile nel quale sono riconoscibili due cerchi che evocano altrettanti occhi divisi da una linea verticale, a formare, nei casi più elaborati, una vera e propria maschera che ricorda la Gorgone; esso è frequentissimo sui bronzi arcaici; non si sa che cosa significasse, ma rimane, nella tradizio-
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6. Basamento di schermo: tigre che divora un cerbiatto, Pingshan, Hebei, epoca dei Regni Combattenti, secolo iv-iii a.C., bronzo con incrostazioni d’oro e d’argento, Istituto di Archeologia e Ufficio dei Beni Culturali dello Hebei.
7. I cinesi suddividevano lo spazio in quattro quadranti, più una zona centrale. Lo spazio celeste era simbolizzato dall’uomo (posto al centro) e dai “quattro animali intelligenti”: il drago, l’uccello rosso, la tigre bianca e la tartaruga.
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ne cinese, come simbolo terrifico. Un uccello (forse un corvo, un fagiano, o una fenice) rosso a tre zampe è simbolo solare del Sud; un rospo a tre zampe è simbolo lunare. Ngao è il nome di un mostro marino (tartaruga o pesce gigante) che reggeva il mondo; la leggenda vuole che abbia salvato uno dei protettori dei letterati ed è in virtù di questa connessione con la classe dirigente cinese che sopravvisse come emblema. Altri esseri fantastici (come l’uccello della pioggia e il p’eng, uccello gigantesco), che godettero nei tempi arcaici di particolare rilievo, sembra rimangano soprattutto in quanto evocati dai testi classici. Gli animali sono suscettibili di metamorfosi: per esempio il drago, la quaglia, la rondine si trasformano, in inverno, rispettivamente in piccolo serpente, in topo, in mitilo, passando così da una condizione aerea a una condizione terrestre o acquatica. Gli animali in genere vengono distinti in cinque categorie, ognuna delle quali ha un antenato e un sovrano comune: il liocorno per gli animali dotati di pelliccia; la fenice per quelli piumati; il drago per quelli dotati di scaglie; la tartaruga per quelli con il guscio e, talvolta, l’uomo per gli animali nudi. La classificazione dovrebbe risalire a un’epoca compresa fra il 1100 e il 600 a.C. Anche gli animali non fantastici acquistano natura simbolica in epoca molto antica: sappiamo che la tigre bianca era simbolo dell’Oriente celeste dell’Ovest già nel v secolo a.C.; il carapace della tartaruga era usato a scopo divinatorio fin dal secondo millennio a.C. e alla stessa epoca risalgono molte raffigurazioni animali. Possiamo stabilire con qualche plausibilità il significato di rinascita attribuito alla cicala, che è stata trovata su cadaveri; come il serpente, essa cambia pelle ed è quindi adatta ad evocare un mutamento di stato. Il gufo fa forse riferimento, già in
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8. Pietra da inchiostro con coperchio a forma di tartaruga, secolo i-ii d.C., terra cotta grigia, The Minneapolis Institute of Arts. Sul carapace della tartaruga si trovano incisi gli otto trigrammi del Classico delle mutazioni (disegno di E. Leso). 9. Fuxi, il Primo Augusto Sovrano, attribuito a Ma Lin (1180 circa-dopo il 1256), dinastia Song, inchiostro e colori su seta, Taipei, Museo nazionale del Palazzo. Fuxi, cui è attribuita l’invenzione degli otto emblemi divinatori che costituiscono la base del Classico delle mutazioni, guarda, sul guscio della tartaruga, i segni che gli permettono di leggere le realtà del mondo.
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epoca arcaica, all’oscurità della morte. Al cervo si associa la longevità e, ancora una volta, la facoltà di rigenerazione, poiché le sue corna cadono e rinascono; alla tigre il potere di allontanare i demoni. Gli uccelli, frequentemente rappresentati già nell’età del bronzo, sono avvicinati sovente agli Immortali, cui è riconosciuta, tradizionalmente, la capacità di volare. In generale, sono considerati benaugurali (con l’eccezione di certe specie: il gufo, per esempio, è simbolo di sventura) e costituiscono motivi decorativi frequentissimi, spesso associati con i fiori. Nei calendari, gli animali, come le piante, sono associati ai mesi e alle stagioni: l’oca selvatica, per esempio, indica la primavera, probabilmente per
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il suo essere un uccello migratore; essa è connessa anche con i matrimoni, così come la rondine, uccello dell’equinozio di primavera. I cinesi suddividevano lo spazio in quattro quadranti, più una zona centrale. Lo spazio terrestre era simbolizzato dalle cinque Montagne sacre; quello celeste dall’uomo (posto al centro) e dai «quattro animali intelligenti»: il drago, l’uccello rosso, la tigre bianca e la tartaruga avvolta da un serpente. I quattro simboli vengono poi associati alle stagioni e si verifica una sovrapposizione tra questo insieme simbolico e quello degli animali antenati. Si dice, infatti, che gli animali a scaglie dominino la primavera; quelli piumati l’estate; quelli con la pelliccia l’autunno e quelli con il carapace l’inverno; l’uomo rappresenta la quinta stagione, che non ha durata. Immagini di tartarughe si trovano già durante il Neolitico. L’arte divinatoria si esercita sui carapaci delle tartarughe esposti al fuoco fin dall’epoca arcaica (ma anche sulle omoplate di cervo). L’animale, con il suo carapace circolare e la sua base piatta, ricorda la forma del cielo e della terra e assume così il carattere di simbolo cosmico. Le sue gambe, salde sul terreno, evocano le colonne che garantiscono la stabilità dell’universo e le qualità che le vengono riconosciute, saggezza e longevità, sono quelle che reggono il mondo. La tartaruga-serpente nera è simbolo del Nord e dell’inverno; è talvolta denominata “guerriero scuro” in quanto porta, come il soldato, l’armatura. Si oppone, in quanto tale, all’uccello rosso fuoco (emblema del Sud e dell’estate). Abbiamo poi animali che hanno un ruolo nell’astrologia cinese: il gruppo di otto formato da cavallo, capra, fagiano, drago, gallo, maiale, cane e vacca e il gruppo di emblemi che scandiscono il ciclo di dodici anni: topo, bue, tigre, lepre (talvolta sostituita dal gatto), drago, serpente, cavallo, capra, scimmia, gallo, cane e maiale. Altri animali simbolici si trovano infine nelle sepolture, in certi usi militari, negli strumenti musicali, nelle insegne di alcune categorie di persone (gli uccelli, per esempio, per i funzionari), nei sacrifici, nei regali cerimoniali.
I VEGETALI Rispetto alla fauna, la flora simbolica appare più tardi, nel periodo dei Regni combattenti, verso la metà del v secolo a.C. I fiori e i frutti fanno spesso da attributo alle divinità. Nella letteratura, sono usati per indicare, metaforicamente, le ragazze e le donne belle. Non si tratta tuttavia di semplici figure retoriche, poiché l’uso affonda le sue radici in una cultura nella quale il mondo femminile è legato, più di quello maschile, alla flora: alle donne, per esempio, erano riservate le offerte floreali ed esistono tradizioni secondo le quali ogni donna avrebbe un “doppio” in forma di pianta. L’albero, da parte sua, è paragonato alla famiglia e alla società. Gli alberi sono piantati accanto ai luoghi religiosamente significativi (per esempio le tombe); il loro legno e i loro frutti erano usati talvolta per i rituali; alcuni di essi erano considerati sacri e li si riteneva abitati da geni benefici collegati, innanzitutto, al sole: i dieci soli della mitologia cinese (nove dei quali sono abbattuti dall’arciere Yi, che salva così il mondo dalla siccità) si trovavano su un gelso cavo situato in un’isola del Mare dell’Est; il sole, a metà del suo cammino, si elevava su un albero, che, posto tra cielo e terra, a mezzogiorno non proiettava ombra e per il quale salivano e scendevano i sovrani, come da una scala che collegasse il mondo terrestre e quello celeste. Gli alberi sono associati, poi, alle colline sacre. La Collina del Suolo era, nell’età del bronzo, l’altare consacrato alla divinità protet-
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10. Paesaggio vegetale nei giardini imperiali, Pechino.
11. Piatto con disegno di una melagrana e di una pesca, fattura moderna proveniente dalla Cina settentrionale.
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trice della circoscrizione: si trattava di un piccolo rilievo rotondo con un albero (forse un pino) al centro. Più tardi, all’epoca Tcheu, sulla collina centrale, quella del sovrano, era piantato un pino; su quelle dei feudatari del quadrante orientale un cipresso o una tuia; su quelle occidentali un castagno; su quelle settentrionali un’acacia e su quelle meridionali una catalpa. Oltre a un legame con lo spazio, la flora ne ha uno con il tempo. Alle stagioni sono correlate quattro piante: il prugno selvatico (e talvolta il bambù) all’inverno; la peonia (talvolta l’iris e la magnolia) alla primavera; il loto all’estate; il crisantemo, che resiste al primo gelo, all’autunno. Anche le dodici lunazioni annuali hanno altrettanti simboli vegetali e certe offerte floreali erano fatte in occasione di feste. Per le celebrazioni del Nuovo Anno, venivano donati fiori in boccio, simbolo di rinnovamento, che sarebbero stati di buon augurio se fossero sbocciati presso chi li aveva ricevuti. Si offrivano specialmente rami di prugno e di pesco, ma anche frutti rotondi (specialmente arance) e arachidi. Alcuni fiori sono considerati benaugurali: il crisantemo, per la ragione che si è detto, il pesco, perché visto come indice di longevità, l’orchidea, segno di buona reputazione, il loto, simbolo del Buddha Amitabha; la pru-
12. Grande ramo di bambù, attribuito a Wen Tong, circa 1070, dinastia Song del Nord, inchiostro su seta, Taipei, Museo nazionale del Palazzo. Secondo la tradizione, Wen Tong avrebbe trascorso tutta la vita a contemplare e a dipingere bambù, seguendo, tramite queste sue attività, un cammino spirituale di progressivo perfezionamento. La canna del bambù, cava, è avvicinata al corpo dell’asceta, in cui i soffi interni possono comunicare. Nel bambù coincidono qualità opposte, come la leggerezza e la forza, la flessibilità e la resistenza. La pianta è vista come un simbolo del cammino di perfezionamento dell’uomo e il suo fruscio segnala, talvolta, il raggiungimento dell’illuminazione. .
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gna rappresenta la forza e la pera l’amicizia. In generale, i frutti che contengono molti semi evocano, in Cina, la discendenza numerosa: per esempio, il melograno, le cucurbitacee, il grappolo d’uva. Simboli di longevità sono, oltre al pesco già menzionato, i sempreverdi, specialmente il pino, il cipresso e il bambù. Va infine ricordata l’associazione di tre piante, chiamate “I Tre Amici” che resistono all’inverno: il primo è il pino, che, oltre a essere sempreverde, è simbolo dell’amicizia che continua nonostante le circostanze avverse, così come la roccia (che gli può fare da sostituta); il bambù, sempreverde, è simbolo di intelligenza vivace e carattere indomabile; il prugno, i cui fiori si aprono prima di quelli delle altre piante, quando non ha ancora foglie, è simbolo di rinnovamento e di eterna giovinezza.
13. Recitando una poesia sotto il pino, pittura di Ma Yuan, periodo Song. 95
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14. Tubo di giada, cultura neolitica di Liangzhu, circa 3200-2000 a.C., Taipei, Museo nazionale del Palazzo.
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15. La pagoda delle Sei Armonie (Liuheta), che si innalza lungo le rive del Quiantangijang, fu costruita nel 970 e utilizzata per proteggere la città dalle LA CINA maree e come faro. La pagoda, edificio buddhista, deriva, nella sua forma architettonica, dallo stupa.
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I MINERALI
La pietra è un materiale resistente, che sfida il tempo: è simbolo di lone, in quale quanto tale, puòdella essere sostituita, è visto, Figlio delgevità Cielo reca, contrappeso cintura, grani dicome giadasibianca; i al pino nel deidue “Tre Amici” che resistono all’inverno. È adPrefetti un simbolismo di dignitari gruppo delle prime classi giade verdi come le montagne; i Grandi questocome genere che si verosimilmente, il fatto che, adipartire da un giade verdastre l’acqua delconnette, mare, eccetera. Ma non si tratta soltanto segni gerarchici: altrove, si dice il colore delle certo momento, ogniinfatti testo che importante vienepietre incisoche suportava pietra. ilLa pietra rapFiglio delpresenta Cielo varia con lal’onestà stagione.e Gerarchie e ordine anche il rigore, sociali proprio per ladell’universo sua solidità e durezza. sono dunque espressi dalla simbologia minerale. La giada, in un Nei miti è spesso presente: ad esempio, si diceparticolare, che Yu il èGrande sia nato materialeda dalla simbologia complessa e dall’uso frequente: fi n dal Neolitico è nel culto le una pietra e che i geni si nutrano di pietre preziose. Anche presente nelle sepolture; risalgono invece alla dinastia Han Anteriori (che va pietre non mancano: si riteneva che alcune di esse fossero abitate da geni dal 206 a.C. all’8 d.C.) cadaveri ricoperti da armature composte di tessere di in alcuni luoghi dellaall’estremo Cina, si credeva che potessero favorire giada, chee,continuano – e portano – la tradizione di unire pezzi del le nascite. pietra” si usavano per favorire la pioggia ad alcune pietre materiale“Tamburi prezioso ai di corredi funerari. Si riteneva, probabilmente, che lee virtù erapotessero riconosciuta la virtù di proteggere i geni l’integrità. malvagi. della pietra trasmettersi al corpo del defuntocontro e mantenerne Nella giada concentrato lo yang, con le sue virtùemblemi: vivificatrici, e il corpo Le èpietre dure sono impiegate come il Libro dei degli Riti riporta che il ImmortaliFiglio era immaginato di questo materiale. Non ladella si considera del Cielo reca, quale contrappeso cintura,autoctona, grani di giada bianca; ma si ritiene che arrividelle dall’Occidente, luogogiade – anch’esso ricco dilerisonanze i dignitari prime duedal classi verdi come montagne; i Grandi simboliche – in cui il sole tramonta. Confucio ne fa la metafora del suo ideale Prefetti giade verdastre come l’acqua del mare, eccetera. Ma non si tratta di saggezza: come l’artigiano lavora la giada, la cesella e la leviga, così l’uomo di segni gerarchici: altrove, si dice infatti che colore delle piemigliora soltanto se stesso per ritrovare e far risaltare la virtù che possiede. Ma ilanche tre che Figliodadelquella Cieloconfuciana varia consilafastagione. Gerarchie sociali e nelle correnti di portava pensiero ildiverse riferimento alla ordine dell’universo sono dunque espressi simbologia minerale. La pietra: così Zhuangzi, da una prospettiva taoista, critica dalla il perfezionamento giada, in attraverso particolare, è un materiale dalla simbologia complessa morale perseguito i riti, le arti e lo studio perché, in questo modo, e dall’uso si perverte la naturalezza e laNeolitico spontaneità dell’uomo, come fa l’artigiano che invece alla frequente: fin dal è presente nelle sepolture; risalgono spezza la dinastia giada perHan fabbricare insegne di potere. Anteriori (che va dal 206 a.C. all’8 d.C.) cadaveri ricoperti da
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Pietre e rocce (nelle qu terra) evocano, a loro v sacri che caratterizzava particolarmente il culto a Est, la direzione dell’ posta al centro del mon Al simbolismo della mo frastagliate e di forma t Queste sono un motiv classica dell’arredo dei rilievi occidentali), sogg Attraverso le loro aspe interpretazioni divinat Maoshan sottolineano l grotte e percorsa da cav stesse una “camera vuo oggetti della quale si rip rappresentavano rilievi il ruolo di supporti per sia per gli effluvi che em di cui si è parlato e, dal rarefatta che si pensava sorgenti, le sue nubi, l
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armature composte di tessere di giada, che continuano – e portano all’estremo – la tradizione di unire pezzi del materiale prezioso ai corredi funerari. Si riteneva, probabilmente, che le virtù della pietra potessero trasmettersi al corpo del defunto e mantenerne l’integrità. Nella giada è concentrato lo yang, con le sue virtù vivificatrici, e il corpo degli Immortali era immaginato di questo materiale. Non la si considera autoctona, ma si ritiene che arrivi dall’Occidente, dal luogo – anch’esso ricco di risonanze simboliche – in cui il sole tramonta. Confucio ne fa la metafora del suo ideale di saggezza: come l’artigiano lavora la giada, la cesella e la leviga, così l’uomo migliora se stesso per ritrovare e far risaltare la virtù che possiede. Ma anche nelle correnti di pensiero diverse da quella confuciana si fa riferimento alla pietra: così Zhuangzi, da una prospettiva taoista, critica il perfezionamento morale perseguito attraverso i riti, le arti e lo studio perché, in questo modo, si perverte la naturalezza e la spontaneità dell’uomo, come fa l’artigiano che spezza la giada per fabbricare insegne di potere. Pietre e rocce (nelle quali era vista l’ossatura, lo scheletro, la parte stabile della terra) evocano, a loro volta, le montagne. Già si sono ricordati i cinque monti sacri che caratterizzavano lo spazio terrestre. Il Primo Imperatore sviluppò particolarmente il culto delle montagne e offrì sacrifici al monte Taishan, posto a Est, la direzione dell’alba. Gli Immortali taoisti si recavano sulla montagna posta al centro del mondo e gli asceti si ritiravano sulle montagne e nelle grotte. Al simbolismo della montagna se ne associa sovente un altro: quello delle rocce frastagliate e di forma tormentata, ric-
16. La catena degli Helanshan, Ningxia. 17. Alla ricerca della via sulla montagna in autunno, attribuito a Juran, x secolo, Inchiostro e colori su seta, Taipei, Museo nazionale del Palazzo. 97
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20. Retro di uno specchio con draghi conservato al museo di Shanghai.
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Disco di giada, neolitica 18.21. Bruciaprofumi, dettocultura Boshanlu, di Liangzhu, circa del 3200-2000 scoperto nella tomba principe Liua.C., Taipei, Museo nazionale del Palazzo. Sheng a Mancheng (Hebei), dinastia Entrato Han, finecollezione secolo II a.C., bronzo con nella dell’imperatore Qianlong incrostazioni d’oro emetà d’argento, Museo (nella seconda del xviii secolo), Provinciale dello Hebei. è stato arricchito delle iscrizioni.
19. Statuetta del periodo Han (II secolo d.C.) conservata nel Museo Provinciale del Sichuan a Chengdu. La figura tiene in mano uno specchio. 20. Retro di uno specchio con draghi conservato al museo di Shangai.
21. Disco di giada, cultura neolitica di Liangzhu, circa 3200-2000 a.C., Taipei, Museo nazionale del Palazzo. Entrato nella collezione dell’imperatore Qian-long (nella seconda metà del secolo XVIII), è stato arricchito delle iscrizioni. 18
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taoista come sintesi delle forze dell’universo. Con il Buddhismo, il suo carattere di pilastro cosmico è enfatizzato. Va fatto, infine, un cenno all’acqua, che, con la suadifluidità e ilesuo scorrere attraverso le forme, suggerisce caratteristiche dellofrequente che picchi voragini, erose e scoscese. Questelesono un motivo stesso Tao.
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18. Bruciaprofumi, detto Boshanlu, scoperto nella tomba del principe 98 Liu Sheng a Mancheng (Hebei), dinastia Han, fine secolo ii a.C., bronzo con incrostazioni d’oro e d’argento, Museo Provinciale dello Hebei. 02_Simboli_p65_103.indd 98-99 98 SIMBOLI_001-151_27-03-18.indd
19. Statuetta del periodo Han (ii secolo d.C.) conservata nel Museo Provinciale del Sichuan a Chengdu. La figura tiene in mano uno specchio.
nell’iconografia e anche una componente classica dell’arredo dei giardini, dove evocano le isole del Mare dell’Est (o i rilievi occidentali), soggiorno I MANUFATTI degli immortali, detti, appunto, uomini-montagna. Attraverso le loro aspeTrapassavano i manufatti verosimilmente simbolici di epoca neolitica, almeno due sono rità, i soffi che costituivano l’oggetto delle interpretazioni divida menzionare: uno a forma di disco e uno a forma di tubo. Ritrovati vicino ai v-vi secolo d.C., i maestri Maoshan sottolineano natorie dei geomanti. Nel defunti, questi oggetti sono stati interpretati in vario modo, senza che si possa la giungere corrispondenza la montagna traforata grotte ile percorsa a stabilirnesimbolica con certezzafra il signifi cato. All’inizio dell’erada imperiale, forato (bi)testa fu associato al cultoal delcentro cielo; il tubo allaritenevano terra. dadisco cavità e la dell’uomo, della(cong) quale stesse una Dopo l’epoca arcaica troviamo, nelle tombe, specchi in bronzo. Si riteneva che di ogget“camera vuota” in cui era compendiato l’universo. Una tipologia gli specchi, oltre a riflettere la luce, potessero concentrarla e conservarla e li si ti della quale si riporta qui un esempio è costituita dai brucia-profumi che utilizzava nei sacrifici per accendere il fuoco; se alcuni di essi erano collegati rappresentavano e avevano, verosimilmente, alla luce solare, altririlievi lo eranomontagnosi all’acqua e allaimpervi rugiada e servivano alle abluzioni rituali.il Potevano apparire per le divinità e allontanare i geni maligni. Alcuni anche ruolo difar supporti la meditazione. erano costruiti sottile permette di farche trasparire, Il specchi bruciaprofumi, sia con perun la materiale sua forma, siache per gli effluvi emetteva, evosulla faccia rivolta al sole, le decorazioni di quella nascosta. cava, da un lato, i vari significati simbolici di cui si è parlato e, dall’altro, i Tra i numerosissimi manufatti cui è attribuito il valore di simboli, di emblemi luoghi paradisiaci degli immortali l’atmosfera rarefatta che si e di attributi, ci si può limitare a segnalaree due categorie. La prima è quella deipensava li caratteri che identifi cano gli Ottocon Immortali taoisti: il ventaglio foglie di palma circondasse. La montagna, le sue pietre, le suedisorgenti, le sue nubi, lo scacciamosche); la sciabola zucca speculazione con doppio rigonfi amento;come le le (o sue grotte e i suoi alberi, magica; è vistaladalla taoista sintecastagnette; il tubo di bambù e le verghe (forse una faretra con le frecce), il si fldelle forze dell’universo. Con il Buddhismo, il suo carattere di pilastro auto, il cesto di fiori, la scopa (poi divenuta un gambo di loto con sopra i cosmico è enfatizzato. grani). La seconda è la serie dei simboli sociali collegati ai letterati, la classe cinese aun partire dalla prima dinastia Trafluidità gli oggetti li scorrere Vadirigente fatto, infine, cenno all’acqua, che,imperiale. con la sua e ilchesuo rappresentano, si possono citare l’inchiostro, la carta, il pennello, il calamaio. attraverso le forme, suggerisce le caratteristiche dello stesso Tao.
I MANUFATTI Tra i manufatti verosimilmente simbolici di epoca neolitica, almeno due sono da menzionare: uno a forma di disco e uno a forma di tubo. Ritro28/03/18 17:09 vati vicino ai defunti, questi oggetti sono stati interpretati in vario modo, senza che si possa giungere a stabilirne con certezza il significato. All’inizio dell’era imperiale, il disco forato (bi) fu associato al culto del cielo; il tubo (cong) alla terra.
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Dopo l’epoca arcaica troviamo, nelle tombe, specchi in bronzo. Si riteneva che gli specchi, oltre a riflettere la luce, potessero concentrarla e conservarla e li si utilizzava nei sacrifici persegni accendere il fuoco; se alcuni di Gli ideogrammi hanno la loro origine nei divinatori sui quali gli indovini essi erano collegati alla luce solare, altri lo erano all’acqua e alla rugiada e esercitavano la loro arte. Il termine wen indicava, appunto, i motivi che si servivano alle abluzioni rituali. Potevano far apparire le divinità e allontaproducevano, per esempio, sulle ossa e che andavano interpretati: con la stessa nare i geni maligni. Alcuni specchi erano costruiti con un materiale sottile parola vengono poi designati i segni della scrittura. Alla fine della dinastia che permette di far trasparire, sulla faccia rivolta al sole, le decorazioni di degli Shang, questi vengono stilizzati e ognuno di essi è messo in rapporto con quella nascosta. una parola. Il carattere sacro e potente degli ideogrammi, tuttavia, permane: Tra i numerosissimi manufatti cui è attribuito il valore di simboli, di emnella scrittura, in qualche modo, si esprimono la struttura e il movimento del blemi e di attributi, ci si può limitare a segnalare due categorie. La prima è mondo e ad essa, anche nelle successive fasi della civiltà cinese, non verrà mai quella dei caratteri che identificano gli Otto Immortali taoisti: il ventaglio riconosciuta una funzione meramente pratica e utilitaria. di foglie di palma (o lo scacciamosche); la sciabola magica; la zucca con doppio rigonfiamento; le castagnette; il tubo di bambù e le verghe (forse YIN E YANG una faretra con le frecce), il flauto, il cesto di fiori, la scopa (poi divenuta un gambo di loto con sopra i grani). La seconda è la serie dei simboli Lo yin ecollegati lo yangairappresentano i due principi opposti dalladalla cui dialettica sociali letterati, la classe dirigente cinese a partire prima ildinastia cosmo imperiale. cinese, considerato in continuo mutamento, è caratterizzato: Tra gli oggetti che li rappresentano, si possono citare il primo è il femminile, il freddo, il negativo, l’inattivo, la l’inchiostro, la carta, ill’oscurità, pennello,l’umido, il calamaio. contrazione; il secondo è il maschile, il luminoso, il secco, il caldo, il positivo, l’attivo, l’espansione. Queste idee, tipiche della tradizione cinese più antica, vengono teorizzate dalla Scuola dello yin/yang e dei Cinque Elementi,
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LA SCRITTURA Gli ideogrammi hanno la loro origine nei segni divinatori sui quali gli indovini esercitavano la loro arte. Il termine wen indicava, appunto, i motivi che si producevano, per esempio, sulle ossa e che andavano interpretati: con la stessa parola vengono poi designati i segni della scrittura. Alla fine della dinastia degli Shang, questi vengono stilizzati e ognuno di essi è messo in rapporto con una parola. Il carattere sacro e potente degli ideogrammi, tuttavia, permane: nella scrittura, in qualche modo, si esprimono la struttura e il movimento del mondo e ad essa, anche nelle successive fasi della civiltà cinese, non verrà mai riconosciuta una funzione meramente pratica e utilitaria. 22. Ricostruzione di un carapace di tartaruga quale appare dopo il suo uso a scopo divinatorio. Le scritte sono tracciate dal sacerdote per ricordare le questioni poste e le risposte ottenute. I segni sul carapace costituiscono le testimonianze della prima scrittura cinese.
23. Impronta di mano con ideogramma, periodo mongolo, incisione, Monti Yinshan, Mongolia interna.
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24. Caos primordiale, opera di Zhu Derun, 1349, dinastia Yuan, inchiostro su carta, Museo di Shanghai. Il cerchio indica lo “hunlun”, che è lo stato dell’universo prima che nascessero le forme delle cose. Il pino, sempreverde, evoca la longevità. 24
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25. Disegno in silhouette del drappo funerario della marchesa di Dai, scoperto nella tomba Han n. 1 di Mawangdui, Changsha, dinastia Han Anteriori, poco dopo il 168 a.C., inchiostro e colori su seta, Changsha, Museo Provinciale dello Hunan.
Lo yin e lo yang rappresentano i due principi opposti dalla cui dialettica il cosmo cinese, considerato in continuo mutamento, è caratterizzato: il primo è il femminile, l’oscurità, l’umido, il freddo, il negativo, l’inattivo, la contrazione; il secondo è il maschile, il luminoso, il secco, il caldo, il positivo, l’attivo, l’espansione. Queste idee, tipiche della tradizione cinese più antica, vengono teorizzate dalla Scuola dello yin/yang e dei Cinque Elementi, principalmente nella prima metà del iii secolo a.C. I due principi non sono, di per sé, simboli, ma sono rappresentati attraverso espressioni simboliche: nelle tombe, per esempio, il sole e il corvo nero (yang) sono contrapposti alla luna con la lepre e il rospo (yin); il Primo Augusto e sua moglie diventano i simboli dell’unione fecondante dei due principi. La tomba stessa, per il fatto di essere fredda, oscura, umida, era considerata yin e aveva dunque bisogno di essere completata tramite raffigurazioni yang: specchi e lampade, altri oggetti brillanti o luminosi, l’uccello rosso fuoco. La simbologia dei due principi è, comunque, ricchissima: per esempio, è frequente vedere, più tardi, lo yin rappresentato dalla tigre che produce il vento e lo yang dal drago che domina le acque e le nubi. A Fuxi, il Primo Augusto Sovrano, re leggendario collocato fra il 2852 e il 2737, è attribuita l’invenzione degli otto trigrammi – i segni divinatori corrispondenti a tutte le possibili combinazioni di una linea intera e una linea spezzata triplicate – dei quali tratta il Classico delle Mutazioni. Sono le espressioni grafiche delle forze dell’universo, che hanno origine, in realtà, nell’xi secolo, in sostituzione delle pratiche divinatorie che consistevano nella lettura delle ossa e dei carapaci delle tartarughe. Esprimono i due principi dello yin e dello yang.
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26. Lo yang può essere rappresentato da una retta intera; lo yin da una retta divisa in due parti; attraverso la combinazione delle linee intere e spezzate si formano otto trigrammi e 64 esagrammi, che simboleggiano la totalità del reale. Il Classico delle mutazioni (Yijing) è un manuale di divinazione che si basa su questi principi.
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27. Pannello in legno laccato con il Taiji, simbolo della polarità yin-yang. 28. Schema classico yin-yang.
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1. Hokusai, Dio del tuono, 1847, dipinto su carta, Washington, Freer Gallery.
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LO SHINTOISMO La religione giapponese è denominata Shintoismo, dalla parola shinto, che significa «via degli dèi». Essa non ci si presenta, per così dire, allo stato puro: anche nella configurazione più antica che possiamo darne è già permeata dall’influenza del taoismo; si incontra poi con il buddhismo – dando luogo a scambi reciproci – ed è condizionata dal confucianesimo. È dunque lecito parlare di più religioni giapponesi, non di una sola. Tuttavia, è possibile notare che ciò che a noi pare eterogeneo è vissuto dai giapponesi all’interno di una esperienza religiosa unitaria e che le credenze diffusesi in Giappone, al di là della diversa provenienza – e, in particolare, dell’influenza cinese – assumono caratteri propri, esprimendosi in forme e secondo modi relativamente autonomi. I simboli, in questo quadro, non costituiscono un’eccezione. Essi, anzi, acquistano un ruolo particolarmente importante proprio per la fisionomia peculiare della religione giapponese. Gli dèi, chiamati kami, sono infatti, nel sistema shintoista, considerati invisibili all’uomo. Il termine kami deriva, secondo alcuni, dalla parola usata a designare lo specchio; per altri è legato all’altezza; certi studiosi, invece, ritengono che la sua etimologia vada cercata nel vocabolo karuri-mi, che significa, appunto, “corpo nascosto”. Comunque sia, il kami non è rappresentato, se non in rari casi: lo sarà soltanto quando verrà accostato al Buddha e i giapponesi adotteranno l’iconografia buddhista per dare un corpo ai loro dèi. Ora, è proprio in mancanza di figurazioni antropomorfe che diventano fondamentali i segni, naturali o artificiali, attraverso i quali le divinità si manifestano.
Montagna
Mare
Albero
IL LINGUAGGIO DELLA NATURA La natura non è, per i giapponesi, un’entità astratta e unitaria, come siamo abituati a considerarla influenzati dalla tradizione – anche filosofica – in cui siamo inseriti: è fatta di pietre, monti, piante, animali concreti e molteplici. Non è esterna agli uomini, ma li comprende alla stessa stregua degli altri enti. Non è, infine, una realtà subordinata a esseri superiori che l’hanno creata, ma è essa stessa divina. Non è, dunque, muta, non è mai inerte, è sempre viva: ogni sua parte è pervasa da divinità che la rendono espressiva. Il Nihongi (Cronache [dei fatti] del Giappone), del 720 d.C., evoca un tempo in cui «le erbe e gli alberi parlavano» e un brano di un’altra opera dice: «anche le rocce, gli alberi, la schiuma delle verdi acque discutono». Ogni elemento naturale, con la sua bellezza, è quindi espressione di qualcos’altro, ma alcuni oggetti diventano più particolarmente portatori di un valore religioso. Si tratta di divinità, di mezzi che i kami utilizzano per manifestarsi oppure delle loro abitazioni? Tutte e tre le possibilità risultano, a seconda dei casi, corrispondere al vero, sicché è difficile dire quale sia la più aderente alle credenze giapponesi, oppure stabilire un loro ordine di
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2. Paesaggio di rocce e acqua nel giardino giapponese del Principato di Monaco, costruito dall’architetto paesaggista Yasuo Beppu secondo principi shintoisti. Più componenti stanno all’origine del giardino giapponese. La prima è la pietra, il cui valore sacrale è già stato sottolineato. Oltre alle montagne e alle rocce, questo valore è riconosciuto anche alle pietre più o meno lavorate dall’uomo o, comunque, disposte dagli uomini secondo un certo ordine. Una seconda componente è costituita dall’organizzazione spaziale delle risaie, legata alla forma del quadrato, e alla definizione dei luoghi sacri, recinti o santuari. Sull’arte dei giardini influisce poi la concezione, di derivazione buddhista, secondo cui il mondo sarebbe un disco rotondo, con al centro una montagna sacra di nome Shumi: il giardino del “padiglione d’oro” a Kyoto segue questo modello. Dalla mitologia taoista cinese viene poi l’idea dell’esistenza di un’“isola” dei beati, in cui gli uomini sono immortali e vivono in amicizia: sono spesso presenti nei giardini giapponesi pietre, isole o monti che la simboleggiano. Infine, va citata la regione della purezza chiamata jodo che, secondo il buddhismo mahayana, costituisce il paradiso del bodhisattva Amida.
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successione o di sviluppo storico. Rimane il fatto che la natura non rimanda semplicemente a se stessa, ma a qualcosa di divino che la supera, che si nasconde dietro di lei o che, per suo tramite, si manifesta: in altri termini, assume un valore simbolico. La pietra evoca – forse per la sua stabilità, la sua solidità, la sua immutabilità – caratteristiche divine. Una roccia, che secondo i miti sbarra l’entrata agli inferi, è chiamata “grande divinità”. Le pietre servono anche come limiti, come segni di confine: il loro uso, apparentemente profano, sembra sottintendere in realtà la volontà di rendere sacra la divisione del territorio. Ancora, hanno una funzione all’interno delle pratiche divinatorie. Come le rocce, anche le montagne sono sacre. I giapponesi ne distinguono diversi tipi. Alcune, come il Miwayama, vengono considerate «corpo di una divinità» e sono così oggetto diretto di culto; in altre si ritiene che i kami – in particolare quelli che distribuiscono l’acqua – abitino. Quest’ultima circostanza si spiega, almeno in parte, con il fatto che l’acqua utilizzata per coltivare il riso viene dalle montagne. Il fattore di ordine economico non esclude comunque altri elementi, fra cui primario è quello dell’imponenza e della grandiosità delle montagne. La loro venerazione si sviluppa, in par-
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ticolar modo, con lo shugendo, pratica religiosa che si esprime nelle forme del sincretismo shinto-buddhista. Ma qual è il significato simbolico della montagna? Semplificando una situazione in realtà assai più articolata si può dire che, nella geografia sacra giapponese, accanto al territorio del Giappone siano poste due altre regioni: quella celeste – dimora degli dèi sovrani – e quella dell’aldilà, che comprende il mondo sotterraneo e quello marino. La montagna è l’asse che lega queste tre regioni: la sua altezza la rende solidale con il cielo, dal quale le divinità scendono sulle vette; le grotte, gli anfratti, le sorgenti d’acqua ne fanno un passaggio per i luoghi che stanno sottoterra e per il mare. Lo spazio viene organizzato opponendo ogni volta un qui e un altrove, una identità e una alterità: rispetto alle dimensioni “altre” dell’esistenza – la morte, il cielo – la montagna assume il ruolo di mediatrice. Se i valori economici influiscono sulle scelte simboliche giapponesi, è evidente che un ruolo di primo piano dovranno avere le acque. Il mare costituisce, infatti, una delle maggiori fonti di sostentamento del Giappone, attraverso la pesca; l’acqua piovana e quella di fiumi, ruscelli e sorgenti permettono la coltivazione del riso. Anche le acque, dunque, sono considerate
3. Hokusai, Il monte Fuji e ciliegi in fiore, Surimono, 1800-1805 circa, Amsterdam, Rijksmuseum. «Da quando il cielo e la terra si sono separati la vetta del monte Fuji di Suruga si leva alta e nobile come un dio. Quando lo contemplo attraverso la distesa celeste nasconde i raggi del sole che attraversano il cielo, lo splendore della luna brillante non si lascia scorgere, le bianche nubi sono ritardate nella loro corsa e la neve cade senza sosta. Vorrei celebrarla per sempre, l’alta vetta del monte Fuji» (poema di Yamabe no sukune Akahito, viii secolo).
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4. Hokusai, La grande onda a Kanagawa, stampa della serie Fugaku sanjurokkei, Le trentasei vedute del monte Fuji, 1830 circa, Parigi, Musée Guimet.
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sedi divine e la vastità del mare ha fatto pensare al mondo dell’oltretomba. È forse possibile ritenere che, mano a mano che i giapponesi passavano dalle coste all’interno del paese, la sede dell’aldilà sia stata sempre più identificata nella montagna. In ogni caso, il mare rimane il luogo dell’alterità. Gli alberi, soprattutto quelli grandi o di forma particolare, sono sacri in quanto dimore delle divinità. Sono perciò gravati da interdetti e non tutti e in ogni circostanza possono toccarli. I cedri che si trovano ai piedi del monte Miwa, i pini dei santuari di Oharano e Kitano sono altrettanti esempi di alberi sacri. L’abbattimento di un albero è visto come strumento rituale per richiamare una divinità. È d’uso festeggiare il nuovo anno appendendo rami di pino e bambù ai lati della soglia oppure sul pilastro centrale della casa: attraverso l’albero, infatti, gli dèi possono entrare; inoltre, pino e bambù, sempreverdi, sono simboli di longevità. Rimane da parlare degli animali: anche nel loro caso non è chiaro se li si consideri sacri in quanto tali, in quanto – talvolta – manifestazioni delle divinità oppure in quanto loro messaggeri. In ogni caso, non sono oggetto diretto di culto, né sono loro dedicati santuari. Il topo è sotterraneo, messaggero degli inferi; tigre, serpente e lupo sono detti kami; cervi, scimmie, piccioni, aironi bianchi, tartarughe, corvi sono sacri a certi dèi; alcune divinità si incarnano in animali come il serpente, il drago, il cormorano, il cervo bianco, la volpe. Il più ricco di valori religiosi è certamente il serpente, legato al drago. I suoi significati, in Giappone come in Cina, sono molteplici e non è qui il caso di riprenderne la descrizione. Essi trovano comunque un compendio nell’idea che il serpente indichi la capacità di uscire dalla cultura, di regredire a uno
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5 Bosco di bambù. Il bambù, sempreverde, è simbolo di longevità. Il fusto del bambù nella tradizione shintoista è simbolo perfetto della vita umana: cresce tra due nodi, tra due punti di inizio e fine. Prima stanno le generazioni passate, dopo quelle future e il singolo si colloca in una linea verticale di continuità.
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stato embrionale, di rinnovarsi, di partecipare a un ordine superiore in cui la morte non costituisce la negazione, ma la condizione stessa della vita.
6. Pianta di cedro rosso. Il cedro rosso (Cryptomeria japonica) forma in Giappone vaste foreste. Il suo legno è stato usato per gli edifici principali del santuario di Ise.
SPECCHI, SPADE E GIOIELLI La più antica fonte per la ricostruzione della mitologia giapponese, il Kojiki (Racconto dei fatti del passato), fu redatta nel 712 d.C. per volontà dell’imperatrice Genmyo, che intendeva mettere ordine fra vari racconti tramandati da casate diverse. Il suo scopo era di carattere politico: si trattava di unificare le tradizioni del Giappone, per fondare su di esse il potere del so109
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7. Specchio in bronzo del 300 a.C. circa; sempre dell’età del bronzo, collana con pietre ad artiglio e spada di ferro a sette punte. I tre oggetti sono simboli imperiali. Occorre notare che i tre oggetti paiono avere, nel sistema religioso giapponese, statuti diversi. Specchio e spada sono considerati come shintai, cioè “corpi divini”: ad essi si deve rispetto e reverenza e vanno conservati in uno spazio sacro, al riparo dall’impurità. Il gioiello, invece, è comparabile a una reliquia: è un oggetto sacro, ma può stare anche in una casa privata. Shintai possono essere, inoltre, una tavoletta con iscritto il nome del dio, il ramoscello di un albero sacro, un cuscino, un vaso, una fila di perle, un albero, una pietra ecc. Ognuno si riferisce a una divinità, ma lo stesso dio può essere rappresentato da più oggetti diversi – a seconda delle località in cui si trova – e lo stesso oggetto può riferirsi, in luoghi differenti, a kami differenti. Si ritiene che l’uso di costruire questo genere di simboli risalga a una fase secondaria della religione shintoista: a un momento in cui certi kami assunsero un ruolo superiore a quello locale e il loro supporto naturale si rivelò insufficiente. Altri oggetti simbolici sono utilizzati per i loro poteri magici come il fallo o certe tegole con impresso il simbolo dell’acqua, che servono a proteggere la casa dal fuoco.
vrano. Il potere imperiale è espresso simbolicamente da alcuni oggetti che Amaterasu, dea solare, consegna a suo nipote, progenitore degli imperatori, nel momento in cui gli concede la sovranità del paese. Questi oggetti, simboli tradizionali del Giappone che si trovano spesso legati al culto divino, costituiranno la garanzia e l’espressione stessa della regalità. Il primo di essi è uno specchio. Quando Amaterasu, adirata con il dio Susanoo per la sua condotta violenta, si nasconde nella grotta celeste, il mondo, non più rischiarato dal sole, piomba nell’oscurità. Gli dèi compiono allora una pratica divinatoria, fabbricano uno specchio, uniscono insieme dei gioielli e li attaccano, con offerte di tessuto, ai rami di un albero sacro. Un primo tentativo di forgiare lo specchio dà risultati non soddisfacenti; il secondo riesce perfettamente. Il primo specchio non viene tuttavia distrutto, ma conservato e venerato dagli uomini; l’altro, secondo i commentatori, sarebbe quello poi consegnato dalla dea a suo nipote. A questo punto, una divinità provoca il riso di tutti gli dèi: un riso talmente fragoroso da far sì che Amaterasu, incuriosita, guardi fuori e veda così la sua propria luce riflessa nello specchio. Nel frattempo, un dio chiude l’ingresso della grotta con una grande pietra e lo lega con una fune di paglia. Questo mito fonda diverse pratiche rituali, fra le quali, appunto, l’uso dello specchio. Il rapporto fra specchio e sole è evidente: proprio per le sue caratteristiche fisiche, il primo rimanda simbolicamente al secondo. Al momento di consegnare lo specchio al nipote, Amaterasu dice: «Quando guarderai questo specchio, fallo come se vedessi me». Un altro oggetto consegnato da Amaterasu a suo nipote è la spada, collegata, anch’essa in maniera piuttosto naturale e diretta, all’esercizio della forza e del potere. Va però aggiunto che la spada, secondo la tradizione, “falcia l’erba” e che si può associare, ancora, al fallo. Il terzo simbolo della sovranità è un gioiello, che i giapponesi rappresentano come oggetto a forma di mezza luna. Nel mito di Amaterasu, come si è visto, anche i gioielli sono presenti, come offerte alla divinità: il mito fonda, quindi, tanto l’uso rituale degli specchi quanto quello dei gioielli. Nell’ultimo periodo della preistoria giapponese, detto epoca dei Kofun (tumuli funerari: 300 a.C.-300 d.C. circa), diventano frequenti, nei corredi funerari, gioielli curvi, perforati ad una estremità, talvolta da soli, talaltra uniti insieme con altri gioielli più piccoli. Il termine che li indica, tama, vuol dire anche “anima”, ma non è dato sapere esattamente che cosa significassero. Li si usava, comunque, all’interno di riti finalizzati a propiziare la fertilità. I tre tipi di oggetti si trovano associati in alcune tombe di nobili risalenti all’inizio dell’epoca dei Kofun e al periodo precedente (iv secolo): essi dovevano quindi possedere, oltre a un significato particolare-presi singolarmente, anche un senso se messi insieme. Per quanto non si sappia con sicurezza quale sia questo senso, è certo che, in epoca storica, essi costituiscono i segni tangibili della sovranità imperiale e come tali sono conservati con la massima cura e fatti oggetto di particolare venerazione. La speculazione teologica si occuperà anche del loro significato vedendovi, per esempio, la rappresentazione delle virtù (sincerità, carità e giustizia).
MANUFATTI SIMBOLICI È frequente vedere, nel paesaggio giapponese, strutture costituite da due pali verticali collegati, nella loro parte alta, da un terzo asse orizzontale, che ne reggono un quarto, sempre orizzontale, a formare una specie di porta: il torii. La forma descritta, che è la più semplice e la più antica, può essere poi
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in vario modo elaborata, tanto che si distinguono diversi stili; il materiale è solitamente il legno, ma, talvolta, anche la pietra. Non si trovano oggetti simili in altre tradizioni religiose prossime, sicché si ritiene che siano indigeni del Giappone. Il torii è posto in prossimità di uno spazio sacro, di un luogo di culto, di un altare, di cui segnala la presenza. Non si conosce l’esatta derivazione del termine, né si è in grado di definirne il senso preciso: esso va collegato forse al sanscrito toran, che vuol dire “portale”; il suo carattere di via d’accesso, di cancello, è, comunque, chiaro. In quanto tale, il torii serve a indicare il passaggio verso una dimensione che sta al di là dell’ordinario: prossimo ad una montagna sacra o a un bosco sacro, simboleggia la porta per la quale si accede in un territorio religiosamente qualificato. Il fatto che, in realtà, non abbia alcun significato funzionale, perché non è posto lungo un recinto, non apre – né chiude – un muro, non fa parte della struttura architettonica di un tempio, rafforza il suo carattere simbolico. Dall’entrata del recinto sacro fino a quella del santuario si trovano tre torii, a segnalare che l’accostamento dell’uomo alla sfera divina avviene per gradi. Un secondo elemento architettonico che assume valore simbolico è il pilastro. Le due divinità creatrici Izanagi e Izanami, dopo aver fatto nascere la prima isola, vi discendono e vi erigono un pilastro celeste e un edificio; quindi girano intorno alla colonna e si uniscono. Il palo ha senza dubbio i
8. Torii all’entrata di un santuario Meiji a Tokio. Anche il torii, come altri simboli, trova il proprio mito di fondazione nel racconto del ritiro di Amaterasu nella grotta: quando gli dèi decidono di attirarla fuori, uno di loro, l’autore dell’intero piano, raccoglie tutti gli uccelli canterini facendo sì che emettano il loro verso l’uno in direzione dell’altro. Questi dovevano essere disposti, secondo l’immagine che gli ascoltatori della storia si facevano, su cancelli che si trovavano di fronte alla grotta. Ma torii significa proprio, secondo l’etimologia popolare, “appollatoio”, luogo in cui gli uccelli si posano. Si tratta dei galli, il cui canto è collegato al levare del sole. Alcuni studiosi ritengono che il torii sia di derivazione cinese; altri ne considerano, invece, la struttura propria della tradizione giapponese e limitano l’influenza della Cina ai dettagli stilistici.
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9. Due scogli nella baia di Ise, non distante da Nara, sono collegati da una corda. Dopo che Amaterasu uscì dalla caverna, un dio, per evitare che vi rientrasse, sigillò l’entrata con una grande pietra e la fissò tramite una fune di paglia. Questo dato fa allusione a una tradizione giapponese connessa a un simbolo: l’uso di legare un oggetto, segnandone, in questo modo, la sacralità; così una corda che leghi due rocce indica che queste sono sacre. Il nodo può significare una parte delle proprie forze o della propria anima che, così fissate, sono offerte agli dèi, oppure può essere lo strumento che impedisce a uno spirito malevolo di nuocere o, ancora, può servire ad associare due cose. Quando un uomo parte, può essere la garanzia del suo ritorno. Nella baia di Ise la corda, che è rinnovata ogni anno, simboleggia l’unione di Izanami e Izanagi. Su una delle rocce si trova un torii. 10. Ponte, giardino shintoista del Principato di Monaco. Il ponte è talvolta simbolo del legame tra umano e divino.
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caratteri di un asse cosmico ed è un motivo diffuso nella Cina meridionale e nel Sud-est asiatico. Anche l’atto di girarvi intorno, poi, ha paralleli in altre culture, tra le quali quella indiana. Nei miti, dèi e sovrani chiedono che i loro palazzi siano costruiti in modo che le colonne siano saldamente connesse alla roccia sotterranea e che i tetti si levino al cielo. Il palo, quindi, assume il senso di un tramite fra il mondo sotterraneo, la terra e il mondo celeste. Prima di compiere il loro atto sessuale, i due dèi avevano formato il primo territorio, inserendo una lancia ornata di gioielli nel mare e rimestando. Quando estrassero la lancia, l’acqua che ne colò diede luogo all’isola. Alla lancia è stato dato un valore fallico; ma, anche in questo caso, l’idea di un centro intorno a cui lo spazio fluido si coagula e la terra assume una forma rimanda al concetto di asse cosmico. Molti simboli fallici si ritrovano nelle tradizioni giapponesi: caratteristici sono, in epoca neolitica, oggetti in pietra di forma cilindrica, detti sekibo, che possono essere interpretati in questo senso, sebbene sia possibile considerarli segni di autorità oppure armi; esistono poi immagini di divinità, amuleti e pietre di confine foggiati a forma di fallo. Anche il ponte è spesso usato simbolicamente: Izanagi e Izanami, prima di far nascere l’isola, si trovano su un ponte che galleggia sulle acque. Diversi studiosi si sono posti il problema di stabilire che cosa sia: una barca, la via lattea, l’arcobaleno. In ogni caso, si tratta di un tramite fra la terra e il cielo. Talvolta compare anche, nei miti, un ponte di pietra che unisce il mondo celeste a quello dei mortali. Va menzionato infine l’uso, tipicamente giapponese, della corda e dei nodi.
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LO SPAZIO QUOTIDIANO COME SPAZIO SIMBOLICO: IL GIARDINO Uno dei termini usati in Giappone per indicare il giardino è shima. Il vocabolo, oggi comunemente impiegato con il significato di “isola”, designava, in antico, il terreno di cui si è preso possesso e, in seguito, una parte di terra isolata dalla campagna selvaggia, cioè, appunto, un giardino. Una possibile etimologia vuole che shima derivi dall’arcaico shime, che è il nodo cui si è appena fatto cenno: shime è, in origine, un oggetto annodato e quindi una cosa di cui ci si è impadroniti. Attraverso l’atto di legare, l’uomo disciplina il mondo che lo circonda e il giardino rappresenta una maniera di attribuire un ordine allo spazio naturale. Questo è possibile ordinandolo simbolicamente, attraverso una disposizione degli oggetti che unisce i valori estetici a quelli religiosi. Ponendo le pietre in gruppi di tre, per esempio, il giapponese le inserisce in un sistema simbolico che considera il numero dispari come principio di armonia e di equilibrio. Ogni oggetto viene così trasfigurato e rinvia ad un ordine superiore: ma la trasfigurazione tiene conto della sua forma naturale, del suo colore, dei suoi caratteri visivi. L’ordine superiore, poi, è quello del cosmo, considerato secondo i tratti che le idee religiose del tempo gli attribuiscono e, nello stesso tempo, inteso come modello e ideale di perfezione. Il giardino giapponese, dunque, costituisce un microcosmo: una espressione ridotta dell’universo sacro cui rimanda.
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11. Pietra Fontana (Fusen Ishi). Sorgente che fa colare l’acqua verso il bacino, simbolo di una lunga prosperità. Costruzione di Yasuo Beppu. 12. Belvedere del giardino shintoista del Principato di Monaco. Si tratta di una Azumaya, piccola casa tradizionale con il tetto sormontato da una forma (hôyu) che simboleggia il fuoco dedicato a una divinità, cui si esprime un desiderio. È una costruzione a “belvedere”, aperta nelle quattro direzioni.
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LA GRECIA SYMBOLA Il termine “simbolo” viene dal greco symbolon, a sua volta derivato dal verbo symballein, ravvicinare. Il suo primo e più antico significato è quello di “segno di riconoscimento”: quando due persone che vivevano lontana l’una dall’altra intrecciavano un rapporto d’amicizia, solevano dividere un oggetto (una moneta, un astragalo, una tavoletta, una bacchetta) in due parti, spezzandolo o tagliandolo. Ognuno ne teneva poi con sé una parte, in modo che, quando i due si fossero rivisti, o, più verosimilmente, quando i loro congiunti o discendenti si fossero incontrati, avrebbero potuto riconoscersi ricongiungendo i frammenti dell’oggetto e rinnovare così il rapporto che li legava. Si tratta di una pratica dal sapore arcaico che è tuttavia ancora usuale nel iv secolo e sembra non perdersi neanche dopo. A questo impiego del termine se ne affianca un altro: il symbolon serviva a ricordare una transazione economica, un contratto. Erodoto (Le Storie, vi, 86) narra di alcune persone che si recarono ad Atene per incontrare un debitore del loro padre, portando appunto con sé il frammento di oggetto che avrebbe dovuto garantire il loro riconoscimento. È evidente che, in questo caso, sono determinanti la buona fede e l’onestà, perché il symbolon non è una garanzia di contratto, è soltanto un sistema per riconoscersi. Nel caso specifico, la buona fede venne a mancare e il debitore mandò indietro i suoi creditori a mani vuote, salvo poi pentirsi, per timore delle conseguenze che avrebbe portato il venir meno al giuramento che a suo tempo aveva suggellato il patto. In tutti e due i casi, il symbolon è un segno di riconoscimento che funziona attraverso la ricomposizione di un oggetto spezzato. Da questi primi significati e impieghi del termine ne derivano altri. Nella letteratura non è raro il racconto di vicende in cui un bambino viene abbandonato con alcuni oggetti che serviranno, tempo dopo, a riconoscerlo. Questi oggetti sono detti symbola, sebbene non si tratti più di frammenti: è come se, al posto delle due parti nelle quali la moneta o l’osso erano divisi, vi fossero il corredo dell’infante e la memoria della madre, che si ricomponevano idealmente al momento dell’agnizione. Nello stesso ordine di significati rientrano le situazioni nelle quali una persona che è stata lontana per molto tempo viene riconosciuta da certi suoi tratti o elementi caratteristici. Mentre per altri termini greci il significato religioso precede e condiziona quello profano, in questo caso avviene l’opposto: è così che dal concetto di simbolo come oggetto che permette a due persone di riconoscersi scaturisce il valore di symbolon come segno che gli dèi inviano agli uomini. Se il semeion – propriamente, il “segno” – è un evento del quale tutti colgono il significato religioso, il symbolon è un fenomeno apparentemente normale in cui certe persone riconoscono un senso divino: così, nel volo di due uccelli che attraversano il cielo al momento della partenza per Troia, soltanto l’indovino vede un messaggio degli dèi (Eschilo, Agamennone 144). Da questa idea di
Moneta spezzata
Montagna
Mare
Palma
Corpo umano
Altare
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symbolon come oggetto comune nel quale si rivela un messaggio divino derivano poi i sensi religiosi del termine, che sempre più si impongono, mentre quelli economici e giuridici, parallelamente, continuano la loro storia. Tra i significati religiosi va sottolineato almeno quello di “linguaggio segreto” (si parla, per esempio, di symbola dei riti dionisiaci).
SIMBOLI IN GRECIA
1. Dionysos sulla nave, Coppa di Exekias proveniente da Vulci, Monaco, Staatliche Antikensammlungen. Dionysos è rappresentato, comunemente, con un cantaro (un vaso) o un corno e circondato da pampini e grappoli, che alludono al suo rapporto con il vino; nelle sue immagini è presente anche l’edera, cui è legato. Il tirso – bastone con, alla sommità, un groviglio di foglie di vite e d’edera – lo caratterizza, così come un abito lungo a pieghe. I suoi animali sono la pantera, il leone e il serpente – che richiamano il mondo esotico e selvaggio – l’asino e l’ariete, che evocano, in Grecia, una condotta sessuale smodata.
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La storia del termine e del suo impiego delimita abbastanza chiaramente il significato di symbolon nella cultura greca e potrebbe fare da premessa a una ricerca puntuale sulle fonti, che consenta di esaminare i casi nei quali i Greci lo hanno applicato al campo religioso e permetta quindi di dar conto in maniera più precisa della sua area semantica. Ma una indagine di questo genere andrebbe al di là dei confini che la trattazione presente si è imposta. Va a questo punto considerato, piuttosto, un altro problema: quello dei limiti dell’applicazione della nozione di simbolo, intesa quale categoria d’indagine, alla cultura greca antica. Al contrario di quanto avviene negli studi riguardanti altre aree culturali, infatti, in questo caso l’uso del concetto di simbolo non costituisce una prassi concordemente accettata dalla letteratura. Le trattazioni generali sui simboli greci non sono frequenti e la nozione di simbolo sovente non è impiegata dagli studiosi; quando lo è, inoltre, presenta una certa varietà di significati. Senza alcuna pretesa di esaustività, ma soltanto per dare una idea dei termini della questione e della pluralità di posizioni in proposito, si possono esemplificare alcuni di questi significati principali. Le voci enciclopediche sui simboli in Grecia redatte da S. Ferri e R. Brilliant (e anche, in parte, quella di P. Gardner) considerano il simbolo da un punto di vista prettamente iconografico e, all’interno della categoria più ampia della rappresentazione artistica, lo distinguono da quelle raffigurazioni il cui scopo è di illustrare temi mitici: per simbolo, da questo punto di vista, si intende tutto quanto è grossomodo catalogabile nelle categorie della rappresentazione allegorica, della rappresentazione di attributi divini, delle figure cui si assegna il valore di amuleti oppure, in generale, degli oggetti cui si riconosce una qualche funzione religiosa. Ora, va rilevato che, in questo caso, il vocabolo “simbolo” è piuttosto vago, non ha una sua specificità rispetto ad altre forme di espressione figurate (come, appunto, l’attributo e l’allegoria) e, in ogni caso, non presenta particolare interesse dal punto di vista dell’analisi storico-religiosa. Più generalmente – negli studi di storia delle religioni – il termine si trova utilizzato, soprattutto riguardo ai riti, quando si fa riferimento al rinvio da una realtà a un’altra: per citare un solo autore fra tanti, si può ricordare che Angelo Brelich, per esempio, parla del rituale che comportava la flagellazione di adolescenti spartani come equivalente simbolico dell’uccisione (anch’essa simbolica) caratteristica dell’iniziazione (in un articolo dal titolo, significativo, di Symbol of a symbol). Qui, il vocabolo “simbolo” possiede un senso di “rimando ad altro” che corrisponde al significato lessicale comunemente riconosciuto al termine e ha certamente una sua utilità, ma non assume il ruolo di nozione chiave per la comprensione di certi fatti religiosi greci e non comporta la delimitazione di una categoria di oggetti che sarebbero, appunto, di natura simbolica. Da un concetto forte di simbolo prende invece le mosse una diversa concezione, esemplificata dal più conosciuto lavoro monografico sull’argomento: Le symbolisme dans la mythologie grecque, dello studioso francese Paul Diel. Diel ritiene che la mitologia abbia un significato che travalica il mondo culturale ellenico e che può essere colto soltanto attraverso
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il ricorso a una strumentazione psicoanalitica: le produzioni religiose proverrebbero dal “subconscio” e avrebbero, in quanto tali, un carattere simbolico che sarebbe possibile esplicitare cogliendone e formulandone razionalmente i significati. Nel lavoro di Diel il concetto di simbolo è centrale e ineliminabile, ma si tratta di una nozione definita psicoanaliticamente, che si sovrappone alla ricerca storica e nella quale rientrano tendenzialmente tutte le produzioni culturali umane. Manca – a quanto risulta da questi primi tre usi del termine – un interesse nei confronti del simbolo in senso stretto, in quanto oggetto distinto rispetto ad altre componenti della religione, quale è presente, per esempio, nella letteratura critica riguardante l’ebraismo, il cristianesimo o le religioni indiane e cinesi. Ma questa mancanza non è casuale, né è senza senso: è una conseguenza della particolare situazione culturale della Grecia. Per cercare di renderne conto ci si può richiamare a quanto dice Brelich a proposito di una nozione cui il concetto di simbolo si trova talvolta associato: quella di “personificazione”, che comporta l’attribuzione di caratteristiche personali divine a quelli che noi consideriamo oggetti concreti o idee astratte. La personificazione, scrive lo studioso italiano, «presupporrebbe una netta percezione della differenza tra una cosa (come per esempio il sole, la terra) o un’idea (per esempio la giustizia, la giovinezza ecc.) e la personalità che si “presterebbe” ad essa. Nella concreta esperienza religiosa dei Greci […] mancava proprio questa distinzione preliminare. Per il fatto stesso che una cosa […] o la realtà indicata da un concetto appariva come qualcosa di divino, per ciò stesso era già “personale”». Questo vale, appunto, per la giustizia, la pace, la vittoria, per il sole, la terra, i nomi di certi fiumi: nella religione greca, fortemente antropomorfa, quella che, usando il termine di Brelich, possiamo chiamare la “personalità” del divino comporta appunto la problematicità dell’applicazione di una nozione di simbolo in senso stretto. Rimane un altro impiego del termine “simbolo”: esso nasce dall’idea, frequentemente affermata negli studi storici e antropologici, della religione intesa quale unione organica di elementi: sulla base della riflessione linguistica – il cui influsso nelle discipline storiche si è fatto sempre più ampio negli ultimi anni – tali elementi, intesi come segni, costituirebbero appunto un sistema simbolico. In questo senso, il concetto di simbolo tende a sovrapporsi a quello di religione (ma anche di cultura). La religione greca, così come gli altri universi religiosi, sarebbe da intendersi allora in qualità di sistema simbolico. A differenza di quanto avviene nell’interpretazione prettamente psicoanalitica, la trama simbolica, articolata e complessa, sulla quale si dispiega il pensiero religioso ellenico non è qui intesa in qualità di manifestazione di una determinante psicologia soggiacente, ma viene ricostruita attraverso una analisi del contesto storico e sociale greco. Jean-Pierre Vernant, per esempio, in uno studio riguardante la categoria del “doppio” che parte dall’idea che il pensiero costruisca i suoi oggetti attraverso forme simboliche, analizza il tipo artistico del kolossos come segno, comprensibile soltanto all’interno di un «sistema simbolico generale», di una «organizzazione mentale d’assieme» che dà ragione dei suoi significati. Anche a questo proposito, comunque, va fatta una precisazione: parlare di simboli non significa, qui, presupporre, presso il greco, uno sforzo di astrazione e di distinzione. Come dice Károly Kerényi a proposito del riferimento dell’edera alla vita: «la zoe […] è presente nell’edera: non come significato, bensì come realtà. Non come il significato di un simbolo o di una allegoria per il pensiero capace di astrazione, bensì in modo concreto». Altra cosa è il fatto che proprio la cultura greca abbia elaborato tutto un sistema di lettura allegorica della religione, che caratterizza la storia del pensiero filosofico
2. Monumento ai Tirannicidi considerati come “simbolo” della democrazia, Agorà di Atene.
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nella sua interezza e che realizza proprio quell’opera di distinzione, astrazione e distacco che non possiamo attribuire alle credenze religiose. Tenuto conto di questi presupposti, risulta difficile proporre una trattazione dei simboli in Grecia che non diventi, da un lato, una semplice enumerazione o descrizione di attributi divini o di motivi iconografici e non si identifichi, dall’altro, con una storia della religione greca. Ci si limiterà dunque a proporre alcuni esempi di come certi segni – quelli che noi chiamiamo elementi naturali (come le montagne, i fiumi, le paludi, le acque in genere), le rappresentazioni divine, gli oggetti cultuali – siano presi in considerazione all’interno del sistema religioso ellenico.
GLI ELEMENTI “NATURALI”
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3. Dea della città di Antiochia sull’Oronte, copia in marmo da un originale in bronzo di Eutychides del 290 a.C. circa, Roma, Musei Vaticani. Il piede destro della dea poggia sul fiume Oronte. La statua rappresenta Tyche, divinità legata alla sorte (il suo nome deriva dal verbo tychein, conseguire, ottenere in sorte, accadere), che assume, in epoca ellenistica, il ruolo di principio che governa tutte le attività umane. La dea di una polis come Alessandria e Antiochia è talvolta raffigurata, in questo periodo, in qualità di Tyche di quella particolare città.
Aristotele scrive che per «antichi pensatori, vissuti in remotissime età», i «corpi celesti sono dèi e […] la divinità contiene in sé l’intera natura» (Metafisica, l, 1074 b 3). Ma in che modo si manifesta questa credenza? Sulla base di una indagine di Annie Bonafé intorno al linguaggio metaforico, si possono dare alcune indicazioni sulla maniera in cui la concezione religiosa della natura si riflette nell’ambito letterario. Con l’avvertenza che quando si parla della natura, o di oggetti o elementi naturali, si usano approssimazioni e che non si deve pensare al significato che tali espressioni hanno acquisito nella nostra storia culturale. Nell’epica tutti quelli che noi consideriamo elementi naturali sono vitali e viventi, possiedono tratti umani e appaiono legati al mondo divino: la natura rimanda all’uomo – che, a sua volta, vi vede uno specchio di se stesso – e, nello stesso tempo, rinvia agli dèi. Costituisce, in altri termini, un terreno comune a uomini e divinità. Questo carattere sembra tuttavia affievolirsi passando dall’Iliade all’Odissea, fino ad annullarsi quasi nelle Opere e i giorni. La natura verrebbe sempre considerata divina e l’uomo continuerebbe a provare reazioni emozionali particolari nei suoi confronti, ma essa sarebbe valorizzata principalmente come teatro delle attività degli dèi. Presso i poeti arcaici non vi sarebbe più assimilazione del mondo naturale a quello umano e in Pindaro e in Bacchilide, che rappresentano il punto estremo di questa tendenza, sarebbe la manifestazione degli dèi olimpi attraverso i fenomeni fisici a dare luogo a una considerazione religiosa della natura: i sentimenti religiosi che la natura suscita dipenderebbero, insomma, dall’intervento delle divinità e ad esse sarebbero correlati e subordinati. Ma qual è la posizione particolare – e il significato – che quelli che chiamiamo elementi naturali assumono all’interno del sistema religioso greco? Si cercherà di rispondere prendendo spunto da uno studio di Richard Buxton sull’argomento. La montagna (oros) è uno spazio non coltivato, che si trova al di fuori della città e anche dei villaggi. Vi sono spesso collocati santuari dedicati a varie divinità: soprattutto a Zeus, ma anche a Helios, Artemis, Dionysos, Demeter, Pan, Apollon, Hermes. A questo dato corrisponde il legame che i miti istituiscono frequentemente fra dèi e rilievi: per esempio, Zeus e l’Olimpo, le Musai e l’Elicona, Pan e le Nymphai che abitano i monti. Il mito presenta l’oros come espressione di un mondo inesplorato, in cui risiedono esseri come i Kentauroi e Sphinx; vi si svolgono atti violenti e selvaggi, come l’uccisione di Lykourgos o lo smembramento di Aktaion e di Pentheus; vi si espongono i bambini. In secondo luogo, la montagna è sede di eventi passati: Platone parla di uomini scampati al diluvio per essersi rifugiati sui monti e Deukalion e Pyrrha, i progenitori dell’umanità, si trovano sul Parnaso; dèi come Hermes, le Musai, Zeus sono nati su oroi. Ancora, sulle monta-
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gne la vita ordinaria subisce talvolta una inversione: uomini e dèi (Esiodo e le Musai, Filippide e Pan) vi si incontrano, trasgredendo così, in qualche modo, alla distanza che li separa; la nereide Tethis si è sposata con Peleus (eroe) sul monte Pelion; sulle montagne si producono metamorfosi e i rapporti sociali mutano: per esempio, i giovani che prestavano il servizio militare si recavano sui monti, luogo ideale per sottolineare ritualmente il loro passaggio ad una nuova condizione sociale. In generale, è possibile riconoscere nella montagna, come sottolinea Buxton, un riferimento all’alterità, al mondo selvaggio, inesplorato, estraneo. Ma non va trascurata la verticalità del monte e la sua prossimità al cielo, che talvolta lo rende idoneo a essere dimora divina, come nel caso di quella che Esiodo chiama «l’altissima vetta del nevoso Olimpo» (Teogonia 62). Le grotte hanno diversi elementi in comune con la montagna. Anch’esse sono legate ai tempi passati: si riteneva che fossero il rifugio degli uomini prima di Prometheus; Zeus vi sarebbe stato dato alla luce, Dionysos allattato, Typhon, Iason e Aristaios allevati. Nelle caverne vivono anche esseri mostruosi (Echidna, le Harpyai, Lamia) e si svolgono attività al di fuori della norma (come quelle dei Kyklopes). Vi è celebrata Demeter, con la rievocazione di un mondo che non conosceva la coltura dei cereali; sono connesse a Pan e alle Nymphai, esseri sovrumani collegati al mondo selvaggio; successivamente, le si considera come porte d’accesso all’aldilà in culti misterici dionisiaci. La caverna è un luogo ambiguo, che evoca, sottolinea Buxton, il
4. Veduta del monte Athos. Alcuni dèi della Grecia antica abitano l’Olimpo ma si manifestano anche su altre montagne. Il Monte Athos, che diventerà centro della cristianità monastica orientale, per i Greci era già una delle montagne legate alle divinità. Eschilo nell’Agammenone chiama l’Athos “vetta di Zeus”. Pochi resti di un suo antico tempio sussistono ancora in prossimità della cima. 5. Dèi sull’Olimpo, Tarquinia, coppa attica a figure rosse di Oltos, 510-500 a.C., Tarquinia, Museo Nazionale.
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6. Affresco dei delfini nel megaron della regina nel palazzo di Cnosso.
7. Apollon infante che uccide Python con una freccia scagliata dal suo arco. Particolare di un’anfora attica (v secolo a.C.), Museo del Louvre, Parigi.
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dentro e il fuori, che è simile e dissimile a una casa, è aperta e impenetrabile. Ma è anche, va aggiunto, legata al mondo sotterraneo, rispetto al quale – non a caso – costituisce un tramite. Il mare, che, nella vita quotidiana, era associato alla pesca, ai viaggi e al commercio, era svalutato, perché pericoloso e in ragione della centralità che si attribuiva alle attività agricole. Allo stesso tempo, tuttavia, se ne constatava l’importanza come fonte di ricchezza. La sua natura era considerata ambigua: tranquillo e foriero di prosperità, poteva diventare, improvvisamente, mortifero. Anche l’immaginario mitico rispecchia la sua ambivalenza, per esempio attraverso i nomi delle divinità che abitano gli abissi. Proteus, dio dalle molte forme, risiede nel mare. Gli oggetti che provengono dalle acque sono spesso dotati di caratteristiche speciali e l’immersione rituale ha un valore di purificazione e rinnovamento. Vi sono feste durante le quali si bagnavano statue nel mare: in questi casi, le si portava sulla spiaggia, luogo di frontiera fra acque e terra, di transizione fra puro e impuro, d’incontro fra l’umano e il sovrumano. Dionysos, recitano alcune fonti, viene dal mare: questa informazione, per lungo tempo interpretata dagli studiosi come un dato oggettivo sulla provenienza del dio, va invece letta in quanto espressione della sua distanza, della sua estraneità. Le acque del mare si prestano insomma a costituire il luogo di una dimensione extra ordinaria, nella quale può avere sede l’estraneo, ma anche il divino per quanto di straordinario comporta. Anche le fonti assumono significati religiosi. Si trovavano spesso accanto ai santuari, dove la loro acqua era impiegata per le esigenze dei riti; guarivano gli ammalati e servivano anche a distinguere verità e menzogna: così, si riteneva che certe acque calde ustionassero gli spergiuri e rispar-
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miassero gli innocenti. La fonte, cui sovente si recano le donne, che possono farvi incontri pericolosi oppure amorosi, è presente anche nel mito quale luogo in cui avvengono rapimenti divini. Talvolta certi uomini vedono bagnarsi dee che non dovrebbero vedere ed è presso uno specchio d’acqua che si svolge la vicenda di Narkissos. L’acqua di fonte, associata alle Musai, media l’accesso a una dimensione sovrumana. Nelle laminette orfiche si parla di due fonti che il defunto incontra: a una non si deve accostare; all’altra occorre bere, per sottrarsi al ciclo delle rinascite. Funzione di rinvio a un universo differente da quello umano, ma diametralmente opposto al mondo delle Musai, hanno le paludi. Pausania parla della palude Alcionia, attraverso la quale Dionysos sarebbe andato nell’Ade per farne risalire la madre Semele (ii 37, 5). I dintorni della palude sono conosciuti come bocca infernale: presso il fiume Chimarro sta una recinzione in pietra da cui Plouton, dopo avere rapito Kore, sarebbe sceso nel suo regno. La limne Alcionia si presta ad essere considerata come via di accesso al mondo sotterraneo: è di superficie assai piccola (un terzo di stadio: sessanta metri), ma ha una profondità insondabile (invano Nerone tentò di misurarla); infine, risucchia sul fondo chiunque tenti di attraversarla a nuoto. La discesa agli inferi può essere collegata alla morte di Dionysos: secondo una tradizione, Perseus uccise il dio gettandolo appunto nella palude di
8. Delfi, entrata della fonte Castalia. La fonte, posta all’incirca a est del santuario di Apollon, era usata per le purificazioni di coloro che consultavano l’oracolo. Un mito narra che Castalia era una giovane di Delfi che, per resistere alle profferte amorose del dio, si gettò in acqua. 9. Diadema in argento con figure con testa di uccello e cani, iii millennio. Trovato nell’abitato di Chalandriani. Esempio dell’argenteria dell’Egeo.
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Lerna, forse nel lago Alcionio. Durante una festa dionisiaca, le Antesterie, si riteneva che i morti tornassero in città e nella stessa occasione il tempio del dio “nelle paludi” rimaneva, solo ora in tutto l’anno, aperto. Sembra lecito pensare insomma alla palude, luogo “liminale” in cui la terra si confonde con l’acqua, come a una bocca infernale. Gli esempi di valorizzazione religiosa di fatti naturali si possono moltiplicare. Se si guarda alle specie arboree, è possibile pensare, per esempio, alla palma: nei prati di Delo si leva la palma attraverso la quale Apollon si manifesta. Leto, incinta, affonda le ginocchia nell’erba e abbraccia la pianta; quindi partorisce il dio. Quanto agli animali, si possono citare gli esempi del lupo e del cane. Il primo, legato a Zeus e Apollon, evoca la forza e la combattività; a questi elementi aggiunge poi quello della furbizia, che emerge in particolare in epoca arcaica e classica. In generale, è collegato al mondo selvaggio, che non riconosce le norme civili. Il cane, invece, presenta, in ambito religioso, un carattere mostruoso ed è considerato come animale impuro e nello stesso tempo strumento di purificazione, come mediatore fra mondo dei vivi e dei morti: è associato alla dea Hekate, che accompagna; d’altra parte, tuttavia, nella letteratura costituisce il modello esemplare della domesticazione. Van122
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10. Acque del mar Mediterraneo sovrastate da nubi portatrici di pioggia.
no infine ricordati i rapporti fra alcuni dèi e certi animali (ad altri si farà cenno quando si toccherà il tema della rappresentazione divina): Dionysos e il toro, Demeter e la puledra, ecc.
11. Vaso miceneo decorato a motivi marini, da Ialysos, 1570-1400 a.C., Londra, British Museum.
LE ACQUE E LA REALTÀ PRIMORDIALE Un tema quale quello delle acque primordiali esemplifica efficacemente la difficoltà di fare un discorso sul simbolo, in quanto realtà distinta dalle divinità e dagli elementi naturali. La Teogonia di Esiodo, così come racconti cosmogonici a essa alternativi dei quali siamo in grado di ricostruire alcuni tratti in base ad allusioni di altri autori, si fonda sull’idea di un cosmo che nasce e afferma progressivamente il suo ordine, finché non si configura l’universo attuale. La cultura greca si trova, dunque, a far fronte a un problema cui molte civiltà rispondono: quello della definizione e della qualificazione della realtà primordiale che costituisce una alterità – e nel contempo un fondamento – rispetto al mondo organizzato. L’immagine del Chaos e quella di una massa liquida sono due degli strumenti con i quali i primordi vengono descritti. Il riferimento all’acqua, in particolare, è presente in
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12. Statua maschile, Epidauro, Museo Archeologico.
molte tradizioni greche e assume una tale pregnanza da influire poi anche sulle altre immagini: da un certo punto di vista, questo dato può sembrare evidente, dal momento che le acque si prestano, per la loro natura fluida, priva di forma propria, a indicare una realtà non ancora determinata. Ma il tema delle acque si mostra, non appena lo studio della questione si fa più approfondito, complesso e articolato. Jacques Rudhardt ha cercato di ricostruire una cosmogonia – della quale ha rinvenuto le tracce già nell’Iliade – in cui l’acqua, come realtà ancestrale, è rappresentata da una coppia di divinità (Okeanos e Tethys) generatrici: Okeanos è chiamato “origine degli dèi” (Iliade xiv 201; 302) e associato a Tethys, definita “madre”; è detto anche “origine di tutte le cose” (Iliade xiv 246). Il termine per “origine” è genesis, che evoca direttamente la generazione. Platone scriverà che Okeanos e Tethys sono «i principi generatori di tutte le cose» (nel Teeteto 180 c-d). L’acqua sarebbe intesa, qui, come realtà fecondante e sessuata. In queste sue caratteristiche si vedrebbe riflesso il ruolo che essa svolge nella natura vegetale e, in generale, nella vita. In un’altra tradizione, che ci è riportata da Ellanico e da Ieronimo, l’acqua primordiale, al contrario, preesiste ad ogni cosa ma è inattiva, informe, asessuata. Quando poi il processo di formazione del cosmo è stato avviato, le acque primordiali assumono una connotazione ambigua: lo favoriscono e facilitano da un lato; vi si oppongono dall’altro. Questa doppia valenza sarebbe impersonata, nella Teogonia esiodea, da Okeanos, i cui discendenti sono le fonti e i fiumi, indispensabili all’assetto definitivo del cosmo e da Pontos, dal quale derivano, invece, esseri mostruosi. Nella cosmogonia “omerica”, Okeanos e la sua sposa Tethys non ostacolano l’imporsi progressivo dell’ordine. Okeanos, inoltre, dà agli dèi l’ambrosia, che costituisce il loro nutrimento; ancora, l’acqua primordiale dello Stige garantisce la rettitudine, perché è su di essa che si pronunciano i giuramenti. Una volta definita la fisionomia attuale del cosmo, le acque primordiali sono poste ai suoi confini ma continuano ad avere un valore vitale, in quanto forniscono l’acqua che scorre nel mondo e rendono possibili le purificazioni. Separano il regno dei morti da quello dei vivi e svolgono, presso i primi, una duplice funzione: le ombre che stanno nelle isole dei Beati godono della virtù liberatrice propria delle acque come potenze vitali; quelle che si trovano presso i fiumi infernali sembrano tornare a una situazione che ricorda l’indifferenziazione primordiale. Bevendo dal Lethe, fiume dell’oblio, le anime dimenticano la loro esistenza precedente: anche in questo senso, le acque svolgerebbero, sempre secondo Rudhardt, una funzione di limite, di distinzione fra ordini diversi di realtà.
LA RAPPRESENTAZIONE Le divinità sono considerate invisibili, ma possono essere rappresentate. L’arte greca si sforza di dare una forma a ciò che non ne ha, di conferire figure agli dèi, senza per questo pretendere di rifletterne l’aspetto: una statua di Zeus rappresenta il dio, ma non ne imita la fisionomia. Limitandosi alla scultura, si possono fare alcuni esempi di trattamento delle immagini divine. All’epoca arcaica risalgono numerose statue di giovani, dette convenzionalmente, dagli storici dell’arte antica e dagli archeologi, kouroi se maschili, korai se femminili, che hanno caratteristiche formali simili. Sono state trovate in monumenti sepolcrali oppure in santuari, come offerte agli dèi. La loro fisionomia non deriva da una ricerca di verosimiglianza o da un tentativo di imitazione: non sono l’immagine della persona che è seppellita, né degli offerenti, né degli dèi che ricevono il dono. Li si può invece considerare come 124
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13. Prassitele, Hermes con il piccolo Dionysos, 340-330 circa, Museo di Olimpia. Se in età classica domina «la forma dell’esistere che chiude l’uomo in se stesso e nello stesso tempo lo solleva al di sopra di sé», in quest’opera «celebra il suo trionfo» la concezione tardo-classica della forma dell’apparenza (Fuchs) che, senza perdere la coerenza classica, si caratterizza per la maggiore importanza attribuita all’aspetto visivo e alla forma esteriore della figura. 14. Kore, Atene, Museo dell’Acropoli.
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15. Rilievo votivo in marmo dedicato ad Athena, 460 circa, Atene, Museo dell’Acropoli. La dea indossa il peplo e un elmo corinzio. Sulla destra è posto un cippo. Il rilievo è stato probabilmente donato da un atleta vittorioso.
il prodotto di uno sforzo effettuato per definire il rapporto fra uomo e dio, come la manifestazione corporea, plastica, fisica, di caratteristiche divine, attuata attraverso la rappresentazione di quelle qualità umane (giovinezza, vitalità, forza, compostezza, equilibrio) che meglio sembrano esprimerle. Anche quando la statua diviene identificabile come immagine di un dio o di un uomo, continua a rispondere a principi analoghi. In età tardo-arcaica, si delinea la caratteristica che dominerà l’arte classica, quella di una «forma dell’esistere che chiude l’uomo in se stesso e nello stesso lo solleva al di sopra di sé», scopre il ritmo della figura, coordinandolo in una nuova unità e «riflette il macrocosmo del mondo nel microcosmo dell’uomo» (Fuchs). Le divinità divengono identificabili da certi tratti fisici ma anche da certi motivi emblematici, attributi stereotipi che si ripetono nelle loro rappresentazioni. Semplificando e schematizzando una situazione in realtà assai più complessa, si può ricordare che nell’iconografia Zeus ha, quali attributi, la folgore e lo scettro, e, quale animale di riferimento, l’aquila; Athena è armata, porta lo scudo con la testa di Medusa e un abito particolare (dorico); è legata all’ulivo, al serpente, alla civetta; Poseidon è rappresentato con il tridente e associato ai cavalli – marini o meno –; Ares è armato; Hermes ha copricapo, caduceo e sandali alati; Apollon il tripode, l’arco e la lira (mentre Orpheus ha la lira, ma anche il berretto frigio e animali intorno a lui); Aphrodite, nuda, porta la mela che ricorda il giudizio di Paris ed è talvolta accompagnata da un delfino e da Eros. Herakles è caratterizzato da clava e pelle di leone; i Dioskoroi dalle stelle; Argos ha molti occhi; Asklepios il bastone con il serpente. In certi casi, alcune varianti locali appaiono particolarmente significative: così l’Artemis di Efeso, con le sue molteplici mammelle. Talvolta, vi sono anche situazioni più articolate: Zeus di Megalopolis, per esempio, ha attributi dionisiaci ma un’aquila sul tirso. Esistono anche rappresentazioni divine non antropomorfe: convenzionalmente, le si definisce “aniconiche”, sebbene il termine non sia del tutto appropriato, in quanto si tratta comunque di immagini, anche se non di forma umana. Per fare un solo esempio, si possono evocare le erme, legate al dio Hermes, pietre scolpite con la forma quadrangolare, una testa in cima, il busto senza arti e un fallo. Si tratta di oggetti che si trovano accanto agli altari e all’entrata dei santuari; un dialogo pseudo-platonico attribuisce a Ipparco la loro collocazione sulle strade che univano la città e le campagne. La loro funzione era di fare da mediatrici fra centro urbano e zone rurali: sul piano generalmente culturale, perché, leggendole, gli abitanti delle campagne «venissero spesso dai campi in città per esservi educati anche nel resto» (Platone, Ipparco, 228 c229 b); ma anche sul piano spaziale: su un lato esse portano scritto il nome di Hermes, che dice d’esser stato posto tra la città e il demo. La forma quadrangolare serve a definire le quattro direzioni dello spazio e l’orientamento indica la direzione principale, che unisce la periferia al centro. Certe parti del corpo umano possono assumere, separate dal resto, valenze religiose. I falli, così, erano legati particolarmente a Dionysos: durante alcune feste del dio, per esempio, erano portati in processione. Un mito racconta che gli Ateniesi rifiutarono di importare un culto dionisiaco e ne furono ripagati con una punizione che li colpiva nella sfera sessuale: solo l’introduzione di cortei fallici, celebrati ogni anno durante la festa delle Grandi Dionisie, placò il dio. Si possono infine menzionare certe raffigurazioni che non hanno un ruolo decorativo né rappresentativo: per esempio, l’immagine dell’occhio, che compare sui vasi greci a partire dal vii secolo e che è detto “profilattico”: si tratta, probabilmente, di un simbolo di sorveglianza, che acquista anche un
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16. Cosiddetto Apollo del Belvedere. Copia in marmo di età adrianea da un originale in bronzo di Leochares (330-320 ca.). Roma, Musei Vaticani. 17. Il disegno riproduce l’Erma di Efeso (vi-v secolo a.C.).
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18. Ricostruzione della pittura eseguita su un sarcofago trovato ad Hagia Triada, risalente al 1400 a.C. circa, raffigurante persone che recano doni a un defunto.
valore ludico nel momento in cui la coppa viene utilizzata dai partecipanti a un simposio. Ancora, vanno ricordati i talismani e i segni magici: per esempio, le cosiddette “lettere efesine”, che Clemente Alessandrino, in una trattazione molto articolata del simbolismo in Grecia, presenta come simboli, ricordandone i significati (Stromati v 45).
19. Riproduzione di un sacrificio animale da una gemma micenea.
OGGETTI CULTUALI
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Quanto, infine, alle azioni rituali, occorre ancora menzionare un insieme di oggetti che, utilizzati nel culto e, anzi, ad esso indispensabili, presentano, oltre al valore funzionale che li contraddistingue, anche un carattere sacrale. Per esempio, si possono citare gli strumenti sacrificali: l’altare, la coppa per l’acqua lustrale (louterion), il vaso che raccoglie il sangue della vittima (sphrageion) da spargere poi sull’ara, il kanoun, canestro a tre manici che contiene le sementi che verranno buttate nel fuoco, il coltello per sgozzare (machaira), la tavola (trapeza) per tagliare le carni, gli spiedi (obelioi) per arrostirle, la pentola (lebes) in cui sono bollite altre parti dell’animale: gli strumenti del sacrificio non erano oggetti comuni, ma utensili cui si riconosceva una qualità sacra particolare e che venivano portati in processione durante le feste. Dotati di un carattere simbolico erano gli oggetti condotti da Eleusi ad Atene prima dell’inizio dei misteri eleusini e quindi, durante il quinto giorno della festa, riportati solennemente a Eleusi. Nel momento culminante della celebrazione, gli hiera (oggetti sacri) venivano mostrati: si parla, nelle fonti, di un paniere e di una cesta, dei quali non è tuttavia possibile definire il contenuto. Gli studiosi hanno pensato a una matrice, a un fallo, a un serpente, a un melograno, a dolci a forma di fallo e di matrice, ma si tratta di congetture. Ippolito dice che veniva mostrata una spiga di grano,
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20. Agrigento, il cosiddetto Tempio della Concordia (450-430 a.C.), tra i meglio conservati dell’antichità greca. Si tratta di un esempio che rispecchia il tipo originario, in stile dorico. La colonna è rastremata, si stringe verso l’alto; in alto un anello schiacciato (echino) simula il comprimersi della materia sotto il peso dell’architrave. Sopra quest’ultimo, liscio, si trova una fascia (fregio) in cui si alternano tavolette (metope), che venivano figurate, e parti scanalate (triglifi). Sulle due fronti corte del tempio sta il timpano triangolare. Il fulcro del tempio è il porticato, non la cella, che si trova all’interno con il simulacro del dio. È nel porticato che, davanti alla cella, veniva posta l’ara, così si svolgevano i riti davanti ai fedeli. 20
ma l’attendibilità della sua testimonianza è dubbia. Si sa, comunque, che gli iniziati recavano spighe. È evidente che la spiga ha un nesso con Demeter, cui i misteri di Eleusi erano legati, ma le incertezze riguardanti gli hiera non permettono di cogliere il significato che ad essi veniva attribuito. Durante la festa delle Panatenee, si portava in processione un peplo che era stato intessuto durante l’anno da due delle arrefore, bambine ateniesi al servizio di Athena, destinato a vestire la statua della dea nell’Eretteo. Su di esso erano rappresentate scene del combattimento di Athena contro i giganti: la gigantomachia costituisce uno dei momenti che segnano il passaggio dal mondo delle origini a un universo ordinato; rievocandola, veniva riattualizzato, in qualche modo, quel momento di transizione. Altri oggetti che la letteratura e l’iconografia collegano alla celebrazione dei rituali e che possono essere qui menzionati sono le fiaccole e le corone. Alle prime è stata attribuita una funzione puramente utilitaria – quella di garantire l’illuminazione durante culti notturni – ma la loro presenza nel corso di riti diurni ne sottolinea il carattere propriamente religioso; alle seconde, che hanno un ruolo costante e centrale nella civiltà greca, può essere riconosciuto il ruolo di segnare l’acquisizione di un nuovo status, di indicare un passaggio avvenuto.
21. Disegno di una lekytos, vaso destinato alla conservazioni di unguenti e al culto.
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La trattazione del tema del simbolo nella religione di Roma presenta difficoltà analoghe a quelle che si sono già incontrate a proposito della Grecia antica. Non sembra infatti possibile individuare, nella cultura figurativa e letteraria romana, immagini che rispondano ad una idea di simbolo in senso stretto come avviene invece in sistemi religiosi come quelli indiani o come quello cristiano. D’altra parte, ancora una volta, si può intendere la religione romana nel suo complesso, allo stesso modo delle altre religioni, come un insieme di segni organizzati secondo particolari sistemi di significati; in altri termini, come un complesso simbolico. Anche qui, comunque, la letteratura (si vedano, per esempio, i casi di P. Gardner, S. Ferri, R. Brilliant) ha talvolta considerato quali simboli una serie di oggetti che non corrispondono ad un concetto di simbolo in senso stretto, ma dei quali è forse opportuno offrire una rassegna sintetica: si tratta di “personificazioni”, attributi ed emblemi. Innanzitutto, nell’iconografia romana è usuale trovare quelle che, dal nostro punto di vista, appaiono come personificazioni di concetti astratti: l’abbondanza, la pace, la libertà, la virtù eccetera sono sovente rappresentate in maniera antropomorfa. Ma è difficile riconoscere, nell’esperienza della religione tradizionale romana, quella distinzione di piani che ci consente di parlare di astrazioni personificate: l’uso di una terminologia non del tutto adeguata, se può rispondere a criteri di comodità e alle convenzioni degli studi iconografici, non pare altrettanto giustificato in storia delle religioni. In secondo luogo, sono utilizzati spesso attributi per definire le caratteristiche di certi personaggi, sia umani che divini: accade che le opere d’arte presentino figure centrali accompagnate da segni di identificazione (come corona, nimbo, scettro, globo, trono, àncora, baldacchino, animali, torce, scale, stendardi, cornucopia, corazza, moggio, egida, caduceo, trofeo eccetera) e circondate da scene che ne indicano i caratteri (per esempio, battaglie e caccia); certe modalità di rappresentazione del soggetto poi (posizione, gesti, dimensioni, ornamenti) servivano a indicare le prerogative che gli erano riconosciute. Alcuni em131
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LO SHINTOISMO
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blemi potevano anche prendere il posto dei fatti cui si riferivano: sarebbe questo il caso degli ornamenta triumphalia, che si concedevano ai generali vittoriosi in sostituzione della cerimonia del trionfo. Se si considera l’intero sistema religioso come sistema simbolico, è possibile invece menzionare, ovviamente, molte situazioni cui viene riconosciuto un significato religioso, senza tuttavia, ancora una volta, individuare dei simboli in senso stretto. Per rendere il discorso meno astratto, ci si può limitare a ricordare qualche caso, che si sceglierà all’interno di contesti e campi diversi della religione romana: si pensi, innanzitutto, all’arco di trionfo, che rappresenta la porta triumphalis del Campo Marzio, attraverso la quale il condottiero si separa dal mondo umano per accedere al mondo divino e offrire sacrifici agli dèi della città. Si può portare un secondo esempio riferendosi alle attività dei Feziali: questi avevano, fra le loro prerogative, quella di dichiarare una guerra. Lo facevano scagliando una lancia nel territorio nemico; ma quando i nemici non risiedevano in un paese confinante e l’azione rituale non era possibile, si gettava la lancia nell’area sacra della dea Bellona, che rappresentava, in quel momento, il territorio dei nemici. Ancora, il Flamen Dialis era un operatore sacrale che rappresentava Iuppiter in terra: era «una specie di statua sacra e vivente» (Plutarco) del dio, così come sua moglie, la Flaminica, rappresentava Iuno; insieme, i due realizzavano la coppia divina. Questi tre casi non sono che esempi del sistema di significati che caratterizza il mondo religioso romano: da un certo punto di vista, li si può qualificare come simboli, ma tenendo conto del fatto che, per un romano, il rapporto fra il Flamen Dialis e Iuppiter – o fra l’area sacra di Bellona e il territorio nemico – era qualche cosa di ben più concreto di quello che noi, nel lessico comune, consideriamo il rapporto fra un simbolo e i significati cui rimanda. Nell’impossibilità, dunque, di individuare e descrivere simboli in senso stretto, ci si soffermerà in modo particolare su tre tematiche – scelte in diversi momenti dello sviluppo della religione di
1. La Vittoria. Statua in bronzo di età flavia. Brescia, Museo civico romano. Si tratta di un esempio di quelle rappresentazioni che alcuni studiosi fanno rientrare nella categoria delle cosiddette “personificazioni” di concetti astratti. 2. Roma, Arco di Costantino, eretto nel 315 in occasione del decennale dell’imperatore, in ricordo della sua vittoria su Massenzio del 312. 3. Ricostruzione dell’Arco in onore di Augusto innalzato nel foro romano verso il 20 a.C. 133
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4. Rilievo con trono sul quale poggiano attributi che indicano potenza umana e divina. Tardo Impero romano. Berlino, Staatliche Museen. 5. La triade capitolina rappresentata da tre templi nel foro romano di Sbeitla, città di confine al sud della Tunisia. La triade capitolina (Iuppiter, Iuno e Minerva) sembra prendere il posto della triade arcaica, strutturata, per Dumézil, secondo la tripartizione indoeuropea.
4. Rilievo con trono sul quale poggiano 6. Lupa. Bronzo etrusco attributi che indicano potenza umana del V secolo a.C. I gemelli sono e divina. Tardo Impero romano. Berlino, un’aggiunta rinascimentale Staatliche Museen. di Antonio Pollaiolo.
Roma e in differenti sfere e ambiti della realtà romana – a proposito delle quali il concetto di simbolo è stato impiegato dalla letteratura critica e nella discussione delle quali si troverà altresì esemplificata la complessità e la problematicità di un tale impiego.
FIGURE DI ANIMALI NELLA RELIGIONE ROMANA ARCAICA
Iuno; Georges insieme, i due realizzavano coppia divina. Questi tre casi non sono che credenze religiouna linea duméziliana. Tra le statu Dumézil ha la ritenuto di poter individuare, nelle esempi del sistema di significati che caratterizza il mondo religioso romano: da rappresentava una scrofa con trent se delle popolazioni che, per ragioni di parentela linguistica, si possono un certo punto di vista, li si può qualificare come simboli, ma tenendo conto volpe. Il primo motivo richiama la f considerare riflesso di etre funzioni, del fatto che, per un come romano,indoeuropee, il rapporto fra ililFlamen Dialis Iuppiter – o la prima legata piede sul suolo italico, vide appun fra l’area di Bellona e il territorio nemico – era qualche di ben al combattimento che opp allasacra sovranità e alla sacralità, la seconda alla cosa guerra, lapiù terza alle attivitàriferisce di concreto di quello che noi, nel lessico comune, consideriamo il rapporto fra un e che si svolge durante la costruzio ordine economico. Questa triplicità di funzioni si esprimerebbe anche atsimbolo e i significati cui rimanda. Nell’impossibilità, dunque, di individuare e animali sono presenti anche a Rom traverso Ora, per quanto non vi sia accordosu tra descrivere simbolisimboli. in senso stretto, ci si soffermerà in modo particolare tre gli studiosi sulle è documentato anche il mito della sue –tesi, quale modo queste tematiche sceltesembra in diversi opportuno momenti dello vedere sviluppo in della religione di Roma e in possano fornire porcellini, quale segno favorevole differenti e ambiti realtà romana – a proposito delleimmagini quali il concetto unasfere chiave di della lettura per l’analisi di alcune romane. Per farlo, si di simbolo è stato impiegato dalla letteratura critica e nella discussione delle ricorrerà a una ricerca intorno a certi animali simbolici proposta dallo stuquali si troverà altresì esemplificata la complessità e la problematicità di un tale dioso francese Dominique Briquel, secondo una linea duméziliana. Tra le impiego.
statue che decoravano il foro di Lavinium, una rappresentava una scrofa con trenta piccoli; un’altra la lotta fra una lupa e una volpe. Il primo motivo richiama la ritenuto fondazione città, nelle quando Aeneas, Georges Dumézil ha di poterdella individuare, credenze religiosemesso delle piede sul suolo popolazioni che, per appunto ragioni di parentela linguistica, possono considerare italico, vide una scrofa con lasisua prole; il secondo si riferisce al come indoeuropee, il riflesso di tre funzioni, la prima legata alla sovranità e combattimento che oppone lupa e aquila da un lato e volpe dall’altro e che alla sacralità, la seconda alla guerra, la terza alle attività di ordine economico. si triplicità svolge durante di Troia, con la sconfitta Questa di funzionilasicostruzione esprimerebbe anche attraverso simboli. Ora, della volpe. I tre per quanto non sono vi sia accordo tra anche gli studiosi sulle sue tesi,lasembra animali presenti a Roma. Qui lupa opportuno occupa un posto centrale, vederema in quale modo queste possano unadella chiavefemmina di lettura per è documentato anchefornire il mito dell’analisi maiale che partorisce di alcune immagini romane. Per farlo, si ricorrerà a una ricerca intorno a certi i trenta porcellini, quale segno favorevole comparso a Romulus e Remus; animali simbolici proposta dallo studioso francese Dominique Briquel, secondo l’aquila, poi, compare associata alla lupa. Oltre all’aquila, le fonti parlano – FIGURE DI ANIMALI NELLA RELIGIONE ROMANA ARCAICA
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sempre in riferimento alla storia dei due gemelli – di altri uccelli: il picchio (il cui valore nel sistema religioso romano è particolarmente complesso), la parra, la civetta. Si tratta, in tutti i casi, di animali considerati portatori di presagi. Ora, va notato che la scrofa era interpretata quale animale simbolico dei Latini: i trenta cuccioli erano i trenta popoli latini; il suo colore – il bianco – è connesso con il nome di Alba, l’antica capitale. Il fatto che Lavinium e Roma ne riprendano il motivo si può intendere come espressione della volontà delle due città di appropriarsi del nomen latinum. Ma il parto eccezionale della scrofa può anche essere considerato come una promessa di fecondità. In rapporto alle tre funzioni di cui parla Dumézil, si riconoscerebbe allora nell’animale un segno della terza. Quanto agli uc-
5. La triade capitolina rappresentata da tre templi nel foro romano di Sbeitla, città di confine al sud della Tunisia. La triade capitolina (Iuppiter, Iuno e Minerva) sembra prendere il posto della triade arcaica, strutturata, per Dumézil, secondo la tripartizione indoeuropea.
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6. Lupa. Bronzo etrusco del v secolo a.C. I gemelli sono un’aggiunta rinascimentale di Antonio Pollaiolo. 135
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7. Cammeo con aquila imperiale. 190 d.C. Vienna, Kunsthistorisches Museum. 8. Riproduzione di insegna militare sulla quale campeggia l’aquila.
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celli, si è detto che essi hanno carattere di auspici; ora, gli auspici sono inviati da Iuppiter (Livio 1, 18) e, d’altronde, l’aquila è particolarmente associata al dio: il ruolo attribuito all’aquila sarebbe dunque un segno della protezione del dio sovrano. La lupa, infine, è legata a Mars. Il richiamo ai tre animali indicherebbe la protezione dell’insieme del mondo divino, nei tre livelli in cui si articola. Dumézil allude anche alla successione di altri tre motivi: quando l’ultimo Tarquinius aveva fatto scavare sul monte Campidoglio per erigervi il tempio di Iuppiter Optimus Maximus, fu portata alla luce una testa d’uomo, interpretata come segno favorevole, in quanto presagio del destino di Roma caput di un impero. Ma anche per Cartagine si racconta una storia analoga: alla sua fondazione fu trovata, negli scavi, una testa di bue, nella quale venne letto un segno negativo, di sottomissione; allora si scavò ancora, finché si rinvenne una testa di cavallo, questa volta considerata favorevolmente; in quel luogo fu costruito un tempio dedicato a Iuno. Cartagine divenne dunque fertile – perché legata al bue – e bellicosa, in virtù del suo rapporto con il cavallo. Nonostante questo, verrà sconfitta da Roma. Il bue rappresenta, per Dumézil, la terza funzione e il cavallo la seconda; ma solo a Roma appartiene la prima, quella sovrana: Roma costituirebbe dunque la pienezza di quanto nella città africana rimaneva a livello di abbozzo. In questo modo, gli eventi sarebbero riorganizzati e disposti nel tempo secondo un ordine che ha, quale punto di riferimento essenziale, il destino di Roma, realizzazione e compimento di quanto esisteva a Cartagine e ad Alba. Insomma, una ideologia propriamente romana prenderebbe forma tramite una struttura tripartita, espressa attraverso il richiamo ad animali. Ritroviamo tali animali nelle insegne militari: fino alla riforma di Mario, l’aquila, il lupo, il Minotauro, il cavallo, il cinghiale erano i cinque emblemi principali delle truppe romane; ci si è chiesti se, ancora più anticamente, le insegne non si riducessero a tre. Con Mario, si usò la sola aquila d’argento, che venne affiancata ai segni caratteristici delle singole legioni (a quel tempo in numero di ventotto, ciascuna con il suo vessillo, normalmente zoomorfo). Se la ricostruzione duméziliana rimane ipotetica – ed è stata fatta oggetto di critiche e di discussioni delle quali non è qui possibile dare,
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neanche sommariamente, conto – l’analisi proposta costituisce comunque un esempio di come certi elementi possano essere organizzati ed acquistare un significato all’interno del sistema religioso romano.
MONUMENTI E COSMO Per gli etruschi, il cielo è diviso da due linee perpendicolari, una che va da Nord a Sud, l’altra da Est a Ovest: la proiezione di questa ripartizione sulla terra dà origine al cardo e al decumano sui cui assi è fondata la città etrusca e, poi, romana. Il cielo è inoltre suddivisibile con altre sei linee che passano per il centro, dando così luogo a sedici settori, sedi delle varie divinità. Questa struttura cosmica si rispecchia negli altri livelli della realtà, legati tutti da un sistema di corrispondenze. È il sacerdote che, attraverso l’aruspicina, le mette in luce, leggendo i segni degli dèi. Uno dei suoi strumenti è l’epatoscopia, della quale si ha una testimonianza di particolare rilievo in un modello di fegato di pecora del ii secolo, ritrovato a Piacenza, in bronzo. Il fegato è la parte vitale dell’animale e si presta dunque a costituire un microcosmo, specchio, sintesi e riepilogo del macrocosmo. Il modello di Piacenza presenta incise le varie ripartizioni dell’universo con le divinità di riferimento e consente di ricostruire i rapporti fra l’organo dell’animale e gli spazi celesti e inferi nei quali si articola la topografia sacra etrusca. Anche i templi, orientati verso il Mezzogiorno, sono la proiezione di una divisione sacra dei cieli. Meno sicura è l’interpretazione della forma delle tombe: quelle fatte a cupola sembrano evocare la volta del cielo, ma mancano prove che consentano di riconoscere in esse un simbolismo celeste; le tombe a camera imitano principalmente la casa dei vivi e acquistano un senso cosmico soltanto in epoca tarda e in casi particolari. Quanto all’architettura sacra romana, come scrive Raymond Bloch, «se continua ad esservi, a Roma, un rapporto tra il templum augurale e l’edificio religioso, è spesso difficile dire se un certo tempio si ispira, in ultima analisi, a una concezione simbolica e cosmica precisa». Per l’epoca più antica
9. La città secondo i gromatici (miniatura del iv secolo). Lo spazio urbano veniva costruito geometricamente, sulla base dell’intersezione di due assi: la strada principale di una città o di un campo romano, che andava da una porta, aperta nelle mura, a quella opposta, era detta decumanus maximus; la strada principale ad essa perpendicolare prendeva il nome di cardo; alla loro intersezione si trovava il foro.
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va fatto almeno un cenno al dio Terminus, che risiedeva sul Campidoglio, all’interno del tempio di Iuppiter Optimus Maximus. Sul soffitto dell’edificio era stata praticata un’apertura che faceva sì che il dio, i cui sacrifici si dovevano svolgere all’aperto, non avesse che le stelle sopra di sé: l’architettura del tempio, insomma, era tale da comportare un richiamo al cielo aperto. Ciò non significa tuttavia che l’edificio realizzasse un riferimento simbolico alla volta celeste, ma piuttosto che le sue caratteristiche si inserivano in una complessa e precisa rete di significati, nella quale anche il cielo è incluso, che fa capo al dio Terminus e alle sue funzioni all’interno del sistema religioso romano. Senza entrare nei particolari, ci si può limitare a citare quanto scrive Giulia Piccaluga in proposito: «stando sul Capitolium, e non avendo sopra di sé che il cielo libero, cioè lo spazio sterminato, [il terminus capitolino] costituisce il punto di partenza ideale per la propagatici, un segno idealmente spostabile all’infinito, addirittura, la possibilità virtuale di conglobare, facendo capo ad esso, tutta la terra». In epoca imperiale va riscontrato, a questo proposito, un mutamento di orizzonti – in cui il rapporto di continuità con la religione tradizionale e il legame con altre forme religiose andrebbe valutato di caso in caso – che porta, via via, all’uso sempre più massiccio di riferimenti cosmici nell’architettura, fino all’elaborazione di concezioni che vedono dappertutto allegorie celesti. Un esempio è fornito dal Pantheon, al quale, nonostante la struttura centrale e la grande cupola, non si ha modo di attribuire un significato simbolico particolare: solo più tardi, Dione Cassio, fra la fine del ii e l’inizio del iii secolo, vi vede la rappresentazione della volta celeste. Altrove, ma più avanti nel tempo, il simbolismo celeste dei monumenti è chiaro: è il caso del tempio di Iuppiter-Bel a Palmira. Le cappelle dedicate a Mitra durante l’impero hanno volte che imitano il firmamento; la figura di Mitra che sgozza il toro è circondata da immagini del sole, della luna e talvolta dei pianeti; si trova anche, in certi casi, la raffigurazione dei segni dello zodiaco sopra il dio, che è rappresentato come colui che fa ruotare le stelle. Anche nei palazzi imperiali si ritrovano significati cosmici: così Nerone si presentava come l’immagine di Helios e Dione Cassio parla di una luce che lo circondava. La sua dimora, la Domus Aurea, è progettata con la chiara intenzione di attribuirle un carattere cosmico: ha dimensioni sovrumane e i materiali con i quali è decorata le danno una particolare luminosità; la sala principale del palazzo ruotava, come il mondo, sul suo asse: al centro sedeva verosimilmente Nerone, che rappresentava il sole. Il caso non è isolato: già Caligola aveva ordinato la costruzione di un palazzo di grandiosità simile e Domiziano avrebbe fatto lo stesso. Un carattere differente ha la villa di Adriano a Tivoli, dove sono riprodotti i monumenti che l’imperatore aveva particolarmente amato durante i suoi viaggi: non si tratta, qui, di una riproduzione del cosmo, ma della volontà di una “appropriazione simbolica” del mondo. Settimio Severo fa costruire un edificio, il Septizonium (monumento delle sette zone planetarie), con l’imperatore, immagine del sole, al centro e le statue dei pianeti intorno. Nel suo palazzo vi era una sala il cui soffitto era istoriato con il cielo e le costellazioni. Verso la fine dell’impero, l’interpretazione allegorica e cosmologica si diffonde e viene applicata ad opere architettoniche in cui, originariamente, il simbolismo celeste non era esplicito o mancava: anche il circo è letto come una immagine dell’universo. Le sue dodici porte rappresentano i mesi; i quattro cavalli della quadriga le stagioni; i colori delle fazioni gli elementi; l’auriga è il sole che corre da una parte all’altra del cielo e il fossato d’acqua che gira intorno al circo è l’oceano che circonda tutto. Per quanto non sia possibile dire che queste posizioni riflettano la concezione tradizionale, non si può negare il loro sostrato religioso. 138
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IL SIMBOLISMO FUNERARIO Possediamo molti esempi, risalenti all’età imperiale, di sarcofagi che presentano bassorilievi con decorazioni particolarmente ricche. Alcuni studiosi vi hanno riconosciuto l’espressione di motivi simbolici, voluti da committenti e realizzati da scultori in un’epoca storica che vedeva la diffusione sempre maggiore dei metodi di lettura allegorici del mito. Il loro studio è legato alla figura di Friedrich Creuzer (1771-1858), che ne propose una prima analisi, partendo da un’idea dei simboli come manifestazione di un antico sapere occulto. La concezione del simbolo di Creuzer metteva tuttavia in ombra le esigenze dell’analisi storica; lo stesso avveniva per la prospettiva di un altro studioso tedesco che a lui si richiamava, Johann Jakob Bachofen (1815-1887), secondo il quale le modalità di espressione simbolica costituiscono una lingua primordiale. La sua amplissima ricerca sul simbolismo funerario dei romani incontra limiti analoghi a quelle intraprese da Creuzer, per quanto sia più sistematica e ricca. La critica storica si scagliò contro queste impostazioni, inducendo gli studiosi, per reazione, ad abbandonare l’interesse per i significati simbolici, con la conseguenza che i bassorilievi vennero considerati alla stregua di puri esercizi decorativi, di cui si trattava di mettere in luce i riferimenti letterari; ma, in questo modo, la loro comprensione rimaneva preclusa: si individuavano tutti i particolari della rappresentazione e venivano realizzati repertori accuratissimi, senza che fosse poi possibile cogliere le ragioni per le quali le immagini erano destinate ad un uso funerario. Si deve allo storico del-
10. Disegno del fegato in bronzo risalente al iii secolo a.C. trovato a Piacenza. 139
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le religioni belga Franz Cumont una riconsiderazione del problema da un punto di vista nuovo: Cumont impose il principio metodologico secondo il quale se era vero, come per Creuzer e Bachofen, che i bassorilievi non potevano essere interpretati senza coglierne la complessità dei rimandi simbolici, tale simbolismo andava tuttavia cercato all’interno della cultura del tempo, senza che gli esiti dell’indagine su di esso venissero predeterminati da un’astratta nozione di simbolo. Tale cultura pareva a Cumont caratterizzata da una marcata tendenza all’allegorizzazione. Lo studio dei rilievi sepolcrali continua poi con altre ricerche, fra le quali vanno menzionate almeno quelle sui sarcofagi a raffigurazioni dionisiache di Robert Turcan, particolarmente attente alla disposizione cronologica dei documenti e alle variazioni di significato associate ai differenti contesti. La lettura allegorica dei miti presuppone una presa di distanza rispetto alle credenze vissute che mal si concilia con la religione tradizionale. Essa nasce in Grecia in ambienti filosofici, quando si cominciano a interpretare i racconti di Omero ed Esiodo considerandoli espressioni simboliche di qualcos’altro: Senofane, Teagene di Reggio, Metrodoro di Lampsaco vedevano nei miti una manifestazione di realtà cosmologiche o antropologiche. A grandissime linee, si può dire che la lettura allegorica trovi particolare sviluppo presso gli stoici, che considerano gli dèi come simboli di verità fisiche, presso i medioplatonici e i neopitagorici e si imponga poi sempre più, fino a diventare caratteristica del neoplatonismo (meno fortemente in Plotino e sempre più evidentemente a partire da Porfirio) e del pensiero di Filone (che non la applica, tuttavia, alla tradizione classica, ma a quella ebraica). Quando i bassorilievi dei sarcofagi e le decorazioni delle tombe romane vennero realizzati, in particolare fra Traiano e Costantino, le speculazioni allegoriche erano diffuse negli ambienti intellettuali. Va precisato, a questo proposito, che occorre mantenere distinte, relativamente a Roma, le credenze della religione di stato da quelle dipendenti da correnti filosofiche, che, pur imponendosi, spesso non alterano le prime. Per quanto, poi, non sia possibile valutare fino in fondo il tipo di idee più diffuso, si deve ritenere che le posizioni stoiche, epicuree, platoniche siano penetrate soltanto in un settore – il più colto – del popolo romano, convivendo quindi con le idee tradizionali.
11. Moderna interpretazione (Speidel, 1980) dell’iconografia e mitologia mitraica. Mitra come Orion. Disegno tratto dal “Globo Farnese”. 12. Mitra che uccide il toro. Il dio è rappresentato con una tunica corta, un mantello, qui punteggiato di stelle, il berretto frigio. L’arte romana rappresentava con abbigliamento analogo dèi o personaggi orientali. Pittura murale del ii secolo, Mitreo di Marino, Roma.
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Quali erano, dunque, i contenuti cui i sarcofagi alludevano? La preoccupazione cui le loro immagini rispondevano era quella di fare riferimento ad una forma di sopravvivenza. Tradizionalmente, la sopravvivenza promessa ad un romano era quella di chi rimaneva nella memoria degli uomini per ciò che aveva compiuto; si assiste tuttavia a un imporsi sempre maggiore di una idea di immortalità celeste, estranea alla religione tradizionale romana ma che ad essa si affianca, imponendosi nei settori più colti della società. È possibile seguire il mutamento anche nei rilievi sepolcrali, le cui raffigurazioni appaiono dominate, ad un certo punto, dal principio secondo cui l’anima umana accede a una beatitudine ultraterrena liberandosi dai legami corporei: un’idea pitagorica che si trova poi in Platone e nel neostoicismo e che passa quindi ai neoplatonici. A Roma si diffonde, in particolare, la convinzione, propagata da neopitagorici e stoici eclettici, che, dopo la morte, le anime salgano verso gli astri; i culti misterici diffondono questa medesima tematica. Gli artisti che vogliono esprimerla utilizzano dunque un simbolismo che si richiama a idee pitagoriche, platoniche e stoiche. L’allusione ad alcuni motivi caratteristici può darne una esemplificazione. Diversi sepolcri portano istoriata la vicenda di Phaeton, cui fu concesso dal padre Helios di guidare il suo carro. Phaeton, incapace di tenere a freno i cavalli, venne fulminato da Zeus. La storia sarebbe interpretabile facendo riferimento alla letteratura stoica, nella quale il mito è letto quale simbolo della catastrofe che distruggerà il mondo alla fine dei tempi: assume quindi un significato escatologico, che si rivela adeguato alla situazione. Il mito veniva evocato altresì, nelle religione mitraica, per simboleggiare il
13. Pianta della Domus Aurea neroniana e alzato del locale principale. 141
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momento in cui Mitra scenderà dal cielo e darà l’immortalità agli uomini. Altri bassorilievi raffigurano la storia di Marsyas, il flautista che sfida Apollon e, vinto, viene appeso a un albero e scorticato. I pitagorici interpretano il mito sottolineando l’opposizione fra lo strumento di Marsyas, che eccita le passioni e quello di Apollon, la lira, il cui suono è l’eco terrestre della musica che le sfere cosmiche producono nel loro moto armonioso. La lira purifica l’uomo e gli fa provare qualcosa della felicità nella quale sarà immerso quando la sua anima, liberata dalla materia, si alzerà verso gli astri. Marsyas che pende dall’albero rappresenta, nella letteratura pitagorica, 16
14. Mosaico raffigurante Dionysos. Felix Romuliana, palazzo-mausoleo di Galerio costruito presso l’attuale villaggio di Gamizgrad in Serbia. 15. Sarcofago del iii secolo su cui è scolpito il mito di Phaeton. Roma, Villa Borghese.
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16. Mosaico romano del ii secolo trovato a Thysdrus, odierna El Jem, che rappresenta la sfida fra Marsyas e Apollon. Museo di El Jem, Tunisia. 143
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l’atmosfera agitata dal vento e oscurata dalle tenebre, mentre Apollon è simbolo della serenità dei cieli. Una scena apparentemente inconciliabile con la mestizia del sepolcro è quella dell’incontro amoroso fra Aphrodite e Ares che, scoperti da Hephaistos, sono immobilizzati in una rete invisibile. I pitagorici vedono in Ares il simbolo del corpo e nella dea dell’anima; Hephaistos è il demiurgo che li unisce. L’unione, con la morte, si dissolve e l’anima, finalmente, è libera. Anche la frequente presenza di personaggi come Herakles o Odysseus sui sepolcri avrebbe un senso escatologico: essa rinvia infatti, nelle opere filosofiche esaminate da Cumont, all’uomo che, durante la vita, ha combattuto e sofferto e ha meritato, così, l’apoteo si. Tutta una serie di monumenti sepolcrali ha poi tematiche dionisiache: anzi, Dionysos, con il suo tiaso, è la divinità più rappresentata sui sarcofagi. La sua presenza allude ai misteri del dio che promettevano all’iniziato una vita felice ultraterrena. Anche immagini come la vite, i pampini, il vino, il banchetto celeste rientrano in quest’ordine di significati: una vita che continua, ad un grado diverso. Tali immagini verranno riprese dall’iconografia cristiana. 17. Mosaico cristiano del iv secolo che conserva i caratteri dell’arte musiva romana e presenta tralci di vite e scene di vendemmia. Roma, Basilica di Santa Costanza. 144
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IL NORD EUROPA E I GERMANI I paesaggi nordici, con le loro terre rocciose e brulle, difficilmente coltivabili, punteggiate da fitte foreste, fiumi e paludi, sprofondate in notti lunghissime o illuminate da un sole pallido, abbondanti d’acqua il più delle volte minacciosa, sono il quadro in cui si svolgono i racconti della mitologia germanica. Ma non si limitano a fare da sfondo alle storie degli dèi e alle pratiche rituali degli uomini: costituiscono, invece, il materiale sul quale si esercita l’immaginazione religiosa dei Germani. Tanto che l’intera religione di quei popoli può essere descritta prendendo, quale punto di riferimento, la modalità con la quale sono trattati alcuni elementi naturali. È questa la prospettiva nella quale si colloca lo studioso Régis Boyer, la cui ricostruzione si può qui seguire per il particolare interesse che manifesta nei confronti del problema del simbolo. Gli elementi naturali cui la religione germanica fa riferimento sono essenzialmente tre: il sole, le acque, la terra.
Sole
IL SOLE
Martello di Thórr
Il sole, a differenza di quanto accade, per esempio, nei paesi mediterranei, non è mai forte e bruciante, ma sempre ristoratore e benefico. Il termine che lo designa è di genere femminile. Fin dall’età del bronzo, intorno al 1200 a.C., compare il carro solare, che suggerisce l’esistenza di un culto; oggetti solari come svastiche o dischi confermano la sua importanza religiosa. Un cavallo trasporta l’astro durante il giorno e in primavera; il
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Acqua
1. Carro del sole, ritrovato nella palude di Trundholm presso Hojby in Zelanda, Età del Bronzo, circa 1400 a.C., bronzo e lamina d’oro, Copenaghen, Nationalmuseet. Il disco è suddiviso, su entrambi i lati, in tre anelli concentrici e decorato con cerchi e spirali. Si tratterebbe di un’immagine del sole, trainato lungo il cielo.
Albero
Serpente
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2. Graffito rupestre, nel sud della Svezia. Particolare di una composizione con imbarcazione, coppelle e figure animali. 3. Rilievo di un graffito rupestre rinvenuto a Massleberg, distretto di Skee, in Svezia. Imbarcazione su cui spicca un cervide con corna ramificate in foggia solare (disegno di C. Bertilsson).
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“vascello-pettine” di notte e in inverno. Sono state trovate molte figure di uomini che recano una scure, interpretata come emblema solare: esse possono richiamare un dio come Týr, di cui l’ascia magica è un attributo. Tale strumento diverrà poi il martello di Thórr, arma letale, ma che serve anche a benedire e a risuscitare le capre che sono state sacrificate al dio. Al sole sono associati i giganti, che l’Edda di Snorri, una delle nostre fonti principali per la ricostruzione della religione germanica, considera come esseri antichissimi, mentre i nani sono associati alla terra. Più tardi, nell’età del ferro (che, per questi popoli, viene collocata tra il 400 a.C. e l’800 d.C.), distinta negli stadi celtico, romano, germano antico e recente, diventa centrale la figura di Ódhinn, collegato con il sole. Il culto dei morti presenta caratteristiche solari, ma anche acquatiche e terrestri: certi defunti eminenti, per esempio, erano collocati su navi-sepolcro, che non possono non ri-
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chiamare il vascello-pettine, e, attraverso la barca, il mare. Una sintesi dei tre elementi naturali si trova anche nel simbolismo che caratterizza la figura sacra del re. Nell’età vichinga (800-1150 circa), la mitologia germanica assume quei caratteri che ci sono più familiari, ma continua a rispondere ai principi fondamentali imposti dalla tradizione preistorica. L’associazione dei tre elementi cosmici può essere esemplificata, qui, considerando il simbolismo dei rituali che accompagnano la nascita: il bambino è posto sulla terra, elevato verso il cielo (il sole) e quindi asperso con l’acqua. Si può schematizzare l’ideologia centrale della religione di questo periodo dicendo che il mondo è considerato come un equilibrio di forze, ordinate e disordinate; principio d’ordine sono alcune potenze solari: Týr, cui si è già accennato, Thórr, il tuono, con il suo martello che rappresenta la folgore; Baldr, dio luminoso. Il sole è detto dall’Edda “dio dalla faccia brillante” o “dio radioso”. Il simbolismo solare è collegato con quello del fuoco, considerato come elemento vivente e vitale, che serve a curare ed esorcizzare. È anche segno di appropriazione e di potere: è scagliando una freccia infuocata che ci si impossessa di un nuovo territorio.
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4. Stele funeraria del secolo vii d.C. Il bassorilievo rappresenta Ódhinn, a cavallo con scudo e lancia. 5. Il dio Thórr con il martello che rappresenta la folgore; disegno di statuetta in bronzo del x secolo, Copenaghen, Nationalmuseet.
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6. Acque montane, paesaggio alpino, confine meridionale dei popoli germanici. 7. Statuetta in bronzo raffigurante un cinghiale, ritrovata a Sárka, presso Praga. Conservata attualmente nel Museo Nazionale di Praga, Repubblica Ceca. 8. Pendente di epoca vichinga, Stoccolma, Statens Sjöhistoriska Museum. Vi è rappresentata Freyja, dea legata alla fertilità.
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9. Ricostruzione di un paesaggio (J. Ballonga) all’inizio dell’età dei metalli nel nord Europa presso Lubecca. La vita si svolge in un continuo alternarsi di acque e terra. La terra fornisce i suoi frutti e il legno per le costruzioni; l’acqua fornisce a sua volta il cibo ed è un’indispensabile via di comunicazione.
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LE ACQUE L’acqua si trova molto spesso nei miti e nei rituali. La sua funzione è triplice: essa nutre gli uomini, li cura e serve agli oracoli. Fonti e cascate sono oggetto di culto e, già nell’età del bronzo, si svolgono sacrifici umani nei quali la vittima è gettata in una palude. Nell’età del ferro il valore magico e divinatorio delle acque continua a essere riconosciuto, in connessione con Ódhinn, inventore delle rune, che della divinazione sono strumento. Con il precisarsi delle figure divine nel periodo seguente, il dio continua a essere collegato all’elemento liquido: le acque della divinazione, il sangue dei sacrifici, il nettare poetico ecc. Vicino al tempio di Uppsala, dice Adamo di Brema, sta una fonte sacrificale: il ruolo delle acque quale strumento di sacrificio persiste.
10. Pietra runica.
LA TERRA Già nel periodo più antico, l’esistenza di culti della terra legati alla fertilità e alla fecondità è testimoniata dai ritrovamenti archeologici; certe figure simboliche rappresentano gli occhi o, più probabilmente, la vulva della terra-madre. I nani, esseri ctoni, sono considerati abitatori delle grotte, refrattari alla luce solare e guardiani dell’aldilà. Nell’età del bronzo, l’apporto celtico si manifesta principalmente nel culto di dee madri; in quella vichinga l’ordine, che si identifica con la fecondità e la vitalità, si esprime anche attraverso una simbolica tellurica. Vi sono una dea terra, Jördh, la moglie di Ódhinn e madre di Thórr e una famiglia divina, quella dei Vani, che maggiormente incarnano il rapporto con la terra. Le colline sono, infine, legate ai morti, che le abitano e le pietre sono suscettibili di venerazione.
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SIMBOLI NATURALI Oltre agli elementi naturali fondamentali, che costituiscono altrettanti oggetti simbolici, sono valorizzate anche altre componenti della natura. Gli animali sono frequenti nell’iconografia e nei testi letterari: essi sono attributi delle divinità, oppure loro sostituti. Per esempio, sul trono di Odhinn stanno due corvi – la memoria e lo spirito – e accanto ad esso due lupi, principio di distruzione come i corvi lo sono di creazione; il cinghia149
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11. Raffigurazione contemporanea dell’albero Yggdrasill. Si notano l’aquila tra i folti rami, lo scoiattolo che scende, i quattro cervi che mordono le foglie, le radici che vanno in tre direzioni.
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12. Quercia con il suo caratteristico intrico di rami.
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le è sostituto di Freyr; il cavallo, che ha il ruolo di psicopompo, è legato a Ódhinn; le capre sono legate a Thórr. Quanto ai vegetali, un gran numero di piante servono quali ingredienti per pozioni ma, soprattutto, va detto che gli alberi assumono un ruolo simbolico fondamentale. Nel simbolismo di uno di essi, in particolare, si può dire che l’intero cosmo germanico trovi un compendio.
L’ALBERO YGGDRASILL Si tratta, probabilmente, di un frassino, ma Adamo di Brema parla di un albero altissimo sempreverde, situato accanto al tempio di Uppsala e questo – insieme con altre considerazioni di diversa natura – ha fatto pensare piuttosto a un tasso; altri lo considerano invece una quercia, per il valore cultuale che alle querce riconoscevano gli antichi Germani. Il suo nome significa “cavallo di Ódhinn” ed evoca il mito, cui si farà allusione più avanti, secondo il quale il dio vi rimase appeso. I rami di Yggdrasill «si stendono su tutto il mondo e coprono il cielo»; l’albero sorregge «i nove mondi» e ha tre radici, rivolte in direzioni differenti: una fonte ci informa che sotto la prima si trova Hel (il mondo degli inferi), sotto la seconda “i Thurs della brina”; sotto la terza la specie umana; per Snorri, invece, «una è fra gli Asi, un’altra fra i giganti […] la terza si protende su Niflheimr [il regno delle tenebre e del freddo] e sotto quella radice c’è Hvergelmir, ma al di sotto [il serpente] Nídhhöggr la rosicchia. Sotto quella radice che si sten150
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de fra i giganti si trova Mímisbrunnr [Fonte di Mímir] dove stanno nascoste sapienza e conoscenza, e colui che possiede il pozzo si chiama Mímir […]. La terza radice del frassino si protende nel cielo, e sotto di essa si trova la sorgente sommamente santa che si chiama Urdharbrunnr [Fonte del destino]» (Edda di Snorri, 15). Qui è la sede in cui gli dèi ogni giorno tengono consiglio: tutti, eccettuato Thórr, la raggiungono a cavallo, attraversando il ponte Bifröst, che rappresenta forse l’arcobaleno e che è stato interpretato come il cammino che percorrono le anime. «Un’aquila è appollaiata sui rami del frassino e possiede molta saggezza; nel mezzo degli occhi le sta un falco. […] Quello scoiattolo che si chiama Ratatoskr corre su e giù per il frassino e riferisce le parole cattive [scambiate] tra l’aquila e Nídhhöggr. Quattro cervi saltano fra i rami del frassino e ne mordono le foglie acuminate […]. E in Hvergelmir, con Nídhhöggr, vi sono così tanti serpenti che nessuna lingua può contarli» (16). Nídhhöggr è un serpente concepito, probabilmente, come una sorta di demone che succhia i cadaveri; l’aquila è forse l’uccello dal cui battito d’ali nascono i venti. L’animale di terra (serpente) e quello del cielo (aquila) sono fra loro ostili e vanno visti come due esseri in perenne opposizione. «Il frassino Yggdrasill sopporta pene più di quanto gli uomini non credano, il cervo [lo] bruca in alto, dall’altra parte esso decade, lo consuma Nídhhöggr dal di sotto» (16); altrove si dice che una capra ne mangia i rami e produce l’idromele e che dalle corna del cervo sgorga l’acqua dalla quale nascono tutti i fiumi. In realtà, se è vero che il cervo si nutre del frassino, è anche vero che l’acqua che emette dalle corna va in Hvergelmir, che, a sua volta, alimenta il frassino. Il fatto che gli animali bruchino le fronde di Yggdrasill non è indice della debolezza dell’albero ma serve forse a sottolineare, al contrario, come esso si consumi e si rinnovi continuamente. Alla sua vitalità e al suo carattere di fonte di vita sono collegati anche altri due dati: l’idromele, la bevanda che si consuma nel Valhöll, proviene indirettamente da lui, e dal frassino è prodotta la rugiada che cade sulla terra come miele. Oltre che simbolo di vita, Yggdrasill è simbolo della saggezza e del destino: Ódhinn ha lasciato a Mímir il suo occhio in pegno per poterne condividere le conoscenze, ed è la testa di Mímir che consulta in occasioni importanti. Ha conquistato la padronanza delle rune stando appeso a Yggdrasill per nove notti. Le Norne, divinità che stabiliscono la sorte degli uomini, abitano sotto di esso e quotidianamente attingono acqua dalla Fonte del destino, la uniscono all’argilla e ne spruzzano il frassino, che così diventa bianco. Snorri non precisa il loro numero, che altre tradizioni fissano a tre, chiamandole Presente, Passato e Avvenire. Alla stessa fonte si abbeverano due cigni. La simbologia di Yggdrasill è, come si vede, particolarmente ricca. Pilastro cosmico, il frassino lega i vari livelli in cui l’universo dei Germani si articola: mette in rapporto i mondi dei giganti, degli uomini, degli dèi, dei morti. La totalità della quale è espressione e sintesi non riguarda soltanto lo spazio, ma anche il tempo: presso di lui stanno le divinità che presiedono al destino, una delle nozioni cardine della religione germanica. Il suo abbattimento, che implica la frantumazione dell’equilibrio che incarna, accompagna infatti il Ragnarök, la fine del mondo. L’albero è anche simbolo di vita, perché è da lui che nasce la virtù vivificante della bevanda dei beati, è grazie alle sue fronde che vive il cervo dal quale sgorgano le acque dei fiumi. E, ancora, è un albero della conoscenza, perché è fra i suoi rami che Ódhinn ha potuto penetrare il segreto delle rune. Insomma, Yggdrasill è il luogo in cui trovano composizione i vari elementi di cui il cosmo è costitui to e in cui possiamo individuare una sintesi dei valori e delle componenti del mondo religioso germanico.
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13. Fibula in forma d’aquila, seconda metà del v-vi secolo, Norimberga, Germanisches Nationalmuseum.
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Fuoco e luce
Albero
Acqua
Simboli cabbalistici
Menorah
I messaggi delle Sacre Scritture sono espressi, sovente, attraverso l’uso di immagini alle quali può essere riconosciuto un valore simbolico. A partire da queste, poi, il pensiero ebraico, nelle sue diverse espressioni, con un continuo sforzo di analisi e di approfondimento, ha dato luogo al fiorire di una letteratura amplissima, complessa, articolata. Come studiare il patrimonio di immagini e di interpretazioni che, in questo modo, si è venuto sempre più arricchendo nel corso dei secoli? Lo studioso italiano Giulio Busi ha proposto una metodologia di indagine che tratta il simbolo nella sua specificità e nella sua autonomia. Il primo passo di questo metodo consiste nell’individuazione, all’interno dei testi, di unità espressive e semplici; vengono quindi ricercate le ricorrenze di tali motivi, in rapporto ai vari contesti in cui essi si presentano. Ne emerge un quadro di identità e differenze, delle quali non sempre è possibile mettere in luce le ragioni, in cui certi elementi comuni sembrano ripresentarsi, in zone ed epoche anche tra loro remote, conformemente a quella «natura carsica del simbolismo, le cui icone riappaiono anche in luoghi lontanissimi dalla prima fonte, con un’immediatezza che suggerisce una unità nascosta». Soltanto attraverso un’opera paziente di censimento e di comparazione, della quale Busi dà un primo saggio, è possibile chiarire le linee e i motivi di questa unità.
IMMAGINI BIBLICHE La Bibbia è ricchissima di immagini, delle quali è impossibile proporre una descrizione esaustiva o sistematica. Se ne possono tuttavia scegliere alcune, che esemplifichino e suggeriscano il valore e il senso del linguaggio simbolico nel testo sacro ebraico. 153
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1. Marc Chagall, Arazzo per l’ingresso, 1971, Nizza, Museo del messaggio biblico Marc Chagall. Sulla destra si estende una cittadina che evoca Vence; a sinistra si trova Gerusalemme; tra le due stanno acqua, terra fertile e deserto; in alto, il sole emana i suoi raggi. Chagall usa riprendere, nelle composizioni pittoriche che realizza, i simboli tradizionali del suo popolo.
2. Mosè con le tavole dei comandamenti sul Sinai, 1422. L’immagine è tratta da una Bibbia tradotta in spagnolo dipinta da artisti cristiani sotto super visione rabbinica. In alto è presente un simbolo luminoso di Dio; al centro Mosè in un giardino; in basso gli Israeliti ai piedi del Monte Sinai.
1. Simboli luminosi e realtà divina Alcuni simboli, innanzitutto, si riferiscono più direttamente al Signore: fuoco, luce e sole, tre elementi fra loro correlati, sono spesso utilizzati a indicare certi aspetti dell’azione divina. «Il fuoco è forse, tra gli elementi, il più prossimo a Dio, quello che gli è costantemente vicino e che per primo si manifesta al suo apparire» (Busi); dice il Deuteronomio: «Il Signore tuo Dio è fuoco divoratore» (4,24). Dio si rivela nel roveto ardente (Es 3,2) e marcia alla testa del popolo ebraico, all’uscita dall’Egitto, di giorno con una colonna di nube; di notte con una colonna di fuoco (Es 14,21-22). In particolare, il fuoco esprime la parola di Dio. Esso serve anche a indicare la sua collera (Ger 21,12; Dt 32,22). È poi strumento di purificazione; nel Siracide è usato come metafora delle prove cui l’uomo è sottoposto dalla vita: «Accetta quanto ti capita, sii paziente nelle vicende dolorose, perché con il fuoco si prova l’oro, e gli uomini ben accetti nel crogiuolo del dolore» (2,4). Anche la luce è fortemente associata alla realtà divina. Creati cielo e terra, «Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu». Non si tratta ancora della luce cui gli astri danno luogo, perché sole, luna e stelle nasceranno soltanto in
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seguito. Dio vede che è buona e la separa quindi dalle tenebre. Dio è, per il salmista, «rivestito di maestà e di splendore, avvolto di luce come di un manto» (Sal 104,2); «alla luce [del Signore] vediamo la luce» (Sal 36,10). Quanto al sole, si può affermare che sia una manifestazione di Dio. È presente, nelle Sacre Scritture, la preoccupazione di evitare un culto del sole come divinità, ma, nello stesso tempo, esso, senza identificarsi con Dio, è impiegato quale simbolo della sua regalità e della sua giustizia: «sole e scudo è il Signore Dio», dice il salmista (84,12). 2. Il simbolismo acquatico e la realtà primordiale L’acqua è, innanzitutto, un elemento primordiale: alla creazione, «la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque» (Gen 1,2): le espressioni ebraiche che indicano ciò che i traduttori hanno reso con «informe e deserta» (tohu e bohu) non sono chiaramente interpretabili; originariamente, comunque, sembrano avere a che fare con «l’aridità e la sterilità della terra desertica» (Busi); abisso e acqua costituiscono invece l’espressione chiara e concreta – ricca di paralleli mitici in altre culture del Vicino Oriente – della situazione caotica dei primordi. L’organizzazione del caos delle origini avviene attraverso differenti atti di Dio, uno dei quali consiste appunto nel separare «le acque, che sono sotto il firmamento, dalle acque, che sono sopra il firmamento» (Gen 1,7). In una fase ulteriore, le acque che si trovano sotto il cielo vengono raccolte in un luogo solo e il mare si distingue dall’asciutto. L’acqua, quindi, ha una valenza cosmogonica: costituisce, infatti, uno degli elementi delle origini che precedono l’attività ordinatrice di Dio; in questo senso, la vittoria sulle acque è assimilata a quella che, in altre cosmogonie, la divinità riporta contro il drago primordiale: «Non hai tu forse fatto a pezzi Raab, non hai trafitto il drago? Forse non hai prosciugato il mare, le acque del
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3. L’arca dell’Alleanza scolpita nella Sinagoga di Cafarnao. Fregio del iv secolo. 4. Il tempio di Salomone, affresco della Sinagoga di Dura Europos, secolo iii, Museo Nazionale di Damasco. La costruzione del tempio di Gerusalemme è legata all’idea che la delimitazione dello spazio sacro abbia un valore cosmico: «costruì il suo tempio alto come il cielo e come la terra stabile per sempre» (Sal 78,69). Si tratta di una nozione che ha dei nessi con quella – diffusa nell’antichità – della costruzione di un edificio come ripetizione della cosmogonia. In età tardo antica, questo concetto è ripreso esplicitamente. Giuseppe Flavio ritiene che i tre settori del tempio corrispondano alle tre parti del mondo: mare (atrio), terra (il “Santo”), cielo (il “Santo dei Santi”). In uno scritto del v secolo, il versetto dei Proverbi «La sapienza si è edificata una casa» (9,1) è interpretato da quattro maestri con l’identificazione della casa con la creazione del mondo, la costruzione del tempio, la Torah e l’Arca dell’Alleanza.
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grande abisso e non hai fatto delle profondità del mare una strada, perché vi passassero i redenti?» (Is 51,9-10). Ma le acque non sono soltanto una espressione della realtà negativa che l’ordine del cosmo creato da Dio supera e imbriglia; sono anche la materia sulla quale quell’ordine si impone e, come tali, costituiscono la base su cui la terra appoggia: «Del Signore è la terra e quanto contiene [...], è lui che l’ha fondata sui mari, e sui fiumi l’ha stabilita» (Sal 24,1-2). Nel brano di Isaia si accenna a un passaggio: un momento essenziale della storia ebraica è quello in cui il popolo, guidato da Mosè e inseguito dagli egiziani, attraversa il Mar Rosso (Es 14,15-31): una vicenda legata, a sua volta, a quella dell’attraversamento del Giordano narrato nel libro di Giosuè (4,15-18). Anche Elia percuote le acque del fiume, che si aprono e lo lasciano passare insieme ad Eliseo (2 Re 2,8). Un ulteriore significato fondamentale assegnato all’acqua è quello della purificazione, che serve, innanzitutto, a preparare l’uomo a entrare in contatto con il divino: così, i sacerdoti dovevano compiere abluzioni prima di entrare nella tenda del convegno. L’acqua serviva poi a mondare gli uomini che si erano resi, in qualche maniera, impuri: i lebbrosi, le donne mestruate, chi aveva malattie sessuali, chi aveva toccato un cadavere. A questi aspetti purificatori si può legare anche il racconto del diluvio, un cataclisma che punisce le colpe degli uomini e dal quale nasce un mondo rinnovato. 3. L’albero e la nascita della condizione umana Nel giardino di Eden sono presenti molti alberi, belli d’aspetto e dai frutti buoni, ma due sono i principali: quello della vita e quello del bene e del male. La narrazione non permette di precisare le caratteristiche delle due piante. Nella prima può essere riconosciuto un motivo vicino-orientale comune: quello, appunto, dell’albero della vita come segno di vitalità, immortalità, fertilità. L’albero della conoscenza non ha invece paralleli nelle culture limitrofe; esso fa sì che l’uomo diventi cosciente del proprio corpo. L’acquisizione della consapevolezza della distinzione bene/male, che il suo frutto garantisce, è considerata, nella Bibbia, come segno della transizione all’età adulta. In generale, la vicenda di Adamo ed Eva esprime il passaggio alla situazione umana, quale noi la conosciamo, mediata proprio dal frutto dell’albero della conoscenza. L’albero torna poi più volte all’interno di costrutti metaforici, nei quali è legato all’uomo: Giuseppe è come un ramo fruttifero (Gen 49,22); il giusto «è come un albero piantato lungo corsi d’acqua, che darà frutto a suo tempo, e le sue foglie non cadranno mai» (Sal 1,3); lo sposo del Cantico dei Cantici è come un melo (2,3); l’albero secco o tagliato simboleggia sterilità e sventura. Insomma, l’albero sta sovente a indicare la floridezza, la vita, la salute: presso gli uomini come presso le nazioni. Così, nel sogno di Nabucodonosor, premonitore della sua decadenza, compare «un albero di grande altezza in mezzo alla terra. Quell’albero era grande, robusto, la sua cima giungeva al cielo e si poteva vedere fin dall’estremità della terra»; un santo scende dai cieli e ordina di tagliare l’albero lasciandone soltanto il ceppo. L’albero è il re, la cui grandezza è giunta fino al cielo e il cui regno ha toccato i confini del mondo; il suo crollo è invece la disgrazia di Nabucodonosor (Dan 4,7-14). L’immagine, che evoca, con la sua grandiosità, l’idea dell’albero come pilastro cosmico, nesso fra cielo e terra, è utilizzata a indicare il destino di un uomo e del popolo che guida; così come, nel libro di Ezechiele, l’Assiria è paragonata ad un cedro del Libano, tanto bello da essere invidiato da «tutti gli
5. Pavimento in mosaico della sinagoga di Beth Alpha, secolo vi. In alto, l’Arca dell’Alleanza e la menorah; in basso, il sacrificio di Isacco; al centro, lo zodiaco, con immagini animali e antropomorfe. 157
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alberi dell’Eden», che ha spinto la sua cima fra le nuvole e si è inorgoglito destando l’ira di Dio, sicché popoli stranieri lo hanno tagliato (Ez 31,1-14). Allo stesso modo il Libano cade come un albero reciso (Is 10,33-34), ma, per converso, «un germoglio spunterà dal tronco di Jesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici». È verosimile che vi fosse stato anche un culto arboreo, connesso con l’idea dell’albero come segno di fertilità, dal quale gli Ebrei intendono differenziarsi: Geremia dice infatti ad Israele: «sopra ogni colle elevato e sotto ogni albero verdeggiante ti sei sdraiata come una prostituta» (Ger 2,20).
SIMBOLISMO E RAFFIGURAZIONE L’immaginario di un popolo, comunemente, si esprime nella sua letteratura, ma assume una dimensione visiva attraverso opere d’arte e manufatti. Nel mondo ebraico, tuttavia, questo è avvenuto secondo forme singolari, perché gli stessi testi sacri – e la tradizione che successivamente si è creata attraverso la loro interpretazione – hanno posto il problema della rappresentazione e lo hanno fatto in maniera restrittiva. Tanto che è universalmente diffusa l’idea – inesatta – di una proibizione assoluta di creare immagini e di una conseguente aniconicità della produzione artigianale e artistica ebraica. La situazione, in realtà, appare assai più complessa. All’interno del decalogo dettato da Dio a Mosè sul Monte Sinai, dopo le affermazioni: «Io sono il Signore, tuo Dio» e «non avrai altri dèi di fronte a me» è presente una prescrizione che riguarda proprio le immagini: «Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra» (Es 20,4). Il Deuteronomio precisa la prescrizione: «State bene in guardia per la vostra vita, perché non vi corrompiate e non vi facciate l’immagine scolpita di qualche idolo, la figura di maschio o femmina, la figura di qualunque animale, la figura di un uccello che vola nei cieli, la figura di una bestia che striscia sul suolo, la figura di un pesce che vive nelle acque sotto la terra; perché, alzando gli occhi al cielo e vedendo il sole, la luna, le stelle, tutto l’esercito del cielo, tu non sia trascinato a prostrarti davanti a quelle cose 158
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e a servirle» (4,15-19). E tuttavia, istruzioni date al popolo per la costruzione dell’arca richiedono che si scolpiscano, sul coperchio, due cherubini (Es 25,18-20; 37,6-9); nel tempio di Salomone, poi, vi sono sculture a rosoni e boccioli di fiori (1 Re 18); nella cella stanno due cherubini e le pareti dell’edificio sono scolpite e incise con figure di cherubini, boccioli di fiori e palme (1 Re 29). Dieci basi in bronzo, corrispondenti a dieci bacini, presentano doghe e traverse su cui «c’erano leoni, buoi e cherubini» (1 Re 7,29). È evidente dunque che la proibizione di rappresentare non era assoluta; d’altra parte, tuttavia, quanto il Pentateuco prescriveva non poteva certo essere di stimolo allo sviluppo di un’arte ebraica che, per circostanze storiche di vario genere, non ebbe particolare fioritura. Questo vale, dunque, anche per i simboli, che non poterono avere, nelle arti figurative, un’espressione paragonabile alla ricchezza, varietà, pregnanza che presentavano invece nelle Scritture. Tuttavia, il sospetto nei confronti delle immagini doveva variare da comunità a comunità e non comportò un totale isolamento degli Ebrei nei confronti degli ambiti culturali a loro limitrofi. Il contatto con la cultura ellenistica non fu infatti senza effetti: negli anni ’30 del secolo scorso, in particolare, tre importanti scoperte archeologiche hanno dimostrato quanto il giudaismo si fosse impadronito degli strumenti espressivi forniti dall’ambiente in cui si sviluppava. La prima è quella della sinagoga di Beth Alpha, risalente al sesto secolo, che comporta una decorazione musiva nella quale compaiono una rappresentazione dello zodiaco (con figure allegoriche, animali e antropomorfe) e una immagine con i tratti del dio greco Helios su un carro, nonché la mano di Dio. Nella sinagoga di Dura Europos sono presenti affreschi con scene bibliche che utilizzano motivi ellenistici e nel luogo funerario di Bet Shearim sono stati trovati sarcofagi con simboli dell’immortalità diffusi al di fuori del mondo giudaico e altre immagini umane e animali. Non si tratta, d’altronde, di casi isolati e sporadici: si ritrovano tracce dell’arte ellenistica in resti di insediamenti di comunità giudaiche in molti altri luoghi. La valutazione del loro ruolo e del loro significato non è facile ed è stata oggetto di dibattito da parte degli studiosi: si tratta, infatti, di stabilire quanto, dell’ideologia o della filosofia soggiacente a quelle raffigurazioni, sia stato trasmesso nelle figure rappresentate dagli ebrei e, di conseguenza, in che misura
6. Varie forme di menorah. Sul monte Sinai, Dio dà a Mosè istruzioni per foggiare il candelabro che andrà deposto nel santuario: «sei bracci usciranno dai suoi lati: tre bracci del candelabro da un lato e tre bracci del candelabro dall’altro lato. Vi saranno su di un braccio tre calici in forma di fiore di mandorlo, con bulbo e corolla […]. Il fusto del candelabro avrà quattro calici in forma di fiore di mandorlo, con i loro bulbi e le loro corolle» (Es 25,32-34). Il passo insiste sulle decorazioni floreali della menorah: questo fa pensare al candelabro come «rappresentazione compendiaria della natura vegetale»; esso si collega poi, ovviamente, al valore della luce e del fuoco e, poiché rimane acceso nella notte, diventa segno del «perdurare dell’energia della natura, offerta in testimonianza al Signore» (Busi). Filone e Giuseppe Flavio vedono in essa il simbolo del sole e dei sette pianeti. Quando viene intrapresa la costruzione del secondo tempio, Zaccaria ha la visione di «un candelabro tutto d’oro», con sette lucerne, affiancato da due olivi (4,2-3). E l’angelo interpreta così l’immagine: «le sette lucerne rappresentano gli occhi del Signore che scrutano tutta la terra» (4,10). Dopo la distruzione del tempio nel 70, il candelabro è portato a Roma e compare nel trionfo romano istoriato sull’arco di Tito. I cabbalisti del Medioevo interpretano la menorah in rapporto alla teoria delle sefirot, legando i sette bracci alle sefirot inferiori. La letteratura cabbalistica continuerà poi, nei secoli successivi, a studiare il simbolismo del candelabro.
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esse abbiano esercitato un influsso sul loro immaginario. La risposta può andare dal riconoscimento di una vera “invasione” da parte della cultura ellenistica all’estremo opposto: all’idea che moduli decorativi siano stati semplicemente adottati per il loro valore estetico, senza che si avesse neppure coscienza del significato che possedevano nella cultura dalla quale avevano avuto origine. Alla simbolica ebraica nel periodo greco-romano è stato dedicato uno studio amplissimo, in dodici volumi, da Erwin Ramsdell Goodenough, che ha fatto una analisi particolarmente dettagliata e ricca delle testimonianze archeologiche di cui disponiamo. Dalla sua ricerca si possono trarre due esempi dell’uso dei motivi figurativi ellenistici da parte degli ebrei e dei problemi che esso comporta. Il primo è quello della rappresentazione del dio sole greco, che si trova su un sarcofago di Bet Shearim, del secondo-quarto secolo. Considerato isolatamente dalle altre testimonianze iconografiche, potrebbe essere visto come la ripresa, più o meno casuale, di un motivo decorativo. Ma, osserva Goodenough, simboli solari si trovano anche in molti amuleti del tempo che presentano marchi ebraici e, soprattutto, sui pavimenti di cinque sinagoghe. Questo non può essere casuale, né, d’altra parte, significare che gli ebrei si siano dedicati all’adorazione di un dio solare. Sembra invece un indice di come elementi figurativi estranei potessero essere assunti come simboli. L’immaginario ebraico, che non era impermeabile, come si è detto, al valore simbolico del sole, poteva piegare motivi iconografici tipici di altre culture alle proprie esigenze espressive, senza con questo abdicare alla tradizione cui si richiamava. Un secondo esempio è costituito dalla presenza di raffigurazioni di oggetti prettamente ebraici, come la menorah, accanto a simboli tratti dall’iconografia grecoromana: un candelabro a sette bracci si trova circondato ad ogni lato, in una rappresentazione di grande pregnanza simbolica, da uccelli che mangiano uva. Ora, commenta Goodenough, «gli uccelli che mangiano chicchi d’uva simboleggiavano certamente l’immortalità per i cristiani e probabilmente anche per i pagani, sicché è difficile credere che gli uccelli e l’uva non fossero per i giudei altrettanto simbolici che le menorot». La vite costituisce un motivo molto frequente nelle sinagoghe ed è poco verosimile che, in un’epoca in cui i simboli legati al vino erano particolarmente vitali – almeno nell’uso che ne facevano i cristiani –, essi venissero adottati come semplici elementi decorativi, privi di ogni significato, da comunità giudaiche. Altri simboli attestati con una certa frequenza in questo periodo sono le fiere – e in particolare i leoni, nei quali è possibile ancora riconoscere un riferimento all’immortalità –, le aquile, le spighe, gli alberi, le conchiglie e le immagini della Vittoria. In generale, «i giudei non adattavano forme casuali, ma un linguaggio, un linguaggio non verbale ed emozionale, che poteva essere usato per esprimere le speranze e le realizzazioni di una religione escatologica o mistica. Questo linguaggio non verbale, come ogni espressione emozionale, non può essere tradotto in parole» (Goodenough).
L’ECLISSI DEL SIMBOLISMO FIGURATIVO E LA LETTERATURA RABBINICA Il momento di fioritura dell’arte delle sinagoghe e dei cimiteri giudaici va dal secondo al quarto secolo. Dopo di allora essa sembra scomparire. Per quali ragioni? Goodenough avanza una serie di spiegazioni: innanzitutto, la tolleranza nei confronti delle pratiche giudaiche diventa, nel quinto e sesto secolo, minore e, in conseguenza di questo, l’interscambio con la cultura 160
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circostante diminuisce; la Mishnah, redatta intorno al 200, sarebbe rimasta fino a quei tempi generalmente inintelligibile al di fuori delle accademie, in quanto scritta in ebraico; la redazione del Talmud e il suo imporsi, con quello dei midrashim, avrebbero mutato la situazione in senso assolutamente restrittivo, con la chiara condanna di ogni immagine foggiata a uso dei giudei. L’atteggiamento nei confronti delle immagini fu condizionato altresì, nel sesto e settimo secolo, dai movimenti iconoclasti islamici e cristiani. Vanno poi ricordati il mutamento delle forme di pensiero che la scomparsa del greco e del latino come lingue delle comunità giudaiche – fra il settimo e l’ottavo secolo – non poté non comportare, con l’imporsi dell’ebraico in qualità di lingua religiosa, e, infine, il fatto che venisse riconosciuta al Talmud babilonese, nello stesso periodo, un’autorità quasi pari a quella della Torah. Tutto questo sembra suggerire che una forma di giudaismo di carattere più mistico scompaia per poi riapparire in seguito, mentre si sviluppa un giudaismo rabbinico che insiste sull’ortoprassia. La situazione non è tuttavia così netta. Goodenough effettua uno studio dettagliatissimo delle rappresentazioni diffuse in età tardoantica, ma dà minor peso alla vitalità delle immagini che la letteratura testimonia. Il rilievo accordato all’espressione simbolica è infatti costante: non nasce con l’adozione dei moduli espressivi ellenistici, né muore con il loro abbandono. L’idea della Bibbia come testo dalle “settanta facce’’ – cioè dai significati infiniti –, come opera da interpretare per viverne la ricchezza, la complessità, la profondità, comporta una necessaria enfatizzazione del suo aspetto simbolico. Si produce
7. Xilografia, Amsterdam, 1700 circa. Vi si rappresenta il Rosh Hashanah, il Capodanno ebraico dove si suona il Sofar, il corno. La teofania sul Sinai è annunciata da «tuoni, lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di tromba» (Sofar) [Es 19,16]. Quindi «il suono della tromba diventava sempre più intenso: Mosè parlava e Dio gli rispondeva con voce di tuono». In queste parole si sente, commenta Busi, l’eco del «più antico valore simbolico dell’oggetto, che doveva essere connesso con l’idea di forza numinosa e col possente rumore del vento e del tuono»: il suo suono, per il timbro e l’intensità che lo contraddistinguono, si rivela idoneo a interrompere la successione normale del tempo e a costituire il segno dell’irruzione del sovrumano. Anche in Zaccaria, al suo arrivo il Signore «suonerà il corno» (9,14); nel libro di Giosuè, al suono del corno crollano le mura di Gerico (6,4). Il suo significato viene collegato, qui e altrove, alla salvezza e alla liberazione di Israele. Il corno ha una funzione centrale nella liturgia: è suonato alla festa di Capodanno e all’inizio dell’anno giubilare; Giuseppe Flavio testimonia che lo si suonava anche all’inizio e alla fine del sabato. In tutti questi casi, sembra avere un valore di rottura rispetto alla successione normale degli eventi e di delimitazione della dimensione sacrale, della quale segna il momento di accesso e quello di uscita. Nel Medioevo emerge anche l’idea del corno che risveglierà i morti il giorno del giudizio. Nel simbolismo cabbalistico è associato alla sefirah dell’intelligenza.
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dunque una attività ermeneutica fiorente, caratterizzata, tra il primo e l’viiiix secolo, dall’individuazione di parole chiave, delle quali si studiavano le ricorrenze e i sensi, arricchendone l’area semantica attraverso il ricorso a tradizioni extra-bibliche. Giulio Busi, cui si fa qui riferimento per l’analisi di questi sistemi interpretativi e della loro evoluzione, propone l’esempio del fuoco: il fuoco, presente nel roveto ardente, legato alla parola di Dio in Geremia, guida degli ebrei nell’esodo, pioggia che distrugge Sodoma ed elemento indispensabile al sacrificio, diventa simbolo dell’irruzione del divino nella sfera umana»: unifica, come tale, tutta una serie di situazioni tra loro distanti. Il procedimento di analisi non si limita tuttavia all’ambito biblico. È così che, nel v secolo, compare l’idea della distinzione tra “fuoco bianco’’ e “fuoco nero’’. Se nella tradizione latina il secondo fa pensare a qualcosa di terrestre e materiale, il giudaismo capovolge quest’idea, riconoscendo nel fuoco nero l’elemento superiore, legato a Dio e alla trascendenza, a indicare che l’irruzione del divino capovolge l’esperienza comune. La speculazione esegetica si interroga dunque sulle immagini della Bibbia e sui suoi racconti, cercandone i significati e stabilendone di nuovi. Si deve sempre a Busi di avere tracciato la storia di questi significati. Alcuni cenni di come le immagini evocate trattando della Bibbia siano state riprese e reinterpretate possono dare l’idea della ricchezza dell’esegesi che si è sviluppata a partire dai testi sacri. L’albero della vita assume una dimensione tale da allargarsi «su tutti gli esseri viventi», tale che «tutte le acque della creazione sgorgavano in rivi da sotto di esso» (Busi): il suo carattere di albero cosmico diventa in tal modo più appariscente. Il dualismo tra gli alberi della Genesi assume i tratti di un antagonismo, nel quale l’albero della conoscenza è considerato come albero della morte. La funzione cosmogonica dell’acqua diventa il centro di racconti, nei quali l’elemento determinante è l’intervento ordinatore di Dio, rispetto al quale le acque, che appaiono come ribelli, incarnano abbastanza chiaramente il disordine. Con il pensiero filosofico, a partire dal ix-x secolo, il metodo esegetico subisce mutamenti: supera il limite costituito dalle parole come unità di riferimento prestando attenzione all’ordine concettuale; tende a procedere dando una lettura più astratta dei termini della Bibbia; utilizza abbondantemente l’allegoria. Esso ha il suo compimento con Maimonide. La sua attività di sistematizzazione è utilizzata dai mistici e influisce sull’elaborazione della qabbalah.
8. La stella di Davide raffigurata nella maquette preparatoria di Marc Chagall per la vetrata dedicata alla Tribù di Levi per la sinagoga dello Hadassah Medical Center Gerusalemme. Il termine che la designa è “mogen David”, che significa “scudo di Davide”: un’espressione che si utilizza, nella liturgia, dopo la lettura dei libri profetici. Lo scudo è, nella Bibbia, simbolo di riparo e si trova spesso in riferimento a Dio che difende il suo popolo e, quindi, alla protezione che si ottiene tramite la preghiera. A partire dal xii secolo, viene associato alla stella a sei punte, già presente in oggetti di età tardo-antica; nel xiii si ritrova nei manuali di magia e diventa parte dell’insegna della comunità di Praga. Il carattere magico che gli viene attribuito fa sì che la letteratura teosofica non ne parli. Ma è possibile notare che, verso la fine del iii secolo, l’idea di scudo viene associata a una duplicità (al rapporto fra due forze, una di livello superiore e l’altra inferiore) e questa innovazione è probabilmente in rapporto con la forma della stella di Davide, che si presta a indicare l’unione di due elementi opposti (l’uno volto verso l’alto e l’altro verso il basso, come i due triangoli di cui è composta). Il suo successo nel rappresentare il popolo ebraico è forse dovuto, ritiene Busi, alla forma geometrica che la contraddistingue, coerente con una concezione sospettosa verso le rappresentazioni figurative.
IL SIMBOLISMO CABBALISTICO La qabbalah, che nasce nel xiii secolo nel Sud della Francia e conosce un particolare sviluppo, nello stesso periodo, in Spagna, conferisce particolare valore alla nozione di simbolo. Se il movimento è estremamente variegato nelle sue espressioni (e conosce fasi ben distinte, dalle origini duecentesche all’imporsi dello Zollar, alla sintesi di M. Cordovero e alla risistemazione di Y. Luria, fino all’imporsi dell’hassidismo), si può dire tuttavia che condivida l’idea dell’esistenza di una tradizione mistica, caratterizzata dal riconoscimento di una complessa rete simbolica che sottende la realtà. Gershom Scholem scrive che «il mondo della qabbalah è pieno di [...] simboli, anzi, per dire il vero, tutto il mondo per essa è un [...] corpus symbolicum: dalla realtà della creazione, senza che vi sia bisogno che venga negato o annullato il suo essere, diviene visibile l’ineffabile segreto della divinità». I cabbalisti riprendono l’idea, affermatasi nelle opere filosofiche, del signi163
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ficato allegorico dei testi, ma per loro «nel simbolo mistico un’espressione sta per qualcosa che si sottrae al mondo dell’espressione e della comunicazione»; accolgono la concezione secondo la quale esiste una trama, più o meno nascosta, di legami che uniscono ogni oggetto con la creazione, ma, per loro, da tutto questo traluce qualcosa di misterioso, che ha a che fare con la trascendenza. L’affermazione di Scholem sul pansimbolismo cabbalistico va forse attenuata: Moshe Idel ha infatti messo in rilievo come essa valga certamente per la qabbalah teosofica, il cui punto di riferimento è l’opera dal titolo Sefer Ha-Zohar (che risale a poco dopo il 1275), ma non per altre forme che il movimento assume, come la cosiddetta qabbalah estatica, in cui i simboli, con la loro natura limitata e la loro ambiguità, possono essere considerati come ostacoli alle aspirazioni del mistico nella sua ricerca del contatto con Dio. Tenendo conto di queste limitazioni, rimane il fatto che, con l’imporsi della qabbalah, la centralità del simbolo è potentemente riaffermata. Non è possibile esporre qui le caratteristiche del simbolismo cabbalistico. Si può solo ricordare come punto di riferimento sia Dio, chiamato ’En-Sof («ciò che è infinito»), che trascende ogni comprensione e «non si manifesta minimamente nemmeno nei documenti della rivelazione, negli scritti canonici della Bibbia e della rivelazione rabbinica». Il mistico «cerca di possedere realmente il Dio vivente della Bibbia [...] ma nello stesso tempo però non vuol rinunciare a quell’altro Dio nascosto» (Scholem). Si dedica dunque a una attività ermeneutica sui testi sacri e, in primo luogo, sulla Torah, termine che designa, propriamente, il Pentateuco, ma che è usato anche per indicare le Scritture in genere. La Torah stessa è descritta ricorrendo a simboli: essa è, innanzitutto, un organismo vivente. Recita lo Zohar: «come il corpo dell’uomo è costituito di membra e di articolazioni di rango diverso, che agiscono e reagiscono tutte le une sulle altre e formano un organismo, così è anche il mondo [...]. E tutto è ordinato secondo l’archetipo della Torah, poiché la Torah consiste interamente di membra e articolazioni che stanno fra loro in un rapporto gerarchico, e se sono esattamente disposte costituiscono un unico organismo». Altrove si parla anche di Israele, all’interno dello stesso costrutto metaforico: una corrispondenza simbolica, dunque, è riconosciuta fra Sacra Scrittura, struttura del cosmo, popolo ebraico, mediata dall’immagine del corpo umano. La Torah corrisponde anche all’«albero della vita» (Scholem). Ora, la via che conduce verso Dio è la stessa, percorsa all’inverso, per la quale tutto procede da Dio. E la sfera delle emanazioni divine è quella delle cosiddette sefirot: sebbene queste siano descritte in maniera diversa dai mistici, «è sempre questa sfera che è l’oggetto della loro intuizione che essi descrivono col linguaggio del simbolo, poiché essa non è accessibile alla diretta percezione dello spirito umano. Quando Dio si rivela, lo fa con la mediazione e col dispiegamento di questa sua forza creatrice». Non si tratta di qualcosa «che sia staccato dalla divinità, che le sia subordinato; al contrario, è la rivelazione di quella radice nascosta che non compare mai e in nessun luogo, neanche nei simboli, di cui perciò non si può asserire nulla, e che i cabbalisti chiamavano ’En-Sof, l’infinito» (Scholem). Scholem definisce le sefirot, che sono in numero di dieci, «potenze e forme di azione del Dio vivente». Esse sono espresse da immagini e simboli che costituiscono le forme in cui Dio appare e, nel contempo, gli archetipi di tutto. A proposito delle emanazioni, i cabbalisti parlano di energia, di luce, ma anche dei nomi divini e delle lettere che li compongono. Il linguaggio da un lato e la luce dall’altro diventano quindi due simboli fondamentali della speculazione cabbalistica. Le sefirot hanno un ordine che corrisponde a quello del corpo umano: le 9
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prime tre si riferiscono alla testa; le due successive alle braccia, la sesta al tronco, la settima e l’ottava alle gambe, la nona all’organo sessuale; l’ultima è la totalità dell’uomo, oppure la femmina. Il simbolismo tradizionale, su queste basi, assume nuove forme. E sempre a Busi che occorre riferirsi per avere un quadro degli elementi di continui tà e di quelli di rottura che la letteratura cabbalistica manifesta a questo proposito. Ci si può qui limitare a far cenno a due immagini fondamentali: quella dell’albero e quella della luce. Il concetto di emanazione, con le metafore luminose che lo esprimono, è tratto, da parte dei filosofi ebrei, dalla speculazione ellenistica a partire dal ix secolo. E così che viene stabilita una gerarchia di esseri, la cui progressiva distanza dalla fonte da cui dipendono corrisponde a un affievolirsi dello splendore. Presso i cabbalisti questa idea rimane e viene sviluppata in diverse forme. Una di esse vede la luce, nei suoi gradi di intensità, come attributo delle sefirot. Nell’opera di Luria, la luce appare come «l’ordito dell’intera struttura cosmica» (Busi). Nel xii secolo l’idea dell’albero della vita come totalità cosmica viene ripresa e sviluppata: «Io sono colui che ha piantato questo albero – dice il Signore – [...], ho fissato tutto in esso e l’ho chiamato tutto» (Sefer ha-bahir). Ne deriva l’immagine dell’albero delle sefirot, particolarmente frequente nella letteratura cabbalistica.
9. Marc Chagall, maquette per una vetrata della parete nord, Magonza, Cattedrale. La maquette rappresenta il candelabro a sette bracci, un profeta, un angelo, l’albero della vita. 10. Immagine del mondo composta dalle iniziali delle dieci sefirot. Si tratta di un diagramma cabbalistico tratto dall’opera Pardès Rimmonìm di M. Cordovero, apparsa a Cracovia nel 1592. 11. Schema delle dieci sefirot.
Keter corona Binah intelligenza
Hokhmah saggezza
Gedulah grandezza
Gevurah potere
Hod splendore
Tif ’eret magnificenza
Netsah eternità
Yesod fondamento
Malkhut regno 10
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Palma
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Nel cristianesimo, religione del libro, le Scritture costituiscono il centro della vita religiosa, sono il punto di riferimento costante delle comunità, il fulcro intorno al quale si organizzano le regole, la liturgia, il patrimonio dottrinale. Il significato delle Scritture viene colto attraverso un lavoro di interpretazione che da un lato le rende accessibili, dall’altro fa sì che esse possano rispondere alle esigenze che le comunità presentano. Fin dalle origini del cristianesimo si pone dunque il problema dell’esegesi, cioè della lettura e comprensione dei testi sacri. Problemi analoghi erano già stati affrontati negli ambienti culturali nei quali la nuova fede nasce e si espande. Il giudaismo aveva cercato di dare una risposta alle esigenze della vita comune e di regolare lo svolgimento delle pratiche quotidiane elaborando sistemi di interpretazione delle Scritture – affermatisi principalmente nelle scuole rabbiniche – che comportavano un’analisi e una spiegazione minuziosissime dei testi; contemporaneamente, si era sviluppato un metodo interpretativo in cui aveva largo spazio l’accostamento degli episodi scritturali a racconti di carattere leggendario e aneddotico, con scopi di edificazione e di predicazione. In generale, benché l’interpretazione allegorica fosse utilizzata, era l’attenzione al significato letterale dei testi a costituire l’elemento centrale. Nel mondo classico invece l’interesse per l’allegoria aveva trovato un terreno di sviluppo particolarmente fertile, nell’interpretazione delle vicende divine narrate dai miti, soprattutto tra i filosofi. L’analisi allegorica era stata fatta propria dal giudaismo ellenizzante, principalmente di Alessandria, nel suo sforzo di accostare la Bibbia e la cultura greca: Filone, la cui opera rappresenta il momento culminante di questa tendenza, legge le Sacre Scritture individuandovi significati di ordine soprattutto cosmologico e antropologico.
Cristogramma
1. Croce con il monogramma di Cristo su cielo stellato. Napoli, Battistero di San Giovanni in Fonte. In alto, la mano del Padre e una corona d’alloro; intorno, fiori, frutti e uccelli, fra i quali, nella parte superiore, una fenice. 167
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2. Il monaco Beato di Liebana nell’viii secolo realizzò un commento dell’Apocalisse che nei tre secoli successivi in Spagna venne varie volte illustrato. Diede così origine a una serie di “beati”. L’ultimo, il più famoso codice che illustra il testo, è del 1047: Il beato di Fernando e Sancia, di commissione reale. Vi si trova il mappamondo teologico qui riprodotto, una sorta di cosmografia cristiana a partire dall’Apocalisse che avrà influenza nel periodo successivo del Medioevo.
I primi cristiani, riconoscendo la continuità della loro fede con quella dell’Antico Testamento e ritenendo che l’antica legge trovi il suo significato e compimento in Cristo, presentano, da un lato, la vita di Gesù come l’adempimento delle promesse messianiche contenute nella Bibbia; dall’altro, leggono alcuni episodi veterotestamentari come prefigurazioni della venuta del Salvatore. Così, nelle lettere di Paolo Adamo è considerato una prefigurazione di Cristo; i figli di Agar e Sara degli ebrei e dei cristiani; il passaggio del Mar Rosso prefigura il battesimo; la manna e l’acqua che sgorga dalla roccia durante l’Esodo l’eucaristia. Nel Vangelo di Giovanni il serpente di bronzo issato da Mosè e l’agnello pasquale prefigurano la crocifissione e morte di Cristo; nella prima lettera di Pietro l’acqua del diluvio simboleggia quella del battesimo. Si fa strada dunque l’idea che esistano due livelli di lettura delle vicende bibliche, uno letterale e l’altro “tipologico”. Il termine typos, che già Paolo impiega, può essere tradotto con forma, figura, e quindi simbolo e prefigurazione. Poiché secondo gli antichi esegeti è allegorico ogni tipo di spiegazione che non sia letterale, la tipologia può essere considerata come una forma di allegoria. Nel periodo subapostolico (fine i-inizio ii secolo), se Clemente di Roma e Ignazio di Antiochia si limitano a utilizzare, per ragioni diverse, l’interpretazione letterale, lo Pseudo Barnaba continua, sviluppandolo, l’orientamento tipologico di Paolo. Negli scritti di questo autore troviamo la prima applicazione operata dall’esegesi cristiana del simbolismo numerico: il numero dei servi di Abramo, 318, viene spiegato riferendosi al nome di Gesù: 300 si scrive infatti, in greco, con la lettera tau (T) che ricorda la croce; 10 con la iota (I) e 8 con la eta
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(H), che sono le iniziali di ’IHSOUS (Gesù). Negli scritti neotestamentari il simbolismo dei numeri è raro, con l’eccezione dell’Apocalisse. È in ambienti cristiani che condividono l’orientamento allegorizzante che cominciano ad imporsi, probabilmente, alcuni simboli come il sole (che rinvia a Cristo), la luna e la nave (simboli della Chiesa), il mare (simbolo del mondo). La stessa linea interpretativa di carattere tipologico si oppone alla svalutazione dell’Antico Testamento operata dai marcioniti e al tipo di lettura – allegorizzante anch’essa – proposta dagli gnostici. Due esempi di questa opposizione sono costituiti dalle opere, risalenti al ii secolo, di Giustino e Ireneo. Anche Tertulliano, fra ii e iii secolo, fa uso dei procedimenti allegorici. Tutti questi autori sembrano condividere l’idea, chiaramente formulata da Giustino, secondo la quale le profezie dell’Antico Testamento trovano adempimento in Cristo, mentre le altre narrazioni sono suscettibili di una lettura allegorica, come typoi che vanno interpretati in relazione a lui; interpretazione letterale e allegorica, d’altra parte, non sono regolate da norme precise e rispondono spesso a necessità di carattere polemico. È con Ippolito che l’esegesi assume la dignità di genere letterario autonomo. Tra la fine del ii secolo e la metà del iii, nell’ambiente alessandrino l’esegesi conosce un particolare sviluppo con Clemente – che integra l’interpretazione tipologica tradizionale con la lettura di Filone – e con Origene, che teorizza la distinzione fra significato letterale e spirituale delle Scritture. In Occidente, l’esegesi penetra nella seconda metà del iv secolo e ha un carattere soprattutto spirituale; tocca il suo culmine con Gerolamo e Agostino. Contemporaneamente al fiorire della letteratura esegetica si assiste alla nascita e al primo sviluppo di un’arte cristiana, anch’essa ricca di motivi simbolici. I simboli raffigurati nell’iconografia e quelli presenti nei testi sono sovente i medesimi ed è la letteratura che, spesso, fornisce la chiave per l’interpretazione delle immagini. Il tema del simbolismo cristiano potrà essere per questo affrontato in maniera unitaria, senza distinguere programmaticamente testi scritti e raffigurazioni, ma con la consapevolezza della eterogeneità del materiale di cui disponiamo. Si prenderanno in considerazione alcuni motivi simbolici più diffusi o centrali nel cristianesimo dei primi secoli, per cercare di definirne il significato. Con due avvertenze preliminari: innanzitutto, i sensi attribuiti alle singole immagini variano a seconda dei contesti, delle linee di influenza, dei rapporti storici di dipendenza fra gli autori, rendendo difficile fare un discorso di massima; in secondo luogo, in ogni caso si pone il problema, talvolta risolto diversamente dai vari studiosi, e che, in una sintesi come la presente, non è possibile affrontare in dettaglio, del rapporto fra immagini cristiane e cultura greco-romana da un lato, giudaica dall’altro.
LA PIANTAGIONE, L’ALBERO DELLA VITA, LA VITE, IL VINO Vari testi giudeo-cristiani parlano della Chiesa come di una piantagione (phyteia). La phyteia comprende molte piante, ognuna delle quali rappresenta un individuo; si trova in Paradiso e il suo seminatore è Dio; è possibile entrare a farne parte tramite il battesimo. L’immagine è già presente nel giudaismo precristiano e nelle Sacre Scritture e Paolo chiama “nuove piante” (neophytoi) le persone appena battezzate. Ippolito di Roma considera il giardino dell’Eden come un simbolo dell’assemblea dei giusti, la Chiesa. Nell’Eden scorre un fiume, dal quale si dipartono quattro corsi d’acqua che irrorano la terra: il fiume è Cristo, che i quattro Vangeli portano 169
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al mondo. Un’immagine collegata a questo complesso simbolico è quella dell’albero della vita: l’idea dell’albero come simbolo di Cristo si trova in Ippolito, Ephrem, Giustino, Tertulliano, Clemente Alessandrino, Origene, Metodio. Il demonio, da parte sua, è talvolta rappresentato dall’“albero della morte”. L’albero simboleggia anche l’anima, che, dice Didimo, rifiorisce con il battesimo come una pianta che cresce sulla riva delle acque. Tre tematiche, dunque, si associano: quella della piantagione come simbolo della Chiesa, quella dell’albero della vita come simbolo di Cristo, quella dell’albero come immagine del battezzato. Ma un ulteriore complesso di significati va ancora ricordato. Ignazio di Antiochia parla, a proposito della piantagione del Padre, dei rami della croce, i cui frutti sono incorruttibili. Qui è dunque la croce a rimandare all’albero della vita. L’albero del Paradiso terrestre era già visto come simbolo della salvezza messianica nel giudaismo e viene considerato dai cristiani la prefigurazione della croce. Questa viene collocata al centro della terra e si ritiene sia stata eretta dove Adamo è stato creato e dove è stato sepolto. Nel testo siriano intitolato Caverna dei Tesori si dice, appunto, che Adamo pose il piede, dopo la sua creazione, nel luogo in cui la croce sarebbe stata elevata, che è anche il luogo dell’Albero della vita, al centro della terra. Nel Libro di Adamo etiopico, il patriarca dispone che il suo corpo sia sepolto, dopo il diluvio, al centro del mondo, dove Dio redimerà gli uomini. Troviamo infine, in Isaia e nei Salmi, l’idea del popolo di Israele come pianticella di vite. Sulla sua base si sviluppa un’ulteriore immagine: in Giovan-
3. Il tema dell’albero della vita ritorna lungo tutto l’arco dell’arte cristiana. Se ne presenta qui una raffigurazione armena del xvii secolo, presente nel monastero georgiano di Ananuri. L’arte georgiana, come accade nelle chiese orientali, riprende, nei secoli, moduli e temi dell’arte paleocristiana.
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ni, Gesù si presenta come «la vera vite», di cui i discepoli sono i tralci (Gv 15,1-7), riprendendo così, verosimilmente, la metafora veterotestamentaria. Ad essa viene associato il tema dell’unione del capo (Cristo) e delle membra (i fedeli). Nel Nuovo Testamento il vino è identificato con il sangue di Cristo: nella letteratura cristiana antica, molti passi delle Scritture che si riferiscono al vino vengono perciò letti alla luce dell’Eucaristia. Il vino eucaristico è considerato come segno del legame fra Cristo e la Chiesa; la mescolanza di vino e acqua durante la liturgia è vista come espressione dell’unione di divinità e umanità in Cristo e collegata all’acqua e al sangue che scaturiscono dal costato di Gesù. In rapporto con altri brani delle Scritture, il vino è interpretato poi come simbolo della dottrina divina, come allusione al Pneuma o alla grazia dello Spirito Santo. L’acqua tramutata in vino delle nozze di Cana allude alla gioia del regno di Dio e al vino, come all’olio, è attribui ta una funzione risanatrice (per esempio nella parabola del samaritano).
L’ACQUA VIVA L’acqua viva (hydor zon) può essere l’acqua di sorgente, ma anche quella di ruscello o di fiume: in ogni caso, si oppone all’acqua stagnante. Nell’Antico Testamento è un simbolo di Dio come sorgente di vita. La Didaché la collega al battesimo. Solo Giovanni, tra i quattro evangelisti, usa l’espressione hydor zon, nell’episodio della samaritana (4,10-14) e, più avanti, quando
4. Vaso con colombe che beccano l’uva, Ravenna, San Vitale. 171
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5. Epifania. Questa miniatura esprime pienamente la tradizione orientale e bizantina delle icone della festa del Battesimo di Cristo che mettono in immagine quanto espresso nel passo evangelico: «Ecco si aprirono i cieli e Giovanni vide lo Spirito di Dio scendere come una colomba e venire sopra di lui. Ed ecco una voce dai cieli dire “questo è il mio figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto”» (Mt 3,1 3-17). Miniatura dell’Epifania. Menologio di Basilio ii, 985. Codice Vaticano Greco 1613, Biblioteca Apostolica Vaticana.
Gesù dice: «Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me; come dice la Scrittura: fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno». Giovanni aggiunge: «Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui» (7,37-39): è nel quarto Vangelo che battesimo con l’acqua ed effusione dello Spirito Santo sembrano essere legati per la prima volta. Nell’Apocalisse un fiume d’acqua viva scaturisce dal trono di Dio e dell’Agnello (22,1) e ai suoi lati sta un albero della vita. Queste immagini riprendono un passo di Ezechiele (47,1-12), in cui le acque sgorgano dal Tempio escatologico: il battesimo costituirebbe dunque la realizzazione delle promesse escatologiche. Il simbolismo dell’acqua viva fa poi riferimento ad altre quattro tematiche: la prima è quella delle acque primordiali della Genesi (1,2-20), a proposito delle quali Tertulliano scrive che, come gli esseri viventi sono generati dall’acqua, allo stesso modo il battesimo dà la vita. Il battesimo è anche un ritorno al Paradiso, cui fa direttamente riferimento il brano di Ezechiele. Va citata, in terzo luogo, la roccia da cui
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Mosè fa scaturire l’acqua, che viene considerata un tipo di Cristo, dal quale sgorga l’acqua viva; allo stesso modello veterotestamentario è associata l’acqua che esce dal costato di Gesù. Anche il fiume Giordano, infine, con il battesimo impartito da Giovanni Battista, viene collegato a questa costellazione simbolica.
IL PESCE Il pesce appare come simbolo dei cristiani fin dalle origini. I padri latini ne spiegano l’uso collegandolo con il termine greco che lo designa, ichthys (’ICQUS), le cui lettere corrispondono alle iniziali dell’espressione Iesous Christos Theou (H)yios Soter (Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore). Ad esso vengono connessi, comunque, precisi significati simbolici: Tertulliano parla dei cristiani che, come piccoli pesci, nascono dall’acqua, alludendo evidentemente al battesimo; a un simbolismo analogo si richiama Ambrogio. Il tema è già presente nell’arte ebraica, in cui il pesce è simbolo di resurrezione e rimanda all’acqua viva. In Ezechiele, l’acqua viva che viene dal Tempio escatologico bonifica il mare e lo rende pescoso. Al pesce viene sovente associata l’àncora, che, per la sua forma simile a quella della croce, è considerata segno di speranza nella vita eterna.
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LA NAVE Nell’epistola di Clemente a Giacomo, posta all’inizio delle Omelie (14), la Chiesa è paragonata a una nave nella tempesta; un’immagine analoga è utilizzata dalle Costituzioni apostoliche e da Ippolito di Roma. Questi considera la Chiesa come una nave scossa dalle onde, il cui nocchiero è Cristo, la cui prua è diretta a Oriente, i cui timoni sono i due Testamenti e al cui centro sta «il trofeo vincitore della morte, come se portasse con sé la croce del Cristo» (Trattato sull’Anticristo, 59). Il tema della nave è presente nel mondo greco – dove è usato frequentemente quale metafora dello Stato, con il re in veste di pilota – ma anche nel giudaismo. Nell’Antico Testamento si trova infatti l’immagine del mare, collegata alle prove escatologiche che l’uomo – o il popolo – deve affrontare; simboli analoghi sono presenti nell’apocalittica giudaica. Nel Nuovo Testamento, l’episodio di Gesù che cammina sulle acque presenta un mare tempestoso, con gli apostoli su una barca e Cristo che calma il vento (Mt 14,22-33; Mc 6,47-51; Gv 6,16-21). In questi casi, la nave rappresenta ciò che viene salvato (l’individuo, il popolo dei fedeli). Essa può tuttavia simboleggiare anche il mezzo della salvezza, in quanto richiama la croce. Tra i simboli della croce, Giustino menziona il serpente di bronzo, lo stendardo militare, l’aratro, l’ascia, il viso dell’uomo e, appunto, l’albero della nave (i Apol. 15,3; 55,3-6). Anche in questo caso, si trovano precedenti nei monumenti greci e romani e, in particolare, nella scultura funeraria: Clemente Alessandrino, infatti, catalogando i simboli “pagani” che i cristiani possono accogliere menziona, come si è visto, anche la nave spinta da un vento favorevole (Pedagogo, 3,11,59,1). Il tema del viaggio del cristiano che si tiene all’albero della nave per sfuggire ai pericoli e approdare finalmente al porto dell’eternità non può non evocare, poi, il mito di Odysseus che, per resistere al fascino delle sirene, si fa legare all’albero. Si tratta, dunque, di una tematica propria della cultura greca, che viene assunta e trasformata dai cristiani. D’altra parte, tutti i simboli menzionati da Clemente sono presenti anche nell’ambiente giudeo-cristia-
6. Mosè che colpisce la roccia. Roma, catacombe dei Santi Pietro e Marcellino. «Il Signore disse a Mosè: “[…] Prendi in mano il bastone con cui hai percosso il Nilo, e va’! Ecco, io starò davanti a te sulla roccia, sull’Oreb; tu batterai sulla roccia: ne uscirà acqua e il popolo berrà”» (Es 17,5-6). 173
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7. La pesca miracolosa. Napoli, Battistero di San Giovanni in Fonte.
8. Noè e la colomba. Roma, catacombe dei Santi Pietro e Marcellino. 9. Una palma. Ravenna, Sant’Apollinare in Classe.
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no. In particolare, nell’Antico Testamento la barca è considerata come mezzo di salvezza: si pensi all’arca di Noè, che Filone interpreta collegandola all’anima che va verso la vita beata. Giustino presenta l’arca di Noè come tipo della salvezza portata da Cristo, mentre Tertulliano tratta il tema della barca che naviga sul mare in tempesta, interpretandolo in riferimento alla Chiesa che è sottoposta alle persecuzioni e alle tentazioni del mondo finché Cristo, risvegliato dalle preghiere, riporta la pace. Con Cipriano appare poi, su questa stessa linea, l’idea della Chiesa come mezzo necessario alla salvezza. A proposito delle acque marine si può evocare, infine, l’idea del mare come abisso oscuro, legato al diavolo, popolato di mostri che simboleggiano realtà negative: così, il brano dei Salmi in cui si dice «Tu con potenza hai diviso il mare, hai schiacciato la testa dei draghi sulle acque» (Sal 74,13-14) è interpretato come una allusione alle potenze dell’inferno.
LA PALMA
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Nel corso della festa ebraica dei Tabernacoli viene effettuata una processione intorno all’altare durante la quale i fedeli tengono in una mano un fascio di ramoscelli di mirto, palma e salice (lulab) e nell’altra un frutto di limone (etrog). La festa, che ricorda il soggiorno del popolo di Israele nel deserto, è collegata con le speranze messianiche. Al lulab e all’etrog, frequentemente rappresentati nell’arte giudaica, è possibile riconoscere, dunque, un senso messianico. E in riferimento a tale significato che va inteso l’episodio, narrato nel Testamento di Nephtali, che vede bevi trionfare sul sole – del quale acquista la lucentezza – e ricevere dodici palme, come segno di vittoria. L’ingresso trionfante di Gesù a Gerusalemme, acclamato re d’Israele dalla folla che gli va incontro con rami di palma (Gv 12,13), si colloca nella stessa linea. Oltre che al simbolismo della vittoria connessa con la realizzazione delle speranze messianiche, il lulab e l’etrog fanno tuttavia riferimento a un altro sistema di significati. Acquistano infatti, nei monumenti funerari, un valore escatologico e di risurrezione, che si ritrova nell’Apocalisse, dove compare davanti all’Agnello la moltitudine dei martiri, i quali «portavano
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palme nelle mani» (7,9). La tradizione iconografica che utilizza la palma quale attributo dei martiri si fonda su queste premesse. Nell’etrog i Padri vedono, ancora, il frutto dell’Albero della Vita.
LA CORONA Durante la processione della festa dei Tabernacoli, già ricordata, si usava portare corone di foglie. Nel Pastore di Erma, l’Angelo distribuisce rami di salice (che rappresentano la Legge) e poi li riprende, premiando con una corona quegli uomini i cui rami, attraverso le opere buone, si sono coperti di germogli. Le corone, secondo il Pastore, «sembravano fatte di palma». Ancora, Origene fa riferimento ad un libro giudeo-cristiano in cui i credenti hanno corone di salice. Nelle Odi di Salomone la frequente allusione a corone ha fatto pensare che fosse praticata una incoronazione di fiori dei neofiti. In questi usi si può ravvisare una traccia del simbolismo proprio della festa dei Tabernacoli, con il senso escatologico che la caratterizza. La corona viene a simboleggiare la gloria e la vita incorruttibile degli eletti. Così, nell’Apocalisse di Giovanni, è concessa, a chi rimarrà fedele fino alla morte, la «corona della vita» (2,10) e immagini analoghe si ritrovano in altri testi dell’apocalittica cristiana. All’influenza della simbologia giudaica si associa poi quella del mondo greco-romano, nel quale la corona conosce un impiego costante. In Paolo questa componente è esplicita: «Non sapete che nelle corse allo stadio tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! Però ogni atleta è temperante in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona corruttibile, noi invece una incorruttibile» (1 Cor 9,24-25). Proprio il legame delle corone con gli usi “pagani” spiega la condanna pronunciata da Tertulliano contro l’uso delle incoronazioni.
10. Particolare di lunetta: san Pietro e san Gennaro. Napoli, catacombe di San Gennaro.
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IL SOLE E LA LUNA «Il sole è immagine di Dio; la luna è immagine dell’uomo», scrive Teofilo Antiocheno. Luca parla di Cristo come «sole che sorge» (1,78 s.) e la Chiesa, secondo i padri, è la luna, che riceve la sua luce dal Logos; essa conosce l’occultamento e quindi la scomparsa, interpretati come annientamento nell’unione con Cristo. La si considera, inoltre, feconda e generatrice, sorgente di acqua (l’acqua battesimale) e di rugiada (simbolo della grazia). Come la luna, girando intorno al sole, muore e risorge, così la Chiesa fa da modello per la risurrezione della carne. Nell’elaborazione di queste tematiche, la cui struttura è, comunque, complessa e oggetto di discussione, gli esegeti si richiamano, oltre che alle Scritture, alle concezioni ellenistiche di Helios e Selene: il radicale rifiuto del culto reso al sole, accompagnato dall’affermazione dell’unità di Dio come creatore di tutto, non impedisce ma, anzi, sembra rendere possibile la ripresa delle immagini pagane degli astri all’interno delle nuove elaborazioni teologiche e delle nuove prassi cultuali cristiane.
GLI ANIMALI I numerosi passi delle Scritture che parlano metaforicamente di animali aprono la strada all’esegesi allegorica, mentre, nello stesso tempo, animali propri delle tradizioni non cristiane vengono ripresi e interpretati simbolicamente. Il Fisiologo, un repertorio di simboli tratti dalla fauna, dalla flora e dal mondo minerale risalente probabilmente al iii secolo, costituisce uno dei principali documenti letterari di tale riconsiderazione. Senza entrare nei particolari di un discorso che, in ogni singolo caso, richiederebbe una trattazione approfondita e articolata, è possibile proporre una rapida rassegna di alcuni dei principali animali simbolici. L’agnello è una immagine di Cristo (visto come agnello pasquale); la metafora del gregge è usata per indicare i fedeli e si esprime nella figura del buon pastore. La colomba si trova quale simbolo dell’anima, della verginità, della vita virtuosa, del credente; nell’iconografia è associata ad elementi quali alberi, olivo, palma, càntaro, uva, che si riferiscono all’aldilà inteso come giardino. Essa rappresenta anche lo Spirito Santo nel battesimo di Cristo; Noè fa uscire dall’arca per tre volte una colomba, che dapprima torna senza nulla; poi con un ramoscello d’ulivo nel becco; quindi non fa più ritorno. Giustino, che sottolinea il simbolismo battesimale del diluvio, vede in essa una figura dello Spirito Santo. La fenice, animale mitico presente nel mondo egizio e in quello classico, è considerata simbolo di risurrezione: già per Clemente Romano rimanda alla vita, morte e risurrezione del cristiano; nel Fisiologo simboleggia Cristo. Il leone, oltre a rappresentare un evangelista (Marco in Occidente, Giovanni in Oriente), ha diversi altri significati, anche contraddittori, a seconda dei contesti: nella prima lettera di Pietro, il diavolo «come leone ruggente va in giro» (5,8), mentre nell’Apocalisse è Cristo che viene denominato «leone della tribù di Giuda» (5,5). Nel Fisiologo è l’animale vigilante, che dorme e veglia nello stesso tempo; i suoi figli, secondo le convinzioni del tempo, nascono morti ma vengono risvegliati, dopo tre giorni, dal padre: da questa credenza nasce l’idea del leone come simbolo di risurrezione. Sempre per il Fisiologo, l’aquila è l’animale che si rigenera, come deve avvenire per il credente: quando è ormai invecchiata e la sua vista si offusca, si ritiene abbia la facoltà di ringiovanire, grazie ai raggi del sole che la bruciano e all’acqua pura. L’aquila rappresenta altresì l’evangelista Giovanni in Occidente, Marco in Oriente, mentre il bue è associato all’evangelista Luca. L’asino simboleggia le genti pagane; la cornacchia due concetti
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11. Riproduzione di un particolare di un epitaffio cristiano. Museo del Laterano. «Porgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra» (Is 2,3-4). L’interpretazione del passo proposta dai più antichi cristiani, attestata, fra gli altri, da Ireneo, fa riferimento alla pace e al perdono che reca la Chiesa. Ma Ireneo aggiunge altri dati: l’aratro è per lui un simbolo della creazione (la semina), mentre la falce evoca il giudizio finale. Nell’associazione del ferro e del legno dei quali lo strumento si compone vede poi il simbolo dell’unione della natura divina e umana di Cristo. La stessa combinazione di elementi è presente nella scure, che assume un significato analogo. Ma il legno della scure è considerato anche come simbolo della croce e lo stesso vale per il legno di cui è fatto l’aratro. Lo strumento agricolo richiama la croce anche per la sua forma e Giustino lo menziona nel suo elenco dei simboli del patibolo di Cristo. In Giustino troviamo anche il tema di Gesù come carpentiere che fabbrica gli aratri. Ai suoi scritti sembra dunque risalire questo motivo simbolico, che, ripreso da Ireneo – secondo il quale l’aratro della croce estirpa le erbe cattive, distrugge il peccato – avrà poi grande fortuna negli autori successivi.
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12. Quintanilla de las Viñas (Burgos), Santa Maria, arte goto-cristiana. Particolari dei capitelli sulla destra e sulla sinistra dell’arco trionfale raffiguranti il sole – che rappresenta Cristo – e la luna – che rappresenta la Chiesa – entro cerchi sostenuti da angeli. 13. Il Buon Pastore che porta la pecora smarrita. Mosaico pavimentale di Aquileia. «Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore» (Gv 10,11). 14. Ambone del vescovo Agnello. Ravenna, Museo arcivescovile. «Benedite, mostri marini e quanto si muove nell’acqua, il Signore, lodatelo ed esaltatelo nei secoli. Benedite, uccelli tutti dell’aria, il Signore, lodatelo ed esaltatelo nei secoli. Benedite, animali tutti, selvaggi e domestici, il Signore, lodatelo ed esaltatelo nei secoli» (Dn 3,79-81).
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opposti come la castità (nel Fisiologo) e l’impudicizia (presso gli Antiocheni); il drago il diavolo; la pantera la risurrezione di Cristo; il pavone indica l’anima, ma anche l’immortalità, in virtù della sua carne ritenuta incorruttibile. Si pensava che il pellicano lacerasse le proprie carni per sfamare i piccoli con il sangue; ne deriva un accostamento dell’uccello a Gesù e ai sacramenti del battesimo e dell’eucaristia, associati all’acqua e al sangue del costato di Cristo. Il cervo, secondo il Fisiologo, uccide i serpenti dopo averli stanati con il suo soffio; allo stesso modo, il Signore ha ucciso il diavolo. Il Salmo 42 recita: «Come la cerva anela ai rivi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio». Il cervo viene a rappresentare dunque, nel contempo, l’anima che brama il Signore. Così è in Agostino e in diverse immagini cristiane, che accostano i cervi ai corsi d’acqua.
LA CROCE Con l’espressione “simbolismo della croce” si può intendere, innanzitutto, l’insieme delle immagini che rimandano al patibolo di Gesù, senza esserne dirette rappresentazioni; ad esse si è già fatto in parte riferimento nelle pagine precedenti: sono l’antenna della nave, l’àncora, l’aratro, l’albero, lo stendardo, il volto, il corpo umano con le braccia allargate, eccetera. In secondo luogo, la locuzione “simbolismo della croce” può riferirsi al segno cruciforme considerato, a sua volta, quale simbolo. Nei periodi più antichi, la croce è evocata di preferenza tramite le immagini dell’albero della nave, del carro con il timone alzato, dell’àncora, del tridente con il pesce. I principali segni cruciformi si trovano tutti anteriormente al cristianesimo; in ambienti cristiani, l’uso della croce uncinata è documentato dal iii secolo; di quelle monogrammatiche (XP, le prime due lettere di Christos in greco; il monogramma a forma di croce; il “cristogramma stellare”, formato da X e I, le due iniziali greche di Christos e Iesous incrociate) nel iv; la croce latina e quella greca compaiono, ma in casi rarissimi, nel ii. È difficile dire con certezza se questi segni si riferiscano al supplizio di Cristo o meno. Solo a partire dalla fine del iv secolo, l’iconografia della croce presenta una particolare fioritura. Le ragioni di questo ritardo
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non sono chiare, ma l’ipotesi più diffusa è che, essendo la croce uno strumento di supplizio infamante, i primi cristiani preferissero non fregiarsene: soltanto dopo l’abolizione della pena della croce sotto Teodosio, infatti, la crocifissione è rappresentata. Comunque sia, la croce – intesa come rappresentazione del patibolo di Gesù – non è, di per sé, un simbolo, in quanto si riferisce direttamente a un evento storico. Tuttavia va rilevato, da una parte, che segni cruciformi si trovano, anche nel cristianesimo, indipendentemente dalla crocifissione e, dall’altra, che la croce assume particolari valenze simboliche. È stato messo in evidenza come il segno della croce faccia la sua comparsa all’interno della liturgia battesimale nel iv secolo; lo si trova poi in altri sacramenti e nell’uso di segnarsi la fronte prima di compiere qualcosa di importante, in un atto che sembra avere un valore di difesa contro il demonio. I cristiani si sarebbero tracciati un segno di croce con il pollice sulla fronte, mentre il segno della croce quale noi lo conosciamo compare soltanto nel Medioevo avanzato. Non si trattava, probabilmente, della croce del supplizio, ma di altra cosa. Alcuni testi la associano alla lettera greca tau (T), a sua volta connessa con il tav dell’alfabeto ebraico. Ezechiele dice che coloro i quali faranno parte della comunità escatologica saranno segnati sulla destra, sulla fronte con il tav, e
15. Croce dorata. Ravenna, Mausoleo di Galla Placidia. La croce è circondata da stelle disposte in cerchi concentrici. Ai quattro angoli, i simboli degli evangelisti. 16. Mosaico raffigurante Adamo in trono con animali, tra cui, a destra, una fenice. Museo di Apamea, Siria. 181
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IL CRISTIANESIMO DEI PRIMI SECOLI
l’Apocalisse, collegandosi, verosimilmente, al profeta, scrive che gli eletti verranno segnati sulla fronte. Ai tempi di Cristo il tav era rappresentato con il segno + o x; successivamente, per lo studioso francese Jean Daniélou, il primo segno fu interpretato, in ambiente greco, come rappresentazione dello strumento di supplizio; il secondo come prima lettera di “Christos”. D’altra parte, la lettera greca tau somiglia, per la sua forma, all’albero della nave e alla croce; per i Greci essa indica il numero 300 e questo comporta una serie di riferimenti allegorici: ai 300 cubiti di lunghezza dell’arca di Noè, ai 318 servi di Abramo, ai 300 uomini di Gedeone, ai 300 denari che vale l’unguento con il quale viene unto il capo di Gesù (Mc 14,5). Impostasi l’immagine della croce come rappresentazione dello strumento di supplizio, continua l’attribuzione ad essa di significati simbolici. Le viene riconosciuto, in particolare, un valore cosmico: si nota che l’equatore e l’ellittica, che si incrociano nel cielo, tracciano una croce celeste; vengono riprese le speculazioni di Platone intorno alla lettera x, vista come immagine dell’anima del mondo; si associa la croce alle quattro direzioni dell’universo. Negli apocrifi Atti di Andrea, l’apostolo dice: «O Croce, piantata sulla terra e fruttificante in cielo! O nome della Croce, che racchiudi in te l’universo! Salute a te, o Croce, che tieni insieme il cosmo nei suoi confini». Scrive Gerolamo: «Gli uccelli, quando volano nell’aria, assumono la forma di una croce. L’uomo che prega e che nuota prende la forma di una croce. Una nave a mare è mossa da vele che si reggono su un’antenna a forma di croce» (Ep. 29).
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17. Una delle tante croci copte dipinte negli eremi del grande centro monastico delle Celle (Kellia) nel nord dell’Egitto. Nell’affresco qui riprodotto la croce è tempestata e circondata da gemme e pietre preziose.
18. Mosaico romano cristiano detto “Mosaico dei cervi, del cantaro e della croce”, vi-vii secolo. Museo di Sbeitla, Tunisia.
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Fuoco e luce
Uccello
Albero
Calligrafia
Acqua
Motivi grafici
SIMBOLO E RAPPRESENTAZIONE È opinione comune che l’Islam vieti ogni tipo di rappresentazione e, di conseguenza, che anche lo spazio accordato ai simboli sia, nell’arte musulmana, assai ridotto. La situazione è, in realtà, più complessa e più articolata. Nel Corano le allusioni all’arte sono minime e, soprattutto, manca una condanna paragonabile a quella pronunciata nella Bibbia; inoltre, sappiamo che nell’ambiente in cui visse il Profeta esistevano manufatti di valore artistico raffinato che presentavano immagini. I racconti intorno alla vita di Muhammad mostrano comunque la sua contrarietà alla raffigurazione: gli dispiace l’immagine di un montone presente su uno scudo e perciò Dio la elimina; quando entra alla Mecca trova, nella Ka‘ba, colonne che erano state dipinte con figure di alberi, angeli e profeti e ordina che vengano cancellate, con l’eccezione di quelle di Gesù e di Maria; toglie inoltre dalla Ka‘ba le statue che vi si trovano; esprime disapprovazione e condanna verso gli autori delle raffigurazioni umane che decorano un cuscino; le sue mogli, un giorno, parlano con ammirazione di una chiesa abissina con bellissime immagini della Madonna ed egli interviene per esprimere disprezzo nei confronti del popolo degli Abissini. La radice di questa avversione – e delle proibizioni che ne derivano – è molteplice. Innanzitutto va ricercata nelle parole della Bibbia e nella volontà di salvaguardare la religione da ogni rischio di idolatria. A questo, la tradizione islamica aggiunge tutta183
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via un elemento teologico nuovo. Nel Corano il termine con il quale viene indicata l’attività creatrice di Dio (bara’a, creare) è sinonimo di quello che si usa a designare il lavoro dell’artista (sawwara, modellare, formare); perciò, negli hadı̄th, i “detti” del Profeta che costituiscono la tradizione, è presente il quale gli uomini che riproducono la figura umana imitano Allah. L’artista, dipingendo o scolpendo un’immagine, ripete, in qualche modo, l’opera del Creatore: non rispetta, così, la distanza che dovrebbe separarlo da Dio e viola i limiti che sono assegnati agli uomini. Soltanto Dio, inoltre, è in grado di rendere qualcosa permanente: la produzione umana non può che essere effimera. Il divieto della raffigurazione mira altresì a distinguere l’ambito religioso da quello della magia, spesso associato ad amuleti che riproducevano oggetti e animali. Un ultimo elemento da considerare riguarda la diffusione delle arti nella zona in cui l’Islam nasce e si diffonde: è verosimile che la rivendicazione della propria identità passasse, per i musulmani, attraverso la volontà di differenziarsi dagli altri popoli anche con un diverso atteggiamento nei confronti dell’arte. In ogni caso, il divieto di rappresentare non è assoluto né totale. Sebbene la motivazione che lo fonda sembri escludere la possibilità di produrre ogni tipo di lavoro artistico, la letteratura teologica e giuridica stabilisce alcune regole che ne dimostrano il carattere relativo. Una prima distinzione riguarda il tipo di oggetti raffigurati: l’interdizione è limitata agli esseri viventi, mentre quanto è inanimato (per esempio i vegetali e i manufatti) può essere riprodotto. Un’eccezione – ma non da tutti ammessa – è costituita dalle bambole per i giochi delle bambine. Anche il genere di oggetto sul quale l’artista lavora (un tappeto, un cuscino, un abito) è determinante. Comunque sia, la misura in cui queste e altre regole vennero – e vengono – applicate varia a seconda delle comunità, dei periodi storici, delle situazioni. Le decorazioni pittoriche di molte case, i manoscritti miniati e perfino i francobolli di alcuni paesi musulmani costituiscono altrettanti esempi di infrazione delle regole che limitano la produzione di immagini.
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1. Uno dei giardini dell’Alhambra di Granada. Si tratta del complesso del Generalife, restaurato fra il 1314 e il 1325. Con l’Alhambra siamo di fronte a un’apoteosi dell’idea di giardino islamico dove vegetali e acque sono organizzati per rispondere a criteri simbolici. Dimostrazione di Dio che provvede alla vita dell’uomo. L’acqua è iI punto di partenza della creazione ed è indice di fertilità; talvolta, proprio per le sue virtù di germinazione, simboleggia lo sperma. Strumento di purificazione nelle abluzioni rituali, ha spesso una funzione protettiva. 2. Miniatura da un manoscritto turco (Ms. Sup. Turc. 1907) conservato alla Biblioteca Nazionale di Parigi. Si tratta di una rara rappresentazione figurativa di Muhammad che ascende al cielo. Si notano vari simboli, vi campeggia l’albero e in particolare l’aureola di fuoco attorno al capo di Muhammad e dell’angelo. Ritroviamo dunque nella miniatura i simboli del fuoco e della luce.
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LUOGHI DEL SIMBOLO: L’IMMAGINE LETTERARIA Gli stessi limiti non riguardano, invece, l’immagine letteraria. In alcuni passi del Corano si trovano narrazioni cui si può riconoscere un valore simbolico. La sura xviii, ad esempio, narra di un viaggio di Mosè. Questi, con il suo servo, raggiunge la confluenza dei due mari e qui un pesce che i due portavano con sé per cibarsene entra nell’acqua e riprende vita (60-64). Il racconto prosegue con l’incontro fra Mosè e un personaggio misterioso, che verrà identificato in Khadir o Khidr e con altre vicende che lo vedono protagonista. Alcuni commentatori hanno identificato, nel confluire dei due mari, l’allegoria dell’unione fra la saggezza del profeta e di quella di Khadir. Il pesce rivive perché si immerge nell’Acqua della vita, che assume così un significato di immortalità. Nella stessa sura si trovano altri esempi di racconti simbolici: quello delle gesta di Alessandro Magno (chiamato “l’uomo dalle due corna”, simboli di ricchezza e potenza) contro Gog e Magog (xviii, 83ss.); quello dei sette dormienti di Efeso (xviii, 9ss.), che, rifugiatisi in una caverna a causa delle persecuzioni di Decio, si risvegliano quasi duecento anni dopo, sotto Teodosio. Nei dormienti, che sono al centro di numerose elaborazioni allegoriche, viene riconosciuto un simbolo della risurrezione dei morti. In generale, vi sono molte parti del Corano dette “mutashabih”; il vocabolo vuol dire ambigue, ma il suo significato è discusso e il termine potrebbe essere anche tradotto con “sim-
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3. Mosaico del bagno del palazzo di Khirbat el Mafǧar negli attuali territori palestinesi. Si tratta di una delle più antiche opere artistiche figurative lasciate dall’Islām. Se sul piano stilistico grande è ancora l’influenza dei mosaici romani del Nord Africa e del Medio Oriente, sul piano espressivo il simbolo dell’albero viene integrato pienamente nella tradizione islamica.
boliche”: nella scrittura «ci sono versetti precisi (madre della scrittura!) e altri invece talmente sibillini (muta_shabihat) che si prestano al cavillo» (iii, 7). Il Corano, inoltre, si esprime sovente attraverso parabole e fa spesso uso di un linguaggio figurato. Vi si trovano infatti molte immagini che costituiranno, poi, l’origine delle allegorie impiegate dai mistici. È possibile darne alcuni esempi, seguendo un elenco proposto dallo studioso francese Louis Massignon: innanzitutto vi sono il fuoco e la luce, legati all’epifania divina. Mosè vede un bagliore, annuncia alla sua famiglia che si recherà a prendere del fuoco e, giunto sul luogo da cui esso proveniva, riceve la rivelazione di Dio dall’alto di un albero (xxviii, 29). «Il Dio! Egli è luce in cielo e in terra, e la sua luce è come quella di una lampada collocata in una nicchia: la lampada si trova serrata in cristallo come astro di splendore immane, accesa rimane grazie all’olio di pianta benedetta, questa pianta è l’ulivo». E ancora: «Luce su
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luce il Dio. Egli guida verso la sua luce coloro ai quali vuole bene» (xxiv, 35). L’acqua del cielo è simbolo di vita e risurrezione: «Dall’empireo abbiamo fatto piovere acqua apportatrice di benedizione; con l’acqua abbiamo fatto germogliare e giardini e chicchi per la messe e palme snellissime, con spate simmetriche per sfamare gli schiavi. Con l’acqua riusciamo a ridare la vita al terreno inaridito: sarà così la vostra uscita dalla morte alla vita» (i, 9-11). L’albero, cui si è già fatto cenno a proposito del racconto di Mosè, rappresenta la vocazione dell’uomo e il suo destino. L’uccello è simbolo di risurrezione o di immortalità dell’anima (ii, 262 ). Ancora, si possono citare la coppa e il vino, simboli della situazione dei santi in Paradiso. Nell’ora del giudizio finale, vi saranno «le coppe, i boccali e tazze piene di bevanda fresca e pura» (lvi, 18). I servi di Dio saranno ricompensati e «berranno a una coppa» contenente una miscela di zenzero (lxxvi, 17); «il Signore li disseterà con una bevanda purissima» (21); i puri «abbeverati saranno di prezioso vino sigillato e il sigillo suo sarà muschio, e lo desidereranno con veemente desiderio, e sarà mescolato con acqua di tasnı̄m, acqua con la quale si dissetano i vicini al Dio» (lxxxiii, 25-28). Presso i Sufi, l’ebbrezza che il vino provoca è collegata all’esperienza estatica, della quale diventa frequentemente una metafora. Il vino «è segno epifanico della presenza di Dio nell’anima dei Sufi» (Chebel). Ibn al-Farid (vissuto fra il 1182 e il 1235) in un poema mistico scrive: «È limpidezza e non è acqua, è fluidità e non è aria, è luce senza fuoco e spirito senza corpo [...]. Se ti inebri di questo vino, fosse soltanto per un’ora, il tempo sarà tuo dolce schiavo e avrai il potere. Non ha vissuto, quaggiù, chi ha vissuto senza ebbrezza, e non ha intendimento chi non è morto della sua ebbrezza». Il simbolo nell’Islam sciita Se la rivelazione profetica si è chiusa, «come può la storia religiosa dell’umanità continuare dopo il “sigillo dei profeti”?». Tanto la questione quanto la risposta ad essa, scrive lo storico delle religioni Henri Corbin, sono proprie dell’Islam sciita. L’Islam sciita è quella corrente del mondo musulmano, a sua volta distinta al suo interno in vari rami, che riconosce, quale legittimi successori del Profeta e, di conseguenza, quali capi della comunità, ‘Ali – cugino e genero di Muhammad – e i suoi successori diretti. Alla domanda che si è posta, gli Sciiti rispondono attribuendo alle Scritture un significato simbolico. Insistono così sull’esistenza di un valore profondo, misterioso, spirituale ed esoterico della rivelazione e attribuiscono agli Imam, discendenti di ‘Ali e capi spirituali della comunità, la capacità di portarlo alla luce. Così si esprime il sesto Imam (Fafar Sadiq, morto nel 765): «Il libro di Dio comprende quattro cose: c’è l’espressione enunciata; c’è la portata allusiva; ci sono i sensi occulti, relativi al mondo soprasensibile; ci sono le alte dottrine spirituali. L’espressione letterale è per i fedeli comuni. La portata allusiva concerne l’élite. I significati occulti appartengono agli Amici di Dio. Le alte dottrine spirituali appartengono ai profeti». Il fondamento di questa pluralità di sensi risiede negli hadı̄th. Secondo uno di essi, accettato sia dagli sciiti che dai sunniti, «il Corano ha una apparenza esteriore e una profondità nascosta, un senso essoterico e un senso esoterico; a sua volta, questo senso esoterico nasconde un senso esoterico (la profondità ha una profondità, all’immagine delle Sfere celesti racchiuse le une nelle altre) e così di seguito, fino a sette sensi esoterici (sette profondità di profondità nascoste)». Il dodicesimo Imam, che verrà alla fine del nostro tempo, porterà la piena rivelazione di questi sensi occulti. Per non fare che un esempio di trattazione del simbolismo all’interno dello Scii187
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smo, si può alludere alla corrente cosiddetta duodecimana, che postula l’esistenza di quattro mondi. Questi sono simboleggiati dalle quattro diverse luci del Trono: la luce bianca si riferisce al mondo delle luci pure; quella gialla al mondo degli Spiriti; quella verde al mondo delle Anime e quella rossa al mondo dei corpi. Ognuno di questi universi, a loro volta articolati al loro interno, rappresenta un ulteriore livello di conoscenza, sempre più profonda ed esoterica. La rivelazione definitiva sarà possibile soltanto con la venuta dell’ultimo Imam. È qui chiaro l’uso del simbolismo della luce, centrale nell’Islam, associato a quello dei colori. Sono poste dunque, all’interno dello Sciismo, le basi per la considerazione simbolica delle Scritture e per lo sviluppo di una letteratura che le interpreti. L’interpretazione, ta’wil, è, scrive Corbin, «etimologicamente “riconduzione” di una cosa al suo principio, dal simbolo al simbolizzato»; è «essenzialmente comprensione simbolica, trasmutazione di tutto il visibile in simboli». I frutti di queste idee, sul piano dell’elaborazione della nozio188
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4. Miniatura da Ǧāhiz, Libro degli animali, Manoscritto arabo D 140 inf. conservato alla Biblioteca Ambrosiana di Milano. Scena di uccelli che un eunuco cerca di catturare. 5. Dallo stesso manoscritto dell’illustrazione precedente: scena di struzzo che cova.
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ne di simbolo e di una conoscenza simbolica, si vedranno al di fuori dello Sciismo: presso i filosofie presso i mistici sufi. La filosofia Per Avicenna l’essere più profondo dell’uomo è rappresentato da una Immagine che egli porta in sé. Questa immagine viene proiettata sul mondo e costituisce il quadro nel quale la vita umana si svolge e il destino degli individui si dipana. Tutto quanto avviene sembra qualcosa di esterno, di estraneo, di incontrollabile, finché l’uomo non prende coscienza della propria Immagine interiore e della sua presenza nel mondo. La vita autentica si svolge dunque percorrendo una strada che è contemporaneamente via della conoscenza di sé, via della conoscenza delle cose, via di realizzazione piena della propria essenza, via di salvezza. L’itinerario dell’uomo corrisponde a quello che porta, nell’esame delle Scritture, dal senso essoterico, manifesto, 189
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al senso esoterico, nascosto. Ora, questo percorso è costellato di simboli, che esprimono, tramite immagini, le tappe attraverso le quali l’anima deve passare. Ne nasce una vera e propria concezione simbolica dell’universo, in cui l’anima compie «uno sforzo supremo di liberazione che condiziona l’uscita da questo mondo e opera come una trasmutazione del cosmo fisico, che lo trasforma in un universo di simboli» (Corbin). Ci si può limitare a indicare uno di questi simboli, che esprime efficacemente proprio la tensione dell’anima verso qualcosa che la supera: il simbolo dell’uccello, cui è dedicato uno scritto mistico di Avicenna (Il racconto dell’uccello). «Siate sempre in volo – raccomanda Avicenna –; non sceglietevi un nido determinato, perché è nel nido che tutti gli uccelli vengono catturati. Se non avete ali, rubatele, se è il caso procuratevele con l’inganno, perché il miglior perlustratore è quello che ha il coraggio di alzarsi in volo. Siate come lo struzzo che ingoia pietre roventi. Siate come gli avvoltoi che inghiottono le ossa più dure. Siate come la salamandra che si lascia avviluppare dal fuoco con disinvoltura e con fiducia. Siate come i pipistrelli che non escono mai durante il giorno: sì, il pipistrello è il migliore degli uccelli. Fratelli della Verità! Il più valente è colui che osa affrontare il suo domani, il più pusillanime è colui che rimane indietro nella strada della sua perfezione». Se compito dell’anima è quello di uscire dal mondo per scoprire la propria verità, l’uccello è simbolo del distacco dalla terra e dell’elevazione verso il cielo. Avicenna riprende qui tradizioni più antiche: Platone parlava, nel Fedro, dell’anima che «fino a che è perfetta e alata, si libra nell’alto e governa l’universo intero; ma se perde le ali, precipita giù, sino a che non intoppi in qualche cosa di solido, dove si ferma ad abitare; [infatti], la virtù delle ali è di portare in alto ciò che pesa, sollevandolo sino alla sfera abitata dagli dèi, e perciò più d’ogni cosa corporea essa partecipa del divino» (246 d). Lo stesso simbolo, fa notare Corbin, si trova nel salterio manicheo: «O anima, da dove vieni? Tu vieni dall’alto dei cieli, sei estranea a questo mondo. [...] Ti danno tutti la caccia, i cacciatori di Morte. Catturano gli uccelli [...] spezzano loro le ali». Il simbolo, che nel Racconto di Avicenna assume un ruolo centrale, è frequente, d’altra parte, nel pensiero islamico: lo troviamo a indicare la realtà del Sé anche in Sohrawardi, in Ghazali, in ‘Attar. Meta del viaggio è, per Avicenna, l’Oriente, luogo simbolico della verità, delle origini e del destino umano, secondo un’idea gnostica che avrà successo nei pensatori successivi. La mistica “Sufi” è il termine con il quale si indicano i mistici islamici. Questi pongono al centro della loro considerazione, secondo le parole di Corbin, la triade costituita da shari (a (dati letterali della Rivelazione); tariqa (via mistica), haqiqa (verità spirituale come realizzazione personale). Nella letteratura sufi, il simbolo svolge un ruolo di rilievo. La sua funzione è duplice: innanzitutto, esso consente di esprimere delle esperienze altrimenti impossibili da descrivere con un discorso razionale e chiaro; in secondo luogo, fa sì che soltanto alcuni – gli iniziati che conoscono i sistemi di interpretazione adeguati – possano accedere alle verità che trasmette. Il riferimento ad un mistico musulmano, Sohrawardi (morto nel 1191), permette da un lato di ricostruire i termini di una vera e propria teoria del simbolo e di chiarirne il valore gnoseologico; dall’altro di portare alcuni esempi di uso di immagini simboliche per esprimere verità di ordine religioso. Secondo la cosmologia di Sohrawardi, si possono distinguere tre livelli della realtà: il primo è il mondo sensibile, fenomenico, terrestre e siderale, nel 190
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quale viviamo; il secondo è il mondo soprasensibile, proprio delle anime e degli angeli-anime; il terzo è quello delle pure intelligenze degli arcangeli. Ai tre universi corrispondono tre facoltà conoscitive – sensi, immaginazione, intelletto – e tre componenti dell’uomo: corpo, anima e spirito. Non esistono, dunque, soltanto il livello fenomenico – costituito dalla realtà sensibile – e quello astratto del puro intelletto, ma vi è un mondo intermedio in cui domina l’immaginazione. E quello che Corbin chiama “mundus imaginalis”: luogo dell’immaginario, in cui risiedono i modelli cui le cose sensibili
6. Tappeto anatolico da preghiera del xviii-xix secolo. Il tappeto, la cui tecnica e la cui simbologia affondano le loro radici in epoca pre-islamica, diventa un oggetto caratteristico della cultura musulmana. Nel Corano compare spesso come metafora: «Iddio ha disteso per voi la terra come un tappeto», recita la sura 19. Oggetto d’uso quotidiano – e quindi diffusissimo – che fornisce una superficie adatta a essere decorata, si presta a esprimere l’immaginario delle popolazioni che lo producono e lo utilizzano. Può presentare motivi geometrici, motivi naturalistici e vere e proprie illustrazioni (per esempio, scene di caccia). In generale, nella sua decorazione si trova una ripresa continua di motivi, in diverse dimensioni e con caratteristiche talvolta differenti, che ben si inquadra nell’idea di ripetitività tipica del simbolismo islamico. Tale ripetitività si associa, in gran parte dei casi, con una struttura centrale. Caratteristica di differenti tipologie di diversi tappeti orientali è, infatti, l’organizzazione degli elementi intorno a un centro: un medaglione, il cui motivo è talvolta ripreso ai quattro angoli del campo. Tutto intorno, una bordura più o meno vasta delimita la superficie. La decorazione suggerisce, dunque, una definizione dello spazio attraverso una distinzione di interno ed esterno (la bordura), la costruzione di un centro (il medaglione), la qualificazione intorno ad esso di direzioni fondamentali (i cantonali). Nel caso di tappeti utilizzati per pregare, la delimitazione simbolica dello spazio ha chiaramente un significato religioso. Essa non comporta più una struttura centrata, ma orientata, in modo che il fedele possa dirigere il tappeto verso la Mecca. L’uso del tappeto da preghiera nasce dal precetto di purificarsi prima delle orazioni e dalla necessità di non sporcarsi nuovamente genuflettendosi. Oltre che una struttura simbolicamente definita (attraverso i caratteri della ripetitività, della centralità e dell’orientamento), nel tappeto si possono riconoscere motivi decorativi di carattere simbolico. È difficile – talvolta impossibile, per carenza di documenti – enuclearne in dettaglio tutti i significati; per non fare che qualche esempio, si possono citare la riproduzione trasfigurata di giardini, oppure la presenza di alberi. Nei tappeti riservati alla preghiera si trova una nicchia ad arco che riproduce il mihraˉb, struttura architettonica che, nella moschea, indica la direzione della Mecca. Dalla nicchia pende talvolta una lampada, a indicare il nesso simbolico fra preghiera e luce della divinità espresso dal brano coranico citato nel testo (xxiv, 35).
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7. La chiesa di Santa Croce (x secolo) ad Akhtamar in Armenia costituisce una testimonianza dell’incontro artistico del cristianesimo con il mondo islamico. I bassorilievi esterni mostrano scene di vita di corte del periodo abbaside. Nel rilievo si vede il califfo con la “Coppa del mondo”: tiene, infatti, un grappolo d’uva nella mano sinistra, e una coppa nella destra.
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8. Minareto e terrazze di Ghardaia, Algeria, al levare del sole. La moschea, intesa come spazio simbolico, va posta, in primo luogo, in relazione con la Mecca. Il mihraˉb, nicchia che esiste al suo interno, orienta infatti la moschea in direzione della Città Santa. Il minareto evoca, con la sua verticalità, un nesso con il cielo; contemporaneamente, come luogo dal quale parte il richiamo dei fedeli alla preghiera e si diffonde la parola, fa da tramite per la coesione – orizzontale – della comunità. Ancora, la moschea delimita lo spazio sacro, interno, da quello profano, esterno. Il passaggio dall’uno all’altro è mediato dalla sala delle abluzioni. 9. Cofanetto d’avorio conservato al Museo archeologico nazionale di Madrid. Arte califfale islamica in Spagna. Si intrecciano in un horror vacui motivi vegetali e animali.
si conformano e le perfezioni cui gli atti umani aspirano. L’immaginazione, che ne è l’organo, può essere identificata con l’attività fantastica dell’uomo, ma a condizione che si riconosca ai suoi prodotti uno spessore ontologico. Tali prodotti sono i simboli, che non consisterebbero, dunque, in giochi retorici, né sono immagini allegoriche, ma acquisterebbero un autentico potere rivelativo: «l’allegoria è un rivestimento, o piuttosto un travestimento di qualche cosa che è già conosciuto o conoscibile in altro modo, mentre l’apparizione di un’immagine che abbia virtù di simbolo è un fenomeno primo (Urphänomen) incondizionato e irriducibile, l’apparizione di qualcosa che non può manifestarsi altrimenti nel mondo in cui siamo» (Corbin). Anche Sohrawardi, come Avicenna, insiste sul simbolismo dell’Oriente, che considera “di luce”. Centrale è infatti, nel suo pensiero, la nozione di ishraq, termine che indica lo splendore, l’illuminazione del sole quando si alza. La luce è intesa come simbolo dell’essere che si rivela e, nel contempo, dell’istante in cui l’anima coglie la verità con un atto di conoscenza. È lo splendore, l’irradiazione eterna della “luce delle luci”, che Sohrawardi evoca ricollegandosi alla valorizzazione della luce propria dello zoroastrismo e a una concezione platonica della realtà. Si tratta di una luce aurorale:
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collocata, dunque, a Levante e inserita all’interno di una geografia simbolica secondo la quale l’Oriente è la sede della saggezza e della verità, delle origini dell’essere e del destino che interpella l’anima del saggio. L’Occidente è invece il luogo dell’esilio ma anche, proprio per questo, il punto di avvio del percorso di salvezza. Esistono connessioni tra la posizione di Sohrawardi e quella di Ibn ‘Arabi, che arricchisce il sufismo di una metafisica imponente. Ci si può limitare a ricordare come punto di riferimento sia, per lui, una realtà divina ineffabile – Pura Luce, tesoro nascosto – che si rivela. Ogni forma diventa epifania: è il luogo in cui il Creatore si manifesta e, nel contempo, è altro da lui. Gli oggetti sensibili sono così simboli, entità intermedie, cui si riferisce l’immaginazione creatrice: questa è considerata, ancora una volta, come facoltà gnoseologica. Nell’universo di simboli che l’opera di Ibn ‘Arabi mette in luce, alcune immagini sono privilegiate. È lo stesso autore a menzionarle: sono le rovine, gli accampamenti, i Magi, i giardini, i prati, le dimore, i fiori, le nubi, i lampi, lo zefiro, le colline, i boschetti, i sentieri, gli amici, gli idoli, le donne che si alzano come il sole. «Tutte le cose che ho appena menzionato o tutte quelle che somigliano loro, se lo capisci, sono altrettanti misteri, alte e sublimi illuminazioni che il Signore dei cieli inviò al mio cuore, come le invia al cuore di chiunque possieda qualità di purezza e di elevazione analoghe alla preparazione spirituale che possiedo io. [...]. Allontana dal tuo pensiero l’esteriorità delle parole, ricerca l’interiore (l’esoterico), fino a quando capirai» (dalla traduzione francese di Corbin).
LUOGHI DEL SIMBOLO: LE LETTERE E LA SCRITTURA
10. Foglietto di Corano con scrittura cufica nera; il titolo della sura è scritto in oro. Biblioteca Nazionale di Tunisi, ix secolo. 11. Straordinario esempio di scrittura di epoca abbaside a Baghdād. La scrittura diviene pretesto per tracciare un motivo figurativo.
Il Corano è la parola di Dio espressa dall’eternità. Esso ha dunque, in quanto tale, un valore assoluto, che sta al di là delle sue manifestazioni sensibili e terrene. Tuttavia, la rivelazione avviene attraverso un libro composto di capitoli, a loro volta fatti di frasi; e queste sono costituite di parole, i cui elementi sono le lettere. La natura metafisica del Corano si irradia, in questo modo, in tutte le componenti del linguaggio e le pervade. Le parole non sono strumenti più o meno adatti a farsi latori di un messaggio, non sono scelte per convenzione in virtù della comodità o della funzionalità a uno scopo, ma diventano il luogo privilegiato della rivelazione, con la quale tendono a identificarsi. Non solo: ma poiché i termini coranici non differiscono da quelli comunemente impiegati e gli uni e gli altri procedono da Dio, lo stesso linguaggio umano assume una pregnanza metafisica e la sua struttura è correlata, dalla speculazione mistica e teosofica, all’ordine dell’universo. Da queste premesse nasce la scienza delle lettere, che mira a trovare il significato esoterico dell’alfabeto. Essa comincia ad esprimersi nell’viii secolo e si svolge principalmente in due direzioni, in ambiente sciita da un lato, in ambiente sunnita dall’altro. Quanto al mondo sciita, Mughira ibn Sa‘id, vissuto nell’viii secolo, diceva di avere avuto una visione di Dio sotto forma di un uomo di luce con il corpo composto dalle lettere dell’alfabeto, impegnato nel processo della creazione. La sua dottrina, che fu condannata, non rappresenta che una posizione marginale, ma testimonia la natura del rapporto che veniva istituito fra le lettere, Dio e la totalità dell’universo e attesta la dignità metafisica che viene assegnata ai caratteri dell’alfabeto. In generale, per lo sciismo l’Imam, interprete per eccellenza del Libro, è «un Corano parlante», così come, parallelamente, il Corano è «un Imam silenzioso». L’Imam, dunque, possiede la sapienza e, dunque,
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12. Una mezzaluna sovrasta la biblioteca di Ahmet iii che si trova nel Topkapi (Istanbul, Turchia) e risale ai primi decenni del secolo xviii. La comparsa in cielo della luna crescente segna l’inizio del digiuno del Ramadan, che terminerà non appena vi sarà la luna nuova. La mezzaluna fa quindi da segnale per un’interruzione del tempo ordinario. La figura si ritrova su monete arabo-sassanidi; nel 1299, il sultano Osman avrebbe sognato una falce di luna che usciva dal petto dello sheikh Edebali per entrare nel suo; un albero sarebbe allora cresciuto dai suoi lombi, fino a coprire il mondo. L’immagine diventa quindi simbolo della dinastia e viene collegata ai trionfi militari dell’impero ottomano. Sarà poi l’insegna della Turchia e passerà a indicare l’Islām. Si trova ora sull’insegna di diversi paesi. 13. La scrittura come soggetto della decorazione architettonica. Pilastro della madrasa, scuola coranica, di Al-Attarıˉn costruita a Fez, attuale Marocco, tra il 1323 e il 1325.
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anche il segreto del senso delle parole e delle lettere coraniche. Alcune tradizioni descrivono la nascita dell’universo come combinazione di lettere primordiali create da Dio. Le lettere, dunque, come anche il linguaggio – in tutti i suoi aspetti – esprimono l’ordine delle cose e, nello stesso tempo, i tratti del divenire storico. Nell’ambiente sunnita non mancano tesi analoghe, sganciate dal riferimento all’Imam; la loro massima realizzazione si avrà nei trattati di Ibn ‘Arabi: l’universo vi è rappresentato da un libro, i cui caratteri costituiscono le essenze delle cose. Fra i tratti caratteristici della “scienza delle lettere” va citato, innanzitutto, il fatto che le lettere siano associate a numeri, che ad esse corrispondono esattamente; in secondo luogo, si deve alludere al diverso valore simbolico che è loro riconosciuto. La prima lettera, Alif, caratterizzata da verticalità, rettitudine, equilibrio, posizione eretta, è legata da alcuni a Iblis, il diavolo, che non si è prosternato dinanzi ad Allah; per altri, che notano la sua somiglianza ai termini che significano “compagnia”, “unirsi” e “accordarsi”, ha generato tutte le altre lettere dell’alfabeto. Legata al numero 1, rappresenta l’unicità di Dio e si trova, infatti, all’inizio del nome di Allah, così come di quello di Adamo. Ba’ corrisponde al numero 2 e simbolizza la mediazione, l’introduzione, la presentazione; dal (4) l’equilibrio fra le cose create; ha’ (5) l’orientamento verso Dio. Le lettere sono legate, inoltre, agli esseri umani e ciascuna è fatta corrispondere a uno dei quattro elementi (fuoco, aria, acqua e terra): Alif, per esempio, è di fuoco. Questa credenza si trova alla base di operazioni di tipo magico. La concentrazione sul Corano come testo scritto e il valore metafisico, oltre che pratico, assegnato alle frasi e alle parole che lo compongono, uniti alle riserve nei confronti delle arti hanno fatto sì che «l’unica cosa in cui possa concentrarsi la passione simbolica del primitivo musulmano sia la “parola di Dio”, il Corano, fin nelle sue forme esteriori (le lettere, ecc.). Un importante centro di espressione simbolica sono dunque i gruppi di lettere o frasi prese dal Corano e intrecciate artisticamente, che psicologicamente sostituiscono la nostra “immagine sacra”» (Bausani).
LUOGHI DEL SIMBOLO: L’ARTE SENZA FIGURE Se l’avversione nei confronti delle immagini ha evidenti eccezioni in molti campi, il più significativo dei quali è quello dei manoscritti miniati, rimane il fatto che l’arte islamica risulta, nella maggior parte delle sue manifestazioni, aliena alla rappresentazione. I suoi elementi più frequenti sono i motivi geometrici e calligrafici, oppure le figure di piante (o di animali, o addirittura di uomini) stilizzate e, in qualche modo, de-naturalizzate. La radice di questa situazione sta, come si è visto, in una serie di proibizioni. Ma considerare l’arte islamica come semplice reazione a limitazioni di ordine religioso non basta: significherebbe infatti sottovalutarne i tratti di originalità e, soprattutto, disconoscere il fatto che essa elabora un vocabolario stilistico ed espressivo autonomo e peculiare. È proprio attraverso tale vocabolario che essa ricupera, in una forma nuova, quel simbolismo che altre culture esprimono con le immagini. Punto di partenza rimane il dato religioso fondamentale della completa trascendenza di Dio rispetto alla sua creazione. Gli oggetti naturali non si prestano a suggerire i caratteri di Dio, né la figura umana può essere impiegata per rappresentarlo, perché implicherebbe una confusione fra Creatore e creatura non ammissibile. Questo limita fortemente la possibilità dell’esistenza di un simbolismo esplicito. Se la bellezza somma sta al di là dell’uo-
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14-15. Particolari di decorazione in ceramica: il primo dalla madrasa Bū‘lnāniyya di Fez e il secondo dalle Tombe sa’diane di Marrakech (xiv secolo). Nel mondo islamico si riconosce un valore simbolico ai colori, ma è difficile stabilire esattamente e descrivere sinteticamente la rete di significati che tale simbolismo presenta, il senso attribuito ai colori, varia, infatti, di volta in volta, a seconda dei contesti storici e geografici, come anche della corrente dottrinale di riferimento, in generale si riconosce al verde il carattere di colore dell’Islām. Il tema della vegetazione, frequente nel Corano come simbolo della resurrezione, ha dato al verde un carattere positivo: quello della vita e, in particolare, della vita paradisiaca dell’aldilà. Il bianco, legato alla luce, è il colore del Paradiso e bianchi sono talvolta gli abiti che indossa il Profeta. Ma è anche il colore dei sudari e, dunque, rimanda alla morte. Ambivalente è anche il nero, dalle valenze positive, in quanto presente nell’abbigliamento di Muhammad ma anche segno di tristezza e lutto: il corvo, nero, è animale che porta presagi nefasti. Il rosso è simbolo di vita. Il giallo, invece, di morte. I sunniti, tuttavia, lo apprezzano e in Algeria esso indica la collera. Il simbolismo dei colori si ritrova, infine, nella speculazione mistica, a indicare, per esempio, la gradazione delle luci di cui l’uomo fa esperienza durante il processo estatico.
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mo e al di là della natura e se tramite l’una e l’altro non è esprimibile, neppure per allusione o rinvio, come la si può manifestare? Si può rispondere con le parole dello studioso contemporaneo Lois Ibsen Al Faruqi: «Stimolando in chi vede o chi ascolta una intuizione o una visione profonda della natura di Dio e della relazione che l’uomo intrattiene con Lui». Questo può avvenire attraverso la rappresentazione di immagini che suggeriscano l’idea dell’infinito come caratteristica della trascendenza. L’arte islamica cerca dunque di alludere all’infinito tramite una serie di strumenti stilistici e formali che diventano il tratto peculiare del suo linguaggio. Sul piano stilistico, le opere d’arte islamiche presentano una struttura composta da elementi di piccole dimensioni, che obbligano lo spettatore a fermarsi sui particolari; un secondo aspetto stilistico è caratterizzato dall’intrecciarsi dei motivi, talvolta in un ordine molto articolato e complesso, che fa sì che l’occhio trascorra da un particolare all’insieme di cui esso fa parte e da quell’insieme a un altro; ne deriva un rinvio continuo da un modulo compositivo all’altro che fa nascere una sensazione di illimitatezza. Sul piano formale, prevale la divisione in tante unità: l’attenzione non viene attratta, comunemente, da un elemento centrale che domina la rappresentazione, ma piuttosto da molti moduli, che si ripetono identici o con variazioni su tutto il campo, tra loro distinti ma anche collegati.
16. Patio dei Leoni, Alhambra, Granada, xiv secolo. I leoni sorreggono una vasca che porta inciso un poema di Ibn Zamrāk. Il giardino è simbolo delle gioie che il Paradiso riserva nell’aldilà. La sua natura è dunque sacra e la sua immagine modellata su quella del Paradiso. Spazio delimitato rispetto al mondo profano che lo circonda, suggerisce un senso di pace e di ristoro. Una componente fondamentale del suo allestimento è costituita dall’acqua, che scorre in canali o fontane.
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Gli esempi di applicazione di questi principi stilistici sono numerosi: si pensi soltanto alla decorazione calligrafica, frequentissima nei monumenti islamici, ma anche alle figure dei tappeti persiani. Sul piano architettonico, un complesso come quello della Alhambra di Granada non presenta un punto focale in rapporto al quale si costruisce lo spazio architettonico, ma è costituito piuttosto da un insieme di cortili, con camere, fontane e giardini, che danno l’idea di una successione più o meno variata di moduli, piuttosto che di un ordine gerarchico degli ambienti. In nessun caso si tratta di una semplice ripetizione rigida di forme: i singoli elementi sono invece collegati fra loro in una rete articolata e raffinata, nella quale il rilievo, il colore, i materiali, le variazioni di motivi costituiscono altrettanti elementi di complessità.
17. Il mihraˉb della Grande Moschea di Cordova, x secolo. 200
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Sole
Montagna caverna
Albero
Acqua
Drago serpente Pelota
dialettica dei contrari
Il mondo religioso mesoamericano è ricco, complesso e cronologicamente stratificato: ciò rende particolarmente difficile trattarne in maniera sommaria; si è scelto di riferirsi, qui, ad alcune componenti di due grandi aree culturali di riferimento – quella azteca e quella maya – che verranno prese in considerazione separatamente, per quanto molti dei caratteri dell’una siano talvolta difficilmente differenziabili da quelli dell’altra e la distinzione possa risultare talora artificiosa.
GLI AZTECHI La metropoli di Teotihuacan, un passato emblematico Esiste una corrispondenza di ordine simbolico fra il tempio, la città e il cosmo: in vario modo e con differenti implicazioni, i primi due termini sono pensati a immagine del terzo, che costituisce il modello e il punto di riferimento per le costruzioni umane. Se ne ha una chiara dimostrazione nella città di Teotihuacan (“Dimora degli dèi”), che si origina da una caverna, presso lo sbocco di una sorgente, in cui furono ricavate alcune stanze. Queste stanze hanno la forma dei quattro petali di un fiore: esse presentano dunque una struttura quadripartita e centrata. La stessa sistemazione si trova nella città sviluppatasi in superficie, divisa in quattro parti da due 201
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1. Non distante dall’attuale Città del Messico, sul grande altopiano centrale, in una zona pianeggiante contornata su due lati da montagne di origine vulcanica si iniziò a costruire nel i secolo d.C. l’imponente centro cerimoniale della metropoli precolombiana di Teotihuacan. Prima grande civiltà dell’altopiano, Teotihuacan sarà il riferimento mitico per le civiltà successive sino agli Aztechi che si scontreranno con l’armata coloniale di Cortés. La piramide del sole fu la prima tra le costruzioni monumentali dell’erigenda città. Il sito prescelto su cui costruire la piramide fu una caverna, luogo simbolico di incontro tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti. La piramide fu innalzata – come mostra la foto – a imitazione di una montagna che si staglia sullo sfondo. Al simbolismo della caverna in connessione con “l’inframondo” si aggiunge il simbolismo della montagna in connessione con il cielo e gli astri.
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vie principali che si incrociano al centro. Qui si trova il tempio di Quetzalcóatl, ornato da 365 teste del dio o di Tlaloc, alternate (a simboleggiare i giorni dell’anno); intorno, stanno dodici piramidi più piccole. Tutto il complesso ha una precisa orientazione astronomica. Ancora, le piramidi del Sole e della Luna hanno il carattere di montagne cosmiche. La città e i suoi monumenti sono quindi costruiti secondo una struttura che richiama l’ordine spaziale e temporale dell’universo. Spazi sacri e concezione dell’universo Il mondo azteco, infatti, è immaginato di forma quadrangolare e, al suo interno, diviso in quattro regioni: il Nord, paese delle tenebre retto da un dio infernale; il Sud, arido, l’Est, luogo di prosperità, l’Ovest, dove risiedono le divinità femminili; al centro si trova il fuoco. Al di sopra della terra, che poggia sulle acque, si trova un mondo celeste, con tredici livelli, ciascuno caratterizzato da un colore, un nome diverso, certi poteri; al di sotto, un mondo infero con nove livelli, in cui il defunto discende a poco a poco. Ai quattro angoli della terra stanno altrettanti alberi, che reggono i cieli superiori, ma che sono anche luoghi di acceso per salire ad essi: in questo modo, l’albero acquista il carattere di sostegno cosmico e, nello stesso tempo, di tramite fra differenti livelli della realtà. Talvolta si parla anche di un grande albero centrale, che collega i tre mondi affondando le radici in quel202
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2. Il bassorilievo (1480 d.C.) si trova nella casa delle aquile nel centro cerimoniale della metropoli azteca di Tenocthitlan (distrutta dagli spagnoli per erigere Città del Messico). Oggi è nel parco archeologico del Museo del Templo Mayor. Il fiore con quattro petali simbolizza le quattro direzioni dell’universo, espressione della topografia cosmogonica degli Aztechi. 3. Il bassorilievo qui ridisegnato (Piña Chan, 1982) è stato rinvenuto su una parete di roccia basaltica a Chalcatlingo nella parte centrale del Messico (Stato di Morelos). Siamo, in senso lato, in presenza della cultura olmeca, la cultura madre del Messico precolombiano (1400 a.C.-100 d.C.). Nella parte inferiore del bassorilievo si vede la bocca della terra-giaguaro che si identifica con una caverna vista di profilo, dentro di essa sta un sacerdote seduto e riccamente vestito. Nell’alto del bassorilievo sono rappresentate delle nuvole e la pioggia che bagna le spighe di grano. Il sacerdote intercede perché l’acqua scenda dal cielo e porti fertilità e vita alla terra. 4. Disegno stilizzato di una pagina del codice azteco, noto come il FejérvaryMayer, oggi al Museo della Città di Liverpool, in Inghilterra. Il codice è uno dei pochissimi precolombiani rimasti. Sono descritte le quattro direzioni dell’universo. 2
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lo infero, attraversando con il tronco quello terrestre, estendendo le fronde nel cielo. Ritroviamo l’idea della città come centro cosmico nella descrizione della capitale Tenochtitlan, identificata con le “fondamenta del cielo”. Divinità e natura
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5. Illustrazione del famoso Codex florentinus. Si tratta di un codice realizzato dopo l’arrivo degli europei, con uno stile sincretico delle due culture: quella azteca e quella europea. Vi è raffigurato un guerriero rivestito da una pelle di giaguaro. I guerrieri-giaguaro facevano parte di uno dei due squadroni speciali di guerrieri aztechi, mentre l’altro era quello dei guerrieri-aquila. Lo scudo raffigura il sole e un sole è posto sullo sfondo. 6. Nel parco archeologico del Museo del Templo Mayor, a Città del Messico, dedicato alla cultura azteca, si conservano alla base della scalinata delle rovine del tempio dei lunghi serpenti. Il serpente nella cultura azteca è associato alla terra e alla fertilità.
La parola téotl, tradotta dagli spagnoli con i termini “dio”, “demone”, “santo”, indica in realtà una carica sacrale che viene manifestata in vario modo: da un fenomeno o un oggetto naturale (un fulmine, il tuono, un albero, un monte), da un personaggio, da un luogo considerato misterioso o caotico. Il cosmo azteco è quindi caratterizzato da un insieme di manifestazioni di questa potenza sacrale, che presentano un carattere simbolico. È tuttavia evidente, a questo punto, che una trattazione dei simboli aztechi verrebbe a corrispondere con uno studio generale intorno agli esseri sovrumani e alle loro manifestazioni. Ci si limiterà dunque a proporre alcuni esempi. Il cielo è visto, presso gli Aztechi e, in genere, nelle culture mesoamericane, come elemento immutabile, sottratto alle iniziative umane. Esso è variamente rappresentato come una fascia (o più fasce) orizzontale colorata, come un tetto, come un mostro serpentiforme. È sede delle divinità solari e lunari. Tra queste, Tonatiuh (sole) è associato, dagli Aztechi, all’aquila, al giaguaro, al lupo ed è rappresentato da un disco raggiante. Metztli (luna) è raffigurata da una coppa piena d’acqua, con un coltello di pietra e un coniglio e le è associata, inoltre, la conchiglia di mare. I venti avevano caratteristiche differenti a seconda della direzione in cui soffiavano e comportavano una fondamentale ambiguità: negativi in alcuni casi, erano positivi in altri. Se potevano portare malefici e allontanare l’anima delle persone, erano anche collegati all’idea del soffio vitale. D’altra parte, è stato il vento che, secondo una tradizione cosmogonica, ha fatto sì che il sole si muovesse. L’acqua aveva, quali simboli, la pietra verde di giadeite e le piume verdi dell’uccello
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7. Questa scultura con resti di pittura rossa è stata trovata ai piedi della piramide del sole di Teotihuacan. Oggi è conservata nel Museo Nazionale di Antropologia a Città del Messico. Vi è rappresentato un cranio contornato da raggi. Si tratta del simbolo del sole che illumina il mondo dei morti. 205
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quetzal ed era associata a divinità femminili: la dea Chalchihuitlicue, legata alla luna, che incarnava l’essenza delle acque, era appunto rappresentata con una gonna decorata con gioielli di giadeite. Impiegata nei riti con una funzione lustrale, l’acqua era legata tanto alla nascita quanto alla morte. Tlaloc presiedeva alle tempeste e prodigava l’acqua piovana, attraverso i suoi messaggeri, detti Tlaloque. Questi risiedevano ai quattro punti cardinali ed erano dunque associati al simbolo della croce; quando arrivavano fra gli uomini, potevano stare nelle montagne (considerate piene d’acqua); le armi e le asce che tenevano fra le mani erano simbolo del fulmine. Un altro elemento naturale che può essere evocato è il fuoco, la cui divinità, Xiuhtecuhtli, è rappresentata da un vecchio che porta un braciere sul capo. Aveva, quale albero sacro, il pino, dal cui legno si traevano le torce ed era legato al peperoncino, simbolo dell’energia maschile. In certe danze, gli uomini si cospargevano di fuliggine (a lui connessa) per evocare spiriti dei defunti. Il dio fuoco è collegato anche con l’acqua, dalla quale è attorniato: la ragione di questo dato, contraddittorio all’apparenza, sta probabilmente nel fatto che la virtù fecondante e vitale del fuoco si manifesta soltanto intervenendo sul suo opposto (tenebre, freddo, morte). Come all’acqua, anche al fuoco è attribuita una funzione purificatrice.
8. Straordinaria scultura in terracotta trovata presso il Templo Mayor della metropoli azteca di Tenochtitlan, oggi al Museo del Templo Mayor di Città del Messico. Si tratta di un guerriero-aquila che ornava il cosiddetto recinto dei guerrieri omonimi. 9. Urna (1470 circa) in terracotta policroma, trovata presso il Templo Mayor; oggi nel Museo omonimo. Vi è raffigurata l’effigie di Chalchiuhtlicue, la dea dell’acqua. 10. Giara in terracotta policroma con raffigurazione incisa (1470 circa) trovata presso il Templo Mayor e conservata nell’omonimo Museo di Città del Messico. Vi è raffigurato Tlaloc, dio dell’acqua. La stessa divinità si trova nelle terre maya con il nome di Chaac.
“Creazioni” e “distruzioni” Ometeotl, l’essere divino dal quale prende le mosse la cosmologia azteca, genera quattro figli, che sono divinità “creatrici” o “soli”. Ad ognuno di essi corrisponde una “creazione”, seguita da una distruzione. Questo ciclo di quattro periodi è stato interpretato in riferimento ai quattro elementi primordiali: i Soli corrisponderebbero all’energia della terra, dell’aria, del fuoco e dell’acqua, ma ognuno di questi, singolarmente preso, sarebbe in-
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11. Scultura in pietra trovata presso il Templo Mayor conservata nell’omonimo Museo a Città del Messico. È raffigurato Xiuhtecuhtli, dio dei morti.
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12. Disegno, in silhouette, ripreso da un codice maya, detto “Borbonico”, conservato alla Biblioteca Nazionale di Parigi. Vi si raffigura Chalchiuhtlicue, dea dell’acqua.
13. Disegno che riproduce un glifo maya (Thompson, 1963). Tale glifo, detto quinconce, rappresenta le cinque direzioni dell’universo, le quattro orizzontali che si intersecano con la quinta verticale.
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14. Visione laterale dello scalone, tempio delle iscrizioni di Palenque nello Stato del Chiapas, Messico. Siamo di fronte a una delle più note piramidi del periodo classico della civiltà maya (250-850). La piramide per i Maya è uno dei simboli della quadruplicità cosmica: poggia su una base di quattro lati e si erge come una montagna terminando in unità; la base si identifica con la terra mentre la punta rappresenta il livello celeste.
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sufficiente a sostenere un cosmo duraturo. Il quinto sole deriva invece dalla cooperazione dei quattro elementi, che ne costituiscono un quinto, il centro, attraverso il loro equilibrio dinamico. Ciò non significa, tuttavia, che il quinto periodo duri in eterno: anch’esso, infatti, avrà fine, con un terremoto di proporzioni gigantesche. Un’altra interpretazione vuole che, una volta scartate le componenti fisiche (acqua, aria, terra e fuoco) del cosmo, il solo elemento a porsi come agente creatore, che può riscattare l’universo dall’inerzia in cui si trova per inserirlo nel dinamismo del succedersi delle forme, sia il tempo. A questa importanza assegnata al tempo sono legati i calendari, oggetto di articolate e raffinate elaborazioni in tutta la Mesoamerica e punto di riferimento per una complessa simbologia.
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I MAYA La concezione dell’universo L’universo è suddivisibile, secondo i Maya (come secondo gli Aztechi) in tre parti distinte: quella terrestre, quella celeste, quella “inframondana”. La prima è immaginata con una forma quadrangolare; la terra, inoltre, presenta quattro settori, a ognuno dei quali corrispondono un colore simbolico (nero, bianco, rosso e giallo), un albero su cui è appollaiato un uccello e che sostiene, insieme con certe divinità, il cielo, un tipo di fagiolo e un tipo di mais. Il livello terrestre costituisce la base di quello celeste, che è immaginato come una piramide a quattro lati. La piramide è divisa in tre14
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15. Arco rituale della città maya di Labna (periodo classico), nella penisola dello Yucatan, Messico. Gli archi rappresentavano la fine di una strada rituale e l’entrata in un centro cerimoniale.
dici gradoni sempre più piccoli. A ogni gradone corrisponde una divinità di riferimento, fino a un essere supremo che si trova al vertice. Diametralmente opposta alla piramide celeste è quella inframondana, la cui base è sempre costituita dal mondo terrestre, ma che si sviluppa verso il basso. I suoi piani, questa volta, sono nove e il suo ambito di riferimento è quello della morte: al suo vertice sta il dio dei morti. Un albero centrale, la “Grande Madre Ceiba”, attraversa tutti e tre i livelli cosmici, facendo così da elemento unificante fra di essi. Punto di riferimento centrale di questa costruzione dell’universo è il sole, che svolge il ruolo di principio ordinatore tanto del tempo quanto dello spazio. E stato infatti supposto che la struttura quadripartita sia legata al percorso dell’astro: vi sarebbero quattro “case del sole”, corrispondenti ai quattro luoghi in cui esso sorge e tramonta durante il solstizio d’estate e il solstizio d’inverno; una quinta casa (lo zenit, situato in cima alla piramide celeste) sarebbe il centro. Il nadir, invece, si troverebbe al centro del mondo di sotto. Il numero quattro ritorna costantemente nella cosmologia maya e viene espresso simbolicamente da alcune immagini caratteristiche: il quinconce è una figura nella quale sono presenti cinque punti, uno dei quali si trova al centro e gli altri disposti intorno; il sole è raffigurato da un fiore con quattro petali, a indicare le direzioni dello spazio. Anche i segni cruciformi – assai frequenti – sono legati a questo ordine di significati. Alla quadripartizione dello spazio si associa l’idea dell’esistenza di un asse centrale, espressa dall’albero che attraversa i tre mondi. Gli altri alberi non hanno una collocazione centrale, ma possiedono un’altra caratteristica dell’asse cosmico: quella di sorreggere il mondo superiore e di poggiare su quello inferiore. Anche alla struttura piramidale è associato un simbo15
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lismo abbastanza esplicito: i gradoni costituiscono altrettanti momenti di una ascesa (nel caso del mondo celeste) o di una discesa (nel caso di quello inframondano), il cui carattere è quello di un passaggio dalla molteplicità (propria del mondo terreno) all’unità. Cosmologia e spazio architettonico Lo spazio urbano è considerato alla stregua di spazio sacro e riproduce, in qualche modo, la struttura dell’universo. Le piazze, in cui gli uomini assistono alle cerimonie religiose, sono assimilabili al piano terrestre, mentre le piramidi rappresentano gli altri livelli cosmici. L’orientamento del tempio è fissato secondo le direzioni delle case del sole. I templi sono collocati su gradoni e l’accesso ad essi è riservato al personale sacerdotale, a sottolineare la distanza che separa il mondo ordinario rispetto a quello divino, cui il sacerdote ascende simbolicamente. Un esempio del simbolismo cosmico proprio dell’architettura sacra è fornito dai monumenti della città di Palenque: qui troviamo una piramide a tredici piani sormontata da un recinto consacrato al dio celeste Itzamnà, il dragone. Si tratta, a quanto pare, di una riproduzione della struttura del cielo (a sua volta collegata a quella della montagna sacra). Un secondo tempio della stessa città presenta invece nove gradoni: essi evocano l’inframondo, che non può essere, evidentemente, rappresentato con una piramide rovesciata. Vi si accede dal vertice, in modo che lo si percorra quindi dall’interno, attraversando così, a somiglianza di quanto fanno i morti, i suoi vari livelli, fino ad arrivare alla sepoltura di Pacal, situata al di sotto del livello del terreno, che rappresenta simbolicamente il luogo di arrivo dell’itinerario dei defunti. La
16. Maschera funeraria di Pacal, reggente della città maya di Palenque (periodo classico tardo della civiltà maya, 600-900). Mosaico in giada, conchiglia e ossidiana. 17. Disegno, in silhouette, della lapide del sarcofago rinvenuto nella Camera mortuaria del tempio delle iscrizioni di Palenque, Messico. Vi è raffigurato il dragone come axis mundi fatto a croce. Secondo Mercedes de la Garza, l’asse orizzontale è un serpente bicefalo, l’asse verticale termina con una testa di serpente. In alto si posa un uccello-serpente con la testa del dio K (un aspetto del dragone celeste, divinità suprema del Pantheon maya), segno del potere umano che allude al governo sacralizzato.
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18. Scultura in forma di giaguaro situata all’entrata del tempio inferiore dei giaguari, parte del complesso del gioco della pelota nella città di Chichén Itzá (periodo post classico antico della civiltà maya, 1000-1200). Il giaguaro è per la mitologia maya e mesoamericana, assieme ad altri animali come coccodrillo, serpente e uccello, simbolo della forza dell’universo. In particolare il giaguaro simboleggia il rapporto con il mondo dei morti: è il sole che discende nell’inframondo. La sua pelle può rivestire guerrieri (aztechi) ed è segno della dignità regale (maya).
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piazza riservata al gioco della pelota riproduce, come si dirà, la dialettica cosmica degli astri. In alcune città vi sono grandi costruzioni a forma di arco, con le quali comincia una strada che unisce due centri abitati. È possibile che si tratti di tragitti di pellegrinaggi e che questi riproducessero la Via Lattea, che nel contempo è il corpo del dragone celeste; l’arco doveva segnare l’accesso a una dimensione differente. Il drago Le divinità maya sono rappresentate in maniera multiforme, con tratti ripresi dal mondo animale e vegetale. Non è qui il caso di addentrarsi nelle particolarità delle loro effigi, ma va comunque sottolineato il carattere simbolico di alcuni tratti che vengono loro attribuiti. In particolare, il serpente sembra essere direttamente associato alla sacralità, tanto spesso compare nelle figure degli esseri sovrumani. Associato all’uccello, esso dà forma al drago, che costituisce un elemento frequente dell’immaginario maya. Se il serpente (che è qui il serpente a sonagli) evoca la terra, l’uccello (il quetzal) evoca il cielo. Il dragone presenta anche caratteristiche che provengono da altri animali: il cervo (legato anch’esso alla terra), il giaguaro (che richiama l’inframondo), il tapiro, l’alligatore e il coccodrillo (acquatici). Il dragone celeste (Itzamná) esprime appunto l’unità e l’armonia delle varie componenti del cosmo. È spesso rappresentato come serpente piumato, talvolta bicefalo. L’uomo È l’uomo che mantiene l’esistenza del mondo; è lui che venera e nutre gli dèi. Egli ha quindi una posizione centrale dell’universo, simboleggiata dalla sua figura di axis mundi. In particolare, è al governante che 212
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è assegnata questa posizione centrale: nel sepolcro di Pacal già citato, lo scheletro ha una sfera di giada in una mano e un dado nell’altra, simboli, rispettivamente, del cielo e della terra; nella sua lapide, l’uomo è rappresentato al centro dell’universo, fra cielo e inframondo, alla base di una croce che funge da asse cosmico. Il governatore ha il dragone – simbolo del suo potere – effigiato sul petto e tiene talvolta uno scettro che simboleggia, ancora una volta, l’axis mundi. Egli subisce una esperienza iniziatica, che viene rappresentata simbolicamente, nell’arte maya, dalla sua uscita dalle fauci del serpente o del dragone terrestre. Il serpente, animale ctonio, legato all’inframondo e dunque ai defunti, è in questo caso un simbolo della sua morte alla vita precedente; animale che perde la pelle per rinnovarla, ricorda anche la sua rinascita.
19. Xochicalco. Il gioco della pelota Nord (foto A. Stabin).
Simbolismo e rito: rituali funerari I riti, in questa come nelle altre culture, presentano una serie complessa e articolata di riferimenti simbolici, spesso difficilmente penetrabili. Ma, più in particolare, possono coinvolgere alcuni oggetti o elementi che acquistano carattere simbolico in un senso più stretto. È questo il caso dei riti funerari. Nella bocca del defunto vengono messi del mais macinato e un grano di giada o di una pietra dalle caratteristiche analoghe: secondo la mitologia maya, infatti, l’uomo sarebbe stato plasmato dagli dèi con mais, sangue di serpente e sangue di tapiro (associato all’acqua); la giada è invece il luogo in cui si riteneva che lo spirito potesse incarnarsi. Tra i molti oggetti ritrovati nelle sepolture, alcuni (un vaso capovolto, gusci di tartaruga, lastre di pietra) erano posti sul capo del morto, per proteggerne lo spirito, che si riteneva uscisse dalla fontanella del cranio; spine di razza erano messe sul pube, a simbolizzare l’autosacrificio, di cui erano strumenti: l’autosacrificio consisteva nell’offerta di sangue, estratto appunto, tramite oggetti appuntiti come le spine di pesce, agli dèi. Sono poi presenti ossa, unghie e denti di giaguaro; poiché il giaguaro simboleggia, talvolta, il sole che passa nell’inframondo, si può supporre che i suoi resti stessero a indicare una assimilazione del defunto con l’astro diurno. Si usava cospargere i cadaveri con polvere rossa di cinabro: il colore rosso, legato all’Est, dove sorge il sole, era simbolo di rinascita (alla nuova vita nell’aldilà).
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Simbolismo e rito: il gioco della pelota Il gioco della pelota ha una funzione religiosa. Sebbene se ne sia data una immagine geometrica dai caratteri statici, l’universo maya è, in realtà, dinamico, in continuo mutamento ed evoluzione. Si ritiene che il passaggio della palla da una parte all’altra del campo riproduca la sua dialettica: una dialettica che vede quali antagonisti esseri celesti e luminosi da un lato, esseri oscuri e infraterrestri dall’altro. Nel gioco è riconoscibile anche una figura del movimento degli astri. Il fatto di giocare non comporterebbe una semplice imitazione di quanto succede nel firmamento, ma sarebbe una maniera di preservare quell’ordine del cosmo che dal movimento degli astri è caratterizzato. Ancora, le partite dovevano avere il significato di un rito di passaggio. Al rituale corrisponde anche un rito di decapitazione, che va probabilmente inserito all’interno dello stesso ordine di significati: esiste una omologia, che si traduce in una corrispondenza simbolica sottesa al funzionamento del rituale, tra la forma della pelota, quella del corpo celeste, quella del capo umano. 213
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20. Il campo per il gioco della pelota a Chichén Itzá, visto dalla scalinata del tempio dei giaguari. Da qui sacerdoti e dignitari osservavano lo svolgimento del gioco rituale. 21. Scena di gioco della pelota rappresentata su un vaso cilindrico policromo del periodo classico tardo della civiltà maya (600-900). 22. Testa in terracotta, proveniente da Soyaltepec, Stato di Oaxaca, Messico, oggi al Museo Nazionale di Città del Messico. La scultura risale al periodo classico della civiltà zapoteca (250-800) e simboleggia la dicotomia fra vita e morte, elemento molto presente nelle civiltà precolombiane del Mesoamerica.
Un caso paradigmatico: il simbolismo della croce A Palenque fu rinvenuta, già nel periodo successivo alla scoperta dell’America, una immagine che rappresentava una figura cruciforme, sormontata da un uccello e in prossimità di un personaggio adorante. Il suo ritrovamento, così come il ritrovamento, in tutta l’America centro-meridionale, di tanti altri segni cruciformi, esercitò un particolare interesse. I missionari si chiesero infatti per quale motivo un simbolo che considerano esclusivo e caratteristico del cristianesimo potesse incontrarsi in territori che la vera religione non aveva toccato. La risposta che fu data è che, in realtà, il cristianesimo era già penetrato, in epoche passate, nelle regioni al di là del mare. Ma in quale maniera? Qualcuno ha avanzato l’ipotesi che esso sia stato introdotto dalla predicazione dell’apostolo Tommaso. Ancora nell’ultimo quarto del diciannovesimo secolo, viene sostenuta una penetrazione del cristianesimo antecedente alla scoperta dell’America e la
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23. Disegno, in silhouette (Graham, 1982), di un architrave della città maya di Yaxchilán (periodo classico tardo 757 d.C.). Vi è raffigurato il governatore uccello-giaguaro che tiene come scettro una croce che simboleggia l’axis mundi con le quattro direzioni cosmiche. Mosaico in giada, conchiglia e ossidiana.
si attribuisce a un uomo bianco non meglio specificato, a Tommaso o, ancora, ad uno o più apostoli. In questo periodo, tuttavia, gli studi archeologici e storici mostrano sempre più che la forma di croce può trovarsi in varie culture, indipendentemente dal cristianesimo e con significati diversi: è del 1901 uno studio in cui A. Quiroga analizza il simbolismo della croce in tutte le sue ricorrenze dell’America precristiana, considerandolo a tutti gli effetti “simbolo nativo”, legato ai fenomeni atmosferici, alla sacralità del numero quattro, alle acque.
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Corpo umano
Colori
Coccodrillo
Palma
Serpente
Zig Zag
«Dalle ricerche [sull’Africa] degli ultimi cento anni – scrive l’antropologo italiano Bernardo Bernardi – sono emersi sistemi di pensiero e sistemi rituali ricchi di simbolismo». Ora, uno studio del simbolismo in Africa non può non porre alcune difficoltà di base. La prima nasce dalla necessità di considerare i complessi problemi delle maniere in cui vengono configurate le nozioni di uomo e di divino, delle modalità secondo le quali queste nozioni sono poste in relazione, dello statuto dell’immagine e della rappresentazione che chiamiamo artistica. Una seconda difficoltà, che moltiplica la prima, consiste nell’impossibilità di fare un discorso unico che si possa estendere a tutto il continente: esistono molti ambiti sociali e culturali che costituiscono altrettanti sistemi simbolici, in cui oggetti o motivi analoghi vengono valorizzati differentemente sul piano religioso. La diversità degli ambienti naturali, la varietà degli usi e dei sistemi di sussistenza non possono non condizionare la produzione simbolica. Se si trascurassero questi dati, si correrebbe il rischio di costruire un sistema carente di consistenza storica, che non esiste in nessun posto. D’altra parte, poiché un discorso che tenga conto di tutti questi problemi e queste articolazioni non è qui proponibile, è possibile indicare qualche caso che consenta di dare un esempio di alcuni sistemi simbolici africani.
PRESUPPOSTI TERMINOLOGICI Una questione preliminare riguarda la possibilità stessa di parlare di simbolo in Africa. La si può affrontare attraverso un cenno al vocabolario relativo: da una ricerca intorno alla terminologia delle lingue kiswahili, cilu217
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ba, lomongo, kikongo, masaba, dogon, emerge che i vocaboli traducibili o tradotti comunemente con “simbolo” sono numerosi e hanno aree semantiche parzialmente differenti. Presentano tuttavia alcuni aspetti comuni; in generale, indicano un luogo di passaggio e un luogo di manifestazione: passaggio da una dimensione a un’altra, espresso attraverso realtà percettibili. Non importa, qui, la distinzione fra sacro e profano, ma piuttosto quella, che sembra primaria per la percezione delle cose africana, tra invisibile e visibile, che verrebbero posti in relazione, appunto, attraverso una mediazione definibile di ordine “simbolico”. Nello stesso tempo, il simbolo «si presenta come un “linguaggio” alla portata di tutti i membri di una comunità e inaccessibile agli estranei, un linguaggio che esprime i rapporti della persona che porta il simbolo con la società e il cosmo» (Mulago Gwa Cikala). È evidente che, da questo punto di vista, il “simbolismo” appare come un tratto preminente della religione africana e la pervade: piuttosto che di alcuni oggetti ed elementi simbolici, occorrerà parlare dunque di una generale considerazione religiosa – simbolica – della realtà.
IL CORPO UMANO La valorizzazione religiosa del corpo umano può essere esemplificata richiamando un mito cosmogonico luba. Quando, nei tempi delle origini, l’uomo venne plasmato, la divinità lasciò nel suo corpo dodici orifizi aperti, in modo che potessero passare attraverso di essi la sua energia e l’energia dell’universo. Tre orifizi erano di natura divina, gli altri nove di natura non divina. L’uomo, tuttavia, decadde e i tre orifizi si chiusero. Il primo è il cavo epigastrico, in cui si manifestano le potenze dello spirito, concedendo all’uomo l’intuizione delle cose invisibili; il secondo è il cuore, nel quale viene vista la sede dello spirito che si esprime attraverso la parola, elemento distintivo dell’uomo dagli altri esseri; il terzo è costituito dalla fontanella e dall’occipite, in cui si manifestano l’intelligenza e la saggezza dello spirito, rivolte al futuro e al passato. Ora, queste tre parti del corpo
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1. Sedia, Luguru, Tanzania. Legno, h 109 cm. Nella costruzione di sedie, manufatti che compaiono soltanto in seguito al contatto con i bianchi, sono ripresi motivi simbolici tradizionali. Tratta da un unico blocco di legno, la sedia qui rappresentata ha lo schienale inciso, nella parte posteriore, con figure geometriche e presenta una testa con acconciatura a cresta e due piccoli seni.
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2. Togu na. Dogon, Mali. Legno, h 152 cm. Si tratta di un riparo sotto il quale si riuniscono gli anziani dogon. Gli insediamenti dogon sono strutturati in maniera antropomorfica e il riparo corrisponde alla testa, che contiene la saggezza e dal quale muove la parola. È sorretto da pali scolpiti, i quali rappresentano gli otto antenati primordiali che sedettero per primi nella capanna della parola. Quattro di essi erano donne: queste – secondo quanto raccontano i miti – sono state poi escluse dalla capanna a seguito di un’infrazione. La loro presenza rimane simbolicamente espressa dalla rappresentazione scultorea. Le impronte sono quelle dei sandali del dio Amma. 3. Schema antropomorfico delle abitazioni fali, Camerun. Alla struttura antropomorfica corrisponde un’articolazione gerarchica: l’elemento centrale è costituito dagli organi genitali (dove si trovano il granaio centrale, GC, e gli altri granai, G). Le camere (C) sono collocate in corrispondenza delle altre parti del corpo (capo, braccia e gambe).
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umano sono punti di riferimento frequenti nel rituale dei Baluba, che ricorrono ad essi per individuare la presenza di facoltà sovrumane nell’uomo e per mediare l’accesso alla conoscenza divina. Un altro esempio di lettura simbolica del corpo può essere rinvenuto nello Zimbabwe, dove si ritiene che il capo della donna evochi il fallo e l’ombelico sia collegato ai movimenti circolari dei tempi originari. Quest’ultimo assume il carattere di emblema della ragazza che ha raggiunto il menarca. Alcuni organi umani assumono un valore rituale particolare: se un iniziato dei Basongye che ha raggiunto un certo livello nel suo percorso di conoscenza si suicida, sezioni ben precise del suo cadavere sono tagliate e inserite nel «cesto della conoscenza»: l’indice, il braccio e l’occhio destro, un frammento di pelle della fronte, il pene, il cuore, i reni e la bile.
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LA NATURA Tra gli elementi naturali va citato in primo luogo il sole. Secondo i Baluba, esso esce dalla fontanella dell’Essere Supremo, dal quale trae la sua luce; diventa quindi oggetto di culto, in quanto mediatore rispetto all’essere sovrumano dal quale è emerso. I Bakongo ritengono che esista una relazione fra il 219
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Forgia Piazza dell’assemblea del consiglio Nord
Testa
Dimora
Casa delle donne Mano
Mano
Pietra per affilare Sesso femminile
Altare del villaggio Sesso maschile
Altari 4
Piedi
4. Schema di villaggio dogon, Mali. Lo spazio è organizzato antropomorficamente: l’insediamento si estende da nord a sud, «come un uomo che giaccia supino»; la testa è la casa del consiglio e si trova sulla piazza principale, che rappresenta il “campo primordiale” (Ogotemmeli); a nord sta la fucina, nel luogo in cui si riteneva fosse posta, appunto, la fucina del fabbro civilizzatore; a est e ovest, al posto delle mani, sono collocate le case delle donne mestruate (con la forma tonda di uteri) e al centro, nella posizione del petto e del ventre, le dimore delle famiglie; a sud, al posto dei piedi, sono gli altari. 5. Cucchiaio antropomorfo, Zulu, Sudafrica. Legno, 57 cm. La donna è qui associata al cucchiaio, il cui uso è rituale. 6. Coppa antropomorfa, Koro, Nigeria. Legno e grani di arbus, 47 cm. Si tratta di una coppa usata a scopi rituali. Il contenitore corrisponde al ventre della figura femminile; la forma curva con rientranza al centro ricorda quella delle zucche, tipici contenitori per liquidi.
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ciclo di vita dell’uomo e il corso dell’astro, che percorrerebbe un itinerario distinto in quattro fasi, due diurne e due notturne. Al sole notturno sono riconosciute valenze funerarie: è chiamato infatti «piroga che trasporta le anime». Tutta una serie di significati dei termini indicanti il “simbolo”, che ha a che fare con ciò che «suscita l’ammirazione, la contemplazione, l’esaltazione» e che «abbaglia lo sguardo», sembra adattarsi bene all’immagine del sole. Quanto allo spazio umano, i Madare del Burkina Faso oppongono, per esempio, lo spazio del villaggio a quello della foresta. Il primo è conosciuto e coltivato, mentre il secondo è selvaggio, esterno, estraneo. Nella foresta stanno alberi cui è assegnato un valore religioso particolare: tre di essi sono piante dalle quali dipende il loro sostentamento e che considerano doni gratuiti del dio creaore; quattro altri sono ritenuti segreti e rappresentato forze sacrali particolari. A termitai, colline, montagne, alture sono associati significati religiosi. Nel momento dell’intronizzazione del loro capo, i Bayaka pongono un pezzo di termitaio in mezzo a un recinto, nel quale vedono la collina mitica originale. Si tratta del luogo sul quale il conquistatore Lunda montò per acquisire il potere sulle cose e generarle; il capo, ripetendo il suo atto, acquista il potere. I Baluba e i Bena Luluwa vedono nel termitaio la totalità dell’essere umano, con la compresenza di aspetto maschile (il fallo) e femminile (la matrice), che sarebbero evocati dalla sua forma. Tra gli animali, si può citare, innanzitutto, il serpente. Per i Venda, il pitone ha dato luogo a tutte le cose, che aveva nel ventre, vomitandole. Le ragazze, nei rituali iniziatici, ripetono i suoi movimenti. Esso è considerato freddo (mentre per altri, per esempio i Luba, è caldo). L’aquila è legata al sole e alla regalità: è rappresentata come re degli uccelli negli “uccelli dello Zimbabwe” in pietra. Presso i Basongye rappresenta l’uomo con le sue forze mentali e sconfigge le forze “emotive”. Il coccodrillo ha sovente la funzione di essere primordiale che favorisce il processo di formazione delle cose. Presso i Venda, indica l’unione dell’uomo e della donna. Ad esso si fa riferimento in un rituale che succede alla morte del sovrano: i
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7. Rilievo di figura rupestre eseguito da M. Leakey a Pahi, in Tanzania. Raffigurazione di una pianta con tronco antropomorfo. Pubblicato in M. Leakey, Africa’s Vanishing Art, New York e Melbourne 1983. 8. Nel sito archeologico n. 3 di Mphunzi, nell’attuale Maalwi, si trova una grotticella con una straordinaria pittura rupestre. E. Anati, in Il museo immaginario della preistoria, 1955, riporta l’interpretazione di una guida bantu che vi vede rappresentato un mito d’origine della sua tribù: «Il serpente e l’iguana si sono uniti. Sono state partorite tre uova, uno grande, uno medio e uno piccolo, dalle quali sono nate tre tribù primordiali, una grande, una media e una piccola». Il segno raggiato, in alto a sinistra, indicherebbe il luogo mitico dell’evento (foto E. Anati MW-86: xii-5).
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suoi figli debbono affrontare una prova che consiste nell’aprire una porta; chi riuscirà nell’intento avrà il regno. Ora, la porta rappresenta il coccodrillo, che consente di accedere al potere (un potere che è politico e religioso a un tempo). Tra i vegetali, la palma, albero dal quale si traggono frutti e bevande e di cui si può consumare il cuore, è considerata vitale e divina. I Basongye ritengono che non si possa impiccarsi con una nervatura di palma, per il rapporto stretto fra la pianta e la regola religiosa che vuole che non ci si tolga la vita. Chi tocca la nervatura non può mentire e la palma viene impiegata come strumento per vagliare la verità o falsità di certe accuse. Quando un bambino nasce, in molte popolazioni dello Zaire, se ne seppellisce il cordone ombelicale sotto un banano; i Balega danno al neonato un pezzetto di banana: per loro, il banano è identificato con il mondo, caratterizzato da una continua successione di morti e nascite: quando una pianta di quella specie muore, un germoglio la sostituisce subito, in un ciclo di continuo rinnovamento. Il seppellimento del cordone ombelicale indica una connessione, che si vuole stabilire o rinnovare, fra il nuovo nato e gli antenati.
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9. Chora, Kondoa, Tanzania. Pittura in rosso di elementi vegetali, probabilmente palme o arbusti. Pubblicato in M. Leakey, 1983.
10. Marionetta di serpente sacro, opera di Danaye Kanlanféi, Lomé, Togo, in materiali vari. Viene utilizzata per l’evocazione degli spiriti.
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COLORI E SEGNI I colori, che sono utilizzati a vari scopi e, in particolar modo, nella decorazione dei corpi, hanno significati che variano nei diversi contesti. Presso i Bafende, i Baluba, i Basongye e i Bena Luluwa, il rosso indica la vita e la fecondità; il nero il lutto e la prova; il bianco i fantasmi e la morte. Tra i segni grafici, ne vanno ricordati, a titolo di esempio, almeno due. Il primo è il motivo spigato, o a linea spezzata. In diverse lingue è indicato con il nome nungu, che deriva dalla radice dung, presente in molti termini che traduciamo con dio o sacro. Presso i Venda, esso rappresenta il pitone, che a sua volta fa riferimento all’essere creatore; nello Sheba (Zaire), si ritiene che un disegno del genere posto sul capo dell’indovino consenta di mettersi in contatto con gli spiriti. Si tratta di un motivo figurativo che viene collegato direttamente con la vita: ha infatti la forma dell’articolazione, che è considerata segno di vita – in opposizione alla rigidità del cadavere – e segno di attività e di movimento. I cerchi concentrici raffigurano il sole e rinviano alla divinità. I Bena Luluwa sarebbero nati dai cerchi concentrici che si formarono nel fiume Luluwa,
11. Mausoleo di Askia Muhamed, Gao, Mali. A Gao si sovrappongono tradizioni berbere, arabe e nero-africane. Il mausoleo, che risale al xvi secolo, è stato probabilmente costruito sul recinto degli antenati di epoca pre-islamica. Se riprende, da un lato, elementi dell’architettura araba, richiama, dall’altro, la forma conica degli altari tradizionali africani.
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12. Maschera nwantantay, Bwa, Burkina Faso. Legno e caolino, 125 cm. Gli elementi che compongono la maschera assumono significati differenti a seconda della loro combinazione e del livello iniziatico di chi li interpreta. La maschera presenta, in basso, un viso, i cui occhi ricordano quelli della civetta; ma gli occhi rimandano anche, così come la bocca, ai pozzi d’acqua. La sporgenza che sovrasta la faccia rappresenta il pene circonciso e il calao (uccello legato alla divinazione); i motivi geometrici a forma di X che scandiscono il manufatto sono analoghi a quelli che vengono portati dalla gente incisi sulla fronte. La “luna delle maschere”, posta sulla cima, evoca il tempo delle cerimonie. 13. Maschere karanga, Mossi, Burkina Faso. Legno, pigmenti e fibre, 128 cm e 154 cm. Queste maschere sono usate nei funerali e, poste sugli altari familiari, costituiscono un tramite per comunicare con i defunti; proteggono, inoltre, le piante selvatiche. Presentano elementi zoomorfi e antropomorfi e si riferiscono a spiriti della foresta e ad antenati.
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14. Cortile di abitazione, Kasena, Burkina Faso. I Kasena, popolazione del gruppo voltaico noto come Gurunsi, sono agricoltori. Le pareti delle abitazioni sono decorate dalle donne con motivi geometrici. 14
quando l’essere creatore vi gettò un ciottolo. Indicano dunque le loro origini. Per i Baluba, rappresentano il serpente mitico. Un ultimo cenno va fatto ai numeri: il 3, per esempio, è frequente nei miti e nelle credenze baluba: per esempio, è il numero dei Signori primi (il Creatore, l’Ordinatore, Colui che fa nascere le cose create); degli orifizi già menzionati; dei luoghi segreti originali (la savana, la foresta, la grande Acqua dei grandi fiumi).
15. Paramento sacerdotale cattolico prodotto dall’atelier d’arte liturgica di Yaoundé, nel Camerun. Tanto i colori quanto i motivi geometrici di questo paramento liturgico cristiano riprendono la tradizione africana.
16. Porta, Baulé, Costa d’Avorio. Due serpenti, che rappresentano l’acqua e la spirale solare, attaccano un coccodrillo. 17. Porta, Yoruba, Benin. I motivi della linea a zig-zag e dei cerchi concentrici sono diffusi in Africa occidentale; quello del nodo intrecciato è di probabile provenienza nordafricana.
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Le immagini del presente articolo sono state scelte allo scopo di proporre alcuni esempi di manufatti africani, spingendosi anche al di là dei limiti linguistici entro cui la trattazione del testo si è mantenuta. 225
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Antenato
Itinerari
Impronta
Amplificatore vocale
Segni geometrici
Per introdurre un discorso sul valore che le immagini hanno nel cosmo australiano, vanno fatti alcuni rilievi intorno alle caratteristiche dell’arte aborigena. Innanzitutto, essa non esiste separatamente dalla religione e dalle esigenze e necessità che definiremmo “materiali”: non si distinguono, in altri termini, una dimensione religiosa, una pratica e una estetica. In secondo luogo, si tratta di un’arte “simbolica”, in quanto «rimanda a qualcosa che sta oltre i vari oggetti e rituali» (Moore): esiste un linguaggio, un sistema di simboli nel quale sono presenti gli oggetti della natura e le componenti della società e che può essere compreso soltanto richiamandosi al contesto sociale nel quale si colloca e al quale è ordinato.
IL “TEMPO DEL SOGNO” E LA DEFINIZIONE DELLO SPAZIO
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Il punto di riferimento della religione aborigena è il cosiddetto “tempo del sogno”, un tempo primordiale nel quale i miti collocano la fondazione del mondo e delle istituzioni umane, ma che si incarna anche, in qualche modo, nel territorio, definito e organizzato da una complessa rete di itinerari che gli antenati mitici hanno percorso, segnandoli con le loro imprese o le loro vicende. Il tempo del sogno, come momento originario e fondante, costituisce anche il principio organizzatore delle regole morali e sociali e determina il legame di ogni individuo con i membri del suo gruppo familiare. Esiste dunque una continuità fra il passato remoto delle origini e il presente e l’u-
1. Uluru (Ayers Rock). Il valore religioso di questa spettacolare montagna dell’Australia Centrale è dovuto anche al fatto che essa è circondata da grotte sacre ricche di arte rupestre. 227
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2. I disegni mostrano forme che rimandano ai viaggi degli antenati nel territorio australiano. L’arte aborigena contemporanea ancor oggi si ispira a queste forme. 3. Kakadu National Park, Northern Territory. Pittura rupestre in rosso-arancio che mostra due personaggi in viaggio su di una imbarcazione. È uno dei percorsi mitici degli spiriti ancestrali che hanno solcato la terra e le acque dell’Australia al tempo dei sogni.
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4. Paesaggio del Kakadu National Park, Northern Territory (Australia). Questa vasta area, in gran parte di proprietà aborigena, con le sue innumerevoli varietà di piante e la ricchezza della sua fauna, ben rappresenta il territorio australiano. Questo è, per i nativi, solcato da una profusione di invisibili linee: i percorsi mitici degli spiriti ancestrali che hanno dato vita e significato a ogni singolo luogo.
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niverso appare intessuto su una trama di elementi che si comprendono soltanto in riferimento al tempo del sogno. «Si tratta di un universo significativo, pieno di simboli»; «oggetti del mondo naturale come piante e animali o rocce e stelle non sono soltanto caratteristiche isolate del mondo visibile, ma parti di un ordine costituito di elementi tra loro interconnessi» (Berndt). La loro connessione è data, appunto, dalle vicende del tempo primordiale. Un grande monolito chiamato Ayers Rock, che si trova nell’Australia Centrale e si staglia con particolare grandiosità, è detto dagli aborigeni «sacro ricettacolo di conoscenza di cose eterne». Sarebbe emerso nel Tempo del 228
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Sogno da una duna sabbiosa e sarebbe stato foggiato da dieci esseri mitici diversi. All’idea dello spostamento e della sacralizzazione dello spazio si associa anche quella del palo sacro. Gli Achilpa raccontano che Numbakulla, un essere soprannaturale, piantò un palo, di nome kauwa-auwa, in un terreno. Lo bagnò di sangue e vi salì parzialmente; invitò quindi il primo antenato degli Achilpa a seguirlo, ma questi scivolò a causa del sangue. Sicché Numbakulla montò da solo e poi prese con sé il palo. Dopo la sparizione di Numbakulla, gli antenati degli Achilpa peregrinarono nel loro territorio praticando, fra l’altro, rituali iniziatici. In queste occasioni, 229
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5. Il disegno mostra la decorazione di un tronco cavo usato come tamburo per accompagnare la mitica danza delle api. Viene dipinto a puntini con ocra gialla e rossa che simboleggiano le api. È così ritualmente evocato il mito dell’antenato miele selvatico. 6. Un canguro, dipinto in una grotticella a Laura, nella penisola di York (Australia), dove si trovano pitture e incisioni di ideogrammi, linee di probabile valore numerico e rappresentazioni simboliche come impronte di animali e segni geometrici. 7. Grande rupe di arenaria situata nel Kakadu National Park non lontano dalla scarpata con cui inizia l’Arnhem Land, terra aborigena per eccellenza. Il profilo di questa roccia si staglia nel cielo e la parete che scende con andamento digradante ospita alcuni tra i più noti esempi di arte rupestre del Parco Nazionale. La roccia è sempre stata per gli aborigeni una presenza significativa, che le pitture rupestri ricordano e segnalano. 8. Rombo australiano a forma di pala. Legato a una corda lo si fa roteare nell’aria: produce così tutta una gamma di sonorità, diverse secondo velocità e inclinazione. Il suono sta a indicare la presenza dell’essere soprannaturale.
erigevano un kauwa-auwa e lo inclinavano nella direzione verso la quale si sarebbero diretti. Avvenne tuttavia che i membri di un gruppo, nell’estrarre il palo, lo spezzarono alla base; presero con sé il frammento e, poco dopo, morirono. Il palo, attraverso il quale Numbakulla sale al cielo, ha il ruolo di un asse cosmico e ha la funzione di segnare, volta per volta, un centro e di orientare lo spazio; è significativo il fatto che la sua distruzione coincida con la scomparsa del gruppo sociale cui è legato.
L’ORDINE SIMBOLICO W.E.H. Stanner ha compilato una lista di elementi nei quali il meccanismo di simbolizzazione può attuarsi: a. movimenti convenzionali che danno luogo, nello spazio, a disegni geometrici (linee, curve, cerchi, spirali, motivi a zig-zag); b. posizioni, gesti ed espressioni facciali; c. silenzi ed emissioni vocali di vario genere; d. canti; e. storie, racconti e miti; f. danze e movimenti mimici; g. disegni e sculture astratti o figurativi; h. vari atti compiuti in contesti rituali o descritti nei miti. Come si vede, atti, racconti e segni grafici di ogni tipo hanno un significato religioso; tale significato può essere colto nel momento in cui li si intenda all’interno del tessuto simbolico costitutivo della civiltà aborigena. I segni si trovano su supporti di diverso genere: vanno menzionati, in particolare, i disegni su sabbia, le pitture effettuate sul corpo umano, specialmente in occasione di rituali particolari, le rappresentazioni su roccia e quelle su corteccia di eucalipto. Si trovano motivi simbolici anche su armi e pie-
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tre intagliate (lo stesso fatto di praticare le incisioni è considerato un atto rituale, talvolta accompagnato da canti) e sugli oggetti rituali, per esempio il rombo, uno strumento che provoca un rumore particolare, usato in certi riti e in particolar modo nelle iniziazioni. Nei gesti rituali e nelle danze vengono svolti movimenti che seguono schemi corrispondenti alle forme geometriche dei simboli.
UN ESEMPIO: I SIMBOLI GEOMETRICI Nel Deserto occidentale sono stati catalogati dagli studiosi quattordici elementi grafici di base e quattro colori (rosso, giallo, bianco e nero), che sono applicati sul terreno. Questo viene sottoposto a una preparazione speciale e quindi si traccia il disegno, che poi è cosparso con del sangue e con i pigmenti. Nell’Australia centrale esistono molti di questi dipinti: un soggetto tipico è l’emù, un uccello diffuso da quelle parti, che viene rappresentato attraverso le impronte delle sue zampe stilizzate in una forma simile a quella della punta delle frecce. Le sue impronte si trovano intorno ad una figura centrale, che consiste in molti cerchi concentrici. A questi sono attribuiti significati molto vari, che vanno dall’accampamento al fuoco, ai frutti. Si è ritenuto che l’associazione dei due segni (impronte a forma di lancia e cerchi concentrici) possa rappresentare l’antenato emù che si siede, che si muove lungo i tracciati ancestrali, o che reca un frutto. In questo caso, due motivi grafici – almeno uno dei quali è portatore di significati assai vari – sono associati per esprimere un significato particolare. Un’operazione di questo genere non è consentita a tutti, né da tutti è compresa: soltanto gli iniziati sono in grado di cogliere il significato profondo dei simboli. Altre combinazioni di segni daranno luogo ad altri sensi. Esiste, insomma, una sorta di linguaggio grafico e vi sono regole che permet-
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9-10. Una coppia di uccelli e una grande lucertola, l’una mimetizzata tra i rami di un albero, l’altra sul terreno. Presenze che ben esprimono la simbiosi con l’ambiente che caratterizza la visione aborigena del mondo. 11. Kakadu National Park, Northern Territory. Figura ancestrale dipinta su di una roccia di Nawurlandja.
tono di combinarne gli elementi. Ma queste regole non sono universali, né si possono descrivere una volta per tutte: cambiano, infatti, con il variare delle tribù cui si fa riferimento. I segni tracciati sul terreno dai Walbiri sono stati fatti oggetto di studi particolarmente approfonditi. In particolare, tenendo conto della profonda differenza di ruoli sociali e religiosi attribuiti da quella società agli uomini e alle donne, sono stati presi in considerazione i disegni fatti da uomini mentre narravano racconti “maschili” e miti e da donne che parlavano di fatti quotidiani e sogni. Su questa base, si sono costituiti repertori di disegni, notando che gli stessi motivi possono essere usati differentemente nel contesto di diverse narrazioni e che i bambini, pur non ricevendo un’istruzione specifica in proposito, imparano, fin da piccoli, a distinguerne i
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12. Long Jack Philipus Tjakamarra (1932-) è l’autore di questo quadro conservato alla National Gallery of Victoria di Melbourne. Si intitola Sognando l’Emù, il mitico uccello qui simboleggiato dalle sue impronte. Associato insieme al serpente alla creazione di certi luoghi, ne emerge per indicare agli uomini aree destinate al rito.
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significati attraverso i discorsi che sentono dagli adulti. Un esempio, proposto da N. Munn, è costituito da un disegno che presenta cerchi uniti a linee rette. Il cerchio, come nella figura già descritta, ha significati diversi (accampamento, fuoco, frutto...); la linea retta indica un percorso verso un qualche luogo e allude all’entrare o all’uscire, con particolare riferimento ai percorsi propri del tempo del sogno. Le due immagini possono però avere anche un significato sessuale: il cerchio indicare il sesso femminile, la linea quello maschile. Ora, le idee dell’entrare e dell’uscire sono associate ad alcuni momenti forti dell’esistenza: la nascita, il rapporto sessuale, la morte. I significati attribuiti all’immagine sono dunque vari, ma gravitano intorno a due nuclei fondamentali: quello degli itinerari propri del tempo del sogno e quello delle esperienze vitali fondamentali; la loro unione fa sì che alla forma costituita dal cerchio e dalla linea si posa attribuire il carattere di “icona spazio-temporale” dell’ordine cosmico walbiri. In questo modo, si stabilisce una connessione fra il microcosmo della vita quotidiana e della vita familiare e il macrocosmo dell’ordine del mondo.
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I SIMBOLI OGGI L’uomo contemporaneo ha perso, secondo Paul Ricœur, la capacità di vivere i simboli. L’esperienza diretta, vitale del simbolo è diventata per lui impossibile, ma gli rimane la facoltà di interpretare: «se non possiamo più vivere i grandi simboli del sacro è interpretando che possiamo di nuovo intendere». Nostro compito, dunque, sarebbe, per il filosofo francese, svolgere un’attività ermeneutica, che, portando continuamente alla luce i significati, ci consenta di approfittare comunque – sebbene in maniera diversa dai nostri antenati – della ricchezza dell’universo simbolico. Eppure i simboli non sono affatto scomparsi dall’orizzonte dell’uomo contemporaneo: il loro valore sociale rimane intatto, come quello psicologico. Nel campo religioso si è discusso e si discute sul ruolo che essi debbono avere e, per quanto alcune impostazioni abbiano inteso ridurre, come scrive Paul Tillich, i testi a «una terra dai simboli infranti», è fuor di dubbio che la simbolica continui ad avere importanza tanto nella pratica religiosa quanto nella riflessione teorica. In generale l’interesse per i simboli appare diffuso e si estende al di là dei motivi tradizionali, coerentemente con una società nella quale i mezzi di comunicazione favoriscono scambi sempre più rapidi ed efficienti. Né sembra che l’efficacia del simbolo, con l’incremento della conoscenza dei suoi meccanismi d’azione, venga meno: lo prova, tra l’altro, l’uso di immagini che si possono considerare simboliche in molti settori, non ultimo quello della pubblicità. Si tratta di fenomeni complessi per la cui analisi occorre una strumentazione psicologica, sociologica e antropologica, ma anche storico-religiosa adeguata e che sarebbe impossibile, in questa sede, tentare di valutare e sarebbe vano esemplificare in modo esteso. Sembra invece utile evocare, in conclusione di questo lavoro, un problema che l’esame delle culture che si sono menzionate nelle pagine precedenti suggerisce e che un confronto con quella in cui viviamo conferma: il problema della apparente uniformità dei motivi simbolici, al di là delle circostanze storiche e sociali.
IL SIMBOLO FRA SPECIFICITÀ CULTURALE E GENERALITÀ Il linguista svizzero Ferdinand de Saussure definiva il simbolo riconoscendo, quale sua caratteristica peculiare, il fatto di associare due segni in base a una somiglianza, un rapporto “naturale”. L’idea che il simbolo possieda un legame “naturale” con ciò che simbolizza è stata, come si dirà nell’appendice storiografica di questo lavoro, messa in questione; se tale legame esiste, infatti, è aleatorio: può essere fatto valere oppure no, a seconda delle circostanze, a seconda dei sistemi culturali di riferimento. D’altra parte, il simbolo non ha neanche un senso puramente convenzionale, perché, se è vero che i suoi significati vengono riconosciuti da un gruppo sociale, questo comune riconoscimento non è frutto di un accordo, ma di una tradizione religiosa sentita come cogente. Il simbolo, insomma, non sembra essere naturale e neppure convenzionale. È, in qualche modo, arbitrario, in quanto non v’è nessuna ragione esterna che fa sì che una società scelga un oggetto piuttosto che un altro, né che a questo oggetto assegni un valore piuttosto che un altro. Esiste dunque un atto di volontà che opera la selezione; un atto di volontà, che non è cosciente e non è espresso da un uomo ma da un gruppo. Si direbbe allora che gli oggetti siano come dei contenitori, disponibili a essere riempiti di un senso particolare da ciascuna società secondo dinamiche sue proprie. Ne deriverebbe l’assoluta determinazione culturale di ciascun simbolo. Sia nel senso che, per studiarlo, si dovrebbe vedere quale è stato il meccanismo peculiare attraverso il quale una cultura lo ha costruito, sia, soprattutto, nel senso che, per capire il significato di un simbolo, occorre chiedersi che cosa significhi per i membri di un certo gruppo sociale. E il significato cui, attraverso tale indagine, si sarà giunti non potrà essere esteso al di fuori di quel gruppo. Da questo punto di vista, dizionari e manuali che spiegano i simboli in quanto tali non rivelerebbero che le idee di chi li ha scritti. Nonostante tutto ciò sia difficilmente discutibile, non si può tuttavia negare un dato di fatto, né attribuirlo al 235
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caso: i simboli, nelle varie culture, si somigliano, tanto come forma quanto come significato. È perfino banale, ma non per questo trascurabile, la constatazione che l’albero o la montagna o il cerchio hanno un valore simbolico un po’ dappertutto e che i significati ad essi attribuiti dai vari gruppi di umani non sono certo estranei l’uno all’altro. Come si può spiegare, allora, questa più che apparente omogeneità? Un primo dato di cui tenere conto riguarda chi produce i simboli: l’essere umano. Non è questo il luogo per porre il problema – di ordine filosofico – delle sue caratteristiche e della sua situazione. A titolo di esempio, si può riprendere quanto dicono due autori, rappresentanti di discipline diverse e con diverse impostazioni teoriche, cui si è già fatto riferimento nelle pagine precedenti: Luigi Pareyson e Angelo Brelich. L’uomo prova, secondo il primo, il senso della propria particolarità e finitudine: egli «non è tutto, tant’è vero che […] ha sempre a che fare con qualcosa che non dipende da lui e che anzi gli resiste». La natura, il passato, l’inconscio rappresentano l’alterità nei suoi confronti: «per sua natura l’uomo è trascendente se stesso: egli non solo non è tutto, ma nemmeno si può dire che coincida con se stesso». L’alterità suscita, scrive Pareyson, rispetto da un lato, sgomento dall’altro. Quali conseguenze di ordine storico-religioso si possono trarre dall’idea dell’uomo come essere finito, limitato, circondato da una realtà che gli è estranea? Per Angelo Brelich l’uomo deve gettare un ponte fra sé ed una realtà – esterna ma anche interiore – che gli sfugge: lo fa ordinandola, attribuendole una identità, definendone i tratti; costruendo, in altri termini, qualcosa con cui potersi mettere in rapporto. Come si è già cercato di fare nel primo capitolo di questo libro, si potrebbe riformulare quanto afferma lo studioso dicendo che la religione è un sistema simbolico, cioè una maniera di dare un volto e un ordine all’ignoto creando una mediazione fra questo e l’umanità. O, ancora, la funzione simbolica può essere vista come capacità dell’uomo di dare senso ad una realtà che, diversamente, non ne avrebbe. Così intesa, l’attitudine a simbolizzare risulta essere comune. Su questa base, poi, le singole culture elaborano i loro propri sistemi simbolici. Ma tale elaborazione avviene tenendo conto di altri elementi, altrettanto generali. Il primo è costituito dalla presenza di certe esperienze tipicamente umane, come la malattia, l’invecchiamento, la morte, il desiderio sessuale: esperienze che in realtà condividiamo con gli animali, ma con la differenza di averne una coscienza riflessa e di elaborarle culturalmente. Il secondo dato è costituito dal fatto che queste esperienze sono vissute da persone che hanno un comune
sostrato psicologico. Non è necessario presupporre, come fa Freud, l’universalità del complesso di Edipo, ma si può dire che certi meccanismi psicologici sembrano avere una valenza interculturale; Jung ha parlato di un inconscio collettivo comune e di archetipi che lo popolerebbero, ma la sua posizione è stata – ed è – assai discussa: anche in questo caso, tuttavia, se non si accoglie la sua teoria generale, rimane l’idea di una attitudine a rappresentare, cioè a produrre immagini, propria degli uomini. In terzo luogo, anche una considerazione eminentemente sociale del simbolo non esclude una somiglianza interculturale fra le produzioni simboliche. Come scrive Mary Douglas, se «le relazioni sociali dell’uomo forniscono un prototipo per le relazioni logiche fra le cose, allora, ogniqualvolta questo prototipo rientra in uno schema comune, deve essere possibile discernere qualcosa di comune anche nel sistema di simboli usato». Il quarto elemento da prendere in considerazione è il materiale elaborato per costruire i simboli, che è tratto da quelle realtà che, diceva Pareyson, sfuggono al controllo dell’uomo: primo di tutto, dalla natura. È evidente che dove non c’è il mare non si troveranno immagini marinare, ma è altrettanto chiaro che certe realtà naturali come l’acqua, gli alberi, i monti forniscono una materia comune. Vi sono poi alcuni oggetti che provocano reazioni emozionali tali da renderli più adatti a fare da mediatori con una realtà qualificata in termini religiosi: l’imponenza di una vetta, la grandiosità di una cascata, la potenza del sole, l’ampia distesa del mare stimolano nell’uomo sentimenti – come quello che Immanuel Kant ha chiamato del sublime – tali da indurre probabilmente alla formazione di simboli religiosi. Va forse ricuperato, in un senso meno stringente e meno forte, il carattere “naturale” del rimando simbolico, perché esistono linee di significato privilegiate, come quella del cielo che evoca un al di là, un superamento del mondo umano. La “naturalità” del rinvio sta anche nel fatto che alcuni oggetti provocano più direttamente certe risposte emozionali. Da tutto questo risulta come il simbolo possa ben presentarsi con tratti relativamente unitari, accanto, ovviamente, a tutte le difformità culturali che lo caratterizzano. Manca, certo, il passo intermedio: lo studio di come, effettivamente, gli elementi comuni di cui si è detto influiscano sulla costruzione dei simboli e della misura in cui lo fanno, cioè del ruolo rispettivo che ricoprono le costanti e le variabili: l’argomento rimane aperto e oggetti di ipotesi, sempre basate, tuttavia, su dati a loro volta discussi. Resta il fatto che i simboli si somigliano e che la loro somiglianza non è priva di un qualche fondamento concreto. D’altra parte, la fisionomia particolare che i simboli assumono all’interno delle singole culture resta il tratto
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maggiormente interessante sul piano storico. Lo studio delle diverse maniere di simbolizzare consente infatti una conoscenza più profonda dell’uomo, dei suoi rapporti con il suo ambiente naturale e sociale, dell’originalità delle sue produzioni. Questo guadagno, di ordine storico, non esclude però che si pongano questioni di ordine filosofico ed ermeneutico. Così, per citare un autore cui si è già fatto più volte riferimento, Luigi Pareyson ritiene che, per l’esperienza religiosa, il simbolo sia luogo di rivelazione della verità. La quale è «sovrastorica e intemporale, ma questa sua astoricità e intemporalità essa la fa valere soltanto all’interno della formulazione storica e temporale che via via assume». L’interpretazione è vista, qui, come un modo per accostarsi alla verità senza per questo esaurirla e renderla obiettiva. E la molteplicità e la varietà delle interpretazioni non costituiscono un limite, ma una ricchezza. Da questo punto di vista,
studiare i simboli non significa soltanto approfondire la conoscenza dell’uomo e delle sue culture, ma anche di quella realtà con la quale i simboli farebbero da mediatori. Obiettivo della ricerca, quale la intende, per esempio, uno studioso come Mircea Eliade, è proprio questo: studiare i modi in cui una realtà “trascendente” (che Eliade chiama sacro) si rivelerebbe tramite strutture e simboli. Cogliere questi modi presuppone tuttavia, in Pareyson come in Eliade, come negli altri autori che condividono presupposti filosofici analoghi ai loro, una forma di “precomprensione”, cioè disposizione all’ascolto, fiducia nella capacità delle cose di rivelare una realtà considerata come trascendente. Ma qui risulta chiaro come il discorso sul simbolo abbandoni il terreno della storia per riguardare ambiti di analisi che la storia non può che lasciare inesplorati e per i quali occorre interrogare altre discipline, quali la filosofia e la teologia.
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TEORIE DEL SIMBOLO Il simbolo come linguaggio dell’essere Nel xviii secolo, Georg Christoph Herder e Johann Georg Hamann considerano il simbolo come luogo nel quale Dio si rivela. Johann Wolfgang Goethe parla del simbolo come «rivelazione dell’imperscrutabile» (Massime e riflessioni): esso manifesta una idea tramite immagini, che tuttavia non esauriscono il loro oggetto, ma ne conservano la natura attiva, inavvicinabile, indicibile. Per Friedrich Schiller la parola poetica è sempre simbolica e si serve delle cose della natura per esprimere le verità interiori dell’uomo. In continuità con questa tradizione, che si impone negli ultimi anni del ’700, i romantici pongono al centro della loro visione del mondo il concetto di simbolo: Friedrich Wilhelm Schelling vi riconosce l’unione di generale e particolare; Novalis lo rende protagonista della sua poetica; da Karl Philip Moritz a Goethe a Schelling, si afferma l’idea del suo valore “tautegorico”: a differenza dell’allegoria, il simbolo non rimanderebbe ad altri oggetti che lo spieghino, ma rinvierebbe a se stesso e, come tale, sarebbe portatore di un messaggio irriducibile alla ragione. Il primo movimento intellettuale moderno che ha rivolto sistematicamente il suo interesse al tema del simbolo religioso è stato quello romantico di Heidelberg, il cui massimo rappresentante è Georg Friedrich Creuzer. Per Creuzer l’uomo, in un momento primordiale della sua storia, utilizzando l’intuizione e non ancora le facoltà razionali, provava una sensazione di unità con la natura. Manifestava questa sensazione tramite i simboli, che lo portavano a dare un volto e caratteri antropomorfi alle forze naturali. In un secondo momento, l’immediato e spontaneo rapporto con la natura sarebbe venuto meno e gli uomini avrebbero elaborato una forma diversa di simbolismo, che derivava dal desiderio di esprimere l’infinito divino tramite mezzi umani. Responsabili di questa seconda fase sarebbero stati i sacerdoti. Nell’analisi storico-religiosa di Creuzer, la dimensione simbolica si identifica quindi con quella delle origini e con la verità delle cose: il simbo-
lo è collocato, nella sua pienezza e nel suo significato più autentico, in un momento primordiale, quando l’esperienza del mondo era immediata e intatta. Rispetto a quel momento, la storia rappresenterebbe una decadenza, che ha indotto a elaborare un simbolismo artificiale e meno puro. Al pensiero di Creuzer va collegato quello di Johann Jakob Bachofen, che ha studiato, in particolare, il simbolismo funerario dei romani e, nella sua analisi, ha sottolineato l’autonomia e l’autosufficienza del simbolo. Rispetto a questa generale rivalutazione del simbolico, è Georg Wilhelm Friedrich Hegel ad andare in controtendenza: in polemica diretta con Creuzer, il filosofo definisce simboliche l’arte indiana e quella egiziana, nelle quali la rappresentazione non è adeguata al concetto, né l’espressione al significato e l’una rimanda all’altro tramite un procedimento allegorico. Da un lato, dunque, Hegel rifiuta di riconoscere carattere tautegorico al simbolo, identificandolo, anzi, con l’allegoria; dall’altro, non lo descrive come forma di conoscenza in sé conchiusa, ma soltanto come fase dell’arte destinata a essere superata da una visione classica in cui forma e concetto sono tutt’uno. Nel dibattito, tuttavia, la posizione che avrà maggiori ripercussioni nella cultura – anche letteraria – del tempo sarà quella di Goethe e Schelling. Essa penetra in Inghilterra con Samuel Taylor Coleridge e Thomas Carlyle e, tramite quest’ultimo, influenza John Ruskin. In Francia, Charles Baudelaire descrive l’universo come insieme di rapporti analogici e di corrispondenze: «la Natura è un tempio dove pilastri vivi / lasciano talvolta uscire parole confuse; / l’uomo vi passa attraverso foreste di simboli / che lo osservano con sguardi famigliari» (“Corrispondenze”, I fiori del male), Stéphane Mallarmé ritiene che il linguaggio poetico rinvii al mistero dell’esistenza e debba essere evocativo, suggestivo; anche per Paul Verlaine, che rifiuta di essere definito simbolista, sfumature e imprecisioni del linguaggio possono rimandare al mistero; ancora, Arthur Rimbaud usa simboli (per esempio il fiume e la barca, ad indicare la madre e il bambino) cui riconosce una pluralità di significati; nasce infine, negli ultimi anni del secolo,
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un movimento poetico che prende il nome di “Simbolismo”. Fuori dalla Francia, Stefan George, Rilke, Hofmannsthal sono legati al movimento simbolista, che si sviluppa poi in Belgio, in Brasile, in Russia. Contemporaneamente, una corrente simbolista nasce nelle arti figurative. Collegata al senso del meraviglioso della pittura romantica tedesca e al misticismo dei Nazareni, essa si nutre anche della produzione letteraria dell’epoca. Gli esponenti del gruppo dei Preraffaelliti, fondato in Inghilterra da Dante Gabriele Rossetti e John Everett Millais, ispirato da Ruskin, ne sono i primi rappresentanti. In Francia Gustave Moreau dipinge creature mitiche e figure orientaleggianti, avvolgendole talvolta di luci abbaglianti e vivificandole con colori fosforescenti, impreziosendole di dorature, trasfigurandone le apparenze per trasformarle nell’epifania sensibile di verità soprasensibili. Odilon Redon crea fiori pericolosi o animali spaventosi, ma anche pacifici, che diventano simbolo dei suoi sentimenti ambivalenti, specialmente di angoscia, dinanzi alla natura. Puvis de Chavannes, in grandi quadri allegorici, sottrae alla carne e alla storia le sue figure, dissanguandole e tipizzandole, trasferendole in un empireo fatto di luoghi, di immagini, di gesti esemplari. Anche il simbolismo pittorico si diffonde in tutta Europa: in Belgio, nei Paesi nordici e in quelli dell’Est, in Germania, in Italia (con Giovanni Segantini, ma anche Gaetano Previati e Giuseppe Pellizza da Volpedo). Il simbolo nell’uomo Con Mircea Eliade, si può dire che il ventesimo secolo abbia visto la «moda del simbolismo». Si tratta di un fenomeno complesso, tra le cui cause sono certamente da annoverare, forse al primo posto, le scoperte della psicologia. Sigmund Freud ha valorizzato la dimensione inconscia dell’attività umana e la ha resa oggetto di analisi. Come studiare, tuttavia, qualcosa che, per definizione, si sottrae alla coscienza e, dunque, al controllo razionale? In altri termini: in quale modo l’inconscio si manifesta? I contenuti dell’inconscio sono per Freud, in gran parte, desideri che mirano a realizzarsi. Ma poiché si tratta, in molti casi, di desideri proibiti, essi vengono respinti, “rimossi”. Trovano tuttavia modo, ugualmente, di esprimersi, in maniera indiretta, modificata, deformata, nel sogno o nei sintomi, ma anche nelle attività culturali dell’uomo. La loro espressione è detta simbolica e tutti i meccanismi che modificano un contenuto nascosto (latente) per renderlo manifesto (spostamento, condensazione, sovradeterminazione, figurazione) sono considerati da Freud simbolici. Ne deriva una forte valorizzazione del simbolo, che diventa sostanzialmente onnipresente nei processi psicologici umani. Accanto a questo senso – più largo – il vocabolo simbolo ha tutta-
via, nell’opera freudiana, anche un senso più ristretto. Esso designa infatti quelle rappresentazioni oniriche cui il paziente non sa associare nulla, ma che, ciononostante, sono comprensibili perché tipiche e usuali, presenti nel linguaggio e nei costumi; rappresentazioni la cui interpretazione non varia da caso a caso, ma ha tratti costanti. Insomma, Freud riconosce l’esistenza di simboli la cui formazione non dipende dai meccanismi psichici individuali; aggiunge che si trovano nei miti, nel folklore, nelle religioni e che sono invariabili anche se appartengono a culture lontane. Quanto alle loro origini, non dice nulla: si limita ad ipotizzare che vadano cercate nell’eredità filogenetica. L’opera di Freud ha esercitato la sua influenza anche al di fuori della psicologia. Le correnti artistiche surrealiste, in particolare, hanno cercato di rappresentare i mondi onirici evocati dalla psicoanalisi. André Breton si fa promotore di una poetica che, libera da qualunque condizionamento, esprima la genuinità dei contenuti inconsci; André Masson, Joan Miró, Max Ernst applicano le sue idee rinunciando alle tecniche pittoriche tradizionali. Ne risultano opere ai cui contenuti, considerati come l’espressione di dimensioni non razionali e non coscienti della vita umana, gli autori attribuiscono un valore simbolico. Nello stesso tempo, tuttavia, anche la figurazione è utilizzata, con un riferimento diretto all’arte di Giorgio de Chirico, di Henri Rousseau, dei Simbolisti. Salvador Dalì dipinge i suoi quadri in una condizione psicologica allucinata, favorevole per lui alla spontaneità della creazione. Nel cosmo cui dà vita, oggetti quotidiani vengono talvolta trasfigurati; è il caso degli orologi molli, che nascono dalla negazione di ciò che l’orologio rappresenta: la misura del tempo. René Magritte dipinge immagini che, poste fra loro in rapporti inattesi e inserite all’interno di quadri straordinari, diventano evocazione di universi altri rispetto al nostro. Le figure di Paul Delvaux sono, singolarmente prese, fedeli al vero, ma le loro espressioni, le loro associazioni, le loro atmosfere, i loro improvvisi scarti dalla realtà provocano un effetto di estraniazione e di spaesamento. Yves Tanguy ricostruisce mondi desertici e sottomarini; Max Ernst rappresenta foreste mineralizzate e mari immobili ed esprime il suo anelito di libertà raffigurando quanto si presta – simbolicamente – meglio allo scopo: gli uccelli. In generale, i surrealisti creano universi simbolici senza utilizzare i simboli tradizionali, ma scoprendone di nuovi, che traggono dalle loro esperienze psicologiche. I simboli religiosi hanno tuttavia un ruolo – al di fuori, ovviamente, della pittura sacra propriamente detta – in altre correnti artistiche: per fare soltanto qualche esempio, si possono richiamare le opere di Constantin Brancuxi e quelle di Marc Chagall. Il primo riprende i simboli del folklore del suo paese riandando, per loro 239
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tramite e al di là di essi, ad un universo arcaico, permeato di potenze sacre. È il caso della Colonna senza fine, collegata al pilastro cosmico che sostiene la volta celeste; oppure della Maiastra, l’“uccello meraviglioso” della tradizione popolare romena, che simboleggia il volo magico. Non si tratta, per lui, di semplici pretesti formali o tematici, ma di una riproposizione, di una trasfigurazione di qualcosa di eterno e di assoluto: la libertà, la tensione verso il cielo, la connessione fra i livelli del cosmo. Chagall, da parte sua, associa persone, animali, cose che trae dalle tradizioni popolari e religiose della Russia contadina e dell’ebraismo, per ricomporle in un’atmosfera in cui realtà e immaginario si riconciliano. All’interno della psicologia, altre scuole pongono al centro della propria considerazione i simboli, richiamandosi all’insegnamento freudiano da un lato e distaccandosene dall’altro. Se Freud aveva accennato ad un «linguaggio fondamentale» dei simboli, Erich Fromm parla di un «linguaggio dimenticato», che va oltre le pulsioni e si esprime attraverso i miti dell’umanità. Ma è stato soprattutto Carl Gustav Jung a sviluppare l’idea del simbolo come elemento transculturale. Jung pone, accanto all’inconscio personale, ricettacolo di quanto è stato rimosso dal soggetto, un inconscio collettivo, comune a tutti. Suoi contenuti sono gli archetipi, modelli, forme, strutture delle produzioni mentali dell’uomo. Si distinguono due tipi di archetipi: gli archetipi in sé e quelli attualizzati. I primi non sono rappresentabili, perché costituiscono la condizione delle rappresentazioni; non hanno un contenuto, perché sono pura forma; si può dire che siano rappresentazioni in potenza. I secondi, detti anche immagini archetipiche, hanno invece un contenuto rappresentativo. Li si può chiamare, secondo lo studioso zurighese, simboli. Il simbolo è dunque una manifestazione dell’archetipo, prodotta dalla parte più profonda, collettiva, della mente umana. Mentre il segno, per lo studioso, rinvia a cose note o conoscibili, il simbolo fa riferimento all’ignoto. Quale è la sua funzione? La vita dell’uomo non è statica, ma è un cammino progressivo verso la realizzazione di sé. Ora, l’essere umano non può realizzarsi che ricuperando tutto quanto gli manca, integrando nella sua esperienza le realtà che gli sono estranee, superando l’unilateralità dei suoi comportamenti e delle sue disposizioni mentali attraverso una progressiva apertura all’altro. Nel suo percorso incontrerà dunque continui ostacoli – dati dall’alterità che gli resiste – che verranno, via via, oltrepassati per accedere a livelli di integrazione sempre maggiori. Egli imparerà, per esempio, a conciliarsi con il principio femminile – se è maschio – o con quello maschile – se è donna – che è in lui; a riconoscere la dimensione inconscia della sua esistenza, ad accordare l’effervescenza della giovinezza con la saggezza della
maturità. Insomma, le tappe del suo itinerario saranno costituite da progressive unioni di realtà opposte. È qui che interviene il simbolo: il simbolo è fattore di unione; ha così la funzione di manifestare, di far coincidere gli opposti che contrassegnano l’esistenza umana e che il pensiero razionale non potrebbe che conservare nella loro distinzione. Ha dunque uno scopo dinamico – quello di convogliare le energie mentali necessarie – e uno rappresentativo. Il fine ultimo del percorso umano, che Jung chiama processo di individuazione, è il conseguimento dell’unità del Sé, nel quale sono ricapitolati e trovano composizione tutti gli opposti, dalla coppia coscienza-inconscio a quella mondo interiore-mondo esterno. L’oro che si ottiene al termine delle operazioni alchemiche, le immagini di Dio, i mapdala sono per Jung simboli del Sé. Jung ha avuto modo di collaborare con Károly Kerényi, che ha introdotto a sua volta, nella storia delle religioni, un concetto di archetipo e una nozione di simbolo prossimi a quelli junghiani, ma impiegati allo scopo di spiegare le dinamiche secondo le quali una cultura si struttura, piuttosto che il funzionamento della psiche. In termini del tutto diversi si sviluppa un’altra corrente psicologica che ha valorizzato la nozione di simbolo: quella di Jacques Lacan. Ciò che interessa allo studioso non è il simbolo in sé, ma piuttosto il “simbolico”, cioè il sistema dei simboli. Questi non sono importanti per i contenuti ai quali rinviano, ma per la rete di rapporti che intrattengono fra di loro. L’inconscio è il luogo di questo sistema. Esso ha la stessa struttura del linguaggio, nel quale ogni termine rinvia ad un altro e ha senso soltanto in relazione all’insieme. Piaget, da parte sua, ha chiarito i meccanismi che presiedono alla genesi del pensiero simbolico nel bambino. Il simbolo fra sociologia e antropologia Oltre alla psicologia, anche la sociologia, all’inizio del secolo scorso, ha dato indicazioni preziose per lo studio dei simboli. Secondo Émile Durkheim gli uomini, per poter convivere, debbono rinunciare a una parte della propria libertà; non accetterebbero tuttavia di farlo in favore di uno di loro: creano dunque una organizzazione collettiva, superiore ai singoli, cui demandare l’autorità e la forza di far rispettare l’ordine. Nascono così la tribù, il clan, la polis, lo stato, che diventano il luogo in cui si concentra il potere del quale le persone si sono private a favore del corpo sociale. Di questo corpo sociale il sacro non è che l’espressione simbolica: il potere del sacro è quello della società; atti ed oggetti religiosi sono simboli, la cui funzione è di mediare i rapporti degli uomini con la realtà ad essi sopraordinata. All’epoca di Durkheim, uno dei concetti-chiave della storia delle religioni era quello di “totemismo”.
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Il totemismo è una forma di rispetto che, in certe culture, è riconosciuta ad un animale, un vegetale o un oggetto, chiamato totem, che un clan considera come suo antenato. Per molti studiosi, compreso il sociologo francese, si trattava di una forma universale e primitiva di religione. Ora, Durkheim ritiene che il totem non sia che il simbolo del gruppo sociale, della sua forza, delle sue prerogative: questo spiega il divieto di ucciderlo e di divorarlo – benché sia spesso commestibile – e giustifica la considerazione in cui è tenuto da parte dei membri del clan. Le tesi durkheimiane, la cui formulazione risente, evidentemente, del momento storico in cui sono state espresse con tutti i limiti che ciò comporta, mettono comunque l’accento su un carattere fondamentale del simbolo: il suo valore sociale, o, in altri termini, la sua capacità di aggregare intorno a sé gli uomini. Quel valore collettivo che si ritrovava nel symbolon greco viene qui riconosciuto in tutta la sua importanza: i simboli, come i miti, si prestano a costituire il punto di riferimento, il momento di coesione di una collettività che in essi si riconosce. Si pensi alle bandiere e alla ritualità che le coinvolge; oppure agli animali che rappresentano le nazioni (il gallo dei francesi, il leone degli inglesi o l’orso dei russi); non importa che siano o meno legati ai totem, né importa che il totemismo come teoria generale sia ormai obsoleto; importa invece che essi abbiano svolto e forse svolgano ancora la funzione degli oggetti totemici, quali Durkheim li interpretava. Benché gli esempi che si sono portati facciano parte del mondo “profano”, anche ai simboli religiosi va riconosciuto questo potere aggregante: essi sono, come nell’antica Grecia, segni di riconoscimento, perché identificano un individuo quale membro di un gruppo e nello stesso tempo costituiscono oggetti in cui può riconoscersi chi condivide certe idee o una certa fede. Le idee di Durkheim sono state sviluppate dai suoi discepoli: fra questi, Marcel Mauss, in particolare, ha introdotto il tema della società come sistema simbolico. Tra i caratteri del simbolo che il pensiero sociologico ha contribuito a sviluppare e a studiare, va ancora menzionato il valore “performativo” – teorizzato dalla linguistica – secondo il quale l’atto simbolico ha una efficacia reale. Il simbolo è stato sempre centrale negli studi antropologici: dagli albori della disciplina, passando attraverso la teoria di Bronislaw Malinowski – che distingue tra una funzione strumentale e una funzione simbolica dei mezzi che usa l’uomo – fino ad oggi, con i dibattiti intorno alla nozione di sistema simbolico. Va fatto cenno almeno ad un autore che è diventato un classico nella storia degli studi e la cui opera ha destato molte discussioni: Lucien Lévy-Bruhl. Lévy-Bruhl ha identificato, negli uomini detti ai suoi tempi “primitivi”, una
mentalità particolare, che ha chiamato “prelogica”, per indicarne il carattere di indipendenza rispetto all’esercizio di un pensiero razionale che non si è ancora imposto. Questa mentalità sarebbe fondata sul principio della partecipazione, in virtù del quale i confini che separano l’uomo dalla natura non hanno rilievo e l’una e l’altro sono collegati da un sistema di corrispondenze e di richiami reciproci. L’orma non è cosa distinta dal piede che l’ha lasciata e il piede non si differenzia dall’uomo di cui è parte: si può dunque influire su di lui agendo su di essa; la parola è considerata intercambiabile con l’oggetto che esprime. Non si tratta, tuttavia, di una identità manifesta: è quello che lo studioso vuol dire aggiungendo al termine “partecipazione” l’aggettivo “mistica”. Si potrebbe anche dire che tutto, per il primitivo, è simbolico, in quanto rimanda ad altro, dal momento che sono ancora sconosciute le distinzioni fra le cose che la ragione stabilisce. Queste tesi sono state parzialmente modificate dall’autore che, alla fine della vita, ha sottolineato il fatto che la mentalità prelogica non ha una collocazione storica, ma è piuttosto una componente costante del pensiero umano, accanto a quella razionale. Le prospettive “simboliste” hanno avuto, negli ultimi anni, particolare sviluppo in antropologia. Non si può dire che i loro rappresentanti facciano parte di una scuola unitaria – al punto che alcuni di essi, come Leach e Geertz, hanno punti di vista addirittura opposti – né che condividano una serie di asserti comuni facilmente identificabili: basti pensare che, se certuni ritengono che l’attività di simbolizzazione religiosa sia analoga a quella linguistica, altri la avvicinano a quella estetica, altri ancora a quella caratteristica dell’inconscio. In generale, gli antropologi che possono essere considerati come “simbolisti” si collegano, in maniera più o meno forte, all’idea di Durkheim secondo la quale la religione è una espressione simbolica della vita sociale. Se ne possono citare alcuni dei più conosciuti, a titolo di esempio. Edward E. Evans-Pritchard, nei suoi studi sull’Africa, spiega certe credenze e pratiche religiose attraverso meccanismi di equivalenza simbolica, che giustificano asserzioni come quella dei Nuer secondo la quale «i gemelli sono uccelli». Edmund R. Leach considera il rituale come un atto simbolico, che esprime la struttura sociale; sono per lui di ordine simbolico quelle azioni che non sono spiegabili sulla base della loro funzionalità e razionalità. In generale, molte ricerche che utilizzano la nozione di simbolo insistono sul valore del rito inteso come linguaggio. Una particolare attenzione va rivolta agli studi di Victor Turner, studioso anch’egli dei riti in quanto atti simbolici: Turner oppone il simbolo al segno riconoscendo, nel primo, un rapporto di somiglianza tra significante e significato e la mancanza di un significato fisso. In ogni simbolo 241
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esistono per lui, accanto ad un significato manifesto, un senso latente (di cui il soggetto è solo in parte inconsapevole) e un senso nascosto (del quale è del tutto inconsapevole). I “simboli dominanti” di un sistema culturale avrebbero, quali caratteristiche, la polivocità e la capacità di unificare segni diversi. Essi non possiedono, dunque, un significato unitario, ma presentano reti complesse di sensi, da analizzare secondo tre livelli: il primo è quello del significato esegetico, attribuito al rito da chi lo pratica; il secondo è quello del significato operativo, riguardante il modo in cui il simbolo è utilizzato; il terzo è il significato posizionale e concerne la posizione del simbolo all’interno di un sistema simbolico più vasto. Mary Douglas ritiene che le credenze religiose siano «un insieme coerente di significati, in base ai quali i fedeli comprendono e spiegano l’ordine del mondo e il loro rapporto con esso», per «rendere contemporaneamente comprensibile e vivibile il mondo all’interno di un certo orientamento culturale» (Ciattini). Va infine citato Clifford Geertz, che, a differenza degli autori precedenti, si distacca dal presupposto durkheimiano menzionato: per Geertz la cultura è «una struttura di significati incarnati in simboli» e la religione è «un sistema di simboli»; essa stabilisce «stati d’animo e motivazioni negli uomini per mezzo della formulazione di concetti di un ordine generale dell’esistenza e del rivestimento di questi concetti con un’aura di concretezza tale che gli stati d’animo e le motivazioni sembrano assolutamente realistici»; per simbolo, poi, Geertz intende ogni oggetto o attività che fa da veicolo per un concetto. Le posizioni simboliste sono state oggetto di dibattito e di critica. Fra le difficoltà che alcuni studiosi hanno creduto di riscontrarvi, almeno una va citata: è stato rilevato che chi vive un rituale non può considerarlo un simbolo, in quanto crede nella sua realtà ed efficacia; in altri termini, perché si possa parlare di simbolo sarebbe necessario supporre un certo grado di distacco nei confronti dell’atto religioso che viene compiuto. Ma questo distacco non è proprio degli attori del rito, che considerano veritiere le loro rappresentazioni; si potrebbe dire, in altri termini, che, per i Nuer, gli uccelli non sono simbolo dei gemelli, ma sono, in qualche modo, i gemelli stessi. Simbolo e linguaggio La realtà, secondo Ernst Cassirer, non è un insieme di fatti permanenti, di sostanze che esistono, nella loro oggettività, indipendentemente da chi ne fa esperienza. E il sapere scientifico, quando la sottopone ad analisi, non dà luogo a risultati che riflettono le strutture del mondo. Il mondo, infatti, non è dato, ma è costruito dall’attività conoscitiva dell’uomo, che gli dà forma, ne organizza la molteplicità. Ora, la conoscenza avviene
attraverso il simbolo, che è, dunque, allo stesso tempo uno strumento per cogliere la realtà e per costruirla. A seconda dei modi di tale costruzione, si avranno diversi tipi di realtà. Conoscenza tecnica e scientifica, linguaggio, pensiero mitico e religioso, arte sono altrettante modalità di approccio al reale e costituiscono altrettanti sistemi simbolici. L’uomo è, quindi, animale simbolico. Gli studi di Cassirer hanno esercitato la loro influenza anche sulle discipline storico-artistiche: essi sono stati infatti determinanti per lo sviluppo delle ricerche iconologiche – inaugurate da Aby Warburg e portate avanti soprattutto da Erwin Panofsky – il cui scopo è di porre in risalto i significati simbolici, espliciti o impliciti, di cui le opere d’arte sono portatrici. Sebbene Cassirer ponga il linguaggio tra le varie forme di conoscenza-costruzione del reale, va notato che questo sembra condizionarle tutte, poiché il simbolo, che è per Cassirer preordinato ad esse, è un fatto linguistico. Tale dato è stato più volte sottolineato dalla filosofia del linguaggio. Ferdinand de Saussure ha distinto segno e simbolo. Il segno è l’unione di un significante (che è la componente fisica: il suono della parola, per esempio) e un significato (quello che la parola vuol dire); quest’unione è convenzionale, immotivata, arbitraria da un lato; dall’altro è necessaria, perché ogni volta significante e significato si trovano legati a formare lo stesso segno. Il simbolo invece nasce da una operazione compiuta su segni. Ad un segno (per esempio, la montagna) viene collegato un altro segno (l’ascensione dell’anima verso il cielo). L’associazione non è del tutto arbitraria, perché esiste una somiglianza, un rapporto in qualche modo “naturale” fra i due (l’altezza del monte evoca l’elevazione); e non è necessaria, perché quando ci imbattiamo in una montagna non necessariamente essa ci fa venire in mente l’anima che sale. Questa distinzione è stata fatta oggetto di critica: da un lato, non è certo che i segni siano tutti arbitrari; dall’altro, non è scontato che i simboli abbiano un legame “naturale” con il simboleggiato, dal momento che, nella loro costruzione, sono le scelte culturali ad essere determinanti. Charles Sanders Peirce considera il simbolo come una classe particolare all’interno di quella, più generale, dei segni. Tra i segni, distingue tre categorie: la prima è quella dell’icona, che si basa sulla somiglianza fra significante e significato (è «un segno che si riferisce all’oggetto che denota meramente in virtù delle sue proprie caratteristiche»); la seconda è l’indice, che si basa su una contiguità fattuale o causalità fisica (è «un segno che si riferisce all’oggetto che denota in virtù del fatto che è realmente correlato con esso»); la terza è il simbolo, in cui la connessione è oggetto di una regola («è un segno che si riferisce all’oggetto che esso denota in virtù di una legge, di solito un’associazione di idee»: per esempio, un segnale di sosta vietata). Il simbolo assu-
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me dunque un carattere esclusivamente convenzionale. È questo, d’altra parte, il senso che si attribuisce ai simboli in matematica e in logica: quello di segni vuoti, privi di contenuto rappresentativo. Ma va notato che l’accezione di simbolo di Peirce, come quelle dei logici e dei matematici, si allontana da quella presente nel lessico e comporta l’esclusione dei cosiddetti simboli religiosi, ai quali i credenti attribuiscono un contenuto non arbitrario e che rientrano in un’altra categoria di segni. Se invece il simbolo nasce, come vuole de Saussure, da una associazione di due segni, in che cosa consiste il fondamento di questa associazione, una volta escluso che esso risieda in un legame naturale? Risponde Umberto Eco: in una decisione pragmatica, per cui si prende un’espressione che ha già un suo contenuto codificato e le si assegnano «nuove porzioni di contenuto, quanto più possibile indeterminate e decise dal destinatario». Il simbolo appare dunque come frutto di una decisione e come un richiamo a qualcosa di impreciso. Dalla considerazione del simbolo come evento linguistico possono scaturire altre conseguenze, se si mette l’accento sul significante. Claude Lévi-Strauss, rifacendosi agli studi di linguistica, sottolinea il fatto che il significante, preso singolarmente, non ha un legame interno con il significato; si lega ad un significato soltanto se integrato in un sistema, che, a sua volta, comporta opposizioni differenziali. È dunque il sistema a essere primario rispetto agli elementi che lo compongono. E ogni cultura è vista come un insieme di sistemi simbolici. La stessa primarietà del significante sul significato e della relazione sull’oggetto si trova in Lacan, che a Lévi-Strauss è legato. Per lui, come si è detto, l’inconscio ha una struttura linguistica. In entrambi i casi, nessuna relazione “naturale” fra significante e significato è presupposta; anzi, gli aspetti contenutistici del simbolo passano in secondo ordine rispetto ai caratteri formali e ai nessi dei simboli fra loro. Il simbolo al di là del linguaggio Secondo la tradizione romantica, invece, il simbolo, inteso come luogo in cui si rivela la realtà, non può essere rinchiuso nelle sue determinazioni linguistiche: la verità delle cose, cui si allude attraverso la poesia o le altre arti, è infatti considerata indescrivibile tramite gli strumenti della ragione ed è collocata al di là delle capacità espressive dell’uomo. Negli studi sul simbolo del Novecento, questa idea è stata sostenuta, tra le altre, da una corrente interpretativa che si può fare risalire, in parte, alle opere di Rudolf Otto. Otto considera centrale, nell’esperienza religiosa, il “sacro”, che è, per lui, totalmente altro, cioè irriducibile alle categorie mentali dell’uomo; è qualcosa che supera sempre le nostre capacità di comprensione e
che, in questo modo, rende manifesta la nostra natura di creature, di esseri limitati, finiti, inadeguati. Esso si dà, all’interno dell’esperienza umana, nelle forme del mistero tremendo, del mistero affascinante, dell’imponenza augusta e degna di lode. Ma quello che importa sottolineare, qui, è che il sacro si esprime attraverso quelli che Otto chiama “ideogrammi”, figure inadatte ad esaurirne le manifestazioni, attraverso le quali, tuttavia, esso può trasparire. Un altro nome degli ideogrammi è, appunto, simboli. Otto ha influenzato una corrente di ricerca sulle religioni che ne ha sviluppato, unendole ad altri riferimenti culturali, le intuizioni. Si tratta della fenomenologia religiosa, che ha, quale massimo esponente, Gerardus Van der Leeuw. Anche Van der Leeuw ritiene che sia primaria l’esperienza e la interpreta come rincontro fra un uomo che tende verso il sacro e un sacro che gli si rivela. Sicché per lui, come per Otto, esiste un duplice movimento, che trova composizione nei simboli: quello di una umanità che va alla ricerca del trascendente e quello di un trascendente che le si offre. Contemporaneamente, René Guénon sviluppa una idea di tradizione primordiale metafisica – della quale i simboli costituirebbero la modalità di espressione – che esercita la sua influenza su diversi studiosi, tra i quali si può citare l’indiano Ananda K. Coomaraswamy. Dalla lettura di questi autori prende spunto Mircea Eliade, che riprende, negli anni ’30, la nozione tradizionalista di simbolo per poi svilupparla all’interno di un quadro concettuale differente, elaborato anche sulla base della prospettiva di Van der Leeuw. Eliade insiste sull’inarrivabilità del sacro e, d’altra parte, sulla povertà dei mezzi umani per coglierlo. Come conciliare, allora, un sacro assolutamente altro con una umanità del tutto inadeguata a conoscerlo? Ancora una volta, la risposta sta, per lo studioso, nel simbolo, che possiede un lato oscuro e uno percettibile; attraverso il simbolo, la realtà trascendente si offre all’uomo senza esaurire il proprio mistero, conservando la propria irriducibilità. Eliade ha introdotto, per indicare il simbolo, il termine “ierofania”, che significa manifestazione del sacro. Il sacro si manifesta in un oggetto profano e realizza, così, una coincidenza di opposti. L’uomo non può che guardare al di là della sua situazione di finitudine e aspirare a superarla: perciò è naturalmente produttore di simboli. Ma poiché ciò che gli manca è, in fondo, la pienezza del sacro, i suoi simboli non possono che essere religiosi: ne deriva l’idea di Eliade dell’uomo come Homo religiosus. Di fronte ai simboli, l’atteggiamento dello studioso consiste nell’interpretare e mettere così in luce le “profondità” che essi rivelano. Ma l’interpretazione non può avere fine, perché, in caso contrario, esaurirebbe i significati che il simbolo possiede e arriverebbe a una descrizione completa dell’oggetto ultimo cui esso 243
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rinvia, il sacro. Definendo la propria posizione “ermeneutica”, Eliade si collega esplicitamente ad una tradizione di studio primaria della filosofia contemporanea che ha posto, talvolta, il simbolo al centro dell’indagine. Fra i suoi esponenti, vanno citati – per il loro interesse nei confronti delle tematiche legate al simbolo – alme-
no Paul Ricœur in Francia e Luigi Pareyson in Italia. Va infine ricordato che tutta una parte della letteratura critica contemporanea intorno ai simboli si è interrogata sul ruolo e le caratteristiche dell’immaginazione simbolica (si pensi alle opere di Gaston Bachelard, Henry Corbin, Gilbert Durand).
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INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE
INTRODUZIONE, CONCLUSIONE E APPENDICE STORIOGRAFICA La letteratura critica sul simbolo in genere – e sugli ambiti particolari in cui il concetto di simbolo trova applicazione – è amplissima. M. Lurker la ha raccolta in Bibliographie zur Symbolkunde, Baden-Baden 1964 e nelle bibliografie, a cadenza periodica, dal titolo Bibliographie zur Symbolik, Ikonographie und Mythologie (1968-1980). Un primo orientamento si può comunque avere consultando alcune voci enciclopediche dedicate all’argomento, nelle quali si trovano talvolta indicazioni bibliografiche puntuali. Se ne segnalerà una selezione, che privilegerà i lavori di cui si è tenuto soprattutto conto per la redazione di questo volume: “Symbolism”, in J. Hastings (a cura di), Encyclopaedia of Religion and Ethics, Edimbourgh 1908-1926, vol. 12, 134-151; A. Michel, “Symboles”, in Dictionnaire de théologie catholique, vol. 14, 2, Paris 1941, 2926-2940; “Simboli e attributi”, in Enciclopedia dell’arte antica, classica e orientale, Roma 19581966, vol. 7, 298-313; “Simbolo e allegoria”, in Enciclopedia universale dell’arte, Venezia-Roma 1958-1967, vol. 12, 491-540; A.M. Di Nola, “Simbolo”, in Enciclopedia delle religioni, Firenze 1973, vol. 5, 1064-1086; U. Eco, “Simbolo”, in Enciclopedia Einaudi, vol. 12, Torino 1981, 877-915; É. Zolla, “Simbologia”, in Enciclopedia del Novecento, Roma 1982, vol. 6, 539-550; J.W. Heisig, “Symbolism”, in M. Eliade (a cura di), Enciclopedia delle Religioni, Milano 1997, vol. 4, 563-573; G. Lardreau, “Symbole [philo. géné]”; C. Lavaud, “Symbole [rel.]”; A. Soulez, “Symbole [log.]”; Z. Guentcheva, “Symbole [ling.]”; D. Le Dantec, “Symbolicité [philo. géné.]”; G. Lardreau, “Symbolique [philo. géné.]”; Y. Hatwell, “Symbolique (fonction)”; G. Lardreau, “Symbolisme [philo. géné.]”; J.-M. Schaeffer, “Symbolisme [esth.]”; Ed., “Symbolisme [psycha.]”, in Encyclopédie philosophique universelle. Les notions philosophiques. Dictionnaire, vol. 2, Paris 1990, 2512-2521; J. Ries, “Symbole”, in Catholicisme. Hier, aujourd’hui, demain, vol. 14, Paris 1996, 637-654; U. Galimberti, “Simbolo”, in N. Abbagnano-G. Fornero (a cura di), Dizionario di filosofia, Torino 1998, 1000-1001; Y. Tardan-Masquelier, “Le lan-
gage symbolique”, in F. Lenoir-Y. Tardan-Masquélier (a cura di), Encyclopédie des religions, Paris 2000, vol. 2, 2175-2192. I dizionari dei simboli sono particolarmente numerosi; per quelli riguardanti i simboli di una certa cultura, si rimanda alle indicazioni bibliografiche dei singoli capitoli di questo libro; tra i dizionari di carattere generale, nell’impossibilità di dare una rassegna, anche sommaria, dei più importanti, ci si limiterà a menzionare quello di maggiore ampiezza e notorietà: J. Chevalier-A. Gheerbrant, Dizionario dei simboli, tr. it., Milano 1986. Anche i volumi dedicati al simbolo – o nei quali il concetto di simbolo ha un ruolo particolare – sono molteplici. Se ne ricorderanno soltanto alcuni che hanno carattere generale e toccano problemi considerati nel presente lavoro – e nei quali il lettore troverà indicazioni per un eventuale approfondimento – e si indicheranno le opere cui si è fatto direttamente allusione senza dare riferimenti bibliografici precisi. Per il simbolo in generale, si vedano E. Castelli (a cura di), Umanesimo e simbolismo, Padova 1958; E. de Martino, Furore, simbolo, valore, Milano 1962; M. Meslin, “Il simbolismo religioso”, in Per una scienza delle religioni, tr. it., Assisi 1975, 199-223; Le symbole. Colloque International des Facultés de théologie de Strasbourg, Paris 1975; D. Sperber, Per una teoria del simbolismo, tr. it., Torino 1981; J. Ries (a cura di), Le symbolisme et le culte des grandes religions. Actes du colloque de Louvain-la-Neuve 4-5 octobre 1983, Louvain-la-Neuve 1985; G. Durand, “L’uomo religioso e i suoi simboli”, in J. Ries (a cura di), Trattato di antropologia del sacro. 1. Le origini e il problema dell’homo religiosus, Milano 1989; J. Vidal, Symboles et religions, Louvain-la-Neuve 1990; C. Tullio-Altan, Soggetto, simbolo e valore. Per un’ermeneutica antropologica, Milano 1992; B. Dechameux-L. Nefontaine, Le symbole, Paris 1998, 75-118; A. Grossato, Il libro dei simboli. Metamorfosi dell’umano tra Oriente e Occidente, Milano 1999. Sul simbolo in psicoanalisi, rimangono un punto di riferimento essenziale le sintesi “Simbolico”; “Simbolismo”, in J. Laplanche-J.-D. Pontalis, Enciclopedia della psicanalisi, tr. it., Roma-Bari 1968, 562-564; 564-569. Sul simbolo in sociologia, Symbolisme religieux, séculier et classes sociales, Actes de la 14ème Conférence Nationale de Socio245
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INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE
logie des Religions, Strasbourg 1977 (spec. F.A. Isambert, “Dimension sociale du symbole”, 9-25); J. Cazeneuve, Sociologie du rite, Paris 1971. Intorno al simbolo in letteratura, si troveranno indicazioni di ordine generale in R. Wellek, “Symbol and Symbolism in Literature”, in P.P. Wiener (a cura di), Dictionary of the History of Ideas, vol. 4, New York 1973, 337-345; F. Flamant, “Symbolisme”, in B. Didier (a cura di), Dictionnaire universel des littératures, Paris 1994, 3672-3679. Per i cenni sul simbolo in antropologia, ci si è richiamati alla sintesi di A. Ciattini, Antropologia delle religioni, Roma 1997; per il dibattito intorno al tema, si rimanda a B. Barnes, J. Beattie, E. Gellner, R. Horton, I.C. Jarvie, E. Leach, M.E. Spiro, Simbolo e teoria nell’antropologia religiosa, a cura di A. Simonicca e F. Dei, Lecce 1998; le citazioni presenti nel testo sono state tratte da: C. Geertz, Interpretazione di culture, tr. it., Bologna 1987; M. Douglas, I simboli naturali, tr. it., Torino 1979; V. Turner-E. Turner, Il pellegrinaggio, tr. it., Lecce 1997 (Appendice A: “Note sull’analisi simbolica processuale”); C. Lévi-Strauss, “Introduction à l’œuvre de Marcel Mauss”, in M. Mauss, Sociologie et anthropologie, Paris 1950. Di C.S. Peirce, si veda Semiotica, tr. it., Torino 1980. Nell’introduzione, si è riportato un passo di E. Cassirer tratto da Mytischer, ästhetischer und theoretischer Raum, in H. Noack (a cura di), Vierter Kongress für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft, Hamburg, 1930, Stuttgart 1931. Le citazioni di A. Brelich sono ricavate da: Introduzione alla storia delle religioni, Roma 1991 e Storia delle religioni, perché?, Napoli 1979. La produzione di M. Eliade fa costantemente riferimento alla nozione di simbolo; la citazione riportata nell’appendice è tratta da “Osservazioni sul simbolo religioso”, in Mefistofele e l’androgine, tr. it., Roma 1971, 177-179. Per l’ermeneutica del simbolo si vedano, di P. Ricœur, Finitudine e colpa, tr. it., Bologna 1970 (da cui è tratta la citazione riportata nelle considerazioni conclusive) e “Parole et symbole”, Revue des Sciences Religieuses 1975, 1-2, 142-161; di L. Pareyson, “Filosofia ed esperienza religiosa”, Annuario filosofico 1985, 7-52, da cui sono ricavati i brani riportati nel testo.
LE ORIGINI DELL’UOMO E IL SIMBOLISMO Cassirer B., Filosofia delle forme simboliche, tr. it., Firenze, vol. i, 1961; vol. ii, 1964; vol. iii, 1966. Deacon T.W., The symbolic species. The coevolution of language and the human brain, London 1997. Dobzhansky Th., Le domande supreme della biologia, Bari 1969. Durand G., Les structures anthropologiques de l’immaginaire, Paris 1992. Facchini F., “Structures anatomiques et corrélations culturelles dans le développement du langage humain”,
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EGITTO Alcune opere enciclopediche presentano trattazioni sui simboli egiziani: vanno citati P. Matthiae, “Oriente antico”, in Enciclopedia universale dell’arte, Venezia-Roma 1958-1967, vol. 12, 506; S. Donadoni, “Simboli e attributi. Egitto”, in Enciclopedia dell’arte antica, classica e orientale, Roma 1958-1966, vol. 7, 298-300, dal quale è stata tratta quasi integralmente la tavola degli attributi divini proposta. Per un quadro generale della religione egiziana si rimanda a F. Dunand-C. Zivie-Coche, Dieux et hommes en Egypte (3000 a.J.C.395 ap.J.C.), Paris 1991 e a S. Donadoni, “La religione egiziana”, in G. Filoramo (a cura di), Storia delle religioni, 1. Le religioni antiche, Roma-Bari 1994, 61114. Sulla rappresentazione degli dèi in Egitto, si veda la sintesi di E. Homung in Gli dèi dell’Antico Egitto, tr. it., Roma 1992, la cui interpretazione si è seguita nel paragrafo dedicato al tema delle raffigurazioni divine. Per una rapida visione dei problemi che la contestualizzazione storica di questo argomento pone, si consulti A. Roccati, “Zoomorfismo delle divinità egiziane”, in A. Bongioanni, E. Comba (a cura di), Bestie o dèi?, Torino 1996, 97-99. La citazione di H. Frankfort è tratta da Ancient Egyptian Religion, New York 1948. Una trattazione del tema degli studi sull’Egitto e dell’immagine dell’Egitto nella storia è offerta da S. Donadoni nel saggio “L’Egitto nei secoli”, contenuto in L’Egitto dal mito all’egittologia, Torino 1990, 11103, cui si è fatto principalmente riferimento per le questioni riguardanti la scrittura geroglifica e dal quale è tratta la citazione di Winckelmann riportata nel 247
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testo. Intorno al simbolismo dei templi e delle tombe, una sintesi efficace si trova in S. Curto, “Spazio reale e simbolico: l’architettura rituale”, in Civiltà degli Egizi. Le arti della celebrazione, Torino 1989, 14-97; la traduzione dei Testi delle Piramidi citata è ripresa da questo saggio; sugli aspetti simbolici dell’architettura egiziana si è utilizzato anche F. Daumas, “L’expression du sacré dans la religion égyptienne”, in J. Ries (a cura di), L’expression du sacré dans les grandes religions, Louvain-la-Neuve 1983, 287-305. Specificamente dedicato ai simboli in Egitto è R.T. Rundle Clark, Myth and Symbol in Ancient Egypt, London 1959: ad esso ci si è richiamati per la documentazione intorno alle singole immagini simboliche. Sui singoli motivi simbolici, si consultino anche i lessici: H. Bonnet, Reallexikon der ägyptischen Religionsgeschichte, Berlin 1952, G. Posener (in coll. con S. Sauneron e J. Yoyotte), Dictionnaire de la civilisation égyptienne, Paris 1959, Lexikon der Ägyptologie, Wiesbaden 1972 ss., M. Lurker, The Gods and Symbols in Ancient Egypt, tr. ingl., London 1980. Per il tema delle acque, del loto e del papiro ci si è riferiti a C. Vandersleyen, “L’Egitto faraonico e i suoi simboli: l’acqua, le colonne latiformi e papiroformi”, in I simboli nelle grandi religioni, tr. it., Milano 1988, 93-100. Per il ka e le altre componenti della persona umana, si veda la presentazione sintetica di P. Derchain, “Antropologia. Egitto faraonico”, in Dizionario delle mitologie e delle religioni, tr. it., Milano 1989, 100-106; per il simbolismo della luce implicito nell’akh, C. Cannuyer, “L’illuminazione del defunto come ierofania della sua divinizzazione nell’Antico Egitto”, in J. Ries e C.M. Temes (a cura di), Simbolismo ed esperienza della luce nelle grandi religioni, Milano 1993, 53-75. Sul simbolismo della fenice, si è utilizzata la sintesi tracciata da R. Van den Broek, The Myth of the Phoenix. According to Classical and Early Christian Traditions, Leiden 1972; per la nozione di Maat, si veda J. Assmann, Ma’at: Gerechtigkeit und Unsterblichkeit im Alten Ägipten, München 1990. INDIA E TIBET Per un quadro storico dei temi trattati con la bibliografia relativa, si rimanda agli articoli di C. Della Casa, S. Piano e M. Piantelli in G. Filoramo (a cura di), Storia delle religioni 4. Religioni dell’India e dell’Estremo Oriente, Roma-Bari 1996. Sui simboli in India vanno citate, innanzitutto, le sintesi proposte da alcune voci di enciclopedia: A.S. Geden, “Symbolism (Hindu)”, in Encyclopaedia of Religion and Ethics, Edimbourgh 1908-1926, vol. 12, 141-143; S. Soubramanien, “Simbolismo Indù”, in Grande dizionario delle religioni, tr. it., Assisi-Casale 1988, 1968-1969; C. Vivaramamurti,
“Simbolo e allegoria. India”, in Enciclopedia universale dell’arte, Venezia-Roma 1958-1967, vol. 12, 512-514; A. Tamburello, “Simboli e attributi. India”, in Enciclopedia dell’arte antica, classica e orientale, Roma 19581966, vol. 7, 311-312. Letture della religione indiana imperniate sulla nozione di simbolo si trovano in H. Zimmer (del quale ci si può limitare a segnalare Miti e simboli dell’India, tr. it., Milano 1993) e in A.K. Coomaraswamy (di cui si vedano, in italiano, la sintesi Induismo e buddismo, tr. it., Firenze 1987 e Il grande brivido. Saggi di simbolica e arte, tr. it., Milano 1987). Più recentemente, M. Eliade ha insistito particolarmente sull’ermeneutica dei simboli indiani in molti dei suoi lavori, i cui risultati sono compendiati nei capitoli dedicati all’India della Storia delle credenze e delle idee religiose, tr. it., Firenze 1979-1986. Quelli cui si è fatto principalmente riferimento nel presente studio sono: “Il simbolismo del Centro”; “Simbolismi indiani del Tempo e dell’Eternità”, in Immagini e simboli, tr. it., Milano 1987, rispettivamente 29-54, 55-84; “Simbolismi dell’ascensione e “sogni in stato di veglia”; “Potenza e sacralità nella storia delle religioni”, in Miti, sogni, misteri, tr. it., Milano 1986, rispettivamente 117-143, 145-179; “Spirito, luce e seme”, in Occultismo, stregoneria e mode culturali. Saggi di religioni comparate, tr. it., Firenze 1984, 105-140. Le opere di Eliade intorno all’India sono analizzate da F. Scialpi, “Mito e simbolo nelle religioni indiane”, in Mircea Eliade e le religioni asiatiche, Roma 1989, 23-48; “Condizione umana e liberazione nelle religioni dell’India”, in L. Arcella, P. Pisi, R. Scagno (a cura di), Confronto con Mircea Eliade. Archetipi mitici e identità storica, Milano 1998, 197-218. Per il tema del palo sacrificale, si veda M. Biardeau, “Sacrificio. Yupa, il palo sacrificale, nell’Induismo”, in Y. Bonnefoy (a cura di), Dizionario delle mitologie e delle religioni, tr. it., Milano 1989, 1617-1621; per quello della terra, M. Biardeau, “Terra. I simboli della terra nella religione dell’India”, ibid., 1774-1777; per i Naga, M. Piantelli, “Il simbolismo dei naga”, in A. Bongioanni, E. Comba (a cura di), Bestie o dèi? L’animale nel simbolismo religioso, Torino 1996, 123-135; per i vahana, A. Pelissero, “Il simbolismo animale nell’India antica”, ibid., 137-153. Su Viva e lo vivaismo, oltre ai lavori generali citati sopra, si rimanda a Y. Tardan Masquelier, “Le Shivaïsme”, in Encyclopédie des religions, Paris 1997, 907-925; su Vixpu e il vixpuismo, ad A. Couture, “Le vishnouisme”, ibid., 927-954. Per il concetto di mapdala, ci si è riferiti a G. Tucci, Teoria e pratica del mandala, con particolare riguardo alla moderna psicologia del profondo, Roma 1969; una sintesi del tema si trova in Y. Tardan Masquelier, “Le Mandala”, in Encyclopédie des religions, Paris 1997, 2199-2203. Quanto agli aspetti filosofici dei simboli, si consultino G. Tucci, Storia della filosofia indiana, Roma-Bari 1987 e J. Filliozat, Le
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filosofie dell’India, tr. it., Milano 1983. Sul rapporto fra simbolismo e culto, si rinvia alla sintesi di M. Delahoutre, “Il culto indù e la sua simbolica”, in Ries J. (a cura di), I simboli nelle grandi religioni, tr. it., Milano 1988; sul soma, a C. Malamoud, “Soma”, in Dizionario delle mitologie e delle religioni, cit., 1680-1685. Per una trattazione della storia dell’arte indiana nelle sue linee generali, si vedano i saggi di J. Nadou e M. Hallade in J. Nadou, M. Hallade, F. Guéroult, L’India e l’Estremo Oriente, tr. it., Firenze 1969. Analisi dell’arte sacra indiana e dell’arte tibetana con apparati iconografici si trovano in M. Delahoutre, Arte indiana, Milano 1996; A. Heller, Arte tibetana, Milano 1999. Per l’estetica e la teoria dell’arte indiana, ci si è riferiti alla sintesi di M. Delahoutre, “Sacro ed estetica nell’arte indiana”, in J. Ries (a cura di), Trattato di antropologia del sacro. L’uomo indoeuropeo e il sacro, Milano 1991, 81-102. Sul simbolismo del tempio, si vedano S. Kramisch, Hindu Temples, Calcutta 1946; “The Superstructure of the Hindu Temple”, Journal of Indian Society of Oriental Art, 12, 1944, 175-207; S. Piano, Sanatana-dharma. Un incontro con l’“induismo”, Cinisello Balsamo 1996, cui si rimanda anche per una presentazione generale dell’induismo; su Borobudur, P. Mus, Barabudur. Esquisse d’une histoire du bouddhisme fondée sur la critique archéologique des textes, Paris 1935. Per il buddhismo e la figura del Buddha, si veda M. Piantelli, “Il buddhismo indiano”, in G. Filoramo (a cura di), Storia delle religioni, 277-368. CINA Sul simbolo in Cina esistono diverse monografie, tra le quali si possono citare : C.A.S. Williams, Outlines of Chinese Symbolism and Art Motives, Rutland-Tokyo 1974; W. Eberhardt, Dizionario dei simboli cinesi, tr. it., Roma 1999; M.L. Tournier, L’imaginaire et la symbolique dans la Chine Ancienne, Paris 1991, cui ci si è richiamati principalmente per la presente trattazione. Alle bibliografie di questi lavori si rimanda per un approfondimento delle tematiche considerate. Per un inquadramento storico generale degli argomenti trattati, si vedano le sintesi di L. Lanciotti, “Le religioni della Cina antica”, in G. Filoramo (a cura di), Storia delle religioni 4. Religioni dell’India e dell’Estremo Oriente, Roma-Bari 1996, 501-524; G. Bertuccioli, “Il taoismo”, 531-558; E. Zurcher, “Il buddhismo in Cina”, 369-410. In C. Kontler, L’arte cinese, Milano 2000, si troverà un ricco e facilmente accessibile repertorio di immagini (con bibliografia sommaria). La citazione con la quale si è aperto l’articolo è tratta da J. Gernet, Il mondo cinese. Dalle prime civiltà alla Repubblica Popolare, tr. it., Torino 1978.
SHINTOISMO In mancanza di opere espressamente dedicate al simbolismo shintoista, si menzioneranno alcuni lavori di sintesi intorno alla religione giapponese cui ci si è principalmente richiamati nell’elaborazione del testo e nei quali il lettore troverà indicazioni bibliografiche per eventuali approfondimenti: H.O. Rotermund, “Les croyances du Japon Antique”; G. Renondeau e B. Frank, “Le Bouddhisme japonais”, in H.C. Puech (a cura di), Histoire des religions, Paris 1970, 958-991, 1320-1350; F. Marami, “Lo shinto”, in G. Filoramo (a cura di), Storia delle religioni 4. Religioni dell’India e dell’Estremo Oriente, Roma-Bari 1996, 613-663; Studies in Shinto and Shrines. Papers Selected from the Works of The Late R.A.B. Ponsonby-Fane, LL.D., Kamikamo, Kyoto 1957; I. Hori, Folk Religion in Japan, Tokyo 1968; M. Raveri, Itinerari nel sacro. L’esperienza religiosa giapponese, Venezia 1984; “Études japonaises. Dieux, lieux, corps, choses, illusion”, numero monografico di L’Homme, 31, 1991, 117. Il volume Religions, croyances et traditions populaires au Japon. I. “Aux temps où arbres et plantes disaient des choses”, a cura di H.O. Rotermund, Paris 1988, presenta una ricca antologia commentata di brani riguardanti il valore attribuito alla natura in Giappone. Sul tema dell’immagine artistica, si veda R.-B. Pilgrim, “Foundations for a Religio-Aesthetic Tradition in Japan”, in D. Apostolos-Cappadona (a cura di), Art, Creativity, and the Sacred. An Anthology in Religion and Art, New York 1985, 138-153. GRECIA Per una sintesi sui tratti della religione greca antica, utile a chi voglia approfondire, anche attraverso ulteriori riferimenti bibliografici, alcuni degli argomenti generali toccati nel testo, si rimanda ai volumi di A. Brelich, I Greci e gli dèi, Napoli 1985 e di I. Chirassi Colombo, La religione in Grecia, Roma-Bari 1983, agli articoli di U. Bianchi, “La religione greca”, in G. Castellani (a cura di), Storia delle religioni, Torino 1971, vol. 3, 81-394 e di P. Scarpi, “La religione greca”, in G. Filoramo (a cura di), Storia delle religioni. 1. Le religioni antiche, Roma-Bari 1994, 283-330 e al manuale L. Bruit Zaidman-P. Schmitt Pantel, La religione greca, tr. it., Roma-Bari 1992. Per il periodo ellenistico, G. Sfameni Gasparro, “Le religioni del mondo ellenistico”, in G. Filoramo (a cura di), Storia delle religioni, 1. Le religioni antiche, 409-452. Per il tema dell’area semantica del vocabolo symbolon, si è fatto riferimento a P. Gauthier, Symbola. Les étrangers et la justice dans les cités grecques, Nancy 1972. Gli studi dedicati al simbolo in Grecia cui si è alluso sono: P. Gardner, “Sym249
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INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE
bolism (Greek and Roman)”, in Encyclopaedia of Religion and Ethics, Edimbourgh 1908-1926, vol. 12, 139141; S. Ferri, “Simbolo e allegoria. Grecia e Roma”, in Enciclopedia universale dell’arte, Venezia-Roma 19581967, vol. 12, 508-512; R. Brilliant, “Simboli e attributi. Grecia e Roma”, in Enciclopedia dell’arte antica, classica e orientale, Roma 1958-1966, vol. 7, 303-311; P. Diel, Le symbolisme dans la mythologie grecque. Étude psychanalytique, Paris 1952; J.-P. Vernant, “Figurazione dell’invisibile e categoria psicologica del ‘doppio’: il kolossós”, in Mito e pensiero presso i Greci, tr. it., Torino 1978, 343-358; A. Brelich, “Symbol of a Symbol”, in Myths and Symbols. Studies in Honour of Mircea Eliade, a cura di J.M. Kitagawa, C. Long, Chicago-London 1969, 195-207. All’idea della religione come sistema simbolico si richiamano diversi autori (per non fare che due esempi, si possono citare C. Calarne e P. Scarpi). La citazione di Kerényi a proposito dei limiti della nozione di simbolo è tratta da Dioniso. Archetipo della vita indistruttibile, tr. it., Milano 1992. Sulla personificazione, si veda J. Duchemin (a cura di), Mythe et personnification. Travaux et mémoires. Actes du Colloque du Grand Palais (Paris), 7-8 mai 1977, Paris 1980. Quanto alle difficoltà della nozione di personificazione, la citazione riportata nel testo è stata tratta da A. Brelich, I Greci e gli dèi. Sulla concezione greca della natura, si veda la sintesi di A. Motte, “De l’idée de la nature dans la Grèce antique”, in La Grèce pour penser l’avenir. Actes du colloque international et interdisciplinaire organisé par l’Université de Paris viii et l’ehess (Paris, décembre 1996), Paris 2000, 61-89; sulla visione della natura nella letteratura, A. Bonafé, Poésie, nature et sacré, vol. 1; vol. 2, Lyon 1984 e 1987. Per la trattazione della montagna, della grotta, del mare e della fonte come motivi religiosi ci si è rifatti a R. Buxton, Imagery in Greece, Cambridge 1994; sull’estraneità di Dionysos, si veda M. Massenzio, Cultura e crisi permanente. La “xenia” dionisiaca, Roma 1970. Sul tema del lupo e del cane, si è fatto riferimento a C. Mainoldi, L’image du loup et du chien dans la Grèce Ancienne d’Homère à Platon, Paris 1984. Sulla palma di Delos, si veda A. Motte, “L’expression du sacré dans la religion grecque”, in J. Ries (a cura di), L’expression du sacré dans les grandes religions, Louvain-La-Neuve 1986, vol. 3, 109-256; dello stesso autore, Prairies et jardins de la Grèce antique. De la religion à la philosophie, Bruxelles 1973. Sulle acque primordiali, si è seguito J. Rudhardt, Le thème de L’eau primordiale dans la mythologie grecque, Fribourg 1971. Sullo statuto dell’immagine divina in Grecia, si può ricorrere alla sintesi di F. Lissarague, “La figuration des dieux”, in Grand atlas des religions, Paris 1988, 287288; sull’immagine, si veda anche J.-P. Vernant, “Nascita di immagini”, in Nascita di immagini e altri scritti su religione, storia, ragione, tr. it., Milano 1982, 119-
152 e, sui kouroi, l’ampio repertorio iconografico di G. Richter, Kouros. Archaic Greek Youths, London-New York 1960; sulla scultura greca, W. Fuchs, Storia della scultura greca, tr. it., Milano 1982. Sulle erme e sul tema dell’occhio nella pittura vascolare, si è fatto riferimento a F. Frontisi-Ducroux, “Les limites de l’anthropomorphisme. Hermès et Dionysos”, in Corps des dieux. Les termes de la réflexion, 7, Paris 1986, 193-211; Le dieumasque, Paris-Roma 1991. Sui rituali delle Panatenee, si veda A. Brelich, Paides eparthenoi, Roma 1969; e, a proposito del significato della corona, A. Brelich, “La corona di Prometheus”, in Hommages à Marie Delcourt, Bruxelles 1970, 234-242.
ROMA Per una trattazione generale della religione etrusca e del tema della rappresentazione in Etruria – con bibliografia relativa – si rimanda a due lavori di M. Torelli, “La religione etrusca”, in G. Filoramo (a cura di), Storia delle religioni, 1. Le religioni antiche, Roma-Bari 1994, 331-347 e L’arte degli etruschi, Roma-Bari 1985; per una presentazione della religione romana nei suoi tratti essenziali, si vedano G. Piccaluga, Aspetti e problemi della religione romana, Firenze 1964, e D. Sabbatucci, “La religione romana”, in G. Castellani (a cura di), Storia delle religioni, Torino 1971, vol. 3, 1-80 e La religione di Roma antica, Milano 1988. Le sintesi intorno al simbolo a Roma cui si fa cenno nella prima parte del lavoro sono: P. Gardner, “Symbolism (Greek and Roman)”, in Encyclopaedia of Religion and Ethics, Edimbourgh 1908-1926, vol. 12, 139-141; S. Ferri, “Simbolo e allegoria. Grecia e Roma”, in Enciclopedia universale dell’arte, Venezia-Roma 1958-1967, vol. 12, 508-512; R. Brilliant, “Simboli e attributi. Grecia e Roma”, in Enciclopedia dell’arte antica, classica e orientale, Roma 1958-1966, vol. 7, 303-311. Per il problema dei simboli animali, ci si è basati su: G. Dumézil, “Sur quelques expressions symboliques de la structure religieuse tripartie à Rome”, Journal de psychologie, 45, 1952, 43-46; “L’idéologie des trois fonctions dans quelques crises de l’histoire romaine”, Latomus, 17, 1958, 429-446; La religione romana arcaica, tr. it., Milano 1977; D. Briquel, “L’oiseau ominal, la louve de Mars, la truie féconde”, Mélanges de l’École française de Rome, 89, 1976, 3150. L’impostazione duméziliana è discussa. Sui suoi caratteri e limiti si veda J. Ries e N. Spineto (a cura di), Esploratori del pensiero umano. Georges Dumézil e Mircea Eliade, Milano 2000 (in particolare, l’articolo di E. Montanari, “Georges Dumézil e la religione romana arcaica”, 51-102). A proposito del simbolismo cosmico in Etruria e a Roma, si rinvia alla sintesi di R. Bloch, “Le symbolisme cosmique et les monuments religieux
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dans l’Italie ancienne”, in Le symbolisme cosmique des monuments religieux, Roma 1957, 17-29, che la trattazione proposta nel presente articolo segue. Per il tema di Terminus, si veda G. Piccaluga, Terminus. I segni di confine nella religione romana, Roma 1974 (dal quale è tratta la citazione riportata nel testo); per quello dell’interpretazione simbolica del circo, G. Piccaluga, Elementi spettacolari nei rituali festivi romani, Roma 1965. I cenni intorno al simbolismo dei bassorilievi funerari sono basati su F. Cumont, Recherches sur le symbolisme funéraire des romains, Paris 1942; quanto ai motivi bacchici, si veda R. Turcan, Les sarcophages romains à représentations dionysiaques, Paris 1966. A proposito delle iscrizioni – e della loro importanza ai fini dell’interpretazione delle testimonianze figurative – va menzionato A. Brelich, Aspetti della morte nelle iscrizioni sepolcrali dell’impero romano, Budapest 1937.
GERMANI Per una sintesi della religione dei Germani con relativa bibliografia, si vedano C.A. Mastrelli, “La religione degli antichi Germani”, in G. Castellani (a cura di), Storia delle religioni, Torino 1971, vol. 3, 463-535; E. Campanile, “La religione dei Germani”, in G. Filoramo (a cura di), Storia delle religioni 1. Le religioni antiche, Roma-Bari 1994, 635-665. A questi lavori si rimanda anche per tutti i problemi preliminari riguardanti la definizione e la descrizione della religione dei Germani, ai quali non è stato possibile fare allusione. Sul valore dei simboli naturali insiste in modo particolare R. Boyer, del quale si è seguita la ricostruzione diacronica e sui cui lavori si basa la presentazione che si è fatta in questo saggio. Dagli studi di Boyer dipende anche il commentario proposto intorno all’albero Yggdrasill. Il volume di riferimento, a questo proposito, è: Yggdrasill. La religion des anciens scandinaves, Paris 1981. L’argomentazione è ripresa, in modo sintetico, nell’articolo “Germani e nordici. Gli elementi del sacro”, in Y. Bonnefoy (a cura di), Dizionario delle mitologie e delle religioni, tr. it., Milano 1989, 795-811. Le citazioni dell’Edda sono tratte da Edda di Snorri, curata e tradotta da G. Chiesa Isnardi, Milano 1975.
EBRAISMO Il problema dei simboli ebraici è stato riconsiderato e studiato da un punto di vista nuovo da G. Busi, in Simboli del pensiero ebraico. Lessico ragionato in settanta voci, Torino 1999, che costituisce il repertorio più ampio e completo sull’argomento e presenta una antologia delle fonti. Busi vi propone l’idea di una “filologia
simbolica”, il cui scopo è di considerare il simbolo nelle sue peculiarità attraverso strumenti che, pur non rinunciando alle prospettive classiche dettate dalla filologia e dalla semiotica, siano più adeguati alla natura peculiare del loro oggetto d’indagine. A questo testo si è ricorso, in generale, per la trattazione degli aspetti dei simboli che si sono esaminati. Per ragioni di spazio, si è presa in considerazione la linea che va dalla Bibbia alla letteratura rabbinica alla qabbalah, mentre non si sono trattati altri argomenti, come la letteratura ebraica “apocrifa” o quella essenica. Per una presentazione sintetica e facilmente accessibile dei simboli della Bibbia, si può vedere M. Lurker, Dizionario dei simboli biblici, tr. it., Milano 1990. Per le testimonianze iconografiche dell’epoca greco-romana, l’opera di riferimento è E.R. Goodenough, Jewish Symbols in the Greco-Roman Period, 12 voll., New York 1953-1965 (sintesi efficace in “Symbolism, Jewish [in the Greco-Roman Period]”, in Encyclopaedia Judaica, Jerusalem 1971, vol. 15, 568-578). Sulla questione del rapporto di ebraismo e giudaismo con le immagini, si rimanda alle sintesi di T.N.D. Mettinger, “Israelite Aniconism: Developments and Origins” e R.S. Hendel, “Aniconism and Anthropomorphism in Ancient Israel”, in K. Van der Toorn (a cura di), The Image and the Book. Iconic Cults, Aniconism, and the Rise of Book Religion in Israel and the Ancient Near East, Leuven 1997, 173-204; 205-228. Per il simbolismo della qabbalah, punto di riferimento sono i lavori di G. Scholem. In particolare, Le grandi correnti della mistica ebraica, tr. it., Genova 1990 e La qabbalah e il suo simbolismo, tr. it., Torino 1980, da cui è tratta la citazione dello Zohar presente nel testo. Si veda poi M. Idei, Cabbalà. Nuove prospettive, tr. it., Firenze 1996. Alle bibliografie fornite da queste opere si rimanda per ulteriori approfondimenti. Per un quadro storico generale dell’ebraismo, si vedano gli articoli di C. Grottanelli, P. Sacchi, G. Tamani in G. Filoramo (a cura di), Storia delle religioni 2. Ebraismo e cristianesimo, Roma-Bari 1995.
CRISTIANESIMO Sul simbolo nel cristianesimo antico, si rinvia alla sintesi proposta dall’articolo “Simboli-Simbolismo” del Dizionario patristico e di antichità cristiane (a cura di A. Di Berardino), Casale Monferrato 1983: S.J. Voicu, “i. Nella tradizione letteraria”, coll. 3196-3199; C. Carletti, “ii. Nell’arte”, 3199-3203. Per i singoli motivi simbolici, si vedano le voci relative nel Dizionario appena citato, nel Dictionnaire d’archéologie chrétienne et de liturgie, Paris 1907-1953; nel Reallexikon für Antike und Christentum, Stuttgart 1950 ss.; nel Lexikon der christlichen Ikonographie, Freiburg i.b. 1968-1976. Sui simboli cristiani in genere esistono molti lavori di carat251
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tere generale, spesso organizzati in ordine alfabetico, di facile consultazione. Se ne ricorderà soltanto uno, già menzionato a proposito del simbolo nell’ebraismo: M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, tr. it., Milano 1994. Le considerazioni iniziali riguardanti l’esegesi cristiana si basano su M. Simonetti, Lettera e/o allegoria. Un contributo alla storia dell’esegesi patristica, Roma 1985, specialmente il cap. 1, “La Sacra Scrittura nella Chiesa dei primi due secoli”. La citazione di Clemente Alessandrino presente nel testo è tradotta da A. Boatti (Il pedagogo, Torino 1953). Nella trattazione dei simbolismi della palma, della corona, dell’albero della vita, della vigna, dell’acqua viva, del pesce, della nave, dell’aratro e del segno tav si è seguito J. Daniélou, I simboli cristiani primitivi, tr. it., Roma 1990, cui si rimanda per un commento puntuale delle fonti citate. Per il tema della luna e del sole, per i riferimenti del simbolismo della nave al mondo classico, per la croce intesa come albero della vita e il suo simbolismo cosmico, ci si è riferiti ai volumi di H. Rahner, Simboli della Chiesa. L’ecclesiologia dei Padri, tr. it., Cinisello Balsamo 1995 (specialmente i capitoli: “Mysterium lunae” e “Antenna crucis”) e Miti greci nella interpretazione cristiana, tr. it., Bologna 1980 (specialmente i capitoli: “Il mistero della croce”; “Il mistero cristiano del sole e della luna”; “Odisseo all’albero maestro”). Per il tema della fenice, si veda il già citato R. Van den Broek, The Myth of the Phoenix. According to Classical and Early Christian Traditions, Leiden 1972. Sul vino, G. Filoramo, “Simboli enoici dell’universo cristiano”, in D. Longo e P. Scarpi (a cura di), Della vite e del vino, Milano 1999, 31-59. Gli studi intorno al simbolismo della croce sono raccolti in un repertorio bibliografico generale: R. Schneider-Berrenberg, Kreuz, Kruzifix. Eine Bibliographie, München 1973. Quanto alla croce nell’iconografia, si veda la sintesi presente nella voce “Croce”, in Enciclopedia dell’arte antica, classica e orientale, Roma 1952, vol. 2, pp. 949-952; si è tenuto a Napoli, nel dicembre 1999, un convegno internazionale su “La croce. Iconografia e interpretazione”, ai cui Atti, in corso di stampa, si rinvia il lettore per un approfondimento del tema. Per l’interpretazione dei simboli nell’iconografia cristiana, si rimanda alle bibliografie contenute nelle opere già citate e ai repertori di immagini L. Reau, Iconographie de l’art chrétien, Paris 1955-1959; Lexikon der christlichen Ikonographie, Roma-Freiburg-Basel-Wien 1968-1976 e Ikonographie der christlichen Kunst, Gutersloh 1969-1990. Sul simbolo nell’arte paleocristiana, si veda poi la sintesi di M.A. Crippa e M. Zibawi, L’arte paleocristiana. Visione e spazio dalle origini a Bisanzio, Milano 1998, con la bibliografia relativa. Per la trattazione dei principali simboli medioevali in un’ottica iconografica, si possono menzionare G. de Champeaux-S. Sterckx, I simboli del
Medio Evo, tr. it., Milano 1981; O. Beigbeder, Lessico dei simboli medievali, Milano 1988; M. Thoumieu, Dizionario d’iconografia romanica, tr. it., Milano 1997: pur superando i limiti del periodo storico considerato nel presente studio, questi lavori propongono anche sintesi intorno alle caratteristiche e ai significati dei singoli motivi simbolici nel cristianesimo antico. ISLAM Sugli aspetti generali del simbolo, si veda la voce “Ramz”, compilata da W.P Heinrichs e A. Knysh, Encyclopédie de l’Islam, Leiden 1995, vol. 8, 440-444; per un quadro generale e sintetico del simbolismo musulmano, si rimanda all’articolo di A. Bausani all’interno della voce “Simbolo e allegoria” della Enciclopedia Universale dell’Arte, Venezia-Roma 1958-1967, vol. 12, 517-518. Esiste un repertorio dei simboli nell’Islam: M. Chebel, Dizionario dei simboli islamici, tr. it., Roma 1997, per la consultazione del quale occorre tenere conto delle avvertenze presenti nell’“Introduzione” di G. Mandel (15-17). Ad esso si è ricorso per la descrizione di una parte dei motivi simbolici presi in considerazione singolarmente (in particolare, per alcuni dati presentati a proposito delle lettere dell’alfabeto, dei colori, dello spazio della moschea). Nella trattazione del tema dell’immagine artistica nel mondo islamico, ci si è richiamati soprattutto alla voce “Xura”, di J. Wensinck, dell’Encyclopédie de l’Islam, 925-928 e al volume di O. Grabar, The Formation of Islamic Art, New Haven-London 1973. Sul rapporto fra filosofia, teosofia, mistica islamica e simbolo il punto di riferimento principale è l’opera di H. Corbin. Per uno sguardo sintetico, si rinvia alle sezioni che lo studioso ha dedicato al pensiero islamico nella Histoire de la Philosophie curata da B. Parain e Y. Belaval, Paris 1974. Quanto ai singoli pensatori musulmani citati, si vedano, dello stesso autore, Terre céleste et corps de résurrection. De l’Iran mazdéen à l’Iran Shî’ite, Corrêa 1960; Face de Dieu, Face de l’homme, Paris 1983; L’imagination créatrice dans le soufisme d’Ibn Arabî, Paris 1993; Avicenne et le récit visionnaire, Paris 1999 (in cui si trova la traduzione del Racconto dell’uccello di cui si è riportato un brano). Sul simbolismo della mistica, rimane fondamentale L. Massignon, Essai sur les origines du lexique technique de la mystique musulmane, Paris 1922. Sul tema della “Scienza delle lettere”, si rimanda alle indicazioni di base, che sono state seguite nella breve presentazione della questione fornita nel presente lavoro, date da P. Lory nella “Introduction” a Rajab Borsi, Les Orients des lumières, curato da H. Corbin, Paris 1996. Sul tema del rapporto fra simbolismo e ripetizione di motivi artistici, si sono seguiti principalmente gli spunti offerti
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da Lois Ibsen Al Faruqi, “An Islamic Perspective on Symbolism in the Arts: New Thoughts on Figural Representation”, in D. Apostolos-Cappadona (a cura di), Art, Creativity, and the Sacred. An Anthology in Religion and Art, New York 1985, 165-178. I passi del Corano sono stati citati nella traduzione di F. Peirone, Milano 1979; il brano di Platone riportato è tradotto da E. Martini (Platone, Tutte le opere, Firenze 1974); la citazione di Ibn al-Fârid è tratta dalla traduzione francese di E. Dermenghem, L’éloge du vin. Poème mystique de ‘Omar ibn al-Fâridh, Paris 1980. Per una ricostruzione storica generale dell’Islam, si rimanda a G. Filoramo (a cura di), Islam, Roma-Bari 2000. MESOAMERICA Nella trattazione dello spazio sacro azteco, si è seguita la ricostruzione di D. Carrasco, “La religione azteca: città sacre, azioni sacre”, in L.E. Sullivan (a cura di), Trattato di antropologia del sacro, 6. Culture e religioni indigene in America centrale e meridionale, Milano 1997, 23-42; dello stesso autore, si consulti anche Quetzalcoatl and the Irony of the Empire. Myths and Prophecies in the Aztec Tradition, Chicago 1982. Una discussione delle sue tesi si trova in M. Monaco, “Quetzalcoatl tra fenomenologia e storia”, in L. Arcella, P. Pisi, R. Scagno (a cura di), Confronto con Mircea Eliade. Archetipi mitici e identità storica, Milano 1998, 175-184. Utile per una individuazione dei motivi simbolici è D. Heyden, The Eagle, the Cactus, the Rock. The Roots of MexicoTenochtitlan’s Foundation Myth and Symbol, Oxford 1989. Sulle divinità legate agli elementi naturali, si vedano poi gli articoli, redatti collettivamente dai membri della Missione archeologica ed etnologica francese in Messico (D. Michelet, A.M. Vie, G. Stresser-Péan), “Mesoamerica. Il problema religioso”; “Mesoamerica. L’organizzazione mitica e rituale”, in Y. Bonnefoy (a cura di), Dizionario delle mitologie e delle religioni, tr. it., Milano 1989, 1140-1150, 1150-1157; “Cielo. Sole, luna, stelle e fenomeni meteorologici nelle religioni mesoamericane”, ibid., 273-280; “Fuoco. America centrale”, ibid., 749-752. Quanto ai simboli maya, si è fatto riferimento principalmente a M. de la Garza, “Le forze sacre dell’universo Maya”, in L.E. Sullivan (a cura di), Trattato di antropologia del sacro, 6, 95-166. Un quadro generale e introduttivo, con la bibliografia relativa, delle religioni mesoamericane, si trova in L. Laurencich Minelli, Religione mesoamericana. Schede e appunti, Bologna 1989; A.A. López, “La religione della Mesoamerica”, in G. Filoramo (a cura di), Storia delle religioni 5, Roma-Bari 1997, 5-75. Per il tema del simbolismo della croce, si consultino Congrès international des Américanistes. Compte rendu de la troisième
session, Bruxelles 1879, I, Bruxelles 1887; A. Quiroga, La Cruz en America, [1901], ried. San Antonio de Padua 1977; J. Ries, Le signe et le symbolisme de la croix dans les religions non chrétiennes, in J. Ries (a cura di), Le symbolisme et le culte des grandes religions. Actes du colloque de Louvain-la-Neuve 4-5 octobre 1983, Louvain-la-Neuve 1985, 295-314. Si vedano infine i volumi del “Corpus Precolombiano”, Jaca Book, Milano: R. Piña Chan, Olmechi. La cultura madre, 1989; E. Matos Moctezuma, Teotihuacan. La metropoli degli dei, 1990; J.J. Brody, Anasazi, 1990; L. Laurencich Minelli (a cura di), I regni preincaici e il mondo inca, 1992; G. Orefici, Nasca. Arte e società del popolo dei geoglifi, 1993; L. Lopez Lujan, R.H. Cobean, A. Guadalupe Mastache, Gli altopiani delle guerre. Xochicalco e Tuia, 1996; J. Schobinger, L’arte dei primi americani, 1997; A. Arellano Hernandez, M. Ayala Falcon, B. de la Fuente, M. de la Garza, B. Olmedo Vera, L. Staines Cicero, Maya Classici, 1997; A. Benavides Castillo, M. de la Garza, E. Matos Moctezuma, E. Nalda, L. Staines Cicero, Gli ultimi regni Maya, 1998; E. Matos Moctezuma (a cura di), Aztechi, 2000; B. de la Fuente (a cura di), La pittura precolombiana, 2000; B. Braniff B., La civiltà del deserto americano, 2001. AFRICA Non è possibile qui trattare del problema, cui si è accennato nell’appendice storiografica a questo volume e che riguarda le civiltà orali in genere, della effettiva applicabilità del concetto di simbolo alle realtà africane. Se alcune ricerche antropologiche classiche (come quelle di E.E. Evans-Pritchard sui Nuer, di G. Lienhardt sui Dinka, di V.W. Turner sui Ndembu, di M. Douglas sui Lele del Kasai) utilizzano, sia pur attribuendole sensi diversi, la nozione di simbolo per l’analisi dei sistemi religiosi africani, vi sono studiosi (per esempio R. Horton, nelle sue ricerche etnologiche in Nigeria) che non accettano l’impiego di prospettive “simboliste”. Sulla questione, rimando alla sintesi e ai riferimenti bibliografici fomiti da A. Ciattini, Antropologia delle religioni, Roma 1997, 84-98, 135-143. Il presente articolo presuppone la liceità dell’uso della nozione di simbolo e segue la struttura argomentativa proposta da C. Faïk-Nzuji Madiya, che prende le mosse da un’analisi dei termini traducibili con “simbolo” negli idiomi africani. Di questa analisi, oggetto di una ricerca in corso presso l’Università di Louvain-la-Neuve, la studiosa ha pubblicato alcuni risultati, dei quali dà sommariamente conto (fornendo la bibliografia relativa, cui si rimanda) nell’articolo “L’homo religiosus africano e i suoi simboli”, in J. Ries (a cura di), Trattato di antropologia del sacro. 1. Le origini e il problema dell’homo religiosus, Milano 253
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1989, 257-279. Per una rapida sintesi (con indicazioni bibliografiche) delle religioni africane, cui il lettore potrà rivolgersi per un primo orientamento storico, si rimanda al saggio di Bernardo Bernardi, “Le religioni africane”, in G. Filoramo (a cura di), Storia delle religioni 5. Religioni dell’America precolombiana e dei popoli indigeni, Roma-Bari 1997, 107-141 (dal quale è tratta la citazione che apre questo lavoro). Per l’iconografia, si veda I. Bargna, Arte africana, Milano 1988. AUSTRALIA Per un quadro generale e sintetico (con bibliografia) delle coordinate storiche e culturali delle religioni australiane, nei loro elementi distintivi rispetto alle altre religioni dell’Oceania, si veda A. Paini, “Religioni
dell’Oceania”, in G. Filoramo (a cura di), Storia delle religioni. 5. Religioni dell’America Precolombiana e dei popoli indigeni, Roma-Bari 1997, 221-246. Sui simboli in Australia si è seguito principalmente A.C. Moore, Arts in the Religions of the Pacific. Symbols of Life, London and Washington 1995. Si vedano inoltre R.M. Berndt ed E.S. Phillips, The Australian Aboriginal Heritage: An Introduction through the Arts, Sydney 1973, 31-37; R.M. Berndt, H.C. Berndt, J. Stanton, Aboriginal Australian Art: a Visual perspective, Sydney 1982. Gli studi citati nel testo sono: W.E.H. Stanner, “Religion, Totemism and Symbolism”, in Aboriginal Man in Australia, a cura di R.M. Brent, C.H. Berndt, Sydney 1965, 207-237; N. Munn, Walbiri Iconography, Ithaca 1973. Sul mito delle origini Achilpa menzionato, si veda M. Eliade, La creatività dello spirito. Un’introduzione alle religioni australiane, tr. it., Milano 1979.
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CREDITI FOTOGRAFICI
Adriano Alpago Novello: 192 (7) Emmanuel Anati: 7, 8, 9, 10, 31, 39, 146, 221, 230 Archivio Jaca Book: 154, 162, 164 Archivio Jaca Book/Mauro Magliani: 144, 166, 174, 178 (13) Archivio Lunwerg/Pedro A. Saura Ramos: 31, 34, 37 Archivio Scala, Firenze: 171, 175 (9), 186 Jordi Ballonga: 149 Bams photo – Rodella: 180 G. Bargna: 225 (14) Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano: 172 Bibliothèque Nationale de France, Parigi: 185 Massimo Capuani: 57 Nino Cirani: 36 Duilio Citi: 150 (12), 109 (6) Collection AEDTA, Parigi: 88 Collection Myrna Myers: 90 Carlos Contreras de Oteyza: 203 (3) Gérard Degeorge, Paris: 192 (8), 197-198 J. Eskenazi: 83 Excalibur, Milano: 117, 121 (8), 125 (13), Foto Pilzi: 229, 231 L. Fournier: 86 Germanisches Nationalmuseum, Norimberga: 151 L. Guberti, 226 André Held, Ecublens: 173, 175 (8) INAH, Città del Messico: 205 Justin Kerr: 215 (21) Erich Lessing: 63 Isber Melhem, Beirut: 181 (16)
Mission Suisse d’Archéologie Copte, Genève: 18 Musée Guimet, Parigi: 89 (2), 108 Marwan Musselmany: 155 (4) National Gallery of Victoria, Melbourne: 234 D.O. Nidzgorski: 222 Jean-Louis Nou, Parigi: 68 Obiettivo effe, Anzano del Parco (Co): 218 Oronoz, Madrid: 184, 193, 200 Giacomo Pozzi Bellini: 133 RMN, Museo del Louvre, Parigi: 42, 43 Matteo Rodella: 70, 72 (13), 77, 79 Roger-Viollet, Paris: 176 (10) C.F. Roncoroni: 84 (30) Carlo Scotti: 24 © Shutterstock: 53 (Dina Temraz), 58 (Ewa Studio), 72 (14) (tantrik71), 74 (Perfect Lazybones), 80 (DR Travel Photo and Video), 96 (4045), 97 (Katoosha), 109 (5) (Thi Phao), 111 (iamlukyeee), 112 (9) (Jesse33), 112 (10) (Laborant), 119 (4) (NonixPhoto), 120 (6) (Ralf Siemieniec), 122 (bayazed), 129 (20) (nrg123), 148 (Alexander Demyanov), 199 (liquid studios), 210 (javarman), 232 (9) (Chris Watson), 232 (10) (Chris65), 233(Australian Camera), Peter Silverman Collection: 85 Angelo Stabin: 82 (28), 106 (2), 113 (11 e 12), 204 (6), 213 Mireille Vautier: 209, 211 (16), 212 (18), 214
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