THE INVENTION OF THE WESTERN GARDEN

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Matteo Vercelloni e Virgilio Vercelloni

L’INVENZIONE DEL GIARDINO OCCIDENTALE con la collaborazione di

Paola Gallo


Sommario

© Internazionale, 2009 Editoriale Jaca Book S.p.A., Milano Tutti i diritti riservati Prima edizione italiana settembre 2009 Seconda edizione italiana aprile 2019

Introduzione Oltre il recinto p. 7 L’invenzione del giardino p. 13 Hortus conclusus p. 23 Dal sogno umanistico al giardino rinascimentale italiano p. 37 Cultura materiale, curiosità scientifica ed esotismo tra Cinquecento e Seicento p. 53 Persistenza del modello italiano e inquietudini barocche p. 67 Il giardino formale francese p. 81 Una rivelazione estetica: il giardino paesaggistico p. 99

Stampa e confezione Conti Tipocolor, Firenze aprile 2019

isbn

978-88-16-60583-1

I manufatti per il giardino romantico p. 125 Estetica, storia, scienza e botanica nell’idea del giardino europeo ottocentesco p. 147 Dal fiore ritrovato al wild garden p. 163

Editoriale Jaca Book via Frua 11, 20146 Milano; tel. 02 48561520 libreria@jacabook.it; www.jacabook.it Seguici su

L’idea del giardino per tutti p. 173 The American Garden p. 191


Il Novecento p. 215 Verso il nuovo millennio: il giardino come fatto mondiale p. 247

Bibliografia e Note p. 277 Indice delle persone e dei giardini p. 284

Nota editoriale Quest’opera nasce come ripresa di un «classico» sulla storiografia del giardino europeo che Virgilio Vercelloni aveva pubblicato per Jaca Book nel 1990 (Atlante storico del giardino europeo), secondo una organizzazione a tavole illustrate con schede critiche. Paola Gallo, che aveva già collaborato all’opera, l’ha completamente riorganizzata per i capitoli che vanno dall’antichità al primo Ottocento, in accordo con Matteo Vercelloni, che ha introdotto il volume e ha scritto i capitoli riguardanti l’America e la modernità sino alla realtà contemporanea. Col presente lavoro intendiamo anche fare omaggio alla memoria di Virgilio Vercelloni che tanto ha operato per la storia del giardino, della città e dei luoghi di comunicazione culturale, con particolare attenzione ai musei sia di storia dell’arte sia della natura.

Invito alla lettura di Alberta Campitelli

La storia dei giardini, come è stato detto dal grande studioso Pierre Grimal, permette di percorrere la storia tout court nelle sue espressioni culturali che sottendono civiltà, assetto sociale, visione politica. A questo rapporto con il reale spesso si sovrappongono sconfinamenti nell’immaginario, nel sogno, nell’inquietudine visionaria. Il giardino è rappresentazione concreta, microcosmo nel quale si riflette un’epoca, ma anche lo spazio dell’evasione, della proiezione onirica, dell’illusione, del teatro. Il passaggio dai giardini lussureggianti delle “candide ville” romane ai raccolti chiostri dei conventi o all’hortus conclusus delle corti medioevali o del primo Rinascimento, segna in modo quanto mai evidente la cesura tra due mondi. A questa differenza subentra la volontà di riconnessione che anima il Rinascimento e si riflette in giardini che recuperano elementi del passato – i pergolati, la topiaria, la presenza dell’acqua – e li immettono in un linguaggio nuovo, originale, emanazione di quell’homo novus poliedrico la cui cultura affonda nella storia ma prefigura una visione proiettata nel futuro. Nel giardino si esprimono le dinamiche del potere: nel ripercorrere gli antichi miti e nell’esaltare gli eroi di un mondo perduto si allude alle virtù degli uomini contemporanei e si costruiscono nuovi modelli. Condottieri, principi e cardinali usano i giardini per esibire potere e virtù, non disdegnano contaminazioni con altre culture e i giardini sono la scena dove si dispiegano e si rappresentano complesse allegorie e si delineano elaborati percorsi encomiastici. La grandeur messa in scena nei giardini barocchi, culminata nelle impressionanti scenografie di André Le Nôtre, è ormai unanimemente considerata lo specchio dell’assolutismo, e Versailles, con le sue aiuole elaborate e le prospettive dilatate all’infinito, è inscindibile dall’immagine dei fasti del Re Sole e della sua corte. Così l’Illuminismo, con un inedito e armonico connubio tra uomo e natura è considerato la matrice del giardino di paesaggio e premessa per l’affermarsi delle passeggiate pubbliche, “democratica” concessione dei piaceri del verde anche al popolo. Questi sono alcuni dei temi che ricorrono in questo libro che, tuttavia, non si limita a ripercorrere le fasi dell’evoluzione del giardino occidentale, dalle origini ai giorni nostri, mettendone in luce relazioni, contaminazioni e intrecci, ma proprio alla luce di questa storia complessa pone una serie di interrogativi sul nostro futuro. Come è destinata a evolversi la presenza del giardino in un mondo sempre più globalizzato? Hanno ancora senso le distinzioni di stili e di riferimenti a determinati ambiti territoriali? I nuovi giardini che si progettano oggi in Italia hanno caratteri diversi da quelli degli Stati Uniti? Sono interrogativi aperti e la storia e la conoscenza del passato possono aiutarci a comprendere il presente e la sua evoluzione. Non a caso a Berlino, nel 2017, in occasio-


Introduzione Oltre il recinto

ne dell’iga, Esposizione Internazionale del Giardino, è stato realizzato il “Garten der Welt”, il giardino del mondo, dove su una superficie di circa quaranta ettari sono stati ricostruiti giardini che rispecchiano le tipologie e le epoche dei cinque continenti, mettendo a confronto stili, storie e culture. È un invito a rileggere visivamente la storia dei giardini in un’ottica globale e non può sfuggire il raffronto con la mostra del Giardino Italiano che si tenne a Firenze nel 1931. All’esaltazione della specificità nazionale di quegli anni si contrappone oggi una visione che, senza negare i caratteri propri di ogni civiltà, li pone in relazione con il mondo, in un’ottica nella quale il giardino, luogo di pace, bellezza e armonia, è anche inclusione e incontro di culture.

1. Il chiostro della basilica di San Paolo fuori le Mura, Roma, xii secolo.

La storia del giardino segue quella di ogni civiltà. La sua nascita si lega alla formazione della città, quando il paesaggio cerca un legame tra natura e architettura, e dove il giardino diventa non solo un tema di riferimento del progetto urbano, ma lo strumento di costruzione del rapporto con la natura inserita, con nuove modalità, figure e linguaggi, all’interno della struttura della città e della razionalità dell’architettura. «Il giardino rappresenta la natura nella città, in un incontro reso possibile dalla mediazione dell’architettura. Luogo simbolico, e non di rado mistico, esso non disdegna l’umiltà della piantumazione funzionale, e anzi, accanto alla leggiadria dei colori e delle piante ornamentali – colori, profumi, forme –, si offre spontaneamente alla praticità dei frutti e delle verdure commestibili»1. Da quelli pensili di Babilonia, il giardino è anche il luogo dell’anima e il Paradiso Terrestre: il paesaggio dell’Eden, archetipo e mito, ricalcava nella trasfigurazione biblica gli antichi giardini della Mesopotamia descritti da Gilgamesh (re di Uruk nel 2700 a.C.) nel suo poema. Così anche il percorso etimologico del giardino si riconduce a significati fortemente simbolici: il paradiso cristiano prende difatti il nome dal pairi-dae’-za persiano, poi pardes ebraico e paradeisos greco. Al giardino-paradiso si associa poi nella civiltà greca il kepos, hortus in latino, luogo di coltivazione perimetrato e cintato, che troverà il suo diretto sviluppo nel giardino-hortus conclusus, le cui radici sono da rintracciare nel termine indogermanico ghordho, poi garten, che indica uno spazio racchiuso, protetto, definito nella sua dimensione. In tale accezione ogni giardino è un recinto: «[...] forma e idea del giardino lo testimoniano. Esso nasce da una definizione e valorizzazione dello spazio – interno/esterno, chiuso/ aperto – cui si accompagna una diversa e mutevole immagine del tempo – eternità/temporalità. La barriera artificiale – segnata sul terreno o determinata dallo sguardo della mente – divide e unisce differenti spazi e tempi, crea l’alterità. [...] Esplorare la figura del giardino obbliga a un doppio percorso – dentro e fuori –, a un esame che guardi alla tensione dialettica che si sviluppa ai confini. La configurazione ideale del recinto non può prescindere da quella che a esso è opposta»2. Nel giardino-recinto occidentale la natura si incontra in un eccezionale equilibrio con l’ordine dettato dalla ragione del progetto, con la geometria degli spazi, con la selezione dei frutti e delle piante, in cui il raggiungimento del massimo risultato estetico si affianca alla dimensione dell’utile. Ma lo spazio verde recintato, chiuso anzi da mura che lo rendono iniziatico e prezioso, mantiene sempre un alto valore simbolico: sorta di mondo nel mondo, Eden privato, luogo di delizia o di raccoglimento, d’iniziazione e catarsi spirituale. Pensiamo al giardino claustrale quale luogo di meditata perfezione dello spazio sacro, ma anche isola astratta, rifugio e microcosmo autosufficiente: sia isolato nei boschi sia calato nel

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più fitto tessuto urbano, esso rimane compiuto in sé, chiuso da mura e dal portone dall’esterno. Sarà infatti proprio questo tipo di giardino ad accogliere e proteggere per diversi anni Jean Valjean, l’eroe de I Miserabili tramutatosi per l’occasione in capace giardiniere, che Victor Hugo collocò nel cuore di Parigi, là dove il pericolo della fine dell’interminabile fuga del protagonista del romanzo era più probabile. Il carattere del giardino come luogo simbolico, protettivo, ma anche di rappresentazione del potere, rimane nella storia tramandandosi nel tempo. Ciò che ci sembra rilevante nell’avvicinarci alla storia dell’invenzione del giardino occidentale, che le pagine di questo libro si propongono di affrontare in forma problematica, anche se volutamente non esaustiva, è il fatto di rompere il recinto, di andare oltre il muro e di fondere il giardino con il paesaggio. Di assumere, cioè, la storia del giardino occidentale come uno strumento per operare nel presente e per affrontare ogni paesaggio come fosse un giardino. Come afferma Franco Zagari, uno dei pochi paesaggisti italiani: «[il giardino è] da sempre uno spazio con una forte valenza simbolica e rappresentativa, tema fondamentale attraverso cui si esprime ogni cultura. Nel tempo moderno questa qualità sempre più esce dal recinto del privato e assume gli spazi esterni della città come campo di espressione, con una vocazione eminentemente pubblica. Per questo possiamo dire che l’architettura del paesaggio è l’arte dei giardini del nostro tempo»3. La rottura del recinto e l’allargamento, perlomeno visivo, dell’idea di giardino al paesaggio in senso lato, avviene nell’ambito della stagione del Romanticismo europeo ma anche precedentemente nel piacere dell’osservazione estatica di cui parla Rousseau; nell’invenzione di quella che è stata definita come la «sorpresa di uno sguardo mobile»4, rivolto all’osservazione e alla contemplazione della natura. Questa, come riferimento, diventa il riflesso di uno stato d’animo soggettivo. Da qui nasce lo stretto rapporto che si instaura tra ruolo e disegno dei giardini ed evoluzione della pittura del paesaggio (Poussin e Claude Lorrain, Salvator Rosa), non più sfondo di una scena, ma spettacolo da offrire come soggetto primario. «Se pensiamo alle strategie della visione che hanno favorito il piacere di una vista solitaria e immersa nella natura, il giardino deve essere pienamente valorizzato. Il belvedere, la veduta, lo sguardo mobile e le varie tecniche di percezione strutturate dagli architetti dei giardini sono stati strumenti che si sono intrecciati con quelli della pittura. Il giardino è parte integrante del paesaggio e la discussione sulla sua appartenenza alla pittura o all’architettura nel Settecento lo dimostra»5. Il giardino pittoresco e poi quello paesaggistico inglese superano la pratica del giardino formale quale imitazione artificiosa e controllo della natura tradotte in motivi geometrici, in simmetrie e in lunghe prospettive, per concepire il giardino come natura, dove l’idea precede l’imitazione e la coincidenza tra paesaggio e giardino tende a sovrapporre artificio progettuale e scena naturale in una sommatoria senza soluzione di continuità. L’importanza dell’aprirsi verso il paesaggio del giardino romantico è stata sottolineata da Arthur O. Lovejoy quando afferma: «Quel molteplice fenomeno che va sotto il nome di Romanticismo può essere non impropriamente definito come convinzione che il mondo sia un englischer Garten su vasta scala. Il Dio del diciottesimo secolo, come i suoi giardinieri, geometrizzava sempre; il Dio dei romantici fu un Dio nel cui universo le cose crescevano selvagge, senz’ordine, nella ricca varietà delle loro forme naturali. La predilezione per l’irregolarità, l’avversione per tutto ciò che sia pienamente intellettualizzato, l’ispirazione a échappées in prospettive confuse: tutte queste tendenze, che alla fine dovevano invadere la vita intellettuale europea in ogni suo aspetto, fecero

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2. Nicolas Poussin, Primavera, 1660-1664.

3. Claude Lorrain, Paesaggio con figure danzanti (matrimonio di Isacco e Rebecca), 1648.

la loro prima moderna comparsa su vasta scala all’inizio del Settecento, nella forma della nuova moda dei giardini»6. È un paesaggio, quello del giardino romantico, che nello sforzo di ricreare e governare la natura, di superare nella percezione dei visitatori l’antico recinto – anche con l’impiego di utili accessori quali padiglioni, rocce artificiali, rovine e ponticelli, arredi e manufatti che concorrono a disegnare la scena complessiva – rimarrà il modello di riferimento dei parchi pubblici ottocenteschi e del Novecento. Come ci ricorda Joseph Rykwert: «Il giardino e il paesaggio che la maggior parte delle persone preferisce (perlomeno in una certa cultura occidentale ricercata) si ispira al gusto dei parchi del xix secolo. Questi parchi rappresentano l’evoluzione naturale dei paesaggi pittoreschi del xviii secolo: in molti casi si trattava infatti di vecchi parchi privati del xvii secolo potati e ripiantati, vivacizzati e resi più originali dall’introduzione di piante esotiche o acuminate provenienti da colonie e imperi, che con ogni probabilità i giardinieri del xviii secolo avrebbero giudicato inaccettabili»7. La tensione verso la creazione di una scena pittorica complessa e compiuta offerta al largo pubblico, accomunava il giardino e poi il parco, scanditi da sentieri e percorsi serpeggianti e tortuosi, quali luoghi dove scoprire diverse e variegate scene vegetali arricchite di manufatti scenografici e di seducenti rocailles, sorta di natura ricostruita e calata nel paesaggio urbano. La lettura offerta da questo libro tende a proporsi come una sorta di introduzione problematica al tema del giardino, oggi proiettato oltre il suo antico recinto, per diventare parte inscindibile del paesaggio con cui instaura nuovi rapporti e diretti confronti in una condizione di necessario pluralismo espressivo e progettuale. Una scena, quella del giardino contemporaneo, in cui la sperimentazione anche interdisciplinare (disegno dei giardini, arte, design e architettura, urbanistica e disegno dello spazio urbano) appare tra le più interessanti e vivaci, identificando nel mondo del giardino e del parco il vertice dell’innovazione del progetto globale, il territorio in continua evoluzione in cui convergono stimoli creativi e consapevolezza ambientale tradotti in forma costruita. «Nella ricerca dei nuovi paesaggisti si nota una progressiva sostituzione di riferimenti: al consueto rimando alla pittura e alla poesia [che rimangono comunque elementi di riferimento di molte significative realizzazioni] si affianca l’osservazione diretta dei diversi ambienti del nostro pianeta, analizzati da uno sguardo intriso di nostalgia e di studiata attenzione. Con i nuovi codici di lettura altri scenari del pianeta hanno fatto ingresso nel paesaggismo: figure come paludi, lande evolutive, foreste tropicali, deserti, ambienti caratterizzati da mescolanze dovute a nuove associazioni e ibridazioni vegetali. Con il declino dell’imperialismo di quella raffigurazione classica della natura, rappresentata dal medium tradizionale del giardino all’italiana o del parco all’inglese assistiamo all’emergere di varie opzioni sia identitarie che disaporiche. [Nel mondo del giardino contemporaneo e del relativo disegno del paesaggio] avviene qualcosa di analogo ai cambiamenti di paradigma che interessano le discipline antropologiche: anche qui siamo di fronte agli effetti della decolonizzazione e a una serie di fenomeni dove nuovi patriottismi, desiderio di produrre località, si mescolano ai flussi globali e a una sorta di movimento transnazionale»8. È in tale contesto che il paesaggista francese Gilles Clément ha delineato la teoria del «giardino in movimento», del «giardino planetario» e ha definito recentemente il «Manifesto del Terzo paesaggio»9. Si tratta di assumere il giardino quale «luogo privilegiato dei cambiamenti [e di essere consapevoli] che la storia dei giardini mostra che l’uomo ha costantemente lottato contro

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questi cambiamenti. Tutto si svolge come se l’uomo tentasse di opporsi all’entropia generale che regge l’universo» (G. Clément). Per Clément il giardino deve essere quindi lasciato libero di non seguire una forma fissata a priori e da questo punto di vista il parallelismo e la coincidenza con il paesaggio naturale appare spinto in chiave programmatico-progettuale. Per arrivare conseguentemente a considerare il pianeta come un giardino: le jardin planétaire, (consacrato in una grande mostra di successo organizzata alla fine degli anni ’90 alla Grande Halle de la Villette parigina). Si tratta di un messaggio di tipo complesso che traduce le istanze ecologiche in una sorta di responsabilità collettiva verso il paesaggio. Se la vita non si spinge oltre i limiti della biosfera assistiamo a una «terribile rivelazione: la terra come territorio riservato alla vita è uno spazio chiuso [...]. È un giardino. Non appena enunciata, questa constatazione rinvia ogni umano, passeggero della Terra, alle proprie responsabilità [...], eccolo divenuto giardiniere» (G. Clément). In questo complesso giardino si trova anche quello che il paesaggista francese definisce come «Terzo paesaggio»; si tratta di tutti quegli «spazi indecisi, privi di funzione sui quali è difficile posare un nome. Quest’insieme non appartiene né al territorio dell’ombra né a quello della luce. Si situa ai margini. Dove i boschi si sfrangiano, lungo le strade e i fiumi, nei recessi dimenticati dalle coltivazioni, là dove le macchine non passano. Copre superfici di dimensioni modeste, disperse, come gli angoli perduti di un campo; vaste e unitarie, come le torbiere, le lande e certe aree abbandonate in seguito a una dismissione recente. Tra questi frammenti di paesaggio, nessuna somiglianza di forma. Un solo punto in comune: tutti costituiscono un territorio di rifugio per la diversità. Ovunque, altrove, questa è scacciata»10. Anna Lambertini identifica in questi spazi residuali, e più in generale in quei terreni che costeggiano le infrastrutture, il luogo contemporaneo di fondazione del giardino del presente: «Nella città europea che, oggi più che mai, è mobile, va, non è ferma (Massimo Cacciari), ed è incerta nella definizione dei suoi limiti e delle sue forme, il nuovo giardino nasce dentro o attorno alle grandi infrastrutture (cantieri, autostrade, aree post-industriali), per funzionare come elemento di qualificazione puntuale e per riaffermarsi come strategia figurativa di trasformazione della dimensione urbana, attraverso la costruzione di sistemi spaziali in cui naturale e artificiale si compenetrano vantaggiosamente»11. Così, non solo viadotti ferroviari dismessi si trasformano in nuovi giardini pensili urbani (il viadotto Daumesnil a Parigi), ma anche infrastrutture abbandonate mutano in modo spontaneo in spazi verdi della città come è successo nel caso della High Line newyorkese. L’associazione Friends of The High Line, impegnata nella conservazione-riqualificazione di un tracciato ferroviario costruito negli anni ’30 per servire quella zona di West Man­hattan conosciuta anche come West Chelsea, dove un tempo arrivavano le merci dalle grandi pianure, ha bandito un concorso di progettazione internazionale che ha avuto esiti sorprendenti esposti al MoMA nell’estate 2005, in parallelo alla grande mostra Groundswell dedicata alla costruzione del paesaggio contemporaneo. Al caso dell’High Line si riferisce anche Alan Weisman nel suo libro dedicato alla descrizione futura del pianeta in assenza dell’umanità: «Molti newyorkesi, affacciandosi dalle finestre di Chelsea, il quartiere degli artisti, sono rimasti così colpiti alla vista di questo spontaneo e lussureggiante nastro verde, profetica e fulminea occupazione naturale di una fetta morta della loro città, da soprannominarlo High Line e proclamarlo ufficialmente parco pubblico»12. Un «giardino in movimento» e spontaneo, secondo la locuzione di Clément.

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5. Val Bavona, grondàn (costruzione in roccia).

4. Jerde Partnership International, Namba Park, giardini e orti pensili sulla copertura del centro commerciale nei pressi della stazione di Namba, Osaka 2003.

L’estensione del concetto di giardino a quello di paesaggio appare ormai accettata dalla cultura del progetto internazionale. È ad esempio significativo che nel 2006 il prestigioso Premio Internazionale Carlo Scarpa, promosso dalla Fondazione Benetton Studi e Ricerche e dedicato alla cultura del paesaggio, ha premiato non un singolo giardino, o un parco urbano, non un’opera di natura artificiale, ma un’intera valle: la Val Bavona, situata a nord ovest del Ticino, in Svizzera. In sintonia con i presupposti del Premio, che dal 1994 «segnala ogni anno un luogo denso di natura e memoria», il riconoscimento del 2006 appare particolarmente significativo e indicatore anche a livello programmatico di nuove tendenze di lettura critica. Si premia un paesaggio, oggetto solo in parte di intervento antropico, riconoscendo che ogni luogo naturale, se ricco di memoria e di storia, in rapporto stretto con la sua comunità, può essere inteso come giardino. Un giardino assunto in realtà non come hortus conclusus, cinto da confini fisici, ma segnato da quelli naturali, come in questo caso le alte montagne che si elevano ai lati della valle, dove la sapienza nel governo del luogo, la responsabilità e la continuità, hanno consentito di far vivere un paesaggio, di ritrovarlo rinnovato, in un equilibrio tra innovazione e conservazione. La Val Bavona conserva i segni della sua storia anche grazie alla consapevolezza di una comunità che si è data strumenti regolatori e norme d’uso del suolo e dell’ambiente, manuali operativi dedicati alle pratiche d’intervento sui manufatti architettonici esistenti e su come eseguire le opere di caso in caso. Si osservano ancora conservate le varie soluzioni costruttive dei sentieri, o la trasformazione dei grandi massi franati divenuti elementi tutori per piccoli orti coltivati o inconsuete coperture per strutture di ricovero spontanee, nei cui anfratti sono state costruite nel tempo strane architetture fuse nella roccia e da essa generate; gli splüi, i cantìn e i grondàn. Come afferma la motivazione della giuria: «La Val Bavona appare un caso degno di speciale attenzione [...] che consiste nella presenza di una comunità dotata di un livello raro di consapevolezza, perfino orgogliosa degli elementi di peculiarità e diversità, i quali non vengono vissuti come antiche miserie di cui vergognarsi, ma, al contrario, vengono percepiti e descritti come eredità da trasmettere, come valori, quasi come privilegi. [...] Possiamo qui conoscere una comunità che, con la sua rappresentanza, prende in carico le testimonianze di una civiltà materiale di cui è provvisoria responsabile, il cui valore non viene da emergenze monumentali o committenze famose, ma dall’ingegno e dal lavoro delle generazioni precedenti». Il riconoscimento, quindi, ha premiato «la forza della storia di lunga durata di un luogo», evidenziando il valore del paesaggio in senso lato e mettendo in luce la problematica tra conservazione e innovazione dei patrimoni di natura e di memoria. La storia dell’invenzione del giardino occidentale, che questo libro si propone di affrontare, porta quindi a scavalcare il recinto, a considerare il paesaggio come giardino collettivo, nella consapevolezza che: «dare oggi alla parola giardino un significato riduttivo, comprensibile solo all’interno di barriere che delimitano il privilegio in un territorio abbandonato al degrado, è inaccettabile dal punto di vista sociale, etico e morale. Il luogo per la costruzione del nostro necessario e indispensabile giardino è tutto il nostro territorio: da quello dei boschi degradati, che devono ritrovare il proprio ecosistema, a quello delle campagne oggetto di inaccettabili sfruttamenti e inquinamenti, a quello, infine, dei nostri paesaggi urbani, così come ci sono stati tramandati dai nostri padri e come noi stessi li abbiamo trasformati. Il grande progetto estetico contemporaneo è quello di una loro complessiva riqualificazione»13.

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L’invenzione del giardino

La natura cambia se stessa e il suo paesaggio nel tempo. Sarà poi l’uomo, dalla preistoria in avanti, a modificare con la sua presenza e con le sue attività la scena botanica del pianeta. Oggi il mondo vegetale è compiutamente antropizzato. Da tutto questo deriva il paesaggio umano, quando, ancora nella preistoria, con le devastazioni (gli incendi delle foreste per la caccia, la desertificazione causata da attività pastorizie intensive), l’uomo iniziò una trasformazione che sarà connotata successivamente anche dal trasporto e dalla domesticazione dei vegetali. A ciò conseguirà la trasformazione di tutti gli ambienti europei, sia forestali che boschivi, sia agricoli che del giardino. In un saggio del 1940, Lucien Febvre, storico co-fondatore delle An­nales, scriveva: «Immagino il buon Erodoto che rifacesse oggi il suo periplo del Mediterraneo orientale. Quali stupori! Quei frutti d’oro, entro gli arbusti verde scuro, che si dice essere caratteristici del paesaggio mediterraneo, aranci, limoni, mandarini: egli non ha il minimo ricordo di averli visti in vita sua... Perbacco! Sono estremo-orientali, importati dagli Arabi. Queste piante bizzarre dalle sagome insolite, aculee, lance fiorite, dai nomi strani: cactus, agave, aloe, come sono diffuse! Ma non ne vide mai per niente in vita sua... Perbacco! Sono americane. Quei grandi alberi dal fogliame pallido che, tuttavia, hanno un nome greco, eucalipto: in nessun posto ne ha visti di simili, in contrade conosciute, il Padre della Storia... Perbacco! Sono australiane. E quelle palme? Erodoto ne scorse nel tempo, nelle oasi, in Egitto: mai sui bordi europei del mare azzurro. Mai, neppure i cipressi, quei persiani». Ma quelle esotiche sorprese botaniche, riferite al mondo dell’agricoltura, saranno ancor più numerose.

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La nascita dell’idea di giardino in Medio Oriente

1. Grafogramma sumero raffigurante un giardino. 2. Banchetto sotto la pergola in un giardino, bassorilievo dal palazzo di Assurbanipal a Ninive, verso il 650 a.C., British Museum, Londra. 3. Ricostruzione dei giardini pensili di Babilonia. Da Athanasius Kircher, 1679.

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In un grafogramma sumero del 3000 a.C. (fig. 1) è compiutamente raffigurato un giardino, con l’albero piantato al centro, all’interno del recinto triangolare. Dal Medio Oriente viene in Europa un’idea del giardino quale luogo di coltivazione dei vegetali non per l’alimentazione dell’uomo o degli animali, ma per le necessità estetiche, della vista e dell’odorato. Dei meravigliosi giardini dell’Oriente si favoleggia nelle prime lingue dei popoli europei. I giardini pensili di Babilonia, si narra, erano la ricostruzione dell’ambiente della patria della moglie di Nabucodonosor, nostalgica dei paesaggi della Media. Quei giardini, che si vuole risalgano all’viii secolo a.C., vennero descritti dal iv secolo a.C. con tutto il loro fascino in numerosi testi (fig. 3). Una leggenda, questa, indubbiamente radicata nella storia di quel Paese: al British Museum, per esempio, è conservata una tavoletta a caratteri cuneiformi proveniente da Babilonia, che enumera le piante coltivate nel

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giardino di Marduk-aplaiddina e porta la data dell’viii secolo a.C., ma è ritenuta copia di un testo più antico. Un bassorilievo del vii secolo documenta che il re Assurbanipal piantumò cedri e bossi, «alberi che nessuno dei re, miei antenati, ha mai avuto». L’idea del giardino, come è ovvio, nacque e si radicò nelle società che potevano concedersi per prime consumi non solo di sopravvivenza, nelle quali cioè una parte del reddito poteva essere impiegata dalla classe dirigente per la qualificazione delle città, dei templi e delle residenze, con i loro giardini. Quando questo avveniva, i popoli europei, i Greci, gli Italici, i Celti e i Germani, avevano un rapporto con il mondo vegetale non di semplice utilità agricola, ma anche di tipo religioso (fig. 4): una radura nella foresta formava il bosco sacro, simbolo del rapporto primigenio uomo/natura. Saranno le interconnessioni tra il mondo classico greco e il Medio Oriente a portare in Europa quell’idea del giardino, dove essa, con l’avvento dell’età ellenistica, imboccherà un nuovo percorso storico. Nell’Egitto del Nuovo Regno, trentacinque secoli or sono, un alto ufficiale si fece affrescare, nella sua futura tomba a Tebe, l’immagine e il senso del suo giardino. Si tratta di un documento (fig. 5) che mostra come in quella società il giardino moderno fosse parte della scena dell’uomo. La cultura ellenistica s’innesterà su quella tradizione, come sulle altre orientali, e proporrà a tutta l’Europa una specifica idea del giardino, basata sul principio della domesticazione estetica della natura per il proprio diletto. A questa sezione storica non è applicabile alcuna idea di progresso, perché l’acme antropologico-culturale è già stata raggiunta. Noi possiamo oggi rievocare e rivivere il piacere dell’antico proprietario che in quel giardino passeggiava: si tratta di un piacere contemporaneo, che noi stessi proviamo nel nostro giardino, coscienti del privilegio rispetto a quanti non hanno questa possibilità. Questo modello è stato ed è offerto a ogni futuro giardino, anche a quelli dei re persiani dopo l’occupazione dell’Egitto nel vi secolo a.C., e al giardino europeo in particolare, che lo introietterà come una sorta di conquista compiuta dall’umanità, un bene prezioso da conservare e riprodurre. Non si tratta, ovviamente, di un modello formale. L’organizzazione geometrica della natura (per fini concettuali di ordinamento, ma anche estetici) è opposta, umanisticamente, sia al governo pratico del paesaggio agricolo sia alla scena della vegetazione naturale. Domesticazione e collazione selezionata della natura esplicitano un perfetto dominio programmatico dell’uomo: così sarà per millenni il rapporto tra l’uomo e la natura nel suo giardino. Sarà questo il principio fondativo di ogni giardino europeo, dall’antichità classica sino alla crisi settecentesca del giardino formale alla francese, quando l’uomo europeo comprese che si poteva costruire un rapporto con il singolo individuo vegetale, come nell’Estremo Oriente si praticava da sempre, anziché solamente con la sua serialità: ma il senso di quel piacere non muterà mai.

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4. l’albero yggdrasil L’albero Yggdrasil è l’albero mitico per i popoli del Nord Europa (Scandinavi e Germani). Possiamo parlare di albero cosmico perché i suoi rami si estendono su tutto il mondo e stanno tra il cielo e la terra. L’albero sorregge i nove mondi che stanno in alto e le sue tre radici, che vanno in direzioni differenti, coprono rispettivamente il mondo degli inferi, quello della fecondità della Terra e la culla della specie umana. Una radice si protende nel cielo e là gli dei tengono consiglio. L’Yggdrasil è il vero pilastro cosmico, asse del mondo, naturale e soprannaturale. La sua simbologia è ricchissima e complessa, e comprende diversi racconti mitici, ma è centrale coglierlo come il luogo dell’Armonia, che, con la sua amplissima calotta di rami e con la vita che emana dalle sue radici, costituisce per gli uomini una forma di giardino-paradiso delle origini, da preservare e conservare.

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Cultura ellenistica e alessandrina: l’idea del giardino da Oriente a Occidente Nella lingua greca, come poi in quella latina, non esiste una parola che definisca il giardino: il termine greco kepos e il latino hortus indicano il recinto per la protezione di un’area coltivata. Più in generale, nelle radici linguistiche indoeuropee, si ritrovano i concetti di recinzione per particolari domesticazioni di vegetali e animali, ma non quello di giardino, semanticamente inteso come luogo del piacere per gli occhi e per l’odorato.

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5. Un giardino egizio nella pittura parietale per la tomba di un alto ufficiale. 6. Un capitello corinzio in una raffigurazione neoclassica.

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Il capitello corinzio, apparso intorno al v secolo a.C., con la sua pietrificazione delle foglie d’acanto, è il primo vegetale architettonico europeo (fig. 6). Nell’Odissea, alla fine dell’viii secolo a.C. si descrivono i giardini favolosi dei luoghi lontani dalle fatiche greche: i giardini d’Alcinoo, per esempio, sono solamente fertilissimi orti, frutteti e vigneti, magistralmente irrigati. Nell’età ellenistica fu attendibilmente la cultura alessandrina a portare in Grecia, e poi da Roma in tutta l’Europa, l’antica idea di giardino egiziano e orientale. Nel iii secolo a.C., quando i settanta saggi ebrei dovevano tradurre il biblico gan‘eden in greco, utilizzarono il più antico neologismo di quella lingua, paradeisos: termine di matrice persiana coniato da Senofonte nel secolo precedente per descrivere i grandi giardini orientali, i parchi da lui visti nelle guerre persiane. Sempre nel iii se-

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colo a.C., gli stoici ironizzavano su chi seguiva la moda, importata dalle nuove capitali della cultura e del gusto, della costruzione dei giardini orientali in Grecia. Fu Teofrasto, successore di Aristotele al Liceo di Atene, a redigere tra il iv e il iii secolo a.C. una prima Storia delle piante in nove libri, e anche l’opera Sulla causa delle piante: per questo fu considerato dalla cultura europea il padre della botanica. Su questa tradizione si innesta l’opera del medico militare Dioscoride, Sulla materia medica, il cui erbario fu il più famoso libro di botanica europeo dal i secolo d.C. al Rinascimento. La botanica, anche con i suoi impieghi terapeutici, e il giardino, iniziano così in Europa un rapporto fertile e continuo.

Il giardino romano e le sue rappresentazioni Il rapporto con la cultura della Grecia ellenistica, con la civiltà alessandrina e con il mondo orientale, è il sistema di alimentazione dell’idea del giardino nell’antica Roma. Il culto di Flora, dea dei fiori e degli alberi, che presiede a tutto ciò che fiorisce, è di

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8. gli automi per il giardino Erone di Alessandria è il celeberrimo autore ellenistico delle opere dedicate alla pneumatica e agli automi. Costruttore di macchine straordinarie, scienziato anticipatore della macchina a vapore, Erone propone giochi da giardino per gli ozi alessandrini. Il raffinato giardino della capitale culturale del Mediterraneo è inquietato da grida di uccelli e dallo stormire di foglie artificiali, quasi che la sola natura non fosse sufficiente a creare meraviglia. Un teorema di Erone ha per titolo: Formare varie voci di vari uccelli; e un altro: Nei luoghi ove si avrà acqua corrente per canale, fabbricare un animale, di rame o di qual’altra materia si voglia, che continuamente gridi: ma portatogli un catino d’acqua esso lo beva senza strepito, e bevutala torni di nuovo a gridare. La prima edizione della traduzione in italiano delle opere di Erone è edita a Ferrara nel 1589. Descrive i meccanismi idraulici per la movimentazione degli automi (qui la scena del dragone a guardia dei pomi d’oro, che sibila contro l’Ercole armato di mazza). Erone fu discepolo di Ctesibio, il fondatore alessandrino di questi studi (che attendibilmente avevano radici lontane nella cultura egizia), e contemporaneo di Filone, altro autore d’invenzioni di meccanica. L’incanto di queste invenzioni permane per secoli, conquista l’Europa medievale e rinascimentale, ma anche il mondo arabo: tanto che nei giardini islamici gli automi, gli animali e le piante meccaniche diverranno meraviglie indispensabili, implicita dimostrazione della raffinatezza dei giardini di quel tempo e di quei luoghi. Quando Roma incontrò la cultura greca, questa aveva già elaborato una concezione classicistica della sua storia artistica e del suo periodo aureo nell’età di Pericle: i romani assimilarono questa concezione coniugandola però con la cultura ellenistica, che, fondando la filologia classica, d’altro canto aveva promosso proprio la concezione classicistica. La storia dell’idea del giardino romano seguirà un percorso definito da queste coordinate.

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7. Trompe l’oeil ad affresco nella Casa del Frutteto di Pompei. 9. Le pareti della stanza-giardino dell’imperatrice Livia.

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origine sabina, ma ben presto viene assorbito dalla cultura ellenistica, si propaga a Roma e in tutto il mondo romano, contemporaneamente al passaggio dal culto della natura al consumo anche estetico del mondo vegetale e, nel rapporto uomo/albero, dal santuario nel bosco sacro al giardino urbano. Le leggi romane, a dimostrazione della diffusione di questi comportamenti, parlano di servitù urbana per impedire che la piantumazione di alberature sul tetto togliesse luce alla casa vicina, e nel contempo accennano alla costruzione di serre botaniche (tiepidari, scriverà Marziale: orticello mai gelato – che verdeggia anche in gennaio). All’otium del cittadino sono offerti i parchi pubblici in prossimità delle terme (scrive sempre Marziale: sentieri rossi inghirlandati di rose), ma il ricco proprietario avrà a disposizione il grande giardino della sua villa suburbana. L’idea del giardino romano ci è stata trasmessa anche da affreschi a trompe l’oeil che illusoriamente formano giardini sulle pareti di una stanza e ne presentano il significato: luoghi preziosamente accuditi e recinti nei quali la domesticazione botanica di essenze anche esotiche è fatta per il piacere degli occhi e dell’odorato, e si manifesta compiutamente come prodotto di valori estetici. Il cubicolo floreale della Casa del Frutteto di Pompei (fig. 7), per esempio, è doppiamente illusorio. Lo zoccolo della parete è dipinto come fosse la raffigurazione esaustiva di una parete affrescata a trompe l’oeil per rappresentare un giardino. Lo spettatore, nella stanza, ha l’illusione di essere all’interno di un architettonico recinto di treillages, sormontato da preziosi vasi, in una rientranza del quale è collocata una scultorea fontana. Dal recinto emergono gli alberi ad alto fusto del giardino. Ma questo zoccolo di per sé autosufficiente, per figurazione e illusione, vuole essere percepito come semplice pittura decorativa, che simula la balaustra di un elegante loggiato: perché sopra di esso vi è il secondo giardino illusorio, più vero del primo, con i suoi alberi calligraficamente rappresentati come fossero in un erbario, delineati come sono con il loro articolarsi di verdi sul fondo nero. Anche la stanza-giardino dell’imperatrice Livia (fig. 9), conservata nella sua completa formazione originale nel Museo delle Terme di Roma, documenta l’organizzazione del giardino romano. Chi è nella stanza pensa di essere nel padiglione di un giardino. Il territorio a sua disposizione è sacralmente delimitato da un piccolo recinto di canne intrecciate. Parallelo a questo vi è un secondo recinto di muratura decorativa, che a volte si allarga per accogliere all’interno un albero ad alto fusto. Fra i due recinti, nel prato, piccoli fiori ed erbe. Oltre il secondo recinto, il grande giardino dei fiori, degli alberi fruttiferi, degli alberi ad alto fusto, sui quali convivono gli uccelli.

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11 e 12. Robert Castell, The Villa of the Ancients, pubblicato a Londra nel 1728. Ricostruzioni dei giardini romani delle ville di Plinio a Laurentum vicino a Ostia e a Tuscum, ai piedi dell’Appennino.

sico romano a quello medievale; dal giardino islamico a quello moghul; da quello rinascimentale a quello formale secentesco; da quello inglese settecentesco a quello ottocentesco; da quello cinese a quello giapponese. La minuziosa descrizione di Plinio, in una lettera all’amico Apollinare, dei giardini delle sue due ville, a Tuscum, ai piedi dell’Appennino, e a Laurentum, sul mare vicino a Ostia, oltre a offrirci una scena letteraria affascinante del grande giardino romano, ha permesso una serie infinita di saggi di ricostruzione grafica delle loro forme. Per la villa di Laurentum si contano venti ricostruzioni, da quella di Vincenzo Scamozzi del 1615 all’ultima ottocentesca. Nell’età dei revivals settecenteschi la storia è sempre storia di comodo. La ricostruzione di Robert Castell, architetto e archeologo inglese dei giardini romani delle ville di Plinio il Giovane, che pubblica nel 1728 a Londra il volume The Villa of the Ancients, non è solo un’operazione filologica, ma l’occasione di diffondere l’idea del nuovo giardino settecentesco inglese, che utilizza in modo strumentale l’avallo di una storia che era stata a questo scopo appositamente edulcorata. Castell era amico e collaboratore di Richard Boyle, terzo conte di Burlington e animatore del neoclassicismo inglese nei primi decenni del secolo (il cosiddetto palladianesimo), nel cui circolo operava Alexander Pope, il poeta che rinnovò l’idea del giardino, contagiando i canoni del giardino formale alla francese con i nuovi princìpi dell’asimmetria e della valutazione estetica della scena vegetale naturale. Le incisioni di Castell (figg. 11 e 12) raffigurano compiutamente questa situazione storica e culturale: il giardino romano è organizzato geometricamente, secondo assi visivi connessi ai complessi architettonici delle ville, così come la descrizione di Plinio delle ville imponeva. Ma ai lati di questi impianti generali, là dove la descrizione suggeriva interpretazioni non univoche, non troviamo ricostruzioni filologiche, ma espressioni progettuali del nuovo giardino inglese alla moda. Si intrecciano in forma poetica sconosciute e complesse geometrie, mentre il disegno naturale appare come il necessario traguardo di quelle inquietudini.

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Una discussa quanto spettacolare ricostruzione della Villa dei Papiri di Ercolano con il giardino e il grande peristilio (fig. 10), voluta da J. Paul Getty in California e inaugurata nel 1974 come manifestazione della sua polemica culturale contro l’architettura contemporanea, offre tuttavia la scena botanica del giardino urbano romano. Gli oleandri, l’edera, le siepi di bosso, il lauro, il mirto, le rose e i pergolati di vigne, nella loro organizzazione geometrica, ne sono i protagonisti. A fianco del peristilio principale è il giardino delle erbe, per gli usi culinari e medicinali, e il frutteto con menta, aneto, coriandolo, origano, maggiorana, camomilla, timo, finocchio, aglio, pisello, melo, pero, pesco, fico e cedro. Una sorta di progetto didattico disneyiano ha presieduto a questa ricostruzione, peraltro filologica e basata sulle più accurate ricerche archeologiche, relative anche ai giardini. L’analisi scientifica dei resti vegetali carbonizzati ha permesso infatti una sorta di ricostruzione generale delle qualità e delle quantità dei giardini di Pompei e di Ercolano che, dopo la ricostruzione di J. Paul Getty, sono state ampiamente comprovate da Wilhelmina F. Jashemski. Questa scena è così storicamente credibile, come fosse un diorama, capace, appunto, di rappresentare ogni ambiente del passato. Una pratica discutibile, questa della ricostruzione di un giardino storico, per la quale sono state proposte però altre sperimentazioni. A Galveston, nel Texas, l’inglese Geoffrey Jellicoe ha programmato per la Moody Foundation la ricostruzione di tutti i paradisi terrestri, attraverso la formazione di un grande giardino comprensivo della storia di tutti i giardini. Dalla foresta primordiale con gli animali selvaggi al giardino egiziano; dal giardino cla-

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10. Ricostruzione del peristilio e del giardino della Villa dei Papiri di Ercolano voluta da J. Paul Getty in California.

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13. la ghirlanda I fabbricanti di ghirlande greci e romani costituivano una specifica categoria produttiva dedita alla coltivazione dei fiori e al loro assemblaggio, per le esigenze delle diverse feste religiose e laiche. La ghirlanda è un manufatto vegetale, una sorta di giardino dei fiori portatile, capace di agghindare persone e ambienti, a volte pietrificato come motivo decorativo architettonico. Le diverse specie vegetali ne connotavano i significati simbolici: la quercia per la forza e l’alloro per la fama. La ghirlanda scolpita sull’Ara Pacis augustea, del i secolo a.C., è una sorta di cornucopia, dichiarazione di tutte le abbondanze. Le ghirlande delle lunette, nelle Logge di Raffaello, sono forse la versione più famosa di una continuità di raffigurazioni pittoriche che affonda le radici nella Roma classica. Raffaello, infatti, interpreta con le Logge il ritorno all’antico e lo trasmette alla storia dell’arte che lo imiterà nei secoli successivi. Il disegno dei Cupidi che intrecciano ghirlande riproduce un affresco pompeiano.

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Hortus conclusus

1. Planimetria dell’abbazia di San Gallo, risalente ai primi decenni del ix secolo. 2. Particolare della planimetria dell’abbazia di San Gallo con il frutteto. 3. Particolare della planimetria dell’abbazia di San Gallo con il giardino della cucina.

Il giardino medievale

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Dall’età tardoantica, le tracce della vicenda del giardino europeo sono labili. Cerniera tra l’antica sapienza e la raffinatezza della cultura alessandrina, e le pratiche greche e romane, è Bisanzio, che tesse con l’antico e il nuovo Oriente altri rapporti, capaci di alimentare anche la formazione dell’Europa dei nuovi popoli. Nelle biblioteche dei monasteri si conservano e si riproducono i testi classici di Teofrasto, di Plinio il Vecchio, di Dioscoride e di Columella, dando continuità a una tradizione dalle antiche radici storiche e culturali, che presto sarà integrata con quella ebraica, e con quella della nuova cultura del mondo islamico. Nella planimetria dell’abbazia di San Gallo che risale ai primi decenni del ix secolo (fig. 1), a sua volta copia di un documento precedente, viene raffigurata minuziosamente la piccola città medievale di un ordine monastico. Nella sua eccezionale complessità, dovuta alle interdipendenze fra le parti, il monastero comprende tre giardini: il giardino della cucina per la coltivazione di erbe aromatiche e verdure, il frutteto nel cimitero e il giardino dei semplici per le erbe medicinali. Nel giardino delle erbe medicinali sono coltivati fagioli, crescione, fieno greco, rosmarino, menta, menta romana, salvia, ruta, crescione d’acqua, cumino e finocchio: ma anche rose e altri fiori. Il frutteto (fig. 2) è suddiviso in tredici aree piantumate, mentre altre quattordici sono destinate alla sepoltura dei monaci. Nel giardino della cucina (fig. 3) i due filari di piccoli campi coltivati contengono: cipolla, porro, sedano, coriandolo, aneto, papavero sonnifero, rafano, bietola, aglio, scalogno, prezzemolo, cerfoglio, lattuga, crescione, pastinaca, cavolo e finocchio. È documentato così anche l’ordinamento di un giardino monastico medievale, e il concetto paesaggistico, eloquentemente espresso dal frutteto che accoglie anche il cimitero. Uno schema grafico rappresenta la complessa organizzazione tipica del giardino medievale, secondo l’analitica ricostruzione che ce ne dà Francesco Fariello (fig. 4). Dall’ingresso si accede alle aiuole con fiori e si prosegue verso il prato con fontana e padiglioni. Vi si notano altre aiuole con erbe che si integrano con l’antica figura del labirinto e con il padiglione del bagno. Le altre aree del giardino sono destinate ai pomari, ai verzieri, al viridario e alla peschiera. Nel giardino medievale europeo, l’acqua ha il significato di un preziosismo esotico presente fino ad allora nel giardino islamico, con questo valore semantico. Ne è dimostrazione la catena composta dalla fontana centrale coperta da un padiglione architettonico, dal padiglione per i bagni e dalla peschiera. Secondo la letteratura del tempo, fortemente connessa ai testi della cultura romana, il pomario è il frutteto nel quale gli alberi sono piantuma-

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ti regolarmente a quincunx, e suddivisi secondo le loro specie. Il viridario è il luogo degli alberi sempre verdi (pini, cipressi, abeti, allori, ulivi), il sito prediletto per ripararsi dalla calura estiva e dall’avifauna. Il verziere o erbaio è lo spazio dedicato alla domesticazione e alla produzione delle erbe medicinali e di quelle necessarie alla cucina e alla profumeria: menta, salvia, rosmarino, timo, basilico e ruta. Nelle aiuole si coltivano rose, viole, gigli, gelsomini, giacinti e lillà. Il giardino medievale è delimitato dal suo recinto, perché l’area sottratta al più ampio contesto agricolo per le necessità della contemplazione e della produzione specializzata è un’area destinata a usi privilegiati. Questa perimetrazione, anche simbolica e sacrale, si moltiplica all’interno, nella suddivisione delle parti e delle aiuole, cosicché il giardino diviene una scacchiera infinita di diverse preziosità, con una classificazione facilmente comprensibile e culturalmente dominabile.

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5. il giardino emblematico L’unicorno (o alicorno, o liocorno) è stato il simbolo medievale della purezza, tanto che solo una vergine poteva avvicinarlo. Legato al culto della dea-madre, venne adottato come riferimento alla verginità di Maria, assumendo il valore di un’allegoria di contenuto cristiano. L’hortus conclusus, le cui mura o il cui steccato circondano la Vergine e l’unicorno, è una figura consueta di questa simbologia che spesso si avvale di realistici parchi e giardini. La caccia all’unicorno, in questo particolare di un arazzo francese della fine del xv secolo conservato a New York, descrive la lotta tra l’homo selvaticus, aiutato dai suoi feroci cani, e l’animale fantastico, il cui mito del corno magico venne alimentato da una sapiente commercializzazione medievale del dente del narvalo da parte dei pescatori del Nord Europa. La figurazione allegorica, per apparire più credibile, doveva appoggiarsi a una scena realistica e famigliare per chiunque. Qui la scena è la fitta foresta, il luogo destinato alle cacce

4. Francesco Fariello, ricostruzione grafica dell’organizzazione tipica del giardino medievale.

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dei potenti o dei loro servi, una sorta di dispensa vivente, un contenitore biologico per la vita di qualsiasi selvaggina, da cui il popolo è escluso. L’antica radura nel bosco, il luogo sacro dei culti pagani, è qui sostituito dal giardino, un hortus conclusus delimitato da uno steccato appositamente formato per la domesticazione a spalliera del roseto. La spalliera a roseto è la forma più documentata dal materiale iconografico del tempo impiegata per definire lo spazio sacro del giardino. Nell’antichità, la rosa era sacra a Venere. Ma la rosa entrò anche nelle categorie del simbolismo cristiano: Maria Vergine è definita rosa senza spine, in relazione alla leggenda secondo la quale le rose, prima della caduta dell’uomo, non avevano spine. Così, questo giardino nella foresta, il giardino dell’unicorno, è un giardino fortemente simbolico, ma nel contempo la sua scena figurativa e l’ambientazione sono di tipo realistico, e i suoi componenti, con i diversi significati allegorici, sono anche i componenti reali di ogni giardino. 6. Miniatura in un codice redatto per Francesco i. L’immagine è anche la rappresentazione di un hortus conclusus medievale.

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Il giardino simbolico Quale territorio di confine tra due mondi, il giardino della fine del Medioevo esprime tutte le valenze semantiche accumulate nei mille anni della sua storia europea. Passibile di infinite letture simboliche e iconologiche, una miniatura (fig. 6), parte di un codice redatto per Francesco i, permette di conoscere anche il senso del giardino tardomedievale, prima che l’età umanistica e quella rinascimentale impongano le loro innovazioni antropologico-culturali. La prima lettura interessa il rapporto

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tra la piccola città, il castello, e il suo territorio. Il paesaggio che accoglie la grande architettura ha sullo sfondo un altro castello che, con quello in primo piano, dimostra che la rete di queste presenze è la struttura del potere politico ed economico, ma anche culturale. Un grande bosco al di là del fiume e i campi coltivati indicano la presenza del mondo dell’agricoltura, che sostiene quell’economia. In primo piano, fuori dalle mura, sono i fiori a crescita naturale e gli insetti. Il grande muro delimita l’estraneità del giardino da quel territorio, un perimetro che lo rende sacro e privato, riservato agli eletti che potranno accedervi. L’allegoria pone all’ingresso la Natura, che ha nelle mani le chiavi della porta, ma all’interno si trova Venere, la dea dell’Amore, nuda sotto l’albero; Giunone, la regina degli dei, che propone la virtù come modello di vita; e infine Minerva, dea della sapienza. Questo giardino, un hortus conclusus medievale, è organizzato in regolari aiuole coltivate con erbe preziose e fiori, intercalate da alberi ad alto fusto. Una lunga aiuola, inoltre, è accostata al muro: delimita il terreno per una coltivazione particolare, quella dei roseti o di altri fiori a spalliera, che dovrebbero ricoprire tutto il muro. Così, l’illusione di essere nell’interno di un giardino, in un compiuto e definito microcosmo, così come qualunque hortus conclusus tende ad essere per definizione, è un progetto fattibile. Presto anche le corti di castelli o di dimore urbane utilizzate per le feste saranno decorate, sia pure temporaneamente, da graticci intessuti da fiori, proprio per ricreare la scena vegetale di un hortus conclusus.

Il giardino reale Il giardino è anche il luogo della domesticazione dei sentimenti. Nel giardino tardomedievale si composero e si consumarono madrigali e poesie galanti. Nelle miniature del

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9. Una nobildonna dà istruzioni alla giardiniera. Miniatura di una versione olandese della Cité des Dames di Christine de Pisan, 1475.

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7. Miniatura del Missel di Renaud de Montauban del xv secolo. 8. Il giardino all’interno delle fortificazioni di un castello signorile. Miniatura del Maestro di Antoine Rolin, nel Livre des échecs amoureux di Evrart de Conty, verso il 1495.

tempo, come quella del Missel di Renaud de Montauban, della metà del xv secolo (fig. 7), si descrive un momento tipico della vita nel giardino, durante il quale si affinano i sentimenti più delicati. Vi si raffigura l’insostituibilità del giardino quale ambiente in cui è possibile manifestare pienamente la propria attitudine verso una raffinata sensitività. L’abbigliamento elegantissimo delle due figure dimostra anzitutto il tipo di frequentazione all’interno di un giardino cortese del tempo. La grande panca in mattoni nel cuore del giardino, forma un’aiuola elevata rispetto al piano, ed è pensata per la sosta e la conversazione. All’interno di alcuni edifici, il giardino è egualmente perimetrato da un’architettonica recinzione a graticcio, a indicare che quello spazio ha una sacralità diversa dal contesto edilizio limitrofo. Si tratta di un giardino di erbe e di fiori, nel quale, però, la presenza della cultura materiale e artistica è prevalente. Anzitutto la fontana, riserva della linfa della vita, esprime il tipo più diffuso nel tardo Medioevo, nel suo assetto simbolico di tazza sopraelevata da terra e sostenuta da una colonna. I due vasi sono espressione della raffinatezza del gusto, in quanto opere architettoniche e decorative che, oltre a compiere la loro funzione, devono documentare lo stato dell’arte delle ricerche figurative nell’applicazione all’oggetto d’uso di tutte le qualità artistiche. I territori dei due vasi, diversi da quello del giardino, accolgono due particolari e sofisticate domesticazioni vegetali. La prima è un piccolo treillage cilindrico nel quale è governata la crescita di fiori, che implica un rapporto amichevole ed estetico con quei fiori, diverso da quello verso le altre coltivazioni nel giardino. La seconda contiene un alberello potato geometricamente secondo le tecniche e la cultura dell’ars topiaria, per la formazione di ombrelli sovrapposti, a dimostrare la meraviglia della natura artificiale. Nel manoscritto della metà del xv secolo di un manuale di astronomia e geografia intitolato De Sphaera, attribuito ai fiorentini Gregorio e Lorenzo Dati, è contenuta una scena di vita nel giardino. La miniatura (fig. 10) raffigura l’insieme e racconta le sue

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tamburo e liuto ne sono la necessaria alimentazione. Gli alberi ad alto fusto delimitano un giardino di erbe e fiori. Letteratura e arti figurative confermano questo modello di comportamento nel giardino tardomedievale, quasi fosse, appunto, la dichiarazione di un’aspirazione verso un preciso modo di vita, più che una descrizione.

Il giardino e la letteratura Giovanni Boccaccio descrive dettagliatamente nel suo Decamerone (della metà del xiv secolo) il giardino privato italiano del tempo. Nelle illustrazioni (figg. 11 e 12), che provengono da edizioni quattrocentesche dell’opera, si raffigura un pergolato architettonico ricoperto di viti («vie ampissime, tutte diritte come strale e coperte di pergolati di viti»), contornato da essenze e da uno straordinario prato fiorito («era un prato di minutissima erba e verde tanto che quasi nera parea, dipinto tutto forse di mille varietà di fiori»). Il proemio della terza giornata del Decamerone ci introduce nel giardino trecentesco connotandolo con la descrizione delle sue parti: «...sopra una loggia che la corte tutta signoreggiava, essendo ogni cosa piena di quei fiori che concedeva il tempo [...] tutte allora fiorite sì grande odore per lo giardin rendevano, che, mescolato insieme con quello di molte altre cose che per lo giardino olivano, pareva loro essere tra tutta la speziera che mai nacque in Oriente: le latora delle quali vie tutti di rosai bianchi e vermigli e di gelsomini erano quasi chiuse [...] chiuso dintorno di verdissimi e vivi aranci e di cedri, li quali, avendo i vecchi frutti e i fiori ancora, non solamente piacevole ombra agli occhi, ma ancora all’odorato facevan piacere [...] Nel mezzo del qual prato era una fonte di marmo bianchissimo e con maravigliosi intagli [...] Il vedere questo giardino, il suo bello ordine, le piante e la fontana co’ ruscelletti procedenti da quella tanto piacque a ciascuna donna e a’ tre giovani, che tutti cominciarono ad affer-

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interdipendenze con un contesto di tipo urbano, a dimostrazione che anche nel cuore della città l’hortus conclusus, laico e privato, costruiva uno spazio di dolce evasione dalla realtà che era estraneo alle fatiche quotidiane. Molte immagini analoghe di vita nel giardino dimostrano che l’evasione era anche una sorta di sperimentazione, oltre che pratica, di una vita diversa rispetto a quella degli affanni tradizionali, stabile e non solo temporanea, forse perseguibile, sia pure da pochi. Protagonista di questo giardino urbano è l’eros. La riscoperta del rapporto tra l’acqua e il corpo, radicata nel ricordo del mondo classico romano, in questo caso espressa dalla grande vasca simbolica della Fontana della Giovinezza, nella quale si svolge il diletto del bagno, dimostra la presenza prevalente dell’eros. La gestione dei sentimenti trova nel giardino il suo luogo deputato. La musica è uno specifico compendio di quella vita: canto, strumenti a fiato,

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10. Miniatura contenuta nel manuale di astronomia e geografia De Sphaera attribuito a Gregorio e Lorenzo Dati. 11. Miniatura della quarta giornata del Decamerone, settima novella: Simona e Pasquino e le foglie di salvia. 12. Un pergolato simile a quello raffigurato nella miniatura precedente, tratto da un’altra edizione dell’opera di Boccaccio, sempre quattrocentesca.


mare che, se Paradiso si potesse in terra fare, non sapevano conoscere che altra forma, che quella di quel giardino gli si potesse dare, né pensare, oltre a questo, qual bellezza gli si potesse aggiungere. Andando adunque contentissimi dintorno per quello, faccendosi di vari rami d’albori ghirlande bellissime, tuttavia udendo forse venti maniere di canti d’uccelli, quasi a pruova l’un dell’altro cantare». Una descrizione, questa, che è anche una dichiarazione antropologico-culturale del significato che la classe dirigente del tempo attribuiva al giardino, facendone tra l’altro un elemento insostituibile nella scena della vita quotidiana. Nella Francia del xiii secolo, il poema didattico-galante Le roman de la rose, per la prima parte opera di Guillaume de Lorris, descrive il rapporto tra il protagonista e una rosa straordinaria e bellissima da lui subito amata, pregna di diversi simbolismi, circondata da altre figure simboliche: Bellezza, Ricchezza, Cortesia e Giovinezza. Riuscirà a baciare la Rosa con l’aiuto di Venere. Il giardino come metafora del traguardo del viaggio iniziatico è una figura letteraria diffusa. Nell’immagine (fig. 13) i pochi ed essenziali segni formano inequivocabilmente la scena di ogni giardino, un luogo recintato per rendere sacro il sito e per proteggerlo dagli animali: la sua porta d’ingresso ingloba allegoricamente tutti i valori simbolici di luogo d’accesso alla felicità, alla sapienza e all’amore. I roseti sono le quinte vegetali dell’immagine del giardino delle rose. Ma tracce di erbe preziose sul prato sono suggerite da alcuni segni grafici. Il giovane ben agghindato, con un’elegante capigliatura e un prezioso cappello piumato, ha il privilegio, certamente non dato a chiunque, di essere in quel giardino; sembra dimostrare la coscienza dell’importanza di poter utilizzare quel privilegio. La rosa, il fiore del romanzo poetico, nel contempo è un fiore reale. Il rapporto uomo/fiore è eterno. Esprime il sentimento del gardener di ogni passato e di ogni futuro, mentre gusta con la vista e l’odorato il prodotto della sua amorevole fatica di coltivatore. Il piacere estetico di un rapporto con un fiore, infatti, è connesso ai sentimenti dell’uomo di tutti i tempi, senza riferimento alle diverse società e alle diverse culture, ed è basato sulla bellezza della vita naturale, connaturata alla fioritura del mondo vegetale. Una ricerca specifica sulla storia delle illustrazioni delle diverse edizioni de Le roman de la rose, manoscritte o a stampa, potrebbe dare utili indizi su come si consolida l’idea del giardino nell’epoca tardomedievale. In una miniatura tratta da un manoscritto del xv secolo (fig. 14), l’hortus conclusus è delimitato dalle alte mura in primo piano e sullo sfondo della scena, che paiono perimetrare un vasto giardino simile a una piccola città. Entrarci è sempre fatica iniziatica, come dimostra la donna che conduce il giovane verso la porta. Il giardino è formato da un fitto sistema di alberi ad alto fusto, anche fruttiferi. Lungo il perimetro interno dell’alto muro merlato, il roseto continuo è domesticato a spalliera, grazie a un adeguato traliccio. Centrale rispetto alla scena, nell’illustrazione citata, la grande architettonica fontana a forma di gigantesca coppa coperta con vasca interrata, documenta l’adozione di complessi meccanismi idraulici. Dalla vasca l’acqua è incanalata in un manufatto di pietra per le esigenze del giardino murato da cui fuoriesce attraverso un’apertura del muro. Attorno alla vasca, un prato fiorito: è il luogo della vita nel giardino. Si canta e si suona; i giovani, tutti elegantemente agghindati, intrecciano un sentimentale dialogo di sguardi, a dimostrare lo stretto rapporto tra cultura e natura domesticata. In

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13. Xilografia in un’edizione a stampa del 1481 de Le roman de la rose.

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14. Miniatura in un’edizione del xv secolo de Le roman de la rose.

questo giardino dei sentimenti una balaustra architettonica in legno divide questa parte del giardino dall’altra, cui si accede dalla porta ad arco, nella quale il giardino è organizzato in regolari e squadrate aiuole per la coltivazione di erbe e fiori. Che il giardino sia anche un eccezionale habitat per l’avifauna, lo dimostrano le quantità d’uccelli che vi convergono e insieme la presenza di uccelli decorativi, come testimonia il pavone fermo sulla balaustra.

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Botanica medicinale e giardino: il Tacuinum sanitatis Tra il Trecento e il Quattrocento si diffonde in Europa un nuovo genere di libro botanico: il Tacuinum sanitatis. A differenza dell’erbario antico, che classifica tutta la botanica anche per fini medici, il tacuinum è un vero e proprio trattato di medicina che si diffuse anche grazie alle interdipendenze di diverse scuole mediche (come sarà per la Scuola Salernitana, che alla cultura greca, ebraica e islamica si alimentava). Il fine di quella medicina complessa e psicosomatica era l’uomo, con i suoi umori e il suo modo di vivere. Così, le scene dei tacuina sono rappresentazioni realistiche della vita dell’uomo, a volte in giardino. Il tacuinum discende dalla sapienza della medicina araba, così come il suo nome, che deriva dall’arabo taqwim (che meglio sarebbe stato tradotto con tavola). Le tavole raffigurano spesso il giardino del tempo e insieme illustrano una pianta medicinale. Vi è una tavola (fig. 15) tratta dal codice Casanatense (attendibilmente della fine del xiv secolo) nella quale si rappresenta un giardino ornato da preziose erbe, in cui protagonista è il grande roseto. Una ragazza coglie le rose, l’altra intreccia una ghirlanda di rose, mentre un serto dello stesso fiore le cinge la fronte. L’illustrazione, pur minuziosa nella descrizione della scena e della botanica in essa rappresentate, non ha riferimenti con quelle dell’erbario, nel quale in primo piano è raffigurato solo il vegetale, per i necessari riscontri con il reale. Vi si rappresenta con realismo il modo di consumare un giardino, essendo le finalità mediche della pubblicazione

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15. Tavola del codice Casanatense Tacuinum sanitatis, probabilmente della fine del xiv secolo. 16. Veduta attuale del Giardino dei Semplici nel chiostro del convento di San Bernardino a Fiesole. Gli ordini mendicanti ripresero dalla tradizione monastica l’uso di coltivare piante per utilizzo medicinale.

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17. Tavola del codice di Vienna, Tacuinum sanitatis, probabilmente della fine del xiv secolo.

integrative e autonome. L’atteggiamento, i modi delle due ragazze e il loro abbigliamento, ne testimoniano il valore semantico. Il giardino trecentesco è il luogo ove si accudisce con perizia tecnica e con affetto alla domesticazione dei vegetali, come nel caso del Giardino dei Semplici. In un’altra tavola (fig. 17) tratta dal codice di Vienna (verosimilmente della fine del xiv secolo) tutta la scena è caratterizzata dal vaso, il contenitore dell’alimento per la vita. Il vaso, come l’urna, comunica il senso del tesoro, mentre quello per le coltivazioni comprova la presenza della riserva di vita al suo interno. Possibile solo a una civiltà capace di produrlo, il contenitore è un manufatto connesso al divenire della cultura materiale dell’uomo. Nel giardino, il vaso sollecita la mobilità della vita botanica e del suo necessario territorio, anche in relazione alle coltivazioni, alternate secondo le stagioni, nelle serre. L’illustrazione è dedicata alla maggiorana e il testo recita: «Natura: calda e secca in terzo grado. Preferenza: quella piccola tritata e di buon odore. Giovamento: fa bene a uno stomaco freddo e umido. Danno: nessuno. Cosa produce: sangue purificato. Fa bene ai temperamenti freddi e umidi, ai vecchi, in inverno, in autunno e nelle regioni fredde».

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Il giardino della scena è sinteticamente e simbolicamente denotato dai due grandi alberi e il fitto insieme di erbe del prato. Il tavolo dimostra che il sito è anche luogo di lavoro botanico. La coppia delle persone è abbigliata con un’eleganza che dimostra il loro lignaggio e, forse, una loro specifica professionalità botanico-medica. Ne risulta perciò l’idea di un consumo mondano e laico del giardino, anche di quello della botanica medica. Il giardino del tempo è una scena fissa e insieme di mutazione biologica necessaria alla vita dell’uomo.

Agricoltura e giardino Con la nascita dell’editoria, nell’Europa del xv secolo, l’idea del giardino conosce nuovi strumenti di diffusione. Gli incunaboli permettono una divulgazione dei testi quantitativamente e qualitativamente superiore a quella dell’età della copia dei manoscritti. La xilografia, che integra quei libri, è inoltre una forma di comunicazione sintetica ed efficace mediante figure, sia per la tecnica (non essendo possibile ottenere dall’incisione la minuziosità della miniatura), sia per il nuovo significato dell’immagine. La xilografia nei primi libri stampati non è mai una decorazione, come era a volte la miniatura nel manoscritto, ma una parte organica e insostituibile della comunicazione del testo. Una sua sintesi figurativa, appunto. Il testo stampato nel 1495 a Firenze intitolato De Ruralium Commodorum, fu scritto e diffuso manoscritto attorno al 1305 dal bolognese Pietro de Crescenzi, in dodici libri dedicati alla gestione di un’azienda agricola modello, l’ottavo dei quali tratta de giardini et le cose delectevoli d’arbori et erbe et fructo loro artificiosamente da fare. Si basava teoricamente sull’antica tradizione classica romana e sull’esperienza medievale. Quell’artificiosamente stava a significare che quel giardino doveva essere progettato con sapienza, perché divenisse espressione della moderna cultura dell’uomo nel governo della natura per le sue utilità e per il suo diletto. Da qui l’importanza della figura: capace di comunicare in forma immediata il senso del giardino moderno, come fosse l’assemblaggio degli ingredienti indispensabili alla sua formazione. Nell’immagine (fig. 18) il giardino è cintato anche con delimitazioni di traliccio, mentre la recinzione di muro accoglie i vasi per la coltivazione dei fiori. Le erbe coltivate sono offerte anche all’interesse di un piccolo coniglio, simbolo di fertilità. L’impianto umanistico si esprime con il sistema architettonico di treillages, sui quali si avviluppa la vite. Nella parte centrale del manufatto è una grande fontana a tazza. L’illustrazione insegna anche come vivere nel giardino: con sentimento una donna (alla presenza del coniglio) deve ascoltare musiche e canti. Se questa era una comunicazione rivolta a tutti, significa che così si usava allora il giardino. La fatica necessaria ad accudire un giardino è stata oggetto di molteplici rappresentazioni in tutte le civiltà. Vi sono diverse edizioni dell’opera di Pietro de Crescenzi De Ruralium Commodorum, nelle quali la rappresentazione simbolica di quelle fatiche si esprime tramite l’insieme di momenti del lavoro, realistici e famigliari per chiunque. Nell’illustrazione tratta da un’edizione parigina del 1486 (fig. 19), è il tempo di occuparsi della coltivazione accurata delle piante. Il giardino è cintato da un grigliato di legno che lo isola dall’ambiente presumibilmente destinato alla produzione agricola. L’emergenza della figura del recinto in ogni rappresentazione di giardino ha un forte significato in quanto enfatizza l’eccezionalità dell’uso di un’area, il suo significato sacrale riferito a una produzione non necessaria alle esigenze della sopravvivenza alimentare e la sua funzione di difesa di un artefatto da quel più generale contesto, prima concettuale che materiale. Sui tralicci del recinto si avvolgono i rampicanti. Nel prato, erbe e fiori denunciano una specifica coltivazione. La potatura e la piantumazione sono le attività necessarie alla formazione e alla conservazione di un giardino, che devono essere eseguite con continuità nel tempo, secondo le esigenze che si manifesteranno nel succedersi delle stagioni. Queste fatiche devono essere eterne, l’esistenza stessa di un giardino e del suo significato lo richiedono. La mancanza di gestione porterà al degrado questo prezioso micro-

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18. Xilografia in un’edizione stampata a Firenze nel 1495 del De Ruralium Commodorum, testo scritto e diffuso manoscritto intorno al 1305 da Pietro de Crescenzi. 19. Illustrazione tratta da un’edizione parigina del 1486 del De Ruralium Commodorum di Pietro de Crescenzi.

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20. Le attività agricole nel giardino del castello, miniatura di Simon Bening dal Livre d’heures Hennessy, Bruges, verso il 1530.

cosmo di natura artificiale voluto dall’uomo per il suo piacere e perciò conservabile solo grazie al suo amore e alla sua fatica. Il resto è natura selvaggia. Questa non sarà mai un giardino, anche quando, in futuro, alcuni progetti estetico-naturalistici vorranno proporla come tale, nel tentativo di dimostrare la possibile comprensione estetica di tutta la natura in tutte le sue manifestazioni.

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Dal sogno umanistico

al giardino rinascimentale italiano Architettura e giardino

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1. Filarete: disegno di palazzo-giardino nel suo Trattato di Architettura, scritto tra il 1461 e il 1464 e dedicato a Francesco Sforza. 2. Leonardo da Vinci: schizzo per la realizzazione di un padiglione nel parco degli Sforza a Milano.

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Verso la metà del xv secolo, Antonio Averlino, detto il Filarete, progetta un’architettura particolare, un palazzo-giardino nel quale il mito del giardino pensile rivive durante l’età umanistica. Si tratta di uno dei primi tentativi di integrare la nuova architettura al giardino, invece di collocarlo a lato dell’edificio come voleva la tradizione. Alla fine del secolo, invece, Leonardo da Vinci progetta padiglioni per l’organizzazione architettonica del grande parco degli Sforza a Milano. Il Trattato di architettura del Filarete fu scritto presumibilmente tra il 1461 e il 1464 e fu dedicato a Francesco Sforza, la cui signoria governava Milano. Si tratta del primo scritto teorico in lingua volgare nel quale si racconta il progetto per la costruzione di una città ideale, Sforzinda, considerata indispensabile a quella signoria. La Ca’ Granda, antico ospedale in Milano, prova il significato e la grandezza di quelle proposte e di quel sogno. Un disegno (fig. 1) contenuto nel trattato propone un palazzo-giardino, un tipo inconsueto nel quale un complesso sistema di strutture pensili trasforma le coperture del palazzo in un continuo giardino. Negli ultimi decenni del secolo, Leonardo da Vinci opera a Milano alla corte dello stesso Sforza. I suoi studi e progetti, come pure le sue realizzazioni, interessano l’urbanistica e la navigazione, l’architettura e l’idraulica, la scultura e la pittura, la natura e la scienza. Il suo apporto alla formulazione del vastissimo giardino-parco che sorgeva alle spalle del Castello di Milano, allora residenza degli Sforza, non è stato sufficientemente documentato. C’è un disegno (fig. 2), uno schizzo preparatorio per la costruzione di un padiglione architettonico nel parco, di cui non esiste reperto. Ma il significato di quel parco, della vita che vi si svolgeva e delle sue meraviglie anche architettoniche, rimane nei documenti letterari, che dimostrano come le cacce e le feste in quel luogo erano allestite di continuo. Nella cosiddetta Sala delle Asse del Castello, sia pure con restauri discutibili, è ancora conservato il grande affresco della volta, un raffinato trompe l’oeil di intreccio vegetale, una sorta di protesi del parco nell’edificio. L’architettura e il giardino si fondono nel primo Rinascimento italiano quando propongono il nuovo tipo di palazzo che comprende l’area dedicata alla domesticazione e alla contemplazione della natura vegetale. Nasce come un’interpretazione originale dell’hortus conclusus medievale, che è ricavato pragmaticamente all’interno delle mura di un castello o di un monastero; ma qui il giardino diviene anche la parte centrale dell’intero organismo, di grande rilevanza prospettico-assiale. Già nel trattato teorico di architettura De re aedificatoria di Leon Battista Alberti che fonda la cultura

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rinascimentale, diffuso dal 1452 e stampato dal 1485, il giardino è considerato come una componente essenziale dell’abitazione, con specifiche connotazioni e prescrizioni: impianto simmetrico e coordinato, o meglio integrato, con l’edificio; movimenti d’acqua correlati alla rinnovata attenzione per gli studi d’idraulica; scalinate che collegano i dislivelli; grotte e ninfei; utilizzazione delle essenze sempreverdi per conservare al giardino una sorta di immutabilità. Fra le prime attuazioni compiutamente conservate di questa proposta, è il giardino del Belvedere in Vaticano (figg. 3 e 4) costruito da Do-

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3. Veduta del giardino del Belvedere in un’incisione di Francesco Panini. 4. Pianta e sezione del giardino del Belvedere in Vaticano, costruito da Donato Bramante.

5. Raffigurazione di Villa Giulia in un affresco della Collezione Castellani, Museo Etrusco di Villa Giulia, Roma. 6. Pianta e sezione di Villa Giulia a Roma completata dal Vignola (Jacopo Barozzi) tra il 1551 e il 1553.

nato Bramante tra il 1503 e il 1504. La tradizionale corte di un grande palazzo diviene un compiuto giardino, la cui simmetria d’impianto non si esalta più in serialità vegetali, ma è promossa da un’ordinata raccolta delle diversificate meraviglie vegetali, offerte alla percezione visiva entro la scena compiutamente architettonica che lo delimita, e distribuite lungo gli articolati pendii da cui ricadono le acque incanalate. Per tutta l’epoca dominata dal pensiero rinascimentale, sarà il modello del giardino del palazzo urbano il riferimento culturale di ogni giardino all’italiana. La continuità del modello è dimostrata

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dalla pianta e dalla sezione della Villa Giulia (figg. 5 e 6), completata a Roma tra il 1551 e il 1553 da Jacopo Barozzi detto il Vignola, l’architetto che rappresenta il periodo di transizione tra Manierismo e Barocco.

La storia come programma Nel 1499, l’editore e umanista Aldo Manuzio pubblica a Venezia il lavoro di Francesco Colonna Hypnerotomachia Poliphili, che rappresenta il monumento del libro illustrato quattrocentesco. Il racconto, che descrive il sogno di una lotta d’amore dell’amante di Polia, ha una struttura antica che ripercorre i modi narrativi del Medioevo e, pur essendo scritto in lingua italiana, non è comprensibile per chi non conosca quella latina. Gran parte del sistema delle centonovantasei illustrazioni è dedicato al giardino moderno. Una xilografia (fig. 7) illustra figurativamente il brano del racconto nel quale Polia, che ha alle spalle un boschetto davanti al quale sostano alcune figure, va incontro a Polifilo. L’incontro avviene in un giardino con fiori e arbusti in primo piano, sotto un pergolato architettonico le cui pareti e la cui copertura a botte sono ricoperte da vegetali. L’edificio virtuale, un padiglione che forma uno spazio trasparente, è formato da ricche colonne di marmo che reggono le centine a semicerchio che sostengono la copertura a botte. All’interno del padiglione vi sono due panche per la sosta e la conversazione. Sono queste immagini che propagandano l’idea del giardino rinascimentale, o meglio, considerata la modesta diffusione della prima edizione, ne registrano la predisposizione verso una vasta cultura antiquaria che ha interessato la seconda metà del secolo a Venezia e nel suo territorio, a Padova e Mantova. Così, il giardino rinascimentale non può che essere la riproposta, anche se ipotetica, del giardino dell’età d’oro della cultura classica, greca e romana, della quale architetti e pittori, scultori ed epigrafisti ricercavano, anche in terra veneta, tracce e documenti, da trasformare in avallo storico e scientifico per il nuovo gusto. Il sistema di queste eccezionali xilografie, delle quali non si conosce l’autore, comunica anzitutto il senso del nuovo giardino, e del modo di viverlo. L’alternarsi di pagine del racconto con immagini sembra essere la documentazione realistica e anticipata nel tempo di un futuro prossimo, possibile.

7. L’incontro in un giardino tra Polia e Polifilo in una xilografia nell’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna, pubblicato a Venezia nel 1499.

degradati e accatastati a terra casualmente, senza ordine alcuno. Quasi a suggerire l’ipotesi che il culto dell’antichità classica non si sarebbe manifestato, come invece fu, se i reperti ci fossero pervenuti in larga misura intatti, o solamente tramite le copie del trattato di Vitruvio.

La città giardino

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9. Planimetria dell’isola di Citera presentata nell’Hypnerotomachia Poliphili. 8. L’associazione tra rovina e botanica in una tavola dell’Hypnerotomachia Poliphili.

L’estetica della rovina Un’altra xilografia (fig. 8) contenuta nell’Hypnerotomachia Poliphili propone il primo e compiuto segno dell’estetica della rovina. Questa nuova forma d’espressione implica un preciso rapporto con il mondo vegetale ed è capace di coniugare la passione archeologica con il fascino romantico di un’immagine che induce a recuperare nel passato per via fantastica,l’idea di età dell’oro della cultura. Da quando gli umanisti cominciarono la ricerca dei ruderi antichi, ogni scoperta produceva felicità immense, documenti letterari e ricostruzioni figurative, sì che l’immagine della rovina, presentata così come appariva al ricercatore, era essa stessa in grado di produrre sentimenti ed emozioni. L’osservatore consumava così con la fantasia e la propria specifica cultura tutte le potenzialità di un passato straordinario, seppure solo virtuale. La rovina intesa come traccia per un ragionamento romantico e sentimentale, oltre che archeologico e scientifico, diverrà da allora un’insostituibile figura della cultura umana, tale da far coniare la locuzione estetica della rovina. La formidabile modernità di questa immagine sta nel comunicare questo complesso valore semantico, insieme al suo rapporto con il mondo vegetale, espresso dalla presenza di una natura simbolica che tende a sopraffare una cultura morta, passibile di perenne oblio. Una natura esplicitata analiticamente nelle sue componenti tipologiche che diverranno canoniche: le erbe, le erbacce e le piante esotiche. Da allora ogni immagine di rovina sarà sistematicamente arricchita dalla sua componente botanica, coprotagonista della scena complessiva, indispensabile a connotare romanticamente l’insieme dei manufatti

Le componenti del giardino

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L’isola di Citera (fig. 9), presentata nell’Hypnerotomachia Poliphili, può essere considerata una delle città ideali rinascimentali, ma anche la prima proposta di città giardino, più ancora che un vasto e geometrico parco. Nello straordinario libro di Francesco Colonna, l’isola appare con forma circolare del diametro di circa un miglio e circondata da limpidissime acque salmastre dove sono sommersi trofei metallici corrosi dalle acque: memorie di una più antica civiltà che in quel luogo viveva. Lungo il litorale, il perimetro dell’isola è ricoperto da un tappeto erboso, con una fila di cipressi perfetti e uguali fra loro, distanti tre passi l’uno dall’altro, il cui tronco è circondato da una spalliera di mirto alta un passo e mezzo, e il cui fogliame si forma due piedi sopra la spalliera. Venti raggi partono da questa corona di mirto e convergono al centro dell’isola, elevato rispetto alla riva, grazie a un sistema di terrazze, architettoniche e paesaggistiche, formate da bassi cilindri sovrapposti dal diametro di un miglio che via via si riducono, sino a formare il grande anfiteatro finale, anch’esso circolare. L’insieme delle terrazze digradanti al mare costituisce una sequenza senza soluzione di continuità di giardini formali. In ciascuno dei venti settori, delimitati da balaustre di marmo scolpite, troviamo un boschetto zeppo di erbe e di alberi di varia specie, distribuiti secondo l’orientamento più propizio. Nel mezzo, una porta di marmo coronata da un arco. I rampicanti sono: caprifoglio, gelsomino, convolvoli e campanule. Nei diversi boschetti: lauri, querce, cipressi silvestri, pini, olmi, tigli, frassini, abeti, larici, castagni, ulivi e bosso potato secondo l’ars topiaria. Nei boschetti vivono animali in mutua amicizia. Nel terrazzo successivo, racchiusi da pavimentazioni marmoree e circolari, aranci e limoni. Poi un verziere, sempre con decorazioni architettoniche e scultoree, suddiviso in prati chiusi e caratterizzato dallo scandirsi di roseti arrampicati su colonne. I pergolati che riparano i viali longitudinali sono ricoperti da rose bianche. Infine, aiuole di erbe odorose, alternate a prati.

10. Le componenti del giardino in una xilografia dell’Hypnerotomachia Poliphili.

In un’altra immagine dell’Hypnerotomachia (fig. 10), nella raffigurazione simbolica dell’insieme dei componenti fondamentali necessari alla formazione del giardino umanistico-rinascimentale, si esprime il senso del giardino europeo alla fine della cultura medievale. La sua peculiarità sta nella forte antropizzazione indotta dal portato culturale della nuova architettura, che è intenzionata a far rinascere il passato classico. Dal punto di vista vegetale i protagonisti sono quelli del giardino di ogni tempo: erbe preziose e fiori a terra nel prato; rampicanti fioriti che salgono sopra le strutture tutorie del pergolato; articolati alberi ad alto fusto. La conclusione del giardino è costituita da una recinzione in canne variamente intrecciate fra loro, con motivi che diverranno oggetto di specifiche ricerche di patterns decorativi due secoli dopo. Il grande pergolato con copertura a botte, mimesi di un cielo continuo e simbolo di un microcosmo

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prezioso sulla terra, è di canne intrecciate. Il marmo, invece, interessa la grande cisterna dalla quale esce l’acqua che si immette nella marmorea vasca esagonale, attraverso un ugello decorativo. In un giardino l’acqua e l cisterna sono sempre fonte e riserva di vita. Ma in un giardino rinascimentale la fontana è anche sempre metafora e simbolo della fons sapientiae, e insieme un ingegnoso artifizio dal punto di vista della meccanica idraulica. Da qui l’importanza figurativa di un manufatto che doveva essere architettonico e scultoreo, formato con materiali pregiati, marmi e metalli, ed essere ubicato in posizione centrale in un giardino, quasi a rappresentarne materialmente il suo centro assiale. Una centralità prospettica, ma anche di riferimento per l’organizzazione strutturale del giardino che proprio da quella centralità dipendeva.

con i suoi favolosi giardini. Sono gli stessi raffigurati nelle xilografie dell’incunabolo dovuto a Francesco Colonna, una conferma che la realtà coincideva con il progetto. Sino alla fine del xiii secolo, l’isola della Giudecca era formata da una stretta striscia di terra emergente dalla laguna, abitata da pescatori e da artigiani. Quando si decise di ampliare l’isola verso la laguna, il terreno così conquistato venne assegnato ad alcune famiglie nobili per la necessaria bonifica. L’isola non divenne mai una parte organica della città, che era collegata in tutte le sue parti con un sistema di ponti che ne garantiva la totale pedonabilità. Divenne, invece, il luogo delle delizie, delle feste e delle vacanze quando i nobili organizzarono i più famosi giardini veneziani in quei terreni, relativamente ampi rispetto alla dimensione di quelli cittadini. Vi venivano ospitate personalità artistiche, come l’Aretino e Michelangelo, principi e nobili, ospiti della Serenissima e ambasciatori. Questi giardini sono organizzati secondo il principio dell’interconnessione degli elementi costitutivi, il pattern dell’hortus conclusus. Dal cortile architettonico della villa si accede al giardino che era anche luogo di sperimentazioni botaniche e di domesticazioni esotiche. La connotazione specifica di questi giardini era il pergolato architettonico, usato come struttura tutoria per i rampicanti, in particolare per la vite. Le descrizioni letterarie della vita che in quei giardini si svolgeva confermano l’analogia culturale e architettonica con le immagini xilografiche contenute nell’Hypneroto­machia Poliphili.

Ars topiaria L’Hypnerotomachia Poliphili è un romanzo illustrato che può essere inteso anche come un trattato per il giardino umanistico e rinascimentale. Lo dimostrano i modelli offerti al lettore per la potatura in volumi geometrici del fogliame degli alberi dei suoi giardini (figg. 11 e 12). L’ars topiaria si manifesta in maniera compiuta ed estesa nell’età rinascimentale in Italia, diffondendosi poi nel mondo come elemento essenziale e connotativo del giardino all’italiana. Ma le sue radici storiche affondano nell’antichità classica greca e romana, tanto che alla rinascita di quelle culture contribuisce fortemente anche l’interpretazione dei testi antichi che descrivevano l’artificio di una potatura figurativa dei vegetali, una dimensione bizzarra del dominio dell’uomo sulla natura. Nell’antica Grecia dell’età ellenistica, sotto i porticati che circondavano i giardini, si poneva una topia, figurazione dipinta di un modello di giardino ideale, con il quale dovevano confrontarsi nel loro operare sia il proprietario che il giardiniere. Questa volontà di perfezione venne assimilata nella Roma del i secolo a.C. con valori semantici tali da far definire da Cicerone il suo raffinato giardiniere topiarius, in base a una ripresa metonimica del termine greco indicante quelle raffinate pratiche che tendevano a trasformare un giardino in un’opera d’arte. La cultura umanistica resuscitò il vocabolo in un’accezione particolare (sia pure presente anche nelle vicende greche e romane), quella della trasmutazione delle forme vegetali in forme geometriche elementari o anche figurative complesse, proponendo così una domesticazione matematica della natura. Francesco Colonna usa l’aggettivo topiario, appunto, per definire le piante tagliate ad arte. Riplasmare i volumi naturali secondo forme artificiali non fu certamente una semplice questione decorativa per il tempo nel quale nacque questa pratica. Richiedeva pazienza e perizia, che non potevano essere confinate nel significato di un gioco gratuito, in quanto erano artifici di una dimensione simbolica del governo dell’uomo sulla natura evidente per tutti: per chi quelle attività praticava e per chi le osservava con interesse e stupore, compiacendosi di queste capacità umane e del nuovo gusto che sottendevano.

Il giardino rinascimentale Nel 1537, l’architetto e teorico dell’architettura tardorinascimentale Sebastiano Serlio pubblicò a Venezia il Libro Quarto del suo Trattato di architettura. Un’opera in sette libri pubblicati singolarmente, che avevano richiesto quarant’anni di lavoro.

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Il giardino reale Un anno dopo la pubblicazione dell’Hypnerotomachia Poliphili, a Venezia si stampa la straordinaria veduta a volo d’uccello di Jacopo De’ Barbari (fig. 13), conclusione di una ricognizione figurativa durata oltre tre anni e fatta di minute rilevazioni della città in ogni sua parte. Nel primo piano della grande tavola, è l’isola della Giudecca

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11 e 12. Modelli di potatura secondo l’ars topiaria contenuti nell’Hypnerotomachia Poliphili.

13. Particolare della veduta a volo d’uccello di Venezia, redatta da Jacopo De’ Barbari e stampata nel 1500.

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Le prime edizioni dei sette libri furono alternativamente veneziane e parigine. Un ottavo libro rimase inedito sino a pochi decenni fa. Nel Libro Quarto si parla anche del giardino, ma in maniera solamente formale, in relazione alle aiuole. Di ben altro significato rispetto al giardino umanistico programmato da Leon Battista Alberti nel suo trattato, pregno di indicazioni stimolanti la ricerca del nuovo, l’opera del Serlio tende ad accreditare l’ipotesi che nell’età manieristica il giardino, nel suo insieme, sia già codificato: e perciò in un certo senso indiscutibile. A seguito dell’elencazione delle norme da lui pensate per gli ornamenti dell’ordine composito, dentro e fuori degli edifici, l’autore scrive qui: «Li giardini sono ancor parte dell’ornamento della fabrica, per il che queste quattro figure (qui sono riprodotte le prime due) differenti qui sotto, sono per compartimenti d’essi giardini, ancora che per altre cose potrebbero servire, oltre li due Labirinti qui a dietro che a tal proposito sono». Il cinismo manierista e formale coniuga una delle figure più antiche e complesse della storia dell’umanità, il labirinto, con la banalità di un pattern decorativo di maniera, utile per la decorazione di pareti o soffitti e anche per formare aiuole da giardino. In queste aiuole il gratuito decorativismo implica non solo il disinteresse per gli elementi vegetali che dovrebbero essere collocati all’interno delle diverse partizioni, ma anche quello più generale verso il giardino, che le aiuole composte dovrebbe contenere. Come presto sarà codificato nei trattati del giardino barocco francese (Traité du jardinage di Jacques Boyceau de la Barauderie, pubblicato a Parigi nel 1638, e Le jardin de plaisir di Andrè Mollet, pubblicato anch’esso a Parigi nel 1651) l’aiuola tessuta in ricami complessi, broderie, dovrà sempre formare una sorta di vasto tappeto in parte vegetale ai piedi del fronte principale dell’edificio, da cui articolare la reiterazione di un’immagine di maniera, considerata decorativamente indispensabile. Un documento eccezionale del giardino toscano rinascimentale è offerto dalle quattordici lunette dipinte alla fine del xvi secolo, su commissione del granduca Ferdinando i. Ne è autore Giusto Utens, un misterioso fiammingo che viveva a Carrara, e furono ordinate per decorare la villa di Artiminio, al centro del parco di caccia granducale sul Montalbano. Le rappresentazioni dei siti rendono le lunette testimonianze insostituibili del giardino cinquecentesco. Rilevate direttamente dal vero dall’autore, con l’aiuto di cartografie dei siti e di disegni architettonici, le quattordici scene documentano sempre le ville medicee nel loro giardino, protagonista dei dipinti. Le lunette raffigurano ville fatte costruire dai diversi membri della famiglia Medici tra il 1451 e il 1599, anno della conclusione del ciclo pittorico. Sono rappresentati la villa e il parco di Pratolino (fig. 15), costruiti in quindici anni dall’architetto Bernardo Buontalenti a cominciare dal 1569, per il granduca Francesco i. Monumento della complessa cultura manierista, anticipatrice della ricchezza barocca, il parco fu subito considerato una meraviglia. Intricato nei suoi labirintici percorsi, conoscibile solo percorrendolo e mai con una visione d’insieme, era il giardino della vista e dei suoni, perché i diversi ambienti erano anticipati allo stupito visitatore dal suono dei corsi d’acqua e delle cascate. La tessitura dei canali di geometria fortemente articolata, con la successione sapiente di vasche e cascate, forma una doppia cornice al cui interno il fitto parco è intersecato dalla maglia geometrica dei percorsi rettilinei pluridirezionali, che conducono ai variati spazi architettonici e scultorei dell’insieme. La visione globale del parco, nel progetto del Buontalenti, era impedita al visitatore, che in nessun punto del parco e in nessun luogo della villa poteva cogliere in un colpo d’occhio il tutto e la sua complessità. Così, questa veduta a volo d’uccello di Utens è fondamentale per conoscere compiutamente ogni scena, svelando e dissacrando il mistero che era imposto al visitatore. Un’altra lunetta di Giusto Utens (fig. 14) raffigura la Pretaia, una tenuta agricola trasformata in villa da Ferdinando Medici, verosimilmente tra il 1575 e il 1590, grazie al lavoro dell’architetto Bernardo Buontalenti. Anche in questo caso il pittore concentra la sua attenzione anzitutto sul giardino, in una visione che sia compiuta e analitica insieme; poiché nella scena, anche se esattamente rappresentata, la villa è

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14. Lunetta di Giusto Utens raffigurante la tenuta agricola di Pretaia trasformata in villa. 15. Lunetta di Giusto Utens dipinta alla fine del xvi secolo su commissione del granduca Ferdinando i, raffigurante la villa con il parco di Pratolino.

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limitato da un muro perimetrale ininterrotto, spezzato soltanto al centro dall’accesso trionfale, quasi una scena fissa della ragione per accogliere, però, anche le più curiose manifestazioni umane.

Il successo del giardino rinascimentale italiano in Europa

17. Il treillage nel giardino del castello di Montargis in un’incisione di Jacques Androuet du Cerceau. 18. Il castello di Montargis e il suo giardino in Les plus excellents bastiments de France, di Jacques Androuet du Cerceau. .

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un punto focale fondamentale della prospettiva, ma non l’oggetto prioritario della comunicazione. Qui l’architetto manierista non forma una continuità di bizzarrie meravigliose come a Pratolino, ma ripropone in un’interpretazione più moderna il fascino della razionalità del giardino all’italiana del primo Rinascimento, nel quale l’architetto applica tutte le sue conoscenze e le sue curiosità relative alle macchine idrauliche, agli automi, agli allestimenti scenografici e pirotecnici. Base fissa ove integrare botanica e meccanica idraulica per allietare la vita e le feste dei Medici e dei loro ospiti è il giardino, qui fotografato all’epoca del suo completamento. Di fronte alla villa, che ha sullo sfondo le colline e piantumazioni di cipressi, un prato si affaccia sulla grande vasca ricca di giochi d’acqua. Ai fianchi della villa, due formazioni di alberi in vaso proseguono con altri sino alla terrazza, sotto la quale sono i simmetrici sistemi di aiuole per erbe e fiori a fianco della vasca, con ai vertici altri alberi in vaso. Un ultimo terrazzamento porta al livello più basso, ove è la parte più concettuale e simbolica del giardino. Come fossero labirinti, i due spazi, anch’essi speculari, sono organizzati in duplice continuo pergolato concentrico con copertura a volta a botte, completamente ricoperti da rampicanti. Fra i due percorsi vegetali, ma anche all’esterno del perimetro circolare più grande, sono posti fitti boschetti. I due spazi circolari centrali sono i luoghi terminali dei percorsi, i siti delle feste, delle rappresentazioni e degli intrattenimenti musicali. Un impianto semplice, quello di questo parco de-

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16. Il castello di Amboise nelle incisioni di Jacques Androuet du Cerceau per la sua opera Les plus excellents bastiments de France, pubblicata in due volumi a Parigi tra il 1576 e il 1579.

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Jacques Androuet du Cerceau, disegnatore, incisore ed editore, pubblica a Parigi, tra il 1576 e il 1579, due volumi dal titolo Les plus excellents bastiments de France (una formula editoriale originale per il tempo, che avrà grande successo in futuro), dove presenta le dimore dei potenti, spesso con piaggeria, a beneficio della loro vanagloria. Ma l’autore, protagonista del Rinascimento francese, è intellettuale di rara cultura, e i suoi libri sono una radiografia figurativa che descrive un’epoca. Costruiti con il fine di formare una sorta di documentazione scientifica della realtà, più che una sua semplice edulcorazione, come molte volte avverrà con prospettive prese da punti di vista di comodo, i minuziosi disegni rilevati in gran parte dal vero prospettano scene credibili. Con le sue raffinate incisioni, analizza i monumenti che presenta sin nel più minuto dettaglio, offrendo ai contemporanei e anche ai posteri il ritratto realistico dei palazzi con i loro giardini della Francia della seconda metà del xvi secolo. Un’incisione (fig. 16) raffigura un castello di matrice medievale, integrato dalle protesi resesi necessarie nel tempo, all’interno delle cui mura è l’hortus conclusus. Poco tempo dopo la costruzione del castello, il giardino fu modificato secondo il gusto e la cultura rinascimentali, ormai diffusi e accettati anche in Francia. Nel centro del giardino, ben chiara nella planimetria, è la grande fontana architettonica, simbolicamente importante e parzialmente visibile nella prospettiva. Il sistema dei dieci grandi riquadri del giardino è tessuto in quaranta aiuole, bordate da un recinto vegetale, fra loro organizzate in maniera asimmetrica. Questo tipico sistema di coltivazione in forme di aiuole regolari, con diversità di pattern e di specie, è tipico della cultura rinascimentale che non persegue fini meramente decorativi, che saranno obbligatori per l’ossessiva simmetria che il proswsimo futuro perseguirà. Si tratta invece dell’ordinamento, chiaro e immediato, di quanto è concretamente possibile e utile collazionare


19. Incisione raffigurante un giardino olandese in un volume cinquecentesco di Hans Vredeman de Vries.

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del mondo vegetale, di interesse botanico ma anche estetico, cioè metaforicamente di tutto il mondo e di tutto il sapere. Vi è un secondo tipo di castello e giardino (fig. 18), contenuto nell’opera di Jacques Androuet du Cerceau, alternativo al precedente: non illustra, infatti, la volontà di modificare gusto e cultura di un hortus conclusus all’interno del suo stesso immutato ambito fisico. Piuttosto costituisce il riferimento per il nuovo giardino estroverso, che si estende a corona attorno alle mura della piccola città, potenzialmente verso l’infinito geografico di un territorio da dominare anche con la domesticazione botanica, con l’antico maniero in posizione cardiocentrica. Il complesso organismo, completamente distrutto nei primi decenni del xix secolo, si presentava con un’immagine straordinaria nella seconda metà del xvi secolo. La piccola città murata del castello è vista dal centro del borgo, e, come descrive l’autore, sopra il giardino vi era una grande foresta di querce. Questo straordinario complesso è formato da due corone circolari concentriche. La prima, direttamente connessa al fossato delle mura del castello, è perimetrata da pareti murarie continue fortemente decorate nelle loro sommità da ondulature manieristiche: un grande manufatto curioso, questo, e dialetticamente contrapposto alle antiche e funzionali mura delle fortificazioni. Il giardino curvilineo, al quale si accede attraverso sistemi di treillages architettonici, è costituito dalla continuità di duplici aiuole, destinate alla coltivazione di erbe e fiori, alberi ad alto fusto ornamentali e fruttiferi. Nella parte centrale della figura, sono evidenziati recinti in grigliato e pergolati con copertura a volta a botte, che delimitano le aiuole più preziose. Sulla destra, due grandi labirinti, a pianta quadrata il primo e circolare il secondo, memoria di un segno antico dell’uomo. La corona esterna del giardino è suddivisa in settori di coltivazioni specializzate, tra loro separate da ordinati filari di alberi ad alto fusto. Da questo orto-giardino si accede all’esterno in un solo punto nel gran bosco di querce, attraverso la porta sulla sinistra. L’ultima corona del giardino, infatti, è recinta da un insieme di fitti arbusti, impraticabili: oltre incomincia l’infinito geografico. Hans Vredeman de Vries (1527-1606) fu il teorico olandese dell’idea del giardino rinascimentale italiano, proposto nel Nord Europa come l’espressione definitiva della

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20. L’uso del giardino in un’incisione tedesca della metà del Cinquecento. 21. Anonima incisione francese della metà del xvi secolo.

nuova cultura che andava imponendosi. Esperto del disegno e della prospettiva, diffuse la sua interpretazione dell’elaborazione architettonica e della decorazione manierista, fiamminga e olandese, con una serie di libri e di tavole che ebbero una vasta influenza in tutta l’Europa settentrionale, compresa l’Inghilterra. Nel 1583 pubblica ad Anversa la prima edizione del libro Hortorum Viridariorumque Elegantes & Multiplicis formae..., che propone un’improbabile applicazione degli ordini vitruviani ai giardini. L’autore, infatti, presenta nelle venti tavole incise (che diverranno ventotto nella seconda edizione del 1587) il giardino dorico, il giardino ionico e il giardino corinzio. Esercitazioni intellettuali e pre-accademiche, queste di Vredeman de Vries, che rimangono comunque immagini di importanza documentaria, grazie alla minuzia e al realismo delle raffigurazioni, per la ricostruzione del giardino olandese della seconda metà del xvi secolo. Un’incisione (fig. 19) ritrae un giardino relativamente grande per il territorio urbano olandese, sia pure contenuto in una sequenza di edificazioni parallele alla cui estremità si può ipotizzare un canale. Il giardino è completamente architettonico, nel susseguirsi di recinzioni, ingressi, pergolati, passaggi fra questi, tempietti e aiuole geometriche. L’intreccio fra architettura e vegetazione è presentato, per esempio, nella tipologia dei padiglioni: da quello architettonico in pietra in primo piano, ricoperto da una trama vegetale dalla quale emerge una statua; da quello analogo nel cuore dell’organizzazione concentrica dei pergolati; e da quelli gemelli al termine del giardino, nei quali la vegetazione è prevalente rispetto alla struttura del treillages. La scena del giardino è rappresentata anche come una tronche de vie. L’eleganza dei suoi ospiti, i loro comportamenti e il gran banchetto, dimostrano che il giardino cinquecentesco europeo di qualunque nazione è omologato in un unico modello culturale.

Il giardino erotico

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Eros e giardino sono due parole che si fondono in un unico significato semantico nella cultura di tutta Europa dell’età del Rinascimento laico. L’immagine di un giardino tedesco affacciato su un bosco (fig. 20) ci offre la scena della vita che in questi ameni siti la classe dirigente conduceva. Dopo le affollate feste collettive dell’epoca del tardo Medioevo e dell’età umanistica, nel periodo del Rinascimento maturo sembra che i consumi del giardino possano essere anche limitati a piccoli gruppi di persone. Tre coppie, formate da maschi barbuti e forse anziani, indubbiamente potenti, amoreggiano con giovani donne, nel luogo di frontiera tra il giardino domesticato e il bosco selvaggio. L’abbigliamento non solo elegante, come voleva la moda del tempo, ma addirittura lussuoso, come dimostrano l’articolazione e la ricchezza di drappi e tessuti, classifica sociologicamente i presenti, comprovandone nel contempo una certa abitudine alla gestione dei sentimenti nell’ambiente vegetale. Questo angolo del giardino è delimitato da spalliere a traliccio a sostegno di chi siede sulla vasca erborea che funge da sedile. I fiori sono sulla spalliera, a terra e nel grande vaso a sinistra della scena. L’accudimento dei sentimenti, e l’inevitabile soddisfacimento dei desideri dei sensi, non trascura le esigenze del corpo. La scena, infatti, descrive, uno straordinario banchetto. In primo piano, la gran fiasca contenente qualche vino raffinato. La tavola in pietra è imbandita: una tovaglia la copre tutta e, sopra di essa, sono collocati preziosi accessori e utensili (calice, tazza, piatti e posate). I resti alimentari paiono cibi tradizionali, ma vi sono anche dolciumi nel grande piatto centrale. Il giardino, così, non è un fine, un luogo autonomo con la sua specificità nella sosta del percorso quotidiano in una proprietà destinata alla contemplazione della natura domesticata, ma anzitutto la scenografia necessaria, utile e gradevole, per condurre un certo modo di vita, un necessario ornamento della casa, una sua protesi all’aperto, senza più l’originario significato sacrale specifico di ogni giardino. In un’anonima incisione francese della metà del xvi secolo (fig. 21), allegorica rappresentazione del mese di maggio, la scena appare come nuova e antica nello stesso tempo. Il giardino erotico non è quello dei consumi privati della coeva

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immagine di provenienza tedesca. Qui si avverte il ritorno, trasposto di qualche secolo, di quella gioia di vivere che esprimevano le raffigurazioni delle feste collettive tardomedievali e umanistiche. Non risulta dall’immagine che unico protagonista sia l’erotismo: con esso indubbiamente convivono il corteggiamento e il colloquio amichevole, la dichiarazione culturale o sentimentale e la manifestazione musicale. La scena inoltre è quella di un vero giardino: sulla destra, l’edificio; di fronte ad esso il parterre organizzato ad aiuole; a fianco, il prato fiorito sul quale sono seduti sia chi si diletta nel suonare gli strumenti musicali o chi canta, sia gli uditori. Fra loro alcune ragazze e bambine utilizzano i fiori del posto per intrecciare ghirlande e corone. Anche qui l’eleganza e la ricchezza sono d’obbligo per gli ospiti del giardino. Questo si sviluppa dal confine delle aiuole che fronteggiano la casa nel lungo porticato coperto con volta a botte, ricoperto di rampicanti. Dal terrazzamento, evidenziato dalla balaustra, si scende al fiume, ove una parte degli ospiti si diletta in barca. Il fiume si allarga verso destra, delineando un’isola nel mezzo, che, come tutte le isole dei giardini del passato e del futuro, ha nel suo centro un piccolo tempio a pianta centrale. Questo edificio, un pergolato-treillage con la balaustra in pietra, come pure in pietra sono le modanature dei cornicioni della casa, dichiara la completa adesione all’insieme della cultura rinascimentale di matrice italiana. Intanto, altre persone passeggiano per il parco sino all’isola, dietro la quale, ai piedi dei monti, sono evidenziati i villaggi. Alla sinistra dell’isola il bosco, quasi a completare le connotazioni tipologiche di un giardino modello.

Il giardino alchemico Anche l’iconografia alchemica, all’interno delle sue complesse simbologie, ci offre scene diversificate del giardino. La metafora alchemica, infatti, utilizza segni della vita reale e, fra questi, il giardino è un momento privilegiato, perché ben simboleggia l’approccio della scienza alchemica nei confronti dell’uomo, essendo il luogo dell’accudimento della natura con arte e con amore, per la sua trasformazione in un progetto di continuo miglioramento, verso l’utopia della perfezione. Anche tutti i miti del mondo classico greco-romano sono passibili di interpretazioni alchemiche. Il passo dal libro vi dell’Eneide di Virgilio narra di Enea che stacca il Ramo d’Oro che gli permetterà di attraversare indenne l’Inferno. L’albero del disegno (fig. 23) contenuto nel manoscritto del xvi secolo Splendor Solis di Salomon Trismosin, è l’albero della vita, piantato nella terra del giardino all’interno di una corona d’oro. Le tre figure sono i personaggi della vicenda: Enea, Silvio e Anchise abbigliati con i costumi alchemici, rossi, bianchi e neri. Gli uccelli che volano sopra l’albero rappresentano la sublimazione alchemica. Il corvo nero, invece, con la testa bianca, sta a significare che il nero produce il bianco. La scena simbolica è incorniciata nel proscenio di un possibile teatro: è un quadro di paesaggio con il giardino fittamente fiorito in primo piano, e un’area recinta in prossimità di una casa lontana, sullo sfondo. Davanti alla scena è il racconto figurato di un’altra immagine tradizionale della vita nel giardino: il bagno nella grande vasca di marmo, alimentata da una preziosa fontana scultorea (sopra una colonna, un putto cavalca un quadrupede mentre suona una tromba). Alle eleganti bagnanti, tutte con una capigliatura ben disegnata e agghindate con preziose collane, due donne portano profumi. Ai lati, e sui palchi, gli spettatori, che paiono nascosti ed estranei, osservano i due quadri, il primo dichiaratamente alchemico sul palcoscenico, il secondo, più tridimensionale e realistico sul proscenio, del bagno nel giardino. Sul Monte Helicon, fra le fitte boscaglie, era la sede delle nove Muse, come è detto in un’altra illustrazione di carattere alchemico (fig. 24). Inizialmente le Muse erano le ninfe delle fonti sacre del luogo. Nella scena, il vecchio coronato è circondato dalle Muse, che sono le aiutanti di Apollo e personificano la purezza e l’armonia. L’Astronomia e la Grammatica aiutano la Retorica a sostenere il Monte Helicon,

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22. la propaganda del giardino rinascimentale italiano

Nei primi decenni del xvii secolo, all’inizio della faticosa costruzione della facciata del Duomo di Milano, un ignoto artista illustra con i suoi bassorilievi alcuni versetti biblici: qui Israele, la vigna del Signore. Testimonianze della cultura dell’età della Controriforma sono anche documenti per la storia della scultura, fungendo da cerniere originali, neorinascimentali, tra le pratiche manieriste e le future invenzioni barocche, e registrano allo stesso tempo l’idea del giardino rinascimentale, con l’insieme di aiuole, balaustre e di questi pergolati architettonici. Le altre formelle che utilizzano l’iconografia del giardino rinascimentale per illustrare i versetti biblici sono: il grande giardino con pozzo e balaustra in primo piano e le architetture della recinzione sul fondo (Il pozzo/La sorgente dell’acqua viva); l’albero vicino a un ceppo (Il fico che produce il frutto e il fico infruttuoso, tagliato); e il grande albero di fronte al giardino cintato (L’albero saldamente piantato). Questi bassorilievi presentano scene non tradizionali del giardino, rispetto all’immagine presente nella memoria collettiva, perché fortemente caricate dei valori architettonici specifici della cultura rinascimentale. Risultano essere una forma di comunicazione e di propaganda del nuovo gusto per il giardino raffinato rinascimentale, diffusa dalla principale architettura cittadina tramite il medium scultoreo. L’iconografia del giardino è stata utilizzata da sempre come strumento di comunicazione di miti e metafore di carattere religioso o laico, in contrapposizione al paesaggio naturale, per il senso profondo della domesticazione che trasforma la natura in storia dell’uomo. A questo esempio si affiancano gli esempi infiniti offerti in tutti i tempi dalla pittura, dalla miniatura, dalle prime illustrazioni a stampa, dagli arazzi o dall’oreficeria.

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23. Immagine contenuta nel manoscritto Splendor Solis di Salomon Trismosin, xvi secolo. 24. Un’illustrazione di tipo alchemico della fine del xv secolo.

ai piedi del quale è il vecchio saggio che suona; intorno sono disposte le restanti. Le nove Muse erano: Clio (Musa della storia), Euterpe (musica e poesia lirica), Talia (commedia e poesia pastorale), Melpomene (tragedia), Tersicore (danza e canto), Erato (poesia lirica e amorosa), Urania (astronomia), Calliope (poesia epica) e Polimnia (inni eroici). Il piano che accoglie il vecchio e le Muse è un prato fiorito dal quale emerge il monte, che è spesso presentato come una geometrica semisfera accudita come fosse un vago monticello, parte di un vero giardino. Il simbolico albero è potato anch’esso nella forma di semisfera, secondo le tecniche dell’ars topiaria, a dimostrazione che il luogo non è lasciato alla natura selvaggia, ma alla domesticazione della natura da parte dell’uomo, in coerenza con il mito che vede le ninfe trasformarsi in Muse e la fonte naturale dell’acqua sacra e magica ispirarle: l’Ippocrene, la sorgente scavata dal cavallo Pegaso con un colpo di zoccolo nella roccia, ora incanalata in una preziosa fontana. Qui la fonte è in una vasca di pietra rossa con una base poligonale. Dalla vasca piena d’acqua s’innalza la colonna che l’alimenta, con una grande sfera alla sua sommità dalla quale escono due gemini zampilli, altra figura della simbologia alchemica. Il vago monticello, l’albero potato e l’architettonica fonte, sono rappresentazioni tipiche e connotative del giardino umanistico e rinascimentale italiano.

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Cultura materiale, curiosità

scientifica ed esotismo tra Cinquecento e Seicento Accudire il giardino

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1. L’accudimento del giardino in un disegno di Pieter Brueghel il Vecchio, che rappresenta metaforicamente la primavera. 2. Il mese di marzo, miniatura del Bréviaire Mayer Van den Bergh, Fiandre, verso il 1520.

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Un’incisione del 1570 (fig. 1) riproduce un disegno e una pittura di Pieter Brueghel il Vecchio, il grande pittore fiammingo che fu capace di rappresentare nelle sue straordinarie scene anche molti momenti della cultura materiale. Qui è rappresentata metaforicamente la primavera, tramite la raffigurazione realistica dei lavori necessari in un giardino (olandese) in questa stagione. L’incisione è perciò un documento eccezionale, raramente disponibile in questa forma in altre società e in altri periodi storici. Vi sono rappresentati tutti i componenti di un giardino nordico cinquecentesco, ma anche i modi di accudirlo, in una forma di figurazione che sta tra la documentazione antropologica e la didattica. In primo piano, una serie di uomini riorganizza le aiuole dopo l’inverno, mentre alcune donne concimano la terra e piantumano i bulbi, che trasformeranno presto le aree geometricamente perimetrate in aiuole fiorite. Dietro di loro, alberi, fiori e cespugli nei vasi, sono pronti per essere collocati ai vertici delle aiuole o nei vialetti di separazione per completare la scena vegetale. Si nota anche un albero potato secondo l’ars topiaria, nella forma di dischi sovrapposti. Il giardino, circoscritto da un’architettonica balaustra e da siepi regolarmente potate, immette in un pergolato con volta a botte, i cui sostegni iniziali sono formati da due scultorei cariatide e telamone. Dietro questo, il luogo dell’allevamento delle pecore, il prato per un rapido pascolo e l’edificio per il ricovero degli animali che alcune persone tosano. Al di là del recinto, un corso d’acqua: vi naviga una barca che trasporta alberi, forse proprio per questo giardino, un indizio di quale cura veniva posta nella conduzione di un giardino. Sullo sfondo, un’osteria all’aperto con gente che mangia, mesce e suona. Un pergolato sottende la presenza di un altro giardino, davanti alle mura del castello. L’insieme della scena esprime la fatica necessaria alla formazione e alla conservazione di un giardino, e testimonia la complessa manutenzione continua necessaria alla sua vita. Il rapporto tra uomo e giardino, per quanto attiene alla cultura materiale, presenta alterne connotazioni nello spazio geografico di diverse società e nel tempo. In Inghilterra la parola gardener designa non solo il cultore di un giardino, ma anche chi accudisce alla sua vita, culturalmente e anche materialmente. Horace Walpole, nella seconda metà del xviii secolo, propose per questa figura un neologismo: gardenist. In una xilografia (fig. 3) inglese della fine del xvi secolo, protagonista è il gentleman gardener con i suoi aiuti. L’illustrazione è tratta dall’edizione del 1594 del libro di Dydymus Mountain (pseudonimo di Thomas Hill) The Gardeners Labyrinth, am-

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pliamento del precedente A Most Briefe and Pleasant Treatyse... and Set a Garden... pubblicato sempre a Londra nel 1563, primo libro europeo dedicato completamente al giardinaggio. Nell’Inghilterra elisabettiana si formò la nuova figura del giardiniere dilettante, che, come dimostra la fortuna editoriale di questo libro, conoscerà ampia diffusione. Contribuirono al consolidamento di questo fenomeno la cultura rinascimentale e la nuova passione per i fiori e i giardini della classe dirigente olandese. Dalla dimensione originaria comportamentale e di valore simbolico, il giardinaggio divenne in tutta l’Inghilterra una passione, necessaria anche per connotare lo stile di vita del nuovo gentiluomo. Soltanto nell’ultimo decennio del secolo xvi, quando quella passione esplose, furono importate nell’isola 288 specie esotiche (contro le 127 di tutto il secolo in Italia, ove già esistevano cinque orti botanici, mentre il primo inglese fu fondato a Oxford nel 1621). Da allora, in Inghilterra l’interesse botanico (scientifico e agricolo, sperimentale e medico) non fu mai disgiunto dall’esigenza della gestione diretta della cultura materiale del giardinaggio e dalla successiva contemplazione. Il libro inizia con un capitolo dedicato a «Nuovi e rari segreti e invenzioni del giardinaggio finora sconosciuti», nella cui sintesi si dice che «...nulla di simile è mai stato pubblicato prima... per abbellire ogni giardino di piacere».

La straordinaria eloquenza di un grafogramma nella storia delle idee del giardino è documentata da una xilografia (fig. 6) che compiutamente dimostra l’idea del giardino nell’Inghilterra dell’inizio del xvii secolo. La pagina è tratta dal libro di William Lawson, A New Orchard and Garden, pubblicato a Londra nel 1618 e confezionato insieme all’ altro suo volume The Country Housewife’s Garden stampato nel 1617, primo libro europeo specificamente dedicato alla donna quale dilettante dell’arte dei giardini. La xilografia rappresenta una sorta di microcosmo esistenziale, perciò chiaramente riferibile ai modelli medievali monastici: la casa e il suo territorio recinto contengono virtualmente tutti i fabbisogni dell’uomo, in completa autonomia dal territorio circostante. Ma in questa concezione antica del giardino, anzitutto produttivo, si inserisce l’idea del giardino rinascimentale e la figura del suo protagonista, il gardener, giardiniere dilettante. Appare nella vignetta elegantemente abbigliato vicino al cavallo che addestra, poco distante dalla fontana dagli evidenti valori estetici architettonici, ma anche matrice del condotto per l’approvvigionamento idrico. La proprietà è delimitata da due corsi d’acqua e un ponte collega la casa al giardino, che è ordinato in sei grandi quadri. I quali, dichiara il Lawson, possono essere perimetrati da alberi e avere al loro interno il giardino e altri ornamenti. L’autore propone una qualificazione in un ordine che ricalca la classificazione delle utilità pratiche e mondane: il giardino fiorito e formale con le aiuole disegnate da motivi ornamentali; il giardino del palato per le necessità della cucina; il frutteto (con gli alberi piantumati a intervalli di venti yards) con la passeggiata laterale; un’altra passeggiata con pavimentazione in legno; casini da riposo; alveari; colline artificiali che formano i belvedere. Il frutteto e il giardino per la cucina sono l’autogiustificazione puritana all’altro giardino, quello del piacere, dell’ozio raffinato e della contemplazione, anch’esso giustificato dal lavoro materiale del proprietario.

Costruire il giardino, il treillage

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3 e 4. Due xilografie tratte dall’edizione del 1594 del libro di Dydymus Mountain The Gardeners Labyrinth; in quella superiore protagonista è il gentleman gardener con i suoi aiuti. 5. Modelli di recinzione per giardino nel volume di Gervase Markham Countrey Farme, pubblicato a Londra nel 1616.

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6. Pagina tratta dal libro di William Lawson, A New Orchard and Garden, pubblicato a Londra nel 1618.

Gervase Markham pubblica a Londra nel 1616 il suo libro Countrey Farme, la seconda rielaborazione per il pubblico inglese del famoso trattato francese di Charles Estienne, L’agriculture et maison rustique, del 1564. Un’illustrazione (fig. 5) propone modelli di recinzione per giardino che hanno radice nel concetto di decorazione complessa della cultura figurativa manieristica europea: un’esigenza grafica, simbolica e segnica per la delimitazione di un luogo sacro. Ogni pattern di recinzione per il giardino è parte ed espressione della cultura del suo luogo e del suo tempo. Ma lo stesso concetto di recinzione è fortemente radicato nell’idea e nel lessico del giardino, sin da quando la locuzione medievale di hortus conclusus comincia a segnalarne il carattere specifico. Delimitare una semplice aiuola con un recinto, persino con un piccolo bordo, significa rendere sacro il sito, dal momento che il valore simbolico è superiore e prioritario rispetto a qualunque pratica utilità. Ma a volte anche una recinzione muraria richiedeva al suo interno una struttura tutoria, un treillage che ne rendesse la superficie capace di ospitare l’articolata tessitura dei rampicanti con le loro fioriture, come fosse una seconda recinzione, ancora sacrale e vegetale. Una spalliera di rose è perciò una figura consueta in ogni giardino di ogni tempo.

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in breve tramutarsi in edifici vegetali, contribuendo a modificare e ad arricchire di valenze anche paesaggistiche la scena del giardino, sia pure sottolineandone il perimetro, che in un piccolo giardino attesta il tipo di hortus conclusus.

Ma anche una semplice recinzione può divenirlo, come dimostrano queste due figure. L’intreccio di legni legati è elementare nella fascia basale, mentre si articola in diversi segni decorativi nella sommità, al fine di costruire un bordo figurativamente complesso. La merlatura ha il senso della conclusione, del termine della superficie che delimita un’area o uno spazio o un edificio, così come accade per le merlature architettoniche: e uccelli e barche paiono trofei. L’autore indica la possibilità di usare la recinzione in basso come treillage per la crescita dei rampicanti, che così assume il ruolo di struttura tutoria di una siepe continua, in questa maniera modellabile senza dover ricorrere alla faticosa pratica dell’ars topiaria. Un’anonima incisione della fine del xvii secolo (fig. 7) raffigura l’interno di un giardino tedesco, organizzato secondo gli antichi canoni del giardino all’italiana. I suoi connotati: la fontana centrale, le balaustre e le recinzioni di bosso potato, un tulipano nel mezzo di un’aiuola circolare. Inserite nell’alto muro perimetrale sono le architetture virtuali, formate dalle intelaiature trasparenti a forma di edifici. La domesticazione botanica per creare ambienti utilizzabili dall’uomo, in maniera analoga agli edifici da lui costruiti con i materiali tradizionali dell’edilizia, presuppone non solo una grande perizia tecnica, ma pure un tempo considerevole. Anche da chi poteva permettersi progetti pluridecennali e a volte plurigenerazionali per formare una parte di giardino ritenuta significativa, quella del treillages fu considerata la tecnica più idonea alla formazione in tempi brevi di ambienti vegetali di tipo architettonico. Per rispondere a questa esigenza, già nell’età dell’Umanesimo furono proposti padiglioni e ambienti con volta a botte fatta di tralicci lignei o marmorei, a cui i rampicanti dovevano conferire un simbolico aspetto di edifici vegetali. Di lì a poco, il gusto dei tempi (nel senso dell’inglese taste) avrebbe richiesto di recuperare dal passato il modo di formare architetture vegetali senza strutture tutorie. Ma gli anni necessari alla loro realizzazione erano tali che nel giardino reale si tenderà sempre a raggiungere un compromesso fra le due soluzioni. All’inizio del xviii secolo, la moda delle grandi pareti vegetali, di dimensione quasi macroedilizia, venne temporaneamente soddisfatta dalla produzione di pareti lignee dipinte, sulle quali erano applicati foglie e fiori in occasione delle feste: quasi non fosse disponibile neppure il tempo per la formazione di una parete di rampicanti organizzata su una superficie tutoria. Le intelaiature architettoniche avrebbero potuto

Scienza, botanica, floricoltura ed estetica

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7. In un’anonima incisione della fine del xvii secolo, l’interno di un giardino tedesco organizzato con treillages. 8. Planimetria dell’orto botanico di Padova, costituito nel 1545. 9. Il Giardino dei Semplici nei Giardini Vaticani, dietro la Casina di Pio iv.

Il 29 giugno 1545, un decreto del Senato della Serenissima Repubblica di San Marco istituisce a Padova, nella terraferma veneziana, un giardino dei semplici, il primo orto botanico europeo (fig. 8). Padova era da secoli sede di una prestigiosa università, nella quale gli studi e le sperimentazioni botaniche si fondavano sulla sapienza antica. L’orto botanico è l’espressione di una rivoluzione epistemologica. Nel documento istitutivo dell’orto è detto riguardo al programma operativo: «piantar di semplici fruttici e subfruttici, et ai quelle cose che parerano atti periti, dando opera di avere delle cose nostre, come peregrine, et dalle insule nostre di Candia, et di Cipro, ove sono li più laudati semplici et minerali, et da quelli altri luoghi che li parerano». E Candia e Cipro erano anche i luoghi deputati dell’incontro botanico tra il mondo islamico e l’Europa. Nel 1591, l’orto botanico di Padova accoglieva 1.168 specie, organizzate nella complessità classificatoria di queste aiuole.


11 e 12. Una tavola e il frontespizio del volume The Herball or Generall Historie of Plantes di John Gerard, stampato nella sua edizione definitiva a Londra nel 1633. 11

L’atteggiamento dell’uomo rinascimentale europeo verso il mondo vegetale consolida nel giardino dei semplici il sapere antico dei monasteri e delle pratiche mediche del recente passato. Lì vi si conserva, per la domesticazione e la riproduzione, quanto è stato trasmesso dalla storia, e cioè quanto «sarebbe stato utile e sufficiente in ogni futuro». L’anno precedente la fondazione dell’orto botanico di Padova, viene pubblicata a Venezia la famosa e fortunata opera del Mattioli, presentata come commento al classico Dioscoride, a dichiarare la continuità tra la botanica contemporanea e quella dell’antico passato, ora in maniera scientifica più documentata. Ma i nuovi erbari saranno sempre più inquietati dalle essenze botaniche esotiche, anzitutto da quelle che provengono dalle Americhe, via via più protagoniste degli orti botanici. Così, l’orto botanico rinascimentale, a differenza dell’antico giardino dei semplici di retaggio medievale, si afferma come luogo deputato all’osservazione e alla sperimentazione, laboratorio di una ricerca dell’antico e del nuovo del mondo vegetale anche con nuove finalità produttive. The Herball or Generall Historie of Plantes di John Gerard (figg. 11 e 12), stampato nella sua edizione definitiva a Londra nel 1633, è un libro significativo per la storia del giardino europeo. Radicato nella complessità della cultura botanica cinquecentesca (nella trasposizione tipografica degli erbari manoscritti, nell’età della domesticazione delle nuove piante americane e del salto epistemologico tra il giardino dei semplici e l’orto botanico), il libro costituì in Inghilterra il ponte culturale mediante 12

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10. Diverse specie raccolte nell’erbario di Ulisse Aldrovandi, seconda metà del Cinquecento.

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13. erbari Gli erbari sono raccolte di piante essiccate e fissate su fogli di carta che servono da documento e confronto per il riconoscimento delle varie specie. Su questo foglio dell’Erbario Bruno è fissato un esemplare di pianta esotica (Conyza canadensis, oggi Erigeron canadense), all’epoca considerata medicinale. Sul lato del foglio sono alcune annotazioni sull’uso medicinale dell’erba. L’Erbario Bruno è l’erbario di uno speziale; documentato nel xviii secolo va probabilmente retrodatato.

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14. pietro andrea mattioli Nel xvi e xvii secolo compaiono grandi opere descrittive con iconografie scientificamente accurate delle piante. Uno dei massimi esempi di queste opere sono i discorsi di M. Pietro Andrea Mattioli nei sei libri della materia medicinale di Pedacio Dioscoride Anazarbeo, Venezia, 1565.

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15. Frontespizio del volume di John Parkinson Paradisi in Sole, Paradisus Terrestris, pubblicato nel 1629.

cui l’interesse botanico-medico si trasformò in interesse per il giardino. La prima edizione di questo libro fu stampata a Londra nel 1597, a cinquantatré anni dalla pubblicazione del più famoso erbario a stampa: I Commentari al Dioscoride pubblicati a Venezia di Pietro Andrea Mattioli, che, nei secoli successivi, conosceranno una fortuna senza paragoni (fig. 14). Il Mattioli ripubblicò, per finalità medico-botaniche, il testo del famoso medico militare del i d.C., considerato l’autorità indiscussa della cultura classica botanica, senza soluzione di continuità dall’età tardoantica sino al Rinascimento, come dimostrato dai numerosi erbari manoscritti precedenti l’età della stampa. Al Mattioli, le cui xilografie derivavano dal modello del disegno botanico medievale e umanistico, si rifece direttamente il Gerard, sia per la descrizione delle piante sia per le illustrazioni. Nella storia della cultura inglese, nella quale l’attenzione scientifico-medica alla botanica è posteriore di alcuni decenni alle prime edizioni dell’erbario, il lavoro del Gerard ha un significato più complesso. È anzitutto uno strumento che fornisce una conoscenza adeguata alle necessità di ogni gardener. All’uso scientifico della botanica subentra quello estetico; questo strumento permette anche di governare il rapporto profitto/piacere che molti testi inglesi proponevano, integrando nel giardino moderno alcune dimensioni microproduttive, tra cui in primo luogo il frutteto. Nel ritratto del frontespizio, Gerard ha in mano una foglia di patata, la prima figurazione europea. Nel 1629, solamente trent’anni dopo l’edizione dell’erbario di Gerard, John Parkinson pubblica il suo Paradisi in Sole, Paradisus Terrestris (fig. 15). Protagonista di quel paradiso terrestre è il giardino inglese contemporaneo, nel suo articolarsi di fiori, alberi e frutti, con la presenza significativa delle specie esotiche, conosciute solo da pochi decenni, ma divenute subito oggetto della curiosità e della passione del gardener. Il complesso rapporto inglese tra botanica e giardino è qui dichiaratamente scoperto. Benché si tratti di un libro organizzato come i contemporanei erbari, destinati prevalentemente alla scienza botanica, qui pressoché tutto il testo è dedicato alle conoscenze e alle tecniche necessarie per formare un giardino di tutte le sorti di piacevoli fiori, tenendo conto del clima inglese. Le due sezioni integrative più brevi sono anch’esse consacrate al giardino, nelle sue forme particolari del giardino della cucina e del frutteto. Non vi sarà mai in Inghilterra dicotomia tra scienza botanica e pratica del gardener: l’intreccio e le interdipendenze tra i due interessi e le due finalità diverranno sempre più stretti, a differenza di quanto avverrà negli altri Paesi europei. Lo dimostra la straordinaria e unica istituzione dei Royal Botanic Gardens di Kew, fondati nel 1754 e sino al secolo scorso parte della residenza reale, che accolgono venticinquemila specie. Qui, l’antico giardino dei semplici, l’orto botanico, il laboratorio scientifico e delle sperimentazioni continue, il luogo delle ricerche botaniche promosse in tutte le parti del mondo, il centro delle documentazioni scientifiche e storiche convivono con la passione nazionale condivisa dai re, per le piante e i fiori necessari alla costruzione di un giardino. Il merito di ciò va ascritto anche alla cultura di sir Joseph Banks, che diresse l’istituzione dal 1778 al 1820, conferendole le caratteristiche attuali e consolidandone il senso. Tra il gardener inglese e lo scienziato europeo si instaura una complicità attiva, che produce risultati scientifici ed estetici. L’istituzione integrativa del Royal Botanic Gardens è la Royal Horticultural Society, che con le sue attività e il suo Journal dal 1846 ha scandito il divenire di questi interessi, in Inghilterra e nel mondo.

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17. Un’immagine seicentesca dell’orto botanico olandese di Leida costituito nel 1577.

16. gli orti botanici

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Gli orti botanici nascono in Italia nel xvi secolo come centri di raccolta e coltura di piante medicinali e si trasformano in raccolte di piante locali ed esotiche. Diventeranno anche centri di acclimatazione di piante alimentari industriali. Gli orti botanici devono anche molto ai giardini all’italiana, in quanto hanno una precisa struttura geometrica. La figura rappresenta la planimetria dell’orto botanico di Torino, disegnata nel 1732 da Giovan Battista Morandi: le aiuole sono organizzate attorno a due grandi vasche centrali.

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La curiosità esotica Con il progredire degli anni, l’interesse scientifico botanico sempre più si connette alla curiosità esotica. L’orto botanico di Leida (fig. 17) fu fondato nel 1577, fra i primi d’Europa, trentadue anni dopo quello di Padova. Nel 1633 il catalogo elencava millecentoquattro specie, un secolo dopo erano oltre seimila. All’orto botanico di Leida insegnarono i più famosi botanici europei, come Charles l’Ecluse, o, alla fine del xvi secolo, Chisius. Fra le varie specie esotiche, per la prima volta in Europa, vi si coltivarono ananas e tuberose. Come per i Gardens di Kew, anche qui gli interessi, scientifici e botanici da un lato e dell’appassionato del giardino dall’altro, si intrecciano in un sistema di interdipendenze non facilmente districabile, senza, però, la continuità di una passione che, nel caso inglese, resta oggi eguale a quella delle origini. L’immagine di giardino, che questo orto botanico suggerisce, non deve trarre in inganno. L’ordinato allineamento delle aiuole rettangolari raggruppate in quadrati sono i fattori costitutivi e di commento di un luogo consacrato alla classificazione scientifica della botanica: il padiglione centrale protetto da un recinto, di fronte alla villa luogo di studio, l’alto muro che tutto recinge e gli eleganti visitatori che percorrono i vialetti. L’ordinata ripartizione delle specie vegetali è essenziale per la loro nutricazione e per osservarne la vita e la crescita perché mette tutta la natura a portata di mano, proprio in quanto razionalmente collazionata. È evidente che questo tipo di organizzazione deriva da

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18. Il frontespizio dell’opera di Crispin Van de Pass il giovane, Hortus Floridus, pubblicato in latino nel 1614 e tradotto l’anno successivo in inglese.

19a, b, c, d. Illustrazioni di tulipano. Una fra le prime illustrazioni europee conosciute dello svizzero Konrad Gesner, inserita nell’opera di botanica di Valerius Cordus, De Hortis Germaniae liber, edita nel 1561. Un disegno turco per l’impressione decorativa a stampa, risalente ai primi anni del xvii secolo. Le altre due illustrazioni sono tratte dall’album delle trentotto tavole di tulipano dipinte da Nicolas Robert, facenti parte del patrimonio delle Vélins du Roi.

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un’idea di ordine rinascimentale, ed è pure evidente che l’applicazione in un orto botanico di un simile modo di classificare influenzerà anche la formazione dei successivi giardini manieristi e barocchi, nella forma di un rapporto bilaterale continuo. In essi, l’esotico e l’insolito saranno prevalenti, sia nell’ambito botanico sia in quello formale. L’idea di giardino, infatti, perturba ogni momento autonomamente botanico: il primo pomodoro portato in Europa è anzitutto analizzato come una possibile decorazione del giardino, in apparente antitesi alla cultura e alla pratica che fanno della ricerca delle piante economiche il loro oggetto. Nel 1614, a ventiquattro anni, il gardener olandese Crispin Van de Pass il giovane, pubblica il suo Hortus Floridus in latino, tradotto l’anno successivo dall’originale in inglese. Si tratta di un erbario dedicato ai fiori del giardino, organizzato con schede e illustrazioni finemente xilografate, suddivise per gruppi climatici e temporali: in primavera descrive quarantuno specie; in estate, venti; in autunno, venticinque; e infine, in inverno, dodici. L’immediata edizione inglese dell’opera dimostra l’attenzione con la quale, oltre Manica, si osservava la pratica della floricoltura olandese e

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il fascino che il piccolo giardino fiorito produceva nell’Inghilterra, a quell’epoca ancora imbevuta di cultura rinascimentale. Qui è riprodotto il frontespizio dell’opera (fig. 18), le cui illustrazioni di fiori sono le più belle del tempo per realismo di rappresentazione e per minuziosità delle incisioni, come si può già inferire da questa scena d’insieme, che tratteggia una sorta di giardino modello olandese dell’inizio del xvii secolo. Gli spazi delle aiuole destinate alla coltivazione dei fiori sono ricavati tagliando il territorio in forme geometriche fortemente decorative. Tutto questo giardino, simbolico più che realistico, è un giardino dei fiori, tra i quali il tulipano è già prima donna. I piccoli alberi nel paesaggio, potati secondo l’ars topiaria, paiono più punti di riferimento che protagonisti. Lo sono invece le rose rampicanti in primo piano, che avvolgono le colonne del loggiato, sulla cui balaustra si appoggia il proprietario contemplatore, mentre la moglie, e il suo abbigliamento lo comprova, si prende cura di alcuni tulipani. Il giardino è perimetrato da strutture architettoniche, secondo una tradizione ormai secolare immortalata da Hans Vredeman de Vries nel Cinquecento. Si tratta di un porticato continuo sorretto da cariatidi, con copertura a pergolato con volta a botte ricoperta di vegetali: una cornice culturale antica e sofisticata in cui racchiudere le nuove preziosità colturali di un giardino moderno caratterizzato dalle meraviglie esotiche e dalle mode su di esse praticate. Simbolo della gloriosa rivoluzione e del secolo d’oro della borghesia olandese al potere, il xvii, è un fiore esotico: il tulipano, la passion predominante di ogni proprietario di giardino. Importato in Europa alla fine del xvi secolo, nell’insieme di tutte le sue varianti cromatiche, il tulipano conquista l’Olanda, ove si formano società finanziarie per la speculazione sul fiore. L’acme della crescita dei prezzi, nel 1637, provoca una delle prime crisi finanziarie moderne, con la successiva disastrosa rovina di immense fortune. Leggendo la storia, si ha l’impressione che tutta la vita sociale olandese ruotasse attorno al tulipano, dal giardino alla casa e alle stesse fabbriche di ceramica di Delft, che producevano complicate alzate per permettere la mostra di serie infinite di fiori recisi. Il tulipano era originario dell’antico Oriente e venne portato a Vienna dall’ambasciatore austriaco a Costantinopoli, luogo da cui l’interesse per il fiore si diffuse in Turchia. Nella sua avventura commerciale il tulipano toccò un po’ tutti i Paesi d’Europa, sino a consolidarsi come vegetale alla moda in Olanda, ove alcuni bulbi di particolare varietà venivano pagati in peso equivalente ai diamanti, e alcuni erano definiti per il loro valore la dote della figlia. Un secolo dopo, una nuova mania vegetale sembrò ripercorrere in Olanda le vicende del tulipano: la passione per il giacinto. Qui sono riprodotte alcune illustrazioni del tempo riguardanti il tulipano (figg. 19a, b, c, d): una fra le prime illustrazioni europee conosciute, dello svizzero Konrad Gesner, inserita nell’opera di botanica di Valerius Cordus edita nel 1561, De Hortis Germaniae liber; un disegno turco per l’impressione decorativa a stampa, risalente ai primi anni del xvii secolo. Le altre due illustrazioni sono tratte dall’album delle trentotto tavole di tulipano dipinte da Nicolas Robert (1614-1685). Fanno parte dell’immenso patrimonio delle Vélins du Roi, il nome con cui sono noti i ritratti botanici francesi da quando Luigi xiv, per il quale lavorava Robert, acquisì la biblioteca e la raccolta dei disegni botanici dello zio Gaston, duca d’Orléans, che l’aveva iniziata nel castello di Blois, durante la sua amorevole coltivazione del giardino. Le Vélins du Roi imposero in Europa un nuovo metodo, estetico e scientifico, per la rappresentazione pittorica del fiore.

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Persistenza del modello italiano e inquietudini barocche Tradizione e complessità

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1. Il giardino realizzato da Salomon de Caus ad Heidelberg per il Principe Elettore Federico v, documentato nel libro Hortus Palatinus a Friderico Rege Boemiae Electore Palatino Heidelbergae extructu, pubblicato nel 1620.

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2. Il progetto di serra per l’Hortus Palatinus di Heidelberg così come lo volle presentare nel suo libro l’autore, Salomon de Caus. L’immagine superiore raffigura l’originaria serra in legno.

Nel 1620 l’architetto francese Salomon de Caus, esule ugonotto nel tollerante Palatinato di Heidelberg, documentava il giardino costruito su proprio progetto per il Principe Elettore Federico v, nel libro Hortus Palatinus a Friderico Rege Boemiae Electore Palatino Heidelbergae extructu, pubblicato in due edizioni con eguale frontespizio in latino ma con testi in tedesco e francese. Pochi anni prima, circolavano manoscritti e a stampa i manifesti rosacrociani che miravano a fare del Palatinato il luogo della tolleranza e della pace. Il progetto socio-politico di Federico v per organizzare nel centro d’Europa un’area di maggiore tolleranza fra cattolici e protestanti fallì: due anni prima della pubblicazione del libro dedicato ai suoi giardini, iniziava la terribile Guerra dei Trent’anni, che vedrà morire più della metà degli abitanti di quei territori. Il libro di Salomon de Caus dedicato al giardino formato per l’Elettore Palatino resta documento di grande significato di quella utopia. Tutte le specifiche tecniche e figurative del giardino contemporaneo, nei princìpi innovativi come nelle matrici storiche alessandrine, vengono ricomposte secondo la cultura rinascimentale dell’autore: Salomon de Caus ripropone, per esempio, in questo grande giardino formale (fig. 1) gestito dalla ragione e dalla sensibilità, le macchine di Erone d’Alessandria. L’interesse di Salomon de Caus per le macchine idrauliche e musicali è documentato da altri suoi testi. Il giardino di Heidelberg era formato da un sistema di terrazze regolari incastonato tra il bosco montano e il fiume, a lato del castello del principe, e organizzato con aiuole e delimitazioni in riquadri per la domesticazione botanica e in particolare dei fiori, con pergolati e meravigliosi giochi d’acqua e musicali: un modello esaustivo del più raffinato giardino rinascimentale. Più complesso di quello classico e solare del Rinascimento italiano, anche perché pregno di nuovi valori politici e morali. Del senso scientifico ed estetico dell’Hortus Palatinus di Heidelberg è documento eloquente il progetto della serra (fig. 2), così come lo volle presentare nel suo libro l’autore, Salomon de Caus. L’Orangerie d’un fabrique de Pierre de taille, come scriveva l’autore nel 1620, è un’architettura tardorinascimentale di raffinata qualità, atta simbolicamente e funzionalmente ad accogliere gli aranci, vecchi di sessant’anni, portati nel centro della Germania da lontane terre del Sud: «chose que la plupart ­jugeont impossible». Il progetto di una grande serra in pietra, in sostituzione di una precedente in legno, e la faticosa raccolta in Heidelberg di trenta grandissimi aranci e quattrocento di calibro medio e piccolo, che nella stagione adeguata venivano collocati nei giardini all’aperto, esplicitano l’interdipendenza tra l’interesse botanico ed

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3. scienza, macchine e giardino­

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Salomon de Caus, architetto e ingegnere francese di famiglia ugonotta, si rifugia nell’Inghilterra protestante di Giacomo i. Quando la figlia di questi, Elisabetta, va in sposa all’Elettore Palatino Federico v, la segue a Heidelberg dove costruirà uno fra i giardini rinascimentali europei più interessanti. Salomon de Caus è affascinato dalle macchine per giardini di Erone d’Alessandria. Ma non ne traduce gli antichi testi come gli italiani nella metà del xvi secolo: il suo spirito creativo lo sollecita a inventare e costruire altre nuove macchine. Di questo straordinario intellettuale, artista e tecnico ingegnoso della prima metà del xvii secolo, appare significativa la dimensione europea dell’attività editoriale: pubblica a Londra nel 1612 La perspective avec la raison des ­ombres et des miroirs; a Francoforte, nel 1615, Les raisons des forces mouvantes, dal quale è tratta una delle illustrazioni; nella stessa città e nello stesso anno esce L’institution harmonique, dal cui secondo libro (per l’ornamento delle ville e dei giardini) sono tratte le prime tre illustrazioni; nel 1620, sempre a Francoforte, è la volta di Hortus Palatinus, che documenta il suo giardino di Heidelberg; e infine a Parigi, nel 1624, si stampa La pratique et démonstration des horologes solaires. Tutti questi libri rivelano un atteggiamento scientifico verso la disciplina indagata, anche se la finalità degli studi tendeva solamente a rendere più gradevole un giardino. Le quattro figure sono illustrazioni dei progetti descritti nel testo. La prima raffigura Memnone, la mitica statua dell’Antico Egitto alla quale si rifaceva Erone: si trattava di un manufatto in metallo cavo che emetteva suoni umani in funzione del riscaldamento solare e anche di una macchina sonora idraulica nascosta al suo interno. La seconda è una complessa fontana da grotta con giochi d’acqua che implicano la conoscenza e l’adozione di un’ingegneria idraulica per l’epoca innovativa. La terza, è un vero e proprio organo idraulico, per il quale nel testo sono trascritte musiche moderne, prevalentemente italiane: utilizzando i corsi d’acqua a questo scopo programmati, all’interno dei giardini era garantito un piccolo e continuo concerto. L’ultima, infine, è una macchina idraulica che anima alcuni uccelli-automi in uno scenario botanico.

4. Il giardino di Johannes Schwindt, borgomastro di Francoforte, in una rappresentazione prospettica del 1641.

estetico per l’esotico e la pratica della nuova idea del giardino rinascimentale, fortemente connotato sul piano culturale. L’edificio è sapientemente semplice, un lungo rettangolo fittamente finestrato a grandi riquadri: una dimostrazione dello spessore semantico di un’architettura colta. La copertura è parzialmente nascosta alla vista da una balaustra sulla quale poggiano vasi con piccoli alberi. L’essenziale razionalità del padiglione permette di considerarlo il perfetto tipo di un salone autonomo in un vasto spazio aperto. Il particolare del disegno, considerato un approfondimento non necessario in progetti consimili e coevi, è qui invece una sorta di prova della sensibilità dell’architetto e della sua raffinatezza progettuale. Le grandi finestre sono suddivise in riquadri sia dal pilastro verticale interno che dalla modanatura ricorrente su tutto l’edificio. Nel dettaglio della finestra, una metà è chiusa con un’imposta a vetri piombati e l’altra è aperta e permette di osservare gli alberi all’interno del padiglione, a conferma che l’edificio è stato pensato per gli alberi e non come un contenitore indifferente. Le colonne binate sono didascaliche e simboliche: pietrificano l’illusione di un manieristico tronco, ornato da fiori rampicanti. In una registrazione prospettica del 1641 (fig. 4) è raffigurato il giardino di Johannes Schwindt, borgomastro di Francoforte. Il giardino tedesco dell’età barocca ripropone manieristicamente gli elementi costitutivi del giardino all’italiana e della grande tradizione rinascimentale. L’impianto simmetrico, la fusione tra giardino e architettura, la grande decorazione architettonica e scultorea, sono gli elementi costitutivi di una specifica italianità nel modo di concepire la vita per la classe dirigente del centro Europa dell’epoca. Questa specie di occupazione militare del

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gusto italiano si manifesta esplicitamente in questa scena nella quale l’obiettivo di essere alla moda prevale su quello di coniugare modernamente e in modi raffinati l’uomo e la natura e, perciò, di godere di un giardino formato sulla base di quel connubio. Qui, l’insieme dei segni, dei manufatti e dei simboli risulta quantitativamente corretto, ma sostanzialmente meccanico, caricato di valori semantici consueti, in una sommatoria che smarrisce l’armonia peculiare dei modelli originari italiani. Il grande portale è parte di una recinzione traforata da finestroni, nei quali sono collocati vasi con piccoli alberi, intercalati da colonne che reggono busti, di vago ricordo antiquario. Il disegno architettonico di questo ingresso non è né sobrio né elegante né trionfale: è una sussiegosa esercitazione manieristica, senza il fascino della trasgressione barocca. E anche l’ordinamento interno risponde a questi criteri formali: le due grandi aiuole coltivate a erbe e fiori, perimetrate da vasi che in inverno sono conservati in serre, sono il frutto di un collezionismo tradizionale, di certo non specificatamente botanico. Il grande spazio alberato, che le collega alle altre due grandi aiuole simmetriche, è connotato da due grandi statue che hanno per contrappunto due obelischi. Il passeggio chiuso da una volta a botte, finestrato e tutto ricoperto di verzura che ispessisce e sottolinea buona parte della cinta del giardino, è una citazione obbligatoria del giardino all’italiana, più che una specifica soluzione di una necessità paesaggistica topica. Lo stesso vale per i roseti a spalliera che, ingentilendo i muri perimetrali, preludono ai porticati verdi e accolgono nel mezzo la fonte dove attingere l’acqua, non la fontana italiana, allegoria della fons sapientiae. Il giardino di Christoph Peller a Norimberga (fig. 5) è contemporaneo del precedente; anch’esso di matrice italiana, si differenzia dall’altro per il rifiuto dell’enfasi figurativa e rappresentativa, riuscendo anzi a coniugare creativamente il nuovo giardino con l’antico edificio in intelaiatura lignea e muratura intonacata, ancora alieno dall’ossequio alla maniera italiana. Si preferiscono i fiori e gli alberi e ci si compiace di contemplarli. La vecchia corte medievale cinta su tre lati da edifici è rimasta tale, sia nella composizione architettonica sia nella funzione di scenario per il gioco della palla lanciata contro bersagli verticali. La delimitazione della vecchia corte è formata da una

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6. Un’immagine attuale del giardino di Boboli a Firenze.

5. Il giardino di Christoph Peller a Norimberga, in una raffigurazione prospettica del 1655.

7. Il giardino di Boboli in un’incisione settecentesca.

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preziosa balaustra rinascimentale, metafora della dicotomia tra vecchio e nuovo, ma anche tra casa e giardino, interrotta da due porte affiancate da due grandi obelischi, che dal passato sembra introducano in un presente gravido di futuro. Da queste porte si entra infatti nel nuovo giardino, estraneo ai temi e alla cultura di cui sono figli gli edifici. Tutto è organizzato secondo un ordine matematico che si rifà alla collazione ragionata rinascimentale, non al banalizzante riduzionismo decorativo della simmetria. Le aiuole sono i regolari contenitori delle coltivazioni di erbe e fiori: sono presentate in una tessitura tale da sollecitare un’osservazione ravvicinata, capace di stabilire un colloquio con il singolo fiore, e non solo un rapido sguardo per coglierne l’effetto d’insieme. Lungo le aiuole, a fianco dei percorsi pedonali, sono raccolti in grandi vasi alberi d’arancio e di altre essenze, portati qui nella stagione mite dalle serre, anch’essi offerti all’osservazione continua della meraviglia vegetale. Questa tipica organizzazione del giardino rinascimentale è analoga, concettualmente e a volte anche formalmente, all’ordinamento degli orti botanici, necessari alla nuova osservazione scientifica e alla conseguente domesticazione del mondo vegetale. Botanica e giardinaggio, scienza ed estetica, sono infatti termini che tendono a intrecciare creative interdipendenze in molte situazioni rinascimentali, più che a costruire invalicabili antinomie settoriali, disciplinari e specialistiche. La costruzione del giardino di Boboli fu iniziata nel 1550 su progetto di Niccolò Tribolo, scultore, ingegnere e anche architetto, tra i primi, tra l’altro a dedicare la gran parte della propria attività all’elaborazione dei giardini. Il primo tratto del grande giardino fu concepito come un anfiteatro verde che si sviluppa in asse con la villa. All’inizio del xvii secolo risale la grande espansione laterale progettata da Alfonso e Giulio Parigi, che forma lo straordinario giardino dalle molteplici geometrie concentriche. In un’incisione settecentesca (fig. 7), che conserva pressoché immutate le due fasi originarie, si coglie l’insieme del più modesto giardino cinquecentesco connesso alla villa (luogo anche di manifestazioni teatrali e di naumachie) e della grande espansione secentesca. Il tutto è gestito con una paziente e sapiente ars topiaria, che

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8. La zona degli Horti Sallustiani nella pianta di Matteo Gregorio De Rossi, 1637. 9. Pianta del giardino di Villa Ludovisi nell’incisione di Giovanni Battista Falda, 1676. 10. Il giardino del principe Ludovisi a Roma in un’incisione di Giovanni Battista Falda del 1683. 11. Incisione di Giovanni Battista Falda, che rappresenta il giardino seicentesco romano del Granduca di Toscana sul Monte Pincio. 10

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modella regolari aiuole e pareti di verde dove sono accolti manufatti architettonici, sculture e fontane. Ma sono i due impianti generali, fusi tra loro dal viale inclinato che affonda nel primo giardino e genera l’asse del secondo più grande, a richiedere una prima attenzione. Il giardino originario è un sistema di anfiteatri disposti su diversi livelli che, grazie all’immediata comprensibilità spaziale e figurativa che correla questi all’architettura della villa, quasi ne fossero una protesi esterna, si propone come un ambiente all’aperto e ideale all’allestimento di feste. A ovest della villa la complessità della vegetazione, collocata in regolari aiuole a riquadri o rettangolari, presenta una tessitura più minuta. Il nuovo giardino si innesta su questa preesistenza, operando in una logica dimensionale alternativa: nessuno potrà conoscerne il disegno e le norme per l’utilizzazione se non percorrendolo al suo interno, così come è per gli spazi architettonici barocchi più compiuti, allusioni a spazi complessi e infiniti, la cui conoscenza, a differenza della dolce prospettiva che tutto mostrava, può avvenire solo consumandoli. Alla maniera del sistema dei continui labirinti, così diffuso nella tipologia dei giardini del tempo, si succedono qui falsi labirinti (perché solo di percorsi concentrici e fra loro paralleli si tratta), in forma asimmetrica rispetto all’impianto, sino al riposo paesaggistico della grande vasca ovale del suo isolotto centrale: una pausa contemplativa prima della conclusione vegetale e paesaggistica di un giardino che si mostra come una piccola città dalle molte circolari morfologie. Di grande significato per la comprensione del giardino romano della fine del xvii secolo fu la pubblicazione a fogli sciolti delle incisioni di Giovanni Battista Falda cominciata nel 1670. Il successo di questi grandi ritratti dei giardini fu tale che nel 1683 l’autore li raccolse in volume rilegato con il titolo Li giardini di Roma, con le loro piante, alzate e vedute in prospettiva. La tecnica della veduta a volo d’uccello ravvicinata permette all’osservatore di introdursi nel giardino, per visitarlo sin nelle sue parti più riposte. La composizione generale del giardino del Principe Ludovisi (nel luogo in cui un tempo erano gli Horti Sallustiani) è ben visibile nei disegni riprodotti (figg. 9 e 10): si osservano il forte rapporto con l’architettura del palazzo ottenuto mediante un sistema di terrazze e di scale; l’insieme seriale degli ornamenti

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vegetali nei vasi; la grande fontana centrale; il giardino segreto ornato di statue, con l’uccelliera (che diverrà nel secolo successivo un’arancera); e il grande viale delimitato dal palazzo e dalle murature verdi dietro le quali è il gran bosco, che comprende anche un labirinto. Qui interessa indagare sulla soluzione paesaggistica derivata da un’innovativa relazione tra cultura antiquaria e giardino. I Ludovisi erano collezionisti di antichità, e il loro giardino fu pensato anche come luogo d’esposizione dei loro reperti trasformati in segni scultorei designati a formare una delimitazione vegetale-architettonica del bosco per determinare il grande viale, confine tra il binomio storia/cultura e la natura. I riquadri demarcati dalle pareti vegetali, accuratamente potate in forma di muro, immettono nel bosco. Nei loro vertici, quasi a far rivivere nel giardino una decorazione di antica memoria, sono collocate una serie di erme, probabilmente vestigia di attenti scavi archeologici. Due grandi e vetusti vasi marmorei ubicati in asse con la fontana e il palazzo, hanno l’efficacia e l’eloquenza di quelli che nel secolo successivo saranno oggetto della propaganda di Piranesi. Alcuni antichi sepolcri, anch’essi marmorei, completano la scena antiquaria intessuta nelle pareti verdi. Da queste emerge selvaggio il bosco, come fosse un territorio diverso ma non lontano. È ancora di Giovanni Battista Falda la scena di un altro giardino secentesco romano (fig. 11), quello del Granduca di Toscana sul Monte Pincio, detto Collis Hortulorum per i numerosi giardini che vi sorgevano nella Roma repubblicana, tra cui quello di Lucullo. L’impianto si presenta come una grande scacchiera disposta di fronte alla villa e composta di riparti coltivati e chiusi. Al di là di questa corte chiusa si vede la seconda parte del giardino con la grande collina (mausoleo) piantumata a cipressi. Lo spazio architettonico di questa piccola città è delimitato dalla villa e dalla sua protesi architettonica, una loggia caratterizzata da una serie di nicchie che accolgono sculture, che si connette con il terrazzamento sistemato con siepi potate e alberi ad alto fusto. La grande dignità architettonico-scultorea di forte connotazione antiquaria (Facciata del palazzo ornata di statue e bassorilievi antichi; Galleria ornata all’interno di statue antiche; Loggia ornata di statue e bassorilievi antichi), e i segni dell’impianto all’italiana (il gran viale per il passeggio, le fontane, l’obelisco, le aiuole decorate secondo il gusto secentesco francese della broderie, perimetrate da una piccola siepe di bosso potata regolarmente per suscitare l’impressione di un muretto di verde), si sommano all’espressione di una creatività nuova. Si tratta di un composito contributo all’introduzione di una dimensione paesaggistica nell’organizzazione di un giardino del tempo. La banalizzazione della simmetria, entro pochi anni diffusissima e ottenuta per incessante e ossessiva ripetizione di eguali riquadri botanici, è qui elusa consapevolmente in modo da mettere in discussione il significato stesso del riquadro, elemento base di una moltiplicazione potenzialmente infinita. Le grandi aiuole in primo piano sono delimitate da siepi potate a forma di balaustra sui due lati visibili all’osservatore. La fascia orizzontale trasparente di questo parapetto vegetale, formata all’altezza dell’occhio dalla successione dei tronchi nudi, permette la visione dell’interno dello spazio coltivato occupato da un’ampia broderie. Sugli altri due lati, invece, il margine delle aiuole è segnato da alberi ad alto fusto governati in maniera naturale, che danno l’illusione di un piccolo bosco. Questo funge da fondale della serie delle tre comunicazioni vegetali, tra loro integrate contrappuntisticamente.

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Insolito e meraviglioso Un curioso giardino delle bizzarrie e dei mostri è il monumentale complesso di Bomarzo, forse un tempo collocato all’interno di una radura sacra nel bosco, a ridosso dell’abitazione di Vicino Orsini, l’umanista esoterico suo inventore. Certamente, più che un insieme fatto per sbalordire il visitatore, sembra essere l’intelaiatura architettonica e scultorea di un percorso iniziatico per i pochi ammessi a un cenacolo privato. Ma anche allora poteva essere interpretato, come fu, diversamente. Dal puzzle delle figurazioni e dei significati dell’invenzione manieristica architettata attorno alla metà del xvi secolo, quale fu anche quella di Bomarzo, il mondo del giardino, nell’epoca della trasformazione delle qualità nelle quantità, si appropria dell’insolito e del raro per trasformarli nei costituenti di un’estetica del banale e del chiassoso a tutti accessibile. Vi è una casa inclinata, raffigurata in un rilievo contemporaneo (fig. 13), avulsa dai suoi ancora misteriosi significati, che riduce il suo valore alla scala della banalità dell’insolito. Benché in stato di avanzato degrado, il sito e i monumenti comunicano a chiunque che il loro insieme e le loro interdipendenze hanno un significato indubbiamente complesso e profondo. L’asettica autonomia di uno dei manufatti ne distrugge e dissacra il senso, pur restando questo ancora prevalentemente segreto. L’estetica del cattivo gusto si alimenta dell’insolito, stravolgendone il significato e il valore. E il giardino diverrà presto il luogo deputato di un teatro popolare degli oggetti di cattivo gusto, grandissimi e piccolissimi. Come in un processo di tipo catastrofico (secondo la teoria della catastrofe di René Thom), un oggetto inquietante dal punto di vista estetico entra in un giardino quasi senza essere notato, ma la sola sua presenza ne innesca una reiterazione inarrestabile che trasforma la serie di manufatti in coordinate del luogo comune. Fu il caso, per esempio, di una piccola statua nella quale il folklore svizzero individua un nano della foresta dal significato beneaugurante. Una signora inglese, nel 1840, ne portò un esemplare in Inghilterra come curiosità di viaggio collocandolo nel suo giardino. Da lì si moltiplicò impadronendosi dei giardini inglesi, e da lì, addirittura peggiorando in termini di gusto, si diffuse in tutti i giardini d’Europa. Il Lago Maggiore, tra il Piemonte e la Lombardia, fu governato feudalmente dalla famiglia dei conti Borromeo. La prima isola trasformata dalla famiglia in luogo di delizia, agli inizi del xvi secolo, fu l’Isola Madre, organizzata a terrazze digradanti dall’altura al lago: un raffinato giardino all’italiana circondato dall’acqua. Fu poi il turno dell’Isola Bella dove venne realizzata una bizzarria di matrice manieristica.

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12. L’Isola Madre, sul lago Maggiore. 13. Una casa inclinata, in un rilievo contemporaneo, all’interno del giardino di Bomarzo. 14. Maschera-grotta nel giardino di Bomarzo.

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15. L’Isola Bella in un’immagine di Marc’Antonio Dal Re del 1726. 16. L’Isola Bella oggi.

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Per darle la struttura attuale occorsero circa cinquant’anni (dal 1620 al 1670) e più di una generazione. La trasformazione di un’isola naturale nelle forme di un grande manufatto galleggiante fu l’insolito tema di un progetto iniziato dal conte Giulio Cesare, proseguito dal fratello Carlo iii, e completato da suo figlio Vitaliano. Mentre nel Cinquecento sull’Isola Madre si svolgevano riunioni intellettuali di poeti e di musici, sull’Isola Bella, un secolo dopo, venivano allestite grandi feste programmaticamente stupefacenti e integrate da manifestazioni teatrali e da naumachie che simulavano avventure e battaglie navali. Qui l’Isola Bella è presentata in un’immagine di Marc’Antonio Dal Re datata 1726 e in veduta attuale (figg. 15 e 16). Seguendo la morfologia naturale del terreno, i Borromeo la sottoposero a un trattamento orogenetico, utilizzando l’antica tecnica rinascimentale delle terrazze digradanti, così da costruire una macrostruttura geometrica capace di apparire artificiale, e perciò ancor più meravigliosa e in tal modo estranea al senso del giardino rinascimentale. Tutto è estroverso, per sbigottire chi all’isola si avvicina. Il sistema delle terrazze e delle balaustre architettoniche, gli attracchi e i padiglioni, e la scena fissa del gran teatro sulla sommità dell’altura furono disposti in modo da formare uno straordinario giardino, in apparenza pensile ma che sembrava anche una grande nave-giardino ancorata al largo. Il giardino fu pensato come scena prospiciente il vasto palazzo, nelle cui parti inferiori furono inserite vaste grotte, quasi a rafforzare l’idea del tutto artificiale e pensile. L’intervento dei Borromeo fu condotto con lo scopo di fare dell’Isola Bella, dal punto di vista culturale e figurativo, una delle meraviglie del mondo. La volontà di costruire l’eccezionale, una smisurata Wunderkammer, contenitore di tutte le possibili bizzarrie naturali ed esistenziali, prevarica qui sull’idea del palazzo e del giardino (in forte contrasto con il gusto rinascimentale dell’Isola Madre). 16

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17a, b, c. Rocce artificiali di Jan Nieuhof (1669), di Johann Bernhard Fischer von Erlach (1721) e di Ercole Silva (1801).

18. il giardino a teatro

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L’inconsueta asimmetria La vicenda della cineseria è una storia autonoma da quella più antica e complessa del rapporto tra l’Europa e la Cina. Per la cineseria la Cina è un continente immaginario, pieno di tutte le possibili fascinazioni, ma impregnato di significati di comodo. In particolare in rapporto alle vicende del giardino europeo, è una moda che costruisce le sue basi teoriche e pseudoconoscitive sul nostro continente verso la fine del xvii secolo ed esplode nel xviii secolo. Il rococò settecentesco presenta le sue decorazioni nella forma di incontrollate bizzarrie, ma queste sono anche la sperimentazione di

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Se il giardino è spesso una scenografia per la vita, certamente la scenografia teatrale può ben rappresentare un giardino, ma difficilmente può trasformarsi nel luogo dove sperimentare il nuovo giardino, come nel tempo è invece avvenuto e avverrà per l’ipotesi della città nuova, la quale ha nel teatro una specie di laboratorio di verifica di fattibilità. Sotto questo profilo, il teatro funziona per il guardino come un diorama, che riproduce le meraviglie del quotidiano, immaginario o reale. Giacomo Torelli (1608-1678), architetto e matematico, fu anche l’innovatore della scena all’italiana durante il secondo Barocco, alla metà del Seicento, grazie ai suoi straordinari effetti prospettici, di tipo iperrealistico illusorio. Il suo fondale era un cielo di azzurri realisticamente digradanti, che suggeriva l’infinità spaziale della scena. Su questo vasto cielo si stagliavano, ancora realisticamente, le quinte, architettoniche o naturalistiche. Nel centro, poi, un elemento emergente, attorno al quale agivano gli attori o i ballerini, garantiva l’illusione tridimensionale della profondità spaziale. In questa immagine le quinte mimano l’intrico di una boscaglia. Dipinte su telari trasparenti, le quinte assicurano la perfetta fusione scenica con il cielo. Il manufatto centrale è una grotta di apparenza artificiale: si tratta della raffigurazione del monte Helicon, il monte delle Muse, le quali ne occupano la sommità. Ai lati e al centro della grotta, tre diverse fughe prospettiche consentono la lettura illusionistica di altrettanti viali alberati diretti all’infinito, dipinti sul fondale dal quale scaturisce il cielo. L’uso di sapienti alternanze di luci artificiali e programmate zone d’ombra conferisce a questa scena la verosimiglianza della realtà, o almeno il fascino di un artificio credibile: pare infatti di essere all’interno di un vasto giardino davvero contemporaneo, come il rapporto tra selvaggio e ordinato nell’assetto della vegetazione suggerisce e il grande manufatto architettonico e simbolico al centro conferma.

una curiosità scientifica di un’estetica altra, non eurocentrica e asimmetrica. William Temple, per esempio, pubblica a Londra nel 1692 il libro Upon the Gardens of Epicurus, nel quale descrive una simmetria da noi sconosciuta, in forma di improbabile teoria estetica consolidata, definita dai cinesi con la parola sharawadgi, un termine di incerta derivazione che a quel tempo si credette inventato dallo stesso Temple. L’inconsueta asimmetria costituirà poi il fondamento teorico dell’estetica della linea curva, la serpentina, alla quale William Hogarth dedicherà un volume. In queste tre illustrazioni (figg. 17a, b, c) possiamo osservare altrettanti veicoli della diffusione del gusto della cineseria tramite un’immagine, sempre dedicata alla roccia artificiale. La prima è tratta dal libro An Embassy... to the Gran Tartar Cham Emperour of China, di Jan Nieuhof, ambasciatore olandese, stampato a Londra nel 1669, cinquantanove anni dopo la morte del missionario gesuita italiano Matteo Ricci. L’immagine non desta subito grande attenzione. Ma quando l’architetto e teorico austriaco Johann Bernhard Fischer von Erlach dà alle stampe a Vienna nel 1721 il suo Entwurf einer historischen Architektur, inserisce quell’antica illustrazione, forse dimenticata, nella sezione della sua storia dell’architettura mondiale figurata farcita di esempi settecenteschi e dedicata al bizzarro, insolito ed esotico. Sarà infine l’italiano Ercole Silva, terrorista estetico e propagandista del giardino romantico, a ripubblicare, come modello, l’immagine dell’austriaco, perfettamente ricopiata, ottant’anni dopo, nel suo libro Dell’arte dei giardini inglesi (Milano, Anno ix, repubblicano, vale a dire 1801).

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Il giardino formale francese

Esprit de géométrie

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1. La Fontana di Latona nel parco di Versailles. 2. Il Wilton Garden, creato da Isaac de Caus tra il 1632 e il 1633, in una prospettiva a volo d’uccello.

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Isaac de Caus prosegue in Inghilterra gli studi e le pratiche progettuali di Salomon de Caus, forse il fratello. In una prospettiva a volo d’uccello (fig. 2) mostra l’insieme di un esteso giardino nel Wiltshire, il Wilton Garden, da lui creato tra il 1632 e il 1633. Può essere letta come una dichiarazione culturale della supremazia del nuovo giardino francese sulla tradizione del giardino rinascimentale italiano, anche se nell’impianto e in molti dettagli si rifà a quest’ultimo. L’impostazione spaziale costituisce una novità per l’Inghilterra di quei decenni: si tratta infatti di un giardino di carattere scenografico, pensato alla grande maniera. Pochi anni prima, Francis Bacon, il sommo filosofo precursore dell’empirismo inglese, si era occupato di giardini, stabilendo una pratica che diverrà obbligatoria, anzitutto in Inghilterra, ma anche in altri Paesi europei, per ogni poeta dei secoli successivi. «Dio onnipotente per prima cosa piantò un giardino. E infatti è il più puro dei piaceri umani. È il più grande sollievo per l’umore dell’uomo, senza di cui palazzi e edifici non sono niente altro che rozzi lavori manuali»: così scriveva Bacon nel 1625, all’inizio del suo saggio Of Gardens. Isaac de Caus continua in Inghilterra gli studi e le ricerche di Salomon. Del 1644 è l’edizione in lingua francese stampata a Londra, de Nouvelles inventions de lever l’eau plus haute que la source, e nell’anno successivo viene pubblicato un album di incisioni intitolato Wilton Garden che si propone di documentare e giustificare teoricamente il giardino da lui creato. Balaustre e loggiati architettonici, statue e complicate fontane (che ricordano quelle di Salomon), l’avanspettacolo delle imprescindibili aiuole regolari a broderie, i boschetti e il grande piazzale circolare, i treillages che formano deambulatori a volta e padiglioni, sono i costituenti del grande e nuovo giardino, tutto chiaramente visibile e comprensibile. Ma vi è un segno inquietante che diverrà connotativo del futuro di tutti i giardini inglesi, incuneato tra la memoria italiana e l’innovazione francese: il rispetto e l’attenzione per gli elementi naturali. Isaac de Caus, infatti, non modifica il corso dell’acqua che entra diagonalmente e in maniera irregolare nella sua nuova geometria dei vegetali. Il giardino per antonomasia del xvii secolo in Europa è il giardino dell’immensa residenza del Re Sole e di tutta la sua corte di Francia a Versailles (fig. 1). Ovvia metafora del dominio sulla natura di chi domina in forma assoluta una nazione pensando di dominare già il mondo, è questo il capolavoro, per quantità e qualità, dell’architetto André Le Nôtre (o Lenôtre, Le Nostre, Lenostre, 1613-1700). Le Nôtre, appartenente a una famiglia di giardinieri, fu il capostipite degli architetti di giardini

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francesi. Lavorò per Luigi xiii, prima che per Luigi xiv. Fu il fondatore dello stile e della scuola del giardino formale alla francese, impostato su un esprit de géométrie rigoroso e sul gigantismo dimensionale. Sperimentò nel parco di Vaux-le-Vicomte le sue concezioni che conobbero poi la loro apoteosi a Versailles, dove lavori fondamentali iniziarono nel 1662. Il grande parco, come si vede nella planimetria incisa da Pierre Le Pautre nel 1710 (fig. 3), è generato assialmente rispetto alla reggia, verso cui convergono le direzionalità del tessuto urbano. La dimensione smisurata è offerta alla percezione visiva, che deve a sua volta intuire che il governo del territorio prosegue di là dei limiti del parco consolidato, per interessare tutto il Paese mediante le rettilinee arterie alberate che dal perimetro si allontanano verso l’infinito. Viali, riserve di caccia, boschi, giardini, fontane, giganteschi specchi d’acqua, la prima moderna ménagerie per la domesticazione, l’allevamento e la curiosità verso gli animali: sono questi gli ingredienti della città-parco voluta dal re per la vita sua e dei suoi cortigiani. All’interno del parco si trovava anche un altro giardino con una residenza di riposo (rispetto al fasto della vita di palazzo), il Grand Trianon che si trova a est de le Canal. Le necessità pratiche per l’esistenza di questa città virtuale ma capitale reale della nazione, erano immense, comportando l’appagamento delle diversificate esigenze della moltitudine di nobili, dei loro servi e dei militari presenti. Ma ancora più gigantesche erano le necessità per far vivere il vastissimo giardino.

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3. Il parco di Versailles nella planimetria incisa da Pierre Le Pautre nel 1710. 4. Tracciati fissati da Luigi xiv in Manière de montrer les jardins de Versailles per la visita al parco. 5. L’impianto di Marly per il rifornimento idrico del parco di Versailles.

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Versailles come racconto

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6. Il parco di Versailles nel dipinto di Pierre Patel, verso il 1668.

Luigi xiv ci ha lasciato un manoscritto nel quale spiega la sua idea del giardino, tramite l’esposizione delle norme per l’uso di quello di Versailles. Eloquentemente intitolato Manière de montrer les jardins de Versailles, ebbe tre redazioni, rispettivamente del 19 luglio 1689, tra il 1691 e il 1695 (fig. 4), e infine tra il 1702 e il 1704. Come fosse la soluzione di un mistero, l’opera del Re Sole svela completamente i segreti del giardino di Versailles. Dai tracciati minuziosamente fissati dal re per la visita al giardino si evince che la finalità di ogni passeggio era di conoscere i terminali interni delle vaste e complesse aiuole della prima parte del parco, al centro delle quali erano le meraviglie: le grandi scenografie vegetali e architettoniche, le scene fisse teatrali, le terrazze, le fontane, i complessi scultorei, il grande bacino e il labirinto. Per il Re Sole il giardino era l’occasione di creare un racconto per ogni ospite, da trasformare in funzione della gerarchia delle sue curiosità e del suo buon gusto. Perciò appare di grande significato che i grandi assi rettilinei non fossero pensati per faticosi e noiosi percorsi, ma solo per offrire alla percezione visiva di chi li intersecava l’esatta misura delle dimensioni enormi di quell’umano governo della natura, come dimostra il re con le sue prescrizioni d’uso. E ciò spiega il vero valore del rapporto tra il significato scenografico generale e le minute pratiche di utilizzazione di ogni giardino formale alla francese, un rapporto dialettico e complesso tra micro e macro, non sempre di immediata comprensione per chiunque. A illustrare la dimensione colossale di Versailles, ma anche la cura ossessiva del particolare, restano per esempio i documenti relativi ai macchinari per il rifornimento idrico destinato sia all’irrigazione continua sia all’alimentazione del complesso delle fontane e dei laghi geometrici e artificiali: una ciclopica apparecchiatura costruita a Marly che mai riuscì a funzionare (fig. 5).

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7. Incisione dei primi decenni del xviii secolo con la Fontaine de Flore all’interno del parco di Versailles.

9. Théâtre d’Eau a Versailles in un’incisione elaborata nel 1741 da J. Rigaud.

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Architetture vegetali Le parti centrali dei grandi comparti vegetali connessi al palazzo reale di Versailles sono un sistema di giardini di misure più contenute capaci di vita autonoma, come fossero il susseguirsi di piazze in una città. All’interno delle varie scene formate con maestria e sapienza scenografica dall’uomo, si svolgeva la vita all’aperto dei nobili della corte del Re Sole, in un succedersi incessante e proteiforme di feste e passeggi. Le incisioni che raffigurano il parco di Versailles, sono innumerevoli e tra il xvii secolo e il successivo invasero l’Europa (erano in vendita a fogli sciolti a Parigi presso Mortain, pont Notre-Dame), diffondendo l’ideologia e il modello del giardino formale alla francese, anche prima che specifici trattati dedicati alla nuova arte dei giardini ne codificassero le tecniche e il gusto. La Fontaine de Flore (fig. 7), dei primi decenni del xviii secolo, rappresentava metaforicamente la primavera. La grande piazza è la traslazione metafisica di una scena urbana: grandi pareti verdi minuziosamente potate dalle cui sommità emergono gli alberi naturali, simulano quinte e palcoscenico di una città. Si tratta di uno scenario analogo, per morfologia vegetale, a molti altri del parco: per esempio la piazza della fontana di Bacco, quella della fontana di Saturno, quella del bacino dell’Encelade, quella dell’Obelisco o delle Tre Fontane. Dalla piazza formata dal complicato sistema di quinte verdi e bidimensionali, di indubbio significato macroarchitettonico, si distaccano viali che delineano spazi di dimensione paragonabile a quelli di un complesso urbano e paiono parti di un’astratta e nitida città della ragione. Il fulcro del richiamo comportamentale, terminale di uno dei possibili passeggi a Versailles, era la vasca, dal cui complesso scultoreo centrale di Jean Baptiste Tuby, sgorgava un potente getto d’acqua visibile

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8. Il parco di Versailles.

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a distanza. Così, il luogo del ritrovo era anche facilmente identificabile da lontano. Un altro tipo di polo architettonico, scenografico e comportamentale del parco di Versailles è Le Théâtre d’Eau (fig. 9), elaborato nel 1741 da J. Rigaud, nell’ambito di una ragguardevole serie di scene simili: materiale iconografico per la diffusione di un monumento e della nuova ideologia del giardino. La natura vegetale fortemente domesticata è integrata dalla meraviglia di giochi d’acqua manovrati artificialmente. Il grande anfiteatro è formato dalla regolare potatura di pareti di verde, all’interno delle quali sono ricavate e disposte snelle e profonde nicchie con ritmica serialità architettonica, che incorniciano decorativamente alti getti d’acqua, rivelatori del secondo livello di codesta serialità a chi osserva. All’interno dei viali d’accesso gemelli, altri zampilli verticali fanno ricadere l’acqua in un sistema di vasche comunicanti a caduta. L’insieme di questa architettura d’acqua presuppone, ovviamente, un’ingegnosa alimentazione idraulica realizzata mediante complicati condotti, capace di adempiere le liquide geometrie mobili previste dal progetto idraulico-scenografico, in virtù delle differenze di carico e quindi di pressione nella rete. Questo sito era uno dei luoghi delle feste, delle rappresentazioni teatrali, dei concerti e dell’allestimento di raffinati balletti, ma anche un terminale e un punto d’incontro obbligato del passeggio nel parco. La scena lo comprova. Servi trasportano, nelle curiose portantine a ruote, le gran dame che raggiungono i loro cavalieri per il quotidiano, imprescindibile pettegolezzo, sempre però inframmezzato da licenze letterarie e poetiche, da qualche accenno alle scienze e all’arte e dalle pratiche indispensabili nel faticoso e praticatissimo gioco del corteggiamento. Immagini di questo genere non comunicano solamente le nuove forme e il nuovo significato del giardino ma, come è evidente, anche la teoria e la pratica di un nuovo modo di vivere.

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10. Il parterre di Versailles visto dall'Orangerie.

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11. Particolare di una tavola incisa da Salomon Kleiner per l’album Gartenpalais Liechtenstein in der Rossau. Das Orangen-Boskett, del 1738.

12. Il Grand Trianon a Versailles in un’incisione di J. Rigaud del 1741.

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Scenografie vegetali 11

Nella prima metà del xviii secolo, in tutta Europa il giardino formale è la scenografia vegetale di incontri e feste. Come per la scenografia teatrale, si organizza l’ambiente arricchendo le scene fisse con gli accessori botanici, che gli addetti trasferiscono dalle serre al parterre per la sistemazione seriale e matematica degli alberi. Il proprietario, all’opposto del gentleman inglese, è indifferente a queste pratiche di scena: comparirà come il protagonista di una commedia, quando tutto il giardino sarà pronto. Il particolare di una tavola incisa da Salomon Kleiner per l’album Gartenpalais Liecht­enstein in der Rossau, Das Orangen-Boskett del 1738 (fig. 11), è di grande interesse sotto questo profilo, per il suo significato antropologico culturale. Il giardino è una vasta scenografia oggetto di continui allestimenti, nei quali non esiste differenza tra manufatti e alberi. Questi sono governati da una concezione del paesaggio basata sulla serialità, ottenuta mediante la reiterazione di tipi geometricamente domesticati con l’ars topiaria, capaci di formare le fughe prospettiche, offerte alla percezione visiva con intenti allegorici, come rappresentazione di potere. Si tratta di un potere a più dimensioni, la più significativa delle quali non è quella dell’uomo ricco e nobile che manifesta il suo prevalere sul meno ricco e meno nobile, in una dimensione sociologica tradizionale. Quello che conta anzitutto, inconsciamente per chi pratica l’estetica del giardino formale, è il potere dell’uomo sulla vegetazione, serialmente prostrata ai suoi voleri. Già nell’Inghilterra del xvi secolo l’interdipendenza diretta tra il proprietario, il gardener, e il suo giardino, aveva posto le premesse per un nuovo rapporto: quello dell’uomo con il singolo individuo vegetale che sarebbe stato alla base della rivoluzione epistemologica implicita nel landscape gardening, il giardino paesaggistico conosciuto in Europa come giardino all’inglese, opposto al giardino formale. Il Grand Trianon era il luogo, all’interno del parco di Versailles, ove il Re Sole amava ritirarsi per riposare dopo le fatiche

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sopportate nel palazzo: una scena (fig. 12) incisa da J. Rigaud inquadra un momento di codesto riposo e fa parte di una serie dedicata ai giardini di Versailles risalente al 1741. Qui il giardino come scena teatrale della vita è completamente allestito grazie al lavoro dei numerosi addetti che dall’alba hanno accudito a ogni particolare dell’insieme. La cospicua architettura del padiglione, le pareti vegetali potate in forma di superficie regolare, gli alberi selvaggi che dietro quelle appaiono, sono le parti fisse della scena. Ma ormai l’impianto idraulico è stato attivato, e gli zampilli raggiungono le altezze prestabilite. Anche i vasi e i contenitori cubici dei piccoli alberi sono stati tolti dalle serre e tutto è pronto per lo spettacolo previsto. È un giardino più privato, più modesto nelle sue dimensioni e più chiuso, relativamente per pochi fruitori, rispetto al gran parco in prossimità del palazzo reale. Gli spazi interni che erano obiettivi finali di un itinerario e di un passeggio, rappresentavano alternative nella geografia del possibile della vita di corte: in questa occasione sono l’unico scenario per la privacy del re e dei suoi più fidati intimi. Ne risulta una sorta di giardino privato dove le misure sono psicologiche prima che fisiche, dove ci si ritrova quotidianamente con la piccola comunità per contemplare una scena invariabile e senza alternative. Ogni grande parco è simbolicamente territorio per una continua scoperta, passibile di qualunque sorpresa, suscitatore di innumerevoli avventure e sensazioni, luogo e metafora di un’ininterrotta conoscenza. Un giardino più piccolo non offre un’analoga gamma di opportunità neppure al visitatore occasionale, il quale, dopo il consumo visivo dell’insieme, è già in grado di comprenderlo tutto, sia pure nella sola struttura macromorfologica, proprio per questa dimensione contenuta. Così, come fosse un grande salone di un palazzo per il quale il semplice esame dello spazio architettonico e del sistema decorativo rende tutto noto, questo giardino diviene la scena senza infingimenti del teatro della vita.

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Nella Lombardia della metà del xviii secolo, il giardino come scena insostituibile dei comportamenti sociali, basati sulle grandi feste private, è straordinariamente rappresentato dalla creazione dell’architetto francese Jean Gianda per il decoro integrativo della villa del nobile Giuseppe Antonio Arconati Visconti a Bollate, nei pressi di Milano, progettata dall’architetto Giovanni Ruggeri. In un’incisione di Marc’Antonio Dal Re del 1743 (fig. 13), la scena presenta il giardino come una sorta di laboratorio per la sperimentazione di una possibile fantastica città futura, costruita attorno a spazi metafisici, non presenti nella città reale. Per la Lombardia del tempo, è il più grande giardino ed è uno spazio scenografico definito da pareti vegetali naturali e artificiali, che forma un microcosmo metafisico e raffinato per la vita elegante. Mentre in Inghilterra si consolida il giardino paesaggistico, nell’Europa continentale della prima metà del xviii secolo la modellistica è interessata da una forte creatività che inquieta la staticità del giardino formale alla francese. Ai cabinets (le stanze ricavate spazialmente nelle fitte piantumazioni a bosco che avevano avuto ratificazione e massima sperimentazione a Versailles) si sostituisce una vera architettura vegetale, che forma nei giardini una sorta di complessa microurbanistica. Il giardino diviene un intrico di percorsi e spazi, sempre inusitati per ogni frequentatore, secondo le ge-

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13. In un’incisione di Marc’Antonio Dal Re del 1743, una scena del giardino della villa progettata dall’architetto Giovanni Ruggeri di Giuseppe Antonio Arconati Visconti a Bollate, nei pressi di Milano.

14a, b. le tuileries prima e dopo I giardini delle Tuileries erano il sistema di parterre più importante e significativo di tutta la Francia, essendo il giardino del palazzo dei re a Parigi. Qui sono riprodotti gli stati di fatto rispettivamente alla metà del xvi secolo e alla metà del xvii: dall’antica costanza della tradizione europea al rapido mutare imposto dal nuovo gusto. Nella prima immagine è contenuto il senso dell’hortus conclusus,

del giardino dei semplici e della novità dell’orto botanico: una sapienza sufficiente a padroneggiare ogni idea del giardino, anche con finalità estetiche e contemplative. La classificazione che si evince da questa incisione è di tipo ordinativo-conoscitivo: erbe, fiori, alberi, erano infatti domesticati nelle diverse posizioni della scacchiera, come fossero libri negli scaffali di una biblioteca dai quali scegliere quanto interessa. Il percorso in questo giardino, peraltro costituito anche da boschetti e da un labirinto, era dunque segnato da un susseguirsi di vegetali organizzati fra loro in maniera tale da porgere alla percezione di chiunque la colonia di una specie, o un ricco insieme di varietà. Ciascun riquadro coltivato era sempre un terminale di una specifica attenzione, mai uno spazio gratuito per una semplice funzione scenografica. La simmetria fungeva da matrice di una struttura complessa, basata su interdipendenze non solo formali ma, legate alla conoscenza del mondo vegetale, anche culturali, per l’avvicendamento delle specie e per i loro rapporti, e paesaggistiche, per i quadri vegetali contrapposti a sistema. André Le Nôtre, autore del progetto del parco di Versailles, trasformò radicalmente i giardini delle Tuileries secondo le prescrizioni del nuovo gusto. La storia della sua famiglia era strettamente intrecciata con quella delle Tuileries. Il nonno Pierre li aveva curati nella seconda metà del xvi secolo al servizio di Caterina de’ Medici; il padre Jean ne fu il soprintendente al tempo di Luigi xiii. La riforma di Le Nôtre è globale ed epistemologica, perché proprio di una nuova scienza del giardino come forma di comunicazione si tratta. L’interesse estetico e botanico per il mondo vegetale è qui stravolto rispetto al precedente modello tardorinascimentale. Non sono più i vegetali in sé l’oggetto dell’osservazione e della contemplazione: a loro è affidato solo il compito della composizione di una scena visivamente gradevole per la vita elegante e raffinata dell’uomo. Così, la simmetria è piegata alla semplice esigenza di formare un asse prospettico generatore della disposizione speculare di una decorazione calligrafica. Un assetto talmente perfetto da richiedere una fissità nel tempo, impossibile con la sola vegetazione, naturalmente mutevole per crescita e variazioni stagionali. Il giardino, quel grande tappeto posto dinanzi al palazzo, sarà perciò sempre più intessuto di materiali colorati inorganici e meno di vegetali. L’importante è esibire alla vista di ogni utente la meraviglia di questa simmetria decorativa e la sua complicazione formale. Implicitamente, serialità e reiterazione botaniche, potenzialmente infinite, sono espressioni visive del dominio sulla natura da parte di una potenza concreta, reale e quotidiana, un simbolo della ricchezza, necessaria a costruire e amministrare un giardino di questo tipo.

ometrie della cultura rococò. Protagonisti materici sono le grandi pareti di verde regolarmente e periodicamente potate, capaci di delimitare percorsi lineari e tortuosi, e spazi da questi accessibili. Formare per paziente domesticazione queste pareti richiedeva alcuni decenni: molte illustrazioni ingigantiscono artificialmente la reale dimensione di quelle pareti, mediante opportune scelte prospettiche. Spesso erano tralicci bidimensionali che reggevano a mo’ di tutori i rampicanti, altre volte erano pareti di legno preliminarmente dipinte, atte ad accogliere un’applicazione effimera e temporanea di foglie e fiori. In ogni caso si trattava di un sistema figurativo e spaziale nuovo e originale, la cui specificità e autonomia deve ancora essere compiutamente indagata.

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15 e 16. Nelle incisioni di Salomon Kleiner del 1737 i modelli di potatura per due boschetti architettonici. 17a, b. Il disegno di un’aiuola nel trattato che Antoine-Joseph Dézallier d’Argenville pubblica a Parigi nel 1709.

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La codificazione del giardino formale Nel 1709, Antoine-Joseph Dézallier d’Argenville pubblica a Parigi il trattato che codifica il giardino formale alla francese, il cui monumento celebrato era già allora il parco di Versailles costruito dall’architetto André Le Nôtre: La théorie et la pratique du jardinage, où l’on traite a fond des beaux jardins appellés communément les jardins de plaisance et de la propreté, avec les pratiques de geometrie nécessaires pour tracer sur le terrein toutes sortes des figures. Et un traité d’hydraulique convenable aux jardins. La concezione spaziale del giardino formale francese seicentesco, che si diffonderà in tutta Europa oltre la metà del secolo successivo, è strettamente connessa alla rappresentatività del potere che doveva essere espressa dall’architettura e dal suo intorno. Versailles è l’archetipo e il modello concreto e irraggiungibile di tutto questo. La residenza reale e della corte, fuori dalla capitale, e il suo grande giardino sono costruiti per volontà del Re Sole, che cura minuziosamente i lavori. Il parterre à broderie, l’insieme di grandi aiuole raffinatamente delimitate da preziosi disegni, da bordi di cespugli sempre potati, e integrate da ghiaia colorata, forma quasi un grande tappeto davanti al palazzo, stabilendo un modello che per circa un secolo verrà reiterato da tutti. Da questo fortunato ed esaustivo trattato, che didatticamente propone gli schemi generali degli impianti formati da grandi assi/prospettive, insieme a ogni dettaglio estetico e tecnico, è riprodotto il disegno di un’aiuola (figg. 17a, b) con il modo di realizzare il progetto sul terreno. Il complicato motivo decorativo era formato prevalentemente da materiale non botanico: minuti sassi, marmo e pietre policrome frantumate. In questa scenografia a terra, offerta alla percezione visiva per un preciso consumo prospettico, non potevano esistere né fiori né erbe: con la loro vita biologica avrebbero inficiato la rigida perfezione delle forme, dei colori e dell’insieme. Il materiale vegetale era impiegato solo nelle cornici a verde delle aiuole e regolarmente potato. Scopo del giardiniere artista era quello di perseguire la massima raffinatezza del disegno. Le edizioni, successive alla prima del 1709, del trattato per il giardino formale alla francese di Antoine-Joseph Dézallier d’Argenville, si arricchiscono progressivamente di immagini: modelli offerti a chi volesse conoscere rapidamente tutte le figure di questa modernità. Come fossero scenari coniugati al futuro del proprio giardino, un proprie-

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18. Il complesso di Badminton House, residenza del Duca di Beaufort, in una raffigurazione tratta dalla raccolta di incisioni Nouveau théâtre de la Grande Bretagne: ou description exacte des Palais de la Reine, et des maisons le plus considérable des seigneurs & des gentilshommes de la Grande Bretagne, stampata a Londra nel 1708.

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tario e il suo giardiniere vi potevano scegliere l’assetto da conferire alle diverse parti del loro territorio. Fra i media più efficaci nella diffusione dell’estetica alla francese furono le incisioni, stampate a fogli sciolti, dedicate a più famosi parchi di nuovo gusto, in primis a quello di Versailles. Ma era anche necessario affrontare la dimensione tecnica, e il famoso trattato dovette a questo la sua fortuna editoriale (una prima traduzione inglese nel 1712 e numerose edizioni in Francia durante la prima parte del secolo). Altri libri, stampati e diffusi in tutta Europa, utilizzarono quel materiale secondo il metodo della riproduzione delle illustrazioni originali poi rilegate in fascicoli più agili. Un esempio tedesco (figg. 15 e 16) di Salomon Kleiner del 1737, dedicato al giardino viennese del Principe Eugenio di Savoia, suggerisce al lettore una possibile scelta fra due boschetti architettonici e geometrici, basati sulla potatura regolare dell’impalcato alto. Il messaggio è evidente: un luogo di incontro nel giardino, l’antica radura sacra nel bosco selvaggio, deve essere governato con buon gusto, e con forme che dimostrino che si sta vivendo nell’età della ragione, da intendersi anche nell’accezione di governo matematico della vegetazione. Una parete verde continua è lo sfondo delle due scene e davanti a essa le piccole colonne dei tronchi che sostengono il fogliame geometrizzato formano una spazialità significativa. All’interno del boschetto, una coerente aiuola a broderie, un vero e proprio ricamo. Che il boschetto sia rettangolare o ovale è lasciato alla scelta del committente, il quale deve però sapere che il meglio sarebbe averli entrambi nel proprio giardino.

La diffusione del giardino formale

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Il complesso di Badminton House nella contea di Gloucester era la residenza del Duca di Beaufort. Si componeva di una villa, di un giardino e di un grande parco qui inquadrati da un’ariosa prospettiva a volo d’uccello di tipo territoriale. L’immagine (fig. 18) è tratta dalla raccolta di incisioni intitolata Nouveau théâtre de la Grande Bretagne: ou description exacte des Palais de la Reine, et des maisons le plus considérable des seigneurs & des gentilshommes de la Grande Bretagne, che viene stampata a Londra nel 1708. Il libro si configura come una fedele registrazione delle dimore della classe dirigente del tempo, una sorta di autocensimento del potere. Di lì a pochi anni, questa forma edi18

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toriale di documentazione asettica sarà capziosamente utilizzata dal circolo palladiano di Lord Burlington per diffondere il nuovo gusto neoclassico: perché fra le tavole che illustravano gli antichi edifici saranno immesse quelle relative alle nuove architetture, con la loro carica semantica innovativa. Una missione divulgativa portata a termine dall’architetto Colin Campbell con il suo Vitruvius Britannicus, or the British Architect, i cui primi due tomi furono pubblicati a Londra nel 1715 e nel 1717. Della Badminton House, riprodotta la finalità editoriale del tempo, non superava invece l’intento della mera registrazione. Ma la scena documenta il senso e il significato del governo, funzionale ed estetico, di una grande proprietà. Questa organizzazione appare come una dimostrazione matematica e geometrica della scienza secentesca. Il giardino, in Inghilterra, in Europa e nel mondo, non aveva ancora saltato la barriera dei suoi tradizionali recinti, radicati nell’hortus conclusus, per statuire il concetto che tutto il paesaggio è giardino. Ma questa illustrazione fa supporre che prima di quella rivoluzione già vi fosse, forse, una concezione più ampia. Qui il giardino della dimora è un piccolo spazio organizzato formalmente, ma la tessitura del territorio, di prati e boschi costruita con viali alberati, proposta e imposta dal proprietario al disegnatore, dimostra che con la ragione, espressa dalla rete delle innumerevoli direttrici, si può governare tutto il mondo all’infinito. Salomon Kleiner (1738) tese a diffondere in Germania i princìpi sintattici e grammaticali della teoria del giardino formale alla francese con la metodologia delle tavole sintetiche di facile comprensione; questi acquistano il significato di documentazione del senso epistemologico insito nell’idea del giardino dell’età illuministica, prima della rivoluzione imposta dall’idea del giardino paesaggistico inglese. Due scene (figg. 19 e 20) sono di tipo non alternativo ma integrativo. Come fosse una grossa ameba, il pensiero del tempo si comportava, ideologicamente, con una tolleranza tale da inglobare in sé forme e modelli apparentemente in opposizione totale fra loro. Qui la scena del sistema dei viali regolari che convergono in un grande spazio aperto, è

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19 e 20. Due tavole del 1738 di Salomon Kleiner con soluzioni diverse per un boschetto.

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21. Il giardino e il palazzo del Belvedere a Vienna.

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indizio di quanta fatica sia necessaria per il continuativo controllo di una potatura regolare. Gli alberi allineati e fra loro eguali, quasi fossero una conseguenza delle nostre attuali pratiche di clonazione, vedono enfatizzato il loro schieramento geometrico dalle pareti verdi potate per formare una superficie regolare, contro la quale si stagliano. Per l’epoca, poteva sembrare l’unico modo figurativo per organizzare la convergenza di viali in uno slargo. Ma l’immagine successiva nell’album originale, dimostra che erano ammesse soluzioni diverse, che scaturivano da concezioni della natura fra loro differenti ma non antitetiche. Qui gli alberi non formano linee regolari, basate sul principio della serialità, ma selvaggi boschetti. L’accostamento sta a significare che a quell’epoca questa estetica della natura vegetale poteva coesistere con la precedente, e non esserle alternativa come invece sarà, pochi decenni dopo in Inghilterra e successivamente in tutto il continente. Più che un atteggiamento preeclettico, aperto a tutti gli stili, questa comparazione sembra un’illuministica classificazione basata sulla curiosità scientifica, sulla volontà di comprendere tutte le opportunità estetiche e operative: meglio, evidentemente, se tutte documentate in un grande onnivoro giardino. Un altro modello di grande maniera applicata al giardino è offerto dalla residenza estiva viennese del Principe Eugenio di Savoia, l’attuale Belvedere, tratta da una raccolta di stampe a lui dedicata, opera di Salomon Kleiner del 1731 (fig. 22). In essa si coglie il rapporto tra la residenza extraurbana e l’estensione apparentemente

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infinita di un parco pensato come un giardino continuo, ordinato come fosse una tavola classificatoria di tutte le meraviglie che il gusto del tempo poteva suggerire. Eugenio di Savoia, soldato di valore e famoso condottiero, fra una battaglia e l’altra si occupò personalmente del proprio palazzo viennese e relativo grandissimo giardino, costruiti tra il 1700 e il 1723. Il giardino fu progettato dal francese Dominique Girard, come una sorta di sintesi di tutte le mode dell’epoca trasferite all’arte dei giardini: qui convive infatti la maniera formale alla francese con alcuni connotati all’italiana. La comunicazione prioritaria dell’insieme non si sprigiona dall’impianto generale con le sue sofisticate connessioni di architetture e giardini, mélange di forme e gli allineamenti compositi, ma dall’uso di alcune tecniche di giardinaggio per formare un microcosmo nuovo. Il sistema delle pareti verdi potate regolarmente, che perimetra fitti boschetti o delimita spazi, è impiegato in una scala inconsueta. I grandi allineamenti perimetrali divengono viali percorribili affiancati da parallelepipedi vegetali, che simulano edifici, talmente vasti da suscitare l’impressione di trovarsi in una virtuale ordinatissima edilizia urbana. I microspazi aperti e i porticati di verzura formano una rete più fitta, ma sempre con valore spaziale di tipo microurbanistico: attraversandoli sembra di essere all’interno di una città potenziale, in un laboratorio dove si sperimenta la botanica che si sarebbe potuta fare nella città reale. In questo giardino, l’incombenza della decorazione del parterre à broderie, essenziale per soddisfare il gusto del tempo, ha infatti un peso specifico secondario rispetto alla dimensione e alla complessità dell’estesa orditura di microcittà.

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22. Il giardino della residenza estiva viennese del Principe Eugenio di Savoia, l’attuale Belvedere, tratta da una raccolta di stampe di Salomon Kleiner del 1731. 23. Il giardino del Belvedere a Vienna.

24. la critica al giardino formale Nella forma di una semplice visione d’insieme, questa incisione settecentesca che mostra in primo piano una parte del parterre del castello de La Muette, compendia l’iter di una complessa valutazione estetica e strutturale del giardino formale alla francese: una valutazione che, nella logica illuminista della critica alle verità del passato, ne distrugge dialetticamente e polemicamente i più radicati fondamenti. Nel manierismo tardo cinquecentesco, il presupposto dell’artificialità decorativa di ogni aiuola era che il laborioso ricamo grafico-vegetale della broderie fungesse da dignitosa cornice di interconnessione tra il palazzo e il suo più ampio giardino: una sorta di sontuoso e gigantesco tappeto steso davanti all’ingresso della altrettanto lussuosa residenza. Il principio estetico e tecnico fondamentale di questa concezione era la rigorosa applicazione della simmetria più elementare, capace di ripetere specularmente, sull’asse fondativo del suo ordine, i sinuosi disegni costruiti con materiali inerti sminuzzati per ottenere un’alternanza cromatica (grazie ai quali sembrava inutile l’uso dei fiori, così instabili

nel tempo), e da qualche raro sempreverde, geometricamente e calligraficamente potato. L’immagine qui presentata contesta le false certezze di questa estetica, dimostrando, nella logica del re è nudo, che quella simmetria è illusoria, essendo percepibile e fruibile da un solo punto di vista. Basta infatti percorrere il giardino, come la natura del passeggio impone, per constatare che l’ossessiva simmetria nella decorazione della parte bidimensionale del

giardino stesso non è più comprensibile. Si trasforma invece per l’occhio, in un caotico groviglio di segni e di colori, e le sinuose linee cessano di formare figure riconoscibili. La critica è specifica ed efficace. Tuttavia, nel determinare il destino del giardino formale alla francese, risulterà ancora più decisiva un’altra considerazione, relativa al rapporto uomo/ natura vegetale, che si stava diffondendo fuori di Francia, in Inghilterra.

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25. Il parco di Villa Pisani a Stra (Vicenza), costruito nel Settecento su progetto di Girolamo Frigimelica de’ Roberti, è orientato su una prospettiva lunga sul modello di Versailles. 26. La veduta aerea mostra la posizione di Villa Pisani rispetto al fiume Brenta e l’articolazione con il giardino paesaggistico ottocentesco. 27. Il giardino della reggia di Caserta, che riprende il modello di Versailles. 28. Uno scorcio del giardino paesaggistico, con cui fu arricchito il parco della Reggia di Caserta nell’Ottocento.

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Una rivelazione estetica: il giardino paesaggistico

Tutto il giardinaggio è pittura di paesaggio

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1. Claude Lorrain, Paesaggio pastorale, 1638. 2. Claude Lorrain, L’albero di quercia nella campagna, probabilmente del 1638.

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Dopo che le nature morte avevano portato nelle case didattiche scene policrome dedicate alla contemplazione dei fiori, verso la seconda metà del xvii secolo, quadri di altro genere cominciarono a proporre un metodo nuovo per gustare la natura vegetale. Oltre che al paesaggio fiammingo, registrazione di scene reali e globali, l’attenzione venne rivolta ai particolari del paesaggio italiano, pregni di nuovi valori semantici indispensabili al rinnovamento della sensibilità estetica. Il riferimento obbligato è a Claude Lorrain (1600-1682), autore del Paesaggio pastorale del 1638 (fig. 1), a Salvator Rosa (1615-1673), a Gaspard Dughet (1615-1675) e al suo più anziano maestro e cognato Nicolas Poussin (1594-1655). Il poeta inglese Joseph Warton, in un elogio per Capability Brown, maestro del giardino paesaggistico, citerà in rima Lorrain, Rosa e Poussin: «What e’er Lorrain light-touched with softening hue, / Or savage Rosa dash’d, or learned Poussin drew». Le rovine architettoniche ambientate nel paesaggio della campagna romana, ormai ridotta a terra di pastori, sono la manifestazione visiva di quello che la critica inglese definirà «the sublime and the beautiful in landscape painting». Il mondo vegetale preferito come protagonista agli infiniti possibili paesaggi della domesticazione agricola, è quello naturale, selvaggio e dell’autonomia, sia pure casuale. Si trattava di un modo completamente nuovo di contemplare la natura per la cultura europea e per tutti i suoi progetti genetici: simili alberi e simili scene non esistevano in alcun giardino del tempo. Quando William Kent, pittore, architetto, poeta e paesaggista inglese, sarà a Roma nel 1710 con Lord Burlington, propugnatore del Neoclassicismo inglese, troverà in queste tele una rivelazione estetica. Correlandola al giardino europeo, presto si comprenderà il senso di una frase del poeta Alexander Pope: «Tutto il giardinaggio è pittura di paesaggio». La rivoluzione epistemologica del rapporto estetico uomo/natura consiste nell’ipotizzare, per la prima volta in Europa, un’interdipendenza alla pari tra l’uomo e l’individuo vegetale, così come da sempre accadeva nel Sud-Est asiatico, dove il contadino intratteneva con il mondo vegetale un rapporto amichevole improntato al reciproco rispetto. Un’altra opera di Claude Lorrain, L’albero di quercia nella campagna (fig. 2), probabilmente del 1638, dimostra l’assunto della nuova concezione estetica, mettendo in scena come unico attore un albero: esteticamente, e non solo tecnicamente, autosufficiente. William Kent propose che l’innovazione divenisse metodo per la formazione di un nuovo giardino, paesaggistico appunto, nel quale la natura (o meglio l’idea che della natura

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si stava delineando) prevalesse sull’artificio. Così, tutto il paesaggio poteva essere inteso concettualmente come un giardino illimitato. Per questi motivi, Horace Walpole definirà alla fine del xviii secolo William Kent il padre del giardino moderno, del landscape gardening. Se William Kent aveva saltato la barriera concettuale dei limiti storici del giardino europeo, sarà Capability Brown a saltare i limiti fisici, le perimetrazioni murate, di ogni giardino, anche vastissimo. La distruzione del recinto, mediante l’artificio dell’haha (il vallo che impediva agli animali l’accesso nel giardino, ma assicurava una percezione visiva senza ostacoli, estesa all’infinito) impose nuove e complesse categorie estetiche con le nuove dimensioni fisiche. L’hortus conclusus lasciò il campo al mondo intero. Confluirono in questo processo il ricorso artificioso al gusto della cineseria e la scoperta di un’estetica fondata sull’asimmetria; e una nuova sensibilità che ingentiliva il rigore dello stile neoclassico.

Palladianesimo e landscape gardening Nel 1718 Stephen Switzer pubblica a Londra in tre volumi il suo lavoro Ichnographia Rustica: or, the Nobleman, Gentleman, and Gardener’s Recreation, un ampliamento e rifacimento di un’opera del 1715. Dalla pubblicazione del trattato di d’Argenville, fondativo per la diffusione del giardino formale francese, sono passati pochi anni, ma già questo libro inficia quelle certezze. La planimetria di un giardino di Switzer (fig. 3), possibile e auspicabile, unisce il gusto olandese dell’attenzione ai dettagli e la grande maniera francese con il Rural and Extensive Gardening. A pochi anni dalla pubblicazione in Francia del trattato architettonico per il giardino formale alla francese di Antoine-Joseph Dézallier d’Argenville, in Inghilterra tutto quell’insegnamento è contestato. Il cambiamento è radicale e implica un completo mutamento dei valori estetici. Già alle spalle della villa, il parterre à broderie ha dimensioni limitate, e la grande croce d’acqua e del viale trasversale sembra avere il significato di un sistema cartesiano della ragione nel quale si attestano altre geometrie, quelle della complessità sperimentale. La linea curva, la serpentina ripresa concettualmente dall’estetica orientale dell’asimmetria, sarà protagonista del giardino paesaggistico inglese, nella sua lotta vittoriosa contro il giardino formale alla francese. Le serpentines (quella del corso d’acqua e quella più esterna del viale alberato) interconnettono patterns botanici complessi e diversificati come se questo giardino dovesse contenere tutti i futuri possibili del giardino settecentesco europeo, mediante la sperimentazione di ogni sensibilità nuova rispetto ai canoni del giardino formale. Nel quarto volume del Vitruvius Britannicus di J. Badeslade e J. Rocque, stampato a Londra nel 1739, è inserita un’incisione di Rocque (fig. 4) del 1736 (messa in vendita precedentemente in foglio sciolto) che illustra il giardino di Chiswick di Richard Boyle, conte di Burlington: è il monumento del giardino teorizzato dal cenacolo dei palladiani, propugnatori di un neoclassicismo concepito anche come forma di modernizzazione nazionale e occasione di nuovi rapporti con l’Europa e con la sua storia. Qui lavorarono sino al 1720 circa, Charles Bridgeman (morto nel 1738, progettista dell’analogo straordinario giardino di Stowe, del quale si stampa dal 1732 una guida per il visitatore) e William Kent (1685 ca.-1748), gli amici del poeta Alexander Pope (1688-1744) e protagonisti del circolo artistico promosso

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3. Planimetria di un giardino nel volume di Stephen Switzer, Ichnographia Rustica: or, the Nobleman, Gentleman, and Gardener’s Recreation, pubblicato a Londra nel 1718.

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4. Il giardino di Chiswick di Richard Boyle, conte di Burlington, nel quarto volume del Vitruvius Britannicus di J. Badeslade e J. Rocque, stampato a Londra nel 1739.

da Burlington. Allo stesso circolo apparteneva Robert Castell, che nel 1728 veicolò una rinnovata conoscenza del giardino romano per mezzo di una ricostruzione neoclassica e fantasiosa dei giardini di Plinio. Da codesta passione di far rivivere l’antico, scaturisce questo modello di giardino fantastico e completo delle necessarie integrazioni architettoniche. La cultura della complessità, nell’articolarsi delle geometrie inconcluse, cerniere per il disegno di nuovi giardini, riconduce alle ricerche di Switzer e Langley contemporanee alla costruzione del giardino, filtrate però da una componente concettuale e propositiva ormai fortemente paesaggistica, matrice storica del landscape garden­ing. Anche qui l’intricato patchwork si presenta non come un sistema eclettico, ma come una collazione ragionata di tutte le geometrie possibili per la formazione del giardino di qualunque futuro, nel quale la linea curva, la serpentina, sarà comunque protagonista. L’esame di questo progetto culturale mette in risalto il rapporto organico tra il palladianesimo (che altro non è che Neoclassicismo preromantico) e il giardino non più formale. I piccoli edifici classici, analiticamente presentati come in un catalogo, fra i quali è una grotta manieristica, dialogheranno da allora con ogni giardino paesaggistico.

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5. artificio e natura

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Saltare la barriera: tutto il paesaggio è giardino Un disegno del 1730 circa (fig. 6), preparatorio per la costruzione del giardino di ­Farley, è attribuito a Charles Bridgeman, il garden designer più alla moda nell’Inghilterra dell’età della distruzione dei fondamenti geometrici e ossessivi del giardino formale alla francese. Bridgeman fu l’iniziatore di una pratica che fruiva della guida teorica di William Kent, la cui sensibilità aveva percepito l’urgenza di una nuova estetica. «Ma il colpo da maestro, il passo che porta a tutto quello che seguirà (il primo pensiero io credo sia di Bridgeman), fu la distruzione dei recinti murati e l’invenzione dei fossati; una prova azzardata che parve allora così sbalorditiva che fu definita volgarmente con l’esclamazione ha! ha!, per sottolineare la sorpresa di trovare subitaneamente una breccia imprevista durante la passeggiata». Così scriveva nel 1784 H ­ orace Walpole, collocando Bridgeman fra i padri fondatori del giardino moderno, perché proprio 6

Nel giardino di Chiswick, le piccole architetture neoclassiche o palladiane, scansioni armoniose di tipo quasi musicale della sequenza dei fuochi panoramici di un paesaggio simile a quello delle contemporanee scene pittoriche, possono acquistare connotazioni semantiche fra loro alternative. Come è il caso di un’organizzazione geometrica di vasi d’arancio disposti di fronte al tempietto, attorno al lago dominato da un obelisco. La collocazione paesaggistica di questo piccolo tempio nel giardino, naturale rispetto dell’estetica del tempo, presupponeva un grande parterre verde, quinte laterali di alberi ad alto fusto, e una sua dualità con l’obelisco. Posto sull’asse prospettico che lo collega alla centralità del bacino, il tempietto era il centro focale della scena e il suo messaggio semantico riguardante il rapporto estetico natura/cultura. Nel quadro di Pieter Andreas Rysbrack, dipinto intorno al 1730, dieci anni dopo la fine del processo formativo del giardino di Lord Burlington condotto da Bridgeman e Kent, il sistema dei vasi per la coltivazione degli aranci, inquietante presenza cromatica in un giardino ormai senza fiori, annuncia però qualcosa di semanticamente altro rispetto alle categorie estetiche che avevano informato il giardino originario. Il triplice filare circolare dei vasi, disposti secondo un ritmo regolare, razionale e illuminista, stravolge il versante primario preromantico dell’immagine, quello dei soli manufatti architettonici piazzati in un ambiente vegetale costruito artificialmente per sembrare naturale. L’intervento umano nella coltivazione, talmente complessa da permettere una scena di questo tipo soltanto d’estate, essendo i vasi ricoverati nelle serre durante i mesi freddi, denuncia una prevalenza antropica, della quale il produttore e l’osservatore indubbiamente si compiacevano. Immaginata senza l’esercito dei vasi, la scena rimanda a un’artificialità che vuole rappresentare fedelmente la natura, in cui l’opera e la presenza dell’uomo erano sottintese e nascoste dalla magia del risultato naturalistico.

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8. Planimetria della villa e del giardino di Stowe, opera di Charles Bridgeman pubblicata nel 1739 nel volume A General Plan of the Woods, Park and Gardens of Stowe..., scritto dalla figlia Sarah. 9. Particolare dell’incisione precedente: mostra l’impianto originario del giardino presso la villa di Stowe.

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quell’artificio tecnico permise poi a William Kent, sempre secondo l’interpretazione di Walpole, di saltare la barriera, cosicché tutto il paesaggio diveniva giardino. Nel 1739, l’anno dopo la morte di Bridgeman, la figlia Sarah descrisse il capolavoro del padre nel libro-guida A General Plan of the Woods, Park and Gardens of Stowe... with Several Perspective Views in the Gardens, che documenta ai posteri anche una straordinaria carriera culturale e artistica. Nel disegno è possibile leggere la struttura di un processo di progettazione che porterà a formare il giardino delle complessità come a Stowe, antropologicamente ed esteticamente distruttivo dei canoni formali precedenti, pregno di futuri possibili non tutti poi praticati. Qui le grandi assialità settecentesche e la tessitura matematica secentesca dei percorsi nel bosco rimangono, perché oggettivamente giovevoli per qualunque giardino della ragione. E da questa intuizione progettuale traggono origine tutti i giardini possibili retti dall’inquietante serpentina, la linea curva emblema della nuova gestazione estetica. La planimetria di Stowe fu opera di Charles Bridgeman. La tavola che la rappresenta (fig. 8) è tratta dal volume A General Plan of the Woods, Park and Gardens of Stowe..., scritto dalla figlia Sarah. Il libro non fu però il primo a occuparsi del giardino di George West, essendo stato preceduto, nel 1732, da una guida intitolata Stowe: the Garden a dimostrare la fortuna del primo organico giardino paesaggistico inglese, frequentato allora da numerosi visitatori sempre ammirati. Nella visione generale del complesso di Stowe, incisa da J. Rigaud per il libro di Sarah Bridgeman, si vede l’impianto originario generale attorno alla villa, precedente i progetti di Kent, con le proposte di Bridgeman per il giardino e per il grande ampliamento del parco-bosco di Lord Cobham, appassionato dilettante del nuovo giardino inglese, che ne portò la superficie da 28 a 500 acri. L’impianto suggerito da questi progetti, che mirava a generare una dimensio-

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6. Disegno preparatorio attribuito a Charles Bridgeman per la costruzione del giardino di Farley, 1730 circa. 7. Il Queen’s Theatre di Stowe attorno al 1733-34, incisione di Bernard Baron dalle Views of Stowe edite da Sarah Bridgeman nel 1739.

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ne paesaggistica pur senza raggiungerla compiutamente, ha ancora un grande respiro classico secentesco, sia nel giardino che nell’intelaiatura delle diverse direzionalità dei vialoni alberati del bosco, che convergono a formare complicate geometrie triangolari e stellari. Ma in quella intelaiatura, il bosco è tessuto da una serpentina naturalistica che rifiuta, all’interno del mondo vegetale, qualsiasi riferimento a evidenti tracciati umani, per fini dichiaratamente paesaggistici. Lo stesso giardino attorno alla villa, che nell’immagine appare forse esageratamente geometrico, è fortemente complesso, nell’intreccio di colte citazioni del passato anche formali, sempre ricche di nuove e attuali suggestioni, con dichiarate anticipazioni paesaggistiche, che saranno tra le matrici del landscape gardening. Il suo elemento fondativo è la distruzione della recinzione, sostituita dall’haha. Due illustrazioni (figg. 10 e 11), testimonianze della variazione del gusto, dei valori estetici e della concezione naturalistica di un giardino, mostrano come il giardino che circondava la villa di Stowe fu modificato in momenti successivi da due architetti della corrente paesaggistica, William Kent e Lancelot Capability Brown, nel susseguirsi di una Kunstwollen tesa all’imitazione della natura mediante la costruzione di scene vegetali artificiali. La battaglia che si svolse in questo giardino, all’interno del suo intricato sistema di presenze architettoniche, di piccoli templi e padiglioni, fu di tipo estetico. Il primo intervento di William Kent, può apparire modesto, ma è epistemologicamente fondamentale per l’estetica paesaggistica. Kent eliminò, ridusse o ingentilì, quasi tutte le rette tracciate dall’uomo con la materia vegetale e mantenute da Bridgeman. La comparazione fra le due figure lo dimostra. Ma i perimetri esterni, se non quelli interni, conservarono la loro precedente linearità. Il suo intervento fu invece decisivo in relazione allo schema idrico, e per questo significativo. Se ancora gli era comprensibile un viale alberato rettilineo, per lui una vasca d’acqua non poteva che avere un contorno sinuoso, ovviamente modellato sulla serpentina. Così, la gran vasca ottagonale, in asse con la villa, e il vastissimo specchio d’acqua triangolare, divennero laghetti naturali perdendo il loro precedente valore semantico. Fu poi il turno di Lancelot Capability Brown, e tutto quanto era stato fatto da Kent venne estremizzato. L’illustrazione tratta dall’opera di Nicolas Vergnaud L’art de ­créer les jardins, pubblicata a Parigi nel 1835, documenta il lavoro compiuto da Brown a Stowe. Forse non tutto fu cambiato, ma certamente, con un’acribia censoria minuziosa, fu tolto tut-

10 e 11. Planimetrie con le modifiche attuate nel giardino di Stowe da William Kent e Lancelot Capability Brown. 12. Il giardino dei duchi di Marlborough a Blenheim, ridisegnato nel 1764 da Lancelot Brown. 13. Uno schizzo progettuale di Capability Brown, del 1764 circa, per la piantumazione circostante l’ansa di un corso d’acqua.

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to ciò che presentava regolarità geometrica. L’insieme ora pareva dolcemente e organicamente naturale, o si credeva fosse tale. Il grande architetto paesaggista inglese Lancelot Brown (1716-1783), uno dei padri dell’ideazione e della diffusione del landscape gardening, soleva rispondere ai problemi e alle difficoltà impliciti in un tema paesaggistico: è possibile. Da ciò gli derivò il soprannome di Capability, con il quale fu da tutti conosciuto: Capability Brown, quasi a connotare, con quel significato semantico, l’epoca della trasformazione estetica della natura. Un suo disegno autografo (fig. 13), databile attorno al 1764, rappresenta uno schizzo progettuale per l’organizzazione paesaggistica della piantumazione nell’area circostante l’ansa di un corso d’acqua. Appaiono evidenti le strutture morfologiche della sua idea di paesaggio naturale, da ricostruire artificialmente tramite il modello concettuale di una specifica natura, quella più consona e radicata nel territorio agricolo inglese. Le grandi radure, destinate al pascolo, sono progressivamente occupate da individui vegetali prima isolati, poi più ravvicinati, sino a divenire boschi fitti e compatti, attraversati da un sinuoso corso d’acqua ottenuto mediante consistenti movimenti di terra. Tutto questo dà forma a un paesaggio naturale che è il fattore costitutivo di ogni giardino pensabile in quel tempo. Per l’allievo di William Kent, questo tipo di paesaggio, nella sua struttura e nell’assemblaggio dei suoi elementi grammaticali, doveva trasformare, se non il mondo, almeno tutta l’Inghilterra, senza che più vi fosse differenza tra giardino e territorio agricolo. Una norma universale produce una dolce continuità, contraddistinta dall’assenza rigorosa di ogni forma geometrica che non sia mimesi della natura e anche di quei manufatti architettonici cari alle pratiche culturalistiche. Ma a

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seguito anche della sua fortuna professionale e della grande fama raggiunta, Brown finì per essere il bersaglio di polemiche sul significato e il modello della natura cui riferirsi. Humphry Repton, nato nel 1752 e morto nel 1818, attendibilmente dovette la sua longevità all’amore per i giardini. Repton coniò il neologismo landscape gardening che da allora designò il giardino all’inglese: giardino che si dissolve nell’infinito del paesaggio, a sua volta governato esteticamente dall’uomo, come due disegni dimostrano propositivamente (fig. 14). Si tratta della tecnica del prima e dopo: la prima vignetta rappresenta la scena esistente, considerata modificabile, la seconda quella possibile con l’attuazione di un progetto. Horace Walpole, nella seconda metà del xviii secolo, proponendo la prima storia del giardino paesaggistico, ne dichiarerà padre William Kent che fu capace di saltare la barriera di ogni recinzione del giardino, perché tutto il paesaggio è un giardino. Humphry Repton dimostra di cogliere questa nuova concezione del giardino in tutti i suoi progetti. La finalità è sempre di tipo estetico: trasformare il paesaggio in giardino. Con la tecnica delle prospettive prima e dopo (con le quali presentava i suoi progetti ai committenti nei fascicoli detti Red Books) si comprende il significato dei mutamenti proposti. Una vignetta rappresenta una collina parzialmente coltivata a campi regolari, quella sotto la trasformazione proposta, indifferente alla produttività agricola, ma capace di garantire un vero landscape garden, un nuovo paesaggio globale. Per divulgare questa nuova cultura, Humphry Repton si affida ai libri: il suo metodo progettuale, pensato come supporto visivo per il committente, viene così messo a disposizione di tutti. Si tratta di un metodo che, oltre alla dimensione macropaesaggistica, analizza anche i manufatti

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14. Trasformazioni paesaggistiche di Humphry Repton presentate nei suoi Red Books.

15. Trasformazioni in chiave paesaggistica di una cava e di un edificio georgiano, presentate da Humphry Repton.

capaci di comunicare l’insieme della poetica paesaggistica con i loro valori linguistici e architettonici, come è il caso del piccolo edificio. Nella sua lunga attività Repton, polemizzando con i fautori del movimento per il giardino pittoresco, dimostrerà di saper praticare anche la nuova estetica, che proponeva l’eccezionalità naturale come protagonista, e riportava i fiori nel giardino, dopo i secoli durante i quali ne erano stati esclusi. Lo spirito romantico è la matrice del giardino paesaggistico; propone con la sua alta sensibilità il complemento dialettico, antropologicamente necessario alla rigida reiterazione dell’architettura neoclassica. Sarà questa la fortuna dell’uno, il giardino paesaggistico, e dell’altra, l’architettura neoclassica. La perfezione nella traduzione di un gusto in forme, considerata indispensabile per ottenere l’obiettivo proposto, imponeva il rifiuto di compromessi. Diventando tutto il paesaggio giardino, almeno fino a dove lo sguardo poteva spaziare, qualunque ostacolo alla formazione della scena considerata ottimale doveva essere eliminato, senza alcuna considerazione per categorie non estetiche, fossero pure di importanza economica e produttiva, come dimostrano altri esempi della serie binaria dei disegni prima e dopo di Repton (fig. 15). Di grande significato è il caso del piccolo edificio nel parco: qui l’architettura è considerata da Repton come una forma di comunicazione, di sentimenti, ovviamente, prima che di stili architettonici. Al termine del xviii secolo, un edificio sobrio e funzionale, modello di elevata qualità, subisce una metamorfosi semantica. Basta un maquillage per trasformarne l’immagine, che ora dichiara architettonicamente il sentire romantico da tutti praticato. Fra poco l’età vittoriana contesterà questo: il puritanesimo generale contagia anche lo stile e la materia. Il legno e lo stucco, con i

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16. Il labirinto di alloro di Glendurgan Garden in Cornovaglia; il giardino venne creato da Alfred Fox negli anni ’20 e ’30 dell’Ottocento. 17. Un’incisione di Batty Langley presentata nel suo libro New Principles of Gardening: or, the Laying put and Planting Parterres, Groves, Wildernesses, Labyrinths, Avenues, Parks, & c., pubblicato a Londra nel 1728. 18. Uno schema di quincunx tratto dal volume di Gervase Markham, The English Husbandman, edito a Londra nel 1613. 19. Modelli per la piantumazione di gruppi di alberi presentati da Christian Cay Lorenz Hirschfeld nel suo trattato, edito contemporaneamente in tedesco e francese tra il 1779 e il 1785. 18

le coordinate per l’ordinamento di tutte le diversità possibili, alle quali attingere senza preconcetti secondo il bisogno. Con apparente casualità, come in un grande puzzle, s’incastrano raggiere inquinate da tracce sinusoidali, labirinti circolari e rettangolari, un riquadro completamente dedicato alla serpentina, il tutto costruito in un fitto bosco con la tecnica a levare, arricchito da statue e fontane nell’alternanza di piccoli giardini specializzati. Il caos strutturale è in verità la maschera mimetica di un preciso governo della ragione sulle innumerevoli possibilità di scelta offerte dalla creatività dell’uomo. L’opposizione natura/cultura, nel divenire delle pratiche di giardinaggio, tende a manifestarsi tecnicamente e culturalmente per mezzo di complessi artifici. I patterns per la piantumazione in un giardino dimostrano come quegli artifici mutassero nel tempo, in relazione alle oscillazioni del gusto e al variare dei riferimenti estetici per la formazione di un gruppo di alberi. Si poteva trovare la rete matematica del quincunx, la prescrizione agricola e paesaggistica tramandata dall’antichità classica e dai trattati romani che garantiva una coltivazione razionale, se le distanze tra gli alberi erano adeguate alla loro crescita e alla loro specie, e se l’orientamento era altrettanto corretto. Questa norma dura nei secoli come mostra uno schema (fig. 18) del 1613 tratto dal libro di Gervase Markham The English Husbandman, edito a Londra. Nel terzo volume del suo trattato, uscito nel 1780 in tedesco e nel 1781 nell’edizione francese, che codifica tecniche e gusto del nuovo giardino paesaggistico nella categoria anche filosofica dell’arte del giardino, Christian Cay Lorenz Hirschfeld impone come nuova norma per la piantumazione la regolarità dell’irregolarità (fig. 19). I modelli per la formazione di gruppi di alberi ne radunano due, tre, quattro, cinque, sei e sette, collocati in un’interdipendenza e in un’alternanza che vogliono simulare la forma naturale, contro l’evidenza dell’intervento dell’uomo nelle scacchiere a quincunx. Questa organizzazione trova giustificazione nelle ormai copiose sperimentazioni pratiche condotte dal gardener 19

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quali erano decorati gli edifici di Regent Street, e questo rinnovato tempietto, saranno considerati falsi inaccettabili, e la nuova architettura proclamerà la verità nell’uso dei materiali, all’interno della generale falsità dello storicismo eclettico.

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Modelli per la nuova estetica e consolidamento del gusto Batty Langley (1696-1751) pubblica nel 1728 a Londra il suo libro New Principles of Gardening: or, the Laying put and Planting Parterres, Groves, Wildernesses, Labyrinths, Avenues, Parks, & c. Nel titolo sono espresse tutte le figure alla moda del nuovo giardino inglese, per sollecitare l’interesse del lettore facendo del frontespizio una specie di indice gridato. Questa qualità didatticamente espressionista diverrà una caratteristica di tutta l’editoria inglese dedicata al giardino. Un’incisione (fig. 17), che fa parte di una serie di sei collocata nella sezione iniziale del volume dedicata ai princìpi del giardinaggio, prima della parte vii (Of the Kitchen Garden), illustra un giardino ripartito in quattro settori da due grandi viali alberati che si incrociano su una vasca circolare. Intorno alla vasca, quattro statue all’interno di nicchie semicircolari scavate nella massa verde, segnano i vertici dei riquadri. Dal punto di vista di un gardener, nell’incisione possiamo innanzitutto leggere una accurata descrizione della scena: un bosco di sempreverdi, uno spazio aperto con tappeto erboso, l’arancera, il giardino dei fiori, il frutteto, il giardino aromatico e in particolare della camomilla, il giardino del luppolo e il giardino dei semplici. Ma il reale valore semantico dell’immagine, come è quello delle altre cinque, è concentrato nella pluralità delle geometrie presenti in questo giardino-tipo, e perciò coesistenti dal punto di vista estetico. I grandi assi incrociati, più che essere la memoria dell’antico principio della simmetria, sembrano

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inglese nella costruzione dei giardini paesaggistici. Si tratta, infatti, della ratifica di una prassi ormai diffusa e accettata, e il codificatore è certo che le sue prescrizioni sono scientificamente esatte ed esaustive. Tra il 1779 e il 1785, Christian Cay Lorenz Hirschfeld, professore di filosofia e belle arti all’università di Kiel, appassionato dello specifico artistico del nuovo giardino romantico inglese, dà alle stampe a Lipsia un monumentale trattato in cinque volumi che tutto il pensiero inglese codifica. Il testo appare contemporaneamente in due lingue, Theorie der Gartenkunst e Théorie de l’art des jardins, con l’ambizione di sistematizzare a livello teorico e pratico, la nuova estetica e la tecnica relative alla scena vegetale. Un’illustrazione (fig. 20) del trattato, che con i modi e la complessità di un’opera enciclopedica moderna mirava a fondare e delineare in ogni sua parte, ma anche olisticamente una nuova disciplina, è proposta come esemplificazione didattica, ma ben presto venne impiegata come una specie di cartamodello per riproduzioni artigianali per qualunque giardino il cui proprietario fosse incline ad abbracciare l’estetica, ormai romantica, dell’insolito. La cornice di riferimento è l’estetica della rovina, talmente accettata, appunto, da permettere la diffusione di progetti e costruzioni di false rovine, capaci di agghindare semanticamente la scena di un giardino. Il piccolo tempio toscano, in parte rovinato, come sottolinea l’autore, è arricchito da arredi vegetali, le erbacce infilate fra gli interstizi dei blocchi del manufatto là dove la copertura è rotta. Nel centro del portico, ora aperto a causa della preordinata rovina del tetto, è una vasca quadrata. Chiuso il perimetro del portico e il suo piano di copertura con una rete, l’architettura diviene una funzionale voliera, con il piccolo edificio atto al ricovero e al nutrimento degli uccelli. Tutto è preconcetto, ovviamente, dall’immagine romantica dell’architettura alla valutazione che questo involucro sia un ambiente grazioso di indubbio ed entusiastico gradimento dei volatili. In questa prospettiva l’insolito diviene l’ingrediente per la formazione di ambienti analoghi a quelli dei paesaggi pittorici, pittoreschi, appunto, gradevoli al gusto ormai generalizzato e di massa di un romanticismo codificato nelle sue dimensioni più elementari. Tra il 1776 e il 1778, l’incisore ed editore Georges Louis Le Rouge gestisce a Parigi un’originale iniziativa editoriale connessa alla diffusione dell’interesse per il nuovo giardino: la vendita in forma periodica di una serie di 493 tavole, raccolte in 21 cahiers, che avrebbero costituito per l’acquirente una vera e propria enciclopedia del giardino moderno. Il titolo della pubblicazione è già significativo: Détails des nouveaux jardins à la mode. Jardins anglo-chinois. Vi è un progetto del 1782 (fig. 22) contenuto nel decimo cahier, che documenta la volontà di costruire una grotta artificiale nella forma paesaggistica, formata nel parco di Monceau. Non è un ambiente ad ampia scena fissa, percepibile compiutamente con un colpo d’occhio. La grotta deve essere percorsa per coglierne le diverse quinte e i luoghi particolari: la serra (per gli ananas e i fiori esotici), la sala da pranzo fra le rocce, la cabina architettonica. Un microinsieme figurativamente e funzionalmente coerente con la curiosità settecentesca per l’insolito e il bizzarro. Questo giardino d’inverno fu proposto da Le Rouge all’acquirente delle sue tavole sciolte e periodiche per documentare l’esistenza di eccezionalità di questo tipo, ma anche per suggerire a progettisti e proprietari modelli di riferimento per costruzioni simili. Con lo stesso metodo redasse gli altri esempi, in quantità tale da formare appunto la raccolta. Quel sapere classificatorio aveva lo scopo primario di documentare il gusto del tempo, perciò a noi serve. Ma la finalità pratica era quella di rincorrere quel gusto ormai vincente e consolidato per offrire modelli (passibili anche di ripetizioni, almeno tipologiche) a quanti a quel gusto erano interessati, ed erano già molti come l’iniziativa editoriale dimostra. Nel contempo, il periodico contribuiva alla propagazione di quel gusto proprio grazie alla sua struttura e alla sua diffusione, di dimensioni quantitative e qualitative non comparabili con gli altri media (i trattati dedicati al giardino, all’architettura o alla botanica), né con i modelli reali dei giardini esistenti, non aperti a tutti. Le immagini di simili pubblicazioni comunicano,

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22. Progetto di una grotta artificiale presentata da Georges Louis Le Rouge nell’opera Détails des nouveaux jardins à la mode. Jardins anglo-chinois, dalla serie di tavole raccolte in cahiers e pubblicate dal 1776.

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20. Il progetto di un piccolo tempio toscano in rovina presentato da Christian Cay Lorenz Hirschfeld nel suo trattato Theorie der Gartenkunst. 21. Frontespizio del settimo cahier dell’opera di Georges Louis Le Rouge, stampato nel 1799.

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23. Illustrazioni contenute nel trattato di Hermann Fürst von Pückler-Muskau, Andeutungen über Landschaftsgärtnerei, stampato a Stoccarda nel 1834.

prima del fatto specifico, tutte le curiosità settecentesche nell’idea del giardino. Il settimo cahier dell’opera di Georges Louis Le Rouge, stampato nel 1799, è un complesso Tableau le cui tavole illustrano tutta la vegetazione francese, offerta sistematicamente all’architetto che progetta i nuovi giardini. Simili repertori non sono mai di carattere esclusivamente botanico, perché il fine, appunto, è di tipo paesaggistico, e in quest’ottica il mondo vegetale viene osservato e descritto. Nel frontespizio (fig. 21) delle tavole che formano il Tableau, oltre alla lunga legenda, vi sono due specifiche comunicazioni figurative strettamente attinenti all’idea del giardino. La prima (documentazione della reale sistemazione del giardino di Mr. de Brion) spiega il microsistema di due tigli affiancati, utilizzati anche come strutture tutorie, sulle quali è governata la crescita di un caprifoglio rampicante, che forma poi tra i due alberi una dolce ghirlanda: un’immagine di memoria e gusto profondamente rinascimentali, ma di eleganza settecentesca. La seconda è implicitamente polemica verso una concezione del giardino inteso come serie di scene pittoriche, da osservare e contemplare da un solo punto di vista, come fossero l’analogia figurativa di un quadro di paesaggio appeso su una parete in casa, formata nella realtà tridimensionale. Al disegno del profilo della piantumazione di un boschetto è affiancata l’immagine della sua vista frontale, sia pure schematica, per dimostrare che la diversità dei punti di vista, per loro natura innumerabili, crea scene diverse: una posizione che contrastava con quanto prevedeva e imponeva molta teoria del giardino paesaggistico. In maniera forse anche inconscia, in queste tavole l’autore prospettava l’idea innovativa che un percorso in un giardino poteva essere trasgressivo rispetto a quello prestabilito dal progettista come il solo possibile, e che ogni morfologia vegetale aveva il diritto di mostrarsi e di farsi apprezzare da qualsiasi punto di vista. Come Hirschfeld, Hermann Fürst von Pückler-Muskau è un altro tedesco che vuole teorizzare e codificare i princìpi estetici e tecnici del nuovo giardino, a differenza del gardener inglese che preferisce operare lasciando ai tedeschi la teorizzazione del proprio lavoro. Egli interviene sull’organizzazione paesaggistica degli alberi contestando Hirschfeld. Il principe Pückler-Muskau (1785-1871), amico di Heine e corrispondente letterario di Goethe, traduce il suo studio dei giardini inglesi e la sua personale sperimentazione nella formazione dei parchi di Moskau e Braintz, in un trattato scientifico-didattico: Andeutungen über Landschaftsgärtnerei, stampato a Stoccarda nel 1834 e presto tradotto in francese e in inglese. Qui sono riprodotte tre illustrazioni di quel trattato (fig. 23). La grande scena panoramica documenta la bontà pratica dei princìpi 23


che il nobile, dilettante dell’arte dei giardini, aveva elaborato e trasposto in regole precise: questo ritaglio paesaggistico del suo parco di Muskau sembra davvero naturale. Ed è proprio la mancanza di una vera qualità naturale che Pückler-Muskau imputa alle prime norme dei trattati e alla conseguente pratica del giardino paesaggistico. Le due tavole più piccole (proposte intelligentemente in planimetria e in prospettiva d’insieme) presentano soluzioni alternative per raggruppare le alberature. La prima mostra la cattiva disposizione di un gruppo di alberi, d’effetto forzato per l’insuperabile acerbità di un concetto naturalistico. La seconda, che quel concetto approfondisce, mostra un raggruppamento meglio riuscito, relativo a gruppi di alberi piantati secondo natura, imitando cioè filologicamente quelli cresciuti spontaneamente. La polemica attorno al concetto di naturale, per la ricostruzione artificiale del mondo vegetale nel giardino, sarà l’elemento focale dello sviluppo dell’idea del giardino in Europa tra la fine del xviii secolo e l’inizio del xix. Mentre in Inghilterra già infuria la polemica tra giardino paesaggistico e giardino pittoresco, sembra che in Francia si debba ancora saltare la barriera. Nel 1808, infatti, il raffinato conte Alexandre De Laborde nel suo libro Description des nouveaux jardins de la France..., si attarda a dimostrare come si possano trasformare paesaggisticamente piccoli giardini di modeste abitazioni francesi affidandosi alle prescrizioni del gusto inglese ormai accettato da tutti (fig. 25). Come le contemporanee pubblicazioni di Krafft, anche il libro di Laborde fu stampato in tre lingue, la prima edizione parigina in francese, inglese e tedesco. Era come se in ogni Paese d’Europa, durante l’età delle monarchie napoleonidi e pur vigendo un asperrimo conflitto con l’Inghilterra, pubblicando opere che si rifacevano al giardino inglese implicitamente o esplicitamente, si volesse riconoscere non il portato di uno stile nazionale, ma una conquista di tutta l’umanità. Così, dal principio teorico acquisito, poté prendere avvio la relativa didattica, con tutta la sua forza di comunicazione. Laborde utilizzò come strumento d’insegnamento, prelevandola dal materiale ideologico e pratico inglese, anche la tecnica del prima e dopo che con tanta efficacia aveva fatto vincere al giardino paesaggistico la sua grande guerra contro quello formale (ma noi sappiamo che questa tecnica veniva ora impiegata, nella nuova tenzone estetica, proprio contro il giardino paesaggistico dai sostenitori del giardino pittoresco). Non era una questione di ragione, giacché di sola ideologia – sia pure estetica – si trattava. Tra la casa borghese e l’abitazione piacevole, che da quella si otteneva seguendo le regole di Laborde, la diversità stava nel gusto e in alcuni cambiamenti architettonici (forme non riducibili a un semplice maquillage), e soprattutto sottendeva una forte modificazione della proprietà originaria: perché l’ideologia del paesaggio senza recinzione murata del giardino richiede un’area più vasta, anzi, tanto vasta da permettere la formazione di un perfetto sistema di haha. Così come sono disposte e impostate, le scene comunicano proprio questi approcci fondativi semanticamente differenti. In altre due immagini comparative (fig. 26) Laborde non analizza il caso di un’abitazione borghese, ma quello di un antico castelletto di provincia dotato di un giardino formale a terrazze di matrice italiana, con grandi aiuole formali decorate a broderie, fiancheggiate da due laghetti rettangolari e attraversate da un passeggio assiale rispetto al castello. La diagnosi è implicita: il formale è la malattia da combattere. La terapia, quella di sempre: intervenire con il gusto e le tecniche della cultura del giardino paesaggistico.

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24. il senso personale del giardino Come tutti i grandi poeti, Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) riesce a cogliere ed esprimere sinteticamente e in forma poetica uno specifico momento storico e culturale, e non solo da una prospettiva squisitamente letteraria. Due suoi disegni del 1787 delineano più di molte opere di pittori famosi, il romantico sentimento del tempo verso quel giardino paesaggistico che impose ed espresse un nuovo rapporto tra uomo e natura. In essi, un uomo sotto l’albero trasmette una serie di messaggi inequivocabili. Anzitutto, nel disegno di Goethe l’uomo e l’albero, con il suo possente tronco e l’aggrovigliato fogliame, sono concettualmente due individui alla pari, non solo per il realismo della figurazione, che peraltro è un semplice schizzo. Sembra che il disegno voglia comunicare che i due individui hanno una loro specifica personalità: non si tratta di un uomo sotto un albero, ma di quell’uomo sotto quell’albero. Inoltre, simbolicamente, pare proclamare la fine dell’epoca in cui il giardino veniva prevalentemente consumato come scena di una festa collettiva: ora è necessaria l’affaticante, sensibile attività della contemplazione individuale della natura e del giardino. 25

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25. Trasformazione in chiave paesaggistica di una residenza borghese francese presentata da Alexandre De Laborde nel suo Description des nouveaux jardins de la France..., del 1808. 26. Un castello francese con il suo giardino formale trasformato in chiave paesaggistica da Alexandre De Laborde.

Dal maniero antico al castello elegante (per usare le stesse parole dell’autore) è il programma di queste due immagini. Nella seconda, quella della simulazione del progetto realizzato, non vi è più traccia di linee rette e lo stesso castello è ingentilito dalle due pacifiche ali residenziali, che ne mitigano l’originario significato militar-difensivo. Le due vasche rettangolari si sono fuse, formando il sinuoso specchio d’acqua in primo piano, che ospita una piccola barca. Dalla riva sale un dolce pendio a prato (mutazione paesaggistica del dislivello prima terrazzato) solcato da un sentiero a serpentina che porta al castello. La cornice di questa scena, fortemente significante, è formata dall’infoltito sistema delle alberature che, staccandosi dall’acqua, circondano il parterre, e inquadrano il nuovo castello. La morfologia delle alberature ad alto fusto, collegate in intricati boschetti, dai quali ogni tanto un albero svetta e si staglia sul cielo, crea delle vere e proprie quinte scenografiche che lasciano al centro della scena, come fosse un palcoscenico, il parterre erboso con un fondale naturale o culturale (qui il castello): è la struttura formale e semantica del linguaggio paesaggistico. Lo connota e nel contempo lo esprime in maniera inequivocabile. Le coppie d’immagini di Laborde permettono di capire la straordinaria diffusione in tutta Europa, e poi nel mondo, di un nuovo valore estetico, relativamente complesso, necessitante di una concezione epistemologica dell’idea del giardino anch’essa nuova, che non poteva certamente essere collocato nell’angusta ed effimera categoria della moda.

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Successo e banalizzazione del giardino paesaggistico Come fosse un prodotto di largo consumo di una nazione-guida dell’economia di tipo avanzato, di forte connotazione semantica, imposto nella sua concretezza ma insieme ai suoi valori simbolici, a un Paese da colonizzare, economicamente e culturalmente, così il giardino inglese è stato trapiantato nel mondo carico di tutte le sue metafore. La sua concreta presenza in Russia assume una cifra surreale. Nell’area europea della grande Russia, europea per volontà di Pietro il Grande, che fondò la città di San Pietroburgo nel 1702 per aprire una finestra sull’Europa, grazie all’opera di architetti, urbanisti e tecnici europei, sorge Carskoje Selo, nome ufficiale del sito dal 1725, il villaggio degli zar in seguito ribattezzato Puykin. Il primo impianto dedicato alla seconda moglie di Pietro, Caterina, fu opera dell’architetto barocco italiano Carlo Rastrelli, progettista del gran palazzo davanti al quale si estende un vasto giardino formale. Si deve a Caterina ii la Grande (1762-1796), che a modo suo diffuse l’Illuminismo in Russia, la complessa integrazione neoclassica, eclettica, esotica e romantico-paesaggista di Carskoje Selo. Il catalogo di Ekaterininskij Park annovera, tra gli altri, questi elementi: galleria dell’architetto scozzese Charles Cameron, ermitage, colonna, padiglione dell’ammiragliato, grotta rococò, bagno turco, piramide, ponte di marmo, fontana, sala per concerti, gran capriccio o arcata con padiglione cinese, pagoda cinese, villaggio cinese, obelisco, teatro cinese e l’arsenale o capriccio neogotico. Un’immagine litografica del tardo Settecento (fig. 27) mostra come era possibile tradurre un paesaggio russo del Nord dell’Europa in un inglese così perfetto da stupire un osservatore anche non fret-

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toloso, a riprova della capacità di convinzione dell’estetica del giardino paesaggistico. Fra le diciassette tavole che con la planimetria e un breve testo costituiscono l’opera di Louis Carrogis, detto Carmontelle, Jardin de Monceau près de Paris, appartenant à S.A.S. Mgr le duc de Chartres, pubblicata a Parigi nel 1779, quella riprodotta (fig. 29) è la più eloquente. Sia per la descrizione analitica di una parte significativa del giardino, le rovine del Tempio di Marte, sia per l’insieme complesso dell’intrico simbolico. Per il Duca di Chartres, il futuro Philippe Egalité, anglomane appassionato, Carmontelle, che elabora il progetto dal 1773, pensa il giardino di Monceau come un luogo nel quale tutto diviene festa: non un semplice giardino all’inglese, ma la riunione in uno spazio 29

27. La trasformazione paesaggistica del giardino in Russia in una litografia tardosettecentesca. 28. Il palazzo reale e il parco di Gat/ina sull’isola Dlinnaja, presso San Pietroburgo, in un quadro di Semën Y/edrin. 29. Tavola di Louis Carrogis, detto Carmontelle, con una scena del giardino di Monceau, 1779.

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unitario del giardino di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Sarà, per questo, luogo privilegiato dai pittori paesaggisti che ne ritrarranno le scene tipiche, dal lago attrezzato per la naumachia alla piramide egizia: luoghi progettati con manufatti predisposti affinché, da una certa determinata distanza, inducano l’illusione di una più ampia dimensione di ogni parte del giardino. «Se si può fare di un giardino pittoresco un luogo d’illusione, perché non farlo?» scrive l’autore. Presenta il suo giardino in diciassette quadri, scene che devono essere contemplate per comprendere lo spirito del suo lavoro, da lui considerato libertino ed etico. Una di queste scene pittoriche è appunto quella dedicata alle false rovine di un ipotetico Tempio di Marte, inserite in un ragionato disordine vegetale selvaggio. Fra le varie produzioni figurative tridimensionali necessarie alla pratica dell’estetica della rovina, questa può apparire a una prima osservazione non fra le più significative. Ma dall’intreccio dei simboli si deve estrarre il falso albero morto centrale alla scena, che diventa così protagonista non solo per la sua matrice bizzarra, ma per la coniugazione di cultura e natura. A Parigi, nel decennio che precedette la rivoluzione, J.F. Bélanger, architetto francese che aveva a lungo soggiornato in Inghilterra, e lo scozzese Thomas Blaikie, attivo anche in Germania nell’opera di divulgazione del giardino inglese, formarono, per il Conte d’Artois, il parco di Bagatelle. Ben presto divenne un passaggio obbligato di ogni viaggio che avesse per scopo la contemplazione di piante, dal momento che ve ne erano selezionate e collazionate in gran numero, organizzate secondo la logica del giardino paesaggistico. Un’eccezionale qualità botanica e il fascino paesaggistico, del quale erano parte integrante le piccole architetture e i padiglioni romantici, contribuirono a dare grande notorietà a questo giardino. Ma si poteva stare nel giardino di Bagatelle senza andarci fisicamente? La fantasia imprenditoriale della Francia settecentesca rispose a questa questione. Le manifatture Arthur et Robert produssero, tra il 1795 e il 1802, su disegno di Pierre-Antoine Mongin, una serie di larghe strisce di papier peint di tipo illusorio e paesaggistico (fig. 30). Con la tecnica romantica della rappresentazione di un paesaggio, ma con l’efficacia del trompe l’oeil, un gran salone si trasformava in un belvedere pluridirezionale, perché in ogni direzione era visibile la scena del parco di Bagatelle, in un diorama così attendibile da dare l’impressione di trovarsi al centro di quello straordinario panorama. E il panorama, neologismo inglese del 1799, fu il grande spettacolo scientifico ed epistemologico (conoscere tutto attorno a sé) di quegli anni: nel 1787, il pittore Robert Barker brevetta a Londra la sua veduta a trecentosessanta gradi, che definì la nature à coup l’oeil. Né l’antico paesaggio di una piccola tela, né l’antichissima bizzaria del trompe l’oeil, sono più sufficienti. Con il papier peint entrano nella casa sia il nuovissimo panorama sia l’affascinante giardino romantico. Insieme esprimono una verità superiore a quella reale, perché dimostrano la possibilità dell’uomo di governare la conoscenza dell’ambiente e la sua capacità di modificarlo.

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30. Papier peint del parco di Bagatelle realizzato dalle manifatture Arthur et Robert tra il 1795 e il 1802. 31. Planimetria di Sanssouci in una registrazione del 1836 che comprende le successive modifiche di Lenné. 32. Peter Joseph Lenné, planimetria di Sanssouci del 1816.

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Peter Joseph Lenné (1789-1866) fu tra i più importanti e famosi botanici e architetti paesaggistici tedeschi dell’età del landscape gardening. Si formò presso il prestigioso Jardin Botanique di Parigi e svolse poi la propria attività in Prussia. A lui si deve gran parte del rinnovamento del parco di Sanssouci, la sontuosa residenza nei pressi di Potsdam voluta da Federico il Grande. Iniziata nel 1745, divenne subito il luogo dove, tra una guerra e l’altra, il condottiero poteva riposarsi senza preoccupazione e dove morirà nel 1786. Il ricordo del giardino italiano del Rinascimento fece dire di questo grande parco che era un’Italia nella marca di Brandeburgo. Ma vi convivevano anche l’interesse botanico che il suo rinnovatore aveva coltivato a Parigi, e l’idea generale del giardino paesaggistico inglese. Il giardino siciliano, l’aranceto, il giardino botanico e il giardino nordico, presenti nel grande parco e allestiti con le specie dei siti originali, dimostrano l’attenzione di Lenné per un nuovo concetto di modernità da applicare al giardino ottocentesco. Così configurato, il grande parco di Sanssouci di quasi 300 ettari, con circa quattrocento specie d’alberi e di arbusti esotici, che Lenné rifondò completamente conservando però una serie di architetture e padiglioni, risulta una sorta di sintesi storica e geografico-culturale. Il castello di Sanssouci, gioiello del rococò tedesco, fu costruito sotto la vigilanza continua di Federico ii tra il 1745 e il 1748, su progetto dell’architetto Georg Wenzeslaus von Knobelsdorff (1699-1753), autore di altre costruzioni della tenuta, nella quale sono presenti anche cineserie. Lenné opera in questo contesto storico. Un disegno autografo (fig. 32), datato 1816, fa parte della lunga serie progettuale elaborata da Lenné per la riforma del parco. È il resoconto della conquista di tutto il territorio da parte del giardino paesaggistico, ottenuta con l’emergenza dei suoi sentieri sinuosi e del corso d’acqua generatore degli indispensabili laghetti. Dalla tensione romantica al compromesso con il buon senso ottocentesco, questo sembra essere il percorso progettuale e concettuale di Lenné tra il disegno del 1816, elaborato a 27 anni, e la registrazione del parco di Sanssouci in una mappa del 1836 (fig. 31), quando era ormai quarantasettenne. Il grande asse centrale, regolarmente alberato, che modifica il significato semantico del primo progetto, era già stato disegnato da Lenné nel 1828. Nella planimetria sono evidenti gli ampliamenti di Charlottenhof, con a fianco il grande ippodromo inquadrato in una geometria vegetale (1835). La variazione ideologica ed estetica, espressa morfologicamente in maniera esplicita, è l’approdo di un iter ventennale di progetti, attuazioni e ripensamenti.

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33-36. Vedute del palazzo e del parco di Sanssouci.

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Il fuoco della mutazione è l’intorno del castello: nel primo disegno, lo caratterizza il giardino all’inglese che si spinge sin contro il fronte dell’edificio contenuto sui lati da semplici boschetti matematici; nel secondo, il maniero è completamente accerchiato da giardini formali, sì da far pensare di essere tornati indietro di un secolo. Del polemico giardino romantico del 1816, nel quale l’acqua era semanticamente emergente, rimane il canale tortile ma non più il curvilineo laghetto quasi naturale davanti al castello, imposto come visione centrale ed essenziale: ora è spostato lateralmente, nel nucleo genetico della nuova espansione del giardino romantico, che si estende sino alla formalizzazione nuovamente geometrica e vegetale dell’ippodromo e delle altre costruzioni. Il lunghissimo viale alberato non è, come era per gli impianti secenteschi e settecenteschi, il luogo in cui si coglieva tutta la vastità di un parco, nei punti d’intersezione dei percorsi: qui si propone come ricucitura della dicotomia tra una retta organica al giardino formale che circonda il castello, e il primo giardino romantico, indebitamente secato, in maniera tale da mortificarne il senso. Gustave Flaubert, nel suo Dictionnaire des idées reçues, alla voce giardini inglesi scriveva: «più naturali dei giardini alla francese». La storia della fortuna del giardino romantico è connotata da un’infinita catena di banalità, perpetrate anzitutto dagli entusiasti adepti della nuova religione estetica. Pubblicata a Milano nel 1801, è l’opera Dell’arte dei giardini inglesi del nobile Ercole Silva, dilettante della nuova arte dei giardini, che,

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37. l’architettura nel giardino

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dapprima offre una vista della Villa Belgiojoso a Milano, conservata pressoché fedelmente oggi, e successivamente, una visione fantastica del giardino dell’autore nei pressi di Milano, completamente trasformato rispetto all’impianto originario formale settecentesco (fig. 38). Interessa rilevare che della sintassi e della grammatica del nuovo giardino (che l’autore ha attinto dal trattato dello Hirschfeld) le immagini dell’opera comunicano gli stilemi più ovvi, quelli capaci di fare di un osservatore sbrigativo un autodidatta convinto delle sue sùbite capacità di operare. Sarà così per molti e più fortunati manuali europei, soprattutto per quelli contenenti immagini di immediata comprensione e comunicazione. Ancora dalla letteratura ricaviamo gli esempi ragionati di questa situazione, incastonati in vicende umane tragiche o comiche. Nel libro Die Wahlverwandtschaften,del 1809, Johann Wolfgang von Goethe dimostra ironicamente che nell’emersione delle affinità elettive del tempo, galeotto fu il giardino, e specificamente il giardino romantico analogo a questi. Gustave Flaubert, in Bouvard et Pécuchet del 1874 (anno della parziale stesura, edito postumo nel 1881), rassegna di tutti i dilettantismi immaginabili e regala ai due protagonisti il fascino del giardino privato, gestibile da un proprietario appassionato e dilettante, mediante uno dei più diffusi e riediti manuali brevi del tempo: L’architecte des jardins di Pierre Boitard, pubblicato nella sua edizione definitiva nel 1834 e ristampato in sei edizioni sino al 1852. L’enfasi della proposizione bizzarra, ma anche della divulgazione di modelli tipologici normali, porta a considerare la folie come una categoria adimensionale e astorica, da perseguire come fosse un preciso dettato della ragione nell’età del Romanticismo. È il caso del pensiero di Gabriel Thouin, gardener e architetto paesaggista francese, espresso nel suo libro Plans raisonnés de toutes les espèces de jardins, stampato a Pa-

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Questo superbo disegno dell’architetto tedesco Karl Friedrich Schinkel (1781-1841), coerente alla forza dell’alternanza dei suoi princìpi classici e romantici, e risalente al terzo decennio del xix secolo, rappresenta la planimetria d’insieme di una villa all’antica, parte di un grande parco dotato di un ippodromo, dietro il quale è un bosco. Tutti i progetti di Schinkel, sia in forma di disegno, di incisioni o simulati in tele veristiche come ritratti paesaggistici, sono ambientati in specifici diorami, dei quali la scena vegetale è il connotato fondamentale. Le sue rappresentazioni prospettiche tendono a coniugare, anche nel contesto urbano, la rigidità dell’architettura con le forme libere del mondo vegetale. Ma la capacità di un grande artista sta anche nel comunicare valori semantici con pochi segni fortissimi. In questo caso, questa funzione è svolta dall’antica serpentina, che risulta intensamente caricata di significati romantici. La villa all’antica è dotata, nel suo immediato intorno e nel grande patio, di giardini formali. Questi sono previsti anche all’interno della pista del grandissimo ippodromo. Tra le due strutture un bosco, più dettagliato e forse più fitto di quello che, appena accennato, è al di là dell’ippodromo. Il bosco è il vero giardino, o meglio lo diventa con il percorso sinuoso dell’espressionistica serpentina, capace di trasformare alchemicamente la compattezza vegetale in un luogo romantico oltre ogni immaginazione, non solo elemento di connessione fra le due figure architettoniche, ma capace anche di essere uno spazio altro idoneo a una romantica contemplazione della natura selvaggia. Poche volte, nella storia dell’ecologia delle immagini, un segno fu capace di essere così eloquente e inequivocabile.

38. La trasformazione romantica del giardino della Villa Belgiojoso a Milano contenuta nel volume di Ercole Silva, Dell’arte dei giardini inglesi, pubblicato a Milano nel 1801. 39. Tavola di Gabriel Thouin con la trasformazione paesaggistica di Versailles, contenuta nel suo Plans raisonnés de toutes les espèces de jardins, stampato a Parigi nel 1820.

rigi nel 1820. Il volume, di 57 pagine con 57 litografie a colori, pubblicato per effetto di una sottoscrizione anticipata dagli acquirenti nel 1819, ebbe una buona fortuna editoriale, essendo stato ristampato nel 1823 e nel 1828 (in quest’ultima edizione con l’aggiunta di una pagina e di due tavole). L’ormai anziano Thouin, che era stato giardiniere del re a Versailles negli anni ’70 del secolo precedente, sembra assumere, nei confronti del giardino moderno, lo stesso taglio fondativo che fu degli architetti visionari tardo-illuministi che sostanziarono lo spirito degli anni rivoluzionari. In una planimetria (fig. 39) l’antico giardiniere, che accudiva i giardini formali di Versailles ma anche quelli romantici che circondavano il Petit Trianon, manifesta il suo sogno, più banale che sublime, di una moltiplicazione quantitativa del grande giardino e del parco del Re Sole, una moltiplicazione qualitativamente orientata verso il giardino paesaggistico. Indubbiamente assurda, perché mai la morfologia del parco sarebbe stata percepibile nella realtà di quelle dimensioni smisurate. Il disegno è fuori scala: potrebbe essere uno dei tanti progetti per un piccolo giardino indubbiamente elegante, alla moda nuova, con sinuosità caratterizzate da una fluidità sempre più ottocentesca. La litografia colorata ha un significato simbolico di proposta estetica, ma anche di sovrapposizione di valori tra l’antico e il nuovo,per la cifra semantica delle due forme.

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40. giardino e paesaggio: l’olanda e i canali Il rapporto tra una villa borghese e il canale olandese su cui si affaccia, solleva il problema della impraticabilità dei canoni del giardino paesaggistico tradizionale in certi ambienti a geografia rigida. Il piccolo edificio di Herr Boendermaker, con il corredo di un giardino del quale si vede solo la parte centrale, si presenta con tutte le sue simmetrie alla riva opposta del canale, percorsa

a filo d’acqua da una strada. Era possibile cogliere il senso di quell’assialità solo nell’attimo in cui l’asse di simmetria era intersecato ortogonalmente da una carrozza o da una barca. Un assurdo dal punto di vista paesaggistico, dunque, dovuto a motivi di immagine, perché quell’aprirsi sul canale fu fatto più per esibizionismo che non per la contemplazione estetica dall’esterno. Lo dimostra la scena sottostante: dal vertice della sua

estensione lungo il canale, il giardino offre, correttamente, il suo vero essere un hortus conclusus. La successione ritmicamente scandita di strutture architettoniche tutorie per i rampicanti, di padiglioni e di manufatti murari e di pergolati, si dipana sino all’apertura del piccolo parterre davanti alla villa che si offre alla vista solo di scorcio dalla barca e dalla carrozza, in contrasto con l’impianto assiale del suo progetto architettonico.

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41. giardino e paesaggio: i laghi prealpini in italia Anche in epoca tardobarocca e romantica varie ville e giardini dei laghi alpini si sono trovate a ripetere, almeno nell’asse centrale che dal lago va alla villa, il modello del giardino formale. Come mostrano le immagini di Villa Carlotta (a, b) e di Villa Clerici (c, in un’incisione di Marc’Antonio dal Re del 1743), entrambe sul lago di Como, le ville, stando in alto, restano visibili a chi giunga dal lago o a chi percorra la strada e non possono essere nascoste e riscoperte in un paesaggio, così la loro visibilità è enfatizzata da un asse che le rende in posizione elevata, prospiciente al lago e perciò libere da complesse strutture alberate e paesaggistiche. Sia per la villa che vede il lago che per chi giunge, il giardino formale resta, almeno per la parte centrale del giardino stesso, la soluzione consigliata dalla geografia verticale del contorno lacustre.

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1. Il banchetto imperiale nel Giardino dei Diecimila alberi, inchiostro e colore su seta attribuito a Giuseppe Castiglioni, Jean-Denis Attiret, Ignaz Sichelbarth e a pittori di corte cinesi, concluso nel 1755.

I manufatti

per il giardino romantico

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Il padiglione discreto L’incisione del progetto settecentesco di William Chambers per un piccolo padiglione a porticato con panca (fig. 3) destinato ai giardini di Kew, esprime l’eleganza raffinata, non solo neoclassica, necessaria nella fabbricazione dei manufatti per il giardino. Si tratta di un modesto padiglione in legno, da collocarsi come luogo di sosta lungo i percorsi del giardino, ma pregno di significati architettonici e ambientali. Come fosse il proscenio di un teatro, il padiglione incornicia una scena deputata al colloquio fra due persone, alla sosta riflessiva di un solitario, o alla contemplazione dell’intorno da parte di un amante della natura e del giardino. La dignità architettonica classica di questo quadrato, completato dal timpano, è delicatamente sconvolta dalle curve concavo-convesse che decorativamente convergono verso l’illusionistica chiave di volta. Tra il fondo curvo del padiglione, così protetto, e l’ambiente, il triangolo del timpano e le parti contenute dalle curve sono composti di legni intrecciati, pareti virtuali di un’architettura volutamente trasparente. Raffinato e non incombente, questo manufatto della metà del Settecento, leggero tanto da apparire effimero, si colloca nell’ambiente vegetale con eleganza non capricciosa e con adeguata riservatezza. In contrasto perciò con la retorica dell’evidenza e dell’aggressività figurativa di molti manufatti neoclassici, presto anche neogotici e più generalmente eclettici, destinati più a testimoniare la magnificenza di un giardino che a offrire comodità ai suoi ospiti. L’attrezzatura per sedersi è espressione di una cultura che tendeva a inserire nel giardino segni particolarmente discreti, diffusi e distribuiti secondo le necessità pratiche, lasciando solo ad alcuni manufatti il compito di essere protagonisti architettonici (della raffinatezza naturale dell’organizzazione artificiale), per dare alla scena vegetale il significato di una comunicazione prioritaria.

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L’esotico sintonico Nel 1715, il gesuita milanese Giuseppe Castiglioni parte per la Cina. Propugnatore di una tolleranza e di un rispetto culturali eccezionali, non si mimetizza fra gli intellettuali locali né impone il suo sapere come un prezioso tesoro da barattare. Entra nel mondo culturale del tempo e ne diventa protagonista istituendo con quel mondo un perfetto

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2. Una tavola cinese che rappresenta una scena del giardino costruito a Pechino per l’imperatore dal gesuita Giuseppe Castiglioni. 3. Incisione settecentesca del progetto di William Chambers per un piccolo padiglione per i giardini di Kew. 4. Il progetto di pagoda elaborato da William Chambers, che servì per la costruzione dell’edificio nei Kew Gardens. 5. Un padiglione luminoso pubblicato da Georges Louis Le Rouge.

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rapporto bilaterale. Castiglioni diverrà noto in Cina come pittore con il nome Lang Shih-Ning, caposcuola di un nuovo modo di dipingere che coniuga l’assonometria orientale con la prospettiva europea, con una creatività straordinaria e davvero unica (fig. 1). Tra il 1737 e il 1766, anno della sua morte, per conto dei Gesuiti della Corte di Cina e con il contributo di sette confratelli, ingegneri e idraulici, costruirà per l’imperatore K’ien-Long un giardino e un palazzo nei pressi di Pechino, ambedue di stile europeo. L’intera operazione, da un lato, può essere intesa come una sperimentazione del consumo dell’esotico europeo in Cina e, dall’altro, deve essere anche valutata come una forma cinese di osservazione dei modi europei, basata sulla curiosità scientifica. Circa vent’anni dopo la sua morte, tra il 1783 e il 1786, furono pubblicate in poche copie venti tavole dedicate a quel giardino e a quel palazzo, una delle quali, quella che rappresenta il giardino, è qui riprodotta. Al di fuori degli stilismi preconcetti, gli edifici e il giardino volevano spiegare alla Cina il senso dell’Europa (che nel 1860 distruggerà tutto il complesso per mano delle armate francoinglesi). Le tavole furono incise da artisti cinesi, sotto la guida personale dell’imperatore che voleva documentare l’opera. In un’incisione (fig. 2) che riprende la calligrafia pittorica cinese filtrandola attraverso le prescrizioni europee della prospettiva a volo d’uccello, è illustrato il labirinto con padiglione centrale, inscritto in un ampio giardino perimetrato da alte mura, lambite da due corsi d’acqua che vanno a formare due laghi artificiali. Due immagini (figg. 4 e 5) della Cina virtuale in Europa sono anche la riproposta calligrafica di uno stile esotico che ha lo scopo di caratterizzare un ambiente paesaggisticamente. Nell’età della moda della cineseria, la vita quotidiana era inquietata da immagini e oggetti che, al di là di ogni loro specifica verità, dovevano per prima cosa documentare quell’esotismo. È questo il caso dell’architettonica pagoda, ma anche della complessa macchina per l’illuminazione. Nella sua raccolta di tavole, Georges Louis Le Rouge pubblica uno stupefacente padiglione, una delle prime fabbriche europee destinata a illuminare artificialmente una particolare regione del giardino, secondo le vaghe indicazioni di una letteratura etnografica sempre magnificante l’Estremo Oriente. La ricostruzione qui esemplificata è di segno europeo nei modi e nel raffinato gusto del manufatto, con le ampolle degli olii collocate al suo esterno. Ma il significato della pratica che ne è sottesa ha origini lontane, orientali. Il progetto della prima illustrazione, la grande pagoda, come venne subito chiamata dagli Inglesi, fu elaborato da William Chambers, per nove anni in Oriente, e servì nel 1761 per la costruzione di un edificio alto circa cinquanta metri nei Kew Gardens, allora giardini reali. La costruzione della torre, più che una ricostruzione filologica e archeologica in terra inglese di un tipo architettonico cinese, introdusse nel paesaggio di un giardino europeo una pittorica dimostrazione di cineseria espressa a una scala colossale, tanto insolita per stile e dimensioni da sbalordire chiunque. È infatti la sua quantità a connotare un senso materico che i piccoli padiglioni, vere e proprie folies da tutti eseguibili, non potevano manifestare. Qui l’idea e il progetto si traducono in una grande opera, la cui motivazione non può esaurirsi nella categoria del capriccio bizzarro. La sua immagine è divenuta parte organica del paesaggio dei Kew Gardens, non solo per il consolidarsi di una forma consueta nella memoria collettiva, ma anche perché il pensiero che la generò era profondamente sintonico con la concezione matriciale di codesti giardini. Una memorabile incisione settecentesca (fig. 6), con coeva colorazione ad acquerello, rappresenta un ciclopico pergolato di vite, un rettilineo percorso protetto dal

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L’antico come decoro Una minuziosa ed espressionistica incisione di Giovanni Battista Piranesi (fig. 7) sembra essere un allestimento espositivo di tutti i manufatti che, dall’epoca umanistica del culto dell’antico al tempo delle pratiche commerciali dell’antiquariato settecentesco, hanno interessato la storia del giardino europeo tramite presenze romanticamente inquietanti, più spesso volgarmente inquinanti paesaggi vegetali di antropica fattura. L’incisione, risalente alla metà del Settecento, ha per titolo Urne, cippi e vasi cinerari di marmo nella Villa Corsini fuori di porta S. Pancrazio. Parla, cioè, di manufatti fabbricati per decorare antiquariamente un giardino settecentesco romano. Urne, cippi e vasi cinerari sono pregni di valori simbolici, in tutti i tempi e in tutte le società, e perciò universali e largamente impiegabili nel giardino, in particolare quello romantico, per la loro autonomia formale e tipologica, e per l’attitudine a stimolare sentimenti. Non vi è infatti manuale nel tempo della moda del giardino, paesaggistico, pittoresco o comunque romantico, tra la fine del xviii e l’inizio del xix secolo, ove nelle tavole dedicate agli utensili per decorare e abbellire un giardino non figurino ricchissime rassegne di urne, cippi e vasi cinerari. La forza comunicativa dell’incisione di Piranesi, che di parecchi decenni precorse quelle frenetiche attività editoriali, sta nel documentare in un’energica fusione figurativa le tipologie dei manufatti e la loro necessaria ambientazione paesaggistica. Gli oggetti sono collocati in una posizione prospettica esagerata e incombente che, implicitamente, si propone come schema rappresentativo efficace per qualsiasi progetto paesaggistico. Piranesi li fa emergere da un’architettonica zoccolatura di rocaille, che esprime matericamente il rapporto natura/cultura. All’inizio e alla fine della successione dei manufatti, ma anche a terra negli interstizi, alligna la vegetazione immancabile nei ruderi, indispensabile a qualunque immagine che voglia resuscitare l’antico, nell’ordine o in rovinoso disordine. La scena così completa si offre come modello per infinite repliche anche meno colte e raffinate. 6

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sole e infinito. Il pergolato è parte centrale del giardino della residenza del Governatore delle Indie Orientali, una presenza anche architettonica dell’esotismo europeo in quei luoghi, che sono ormai pronti a piegarsi ai dettami economici, culturali e amministrativi dell’Europa. Dal punto di vista della tecnica della comunicazione, il pergolato protagonista della tavola appare ingigantito rispetto alla sua misura reale, a causa della voluta aberrazione prospettica, spesso impiegata nel Settecento per enfatizzare grandiosità e meraviglia dei giardini nelle vedute ravvicinate. Del resto, la stessa prospettiva del pergolato, con la variazione delle parti laterali, sarà usata per illustrare molti altri giardini europei. Il pergolato si innesta sulla metà del giardino non simmetrico, ma organizzato regolarmente nelle sue parti con aiuole, riparti cintati e alberature ad alto fusto. Il pergolato, qui con volta di matrice tardosecentesca ad arco scemo, esprime tutto il fascino della sua ambiguità. Il pergolato, infatti, dall’antichità dell’età classica europea al suo revival rinascimentale, è un manufatto architettonico pensato per una crescita tutoria dei vegetali, i quali, così domesticati, portano a simulare un’architettura vegetale. Non deve, però, essere inteso semplicemente come una forma di scorciatoia temporale rispetto alla creazione di architetture verdi con i soli vegetali, poiché la struttura architettonica tutoria sulla quale si aggroviglia la crescita vegetale, chiaramente denunciata e visibile, è di per sé il simbolo di una specifica concezione del rapporto uomo/natura. Un rapporto nel quale la dimensione umana era artificiosamente celata nell’illusione di una bizzarria, matematica, della natura.

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6. Un’incisione settecentesca che rappresenta un ciclopico pergolato di vite nel giardino della residenza del Governatore delle Indie Orientali. 7. Urne, cippi e vasi cinerari di marmo nella Villa Corsini fuori di porta S. Pancrazio, incisione di Giovanni Battista Piranesi del 1761. 8. L’utilizzo dell’antico a Sanssouci.


9-11. Architetture nel parco di Stowe.

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Il tempio di pietra In un giardino, un padiglione a pianta centrale rappresenta l’asse centrale e verticale di uno spazio sacro. Senza fronte né retro e permeabile alla percezione visiva, è solo la sua copertura semisferica, metafora del cielo, a proteggere con cosmica efficacia quell’asse di sacralità che affonda nella terra. A differenza della fontana, la fons sapientiae centrale in un giardino, il padiglione può generare nel territorio diverse sacralità geografiche policentriche. In un dipinto inglese databile 1745 e attribuito a Joseph Higmore (fig. 12), che ritrae la famiglia Drake-Brockman nella sua rotonda a Beachborough, nel Kent, è evidente il significato di genius loci nel giardino. Posto su una piccola altura (il belvedere rinascimentale) il padiglione a forma di tempietto circolare, coperto con lastre di piombo, sormontato da una piccola statua di Mercurio e retto da sei colonne ioniche senza balaustra, accoglie il senso stesso della famiglia del tempo. Due donne indugiano sotto l’edificio, ove sono collocate alcune poltrone, su una delle quali il proprietario manovra un cannocchiale per esplorare, verosimilmente, il paesaggio. Un giovane figlio passeggia all’esterno della costruzione. Lontano, di là del recinto a staccionata, un abitato; a fianco, una collina. A differenza di altri manufatti del giardino, previsti per completare una scena di gusto pittorico da osservare a distanza, il padiglione a pianta centrale è l’ambiente prescelto fra molti altri dove stare, reso emblematico dell’anima del giardino proprio per questa sua caratteristica pluridirezionale. Conclusione di ogni passeggio, casuale per l’ospite, obbli-

gata per il proprietario, il padiglione neoclassico appare come un’emersione della ragione, armonica e coerente con il mondo vegetale che la circonda e la accoglie, con un’unica finalità estetica, all’epoca comprensibile e naturale per chiunque.

Il tempio di verde

12. Dipinto inglese databile 1745 e attribuito a Joseph Higmore, che ritrae la famiglia Drake-Brockman nella sua rotonda a Beachborough, nel Kent. 13. Una rotonda nell’Englischer Garten di Monaco. 14. Temple de Verdure, progettato da Jean-Jacques Lequeu nel 1792. 15. La riproposta del Teatro di verzura in una tavola di Georges Louis Le Rouge.

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Tra la fine del xviii secolo e l’inizio del xix, vi era chi pensava che in un giardino la stessa materia inerte della costruzione edilizia potesse rendere meno sacro il luogo designato per la costruzione di un padiglione a pianta centrale. Facendo propria l’ipotesi settecentesca secondo cui tutta l’architettura classica greco-romana altro non era che la pietrificazione, rituale e declamatoria, della primitiva capanna lignea, vi fu chi propose il verde come nuovo materiale di costruzione. In parte proseguimento delle pratiche dell’ars topiaria, che grazie ai treillages tutori per la crescita dei rampicanti, o con la potatura geometrica di arbusti e alberi riuscivano a comporre spazi e volumi simili a quelli formati dai manufatti edilizi dell’uomo, il padiglione verde ne moltiplicava i valori semantici. Il Temple de Verdure dedicato a Cerere (fig. 14) è un progetto del francese JeanJacques Lequeu (1757-1825 ca.), l’elaboratore delle immagini architettoniche fantastiche dell’età della Rivoluzione. È una delle numerose proposte di un’architettura vegetale autonoma e non solo ripetitiva della qualità antropocentrica dei tanti porticati coperti a botte e ricoperti di vegetazione, o addirittura plasmati dalla sola vegetazione, in forte analogia con l’architettura. Il suo significato è manifesto: la natura diviene cultura con i soli mezzi vegetali, a indicare un possibile percorso dell’uomo per meglio governarla e vivere con essa, ovviamente all’interno della complessa geografia del bizzarro, che la cultura di matrice settecentesca promuoveva per un consumo sempre più diffuso e articolato. La differenza dalle complesse figurazioni del primo Settecento, per esempio quelle proposte dal trattato di Antoine-Joseph Dézallier d’Argenville, replicabili da ognuno nel proprio giardino, sta proprio in questo: nel nuovo rapporto uomo-natura vegetale, non più solamente scenografico, ma di tipo simbolicamente vitalista.

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Il teatro di verde La natura può essere il materiale da costruzione per la formazione di ambienti architettonici di utilità umana: è questa la comunicazione trasmessa da Georges Louis Le Rouge con le sue incisioni divulgative. Il teatro di verzura fu un ambiente indispensabile del giardino europeo dall’età del Rinascimento maturo. In una tavola (fig. 15) Le Rouge propone al lettore settecentesco un esempio tipico come modello ripetibile in qualunque sito. La massa vegetale, plasmata in una stereometria elementare, viene scavata all’interno sia per ottenere diversi ambienti ellittici o rettangolari, con accesso alla scena e di utilità teatrale, sia per generare l’anfiteatro. La scena, leggermente sopraelevata rispetto alla platea naturale, è interessata dalla serie simmetrica di sei quinte formate da pareti verdi, utili per qualunque spettacolo. Sullo sfondo, oltre le due piramidi di verde potato e la statua collocata in una nicchia vegetale, due segrete stanze cilindriche con aiuola e albero al centro connettono il palcoscenico al giardino retrostante per giochi teatrali privati. Questo piccolo teatro, che testimonia una raffinata e razionale concezione organizzativa dello spazio spettacolare a scena fissa, ospitava spettacoli, manifestazioni musicali e letterarie, come fattori funzionali e organici all’idea del giardino inteso come contenitore culturale, all’interno del più ampio significato di scena designata alla rappresentazione della commedia della vita. Nel giardino settecentesco, il bizzarro e il quotidiano si fondevano proprio in questi teatri-cerniera, nel comportamento e nella fantasia dei loro frequentatori. Il tempo e la fatica necessari alla formazione di un simile edificio vegetale erano tali da renderlo comunque una presenza meravigliosa e preziosa.

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La grotta falsa Da un progetto (fig. 17) degli ultimi decenni del xviii secolo, attendibilmente dell’architetto Sandroni, è stata perfettamente costruita una grotta nel giardino della villa di Lainate di Antonio Visconti Arese Litta, per la quale Stendhal disse: jardin rempli d’architecture. La grotta naturale e quella artificiale formata con rocaille sono protagoniste dell’idea del giardino. Furono e sono i contenitori di spazi sacri, all’interno del più ampio territorio sacro separato dalle utilizzazioni pratiche e destinato al giardino. Il giardino paesaggistico era pensato per il susseguirsi di scene naturali fisse, analoghe al modello dei quadri di paesaggio, sapientemente progettate come terminali prospettici da offrire alla percezione visiva di chi ne percorreva i tracciati. L’insieme di un giardino era perciò l’artificiale assemblaggio di scenografie concatenate, costruite tridimensio-

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16. L’emiciclo delle grotte a Villa Litta di Lainate (Milano). 17. Progetto della fine del xviii secolo, probabilmente dell’architetto Sandroni, in base al quale è stata costruita una grotta nel giardino della Villa Litta di Lainate. 18. La statua di una naiade di Giulio Cesare Procaccini collocata all’interno di una grotta artificiale nella Villa Litta di Lainate.

nalmente con la vegetazione, alcuni edifici e qualche manufatto. L’obiettivo di questa concezione scenografica e pittorica del giardino non era semplicemente di natura estetica e romantica, ma investiva anche la morale, se è vero che presto si scriverà attorno all’effetto morale del giardino. L’architettura inglese che si affacciava su quei giardini si basava anch’essa su princìpi che si potrebbero dire scenografici. Quella cultura architettonica era infatti eclettica e polistilistica. Diversamente da quanto accadeva in molta cultura europea, per esempio in quella settecentesca neoclassica, in Inghilterra l’architettura non era intesa come una religione, ma come uno strumento per la vita degli uomini. Un architetto, infatti, progettava in stile neoclassico o neogotico, o neoindiano o

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neocinese, secondo le esigenze, anche culturali o sentimentali, del committente (l’opera di John Nash ne è un esempio). Nel giardino, in particolare, un ambiente dedicato a certi comportamenti poteva richiedere la scena fissa romanticamente gotica o romanticamente classica, con adeguate e coerenti essenze botaniche: così si formava la scenografia per un colloquio d’amore o per una discussione intellettuale. Anche i manufatti rispondevano a queste esigenze, come dimostra il progetto di questa grotta scenografica. Una fotografia (fig. 19) rappresenta un particolare delle pareti della grotta di Villa Litta ed evidenzia il significato scenografico insito nelle finalità progettuali e costruttive. Qui la cultura tecnica utilizza materiali poveri, come lo stucco e il mosaico di ciottoli di fiume, per ricostruire al vero il disegno del bozzetto, conservando il senso settecentesco originario di questa rocaille. Questa è una grotta falsa, ma capace della suggestione di un’immagine naturale. Se nelle grotte artificiali la volontà estetica e la perizia rinascimentali tendevano a ricostruire la natura mediante straordinari effetti illusori, nell’età romantica questo non era più necessario, e la dimensione scenografica rispondeva all’esigenza della visione d’insieme. Già nel giardino formale secentesco e della prima metà del secolo successivo i materiali erano prevalentemente impiegati per simili fini. L’ordine disegnato e policromo del parterre à broderie era più garantito dall’uso di ghiaia e pietra sminuzzata che non di materiali botanici. Spesso, nell’attesa che crescessero le vere pareti di carpino, questi erano applicati temporaneamente su pareti di legno precedentemente dipinte, per dare l’illusione di mura di verde potato, in modo da risolvere nell’immediato le necessità scenografiche di un ricevimento o di una festa. Questo dettaglio fotografico evidenzia la minuzia della materia utilizzata per costruire la scena d’insieme. La grotta riceve durante il giorno poca luce, grazie a un’apertura sapientemente ridotta; la notte l’illuminazione artificiale non poteva che essere ancor più fioca. L’importante era che il disegno d’insieme desse la sensazione di trovarsi in una grotta, o meglio all’interno dell’idea della grotta in un giardino alla moda. Ciottoli policromi e stucco, e pezzi di mattone invece di pietre costose, erano sufficienti a quella specifica rappresentazione e a quell’allestimento. Ma l’illusione programmata era doppia: perché quella grotta illusoria era pensata con vasti squarci laterali, da cui si doveva cogliere l’idea del giardino del tempo, calligraficamente previsto nel progetto con alberi, alberi morti, cespugli, urne, cippi e persino una rovina classica.

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False rovine Nel 1774 M. de Monville acquista una tenuta nel villaggio di Retz, nei pressi di Marly. In dieci anni la trasforma in un giardino modello anglo-cinese, del quale la sua stessa abitazione è parte organica e simbolica. La sua maison chinoise di fronte a uno stagno, fu forse l’unico esempio di abitazione borghese di quel tipo in Europa. Non soddisfatto, agli inizi degli anni ’80, de Monville sostituì il capriccio settecentesco con una colonna spezzata (fig. 20). Il diametro di quindici metri della base della falsa colonna, presumibilmente dorica o toscana, lascia supporre un’altezza globale di circa centoventi metri. Nel 1785 erano quasi venti le folies architettoniche distribuite nel parco e costituivano il principale oggetto d’attrazione, analogamente a quanto era accaduto nel cinquecentesco parco di Bomarzo. La bizzarria della colonna spezzata implica specifici valori simbolici, ma soprattutto adempie la funzione di gigantesca macchina scenografica, eccezionale e sbalorditiva come ogni gioco smisurato. L’abitazione, ricavata all’interno dei resti della grande colonna, è invece calligraficamente rococò, senza devianza o trasgressione alcuna. Si sviluppa su quattro piani più due interrati; le camere, otto per piano, si articolano attorno alla grande scala centrale e circolare. La sua qualità enfatica e il suo gigantismo concordano perfettamente con i fondamenti dell’estetica della rovina. Anche i particolari s’ispirano a questa stessa corrente di pensiero: lo provano le varietà dei ricadenti che scendono lungo il paramento scanalato dell’edificio-colonna dalla copertura dell’attico, nascosta dentro il cerchio delle pareti sbreccate. Per un proprietario di una folie il piacere non stava nell’usarla, ma nel mostrarla all’ospite per guadagnarne lo stupore.

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19. Particolare dello stato attuale della decorazione di una parete della grotta di Villa Litta a Lainate. 20. L’abitazione-colonna nella tenuta di Rezt, nei pressi di Marly, voluta da M. de Monville insieme ad altre folies. 21. Le false rovine del giardino di Betz della Principessa di Monaco, in una veduta tratta dal libro di Alexandre De Laborde Description des nouveaux jardins de la France et de ses anciens châteaux, stampato a Parigi nel 1808.

Il sistema delle false rovine fondato su pochi ricordi veri, è parte della costruzione del giardino di Betz, formato tra il 1780 e il 1784 dalla Principessa di Monaco, che voleva farne un modello di giardino dei sentimenti. Persino le piantumazioni dovevano essere melanconiche: pioppi italiani, sicomori, cipressi, platani e thuya di Cina. Una veduta del giardino (fig. 21), che può essere presa a emblema della teoria e delle pratiche dell’estetica della rovina, è tratta dal libro di Alexandre De Laborde intitolato Description des nouveaux jardins de la France et de ses anciens châteaux (le tavole sono di Constant Bourgeois), un’edizione stampata a Parigi nel 1808 in tre lingue, francese, inglese e tedesco, a dimostrazione della fortuna editoriale di simili pubblicazioni. L’immagine ridonda di messaggi semantici che si radicano nella memoria collettiva non solo delle figurazioni ma anche dei sentimenti. Chi non prova emozione a osservare i resti architettonici di un’antica civiltà, in particolare quella medievale, tramandate dalla storia in forma di rovina? I ruderi della scena sono perfetti anche potenzialmente: la stessa torre è interessata da una fessura catastrofica, presagio di altri prossimi irreparabili decadimenti. Sorte uguale si prepara per il tozzo sostegno del ponte in disfacimento e per il grande arco che incornicia l’immagine. Non a caso questa scena è stata riprodotta in molteplici figurazioni, sino a divenire uno dei simboli figurativi più eloquenti dell’estetica della rovina. La contemplazione della scena impedisce infatti di congetturare qualsiasi ipotesi di restauro. Il messaggio sta nella romantica interpretazione del decadimento, per sua natura irreversibile e infinito. L’intreccio semantico di rovina e vegetazione, in questa scena, è anch’esso compiuto: le erbacce che si innestano come parassiti fra le crepe degli edifici e il dilagare incontrollato della wilderness dichiara il sito luogo non più frequentato dall’uomo ma riconsegnato alla natura.

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Belvedere e gazebo Belvedere è il neologismo italiano dell’età rinascimentale che denota un luogo posizionato prevalentemente su un’altura, a volte caratterizzato da un piccolo edificio a pianta centrale, trasparente e pluridirezionale, dal quale è possibile contemplare un bel vedere. La nuova parola, come avvenne anche per i termini musicali italiani del tempo, si diffuse in Europa insieme alla cultura dalla quale era stata originata. L’essenziale e raffinato piccolo belvedere tratto da una tavola della raccolta di Georges Louis Le Rouge (fig. 22a, b), dimostra che il rapporto tra il sito, nel quale è il relativo manufatto, e il paesaggio da contemplare, protagonista del concetto stesso di belvedere, non è connesso a eccezionalità altimetriche. Basta l’altezza di un uomo, come nel caso di questo piccolo cilindro con scala interna, per portare la percezione visiva a una quota insolita e sufficiente per consumare con compiacimento un bel vedere. Nel xviii secolo, in Inghilterra, patria del nuovo giardino, venne coniato l’altro neologismo gazebo, per definire un manufatto affine a quello che si costruiva sui belvedere. La parola gazebo deriva dal verbo io gaze, che significa guardare con curiosità o meraviglia. Il termine fu ben presto impiegato in tutta Europa e poi nel mondo, a seguito della diffusione della nuova idea del giardino paesaggistico inglese. Così, una zona del giardino si trasformò da luogo deputato alla contemplazione a quello destinato all’osservazione, comportamento che richiede e privilegia la curiosità prima del piacere estetico. Come dimostra una stereotipata immagine ottocentesca (fig. 23) nel giardino pubblico del xix secolo, il gazebo assumerà, sia pure con sfumature semantiche innovative, il significato di luogo sacro, connotazione primaria del manufatto rinascimentale per accogliere, per esempio, il nuovo decoro delle bande musicali. Presentata da Alexandre De Laborde, una scena (fig. 24) che include un belvedere-gazebo è rappresentativa del nuovo giardino paesaggistico europeo. Il libro da cui è tratta l’illustrazione, grazie all’eloquenza anche semantica del sistema descrittivo, risulta una sorta di codificazione e di ratifica, seppur tarda, del gusto ormai generalmente acquisito in Europa del landscape gardening. Nelle grandi tavole del libro di De Laborde, realizzate con minuzioso realismo da veri maestri della figurazione,

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sono effigiati giardini colti sempre nella loro più squisita forma paesaggistica. In questa veduta, per esempio, tutto è paesaggio: quello artificialmente organizzato dall’uomo nel morfismo del terreno, nella sinuosità delle acque, nell’alternarsi di prato e di piantumazioni, per apparire un quadro naturale. Lo stesso belvedere diventa parte organica ed elemento attivo del paesaggio. La scena si propone dunque come l’immagine di una specifica idea del giardino, prima ancora che come il ritratto di un sito. Il tempietto è monodirezionale, perché ubicato su un’altura che impone un unico panorama. È una struttura elegante, sostenuta da snelle colonne con copertura a cono, corredata da lastre decorate con triglifi. È un esempio di come un edificio discreto, se ubicato in un luogo adeguato di un giardino adeguato, possa coniugarsi con la plastica vegetale senza alterare le specifiche qualità del paesaggio naturale-artificiale, costruito in ogni particolare secondo canoni estetici. Il taglio di questo panorama è di per sé una comunicazione e una sorta di prescrizione didattica: così, infatti, dovrebbe essere contemplato correttamente un giardino romantico. Con le quinte in primo piano, il belvedere è un grande albero che incornicia la scena profonda e plastica che si spinge all’orizzonte, verso l’infinito del vero e proprio giardino. Insegnare a contemplare un giardino significa anche insegnare a costruirlo, perché, come documenta questa tavola, si rendono percepibili e comprensibili morfologie d’insieme e particolari significativi.

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La serra effimera 22a, b. Un raffinato belvedere tratto da una tavola della raccolta di Georges Louis Le Rouge. 23. Un gazebo in un’immagine del xix secolo.

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24. Una scena che include un belvedere-gazebo presentata da Alexandre De Laborde, .

Il 20 dicembre del 1815 l’architetto padovano Giuseppe Jappelli (1783-1852) costruisce un allestimento neoclassico all’interno del medievale Palazzo della Ragione della sua città (fig. 25). A Padova, lo Jappelli costruirà prima straordinari edifici neoclassici

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La serra come scenografia

e romantici e poi, dopo un viaggio iniziatico in Inghilterra negli anni ’30, edifici neogotici e squisiti giardini paesaggistici all’inglese, in uno sviluppo che parve a molti un vero e proprio salto stilistico, dovuto alla conversione ai dettami della nuova estetica. Da un lato, Jappelli collocò due filari di pini che scaturivano in apparenza da cespugli di rose, dall’altro una sequenza di allori mista ad aranci ed esotici arbusti, mentre lo spazio coperto e illuminato artificialmente era abbellito ovunque da fiori di vivaci colori contrastanti. Fu questa l’interpretazione anche paesaggistica che Jappelli regalò ai padovani. La scenografia dell’impianto rimane sostanzialmente quella di un gran salone classico elegantemente addobbato anche con materiali vegetali, così come si faceva da moltissimo tempo negli spazi urbani e nei giardini non ancora formati. Simili paesaggi effimeri erano da decenni il luogo deputato alla sperimentazione dell’abilità dei giovani architetti, che li usavano come una sorta di saggio preliminare per ottenere l’incarico di costruire impianti vegetali stabili per parchi e giardini. Se l’allestimento vegetale in un giardino non ancora formato, ma anche in uno spazio libero urbano, suggeriva metaforicamente come in questo allestimento la continuità temporale della scena con la costituzione di veri e propri giardini, in una grande sala coperta e chiusa, con intenti decorativi ma anche naturalistici, si mirava a delineare un vero paesaggio. In allestimenti di questo genere vi era l’idea che una serra potesse non solo essere progettata, costruita e amministrata per il suo fine esplicito, ovvero quello botanico, ma che potesse avere anche finalità paesaggistiche: lo studio della natura vegetale si accompagnava e si integrava con quello della sua contemplazione. La serra paesaggistica sarà per antonomasia il giardino d’inverno, l’obiettivo primario del quale non era la conservazione dei vegetali in un microclima confacente, ma la formazione di un paesaggio surreale per l’inverno europeo, capace di trasportare gli ospiti in un luogo caldo e lontano, senza affrontare i tempi, le distanze e i disagi necessari per raggiungerlo veramente.

La serra paesaggistica, non necessariamente legata alle pratiche del vero e proprio giardino d’inverno, poteva anche essere un edificio dimensionalmente ed economicamente alla portata di tutti. Lo dimostra l’illustrazione (fig. 26) riprodotta dal Traité de la composition et de l’ornement des jardins di Louis-Eustache Audot, un manuale di larga diffusione, un tardo strumento propagandistico del giardino paesaggistico, qui alla sua sesta edizione del 1859, notevolmente ampliata rispetto alla prima del 1818. Interpretando la serra paesaggistica come una miniatura in cui stava contratto l’intero universo vegetale, chiunque avesse sentimenti adeguati poteva redigere un suo Voyage au tour de mon jardin analogo a quello di Alphonse Karr, non però di matrice naturalistica, quanto piuttosto poetico-geografico, perché suscitatore di sentimenti e di innumerevoli immaginari viaggi nei più pittoreschi paesaggi del mondo. Nell’angusto e longilineo spazio del piccolo padiglione qui ritratto, assediato da alberi, arbusti e cespugli (sempre sopraffatti da una simile domesticazione), il breve ma articolato percorso porta dalle estremità d’accesso alla piccola rotonda centrale dotata di sedili circolari, luogo del riposo, della riflessione o del colloquio. Gli ingressi simmetrici sono a un livello superiore rispetto allo spazio mediano: da ciò l’illusione paesaggistica di stare tra due alture, dalle quali scende sinuosamente e con acconcia pendenza il piccolo sentiero. Tra il fogliame penetra dall’altola luce solare o lunare, attraverso la vetrata continua. Una simile proposta, rara bizzarria 27

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25. Giuseppe Jappelli, allestimento all’interno del medievale Palazzo della Ragione di Padova, 1815. 26. Un padiglione come serra paesaggistica pubblicato nel Traité de la composition di Louis-Eustache Audot. 27. il crystal palace: la serra per salvare il parco

La scelta di organizzare la Great Exhibition del 1851 in Hyde Park, un parco famoso e uno dei grandi spazi urbani non edificati di Londra, fece esplodere d’indignazione l’Inghilterra vittoriana perché ciò significava abbattere grandi alberi per costruire gli edifici espositivi. Gli architetti si dimostrarono impotenti di fronte a questa annunciata catastrofe. Il problema venne risolto dal giardiniere e ingegnere inglese Joseph Paxton (1803-1865), che propose una non architettura, una gigantesca serra, atta a conservare gli alberi e insieme a esporre i manufatti. Lungo seicento metri, il Crystal Palace fu il monumento elevato dalla sensibilità vittoriana verso la natura. La sua ciclopica volta vetrata permise non solo di salvare grandi alberi secolari, ma anche di nutrirli e accudirli come in una serra. Paxton si era cimentato nella costruzione di grandi serre, mai però così vaste come il Crystal Palace, sperimentando sempre nuove

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e ingegnose tecnologie, basate sull’uso del ferro e del vetro. Per il Crystal Palace studiò i particolari costruttivi con tanta cura che tutto l’edificio poté essere costruito in fabbrica e montato nel parco, primo esempio di prefabbricazione edilizia. In questa immagine del tempo risultano chiaramente leggibili la tecnica costruttiva elementare ed essenziale, e la continuità delle pareti e della grande copertura a volta in vetro. I grandi alberi in primo piano provano l’efficacia botanica di questa operazione costruttiva, orgoglio dell’intera nazione per l’ardita tecnologia produttiva impiegata, che ne ribadiva il ruolo di primo Paese industrializzato del mondo: un edificio simile sarebbe stato forse impensabile con altri materiali e in altre nazioni. Ma motivo di vanto fu anche quel rispetto, allora tutto e solamente inglese, verso la natura accudita nei parchi, che proprio l’ingegnosità tecnologica aveva promosso. L’episodio del Crystal Palace liberò la serra da ogni limite tecnico e dimensionale e ne statuì i criteri costruttivi: la scarna struttura metallica ricoperta in vetro caratterizzò infatti tutte le successive serre europee come quella di Kew Garden. Gli spazi potevano essere così ampi, a condizione di disporre dell’energia sufficiente per il loro riscaldamento invernale, da consentire ai grandi alberi esotici di crescere come nei loro ambienti naturali senza impedimenti al loro sviluppo, anche paesaggistico e ambientale.

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non erano riferibili ai piccoli spazi verdi che accoglievano le infinite villette periferiche di tutte le future città industriali. Con tipico spirito pragmatico, Inglesi e Americani pubblicavano trattati e guide per organizzare in una piccola area un gradevole giardino pittoresco in cui il proprietario era anche giardiniere. Sembra che il mercato di questa editoria, al quale si rivolge Grohmann, sia proprio quello delle nuove quantità. Più che al giardino reale, l’acquirente delle tavole di Grohmann era infatti interessato all’idea del giardino facilmente costruibile mediante l’assemblaggio di pochi e semplici elementi, forse più manufatti che vegetali, capaci di grande comunicazione simbolica. Così le tavole del tedesco erano come una sorta di scatola di montaggio: qualunque fossero gli elementi da esse estratti, e in qualunque maniera fossero poi assemblati, sempre ne sarebbe risultato un giardino romantico. Un’immagine (fig. 28) raffigura la tavolozza esaustiva di tutte le connotazioni romantiche di un giardino ottenibili con l’impiego di sedili. In maniera asettica l’autore propone al lettore di scegliere, secondo il suo personale gusto: qualunque artigiano locale sarà sempre in grado di costruire il manufatto, il cui significato simbolico è prioritario rispetto a qualunque perizia esecutiva.

28. Una tavola tratta dagli album Ideenmagazin für Liebhaber von Gärten, englischen Anlangen und für Besitzer von Landgürten, pubblicati, a partire dal 1796 dall’architetto tedesco J.G. Grohmann. 29. Una panchina nel Kew Garden di Londra. 28

ottocentesca ma anche folie di possibile consumo popolare dato il suo modesto costo, è estranea alla tradizione della serra europea. Sempre destinata alla conservazione di specie esotiche o mediterranee in climi artificiali appropriati, essa mirava a soddisfare la curiosità scientifica degli studiosi di botanica e di ogni gardener, e insieme ad assicurare una domesticazione del mondo vegetale, potenzialmente infinita. In questa immagine l’interesse non è rivolto al vegetale da accudire amorosamente, ma alla scena che, proprio operando sul vegetale, può essere impostata per raggiungere effetti scenografici.

Tutti i sedili per tutti i giardini Le edizioni periodiche di fogli a stampa dedicate al giardino moderno si diffondono in Europa dopo la pubblicazione di Le Rouge. L’architetto tedesco J.G. Grohmann, professore di filosofia a Lipsia, inizia nel 1796 la pubblicazione dei suoi sessanta album, contemporaneamente in lingua tedesca e francese, completandola nel 1806: Ideen­ magazin für Liebhaber von Gärten, englischen Anlangen und für Besitzer von Land­gürten. L’enciclopedia si trasforma qui in un cartamodello per l’imperante Neoclassicismo romantico. Di un paio di decenni più tarda rispetto a quella di Le Rouge, l’iniziativa editoriale del tedesco Grohmann sembra rivolgersi a un mercato potenziale più vasto e stratificato in diverse classi sociali. I modelli di vasti giardini e di costosi manufatti

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30a-c. un esotismo n­ on praticato Un esotismo che non venne praticato nella forma di specifico revival fu quello del giardino islamico europeo, che aveva caratterizzato i paesaggi spagnoli dal­l’viii secolo sino alla Reconquista. Quando i cattolicissimi re spagnoli occuparono Siviglia e Granada, la gran capitale della Spagna islamica, l’espulsione di una civiltà non cancellò completamente le tracce, sia pure solo architettoniche, dei suoi giardini. L’Alcazar de la Alhambra, a Granada, è il più importante tra i contenitori architettonici di preziosi giardini costruiti tra il xiii e il xiv secolo dai Mori di Spagna. Numerose ricerche botanico-archeologiche hanno concorso a ricostruire la mappa anche vegetale di quell’antico splendore. Si deve a un romantico statunitense e straordinario letterato, Washington Irving (1783-1859), allora segretario della Legazione Americana, la riscoperta del fascino di quei reperti archeologici, mercè i suoi libri The Conquest of Granada, del 1829 e The Alhambra del 1832, noti in tutto il mondo come I racconti dell’Alhambra. Protagonista di questi giardini era la loro linfa vitale, l’acqua, nell’interpretazione che gli antichi Arabi ne avevano dato, mutuandola dai loro originari territori, anche in questa parte meridionale dell’Europa non arida. L’acqua come preziosa fonte della vita era nella memoria collettiva di quel popolo che ne conosceva la rarità e la fertilità, qualità apprese grazie anche ai piccoli rivoli delle oasi. Con questo antico atteggiamento antropologico-culturale, gli Arabi gestivano le acque anche nei loro giardini europei, siciliani e spagnoli. Qui si vede come quel liquido straordinario era incanalato in minuti e raffinati condotti: non la quantità, ma la stessa presenza, dava all’acqua nel giardino tutti i suoi significati.

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33. Una tavola dei Plans raisonnés de toutes les espèces de jardins, pubblicato a Parigi nel 1820 da Gabriel Thouin.

31. Lo stagno roccioso e il ponte indiano del giardino di Sezincote (Costwold Hills), progettato da Humphry Repton, in un’acquatinta di John Martin, intorno al 1817.

Tutte le architetture per tutti i giardini Il curioso volume di Gabriel Thouin Plans raisonnés de toutes les espèces de jardins, pubblicato a Parigi nel 1820, è una proposta sistematica e fantastica allo stesso tempo. Thouin classifica i giardini della geografia culturale reale o possibile, e li esemplifica in planimetrie e rassegne iconiche. Nel suo repertorio s’incontrano tipi e modelli produttivi diversi, per utilità pubbliche e private differenti, in una alternanza di stili (soprattutto cinese e inglese). Quasi fossero pronti all’uso, come sembra suggerire una tavola di edifici per l’ornamento dei giardini (fig. 33). I modelli morfologici e tipologici dei giardini radunati nel volume sono una tavolozza di possibilità nella quale è lecito, culturalmente, scegliere. Lo stesso vale per questi edifici. Sembrano una raccolta ragionata di tutte le tipologie e gli stili utilizzati nel secolo precedente, quando anche l’immagine da contemplare doveva essere pittoresca, per arricchire un giardino delle necessarie e indiscutibilmente utili bizzarrie e folies: da qui il valore semantico di ognuno di questi tipi architettonici. Quando il giardino era ancora paesaggistico, gli edifici, allora meno numerosi, erano prevalentemente classici (meglio se solo palladiani) con qualche incursione nell’esotismo. Le scene erano volutamente pittoriche, ma mai pittoresche: il giardino si articolava in una successione di quadri. Ora, anche nel manufatto architettonico per il giardino tutto è gridato enfaticamente: dai modelli per la costruzione di false rovine alle cineserie, dal neogotico al classico, dagli edifici di utilità a quelli semplicemente decorativi, dalle fontane alle barche che dovevano graziosamente percorrere i diversi laghetti. L’idea fondamentale di questo modo di pensare è quella di una possibile classificazione totale di quanto era considerato corretto usare nel giardino. Nell’ambito di quella totalità chiunque può scegliere secondo il suo personale gusto.

32. Il frontespizio del primo volume dell’opera di Jean-Charles Krafft, Plans des plus beaux jardins pittoresques..., pubblicata a fogli sciolti dal 1808. 32

Tutti gli stili per il giardino Jean-Charles Krafft, che si definiva architetto e disegnatore, a cominciare dal 1808 pubblica a fogli sciolti il suo lavoro dal titolo Plans des plus beaux jardins pittoresques de France, d’Angleterre et d’Allemagne, et des edifices, monuments, fabriques, etc. qui concourrent a leur embellissement, dans tous les genres d’architecture, tels que chinois, egyptien, anglois, arabe, moresque, etc... Dediés aux architectes et aux amateurs. L’opera venne poi rilegata e commercializzata in due volumi nel 1809 e nel 1810. Il Krafft, che sempre a Parigi aveva già pubblicato nei primi anni del xix secolo due volumi dedicati all’architettura ma anche ai nuovi jardins anglais, si buttò in questa nuova avventura editoriale stimolato dal crescente interesse sollevato dal landscape garden inglese, matrice di tutti i giardini romantici, incurante dunque dei blocchi commerciali che in quegli anni si scambiavano l’Inghilterra georgiana e la Francia napoleonica. Opera destinata a un vasto pubblico (architetti e amatori), edita in versione trilingue (francese, inglese e tedesco), il libro di Krafft era un’esaustiva raccolta di tipi e modelli, una sorta di enciclopedia completa in circa duecento tavole con relative descrizioni di quanto si era fatto nel giardino europeo in più di un secolo. Pur leggibile come documentazione scientifica, aveva però come fine pratico primario quello di offrire un amplissimo terreno di collazione, al gusto di chi cercasse modelli per formare o arricchire di manufatti decorativi il

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proprio giardino, di cui l’esotismo di un eclettismo senza fine era una componente talmente significativa che Krafft la usò per titolare il proprio lavoro, indubbio richiamo per le generalizzate curiosità del lettore. Così, simbolicamente ma anche in forma programmatica, il frontespizio del primo volume (fig. 32) manifesta le innumerevoli possibilità di abbellire un giardino: con un edificio neogotico, con uno moresco o cinese, qui sincreticamente copresenti come sarebbe stato lecito e opportuno per ogni giardino.

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1 e 2. Immagini comparate da William Sawrey Gilpin nel suo Three Essays: On Picturesque Beauty, On Picturesque Travel; and On Sketching Landscapes, pubblicato a Londra nel 1794.

3 e 4. Due incisioni di Thomas Hearne inserite in The Landscape, a Didactic Poem di Richard Payne Knight, stampato a Londra nel 1794.

Estetica, storia, scienza e botanica nell’idea del giardino europeo ottocentesco Una guerra estetica

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Nella seconda metà del xviii secolo scoppia in Inghilterra una guerra estetica che investe il rapporto uomo/natura così fortemente presente nel landscape garden. L’oggetto dell’infuocata polemica è il giardino paesaggistico, o meglio quello che ne risulta in seguito a un’elaborazione teorica ritenuta insufficiente dagli innovatori. Il fine paesaggistico non è l’ottenimento di una bellezza naturale, ma la costruzione di una bellezza pittoresca. Come per l’estetica romantica, della quale è parte, la teoria del giardino pittoresco (ma anche di tutto il territorio pittoresco) si basa su concetti esagerati, che si esprimono nella valorizzazione e nella contemplazione di paesaggi esagerati. Iniziatori e protagonisti di questa rivolta sono tre giovani intellettuali: William Sawrey Gilpin (1724-1804), Uvedale Price (1747-1829) e Richard Payne Knight (1750-1824), che pubblicano saggi di estetica e modelli propositivi di grande efficacia comunicativa, facendo ricorso alla tecnica del prima e dopo nelle loro scene, come il landscape gardener faceva da tempo per i suoi scenari progettuali. Uno dei primi modelli di alternativa tra la banalità naturale e il sublime del pittoresco, è reperibile dal libro di Gilpin del 1792 (figg. 1 e 2). L’opposizione sta tra la dolcezza delle linee sinuose di un vasto paesaggio naturalistico (essendo il giardino troppo piccolo per simili cospicue visioni estetiche), e l’immagine aggressiva di un ambiente complesso e selvaggio, capace di produrre nuove e forti emozioni che, se non si trovano in natura, si possono costruire quando i fondamenti estetici sono saldi. Un tema estetico, questo, che irromperà con violenza anche nel giardino. In questo senso, sono polemiche, propositive ed eloquenti due incisioni di Thomas Hearne (figg. 3 e 4) inserite in The Landscape, a Didactic P ­ oem di Richard Payne Knight, stampato a Londra nel 1794. La prima vuole irridere i modi naturalistici di Lancelot Capability Brown, diffusi in tutta l’Inghilterra dell’epoca. La seconda è la proposta-manifesto, sinteticamente figurativa, del possibile, prossimo futuro: un ambiente naturale pensato artisticamente. Il concetto di pittoresco, fortemente caratterizzato dal punto di vista semantico, di matrice parallela a landscape (parola che definiva una pittura di paesaggio), ha goduto di una insperata fortuna di massa duratura nel tempo. Quando Roland Barthes analizzò in questo dopoguerra gli strumenti del turismo di massa, scrisse che, per esempio: «la Guida Bleu non conosce quasi paesaggio se non sotto la forma del pittoresco». Quando alla fine del Settecento divampò in Inghilterra la polemica estetica sul giardino pittoresco, il suo principale bersaglio, il fortunato e famoso Lancelot Capability Brown, era già morto (1783). Al centro della disputa, però, finì per trovarsi un discepolo di

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Brown, il longevo Humphry Repton (1752-1818), che aveva utilizzato l’archivio del maestro e al quale si deve la locuzione landscape gardener. Professionista fortunato e famoso, settantenne attivissimo nell’età della furiosa polemica (che aveva acquisito anche i caratteri di una battaglia professionale), Repton intervenne nella querelle con vari saggi, compresi gli appunti manoscritti dei suoi Red Books dedicati ai committenti, per comprovare di aver già inglobato e praticato l’estetica del pittoresco nei propri giardini. Nel periodo in cui in tutta Europa si stava ancora diffondendo l’antica estetica del primo landscape gardening, scrisse un’appassionata Letter to Price alla quale il destinatario rispose con la Letter to Repton. Della polemica tra giardino paesaggistico e giardino pittoresco, queste due immagini culturalmente e antropologicamente antitetiche sono una eccezionale ed eloquente attestazione. John Claudius Loudon, figura fondamentale per comprendere lo sviluppo dell’idea del giardino europeo dell’inizio dell’Ottocento, partecipa al movimento ormai diffusissimo che propugna la nuova estetica del giardino pittoresco in contrapposizione

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5-9. Cinque immagini sul rapporto tra paesaggistico e pittoresco di John Claudius Loudon, tratte dal suo volume A Treatise on Forming, Improving, and Managing Country Residences... so as Combine Architectural Fineness with Picturesque Effect, stampato a Londra nel 1806.

con quello paesaggistico dichiarato poco naturale. Centrato sull’integrazione organica degli interventi ambientali con quelli architettonici, gestiti in maniera eclettica ma con grande eloquenza semantica, il suo modo di riprogettare il mondo costituiva in effetti un superamento del modello paesaggistico. Negli anni ’30 fu definito gardenesque. Gardenesque significa saper operare anche con le tecniche di Repton (del quale Loudon pubblicò l’edizione delle opere complete) in un grande parco e in un piccolo giardino, organizzare i fiori in un insieme floreale dai bordi erbosi, ma anche collocarli in regolari aiuole: una sorta di continuo eclettismo ad ampio spettro basato non solo sul buon senso, ma pure sulla maestria e la perizia del gardener. Gardenesque significa, in fondo, uno stile calcolato per fare emergere l’arte del gardener. Due immagini (figg. 5 e 6) nella logica propositiva del prima e dopo, anticipano la nuova tendenza e la esprimono già in gran parte, pur non avendola Loudon ancora compiutamente formulata al tempo della loro pubblicazione. Sono tratte dal suo volume A Treatise on Forming, Improving, and Managing Country Residences... so as Combine Architectural Fineness with Picturesque Effect, stampato a Londra nel 1806. La combinazione tra finezza architettonica ed effetto pittoresco è qui chiaramente esemplificata. Un semplice edificio, Barnbarrow, ambientato paesaggisticamente secondo la lezione di Brown o del Repton prima maniera, è trasformato architettonicamente insieme al suo contesto in maniera tanto irruente da farlo definire poi la casa Barnbarroch. La sequenza delle due immagini esprime in pieno l’ideologia che nutriva la violenta polemica culturale tra paesaggistico e pittoresco, ovviamente estesa a tutte le categorie artistiche e non solo alle pratiche del giardinaggio. L’artificio del disegno sottolinea le specificità delle due estetiche fra loro alternative: tutto è naturale e normale nella prima, tutto è eccezionale e pittoresco nella seconda, e in modo, appunto, gridato. Paesaggistico, pittoresco e gardenesque, gardenesque planting e stile irregolare, sono i termini consolidati e le nuove locuzioni per definire le molteplici attività teoriche e progettuali dell’eclettico John Claudius Loudon. In altre tre immagini (figg. 7-9), sempre tratte dal suo libro A Treatise on Forming, Improving and Managing Country Residences..., un’enciclopedia di tutto il sapere del gardener, Loudon affronta ancora una volta e in maniera efficacemente didattica il tema del confronto tra paesaggistico e pittoresco. Le figure raccontano il passaggio dal serpentine style (specifico del giardino paesaggistico di Lancelot Capability Brown e del primo Repton) all’irregular style, peculiare del giardino pittoresco propugnato da William Gilpin, Uvedale Price e Payne Knight, in contrasto con l’ancora attivo Humphry Repton. La scena realistica, in alto, mostra la dolce situazione di un corso d’acqua sinuoso, ambientato in una scena adeguata, nell’articolarsi di parterre e alberature a grappolo e qualche albero isolato. La planimetria al centro, per mezzo di un’ingegnosa sovrapposizione, illustra sia questa situazione sia quella futura. L’ultima tavola presenta il paesaggio innovato, che, preso dallo stesso punto di vista del primo, dimostra come la tranquilla staticità precedente possa acquisire con interventi contenuti una valenza semanticamente antitetica, aderente alle esigenze del nuovo gusto. La capacità didattica del metodo del prima e dopo è qui massima nello spiegare l’opposizione tra due concezioni estetiche della figurazione della natura. Chi aveva sostenuto la funzione stimolatrice di sentimenti di un paesaggio naturale, oppure organizzato artificialmente dall’uomo proprio per apparire naturale, di fronte a questa triade di illustrazioni non poteva non riconoscere che i sentimenti originati dall’immagine pittoresca erano indubbiamente più intensi di quelli suscitati dall’immagine paesaggistica. Se il fuoco del dibattito fosse stata la produzione quantitativa di sentimenti, l’estetica del pittoresco avrebbe vinto per sempre. Edouard André è l’autore ottocentesco che a posteriori, quando cioè la battaglia era già stata consumata, vinta e dimenticata, criticò l’ingenuità delle prime rappresentazioni degli artifici naturalistici del landscape gardening settecentesco inglese. Nel suo volume L’art des jardins, traité general de la composition des parcs et jardins, stampato a Parigi nel 1879, si comporta

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come un contemporaneo di Lancelot Capability Brown, in serrata polemica con lui. In due illustrazioni (figg. 10 e 11) didatticamente esaustive, André rinfocola a posteriori la polemica coi padri fondatori del giardino paesaggistico, dimostrando che il loro giardino non era veramente naturale, con le stesse argomentazioni che avevano promosso un’analoga querelle oltre un secolo prima. L’illustrazione a sinistra ritrae una scena paesaggistica detta da André artificiale (nel senso, ovviamente, della ricostruzione artefatta di una scena paesaggistica che si presenta come non sufficientemente naturale). Gli alberi, formati con i sostegni tutori, sono troppo diritti, e l’impiego delle mucche per la rasatura animale del prato ha per conseguenza la formazione di un geometrico impalcato alto (all’altezza del muso dei ruminanti), mentre i cespugli a terra sono assenti. La stessa scena paesaggistica è resa naturale nella seconda immagine. Gli alberi non sono più diritti, proprio come avviene in natura, l’attaccatura del fogliame è irregolare, proprio come avviene in natura, e i cespugli crescono da terra, proprio come avviene in natura. Gli animali della scena non sono più le mucche nel numero previsto per mantenere il parterre a prato, ma solo alcuni cerbiatti, più graziosi e indubbiamente meno capaci di regolarizzare in maniera non naturale il mondo vegetale che li circonda. Questa era la dimensione tecnica e culturale della parte significativa di un dibattito, che pareva avere per fine la riproduzione del modello naturale mediante materiali naturali.

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10 e 11. Comparazione polemica di Edouard André nel suo volume L’art des jardins, traité general de la composition des parcs et jardins, stampato a Parigi nel 1879. 12 e 13. Disegni di Gustav Meyer con ipotesi stilistiche di giardino greco e romano, 1860.

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L’uso calligrafico della storia A differenza della città ottocentesca che accoglie edifici di vari stili, l’architettura rifiuta di essere compiutamente eclettica comprendendo il meglio di ogni stile per raggiungere un’astratta perfezione. Allo stesso modo, anche il giardino rinnega rapidamente l’obiettivo stilistico sincronico, nel tentativo affannoso di impiegare come principio fondativo la storia dei suoi stili. Questo è coerente a molte pratiche dell’età tardoromantica dello storicismo europeo, ma fortemente in contrasto con le acquisizioni che la cultura, non solo tecnica, aveva accumulato in due secoli di continue sperimentazioni ed elaborazioni teoriche ed estetiche. E il fascino della classificazione storica, nell’implicito programma di un sempre più vasto riuso, stregò anche il giardino. Lo dimostrano per esempio alcuni disegni di Gustav Meyer (1816-1877), presentati dall’autore nella forma di credibili modelli storici e stilistici, e proposti alla conoscenza e alla riflessione di tutti, dei tecnici e degli amatori, per un improbabile riuso. La finalità editoriale e professionale dell’autore è quella di sciorinare sapienza e dottrina, anche di tipo filologico e accademico. Il libro inizia con alcuni saggi di ricostruzione dei giardini arabi, prosegue con altri esempi storici (reali o interpretati), compresi questi quattro, e si conclude con i modesti progetti dell’autore di piccoli giardini paesaggistici, quasi che l’approccio storico avesse lo scopo preminente di dar loro un avallo. Due immagini (figg. 12 e 13) riproducono le sue ipotesi di giardino-modello greco e romano, quest’ultimo interpretato come assemblaggio di molte formule settecentesche e ottocentesche di traduzione grafica delle descrizioni letterarie. L’interesse per il giardino storico è sostanzialmente limitato alla sua forma probabile. Mentre nel xviii secolo si guardava ai modelli di altre culture e di altri periodi, in particolare quelli cinesi, più per disporre in maniera capziosa di un contributo esotico e storico alla diffusione della nuova estetica del giardino paesaggistico, che non per una conoscenza di tipo filologico; per la cultura dello storicismo, invece, la storia è un libro le cui pagine possono essere fatte rivivere a piacimento,

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secondo il gusto contemporaneo. Altri due disegni di Gustav Meyer più romantici dei precedenti, hanno il loro referente in universi estetici, il mondo gotico e quello cinese, che alimentarono molti romanticismi, in particolare quello dei giardini. Il modello gotico è ovviamente un recupero inattendibile: che cosa esprime allora? Soprattutto la capacità dell’autore di governare, con tutti gli altri, anche questo stile: non mediante la scala e la dimensione relative al giardino, che questo non sottende neppure la frequentazione delle uniche documentazioni, quadri e miniature, ma ricorrendo a una calligrafia stilistico-gotica che si manifesta nella diffusione di decorazioni e manufatti neogotici. Infatti, la peculiarità dello stile era spesso concentrata nell’efficacia dei motivi ornamentali, profusi nel disegno delle aiuole che ritornano nella parte centrale simmetriche fra loro, con alta inattendibilità (fig. 14). Un altro disegno (fig. 15), come per quello romano di una villa di Plinio, non è presentato come un saggio di stile antico, ma come documentazione del giardino della Città Proibita di Pechino, ripreso da altre precedenti pubblicazioni. Abusato da tempo per nobilitare le origini del giardino paesaggistico europeo, il riferimento alla cultura cinese si esprime nell’esplicitare l’intreccio sinusoidale dei percorsi e nel sottolineare il rapporto parterre e gruppi di alberi, con rarefatti esemplari isolati, così come avrebbe diligentemente fatto un landscape gardener inglese della seconda metà del xviii alle sue prime armi. Lo storicismo, esteso culturalmente e operativamente in tutta l’Europa della seconda metà del xix secolo, guarda al passato con uno spirito archeologico e filologico, senza la grazia dei revivals settecenteschi e del primo Ottocento. È possibile riprodur-

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14 e 15. Un ipotetico giardino gotico e il giardino della Città Proibita di Pechino nei disegni di Gustav Meyer.

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16. Progetto dell’architetto William Andrews Nesfield redatto nel 1849, per un’integrazione dei giardini di Buckingham Palace.

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re dall’infinito libro della storia dell’uomo secondo il gusto di ciascuno, manovrato però responsabilmente. E perché non anche il giardino? Questa fu anche la risposta data alle esagerazioni conseguenti l’estetica del giardino pittoresco. Il ritorno alla forma nel giardino ottocentesco era stato concettualmente anticipato dall’opera e dal pensiero di John Claudius Loudon, la cui complessità includeva anche il concetto di gardenesque. Ma Loudon non proponeva modelli per la ricostruzione calligrafica del passato. Invece, in un progetto dell’architetto William Andrews Nesfield (1793-1881) redatto nel 1849 per un’integrazione dei giardini di Buck­ing­ ham Palace (fig. 16), è un esempio eloquente di eclettismo storicistico e calligrafico applicato alla progettazione di un giardino. Qui il progetto stilistico è redatto nello stile ossessivamente ripetuto delle antiche tavole delle edizioni del settecentesco Dézallier d’Argenville, allora sicuramente dimenticate in Inghilterra. Tutto il progetto, compreso il tipo di comunicazione adottato (una planimetria geometrica con gli

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alberi rappresentati in fronte) sembra ricalcato direttamente sulle vecchie incisioni. Esaminandolo, si ricava l’impressione di essere tornati a un passato nel quale il fiore è un escluso rispetto al giardino, di cui era appena ridivenuto un protagonista. Le sue specificità cromatiche sono rimpiazzate da ghiaie sottili ben distribuite in aiuole virtuali, che solo alle esigenze del colpo d’occhio devono rispondere, e non alle esigenze della vita vegetale, non più da contemplare. In un simile disegno dell’età vittoriana matura è anche un fondamento semantico inquietante. Il gardenesque di Loudon, che aveva già dedicato un intero volume al giardino suburbano, implicava la possibilità di fare giardinaggio per chiunque, qualunque fosse la dimensione della sua proprietà, superando l’antico assioma che voleva il giardino fuso nel paesaggio circostante, ma all’interno di un’unica proprietà. Dalle nuove pratiche del giardino ritornato formale sono naturalmente banditi tutti i piccoli giardini. Tra la fine del xix secolo e i primi decenni del xx, Henri Duchêne e il figlio Achille si occupano in maniera sistematica dell’analisi storica del giardino europeo e non solo, con l’intento di promuovere il restauro del giardino storico e, come voleva la loro cultura storicistica, la progettazione e la costruzione di giardini stilistici, commisurabili con un concetto di restauro tanto esteso da comprendere la stessa restaurazione del senso formale di momenti del passato. Achille Duchêne divenne famosissimo, in un’Europa che si rivolgeva a ogni storia per trovare alimento e avalli, e dalla Francia gestì progetti in quasi tutte le nazioni europee, compresa la Gran Bretagna. È il caso della realizzazione di un suo progetto dell’inizio del secolo xix secolo, un parterre d’eau a Blenheim Palace (fig. 20). Nel caso in esame, è evidente che si passa dalla categoria del restauro di un monumento esistente, anche in forma parziale, alla pratica della progettazione nel gusto di un tempo passato, che non è neppure definibile come ricostruzione stilistica. Questo accadeva perché chi operava in un simile ambito culturale riteneva più importante di ogni dimensione filologica e archeologica la capacità di impadronirsi dello Zeitgeist, che così poteva essere riprodotto in qualunque tipo e creativamente, in modo più fedele di quanto permettessero i documenti trasmessi dalla storia. Dal punto di vista storico, anche questi curiosi giardini fanno parte della storia dell’idea del giardino europeo, sebbene i fondamenti della loro teoria appaiano a noi molto lontani. Ma i recenti progetti espositivi-didattici di Jellicoe per il museo americano Moody Gardens, o il raffinato ritorno al Settecento inglese nel giardino contemporaneo di Quinlan Terry, possono farci dubitare della loro reale estraneità. In ogni caso, l’opera di Duchêne e le attuali riprese hanno riportato in primo piano la questione del restauro del giardino storico, che, essendo un manufatto biologico nella sua struttura vegetale e perciò biodegradabile, impone una ricerca concettuale e pratica, sia a proposito della nozione di restauro sia di quella di conservazione.

La classificazione tipologica militante e quella scientifica Nel 1820, Gabriel Thouin pubblicò all’interno del suo trattato dedicato al giardino un tableau sinottico (fig. 18), come quelli inseriti nelle enciclopedie settecentesche, che si proponevano di rifondare il sapere e di organizzarlo nella sua totalità. Analogamente allo scibile collazionato nelle enciclopedie, anche per il giardino si trattava di elaborare un ordinamento classificatorio capace di chiarire l’universo e le interdipendenze di ogni sua parte, in maniera simultanea e nello stesso tempo fondativa di una nuova disciplina della comprensione del mondo. Con le prime teorizzazioni del giardino moderno apparvero anche le identificazioni tipologiche: lo Hirschfeld, per esempio, nel suo immenso trattato teorico dell’arte dei giardini, ne elenca tutte le possibili e prevedibili espressioni in maniera letteraria, capitolo per capitolo, non nella forma sinottica qui riprodotta. Questa classificazione di Thouin, più che un’organizzazione scientifica di categorie tipologiche, sembra invece un programma di guerra perché rivendica alla nuova estetica tutti i territori di cui si occupa. Nulla di carattere epistemologico è qui contenuto, essendo appunto il tableau un mero

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17. ludwig di baviera: il giardino d’inverno come scena romantica

Ludwig di Baviera (1845-1886) fu forse, fra i re dei piccoli stati europei ottocenteschi, quello che più si appassionò all’architettura, intesa come la scena necessaria a una vita eroica perennemente immersa in un sogno di vicende mitiche e storiche. Quando si trattò di costruire la dimora di Neuschwanstein, i primi progetti pescarono nella categoria del neogotico e del sentimentale. Ma l’ammirazione di Ludwig per Richard Wagner e per la saga dei Nibelunghi lo portarono a modificare l’indirizzo progettuale: per adeguarsi ai personaggi wagneriani tutto il castello si paludò degli stilemi tardoantichi. Suoi modelli, per altre residenze e per i loro giardini, furono Versailles con i suoi tratti seicenteschi (Herrenchiemsee) e il più sofisticato rococò francese (Linderhof). Nel sogno del re, nella sua residenza di Monaco, trovò posto un grande giardino d’inverno, qui in una fotografia del 1870, che per la passione romantica, indispensabile per una vita di emozioni, assunse e conserva un particolare significato di modello. Alberi, arbusti e cespugli esotici erano piantati nel continuum di un prato sempreverde che scendeva sino al limite dell’acqua del laghetto, dove i cigni, icone wagneriane, navigavano con agio. I fondali non vetrati erano dipinti veristicamente a rappresentare diorami paesaggistici, mentre, proprio di fronte a questa prospettiva, erano edificati un piccolo padiglione in stile moresco, una tenda turca e un tucul di paglia e stuoie. Ovviamente, in un simile giardino d’inverno, l’attenzione per i vegetali era un fatto secondario se non inesistente: il grande spazio era come un vasto salone, inconsuetamente caldo nell’inverno del centro Europa, allestito con bizzarre decorazioni floreali in parte durature. Era il luogo necessario a un certo modo di vivere esagitato, che si alternava o si contrapponeva alle quotidiane attività. Non era tuttavia sempre così. A volte nella serra si dava spazio alle esigenze della scienza botanica risolvendole in una dimensione paesaggistica, che gardener e amatore potevano comunque consumare e contemplare. In questo caso il giardino d’inverno recuperava l’originaria connotazione di giardino.

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18. Tableau sinottico di Gabriel Thouin pubblicato nel suo trattato del 1820. 19. La classificazione dei giardini che Edouard André pubblica nel suo trattato del 1879. 20. Il parterre d’eau a Blenheim Palace realizzato da Achille Duchêne all’inizio del xix secolo.

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programma per l’azione. L’elenco è quello che l’autore si considera sin d’ora capace di attuare nella continuità delle diversità all’interno di una sola cultura paesaggistica: prova di questo approccio sono le tavole di progetto del suo libro. In questa classificazione, vi è una sorta di nobilitazione del giardino di plaisance ou d’agrément, proprio perché, sebbene sia ultima arrivata, è una macrocategoria di pari dignità delle altre tre di produzione scientifico-botanica. Per Hirschfeld il giardino pubblico e urbano può, e deve, essere simmetrico (il teorico tedesco loda le strade rettilinee dei giardini pubblici), ma il resto deve essere paesaggistico. Al contrario, per la classificazione del Thouin interessano sia i giardini di genere (fra i quali quelli all’inglese, comparati a quelli cinesi e a quelli fantastici, e perciò considerati una sorta di giardini in stile, anche se non di tipo formale), sia quelli della natura. Curiosamente, però, Thouin salvaguarda la possibilità di esistere del giardino simmetrico di un palazzo, cosa che un vero paesaggista non avrebbe mai accettato. Non si tratta di un atteggiamento preeclettico, ma dell’ingenua manifestazione di una esagitata volontà di fare il nuovo da parte di un uomo anziano, che aveva lavorato a lungo nei giardini formali di Versailles, covando nella sua maturità la rivolta. Con altro spirito, ormai compiutamente positivistico, Edouard André pubblicava nel suo trattato del 1879 un altro tableau, sempre sinottico, per la classificazione scientifica di tutti i giardini possibili (fig. 19). La volontà di ordinare tutto si manifestava in un momento storico nel quale l’identità dello stesso oggetto da classificare, il giardino, non era né certa né indiscutibile. L’eclettismo e lo storicismo, culturali e artistici, pensavano invece che con l’aiuto del positivismo tutto questo fosse possibile. Questa classificazione ci è completamente estranea. Probabilmente nessun architetto paesaggista utilizzerebbe oggi una di quelle locuzioni che apparivano in origine tipologicamente indispensabili. Non così lontano da noi appare invece il

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trattato di André. Riferimenti storici strutturalmente argomentati, accuratezza e amore per il tema, approfondite analisi e descrizione di ogni problema, diagnosi e terapie conseguenti, elementi teorici e questioni tecniche: da tutto questo è possibile e utile ancora oggi ricavare materiale di grande interesse, anche senza condividere l’ideologia del giardino che, implicitamente, ne è alla base. Derivato dall’antico modello tardorinascimentale inglese, soprattutto da quello del frutteto-giardino, segnato dall’integrazione tra profitto e piacere, questo tableau, nelle categorie dei jardins / privés / d’utilité, presenta un’indiscutibile novità per la Francia agricola della fine del secolo xix caratterizzata dalle piccole e medie proprietà borghesi. Negli stessi anni, le edizioni degli almanacchi degli agricoltori e del buon giardiniere conoscono in quella stessa Francia una fioritura di ragguardevoli proporzioni. Le altre classificazioni tipologiche, riferite al gusto corrente, sono quelle tradizionali, già presenti in ogni trattato dedicato all’arte dei giardini. Qui, secondo le pratiche che si stavano diffondendo, vi è di nuovo l’indicazione della necessità di restaurare i giardini antichi, intendendo questo atteggiamento come una categoria autonoma e particolare, capace di distinguersi dalle macrocategorie fondamentali e di porsi fuori campo insieme all’insolito dei giardini delle regioni calde.

smo è anzitutto connessa al nuovo significato della scienza, capace di rispondere ottimisticamente a ogni quesito e di risolvere ogni problema. L’autorità di Kerner von Marilaun e il generale interesse per il tema furono le condizioni che decretarono il successo del suo pensiero e dei risultati delle sue ricerche. In un trattato di botanica di questo tipo troviamo figure come questa (fig. 22) che offrono al lettore l’immagine di una quercia non astratta dal suo contesto. Negli otto volumi di Loudon dedicati al gardener, gli alberi erano invece componenti della progettazione paesaggistica e marcavano l’ambiente e il paesaggio antropici. Presentare qui un albero nel suo paesaggio naturale ha un significato anzitutto epistemologico, perché pone la questione ecologica, cioè la necessità di studiare il mondo vegetale analizzando il contesto naturale in cui si manifesta. Antesignano di simili studi, con una visione globale ancor oggi di grande attualità, fu l’americano George Perkins Marsh (1801-1882), che pubblicò a New York nel 1864 il suo Man and Nature; or Physical Geography as Modified by Human Action, in parte scritto in Italia, a Torino. George Perkins Marsh fu infatti ambasciatore degli Stati Uniti nell’appena costituito Regno d’Italia dal 1860. Il libro fu presto stampato anche a Londra e Firenze, e suscitò una grande eco nell’ambiente scientifico internazionale. Dal nuovo mondo dell’ecologia altri stimoli verranno a inquietare la mente del botanico e del gardener, il giardino europeo e del mondo: ma nasceranno anche le condizioni antropologico-culturali per la formazione di vasti parchi naturali. La planimetria e la sezione della poppa del Bounty (fig. 23), la nave settecentesca attrezzata per trasportare in Inghilterra l’albero del pane, ci riportano alla fitta documentazione relativa alle sue imprese, documentazione che, ben sedimentata nella memoria collettiva, ha alimentato letteratura e cinema. Nella storia dell’antropizzazione globale del nostro pianeta, la vicenda del trasporto dei vegetali è parte organica della storia della botanica e dell’uso dei vegetali per la formazione di giardini, esoticamente sempre più belli. Con tranquilla continuità, il mondo europeo aveva gestito sin dal lontano passato il commercio e la migrazione di piante dal Medio e dall’Estremo Oriente per le proprie coltivazioni e per i propri giardini. Ma fu la scoperta delle Americhe e poi l’esplorazione degli immensi oceani Indiano e Pacifico, a stimolare e promuovere spedizioni di ricerca scientifica, affannosi viaggi per finalità pratiche e scorribande di avventurieri e cacciatori di piante, per tutti i mari e le terre del globo. Tra queste ultime va annoverata quella del Bounty, che salpò da Tahiti nel 1789 con destinazione Giamaica, al comando del tenente William Bligh con oltre mille alberi del pane (piantati

Le implicazioni della botanica John Claudius Loudon è figura fondamentale per comprendere lo sviluppo dell’idea del giardino europeo dell’inizio dell’Ottocento. Molti furono i suoi contributi alle polemiche culturali, alla sperimentazione, la ricerca e la divulgazione; e molti i temi relativi alla cultura di un moderno e consapevole gardener, coi qualii si cimentò. Il problema affrontato in una sua illustrazione (fig. 21) con un Populus monilifera, è il rapporto tra la scienza botanica e l’arte del giardinaggio. Dotato di grande forza maieutica e di straordinaria capacità di comunicazione, Loudon fu un vero maestro innovatore della cultura del tempo. Lo dimostrano i suoi libri e i suoi periodici: oltre quaranta volumi e quattro riviste dal 1803 alla sua morte, avvenuta nel 1843, senza contare gli articoli apparsi su altre riviste e i testi inediti. Nel 1838 diede alle stampe a Londra una grande opera in otto volumi: Arboretum et Fruticetum Britannicum; or, the Trees and Shrubs of Britain, Native and Foreign, Hardy and Half-Hardy, Pictorially and Botanically Delineated, and Scientifically and Popularly Described; with their Propagation, Culture, Management, and Uses in the Arts, in Useful and Ornamental Plantations, and in Landscape Gardening; preceded by a Historical and Geographical Outline of the Trees and Shrubs in Temperate Climates throughout the World. Come lo stesso titolo del libro testimonia, il rapporto botanica/landscape gardening è di tipo complesso e rifiuta gerarchie di dipendenza, come le ormai secolari cure dei Kew Gardens avevano già statuito. Pur essendo un libro scientifico, che dalla botanica attinge e alla botanica dà, la sua finalità non è scientifica secondo l’accezione tradizionale del termine, offrendosi piuttosto al gardener come strumento per rendere più consapevole la propria opera: appunto mediante l’uso di un larghissimo ventaglio di possibilità, fra le quali scegliere secondo il bisogno pratico ed estetico e con il supporto delle informazioni tecniche più adatte. Si tratta di una prima enciclopedia del gigantesco patrimonio arboreo (sbalorditivo rispetto ai tableau settecenteschi), formato in Inghilterra prevalentemente per scopi paesaggistici e non produttivi, ora a tutti accessibile a livello conoscitivo e scientifico. Anton Kerner von Marilaun (1831-1898), botanico austriaco, professore a Innsbruck dal 1860 e dal 1878 a Vienna, ove divenne anche direttore del giardino botanico, fu famoso in tutta Europa e nel mondo, per il suo trattato Das Pflanzenleben dedicato alla storia naturale delle piante e pubblicato in due volumi a Vienna tra il 1887 e il 1891. Il libro, stampato e diffuso in molte lingue, divenne un punto di riferimento per tutti, una sorta di stato dell’arte degli studi botanici del tempo. La popolarità dei trattati scientifici, e non dei semplici manuali di divulgazione, nell’età del Positivi-

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21. La rappresentazione di un albero nella monumentale opera in otto volumi di John Claudius Loudon, Arboretum et Fruticetum Britannicum, pubblicata a Londra nel 1838. 22. Un albero nel suo ambiente naturale rappresentato da Anton Kerner von Marilaun, nel suo trattato Das Pflanzenleben, dedicato alla storia naturale delle piante e pubblicato in due volumi a Vienna tra il 1887 e il 1891. 23. Planimetria e sezione della poppa della settecentesca nave Bounty con la distribuzione dei vasi per il trasporto degli alberi del pane.

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per talea) e qualche altra pianta del sito, preparati in 837 tra vasi, scatole e tubi. Mai raggiunta dal Bounty, la Giamaica può essere assunta a emblema di una certa fase del trasporto di vegetali dal Pacifico all’Atlantico, fungendo, con altre isole caraibiche, da campo di coltivazione intensiva di vegetali non autoctoni per la successiva spedizione in Europa. Così, interesse scientifico di tipo botanico, utilità pratica per l’alimentazione del vecchio continente sovrappopolato e necessità estetiche, per arricchire di tracce esotiche il giardino europeo del gardener al servizio dei commerci del florivivaista, convergono nell’esplosione dei viaggi botanici avvenuta in Europa dall’inizio del xvi secolo. Al londinese dottor Nathaniel Bagshaw Ward (1791-1868), botanico e inventore dilettante, si deve il contenitore per vegetali atto al trasporto a lunga distanza di alcune specie, battezzato cassa di Ward (fig. 24) dal nome del suo ideatore. La passione per il trasporto dei vegetali era tale che nel 1833 The Gardener’s Magazine si congratulava con il capitano di un mercantile per essere riuscito a portare da Canton a Londra otto azalee cinesi vive su ventinove imbarcate. John Claudius Loudon, prendendo in esame l’insieme di questi viaggi botanici, ne stilò un accurato bilancio quantitativo: all’inizio del xix secolo, nelle isole del Regno Unito si coltivavano tredicimilacentoquaranta piante, delle quali solo millequattrocento erano indigene. Il mondo della botanica e quello della medicina utilizzarono la serra portatile inventata da Ward nel 1827, per arricchire le loro collezioni e per praticare nuove sperimentazioni e produzioni. Nell’Inghilterra vittoriana, eclettica e curiosa, lo strumento scientifico fu considerato subito anche di utilità per integrare la geografia dell’insolito del giardino, cerniera pratica e concettuale tra le antiche pratiche della serra, e il nuovo concetto di decoro e di ornamento della casa. In genere, piccole cassette erano appoggiate su tavolini, ma spesso erano complicati mobili a reggere microarchitetture vetrate che imitavano templi neogotici. Nell’età della Great Exhibition londinese del 1851, era obbligatorio che in ogni salotto della capitale inglese (e, in breve, di tutto il regno) fosse protagonista una cassa di Ward foggiata sul modello del Crystal Palace, il gigantesco, straordinario padiglione-serra che della grande esposizione universale era contenitore e simbolo. Fu dunque in quegli anni che iniziò inarrestabile la marcia trionfale della cassa di Ward nell’incommensurabile geografia del kitsch. Tuttavia, accanto a una nota di gusto discutibile, con questo strumento s’introduceva nella casa anche una forma di vita vegetale (felci e muschi), che costituiva un’importante reazione contro l’antica e sola presenza del fiore reciso, integrata da piccole piante in vaso.

Il giardino della piccola borghesia La città ottocentesca delle borghesie che sperimentano l’industrializzazione e i fenomeni di un moderno urbanesimo, si circonda di nuove, concentriche e continue periferie. In questo contesto gli spazi non potranno mai essere infiniti, come la cultura del landscape gardening propugnava e richiedeva. Il piccolo giardino suburbano, potenzialmente accessibile per chiunque apparteneva alla piccola borghesia, e in futuro ottenibile anche dalle classi subalterne, si dovette perciò orientare verso il tipo pittoresco. John Claudius Loudon (1783-1843) si occupò anche del piccolo giardino in un’opera specifica, The Suburban Gardener and Villa Companion, stampata a Lon-

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24. Una rappresentazione della cassa di Ward. 25. Un giardino della piccola borghesia in un’immagine tratta da The Suburban Gardener and Villa Companion, di John Claudius Loudon, stampato a Londra nel 1838.

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dra nel 1838, dalla quale è tratta l’illustrazione (fig. 25). La scena mostra il piccolo giardino ai piedi della piccola casa, oltre il quale un’improbabile boscaglia nasconde gli edifici limitrofi. Il giardino è ornato da manufatti, anch’essi ridotti come lo spazio pretende, e da alcuni alberi in vaso. Ai bordi del parterre a prato, l’intricato groviglio perimetrale della vegetazione formata da piccoli alberi, da arbusti e cespugli fioriferi, e da arcate tutorie per domesticare i fiori rampicanti.

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26. l’estetica del microvegetale Alla fine del xiii secolo, un membro del milanese Ordine degli Umiliati, famoso per aver compilato nel 1288 la prima descrizione medievale scientifica e statistica di una città, De magnalibus Mediolani, in opposizione alle fantastiche e retoriche laudes civitatis, propone una sorta di nuova teoria estetica basata su valori etici, morali e anche metaforici nella Disputatio rosae cum viola, dove parteggia per l’umile viola. L’esame dell’insieme rende conto dello sfondo simbolico dei due fiori e di quella specie di misoginia insita nella dichiarata preferenza del monaco. È interessante notare come la scelta inclini verso un fiore comune e popolare, che cresce spontaneamente sulle rive dei fossati, che si offre alla vista senza l’artificio di una costosa domesticazione, ciò che, secondo il senso comune, lo qualifica come il più utile fra i due. L’estetica dell’erbaccia non avrà

mai il suo teorico, sebbene implicitamente ogni tipo di giardino selvaggio conterrà innumerevoli erbacce, a cominciare da quello pittoresco propugnato alla fine del xviii secolo. Queste due eccezionali illustrazioni appartengono al trattato francese ottocentesco, opera di Edouard André, dedicato all’arte dei giardini. L’autore dichiara che il loro numero è grande come una legione e che, per una certa classe di amatori, la loro seduzione è eguale a quella esercitata dalle orchidee. Da una simile attenzione positivista al tutto, e perciò anche al mondo microvegetale (così come si praticava nelle casse di Ward con le più modeste felci, e come ancor più minuziosamente si poteva ormai osservare con lenti e microscopi), nasceva un’altra rivoluzione epistemologica dell’estetica del giardino, non sviluppata nelle sue molteplici implicazioni.

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nella scena, avvolgono i membri della famiglia e gli stessi decorativi e classici busti. Il ritratto del consigliere di legazione Theodor Joseph Ritter von Neuhaus con la moglie e i due figli (fig. 27b), fu dipinto da Ferdinand Georg Waldmüller (17931865) nel 1827, quando ormai la Restaurazione si era consolidata. L’eleganza dell’abbigliamento di tutti i quattro personaggi è talmente di maniera che si ha la sensazione di avere a che fare con una famiglia nobile smaniosa di farsi immortalare con gli abiti da festa. Ma non sono necessari particolari agghindamenti per il giardino, che viene qui rappresentato minuziosamente e nel suo complesso: il suo volto quotidiano è sufficiente. Il dato fondamentale dell’illustrazione va cercato nel rapporto tra l’impianto della residenza e il giardino: posto su un’altura, questo si espande nel paesaggio visibile alle spalle del proprietario con un grande terrazzo destinato alla contemplazione di un giardino infinito. Questo belvedere è pavimentato in pietra e le sue balaustre e i suoi sedili sono arricchiti con manufatti architettonici impreziositi da neoclassiche sculture a bassorilievo, che reggono anche gruppi a tutto tondo. Altre sculture si vedono nell’impianto architettonico: sulle balaustre del terrazzamento che, alle spalle della moglie in questa scena, porta al tempietto classico con cupola semisferica, del quale si vede una piccola parte sufficiente a comprendere che l’edificio è circolare e che il suo accesso è formato da un pronao corinzio. Così, tutto il giardino è completamente dichiarato come opera costosa e colta, nella quale l’architettura, regina delle arti, è sovrana e simbolo anche dei solidi fondamenti, materiali e spirituali, della stessa famiglia ritratta. Come i personaggi della famiglia sono raffigurati all’interno di una determinata gerarchia, nello stesso modo avviene per le specificità e le peculiarità del giardino, e non solo per quelle architettoniche. In primissimo piano i fiori, raccolti nel giardino e offerti dal figlio alla madre nel cappello di paglia. Dietro un grande cespuglio fiorito di tipo paesaggistico-decorativo, l’intricata e selvaggia struttura irregolare del grande albero, dietro il quale gli altri, più piccoli, formano una macchia boschiva. Questi, effettivamente, siamo noi insieme al nostro giardino e alle sue architetture, sembra dichiarare il consigliere di legazione.

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27a, b. il giardino come scena dell’autorappresentazione Il giardino è il luogo dei molteplici modi di utilizzo dei suoi proprietari. Lo possono gestire direttamente, secondo la tradizione inglese del gardener, ovvero affidarlo alle cure di competenti e appassionati giardinieri, per contemplare poi i risultati delle loro fatiche. Lo si può considerare come la scena dei ricevimenti e delle feste, o il luogo di solitari passeggi e di varie meditazioni. Ma il giardino, per chi può permetterselo, è anche la cornice della vita famigliare. Mario Praz ha indagato questa dimensione in un particolare tipo di pittura di ritratti collettivi, le conversation pieces, la speculare tipologia, laica e prevalentemente famigliare, delle scene di conversazione religiose di tutta la pittura europea.

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Di matrice inglese, le conversation pieces tendono a registrare, particolarmente nel xviii e nel xix secolo, l’insieme dei rapporti e dei sentimenti che formano un nucleo familiare, appunto. Si tratta, ovviamente, di ritratti di gruppo delle classi dirigenti, e perciò le tele rappresentano sempre anche i simboli di prestigio dei protagonisti, fra i quali lo stesso giardino tramite le sue componenti essenziali, che quel prestigio permettono di dichiarare più facilmente. Ma insieme a questo lessico strutturale, il giardino appare sempre presentato anche nella sua dimensione reale e paesaggistica, ritratto anch’esso come fosse un individuo, un componente essenziale di quella famiglia. Il quadro della fig. 27a, dovuto attendibilmente a Jean-François Garneray (1755-1837) o ad Auguste Garneray (1785-1824), rappresenta la famiglia

del principe ereditario delle Due Sicilie, poi Francesco i, affacciato sul grande golfo di Napoli, con il Vesuvio come fondale da un lato, e una villa architettonicamente radicata su una roccia che accoglie la vegetazione spontanea dall’altro. Questa parte del giardino, essenziale ed emblematica, rappresenta l’organizzazione fra il suo interno, che possiamo qui immaginare, e il paesaggio complessivo del territorio. La cerniera-proscenio è un’architettonica loggia, classica nel suo tipo e nella sua specifica architettura, il cui pergolato piano è formato da un sistema di vite. Alla sinistra, un’agave a dimostrare la passione verso il vegetale esotico, considerato uno dei protagonisti della scena. Al lato opposto, coltivazioni di fiori in forma di cespugli quasi monocromi. Policromi invece i fiori che, in forma di eleganti ghirlande, che si stanno formando

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È il microcosmo della femminilità famigliare, il luogo riservato dove si manifesta l’affetto per i bambini e non la scenografia per feste private. La dimensione fisica di questo giardino, risultante obbligata delle disponibilità economiche e sociologiche del proprietario, impone una forte regressione epistemologica, perché risulta evidente che per tipo e morfologia si è ormai tornati all’antico hortus conclusus ancor più angusto e privato dell’originario. E di quella specifica tradizione, questa soluzione riprende ed esalta il rapporto tra l’uomo e il singolo vegetale, soprattutto il fiore, rendendo ogni giardino che a essa si rifà un flower garden.

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Dal fiore ritrovato al wild garden

Il fiore ritrovato

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1. Il roseto di Ashridge Park, nello Hertfordshire, formato nei primi anni del xix secolo da Humphry Repton. 2. Ritratti di rose realizzati da Pierre-Joseph Redouté e stampati con la tecnica a velatura tra il 1817 e il 1824.

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Il fiore fu per secoli assurdamente escluso dal giardino europeo, quando questo tendeva, nell’età del giardino formale alla francese e in quella del landscape gardening, ad assumere dimensioni scenografiche per la formazione di paesaggi antropici nei quali, forse, il continuo movimento dei cromatismi e delle forme avrebbe potuto inquinare la rigidità o la dolce sinuosità di configurazioni concepite per esser viste come immutabili. Il fiore è invece un ingrediente, non protagonista ma indispensabile, della nuova estetica pittoresca, nella sua connotazione anche selvaggia di presenza intricata e variabile nel tempo, nel globale sistema della vita vegetale. Ma sotteso da questo principio teorico, il fiore entra in qualunque giardino in maniera così arrogante e centripeta da rendere necessarie le aiuole, progressivamente sempre più complicate, tanto da suscitare il sospetto di un ritorno al giardino formale, sia pure sotto nuove spoglie. Toccherà poi a William Robinson insegnare a considerare la bellezza di un fiore indipendentemente dalla sua costrizione in un vaso o in un’aiuola. In un acquerello (fig. 1) che immortala un flower garden, Humphry Repton, l’antico landscape gardener che non utilizzava i fiori, figura centrale del dibattito con i propugnatori del giardino pittoresco, dimostra di non essere secondo ad alcuno nella capacità di riportare il fiore nel giardino. Soggetto dell’immagine è il roseto di Ashridge Park, nello Hertfordshire, formato nei primi anni del xix secolo. Organizzato architettonicamente come sistema circolare di arcate tutorie, sulle quali sono coltivate le rose, e visibile da un padiglione che a sua volta regge rose rampicanti, ha al centro una fontana, attorno a cui, come i petali di un fiore, sono distribuite le aiuole che accolgono altre rose. Tutto questo è nuovo e ben diverso dall’immagine dei lontani roseti europei a spalliera, come nell’hortus conclusus, o lasciati in forma di arbusti alla loro crescita naturale, quando la rosa antica era ovunque diffusa. Con eloquenza poetica e tautologica, Gertrude Stein così definiva la rosa: «la rosa è una rosa è una rosa è una rosa...», il che è vero anche oltre questa specifica metafora. Qui sono riprodotti (fig. 2) quattro degli straordinari ritratti delle 170 rose, disegnati, acquerellati, incisi e stampati con la tecnica a velatura tra il 1817 e il 1824, dal belga Pierre-Joseph Redouté (1759-1840), il Raffaello dei fiori. Raccolti nel volume Les roses, furono poi usati in tutto il mondo e in infiniti modi per qualunque tipo di decorazione floreale. L’idea di Redouté fu ispirata dall’imperatrice Josephine, cui l’autore dedicò in parte il volume, e dai suoi giardini della Malmaison, nei quali le rose erano protagoniste in una collezione infinita. Tra l’altro, l’importazione delle rose negli anni del blocco alla Francia napoleonica fu possibile solo in virtù della comprensione

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3 e 4. Iris germanica e Gladiolus merianus, due acquerelli da Les Liliacées di Pierre-Joseph Redouté, opera monumentale con la riproduzione di 486 piante, uscita tra il 1802 e il 1816.

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un individuo botanico rispetto a un altro della stessa specie, una semplice conseguenza della formazione concreta di un giardino. Le due incisioni, invece, raffiguranti lo stesso sito, sono tavole complementari, necessarie e indispensabili per pensare, elaborare e redigere un progetto di nuovo giardino. La fig. 5a è la planimetria paesaggistica e la 5b la radiografia botanica dove ogni numero si riferisce a una specie. Questo tipo di progettazione richiede, appunto, che il landscape gardener sia un architetto paesaggista (cosa che in una certa misura poteva bastare tre quarti di secolo prima, quando le specie utilizzabili per il giardino inglese erano relativamente poche) e nel contempo che abbia una cultura specificatamente paesaggistica della botanica (anche perché lo stesso Loudon aveva dimostrato che le specie usate in Inghilterra in quegli anni erano ormai più di tredicimila). Il disegno di Loudon presenta in maniera compiuta e leggibile tutto il processo concettuale e mentale che origina un progetto. Per l’epoca si trattò di un’innovazione culturale che lasciava presagire le prossime pratiche di progettazione paesaggistica. La figura 6, anch’essa disegnata da Loudon, ma cronologicamente successiva alle soprastanti planimetrie, applica lo stesso principio sfruttando però il metodo della perimetrazione amebica di aree da piantumare per formare una macchia d’arbusti. In questo caso la planimetria, non esplicitamente paesaggistica ma tecnico-botanica, è comprensibile anche per un normale gardener. Le descrizioni delle specie, i loro accostamenti quantitativi e qualitativi, e le loro interdipendenze permettono infatti a un gardener di afferrare perfettamente e in modo subitaneo l’idea progettuale, così come un musicista legge una partitura musicale e all’istante la traduce mentalmente nella sua esecuzione sonora. Sul primo dei periodici diretti da John Claudius Loudon, The Gardeners’ Magazine, edito a Londra dal 1826, nel numero 14 del 1837, fu pubblicata un’illustrazione che descrive il flower garden di Hoole House, il famoso giardino di Lady Broughton (fig. 7). Secondo i canoni dell’estetica del giardino pittoresco, erano ricostruiti i paesaggi alpini della Savoia e della valle di Chamonix. E il fiore aveva un suo specifico e considerevole spazio. Nella presentazione, Loudon elogia la perfezione delle aiuole fiorite circolari, indubbiamente meno ostili, nel loro microcosmo a cerchio, ai fiori compattati in forme geometriche o fantasiose. Dal punto di vista pratico, il changeable flower garden, come l’aveva già definito Loudon nel 1822 nella sua Encyclopedia of Gardening, poteva facilmente mutare la scena paesaggistica con la ro-

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paesaggistica degli Inglesi per l’imperatrice. Redouté, al servizio di Josephine dal 1798, raggiunse l’apice della fama con questa opera, il cui pregio tecnico sta nel coniugare l’esatta e calligrafica rappresentazione scientifico-botanica con la stilizzazione e la raffinatezza di un nuovo genere pittorico di tipo romantico. Redouté fu l’ultimo grande maestro dell’alimentazione della grande raccolta francese dell’illustrazione vegetale, le Vélins de Roi. La passione del gardener per la rosa fu piena e completa. Ne sono prova numerose pubblicazioni: in Francia, per esempio, dal 1877 al 1914, fu edito un periodico dedicato a questo fiore, il Journal des roses. Fra tutti i grandi gardeners che della rosa si occuparono anche in pubblicazioni, la grandissima Ann Ellen Willmott (18581934) le dedicò un’opera immensa redatta tra il 1910 e il 1914, Genus Rosa: una generosa e sbalorditiva incursione della cultura del gardener nel mondo della scienza botanica, sempre ingiustamente ostile verso i dilettanti, come anche in questo caso. Ma la rosa, proprio per il suo antico fascino, è anche contenitrice di infiniti valori simbolici. Eithne Wilkins, nella sua opera The Rose Garden Game edita a Londra nel 1969, ne documenta innumerevoli, mentre Mirella Levi D’Ancona ne analizza ventisei presenti in modi espliciti nella pittura rinascimentale italiana. Dal volume di John Claudius Loudon, A Treatise on Forming, Improving, and Managing Country Residences... del 1806, sono tratte due illustrazioni gemelle (figg. 5a, b). Sono la prova che quel gardener, botanico coscienzioso e scientifico, proponeva per l’elaborazione dei progetti qualche cosa di radicalmente diverso dalle planimetrie sommarie o dai pittorici schizzi prospettici, in voga da quasi un secolo. La rappresentazione meramente planimetrica o pittorica rendeva la scelta di una particolare specie, o la scelta di

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5a, b. Planimetria paesaggista e botanica di uno stesso sito tratta dal volume di John Claudius Loudon, A Treatise on Forming, Improving, and Managing Country Residences..., del 1806. 6. Planimetria botanica di un progetto di giardino, sempre opera di John Claudius Loudon. 7. Il flower garden di Hoole House pubblicato nel 1837 dal periodico The Gardeners’ Magazine, diretto da John Claudius Loudon.


tazione dei fiori in vaso, portati nelle aiuole al momento delle rispettive fioriture, dalle serre o dai luoghi di stoccaggio.Nell’approccio pittoresco del flower garden, l’enfasi si concentrava solamente sul fiore: non si era ancora compresa la bellezza di un cespuglio e di un arbusto stabile nelle stagioni non di fioritura. Presto i fiori saranno imprigionati in ben altre e più formali aiuole, con funzioni talmente decorative da perdere la loro identità, così faticosamente conquistata nei primi decenni del secolo. Sarà la stagione del ritorno al giardino formale, in Inghilterra e quindi in tutta Europa. Ma, tempo pochi anni, sotto la guida di William Robinson, il fiore salterà la barriera di ogni recinzione e di ogni aiuola, per ritornare libero e naturale. Nell’illustrazione, a destra in primo piano, è collocata un’altra costrizione della buona fede del gardener: la struttura tutoria di matrice architettonica, ricordo e memoria attiva di infiniti passati e di alcuni prossimi futuri. Tre disegni rappresentano i suggerimenti proposti nel 1834 da Hermann Fürst von Pückler-Muskau nel suo trattato sull’arte dei giardini, per costruire treillages eleganti e bizzarri con semplice filo di ferro, e per la domesticazione di piante rampicanti di sicuro effetto decorativo (fig. 8). È l’assurda raffinatezza di un’eleganza che ancora non sa di essere kitsch. A dimostrazione di come quella moda fosse tanto diffusa da sembrare un linguaggio consolidato, l’autore scrive: «Per le piante rampicanti faccio confezionare intelaiature variamente intrecciate di robusto fil di ferro, che già di per sé costituiscono un grazioso ornamento e sui quali si possono avviticchiare da ogni parte le piante rampicanti. In Inghilterra le si trova in grande quantità, di egregia fattura e prodotte in serie, sia in forma di piedritto, sia ad arco, o a ombrello, o a colonna spezzata, oppure a piccolo obelisco e via dicendo. Da noi bisogna rivolgersi di volta in volta a un abile artigiano, fornendogli il disegno preferito». Per le forme tutorie proposte in questi suoi tre disegni, il principe Pückler-Muskau suggerisce le specie già da lui sperimentate: per l’ombrello, il glicine di Cina con i suoi folti grappoli azzurri pendenti dalle stecche; per l’arco, la cobea scandens; per la raggiera a semicerchio, varie specie di clematidi. Qui certamente non è ricalcato lo spirito dei treillages rinascimentali, seicenteschi o settecenteschi. Sono treillages che derivano dal clima dei primi decenni del xix secolo, quelli della restaurazione politica e in parte culturale. In essi si avverte l’urgenza di celare la natura in forme graziose alla vista, come sarà per il corpo femminile stretto in piccolissimi busti, o per il cibo, se si pensa agli artifici formali con i quali il gran maestro della gastronomia europea e fondatore dell’alta cucina Marie-Antonin Carême, il cuoco dei re e il re dei cuochi, falsificava la naturalezza dei cibi che preparava per i suoi ospiti, al fine di una graziosa decorazione.

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Il giardino selvaggio 8. Tre disegni con i suggerimenti per costruire treillages, proposti nel 1834 da Hermann Fürst von Pückler-Muskau nel suo trattato sull’arte dei giardini. 9. Un’illustrazione pubblicata da William Robinson nel volume The English Flower Garden, del 1883. 10. Un’incisione inserita da William Robinson nel volume The Wild Garden, dieci anni dopo la prima edizione del 1870. 9

William Robinson (1838-1935) fu il protagonista del rinnovamento dell’idea del giardino inglese, dopo l’ubriacatura delle pratiche storicistiche vissuta nella seconda metà del xix secolo. La sua capacità di rimettere al centro dell’attenzione il mondo vegetale e non le geometrie che imprigionano i fiori, offrì a ogni inglese che non possedeva un castello di fronte al quale organizzare parterre à broderie, l’opportunità di occuparsi di nuovo del proprio giardino, anche se piccolo. William Robinson si recò nella Francia di Napoleone iii per studiare l’organizzazione del verde pubblico urbano, di recente introduzione e gestita da Adolphe Alphand. Il risultato di questo viaggio di studio furono i suoi due primi libri del 1868 e 1869, di grande qualità per il livello dell’analisi e dell’atteggiamento critico. Subito dopo questi lavori, nel 1870, anno in cui visitò l’America, Robinson pubblicò a Londra The Wild Garden, un libro che distrusse le precedenti certezze e aprì al giardino inglese, e in tempi e modi differenti anche al giardino europeo, la strada estetica del giardino selvaggio facilmente praticabile per il gardener. Dieci anni dopo, Robinson inserì nel volume incisioni (fig. 10) di grande carica comunicativa, elaborate in collaborazione con Alfred Parsons. Nel giardino selvaggio la forma geometrica di antropica creazione è esclusa. L’insieme vegetale prescelto è piantumato e programmato ad arte dall’uomo e lasciato poi a una sua crescita naturale e selvaggia da cui scaturiscono i prestabiliti effetti paesaggistici. La vita vegetale, che si manifesta artificialmente ma senza domesticazione alcuna, e l’emozione che essa trasmette, sono i fattori caratterizzanti di questo nuovo giardino, che porta alle estreme conseguenze i fondamenti teorici e pratici del giardino paesaggistico e pittoresco, nella direzione di una totalità percettiva. Nel 1871, Robinson firmò i due volumi A Catalogue of Hardy Perennials e Hardy Flowers, che classificano tutti i vegetali utilizzabili nei giardini inglesi, ma in forma non asettica o astratta, in quanto finalizzata a formare il giardino selvaggio. Nel 1883 William Robinson pubblicò a Londra The English Flower Garden, un libro che, oltre a consolidarne la fama insieme ai volumi precedenti, gli garantì un reddito consono all’acquisto di una tenuta di 200 acri dove formò il suo inusitato giardino. The English Flower Garden fu ristampato ben quindici volte di lì alla morte dell’autore, alla cui celebrità contribuirono anche le riviste: in particolare The Garden, settimanale pubblicato dal 1871 sino al 1919; il periodico Gardening Illustrated, pubblicato dal 1879 sino al 1919; e Flora and Sylva (1903-1905). The English Flower Garden, dal quale è stata tratta l’illustrazione (fig. 9), seguì di tredici anni l’altro volume di Robinson Alpine Flowers for English Gardens, che ne fu in

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11. Un’illustrazione contenuta nel volume di Gertrude Jekyll Colour Schemes for the Flower Garden, stampato a Londra nel 1914.

un certo modo l’anticipazione, essendo dedicato ad «all the plants best suited for its embellishment». Nell’illustrazione, nella loro piantumazione a bordo come nella crescita informale, i fiori sono i veri protagonisti del giardino. Robinson formulò la tesi che sia nel paesaggio del grande parco sia in quello del piccolissimo giardino, con la sua ciclicità vegetativa, il fiore andava considerato come l’oggetto precipuo dell’attività di ogni gardener, il quale, proprio per questo fine, doveva prediligere le specie a crescita libera e autosufficiente. Dati simili fondamenti, bastava essere un gardener sensibile per poter formare e gestire un giardino improntato alla rivoluzione estetica e paesaggistica allora in atto. Da qui la popolarità e il successo di Robinson e, di conseguenza, la diffusione per una sorta di clonazione, dei princìpi e del gusto del suo giardino, cui i proprietari di giardini grandi e piccoli guardavano come a un modello di perfezione al quale ispirarsi nel loro operare. Il successo guadagnò a Robinson, originario della lower class, il rispetto anche dell’alta società dalla quale peraltro non fu mai molto amato. Alcune emozionanti fotografie ritraggono Robinson a Gravetye nel proprio parco-giardino, la cui superficie raggiunse col tempo gli oltre 1000 acri, in un padiglione nei pressi della casa con le sue nurses; seduto sulla sedia a rotelle con le gambe coperte da un plaid; o sulla sua automobile speciale, una Citroen cingolata, indispensabile per percorrere il parco negli anni della vecchiaia. Gertrude Jekyll (1843-1932) fu una gardener e una garden designer, ma anche una scrittrice di libri di grande utilità per il gardener, ben ancorati alla tradizione culturale anglosassone e di notevole spessore didattico, e contemporaneamente di documentazione delle sue molte attività, oltre che di propaganda delle sue idee. Appartenente a una famiglia dell’upper middle class vittoriana, sviluppò la lezione di William Robinson, anche se mai si dichiarò esplicitamente sua allieva o discepola. La Jekyll si formò grazie a studi che divennero poi i fondamenti della sua opera di gardener: pittura, decorazione, storia dell’arte e teoria dei colori. Frequentò gli intellettuali inglesi più significativi, fra i quali Ruskin e Morris. Nel 1899, quando acquistò la tenuta di Munstead Wood, affidò il progetto della casa all’allora ventenne architetto Edwin Lutyens, con il quale organizzò anche il giardino. Sino al 1914 questa sorta di società non dichiarata (Jekyll & Lutyens) progettò circa cento giardini. La Jekyll dovette la sua fama a questo lavoro, alle rubriche redatte per autorevoli periodici di grande diffusione (The Garden di Robinson e Country Life), e ai quindici libri editi. Fra questi, il primo che contribuì alla sua vastissima notorietà fu Wood and Garden, pubblicato a Londra nel 1899. In esso, l’esposizione del rapporto tra giardino e bosco esprime in maniera nuova la continuità della dialettica fra giardino e paesaggio, specifica della storia e della cultura inglesi. Si tratta di un libro apparentemente difficile da capire, ma che contiene programmi operativi e contemplativi straordinari e alla portata di tutti. Conoscere esteticamente il giardino e il bosco nel loro estendersi e integrarsi l’uno nell’altro, nel variare del paesaggio mese dopo mese: così il gardener, con la sua sapienza, può consumare il ciclo delle mutazioni paesaggistiche anche nei mesi nei quali il giardino viene per tradizione trascurato dalle consuetudini contemplative. Un altro volume, apparentemente facile da comprendere, ma difficilissimo da capire compiutamente e da praticare è Colour Schemes for the Flower Garden, stampato a Londra nel 1914, del quale è qui riprodotta un’illustrazione (fig. 11). Il colour border in esso teorizzato porterà il flower garden inglese all’acme concettuale ed estetica.

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12. il giardino del pittore Claude Monet (1840-1926), il grande maestro della pittura impressionista, fu anche un gardener. La pittura impressionista proponeva un nuovo rapporto con la natura e con l’antico sogno della sua imitazione da parte dell’uomo attraverso l’arte. Ora, con la pittura en plein air la riproduzione pittorica della natura si fa dal vero, sul posto, e non più negli ateliers degli artisti. Il giardino di Giverny di Claude Monet, amorosamente curato dal pittore dal 1890, quando acquisì la proprietà, fino alla morte, vive ancora oggi grazie a Claire Joyes e Jean-Marie Toulgouat, che assicurano la continuità biologica e paesaggistica del microcosmo vegetale originario. Io forse devo ai fiori l’essere diventato un pittore, dirà nel 1924 Monet, il quale amava percorrere il suo giardino molte volte al giorno e in qualunque stagione. Alla formazione del giardino avevano contribuito anche le numerose discussioni avute con i più famosi gardeners e botanici francesi del tempo. Lo straordinario giardino di Giverny fu possibile per una serie di contingenze storiche e culturali, ovviamente correlate all’artista e al suo specifico Kunstwollen.

Prima fra tutte, la pittura impressionista, cioè quella pittura en plein air che doveva esser capace di cogliere la mutevolezza della natura e l’ancor più complessa mobilità della luce. Monet plasmava ogni giorno il proprio giardino come fosse un modello di cui catturare anima e aspetto in un particolare istante. Questo giardino divenne un giardino pittorico per le esigenze dell’artista, pensato, appunto, per essere ritratto. Monet era un gardener, ma anche un pittore: perciò, come gli sarebbe stato possibile separare l’eleganza e la raffinatezza botaniche applicate alla formazione del paesaggio del giardino (piante comuni mescolate a piante rarissime), dalle esigenze pittoriche (con l’attenzione tipicamente impressionistica alla scelta della morfologia delle piante e del loro cromatismo, per il quale il colore non ha mai autonomia ma vive nel rapporto con il colore vicino), nella ricerca di particolari rapporti e contrasti? Ma tutto questo vale anche per il rapporto con la moda del tempo, che Monet diligentemente praticava: lo dimostra l’inserto di un giardino giapponese nella vastità dell’impianto di Giverny.

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L’idea del giardino per tutti

Il sogno della città-giardino Due immagini del 1715 (figg. 1 e 2), una planimetria e una prospettiva a volo d’uccello, descrivono il nodo fra la città di Karlsruhe e l’Hardtwald: il castello granducale, nucleo generatore del gran cerchio e del sistema di raggi che si estendono all’infinito, e metafora di un potenziale governo del mondo attuato da questo centro di potere. È una complessa espressione urbanistica, architettonica, paesaggistica e simbolica. La piccola città e il suo legame con il territorio urbanizzato del contesto convergono verso la centralità del castello (in particolare della sua Bleiturm, elemento fondativo del complesso), la cui presenza sembra calamitare e indurre le varie direttrici. Tra il settore circolare dell’abitato, collocato sul gran cerchio urbanistico, e il castello, sta il giardino prezioso e formale, come tutta la cultura europea settecentesca richiedeva, costruito sull’interdipendenza simmetrica delle grandi aiuole ricamate. Dietro il castello, un’altra corona circolare di piccoli edifici e padiglioni definisce la matrice della raggiera che si estende al di là del grandissimo cerchio, in cui è inscritto anche un più delicato quadrato. I raggi dei viali alberati suddividono in giganteschi cunei la fitta vegetazione forestale, resa così percorribile in ogni direzione, come volevano le regole formative seicentesche concernenti gli impianti destinati alla caccia dei principi e dei re. La metafora della centralità del potere è espressa didascalicamente da una geometria, l’unica possibile per un simile territorio e per la cultura politica che lo amministrava. L’assolutismo che la sottende è di tipo meccanicistico, ma, proprio per questo, è talmente elementare da presentarsi poi in forma di straordinaria poesia paesaggistico-programmatica, come queste immagini dimostrano. Si tratta, forse, del più organico rapporto urbanistico europeo tra città e ambiente naturale, e allude allegoricamente a un ben diverso futuro per la città, che sempre dovrebbe essere una città-giardino, come l’isola di Citera dell’Hypnerotomachia Poliphili implicitamente suggeriva.

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Architettura neoclassica e verde urbano

1 e 2. Planimetria e veduta a volo d’uccello di Karlsruhe in stampe tedesche del 1715.

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Bath, nell’Avon, è una città inglese virtuale, nata dalla complicità tra finanzieri, architetti (protagonisti John Wood il Vecchio, 1704-1754, e il figlio John il Giovane, 1728-1781), e medici, che prescrivevano ai loro facoltosi pazienti londinesi cure termali. Da questa tendenza terapeutica, iniziò una specifica pratica turistica che ha come meta pseudocittà metafisiche dal punto di vista della sociologia urbana, abitate saltuariamente solo da ricchi e dai loro servi. A Bath, nei primi decenni del xviii secolo, si sperimentano nuovi rapporti tra verde e città, dando vita così a un prototipo urbanistico valido co-

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me riferimento genetico per tutte le città inglesi che in seguito sentiranno l’esigenza di dotarsi di adeguate espansioni. Il circus, lo square, il crescent e il terrace: sono questi i tipi che servono a declinare i nuovi spazi urbani dell’eleganza settecentesca e neoclassica. Ma così come per le vicende del giardino, l’alta tecnologia della reiterazione del linguaggio neoclassico richiede per compensazione interventi integrativi di grande sensibilità: per esempio, nel caso di un giardino di fronte alla villa, il ricorso ai modi del landscape gardening, e in quello di una città, l’introduzione di open spaces organizzati a verde (figg. 3-5). Nasce così il verde urbano, nella forma specifica capace di formare nuovi paesaggi nei quali, finalmente, il mondo vegetale è coprotagonista. Il giardino circolare del ­Circus cinto interamente da una ringhiera. Al suo interno, possono accedere

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3 e 4. La Bath settecentesca con le architetture di John Wood il Vecchio e il Giovane e i relativi spazi a verde. 5. Particolare dei giardini di Bath.

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solo quanti ne posseggono le chiavi, i proprietari o gli affittuari delle case che formano il C ­ ircus. Quel verde è perciò parte del paesaggio urbano, ma non è un verde pubblico: una formidabile invenzione paesaggistica inglese. Lo stesso sarà per il successivo Crescent, un’area a mezzaluna destinata a un uso simile. Ma oltre quella, vi è qui un’ampia zona di verde pubblico, che con la prima si fonde paesaggisticamente.

Il giardino pubblico illuminista Nell’età dell’Illuminismo, il giardino privato del nobile non è più ambiente sufficiente per rispondere alla complessità dei comportamenti della classe dirigente. Nasce il giardino pubblico, frequentato dagli aristocratici, dai ricchi borghesi e dagli intellettuali, su istanza delle esigenze di interdipendenza del gusto, della moda, dell’erotismo, della cultura e del cosmopolitismo. Il giardino pubblico di Milano, uno fra i primi d’Europa, creato nel 1787, è visto in un’incisione (fig. 6) al tempo del suo riuso rivoluzionario e giacobino (1803). I teorici del nuovo giardino paesaggistico, francesi e tedeschi, ne definiscono le coordinate sociali. Uno dei modelli è l’Augarten di Vienna sul cui ingresso era scritto: «Luogo di piacere, dedicato a tutti gli uomini dal loro amico (Giuseppe ii)». Nella Milano capitale del Lombardo-Veneto austriaco si decide appunto nel 1777 la costruzione di un giardino pubblico, realizzato poi tra il 1782 e il 1788 su progetto dell’architetto Giuseppe Piermarini, propugnatore nella città del nuovo classicismo architettonico. Il giardino pubblico è il luogo degli incontri collettivi e dei nuovi comportamenti: sin dalle sue origini vi è proibito l’uso di carrozze e di cavalli. La pedonalità non è solo una prescrizione ma anche una dimensione psicologica. Con l’età della rivoluzione, il giardino pubblico sarà la scena di complesse propagande politiche e ideologiche promosse dalla nuova classe dirigente. L’incisione rappresenta l’allestimento temporaneo, in età repubblicana, della parte terminale dei Giardini Pubblici, quella che li correla al centro della città: un’organizzazione geometrica di tigli, olmi e cespu6

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6. Allestimento temporaneo della parte terminale dei Giardini Pubblici di Milano nel 1803. 7. Progetto di monumento alla libertà di Leopold Pollack. 8. Veduta attuale dell’Englischer Garten di Monaco.

gli di rododendro (subito definita i Boschetti). Questa incisione documenta a Parigi le manifestazioni politiche milanesi dell’anno ii repubblicano (1803), ma fu utilizzata modificando la data per descrivere la festa dell’anno successivo. Si tratta di una straordinaria invenzione dell’architettura del verde: grazie all’impalcato alto (sotto il quale è possibile il passeggio), i fusti regolari degli alberi appaiono come un fitto colonnato architettonico che ha per copertura la massa del fogliame.

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Il giardino pubblico paesaggistico Alla fine del xviii secolo, la città di Monaco di Baviera si dota di un ampio giardino pubblico (figg. 8 e 9) di 364 ettari, subito definito, per la sua connotazione stilistica, Der Englische Garten, nel quale troneggia la torre-pagoda in stile cinese del 1791. Si tratta, forse, del più grande giardino stilistico d’Europa, il più antico giardino pubblico della Germania, formato quando ancora nel continente le prime espressioni del giardino paesaggistico all’inglese erano confinate nelle piccole proprietà private. Il parco è opera dell’architetto paesaggista Friedrich L. von Sckell (17501823), seguace convinto delle teorie e delle opere di Lancelot Capability Brown e di Humphry Repton, cui non furono posti limiti alla formazione di un unitario e amplissimo complesso paesaggistico. La sua dimensione fisica e psicologica, essendo un giardino pubblico, e la vastità della sua irregolare articolazione da tutti percorribile, erano tali da imporlo alla città non come bizzarria o semplice sperimentazione di un nuovo gusto non generalizzabile, ma come aspetto fondamentale della

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9. L’Englischer Garten di Monaco di Baviera. 10. L’Arena di Milano in un acquerello del 1806.

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struttura urbana, della sua stessa forma urbis. Von Sckell così illustrava i princìpi del suo intervento, mutuati dalla cultura inglese ma tradotti in una versione tedesca che affiancava quelli paesaggistici a quelli pittoreschi di nuova formulazione: «È la natura che serve ai nuovi giardini come esempio; le sue varie immagini possono decorare anche i nostri giardini, ma senza con ciò esigere il minimo obbligo di un’imitazione impaziente. Queste immagini della natura devono essere composte con gusto, in modo da presentarsi unitariamente fuse; arricchite da alberi esotici, cespugli e fiori, formeranno un giardino nel quale la natura appare nel suo abito di festa». Ancor oggi il giardino di Monaco, trasformato non solo biologicamente, con la sua torre ricostruita dopo l’incendio, suscita nel visitatore lo stupore per la grandiosità della sua concezione, in particolare se riferita mentalmente alla dimensione urbana del tempo.

L’architettura pubblica lito-vegetale Incastrata nella Piazza d’Armi, perimetrata alla sinistra da filari di alberi, tangente alle tessiture dei viali urbani anch’essi fittamente alberati della Milano napoleonica, si costruisce l’Arena dalle forme neoclassiche. È la memoria di un antico passato, e pietrificazione della precedente costruita in legno. L’Arena di pietra, capace di oltre trentamila posti su una popolazione cittadina che superava di poco le centomila anime, fu voluta da Milano da re Napoleone Bonaparte quasi a suggello dell’acquisito ruolo di capitale del Regno d’Italia. Palcoscenico di quelle feste di tradizione classica riprese in età giacobina e repubblicana, fu costruita nel 1806 su un progetto improntato da una forte tensione neoclassica, dell’architetto di Lugano ma milanese d’adozione, Lu-

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igi Canonica. Si tratta di una vera e propria struttura di pubblica utilità all’interno di un complesso sistema di verde urbano di uso pubblico (lo era anche la Piazza d’Armi, nelle giornate nelle quali non si svolgevano manifestazioni o esercitazioni). La genialità del Canonica fu di riuscire ad amalgamare in forma simbolica la presenza fisica di quest’architettura con il paesaggio urbano vegetale circostante, mediante un coronamento costituito, come proponeva il Filarete per la Milano del xv secolo, da una sorta di giardino pensile ovale formato da due filari di alberi, ben visibili dalla città e dall’intorno. Sarà l’insipienza tardo-ottocentesca a distruggere questa immagine magica, sia stravolgendo il suo contesto, sia piantumando a ridosso dell’edificio grandi alberi che quello straordinario e inusitato coronamento nasconderanno. Del significato di questa architettura lito-vegetale nella vita della città è documentazione un acquerello (fig. 10), dove l’Arena è la ribalta di una naumachia, in ossequio ai riti ludici dell’antichità classica. Altre manifestazioni vi si tenevano: feste popolari, spettacoli pirotecnici, caroselli equestri, saggi ginnici e perfino banchetti di massa.


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11. Un disegno acquerellato di Luigi Canonica con la planimetria del Parco di Monza intorno al 1808. 12. Veduta aerea del Parco di Monza. 13. Il serrone presso la Villa Reale del Parco di Monza. 14. Il parco parigino di Buttes-Chaumont, progettato da Pierre Barillett-Deschamps tra il 1864 e il 1867.

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Il parco reale come ménagerie Un disegno acquerellato (fig. 11) di Luigi Canonica (1762-1844), datato intorno al 1808 e conservato nella Oesterreichische Nationalbibliotek di Vienna, è una delle tavole di progetto del Parco Reale di Monza, nei pressi di Milano. Il parco di 600 ettari, forse il più grande fra quelli creati in Europa in quegli anni, fu fatto costruire da Napoleone, allora anche Re d’Italia: i lavori ebbero inizio nel 1805 e l’anno successivo il parco era già cintato da un grande muro lungo quattordici chilometri. Le vicende storiche italiane e l’obsolescenza dovuta agli usi illeciti delle sue aree hanno fatto dimenticare il significato innovatore di questo straordinario monumento europeo della storia del giardino e della storia del divenire della sua idea. Dal punto di vista morfologico, nel parco è tutta la storia del giardino: dal giardino rinascimentale e formale attorno alla Villa Reale del Piermarini agli impianti della matematica seicentesca nell’organizzazione boschiva, alle direttrici settecentesche, alla sinuosità dei percorsi e delle radure tipici del giardino paesaggistico, alle connotazioni architettoniche romantiche, alle forti presenze pittoresche sottolineate da tortuosi corsi d’acqua. Ma forse la significanza moderna è altra. Napoleone stabilì che nel Regno d’Italia ogni liceo dovesse dotarsi di un didattico orto botanico (perché l’orto è il miglior libro in questa scienza), e alla cul-

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tura che proponeva codeste prescrizioni, si rifaceva l’impianto generale del Parco di Monza. Non si trattava infatti del giardino di una villa reale, con relativa estensione di un parco riservato alla caccia del re. Al contrario, il pur sempre illuminista Napoleone proponeva qui una sperimentazione concreta dell’idea di progresso. Il Parco di Monza fu infatti pensato come un’immensa ménagerie per la domesticazione, l’allevamento e la produzione di animali e piante, nella logica della pubblica utilità. Dal punto di vista botanico quello di Monza era «...un Vivajo Regio per la conservazione de Frutti, degli alberi, degli arbusti, e delle piante indigene, ed esotiche necessarie per le piantaggioni sui sentieri, e sulle strade per l’abbellimento de giardini pubblici del Regno».

Il parco pubblico della borghesia Per la Parigi del rinnovamento urbanistico di Napoleone iii, Pierre Barillett-Deschamps progetta il parco di Buttes-Chaumont (fig. 14, 15 e 16), costruito tra il 1864 e il 1867 su una superficie di venticinque ettari, sotto la direzione di Jean Charles Adolphe Alphand, coordinatore di tutti i lavori per i grandi parchi e per le alberature dei boulevards. La dimensione e la qualità fanno di questo parco un modello del giardino pubblico di quegli anni. L’impegno formale ed estetico genera un nuo-

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15 e 16. Due vedute odierne del parco di Buttes-Chaumont. 17. Una tavola del libro di François Duvillers Les parcs et jardins, del 1871.

chi ne percorre l’articolato andamento centripeto. François Duvillers raccoglie i suoi progetti per giardini privati di nobili e principi nel 1871 nel libro Les parcs et jardins (fig. 17), a dimostrare la fortuna di quel gusto nella Francia del Secondo Impero, applicato anche ai giardini pubblici. La matrice progettuale è chiara: un primo percorso perimetra i limiti esterni del giardino (da ogni punto di questo sentiero si avrà la prospettiva più profonda dell’insieme), da questo partono gli altri formando dolci e ampie curve in un fascio potenzialmente infinito, evitando la reiterazione della visione di un tracciato rettilineo. La morfologia di questi innumerevoli paesaggi tradotti in forma di quadri paesaggistici, percepibili in successione durante il percorso, è ancora chiara e semplice, basata sui princìpi del landscape gardening: ogni percorso ha a fianco gruppi di alberi ad alto fusto, davanti ai quali il parterre è semplicemente un vasto prato accudito. Con la diffusione anche nel giardino pubblico dell’estetica del giardino pittoresco, la morfologia complessiva e i suoi componenti saranno stravolti. Protagonisti saranno allora i fiori e le rocailles, capaci di ricostruire artificialmente gli ambienti più emozionanti (pittoreschi, appunto) offerti dalla natura nei suoi siti più nascosti. Dal giardino formale alla francese a quello paesaggistico, fino a quello pittoresco, l’alternanza del gusto scandisce l’uso del giardino privato, e presto anche di quello pubblico. Vi è in tutto questo il modificarsi dell’idea della natura, intesa come 15 17 16

vo spazio per la contemplazione. Questo è il giardino pubblico della borghesia al potere, utilizzato da quella collettività come, in precedenza, quello privato dell’aristocrazia era consumato dai proprietari e dai loro ospiti. L’interdipendenza dei modelli formali del giardino elegante francese, pubblico e privato, è dimostrato dall’omogeneità fra le due figure di queste pagine. Il nuovo giardino pubblico, inserito in parti relativamente centrali delle città europee, è destinato all’abbellimento urbano, al passeggio, al gioco dei bambini e alla contemplazione sentimentale delle scene vegetali, che formano nuovi e affascinanti paesaggi urbani. Presto il giardino pubblico diverrà un simbolo di prestigio del decoro urbano. Quando la città europea diverrà la città industriale, con nuove qualità e quantità, il giardino pubblico non si moltiplicherà per le esigenze dei nuovi abitanti. In esso la dimensione paesaggistica è formata dalla raffinatezza del disegno planimetrico, il cui intreccio di percorsi sinusoidali è pensato per offrire alla percezione visiva dei frequentatori le meditate scene pittoresche, nelle quali il materiale vegetale è protagonista: più complesso di quello dei parchi e dei giardini settecenteschi, anche per la presenza sempre più diffusa della botanica esotica. Il progettista dei giardini è cosciente di operare con materiale biodegradabile; il giardino nasce per volontà dell’uomo, cresce e muore, come qualunque struttura vivente. Il progetto è perciò la matrice sulla quale la natura, nel tempo (per decenni e secoli), formerà se stessa, da contemplarsi nel suo crescere. La conclusione del progetto sarà contemplata solo dalle generazioni future, così come era avvenuto per i parchi privati. La nuova linea curva, la serpentina dell’Ottocento elegante francese, non ha più il compito di propagandare l’estetica dell’asimmetria, come aveva quella settecentesca. La linea sinuosa, che taglia in infinite larghe curve il terreno, offre scene vegetali infinite a

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18 e 19. Il Bois de Boulogne nel suo assetto seicentesco e nella sua trasformazione ottocentesca a opera di Jean Charles Adolphe Alphand.

altro, rispetto al mondo della produzione agricola e del rapporto uomo/natura necessario all’alimentazione dello spirito e alla contemplazione dell’insieme botanico; nella sua specifica vita stagionale connessa alle fioriture, e nel suo divenire pluriennale. Nasce il parco come manufatto: ora si deve osservarne attentamente la vita. Il Bois de Boulogne ha accompagnato la vita di Parigi quasi dall’inizio. Il cammino dei pellegrini che si recavano da Parigi a Notre-Dame di Boulogne-sur-mer attraversava questa enorme foresta e fu per questo che nel 1319 vi venne eretta una chiesetta chiamata Boulogne, da cui il nome del parco. Il bosco divenne poi riserva di caccia della Corona. L’antico assetto (fig. 18) si deve al ministro di Luigi xiv, Jean Baptiste Colbert. In quell’epoca, il parco fu anche testimone di feste e banchetti reali e di scorribande illegali. Jean Charles Adolphe Alphand, che si considera il depositario dell’unica verità, il sacerdote del giardino paesaggistico e propugnatore senza dubbi delle sue indiscutibili bellezze, tramuta l’antico bois in un grazioso giardino alla moda (fig. 19) per certi versi incomprensibile, perché la sua immagine complessiva non è globalmente percepibile da chi lo visita. All’ordine dominabile grazie alla conoscenza del bois del passato, subentra un disordine caotico, anche se c’è una precisa gerarchia nelle diverse direzionalità. La comparazione fra i due progetti, presentati da Jean Charles Adolphe Alphand nella sua opera monumentale con polemici intenti di contrapposizione, dimostra la situazione precedente e quella successiva alle trasformazioni romantiche da lui promosse come responsabile dei parchi della Parigi del Secondo Impero. Osservando l’impianto morfologico complessivo della prima scena, a nord della quale è collocato il nuovo parco romantico di Bagatelle, tangente al Bois de Boulogne, è possibile comprendere il significato che a un parco si attribuiva prima del consolidarsi della nuova estetica romantica e paesaggistica. Il bois è una fitta struttura boschiva la cui prima funzione era allora quella di riserva di caccia, sempre piena di selvaggina per le mense del re. In questa versione era dunque un ecosistema capace di assicurare la vita e la moltiplicazione di quella selvaggina. Il landscape garden voleva invece imitare un’altra natura, quella del pascolo inglese, con grandi radure a prato per il nutrimento dei ruminanti e fitte quinte di alberature ai bordi, là dove il prato terminava. Per trasportare nel cuore di Parigi una simile scena paesaggistica si sarebbe dovuto distruggere l’esistente sistema ecologico senza riprodurne un altro: semplicemente per rispondere al gusto (taste) imposto da una nuova estetica. Appare evidente che la soluzione paesaggistica migliore, per un bois di questo tipo, era l’antica. Nel fitto bosco si penetrava per strade rettilinee che lo intersecavano conducendo il viandante da un sito urbano a un altro, permettendogli al contempo di conoscerne perfettamente l’interno, concettualmente infinito per sua natura e fisicamente enorme con i suoi 863 ettari di superficie. L’arrogante Alphand certamente non riteneva, nelle sue incontestabili certezze, che nell’antico bois, pur mortificato nelle sue funzioni originarie, vi fosse una specifica qualità estetica. E neppure reputava esistesse una ragione oggettiva di tipo storico nella sua bellezza di artificio naturale, da sempre governato dall’uomo. Il fascino di un’incommensurabile, matematica geografia che permetteva una conoscenza compiuta e completa del tutto, gli sfuggiva. La sua volontà (dirigeva le progettazioni prima dell’architetto Varé e poi di Barillet-Deschamps, che da questo lavoro ebbe la fama di caposcuola, gestendo poi autonomamente sia il progetto del rinnovamento del Bois de Vincennes sia quello di Buttes-Chaumont) era di trasformare il bois in qualche cosa di moderno, degno degli splendidi sogni vegetali (tali poi non saranno) prefigurati per l’impero di Napoleone. Il nuovo Bois de Boulogne non sarà all’altezza estetica e tipologica, funzionale e so-

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20 e 21. Due immagini attuali del Bois de Vincennes.

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ciologica, del contemporaneo sistema urbano generato dai boulevards, ideato e diretto dal barone e prefetto di Parigi Georges-Eugène Haussmann, che fu capace di introdurre anche nel paesaggio urbano l’eccezionale qualità verde dei viali alberati. Qui, a differenza dei giardini paesaggistici, il gran parco correttamente e diligentemente disegnato si presenta come un groviglio di linee sinusoidali convergenti sui due laghi e dirette a privilegiare il consumo di un parco più piccolo del bois, vicino all’abitato e parallelo alle mura urbane. Dalla parte opposta, limitrofi alla Senna, l’Ippodromo e le attrezzature per il divertimento. Fra le due sezioni, giace ormai senz’anima quanto rimane del bois originario, privato delle quantità e delle qualità che lo facevano unico e irripetibile. Il nuovo disegno sembra il risultato dell’attività di un virus, di per sé non sempre e completamente negativo, che il grande impianto culturale e storico non è stato in grado di annientare appieno.

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22 e 23. Due immagini del Champ de Mars a Parigi, il grande spazio pubblico già sede di feste rivoluzionarie e dell’Esposizione Universale. 24 e 25. Il parco del Buen Retiro a Madrid, completamente pubblico dal 1868. L’immagine in basso mostra il monumento ad Alfonso xii inaugurato nel 1922.

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Il parco pubblico come scenografia della vita Una litografia acquerellata, che rappresenta una scena nel St.-James’s Park di Londra (fig. 26), uno dei parchi pubblici più famosi, è parte dell’apparato illustrativo della seconda e definitiva edizione risalente al 1887 di Tour, del libro di divulgazione per adulti Histoire des jardins anciens et modernes, opera di Arthur Mangin. La prima edizione, ridotta rispetto a questa, era del 1867, mentre una versione ancora incompleta venne stampata nel 1874. Nel 1888, a dimostrazione della popolarità del tema, il volume conobbe una ristampa. I giardini e i parchi pubblici sono nell’Europa ottocentesca uno dei luoghi deputati a celebrare il potere della borghesia. Non tutti i borghesi hanno un loro proprio giardino e men che meno un parco: da qui l’idea di un giardino pubblico per la borghesia al potere, così come dal Settecento si era incominciato a fare per l’a-

26. Una litografia acquerellata con una scena nel ­St.James’s Park di Londra. 27. Una veduta attuale di Hyde Park, a Londra. 28. Una veduta attuale di St.-James’s Park, Londra.

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ristocrazia e la grande borghesia nelle città più evolute del continente. Ora, una città che non abbia il suo anche modesto giardino pubblico (come anche un piccolo museo di scienze naturali, una biblioteca e un museo d’arte), non ha un decoro adeguato alle aspirazioni del secolo. A cosa serve un giardino pubblico di questo tipo? L’abbondante iconografia del tempo lo spiega in modo particolareggiato: al passeggio di un capofamiglia con moglie e figli nei giorni festivi e nell’incontro conviviale con altri gruppi famigliari, come fosse il proprio giardino; oppure alla sosta di un bambino borghese con la sua fantesca, spesso in tenero colloquio con qualche soldato di passaggio. Ma vi era anche chi usava il parco o il giardino come sempre era avvenuto: come un percorso scandito da contemplazioni e alternato da pause di meditazione. Da questa immagine, invece, sembra che compito di un parco borghese e ottocentesco fosse soprattutto quello di fungere da scena per pratiche seduttive. Le due figure, sedute informalmente sul prato, hanno una forte significanza, perché lasciano credere che tutto il parco indirizzi verso codesta specifica utilizzazione. Presto, tuttavia, il parco dovrà essere aperto a tutti i cittadini, non solo ai membri della classe dirigente, e non solo per quella funzione.

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The American Garden

Il sublime del paesaggio selvaggio: boschi e foreste, deserti e praterie, mondo agrario e mito della frontiera

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2. david thoreau

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1. Thomas Cole, le cascate di Kaaterskill, 1826.

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«Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto». Così Henry David Thoreau motiva il suo ritorno alla natura nel Walden: or Life in the Woods (1854). Il libro rimane una delle pietre miliari dell’immaginazione americana ponendosi come opera che appartiene sia alla letteratura sia alla mitologia, sia infine alla storia delle idee. L’apparente atteggiamento romantico e letterario dell’andar per boschi si rivela infatti come un messaggio di più vasta portata che, se da un lato annuncia un programma estetico, politico e sociale, che come vedremo rimarrà quale riferimento nella storia della cultura americana, dall’altro esplicita al meglio l’idea del giardino del grande Paese, in bilico tra dimensione utilitaria (la coltivazione-conquista del primo pioniere), soluzione formale e riferimento al valore del paesaggio e della natura in senso lato. Thoreau non era l’unico a scegliere la solitudine e un diretto rapporto con la natura come soluzione di vita; tra gli intellettuali a lui contemporanei Stearns Wheeler si era costruito una baracca di legno sulle sponde del Flint’s Pond non troppo distante dal Walden Pond (occhio della terra) dove Thoreau costruisce il suo mondo; Ellery Channing invece si era spostato nella prateria dell’Illinois, ma ciò che differenzia la scelta di Thoreau è il carattere programmatico e sperimentale: «Inventore di un nuovo paesaggio, [egli] fonda la propria ideologia sulla scoperta di un’epicità del quotidiano, del mito alle porte di casa che gli consente di rifiutare da un lato la tiepida e rapace finzione nella quale una società mercantilistica tende a convertire i giorni, le esigenze e i consumi; e di proporre, dall’altro, un’economia della frugalità, un anticonsumismo ispirato, inteso a ridurre al minimo lo spreco di quel valore non commutabile che è la vita»1. Thoreau, come i grandi utopisti che proprio in America

sperimenteranno nella forma di comunità edificate i loro programmi di vita, propone in modo implicito un modello di società agricola e arcaica quasi astorica, in grado poi di instaurare con la natura un rapporto di osmosi, di ascolto e di apprendimento dal paesaggio. È l’opposto di Robinson Crusoe che intorno a sé ricostruisce un microcosmo difensivo che ripete gerarchie e regole della società da cui proviene. Così, se la capanna di Crusoe è metafora di una privata fortezza in cui rifugiarsi escludendo la vita esterna, quella di Thoreau si apre alla natura, partecipando ai suoi processi e al ritmo delle stagioni, cercando di svelarne i segreti tesi alla definizione dei princìpi di riferimento per una società dell’essenziale da contrapporre alla civiltà dello spreco e dell’apparenza. Il diario di Thoreau di due anni di vita sulle sponde del lago indiano diventa «luogo dell’immaginazione e centro di una geografia sconosciuta alla letteratura, realtà americana che l’immaginazione ha definitivamente trasformato in mito»2. Un mito che permane sino al presente in chiave sia letteraria sia etica; la tragica esperienza di Chris McCandless, che nell’aprile del 1992 si incamminò da solo negli immensi spazi selvaggi dell’Alaska per poi trovarvi la morte, raccontata nel libro di Jon Krakauer3 e tradotta in chiave cinematografica da Sean Penn nel 2007 (Into the Wild), si colloca in tale vettorialità anche senza elaborare un programma e un modello collettivo, rimanendo nella dimensione strettamente individuale. Ma il pensare alla natura quale eden terreno alternativo, significa assumere il paesaggio come giardino, il mitico mondo del pioniere americano con il suo ideale di wilderness come paradiso terrestre. «Con Thoreau il landscape entrò a fare parte della coscienza degli americani, non più come potenziale area suddivisibile, né come territory consacrato a una forma di governo repubblicano, ma come tesoro interiore, di volta in volta, diverso per l’uomo dei monti, per l’uomo del fiume, per l’uomo del mare»4.

Alla foresta e ai boschi di Thoreau, al suo ideale di purezza implicito della vita nella natura, simbolo dell’individualismo e della democrazia di Thomas Jefferson (l’agricoltura come fonte principale del benessere e soprattutto delle virtù umane), all’idea di landscape come giardino, si affiancano movimenti artistici tesi alla rappresentazione del paesaggio americano quale scena sublime di una natura selvaggia, spinti in una ricerca di immagini in grado di divenire fonte di orgoglio nazionale. Da questo punto di vista la Hudson River School Painters, di cui iniziatore è Thomas Cole, si pone come gruppo precursore di un’azione destinata a estendersi: dare dignità al Paese attraverso la rappresentazione della magnificenza e spettacolarità dei suoi paesaggi naturali (in particolare quello della vallata del fiume Hudson a nord di New York). La mostra newyorkese del 1825, con i dipinti di Thomas Cole che immortalano vedute del fiume e delle Catskill Mountains, fa di questi luoghi alcuni dei simboli del paesaggio americano, e la pittura diventa strumento per tracciare un’immagine della nazione basata sulla celebrazione delle ricchezze naturali caratteristiche del Paese e sul concetto di terra promessa, conservatasi nel tempo e destinata a esser affidata e preservata dai suoi nuovi abitanti. Nel suo Essay on American Scenary (1835) Cole afferma: «non intendo in alcun modo sminuire [...] gli scenari gloriosi del Vecchio mondo – del continente che è stato il grande teatro della storia dell’uomo – di quelle montagne, di quei boschi, di quei fiumi resi sacri nelle nostre menti da gesta eroiche e da poemi immortali, che il tempo e lo spirito hanno circondato di un’area eterna. No! Ma vorrei che si ricordasse che la natura ha profuso bellezza e magnificenza anche a questo Paese e, benché il carattere di questo scenario possa differire da quello del Vecchio mondo, da ciò non bisogna pensare che gli sia inferiore [...]. La caratteristica più distintiva, e forse più impressionante, del paesaggio americano rimane la sua selvaggia bellezza». A Cole si affianca tra gli altri Edwin Church che, nel suo monumentale dipinto (Le cascate del Niagara sul versante americano, 1867) dedicato allo spettacolo delle cascate del Niagara, fa della wilderness l’elemento attrattivo, ora non solo relegato ai fruitori delle gallerie d’arte, ma esteso per la prima volta al grande pubblico. «Al dipinto delle cascate del Niagara di Frederick Church [...] si può attribuire il merito di avere costruito un forte incentivo a visitare le cascate nella seconda metà del diciannovesimo secolo. L’accessibilità alle cascate del Niagara su traghetti a vapore generò un’industria del turismo basata esclusivamente sulla visione di un grande spettacolo della natura»5. L’idea di fare della natura americana l’equivalente delle meraviglie dell’Europa (anche

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dal punto di vista del potenziale di attrazione turistica) troverà poi nell’istituzione dei Parchi Nazionali6 il suo consolidamento. L’orgoglio nazionale manifestato rispetto alla grandiosità degli aspetti naturali e nell’interpretazione della natura come giardino, si ripropone con forza dopo la guerra civile (1861-1865) nel diffondere il sentimento di conservazione dell’incontaminata purezza del West. Mito della frontiera, praterie e deserto7, diventano i temi di riferimento non solo in ambito artistico con le opere della Rocky Mountain School of Painting, che, seguendo il progressivo spostamento verso ovest della frontiera con la conquista di nuovi territori, registrò su tela la bellezza delle Montagne Rocciose e della Sierra Nevada, l’incanto della Yosemite Valley californiana che gli esploratori dell’epoca paragonavano ai giardini dell’Eden, e l’incontro-scontro con le tribù indiane. Nel 1890 si annuncia in modo inderogabile che negli Stati Uniti non esiste più la linea della frontiera poiché tutto il territorio è stato conquistato; ma, alla definitiva cancellazione fisica della possibilità di spingersi oltre verso Ovest, e di poter occupare e colonizzare nuovi territori, risponde il mito della frontiera, che rimarrà nel tempo nella storia americana. Tre anni dopo la formalizzazione della totale conquista dei territori americani, lo storico Frederick J. Turner tiene alla Fiera Colombiana di Chicago la famosa conferenza intitolata The Significance of the Frontier in American History. Si tratta di un momento importante per la comprensione delle vicende del paesaggio/ giardino americano; in un generale slancio antiurbano Turner vede nell’espansione verso Ovest, e nell’avventura del pioniere con la sua relativa emancipazione dalle regole istituzionali, la validità del modello agrario quale alternativa a quello industriale identificato nella città, specchio del nuovo capitale. Il disegno e la coltivazione del paesaggio diventano così una sorta di virtù agraria rispetto alla corruzione urbana. È questo un concetto che si tramanda dalle comunità ideali del primo Ottocento al messaggio di Thoreau, sino a George Perkins Marsh, che nel suo Man and Nature (1864) indicava la necessità di una consapevolezza ambientale collettiva in opposizione alla pratica pionieristica della conquista e del saccheggio, per arrivare, come si vedrà, alla Broad­acre di Frank Lloyd Wright e all’Arcosanti di Paolo Soleri. Inoltre, «il mito della frontiera è strettamente connesso con l’ipotesi jeffersoniana dell’agricoltura come fonte principale non solo del benessere, ma soprattutto delle virtù umane e delle caratteristiche più congeniali a un autogoverno popolare [...]. La democrazia per Jefferson è il bene sommo, e l’agricoltura è lo strumento economico e sociale per raggiungere questo bene: agricoltura significa appunto piccola fattoria e individualismo, che insieme portano al piccolo proprietario, la parte più preziosa dello Stato [così come indicava lo stesso Jefferson]. [...] La frontiera è ancora il simbolo del terreno libero da conquistare e quindi della democrazia; la frontiera è l’America giardino del mondo ma, quando il Paese scopre che non ha più terra libera, allora prendono corpo, insieme al mito della frontiera, le teorie che, a partire dal 1870, vedevano enormi possibilità nella trasformazione del deserto: questo è il nuovo giardino. Wright si incaricherà, molti decenni più tardi di dare un volto al deserto-giardino»8. La natura e l’idea di giardino dell’Eden trasposti in chiave comunitaria furono anche i riferimenti del variegato scenario dell’entusiasmo utopico-comunitario che si sviluppò negli Stati Uniti dalla prima metà del xix secolo. Nel 1833 il libro The Paradise Within reach of All Men, Without Labour Powers of nature and Machinary, scritto da John Etzler, forse il primo utopista americano, si indicano i tratti basilari di una possibile società futura dove appunto le forze della natura, controllate e ottimizzate, sostituiranno il lavoro dell’uomo. Un messaggio di questo tipo, che esplicita il sentimento della natura come fonte di insegnamento progressivo, troverà nel misticismo religioso il terreno di sua diretta applicazione. La comunità ideale, dagli Shakers ai Mormoni, rappresenta oltre a un preciso progetto sociale, l’idea di un giardino; un giardino abitato e reso produttivo con attività agricole e orticole, tese alla definizione di un paesaggio idealizzato. Nelle prime colonie dei Mormoni, diffusesi tra il 1840 e il 1846 nell’Ohio, nel Missouri e nell’Illinois, si evidenziano i due aspetti contrastanti della loro città ideale: Eden e Gerusalemme. Il primo, il Paradiso Terrestre, si presenta come città-giardino

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con abitazioni unifamiliari con terreno dedicato (un modello che rimarrà come costante di ogni suburbio statunitense); il secondo è il tempio, il luogo del culto. Rispetto alla configurazione dello sviluppo paesaggistico delle loro comunità, i Mormoni codificano il programma progettuale molto chiaramente: nel 1833 Joseph Smith, padre spirituale fondatore del movimento religioso, presenta la Pianta della città di Sion, un modello ripetibile per ogni insediamento che traduce in chiave urbanistica i princìpi organizzativi e le regole etiche e sociali della comunità che avrebbe potuto ospitare tra i 25.000 e 30.000 abitanti. Il disegno della città presenta un impianto reticolare esteso per circa mezzo miglio quadrato. I lotti di forma regolare si dispongono intorno al centro della città, occupato da uno spazio verde comune che accoglieva venticinque tra templi ed edifici destinati alla consacrazione e all’amministrazione. Ogni lotto residenziale ospitava una casa di mattoni o di pietra circondata da un giardino. La dimensione ottimale codificata dal progetto di Smith era tuttavia flessibile e moltiplicabile: «Quando avrete portato a termine questo quadrato, ne comincerete un altro nello stesso modo e riempirete così il mondo in questi ultimi giorni». La pianta della città tipo, tradotta in insediamento reale ad Harmony, in Penn­sylvania, e soprattutto a Nauvoo nell’Illinois, con estensioni che superarono le indicazioni programmatiche, se da un lato fanno del giardino un elemento fondamentale, dall’altro elevano in chiave trascendentale il sistema della griglia rettangolare per il rilevamento del terreno stabilito dalla Land Ordinance nel 1785 e interpretato anche come disegno di una società agraria su basi egualitarie, specchio dell’ideale sociale di Jefferson (una democrazia fisiocratica fondata sulla sommatoria di piccoli proprietari terrieri indipendenti). Il giardino diventa luogo strettamente legato alla casa, da coltivare dal punto di vista degli ortaggi e da accudire anche al fine contemplativo, oltreché spazio simbolico chiamato a evocare l’immagine dell’Eden. Un periodico del tempo invitava ogni cittadino di Indipendent (Missouri) a «riempire il terreno libero con alberi da frutto, arbusti, viti, disposti armoniosamente e coltivati con cura; [...] così si avrà subito un’idea dell’Eden. [...] Ognuno potrà sedersi sotto la sua vite o sotto il fico, e godere dei ricchi frutti del proprio lavoro»9. I più poveri potevano comunque constatare che un giardino di fiori poteva rendere più belle e profumate le dimore più umili. Il successo dell’orticultura e del giardinaggio trovò

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3. Frederick Edwin Church, Le cascate del Niagara sul versante americano, 1867. 4. Albert Bierstadt, Le cascate “velo nuziale”, Yosemite, 1871-1873.

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5. Planimetria di un villaggio della comunità Shakers, 1836.

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momenti costruiti, quasi la natura si appresti a divenire in prima persona l’architetto della città, mentre in realtà essa viene più concretamente utilizzata come corroborante morale e come strumento urbanistico»11. Tra dimensione etica e produttiva, tra scala domestica e territoriale, l’American Garden oscilla in una dimensione che dall’idea dell’intera nazione come giardino del mondo (in sostituzione a quello dell’Italia come giardino d’Europa), «giardino iperbolico, senza confronti, che l’uomo non ha rovinato, su cui non dovrà intervenire più di tanto»12, si spinge a diventare una delle componenti necessarie e insostituibili del disegno urbano, sia privato sia pubblico. Il landscape, la meraviglia dello spettacolo naturale glorificato da artisti, pensatori e movimenti comunitari, si traduce in chiave urbana; il parco cittadino, oltre a essere lo strumento per la creazione di migliori condizioni igieniche e di bonifica di intere zone insalubri e degradate della città industriale, «sostituisce l’edificio religioso che aveva simboleggiato lo spirito unitario della primitiva comunità; la città, organizzandosi intorno ai propri spazi verdi, ritrova la perduta unità, e ricostruisce un simbolo laico della scomparsa community»13.

La natura addomesticata: riserve pastorali, i grandi parchi della città moderna americana Frederick Law Olmsted, Calvert Vaux e Charles Eliot

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riscontro anche a Nauvoo, quando il Nauvoo Neighbor consigliò: «Mettete in mostra ogni albero, sia esso utile oppure ornamentale – è giunto il momento – non c’è tempo da perdere»10. Un’azione urbanistica e fondativa, quella dei Mormoni, che troverà poi a sua massima espressione nel deserto, nell’arido paesaggio del Great Basin (la più ampia regione non colonizzata americana e quindi vergine dal punto di vista degli insediamenti umani). Salt Lake City fu fondata nel 1847 e nel 1880 si contavano ben quattrocento comunità organizzate da un piano complessivo che definiva confini di città, paesi e villaggi, sino a raggiungere la dimensione di nuovo Stato, lo Utah. Il piano si rifaceva al disegno originario di Smith della Città di Sion, e anche qui l’attenzione etica, estetica e produttiva verso il giardino assumeva grande rilevanza. Come indicava Brigham Young, che dopo la morte di Smith nel 1884 divenne la figura di riferimento del movimento religioso, «la gente deve costruire buone case, piantare buoni vigneti e frutteti, fare buone strade, costruire belle città, dove si possano trovare splendidi edifici per la pubblica utilità, belle strade costeggiate da alberi ombrosi, fontane, correnti cristalline e tutti gli alberi, cespugli e fiori che fioriranno e cresceranno in questo clima, per fare della nostra casa montana un paradiso...». L’idea è quella di pensare alla creazione di un paesaggio paradisiaco come manifestazione esplicita di una spiritualità interiore, per partecipare in modo diretto alla creazione del paradiso terrestre, del giardino originale. Un’altra comunità, quella dei Separatists di Joseph Bimeler nel disegno della città di Zoar nell’Ohio (1875), evidenzia l’attenzione verso il verde con il progetto di un parco urbano a forma quadrangolare, quasi una macro aiuola tramandata dalla storia del giardino formale all’italiana, posta in modo decentrato rispetto alla scacchiera ortogonale urbana. Il parco presenta un grande abete rosso centrale circondato da altri dodici alberi ad alto fusto, simbolo della salvazione e degli apostoli. «I parchi, gli alberi, la natura sono così divenuti i simboli e gli strumenti per una vita urbana armoniosa e giusta. I doni della natura sono simboli di fede e sostituiscono i

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6. Veduta a volo d’uccello della città di Salt Lake City, Utah, 1847. 7. Thomas Jefferson, la Rotonda e i padiglioni del campus dell’Università della Virginia a Charlottesville, Virginia, 1819-25. 8. Thomas Jefferson, la residenza a Monticello, Charlottesville, Virginia, 1772-1809. 9. Andrew Jackson Downing, Greenwood Cemetery, Brooklyn, 1838.

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Il messaggio di Thoreau, lo slancio verso la natura assunta come strumento di orgoglio nazionale e di riscatto dall’urbanesimo industriale, sono assorbiti dalle opere dei grandi maestri trascendentalisti (di cui Thoreau era elemento di spicco), dove si esprimeva una reazione al razionalismo e un’esaltazione dell’individuo nei rapporti tra natura e società. In un generale atteggiamento romantico teso verso una critica al sistema industriale della divisione del lavoro, in un netto rifiuto morale delle condizioni dettate dallo sviluppo capitalistico, la proprietà alla base della democrazia americana diventa immorale se non è indirizzata a conseguire scopi naturali. In questo senso la concentrazione della proprietà e della ricchezza si traduce in negazione dello stato di natura, del diritto e dell’etica. Produzione agraria, assunta come un sistema di piccole proprietà diffuse, e produzione industriale con il relativo concentramento di capitale e risorse umane nella città, si traducono in una visione di due mondi contrapposti; il primo legato a un sentimento della natura, programmatico e militante, il secondo specchio della negazione della bellezza del paesaggio. Entrambi riflesso di diverse e opposte condizioni sociali e umane. Se per Walt Whitman il mondo intero è un giardino e la filosofia della natura si traduce nella morale di una conquista del territorio da coltivare e in una nuova etica del lavoro rapportato alla produzione manuale e artigiana, Ralph Waldo Emerson nelle sue opere saggistiche e letterarie coglie l’importanza di un confronto con la condizione urbana: «La volontà di comprensione e dominio che anima l’uomo dei boschi deve essere anche patrimonio del riformatore urbano, dell’uomo della città. Da questo punto di vista il trascendentalismo esprime un’originale “coscienza civile”: la natura insegna i grandi ideali di libertà e giustizia, ed equità, ma è nella città che essi cessano di essere muti valori e divengono, appunto, etica e democrazia»14. È in tale contesto che prendono forma le prime esperienze di landscape in chiave urbana, anche se la tradizione americana del progetto del paesaggio risale al Settecento con i giardini delle grandi ville delle piantagioni del Sud, con l’opera di André Parmentier sulle rive dell’Hudson, con il Nichols Garden di Salem, tutti influenzati dal landscape gardening inglese, in particolare dall’opera di Loudon e Repton. Sino a trovare con Thomas Jefferson a Monticello15 (1772) e al campus per l’Università della Virginia (1819-1825) a Charlottesville, un momento di riflessione fondativa: a fianco della villa neopalladiana, attenzioni di tipo utilitario di coltivazione e sfruttamento della natura, appaiono prioritarie nel disegno del paesaggio, mentre per il campus universitario il landscape diventa parte integrante dell’impianto architettonico. Questa importante fusione tra disegno del verde e scena architettonica si tradurrà in un reale confronto con la città.

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Le Horticultural Societies si formano all’inizio dell’Ottocento e quella con sede a Boston si fa promotrice della prima vasta azione di landscape in chiave urbana. La polemica contro la sistemazione dei cimiteri ubicati all’intorno delle chiese urbane porta alla definizione di una proposta progettuale per la realizzazione del Mount Auburn Rural Cemetery di Cambridge. Nasce il movimento dei rural cemeteries, prima espressione di parco pubblico in cui gli intenti religiosi si sposano con finalità sociali e di riqualificazione urbana. Il rural cemetery – sia per Boston sia per il Greenwood Cemetery di Brooklyn – segue le forme del giardino paesaggistico inglese e «l’irregolarità dei percorsi, la ricercata sinuosità con cui vie e sentieri si adattano alle pozze d’acqua e ai boschetti, messe a confronto con la rigidità aggressiva della imperante struttura a griglia delle lottizzazioni urbane, permettono di intuire come le nuove forme derivino da un rifiuto intellettuale dello squallore della città»16. Il consolidamento di un linguaggio pittoresco e di una natura addomesticata chiamata a scardinare la maglia ortogonale della città americana, troverà nel Park Movement, sviluppatosi dopo il 1840, il suo più fecondo terreno di sviluppo. Principale figura di riferimento è Frederick Law Olmsted (1822-1903) considerato il padre del paesaggismo non solo americano. Come Andrew Jackson Downing, editor della rivista The Horticulturist e autore di uno dei testi più significativi della storia del landscape americano17, in cui il romanticismo del giardino all’inglese si fonda con la scientificità del botanico orticultore, anche Olmsted compie il suo viaggio in Europa, e se Downing tornerà accompagnato da Calvert Vaux, Olmsted farà dei parchi inglesi l’esempio di riferimento del suo denso percorso progettuale. Nel 1851 la municipalità di New York approva il Park Act che autorizza l’acquisto dell’area che sarà destinata a trasformarsi nel Central Park, il grande rettangolo verde al centro di Manhattan. Due anni dopo si forma la prima commissione incaricata della sistemazione dell’area oggetto di un concorso bandito nello stesso anno e vinto dal progetto Greenward di Olmsted e Vaux. Il

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10. Frederick Law Olmsted e Calvert Vaux, planimetria di Central Park, New York, 1871. 11. Veduta del Central Park newyorkese.

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12. Veduta del Central Park dalle terrazze del Rockefeller Center.

disegno di questo grande parco urbano venne accolto dai benpensanti come una mostruosità e un affronto. Sino ad allora, salvo alcune eccezioni di spazi pubblici alberati, in America non esisteva alcun parco urbano. Dal punto di vista degli immobiliaristi e della politica del laissez-faire, l’idea di parco pubblico era un simbolo aristocratico legato al Vecchio Mondo, in quanto spazio poco redditizio e costoso, e luogo che riduce il numero dei lotti edificabili alla costruzione edilizia. Ma il progetto di Olmsted e Vaux riuscì a contrastare tali posizioni e a ribaltarne i pregiudizi diventando una sorta di manifesto programmatico di ogni parco urbano, costituendo allo stesso tempo il primo esempio di grande parco pubblico dell’era moderna.

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Alcuni princìpi rimangono fondamenti dell’urbanistica contemporanea come l’inviolabilità dei confini del parco, che nel caso newyorkese trasformarono un terreno paludoso inutilizzabile in un fantastico scenario naturale addomesticato fondendo all’ascolto del paesaggismo inglese un segno che si riconduce alla tradizione del giardino formale: il Mall, lungo circa trecentosessanta metri e fiancheggiato da doppi filari composti da ben trecento olmi americani, a disegnare una prospettiva verso il fulcro conclusivo della terrazza Bethesda. Un altro aspetto rimasto valido nel tempo è la scelta della gerarchia e della separazione dei percorsi (pedonali, per le carrozze e di attraversamento veicolare, questi ultimi anche su ponti sopraelevati per non interferire con quelli del parco, assunto come riserva naturale). All’interno dell’immenso rettangolo ritagliato nella scacchiera della città si sviluppa quello che, con grande preveggenza rispetto alla crescita del suo intorno, Olmsted e Vaux pensarono come un palcoscenico naturale apparentemente illimitato, con scene e sorprese paesaggistiche calate in un panorama in continuo cambiamento. Ma il parco non vuole essere un’oasi astratta, un luogo altro staccato dal contesto urbano come un antico hortus conclusus in scala macro, quanto piuttosto, proprio per il rapporto che cerca con la città, Central Park è destinato a diventare «una pietra miliare del planning americano. [Il Parco] rovescia la tendenza dei rurals cemeteries, collocati programmaticamente al di fuori della città a realizzare un’utopica Arcadia contrapposta al materialismo e al disordine della civiltà urbana»18. Il profondo senso urbano dell’azione di Olmsted e la convinzione che il parco, oltre a essere uno spazio verde nella città, simboleggi i valori di giustizia e di partecipazione democratica, strumento interclassista aperto alla fruizione di ogni individuo e di educazione alla responsabilità collettiva del benessere da parte di ogni cittadino, fanno di Central Park un progetto che supera il concetto di spazio verde collettivo, introducendo «l’idea di utilizzare in maniera creativa il landscape. Rendendo la natura urbana, [si] rese naturale la città»19.

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13. Veduta del Central Park newyorkese.

16. Frederick Law Olmsted e Calvert Vaux, progetto per il Prospect Park a Brooklyn, planimetria definitiva, 1871.

14. Frederick Law Olmsted e Calvert Vaux, progetto per l’Eastern Parkway a Brooklyn, 1868. 15. Il tratto terminale dell’Eastern Parkway a Brooklyn nel 1944.

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Henry James, tornato negli Stati Uniti nell’estate del 1904, riporta su Central Park delle importanti testimonianze in tal senso, sottolineando il carattere interclassista dei suoi visitatori dal punto di vista sociale, e l’eterogeneo aspetto compositivo nel disegno del paesaggio: «[Il Parco] ha dovuto offrire qualcosa a ciascuno, perché tutti arrivavano affamati; si è dovuto moltiplicare all’eccesso, con piccoli, patetici esercizi di esagerazione e di inganno, per riuscire a essere, benché sfiatato, ovunque e tutto nello stesso tempo, e per esibire, lì su due piedi, quel particolare romantico che veniva richiesto; lago, fiume o cascata, foresta selvaggia o fertile giardino, panorama aperto o rifugio boscoso, nobile altura o amena vallata»20. Gli intenti, espressi nel progetto newyorkese, di fare del parco urbano una componente importante di un più vasto scenario di pianificazione fisica e morale, sono rilanciati da Olmsted e Vaux in interventi successivi alla conclusione della guerra civile. Nel 1865 il progetto del Prospect Park a Brooklyn, collocato all’interno di una maglia urbana già formata, redatto da Calvert Vaux con l’apporto di Olmsted, esplicita un altro importante concetto che risulterà fondativo per la formazione del paesaggio americano: l’attenzione rivolta al disegno e alle tipologie delle strade di accesso al parco e il loro ruolo nel tessuto urbano: nascono le parkways. «In immediata relazione con l’argomento degli accessi al parco, nasce la questione di progettare la rete delle strade e dei viali di quell’esteso tratto di territorio che è situato verso sud, ai limiti del parco, e che deve, un giorno non lontano, diventare una zona residenziale per una vasta moltitudine di persone. L’importanza di occuparsi di questo aspetto in questa fase è ancora più evidente per il fatto che questa zona verrà a formare ben presto una porzione della nostra città, e da qui nasce la necessità di progettare le sue strade e i suoi viali in modo da collegarli adeguatamente con la parte esistente, considerando la comodità degli utenti e con il dovuto riguardo alla promozione della salute pubblica». Olmsted prosegue il suo intervento sostenendo la necessità di affiancare alla

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17. Frederick Law Olmsted e Charles Eliot, Park System from Common to Franklin Park, l’Emerald Necklace (1894-1902), la Collana di Smeraldi a Boston, Massachusetts, planimetria d’insieme. 18. Vista di uno specchio lacustre nel Franklin Park a Boston. 19. Vista dei campi da tennis all’interno del Franklin Park a Boston, 1900 ca.

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maglia stradale viaria esistente «una serie di arterie progettate con diretta relazione alla necessità di essere usate per il passeggio, il percorso a cavallo, e il transito delle carrozze; cioè per il riposo, la ricreazione, lo svago fisico e spirituale, e lo scambio sociale»21. Si tratta di traslare fuori dal parco il concetto della gerarchia stradale già adottato nel Central Park e di portare quindi in modo diffuso la natura nella città. Si forma così l’Eastern Parkway che estende il disegno del Prospect Park all’interno dei quartieri residenziali, e nel 1873 il Riverside Park a New York, che risolve in chiave di parco lineare, segnato da un’arteria di scorrimento, un’area estesa lungo la scabra sponda del fiume Hudson compresa tra la 72ma e 123ma Strada e la Riverside Avenue. Tra i molti progetti di verde pubblico di questo periodo emerge, quale sintesi tra parco e parkways, grandioso sistema integrato di verde pubblico a scala urbana e territoriale, l’Emerald Necklace di Boston nel Massachusetts. Qui, Olmsted lavorò con un’altra figura di riferimento del paesaggismo americano, Charles Eliot. Tra il 1894 e il 1902, i due progettisti definirono il sistema dell’Emerald Necklace che segnò l’intorno della città di Boston con una serie ininterrotta di parchi e parkways strettamente integrati al tessuto urbano. Al di là del disegno interno dei singoli pezzi del magico puzzle di verde pensato come una riserva naturale incontaminata, calata quasi in modo surreale nella realtà edificata che dai giardini della città culminava nel nuovo grande Franklin Park, spezzando la densità urbana con una serie di punti verdi collegati tra loro, ciò che fa della Collana di Smeraldi un progetto di vasta portata metodologica e concettuale è l’idea di continuità urbanistica della sommatoria dei singoli episodi. Giardini, parkways e spazi verdi sono chiamati a diventare un sistema urbano continuo. Nasce da questa pratica progettuale il concetto di planning quale necessaria visione d’insieme nel rapportarsi al disegno urbano in senso lato, dove il parco e il verde pubblico appaiono ormai come elementi necessari, fondativi e non solo complementari. «Pur perseguendo autonomi ideali di democrazia e libertà, l’opera del planner non nasce astratta dalla realtà delle contraddizioni sociali, bensì da esse è sollecitata, nel mentre deve proporsi un fine educativo. Perseguendo e insegnando il rispetto delle grandi virtù democratiche, tra le quali primeggia l’amore e la considerazione della natura, il planning fa sì che la natura non sia violentata dall’ambiente umano, ma che vi entri organicamente come elemento costitutivo»22.

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Il verde per pochi. Il giardino della Villa e della suburban community, paesaggismo e formalismo, il revival del giardino all’italiana Dopo avere portato in forma addomesticata la natura nella città, i paesaggisti si spinsero più in là, e portarono la residenza all’interno di un ambiente trattato a parco. Non si tratta semplicemente di offrire al mercato una nuova idea dell’abitare, in cui si è immersi nel verde e non troppo distanti dal centro della city, perché «il parco non è più un’aggiunta, un intervento eccezionale nella città: come espressione della democrazia americana è struttura portante dell’urban environment»23. L’idea della sub­urban community assume il parco come forma di vita comunitaria, e il nuovo modello di quartiere residenziale tende a offrirsi come un nuovo strumento in grado di superare la dicotomia tra città e campagna, imposta dalla civiltà urbana. È del 1859 il Llewelyn Park costruito a West Orange nel New Jersey – progettato da Alexander Jackson Davis e Calvert Vaux – un quartiere residenziale immerso nel verde a poche miglia da New York, che offriva la possibilità di vivere in una zona a cavallo tra città e campagna. Se le residenze private immerse nel disegno paesaggistico del parco sostituiscono i padiglioni e i luoghi di ristoro e incontro del parco pubblico, il modello del green suburb – antesignano delle più artificiali e contemporanee gated commu­nity – contribuì alla creazione della metropoli americana dove aree verdi ubicate all’intorno della città, e a volte anche al suo interno, si trasformarono in luoghi di residenza a bassa densità. Le infrastrutture, strade ferrate e veicolari, giocarono un ruolo fondamentale nello sviluppo dei parchi abitati garantendo il collegamento diretto con le grandi città. Nel 1869 Olmsted e Vaux progettarono l’insediamento di Riverside nei pressi di Chicago su richiesta della Riverside Improvement Company. È questo il manifesto programmatico del romantic planner. Riverside esplicita la convinzione che lo sviluppo degli insediamenti suburbani nel verde è una costante della vita metropolitana, e che la scelta di inserire le nuove strutture residenziali in parchi che concorrono a scandire il legame tra città e territorio sia quella da sviluppare. In questo senso la concezione di landscape di Olmsted diventa un preciso strumento urbanistico di pianificazione e il parco, sia esso esteso alla funzione pubblica sia che rimanga nella dimensione privata, è il diretto strumento operativo che tende a riformare le condizioni della

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vita dettate dalla civiltà industriale attraverso l’azione progettuale. Sia il Llewelyn Park sia Riverside, tra i molti esempi del periodo24, seguono la lezione del giardino paesaggistico inglese, ma, mentre il primo si impose come prototipo del romantic suburb staccato dalla città e al limite della dimensione utopica, Riverside ne è il contrario: è cioè il modello dello sviluppo della città nel territorio e alla città direttamente si riferisce. La serialità giardino-paesaggio-territorio-natura permane così anche a livello di spazi privati e si tramanda nel tempo. Ne è un esempio la proposta di Henry Ford, il padre dell’automobile americana, che all’inizio degli anni ’20, in contrapposizione alla condizione urbana, pensa a una città lineare immersa nel verde lunga più di 75 miglia, per accogliere i propri dipendenti e proteggerne salute e benessere sociale. Mai tradotta in progetto tecnico, ma solo raccontata a voce, la città di Ford a Muscle Shoal sul Tennesse River nell’Alabama, dal punto di vista paesaggistico prevede una comunità suddivisa in piccoli appezzamenti di terreno dispersa nella natura. Da tale progetto, dieci anni dopo e in piena crisi economica, Ford riprende le idee guida per proporre la formazione di 50.000 giardini nell’area di Detroit, annunciando che a partire dal 1932 nessun impiegato di Iron Mountain, nel Michigan, potrà mantenere il proprio impiego senza coltivare un giardino per produrre una parte del cibo necessario alla propria famiglia. Per Henry Ford «l’uomo troppo indolente nel lavorare un giardino durante il tempo libero non merita un impiego». Riemerge così la vocazione del giardino americano a essere luogo di produzione oltre che di contemplazione estetica e formale; dal giardino-orto della casa dei pionieri al verde disegnato da Thomas Jefferson a Monticello, ancora in bilico tra dimensione produttiva e disegno formale, sino al giardino delle case dei Mormoni dove la coltivazione e la cura del verde era un imperativo etico-morale.

20. Frederick Law Olmsted e Charles Eliot, General Plan of Riverside, Chicago, 1869.

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21. Il paesaggio suburbano nel verde di Riverside, Chicago.

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22. Olmsted Brothers, General Plan for portion of Roland Park Between Falls Road and Roland Avenue, Baltimore, Maryland, 1901. 23. Frederick Law Olmsted, il giardino classico intorno alla Biltmore House, calato nel più vasto progetto del Biltmore Estate (1895), Asheville, North Carolina, 1925.

Oltre ai nuovi quartieri residenziali calati in un parco, dove la dimensione paesaggistica accoglie architetture abitative in un panorama romantico offerto come scena quotidiana, nella seconda metà dell’Ottocento intorno a ville e grandi dimore signorili si manifesta la ripresa di modelli figurativi derivati dagli ideali paesaggistici del giardino formale europeo, e in particolare di quello all’italiana con i suoi teatri di verzura. La quasi totalità dei giardini delle ville seguirà quindi linguaggi lontani da quelli del parco pubblico; alla natura addomesticata di stampo romantico risponde quella disegnata e geometrica, con giardini cintati derivati da revivals di modelli francesi e italiani. Unica eccezione in tale contesto è un significativo intervento di conservazione del paesaggio a opera di Olmsted per la tenuta di George Washington Vanderbilt ad Asheville nella North Carolina (1895), ultimo progetto nel quale il grande paesaggista unì al disegno di giardino formale limitrofo alla villa-castello quello di alberi viventi costituito dalla foresta preesistente limitrofa, conservata perché un giardino botanico naturale di questo tipo sarebbe stato «di gran lunga più bello e più istruttivo di qualsiasi altro nel mondo, un giardino botanico a cui i naturalisti avrebbero fatto riferimento da tutte le parti del mondo». Tra le manifestazioni del ritorno al giardino formale, il revival di quello all’italiana si deve anche al paragone-identificazione del modello di vita in una residenza di campagna di una ricca famiglia americana della seconda metà dell’Ottocento con quella dell’aristocrazia italiana ai tempi del Rinascimento. Un sogno questo che anche Frank Lloyd Wright non disdegnava nel suo rifiuto del modello urbano, quando nella sua residenza di Taliesin Spring nel Wisconsin amava tenere feste in costume italiano del xiv secolo. Interessante notare come alcuni elementi tipici del giardino all’italiana, pergolati e pergole, e teatri di verzura25, conobbero una discreta diffusione quali materiali cui attingere liberamente per la composizione di un giardino in stile, una sorta di abbecedario di segni che si abbinava a fontane e statue, siepi e alberi trattati secondo le regole dell’ars topiaria. La pineta di Hunnewell sulle sponde del lago Woban a Wellesley nel Massachusetts è il più antico giardino topiario

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Novecento. Come nel teatro di verzura con tre quinte per lato per il giardino della residenza di Mrs. James J. Goodrum ad Atlanta (1929). La pratica della citazione e del revival del giardino privato accompagna e si affianca allo stesso atteggiamento rispetto ai linguaggi adottati per le grandi dimore che essi circondano, ma come avvertiva Edith Wharton: «il culto del giardino italiano si estese dall’Inghilterra all’America e, in genere, si ritenne che disponendo qua e là qualche panchina di marmo o una meridiana, si potessero ottenere effetti all’italiana; i risultati raggiunti, anche con molto dispendio di danaro e molti sforzi progettuali, non sono stati del tutto soddisfacenti; alcuni esperti sono perciò arrivati alla conclusione che il giardino italiano sia, per così dire, intraducibile. [...] Abbiamo tuttavia molto da imparare dagli antichi giardini italiani e la prima lezione è che devono fungere da modello, non devono essere copiati alla lettera, ma nello spirito»26.

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Dal parco al landscape plan. Chicago e Washington, Daniel Burnham e il movimento City Beautiful

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made in Usa, inaugurato nel 1851 da Horatio Hollis Hunnewell, ricco finanziere con la passione per l’orticultura. Sulle terrazze digradanti verso lo specchio lacustre vennero piantate duecentocinquanta varietà di sempreverdi potate secondo forme geometriche elementari. A Miami, Vizcaya (1912-1922), la villa dell’industriale James Deering è invece una sorta di collage di citazioni spagnole e italiane: queste ultime, soprattutto nel disegno del giardino di Diego Suarez, vengono trasposte sulle rive della Biscayne Bay da Villa Lante a Boboli, da Caprarola, da Villa Corsini e in particolare da Villa Gamberaia (per il giardino segreto), da Villa Pisani (per il labirinto) e da Villa Gori (per il teatro di verzura). Citazioni sono presenti anche nei giardini di Dumbarton Oaks disegnati nel 1920 da Beatrix Jones Ferrand con la ripresa del modello romano del Bosco Parraiso, dove però al ricordo barocco succede un sentimento romantico, e il prato ovale dell’impianto originario è sostituito da uno specchio d’acqua. Ancora a Villa Gori si riconducono vari progetti di Philip Trammell Shultze, architetto di primo piano del classicismo americano del primo

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24a, b. L’ars topiaria della pineta degli Hunnewell Gardens a Wellesley, Massachusetts, 1851. Fotografie stereoscopiche del 1894. 25. Diego Suarez, il giardino di Villa Vizcaya a Miami (1912-1922), planimetria del 1971. 26. Progetto di teatro di verzura ispirato a Villa Gori, veduta prospettica, da House & Garden, settembre 1930. 27. Daniel Burnham ed Edward Bennet, Piano di Chicago (1908), Chicago Waterfront, Grant Park, planimetria del tratto tra Midway Plaisance e Chicago Avenue.

Il Park Movement non riuscì a tradurre la sua carica teorica in un riformismo effettivo tradotto alla scala della città e del suo territorio, ma comunque portò le iniziali istanze di interesse romantico e letterario per la natura a consolidare un’ideologia proiettata verso la pianificazione dello sviluppo urbano. «Il movimento per i parchi non riesce a realizzare un controllo spaziale sulla struttura urbana. Il landscape, in altri termini, produce strumenti urbanistici di pianificazione bidimensionali che di fatto non controllano la città come fatto complesso urbanistico-architettonico. Questo salto di scala e la conquista di questa dimensione spaziale complessiva saranno realizzati non dai pionieri, ma dagli architetti delle città belle»27. Nel 1893 si inaugura a Chicago la Fiera Colombiana con la sua città bianca pensata da Daniel Burnham, che poco dopo firmerà il Piano di Chicago, pilastro indiscusso della storia del planning americano. Insieme a Burnham, che definisce impianto e architetture della Fiera, Olmsted è impegnato per il disegno del paesaggio. Al neoclassicismo, alle architetture bianche e monumentali, seppure provvisorie e contrapposte all’eclettismo della pratica imperante del laissez-faire, si affianca il Jackson Park di Olm­sted in un serrato procedimento complementare che sancisce la formula vincente del movimento City Beautiful nell’effettivo controllo spaziale e paesaggistico dei centri urbani (e con il Piano per Chicago del 1908 dell’intera area metropolitana). Il significato sto-

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rico della White City alla Fiera Colombiana non è quindi da ricercare nel linguaggio architettonico adottato, una sorta di rivincita del classicismo quale traduzione in forma architettonica degli antichi ideali democratici (da Thomas Jefferson alle architetture delle istituzioni e delle università), ma piuttosto nello spessore del lavoro interdisciplinare tra architettura e paesaggismo in grado di produrre un’azione di controllo complessivo; è appunto il landscape plan la chiave di lettura del successo formale della Fiera del 1893. Nel 1901, a consolidare il nuovo approccio interdisciplinare al progetto urbano inauguratosi a Chicago, si forma a Washington la Senate Park Commission dove architetti come Burnham e McKim collaborano con il figlio di Olmsted per la risoluzione del centro urbano. Il Mall, superando e rileggendo il piano settecentesco di Pierre Charles L’Enfant incaricato da George Washington, trasformò il modello del Tapis Vert di Versailles in un asse centrale fiancheggiato da filari di alberi ad alto fusto che collegavano a livello paesaggistico il Campidoglio, il Monumento a Washington e la futura sede del Lincoln Memorial su una delle rive del Potomac. Una sorta di grande segno monumentale e unitario che unisce architettura e giardino, facendo di uno schema formale un parco in cui edifici e verde si susseguono con valori anche di tipo simbolico. Ma dove i risultati del movimento City Beautiful emergono in modo più eclatante è senza dubbio nel Piano di Chicago del 1908, le cui sistemazioni paesaggistiche del lungolago sono diretta e naturale conseguenza dei parchi di Olmsted creati in occasione della Fiera del 1893. Incaricati dal Commercial Club di Chicago, Daniel Burn­ham ed Edward Bennet avevano l’obiettivo di integrare gli spazi aperti a verde alle rive del lago, operando nell’ambito di un generale riordinamento della città e del suo territorio. Nella pubblicazione del Piano, i suggestivi acquerelli di prospettive a volo d’uccello eseguiti da Jules Geurin mostrano la visione globale di un ambiente urbano dove verde e architettura si integrano a vicenda e si proiettano verso l’orizzonte, assunto come il territorio esterno alla città, ma col quale rcercare relazioni sia in termini strutturali sia di paesaggio. È tuttavia il fronte lago il luogo dove meglio si evidenzia il carattere di parco impresso all’intera città: Grant Park è da intendersi come il cuore del piano per Chicago, sorta di porta d’accesso dell’intera città. Due moli, integrati al disegno del verde e ai percorsi lungo la riva, si spingono nell’acqua e dal loro bacino centrale si sviluppa nell’interno una raggiera di viali e parkways in grado di raggiungere i punti più lontani della città e della campagna, trasformando così il parco della città in uno dei primi progetti di verde a scala metropolitana.

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Parchi e giardini, il paesaggio per tutti. Verso la modernità

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28. Daniel Burnham ed Edward Bennet, Piano di Chicago (1908), Chicago Waterfront, Grant Park, planimetria del tratto tra Chicago Avenue e Wilmette.

29a, b. Tracciato e profilo altimetrico della Lincoln Highway tra San Francisco e New York, 1923 (a); la Lincoln Highway nel continente americano (b).

Se l’azione del Park Movement della seconda metà del xiv secolo portò la natura nella città, mettendola in relazione con la campagna dell’intorno, il programma della creazione dei parchi nazionali avrebbe infine dato a tutti la possibilità (a misura di automobile), di vedere in prima persona la maestosità e la grandezza dell’immenso paesaggio americano. Come già accennato all’inizio di questo capitolo, è il West la terra incontaminata da scoprire e in un rapporto del 1916 pubblicato dal Dipartimento degli Interni si rilevava che le meraviglie naturali del Paese, sino a qualche anno prima poco considerate dagli americani come mete turistiche, diventano improvvisamente luoghi ambiti, anche in relazione all’impossibilità di visitare l’Europa a causa della guerra. Nonostante l’esistenza di vari collegamenti ferroviari con gli accessi a molti parchi nazionali, fu soprattutto la costruzione di nuove strade che attraversavano il Paese a rendere possibili viaggi turistici spontanei nelle riserve naturali. La prima autostrada che attraversava gli Stati Uniti, costruita tra il 1916 e il 1919 collegando New York a San Francisco, prese il nome da Abraham Lincoln. La nuova autostrada, promossa dalla Packard Motor Car Company, fu affiancata da uno specifico modello di automobile pensata come “casa mobile” autosufficiente, la Lincoln Highway, corredata da guide turistiche e carte geografiche, in grado di imporsi come l’auto da turismo ufficiale. Seguirono altre autostrade turistiche come la Pacific Highway e l’Evergreen National Highway, solo per citarne alcune, che, se da un lato permisero a chiunque di inoltrarsi alla scoperta del paesaggio selvaggio e di quel giardino del mondo divenuto orgoglio nazionale e osannato da teorici e utopisti cent’anni prima, dall’altro appaiono come infrastrutture strumentali alla promozione dell’uso dell’automobile quale mezzo deputato a visitare il Paese in modo individuale e in totale libertà, ripercorrendo le tappe de primi pionieri. Alle autostrade turistiche a lungo raggio si affiancano le park­ways suburbane che permettono non solo il collegamento alla città dalle zone residenziali circostanti, ma anche la fruizione di nuovi paesaggi pubblici, come le spiagge e i parchi promossi dallo Stato e istituiti sotto la presidenza di Franklin Delano Roosevelt nel programma del New Deal. Molte sono le iniziative di riforma e di ricostruzione del paesaggio in questi anni e la vocazione pubblica del giardino americano sembra consolidata, a eccezione della particolare posizione di uno dei padri dell’architettura americana, Frank Lloyd Wright, che affronteremo nel prossimo capitolo in relazione all’idea di giardino dei protagonisti del Movimento Moderno.

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Tra i vari paesaggisti americani, artisti impegnati nella land art e architetti impegnati nel disegno di giardini e spazi verdi (per molti dei quali si rimanda all’ultimo capitolo), la figura di Daniel Urban Kiley (1912-2004) emerge quale tramite di continuità rispetto alla lezione e agli ideali di Olmsted, Vaux ed Eliot. Kiley, sia per quanto riguarda la dimensione del giardino privato, sia quella dell’intervento pubblico, si riferisce alle particolari condizioni del luogo e dei diversi paesaggi senza imporre un linguaggio a priori. Il suo atteggiamento è quello di ottenere un nuovo paesaggio dalle condizioni date, operando per manipolazioni e integrazioni. Per Dan Kiley: «La progettazione del paesaggio è una passeggiata nella natura dove tutto è reale [...], è emozionante e genuina, è un’esperienza pura durante la quale si attraversa un bosco fitto, magari un faggeto, si sbocca in una prateria aperta, si sale su una collina per poi penetrare tra gli aceri del Canada, [...] ci si fa strada fra i tronchi, e tutto continua a muoversi e a cambiare nello spazio. È un’esperienza dinamica. Questo è ciò che mi affascina e mi emoziona. Quello che ho cercato di fare nel mio lavoro è di creare una scena fatta dall’uomo che abbia queste caratteristiche»28. Nei suoi lavori, memorie della tradizione del giardino formale europeo (nello specifico il mondo di André Le Nôtre) si uniscono al riconoscimento della ricchezza del paesaggio americano. Ad esempio, il modello del viale alberato chiamato a segnare prospettive e percorsi caratterizza progetti di grande scala come il St. Louis Ark Park del 1947 (in collaborazione con Eero Saarinen) o il paesaggio del Dulles International Airport a Chantilly in Virginia (1963), ma anche il giardino della Hamilton Residence (1963), dove le alberature piantumate in filari regolari compongono delle vere e proprie stanze en plein air, che si rapportano per analogia a quelle della casa vera e propria. Ancora rimandi al giardino formale si ritrovano nell’intervento per l’Oakland Museum in California (1969), dove all’architettura si unisce un calibrato sistema di terrazze panoramiche e di giardini pensili innalzati rispetto al livello dell’autostrada limitrofa. Un luogo protetto e scandito dalle siepi geometriche e scultoree, dal colore dei fiori e dalle alberature posizionate all’intorno dei tappeti erbosi. Più vicina a una dimensione artistica, che aprirà le strade alla sperimentazione della land art, è l’opera di Garrett Eckbo (1910-2000), incline all’impiego di materiali eterogenei nella formazione del giardino, e di Thomas Church (1902-1978) che, allontanandosi sia dal naturalismo pittoresco sia dalla grammatica del giardino formale, assimila stimoli provenienti dai movimenti artistici a lui coevi traducendoli in una composizione vegetale fatta di linee sinuose e spezzate, e macchie colorate compatte

30. Dan Kiley, sistemazione paesaggistica del Dulles Airport (1963) a Chantilly, Virginia, schizzo planimetrico.

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31. Dan Kiley, sistemazione paesaggistica del Dulles Airport (1963) a Chantilly, Virginia, veduta di un bordo stradale segnato da siepi di cotoneaster.

32. Dan Kiley, i giardini pensili dell’Oakland Museum (1969), Oakland, California. 33. Philip Johnson, Rockefeller Scuplture Garden (1953), Museum of Modern Art, New York. Veduta del giardino dopo il recente intervento di ampliamento di Yoshio Taniguchi (1995).

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di fiori e arbusti, che ben sintetizza il giardino privato El Novillero (1947-49), nella Sonora County in California. Il tema del giardino dei musei trova in America un capitolo di grande suggestione e sperimentazione che meriterebbe una trattazione a parte. Possiamo tuttavia ricordare, insieme a quelli di Kiley, il Rockefeller Sculpture Garden di Philip Johnson disegnato nel 1953 per il MoMA newyorkese. Si tratta di uno dei più suggestivi spazi pubblici di New York conservatosi anche dal punto di vista dell’attualità compositiva per modernità d’impianto e rigore formale. Qui, per la prima volta, Johnson interviene come landscape architect creando una corte silenziosa dove un’austera successione di superfici lapidee e specchi d’acqua raccolti in vasche di marmo bianco, sono chiamati a incorniciare la collezione di sculture moderne e contemporanee da cui emergono alcune alberature, parte della composizione complessiva. Al formalismo assoluto di questo intervento urbano risponde da parte dello stesso autore il paesaggismo totale, per accogliere nella tenuta di New Canaan, nel Connecticut, la collezione autobiografica dei suoi undici padiglioni costruiti nel tempo.

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34. Philip Johnson, la Glass House (1949) nella tenuta di New Canaan. 35. Philip Johnson, lo Studio-biblioteca (1978) nella tenuta di New Canaan.

Diverso, artistico e creativo, il giardino che Robert Irwin, all’inizio degli anni ’90, ha disegnato all’intorno di quell’acropoli moderna e museale costituita dal Getty Center (1997) di Los Angeles progettato da Richard Meier. Alla sommatoria monomaterica dei rigidi volumi dell’edificio, o per meglio dire del borgo museale rivestito in travertino, rispondono i colori e le forme inusitate del giardino di Irwin. L’artista ha pensato al Central Garden come un giardino di suoni, forme e colori, un percorso da scoprire e in continuo cambiamento. Un’esperienza sensoriale dove le figure del labirinto e della pergola, delle vasche d’acqua, delle aiuole geometriche e delle strutture tutorie chiamate a comporre magici alberi colorati, si alternano e si susseguono nei parterre erbosi: un’opera d’arte in forma vegetale all’interno del tempio dell’arte della città.

36 e 37. Robert Irwin, Central Garden (1977) al Getty Center di Los Angeles. The Bowl Garden, veduta d’insieme e particolare. 38. Robert Irwin, Central Garden (1977) al Getty Center di Los Angeles, veduta dello Stream Garden.

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Il ritorno alla natura, la partecipazione come riscatto quotidiano; il caso dei guerrilla gardens nella Lower East Side newyorkese «Esistono giardini, grandi come interi isolati o piccoli come un’aiuola, che nascono grazie all’iniziativa di gruppi o di singoli cittadini, spinti dal desiderio e dal bisogno di ridare vita a zone degradate della metropoli, trascurate dal corso degli interessi del momento e lasciate in stato di abbandono. In un piccolo quartiere di Manhattan chiamato Loisaida, questi giardini spontanei sono numerosissimi e spiccano per varietà tipologica, molteplicità delle soluzioni inventive e complessità espressiva. Esempio straordinario di verde urbano nascosto e inedito, li si potrebbe definire indigeni e locali, etnici, esotici, ma soprattutto precari, marginali, anonimi, vernacolari»29. Il caso dei giardini spontanei del quartiere newyorkese di Loisaida appare indicativo di una pratica urbana che trova nel passato casi similari; si tratta di un processo partecipativo che coinvolge in un’azione di socializzazione diretta i cittadini che, inizialmente in modo autonomo, si impegnano a riqualificare dei frammenti urbani lasciati in stato di abbandono, terrain vagues o vacant lots, trasformati in piccoli giardini che in una strategia casuale e dettata dalle singole occasioni formano in realtà una rete di spazi verdi offerti alla città che si affiancano a quelli ufficiali, i parchi e i giardini pubblici controllati dagli organi comunali competenti. I giardini spontanei, i guerrilla gardens di Loisaida, trovano nella storia dei community gardens americani le loro radici30. Ma se questi ultimi avevano nella vocazione produttiva di orto urbano la loro principale ragione, i giardini spontanei contemporanei – se si escludono alcuni casi di giardini portoricani (in cui si coltivano spezie, erbe e ortaggi tipici della cucina latinoamericana) – sono formati da piante ornamentali selezionate per resistenza al clima e per il poco impegno di manutenzione richiesto. Si tratta quindi di giardini contemplativi, recintati e gestiti da comitati preposti; «in un panorama desolato, fatto di palazzi decrepiti, di strade trafficate, questi isolati frammenti di natura concedono un momento di quiete e di evasione. Con un passo dalla geometria tirannica della città si entra nell’immaginario naturale, che si fa forma esuberante e mutevole contro la rigida maglia degli schemi urbani»31. In una sorta di libero bric à brac, di bricolage vegetale e decorativo, questi piccoli giardini in parte temporanei e regolamentati da contratti di affitto annuali e decennali, si caratterizzano per la diversità e la flessibilità nel mutamento stagionale-formale, ma sono tutti un punto di riferimento per la vita pubblica del quartiere, sia per l’aspetto didattico legato alle scuole zonali sia per attività ricreative e sociali, che fanno del giardino lo strumento dell’incontro e del confronto. Si tratta di giardini oggettivamente conclusi, recintati dai bordi degli edifici che ne comprimono lo spazio e ne delimitano i confini, ma in questi singolari microcosmi la natura selvaggia appare come riferimento, la wilderness emerge nella pienezza della vegetazione, nell’intreccio delle piante sempreverdi con le macchie colorate dei fiori, in una miscela formale segnata dalla mutevolezza e dall’effimero, che rende difficile la loro lettura utilizzando i parametri di analisi normalmente applicati alle composizioni paesaggistiche e alle associazioni vegetali. Quello dei giardini di Loisaida è un altro verde, una sorta di mosaico multilinguistico e oggettivamente instabile, che tuttavia si rapporta storicamente alle ragioni

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39-41. Diversi aspetti dei guerrilla gardens nel quartiere di Loisaida, Lower East Side, New York.

del Parco della città. I presupposti di Central Park indicati da Olmsted erano infatti quelli della ricerca di una migliore vivibilità oltre che di bonifica di un terreno vasto e paludoso (non certo rapportabile a livello dimensionale con i piccoli lotti di Loisaida); ma lo sforzo di miglioramento delle condizioni di degrado, un tempo di un’estesa parte urbana e oggi di piccole porzioni della città, è in fondo lo stesso: proiettato verso la creazione di aree verdi pulite e sicure, deputate all’incontro dei cittadini in una reale vettorialità interclassista, simbolo di democrazia e di offerta di uno spazio per tutti, aperto all’uso del pubblico più vasto. «I giardini diventano, nella città multietnica, baluardi per la difesa dell’ambiente, spazi della comunicazione, terreni culturali idonei all’uomo, alla sua multiformità; al suo essere natura: da tutelare con tutto il suo patrimonio vitale e socioculturale»32.

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Il Novecento

Tra servizio pubblico e spazio privato; parco e giardino nella modernità Gli inizi del xx secolo vedono il tema del verde inserirsi nel più vasto scenario della modernità, declinato nelle sue diverse espressioni pubbliche e private. Esiste una diretta corrispondenza tra il progetto del verde e la città, luogo deputato a contenere le istanze innovative in senso lato, culturali e produttive, architettoniche ed estetiche, poetiche e letterarie. D’altronde, gli spazi del giardino e del parco si collocano rispettivamente in una vettorialità sperimentale legata anche alle nuove espressioni artistiche o a una ripresa dei modelli storici del passato, e diventano, nel caso dello spazio pubblico, un’arte civica proiettata sempre più verso richieste dettate dalle nuove esigenze del farsi urbano e dagli aspetti sociali emergenti. In sostanza, il parco pubblico assume il ruolo di componente irrinunciabile per ogni nuova pianificazione, così come la lezione dei paesaggisti americani aveva insegnato e codificato nella pratica del planning. Al parco ottocentesco, assunto come sorta di giardino della borghesia al potere e da essa fruito con modalità similari a quelle precedentemente praticate dall’aristocrazia (quando gran parte di quegli spazi erano ad uso esclusivo dei proprietari e dei loro ospiti), si sostituisce scavalcando il millennio l’idea di parco urbano quale attrezzatura sociale, espressione anzitutto dell’uso collettivo con aree e manufatti adibiti a rispondere a specifiche funzioni, più che a ideali estetici e a poetiche compositive. Nel lungo periodo tale tendenza porterà al concetto di verde come standard urbanistico, dove le risposte quantitative andranno a scapito della qualità progettuale con un verde assunto quale entità astratta (nel senso di priva di disegno) e dove la quantità necessaria diventerà il riferimento-guida di ogni realizzazione. A questo verde pubblico, distribuito all’interno della città dal punto di vista funzionale-utilitaristico, si affianca all’inizio del secolo l’idea di garden city che dal modello originale inglese di Ebenezer Howard1, si traduce a livello europeo (soprattutto in Germania, Olanda e Inghilterra) in una serie di quartieri-giardino, in genere costruiti ai margini delle grandi città. Questi, da un lato testimoniano il programma di diffusione del verde nell’intero tessuto urbano con un più attento controllo paesaggistico degli spazi aperti e di connessione tra il costruito, dall’altro inaugurano un nuovo rapporto dialettico tra città e natura che cancella il primato del parco urbano quale esclusivo ambiente naturale calato nella struttura urbana.

Parco e città

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1. Walter Determann, progetto per la Bauhaus Siedlung, planimetria a colori, Weimar, 1920.

Il parco pubblico rimane tuttavia il luogo deputato a realizzare e sperimentare il confronto tra natura e città. Una nuova stagione eclettica caratterizza il primo Novecento, che in parte abbandona il fluire sinuoso degli impianti paesaggistici dominan-

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ti, a favore di disegni più regolari segnati in genere da ampie radure e da attrezzature tra le più varie, in grado di offrire nuove risposte sociali e ricreative alla città. Nei primi anni del secolo una vicenda emblematica e significativa per comprendere il nuovo ruolo civico del parco urbano, in bilico tra dimensione di disegno del paesaggio e idea di struttura urbana di sociologia applicata, è il concorso per il progetto del parco centrale di Dunfermline, cittadina della Scozia meridionale, bandito dall’industriale illuminato Andrew Carnegie nel 19032. Quest’ultimo, allineato nella tradizione della filantropia anglosassone, dona alla sua città una cospicua somma di denaro e una vasta area centrale di sua proprietà (il Pittencrieff Park) al fine di farne un nuovo grande parco urbano con strutture adibite all’istruzione e alla ricreazione. La gestione dell’operazione è affidata al Carnegie Dunfermline Trust, che incarica il paesaggista ed esperto di botanica Thomas H. Mawson (1861-1933) e Patrick Geddes (1854-1932), biologo interessato alla sociologia. I due progettisti affrontano il tema del nuovo parco da diversi punti di vista che ben rappresentano le metodologie del momento: Mawson privilegia un approccio che unisce alla competenza tecnica la composizione formale d’insieme, il calibrato e attento disegno del paesaggio affrontato in modo architettonico. Geddes, invece, a un disegno più confuso sotto l’aspetto squisitamente compositivo, che miscela in modo distonico motivi paesaggistici e memorie del giardino formale, affianca una metodologia interdisciplinare (aspetti fisici e geologici si uniscono a problematiche geografiche e sociali, a riferimenti storici e culturali), per proporre una consistente quantità di servizi e strutture ad uso della cittadinanza all’interno della nuova area verde del parco urbano. Ciò che in ogni modo appare significativo, al di là delle diverse risposte progettuali consegnate nel 1904, è il fatto che entrambe le soluzioni ricerchino un legame organico e strutturale con il tessuto storico dell’intorno e con il centro cittadino. La soluzione di Mawson esclude dal parco aree giochi e attività sportive e ogni aspetto didattico espositivo legato alle presenze botaniche, così come indicava la tradizione del Gardenesque3 tracciata dal suo caposcuola John Claudius Loudon (1783-1843). Nuove piazze e boulevard dal parco si proiettano nella città, e il disegno complessivo è scandito da una serie di compiuti interventi monumentali. Assecondando il tortuoso corso del torrente Glen, Mawson divide concettualmente in due parti l’intera area verde, trattandone quella a est del torrente in chiave naturalistica (conservando per quanto possibile le caratteristiche del paesaggio originario) e segnando l’altra con un chiaro impianto formale scandito da percorsi rettilinei e ampie radure. Nel progetto per Dunfermline, Mawson applica una serie di principi progettuali che perfezionerà qualche anno dopo nel suo libro Civic Art. Studies in town planning parks boulevards and open space (1911). In questo trattato l’autore definisce quattro stili di riferimento per il landscape gardening: l’architectural style è quello totalmente geometrico, da impiegarsi per ampi spazi e in prossimità di edifici monumentali, il formal style invece sviluppa quello precedente ed è da utilizzarsi per giardini di più piccole dimensioni. Il terzo stile è quello composito o anche English landscape style, da usarsi nei parchi urbani (come quello a Dunfermline) in cui si fondono in un’unica sintesi compositiva elementi formali e paesaggistici, dove la linea retta si unisce a quella serpentina, con modalità e pesi dettati dalle specifiche esigenze e dal gusto del progettista. È questo l’approccio stilistico che Mawson sembra prediligere e che rispecchia il desiderio di libertà compositiva del tempo, oltre agli oggettivi gradi di variabilità planimetrica che tale sistema sottende. Infine, il natural style conserva o copia le caratteristiche del sito in cui ci si trova ad operare ed è consigliato per le aree periferiche o là dove si intendano salvaguardare e valorizzare le presenze naturalistiche. A proposito del progetto del Pittencrieff Park Mawson afferma: «il progetto per il parco deve imprimersi come parte della città, nello stesso modo in cui il parco e il giardino di un aristocratico si imprimono come parte necessaria del suo establishment; ma nel raggiungere questo scopo, deve con certezza colpire per il fatto di invitare al tranquillo riposo e alla contemplazione. [...] È anche sperabile

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che nessun tentativo sarà fatto di introdurre quegli ingannevoli accessori in ghisa, come gazebi, fontane, fontanelle, vasi, orinatoi, pese, o le cosiddette strutture rustiche, economiche e nei casi fortunati provvisorie, che hanno volgarizzato la metà dei parchi pubblici delle isole britanniche»4. Il parco pubblico di Mawson si pone così nella tradizione della costruzione paesaggistica che va da Joseph Paxton (Birken­head Park) a Edward Kemp, a Henry Ernest Milner: un disegno del paesaggio colto ed elegante, lontano e intollerante nei confronti delle mediazioni e delle debolezze estetiche cui il giardino ha dovuto sottostare nella sua necessaria democratizzazione e apertura al vasto pubblico. Del tutto diverso il parco pensato da Geddes: scopo del nuovo parco urbano, al di là della sua soluzione formale che è portata in un certo senso in secondo piano, è anzitutto divenire il luogo dell’attività civile e culturale della società urbana, il polmone verde interattivo contenitore di attività tra le più varie, in grado di proporsi come elemento attrattore rispetto a tutta la cittadinanza. In questo senso si può leggere la cittadella architettonica (Crafts village and gardens) densa di attività museali, prevista a est dell’intervento e pensata all’intorno dell’abbazia gotica come vera e propria cerniera urbana tra parco e città. Al gotico si riconducono molte delle costruzioni previste da Geddes nella parte centrale, dove si trovano inoltre tre aree destinate a zoo, un lago, un open-air museum dedicato alla storia dell’abitazione, radure e un giardino roccioso che si somma ai giardini botanici e a quelli sull’acqua, pinete e palestre, tea-house, aree gioco, un teatro all’aperto, serre e fontane, padiglioni, il tutto connesso da una ragnatela di sentieri a serpentina cui si aggiunge un lungo viale alberato rettilineo a nord ovest dell’area. Il disegno del parco risente di una certa ingenuità compositiva e sembra preoccuparsi più della collocazione delle numerose funzioni che del governo del disegno complessivo; il parco, assunto come sorta di cattedrale laica per la città, è anzitutto una struttura sociale rivolta ad ogni cittadino e in grado di sviluppare una coscienza civica diffusa. Nel volume City Development. A Study of Parks, Gardens, and Culture-Institute (1904), coevo alla consegna del progetto, tracciando l’approccio interdisciplinare allo studio e al disegno del territorio che diverrà la base della disciplina urbanistica, Geddes esplicita i criteri della proposta per il Pittencrieff Park, validi dal punto di vista metodologico per ogni intervento similare: «Mentre apprezziamo tutti gli stili, non ne dobbiamo in questo caso seguire alcuno, ma usare ognuno nel suo luogo appropriato, qui enfatizzando la bellezza naturale, là creando nella maniera

3. Patrick Geddes, piano per Pittencrieff Park, Dunfermline, 1904.

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4. Pittencrieff Park, Dunfermline, Arena, Music Hall, Carnegie Place, City Cross, secondo il progetto di Patrick Geddes del 1904.

2. Thomas H. Mawson, piano per Pittencrieff Park, Dunfermline, 1904.

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più propria una bellezza formalmente ordinata: e ancora alla fine armonizzando il tutto in una più ampia unità proteiforme – giacché solo così possiamo attrarre ogni livello di età e di cultura, e incontrare le molte esigenze poste dall’uso ricreativo ed educativo, dal gusto individuale e dalla cultura collettiva. Possiamo così assumere nella nostra composizione paesaggistica il principio già indicato per le architetture – né distruggere mai integralmente il passato nel supposto interesse del presente, né mostrare troppo conservatorismo permettendo al passato di limitare il presente, ma incorporare i migliori risultati del passato con ciò che di meglio possiamo fare nel presente, per migliorare così un futuro che è aperto»5. Il recupero del passato da parte di Geddes, la rilettura della tradizione del giardino ottocentesco, più che di tipo formale appare di tipo sociologico; ampliando ed esaltando le caratteristiche d’uso, la funzione ricreativa, museale e didattica del parco urbano del nuovo secolo strettamente connesso alla città, sua parte integrante e irrinunciabile. I progetti rimasero sulla carta; ma il caso del Pittencrieff Park si configura come una sorta di spia, nel senso dato a questo termine dallo storico Carlo Ginzburg6, per comprendere le complesse vicende dello sviluppo dei parchi del Novecento, con riflessi anche nella dimensione dei giardini privati e nel campo dell’architettura, come si vedrà nel rapporto tra verde e Movimento Moderno. Dal punto di vista stilistico, entrambi assecondano il criterio del giardino Beaux-Arts nella risoluzione della contraddizione tra classicismo e paesaggismo romantico; il primo assunto come tradizione storica in grado di monumentalizzare l’architettura quale espressione di democrazie o dittature, il secondo come moderna risposta al problema di una forma libera, non predeterminata. «L’equilibrio, la composizione, l’intreccio e la giustapposizione di spazi naturali intesi mimeticamente in rapporto con la natura incontaminata, insieme alla presenza di interventi gerarchici, geometrici e di prospettiva, rappresentano, in ultima istan-

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6. Jean-Claude N. Forestier, planimetria generale del parco Maria Luisa a Siviglia, 1911. 7. Jean-Claude N. Forestier, progetto di giardino, Béziers, 1918. 7

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5. Jean-Claude N. Forestier, i giardini del Champ de Mars ai piedi della Tour Eiffel a Parigi, 1908.

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za, il modo migliore di caratterizzare la maggior parte dei giardini definibili come Beaux-Arts»7, che a cavallo tra xix e xx secolo si rincorrono in un dinamico confronto dall’America all’Europa. In Francia, nei primi decenni del Novecento, le tendenze paesaggistica e formale si radicalizzano in due opposte modalità di pensare il giardino. Edouard André (18401911) e Jules Vacherot sostengono la pratica delle costruzioni paesaggistiche del secondo impero nell’ascolto della lezione di Adolphe Alphand, Pierre Barillet-Deschamps e François Duvillers, mentre Henri Duchêne e il figlio Achille (1866-1947), incaricati del restauro di alcuni grandi parchi secenteschi come quello di Vaux-le-Vicomte, rilanciano in chiave di programmatico revival e di rappel à l’ordre, il giardino classico formale, con specifici riferimenti all’opera di André Le Nôtre. In tale contesto culturale si forma Jean-Claude-Nicolas Forestier (1861-1930), ingegnere forestale ed esperto di vegetazione, collaboratore di Alphand in occasione del suo ultimo grande lavoro: l’esposizione universale di Parigi del 1889. Forestier, nominato conservatore del Bois de Vincennes, del Bois de Boulogne e del verde pubblico dell’intero settore occidentale della capitale francese, opera una sorta di sintesi linguistica tra giardino paesaggistico e formale, nel rispetto della tradizione classica chiamata ad accogliere il carattere dei luoghi, con particolare attenzione rivolta alla vivibilità del parco pubblico. Nella sistemazione dei giardini (1908) ai piedi della Tour Eiffel, all’assoluta simmetria dell’impianto romboidale mediano segnato dal lungo asse centrale longitudinale, Forestier affianca due diverse soluzioni per le testate. La prima dove è ubicata la Torre è trattata con un linguaggio naturalistico pressoché speculare; la seconda verso l’Ecole Militaire è invece caratterizzata da due boschetti matematici a piantumazione regolare disposti intorno a uno spazio libero quadrato centrale. È del 1908 il suo Grandes villes et systèmes de parcs – ispirato alle esperienze osservate nelle città americane – in cui emerge il suo importante contributo teorico proiettato verso la pianificazione e il controllo di veri sistemi territoriali di verde che dalla campagna si spingono nella città. Il concetto di parkway definito chiaramente da Olmsted è ripreso nella traduzione del boulevard hausmanniano in strade-parco, «destinate a servire insieme da vie di comunicazione in città, da accesso gradevole e comodo ai suoi parchi, alle sue grandi riserve, alla sua campagna, e di collegamento a tutto l’insieme»8; raggi verdi che dai boschi naturali si inoltrano nel tessuto urbano collegando a loro volta nello sviluppo territoriale parchi e spazi alberati di diversa dimensione, su modello dell’Emerald Necklace a Boston di Olmsted. «Forestier propone anche in Europa il passaggio a una pianificazione regionale delle aree verdi. Che superi i fittizi perimetri amministrativi incapaci di adeguarsi all’espandersi delle città e della cultura urbanistica [in] un tentativo di riconciliazione tra la campagna e l’ambiente urbano, attraverso l’apertura della città alla sua regione»9. Tra i vari progetti realizzati all’estero10, quello della sistemazione del parco a Siviglia per l’Esposizione Iberico-Americana (1914), rimandata per la guerra al 1929, rimane tra i più significativi per metodologia e soluzione d’insieme. Nel conservare le preesistenti piantagioni irregolari, Forestier disegna un impianto fortemente geometrico scandito da percorsi alberati ortogonali in sintonia con il concetto di bellezza subordinato a quello di ordine. Al governato naturalismo di alberature, quinte lavorate secondo le tecniche dell’ars topiaria, arbusti e fiori in grande varietà organizzati secondo una successione di ambienti verdi, si sovrappone in contrappunto compositivo la maglia regolare dell’impianto che, nell’alternanza tra zone aperte e

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ombrose, accoglie anche memorie del giardino arabo. Il richiamo ai giardini dell’antica Andalusia, anche con l’inserimento di manufatti e materie inconsuete (fontane moresche, vasi policromi decorati, ceramiche colorate), e l’invenzione di una varietà botanica cromatica e olfattiva, si uniscono così al giardino formale alla francese sovrapposto a quello paesaggistico. Il risultato è una sorta di felice collage compositivo che traduce l’idea di giardino pubblico come luogo collettivo «che punta all’integrazione degli stili storici in un continuo segnato dalla sorpresa formale e dalla vegetazione lussureggiante»11. La rinnovata attenzione, tutta francese, all’aspetto formale del giardino assunto anche come ambito di sperimentazione, di rilettura dei motivi storici e di ascolto delle istanze di rinnovamento provenienti dal mondo dell’arte, troverà, come si vedrà più avanti, terreno di sviluppo anche nella dimensione del giardino privato sia nell’opera di Achille Duchêne, che nel 1935 pubblica il libro-programma Les jardins de l’avenir, sia nei giardini déco di André Vera che vedranno nelle realizzazioni d’avanguardia temporanee all’Exposition des arts décoratifs parigina del 1925 la massima espressione lirico-compositiva dal punto di vista dell’innovazione formale e materica, anticipando principi e ricerche del giardino contemporaneo.

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8. Jean-Claude N. Forestier, giardini dell’Hotel del Leone, Pedralves, da Jean-Claude N. Forestier, Jardins. Carnet de plans et de dessins, luglio 1918. 9. Giardino di Bagatelle, Bois de Boulogne, Parigi. 10. Tasso nero nel giardino dell’amore, da André Vera, Les jardins, 1919.

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I Volkspark, il «verde sociale» È però nella Germania d’inizio secolo che il progetto del parco urbano, quale nuovo strumento sociale operativo in grado di riformare il rapporto città-campagna all’interno della critica all’urbanesimo industriale, emerge in modo radicale, supportato dal retroterra delle lezioni urbanistiche di Camillo Sitte e di Joseph Stübben12, dagli studi naturalistici condotti a cavallo del secolo, e infine dall’idea di natura che a livello filosofico e letterario pervade tutta la densa stagione del romanticismo tedesco. Alle origini dei movimenti riformatori in Germania, come in Inghilterra o in America, sta l’esigenza di superare la concezione del parco urbano ottocentesco dedicato all’autorappresentazione della borghesia metropolitana, pensato «in primo luogo per coloro che passeggiano», nel quale «ci si doveva trovare, vedere, camminare qua e là insieme, divertire», come Hirschfeld proponeva già nel 1785. A tale aspetto inutilmente ricreativo risponde nel 1913 Ludwig Lesser, fondatore dell’Associazione tedesca per il parco popolare (Deutscher Volksparkbund), delineando le caratteristiche del nuovo parco tedesco riformato: «[i nuovi parchi] non dovranno più essere attrezzati soprattutto in funzione della passeggiata, con poche aree per il gioco di diverse dimensioni. In conformità al loro scopo essi dovranno invece disporre in primo luogo di grandi superfici erbose destinate al gioco, a disposizione di tutti. Solo allora potranno divenire sorgenti di vita per il popolo tedesco [...]. Viali alberati ombrosi devono circondare questi prati, condurre a grandi superfici d’acqua. Qui devono trovare ospitalità tutti gli strati sociali della popolazione, qui deve essere il luogo dove poter compensare la vita ordinaria consumata nel mare di case della grande città, dove potere acquietare l’ansia perenne che caratterizza il lavoro quotidiano»13. In realtà i primi progetti di Volkspark (parchi popolari) nel senso indicato da Lesser si formano già nel 1906; a Francoforte sul Meno Carl Heick disegna l’Ostpark, a Berlino-Frohnau, ad opera dello stesso Lesser, è costruito il Parco per il gioco e lo sport, e fra il 1909 e il 1913 Friedrich Bauer realizza nella stessa città lo Schillerpark scandito da masse alberate, poste a cingere vasti prati destinati alle manifestazioni e agli spettacoli pubblici e alla ricreazione. Ancora stanze verdi circondate da fitte cortine di alberi caratterizzano il Vorgebirgspark a Colonia (1909-1911) di Fritz Encke. Oltre a rispondere alle nuove esigenze funzionali di sport e ricreazione collettiva, il Volkspark si carica di valenze simboliche nel rilanciare il rapporto uomo-natura, nel divenire il luogo di azioni e sentimenti chiamati a ristabilire il legame con le radici naturali proprie della cultura tedesca in senso lato. È il bosco urbano il modello di riferimento, alternativo al parco paesaggistico attraversato dalla linea a serpentina dei percorsi romantici. Un nuovo parco capace di risvegliare nella memoria collettiva dell’uomo metropolitano i suoi luoghi di origine, in grado di stimolare il ricordo della bellezza della natura, e di proporre un nuovo processo di mimesi della natura, attraverso l’impiego delle piante proprie del paesaggio tedesco (querce e conifere anzitutto) e la creazione di ampie superfici erbose. La vicenda del concorso e della realizzazione dello Stadtpark di Amburgo14 codifica e definisce in un certo senso la nuova figura del germanico Volkspark. Il concorso bandito nel 1908 non porta ad esiti significativi e l’incarico passa a Fritz Schumacher, architetto capo della città, che disegna l’impianto definitivo adottato già nel 1909 e portato a compimento nel corso di vent’anni, rivisitando tuttavia esplicitamente il progetto dell’architetto Max Läuger. La torre serbatoio esistente, opera di Otto Menzel, è assunta come fulcro emergente e riferimento del disegno. Si definisce così un asse centrale libero e ad andamento graduale, con spazi di dimensione diversificata tali da divenire vere e proprie radure (il prato popolare), che trovano come polo complementare alla torre, sull’altro lato del parco, un nuovo ingresso monumentale affacciato su un grande specchio d’acqua ellittico, in corrispondenza al tessuto urbano, alla strada e alla ferrovia. Dietro la torre è ubicato un nuovo stadio per l’atletica e all’interno del parco si distribuiscono un bacino per il nuoto, un percorso per lo sport equestre, alcuni giardini formali, una stalla, vera e propria latteria, e una malga

11. Veduta aerea, attorno al 1932, della zona di accesso allo Stadtpark di Amburgo, progettato da Fritz Schumacher. 12. Otto Menzel, torre-serbatoio dello Stadtpark di Amburgo. 12

con le mucche e tutto il necessario per fare burro e formaggi. L’edificio ricalca sin nei minimi dettagli il modello della fattoria del Vierland, regione della provincia anseatica, trasposta in chiave romantico-produttiva nella realtà urbana. «È un richiamo all’origine, all’antico equilibrio di un’armonia delle forze ritrovate nella natura, nella madre terra, e nei suoi elementi primordiali. All’interno di questa casa contadina, Schumacher reinterpreta la tradizionale divisione degli spazi del focolare domestico. Il tipico Wohnraum (spazio dell’abitare) si trasforma qui in spazio pubblico, separato dalle stalle solamente da parete divisoria»15. Non si tratta di una romantica folie, come due secoli prima l’Hameau (1783) che Richard Mique aveva costruito per la regina Maria Antonietta a Versailles e che portava nel giardino del Re Sole la dimensione fisica di una fattoria, espressione autonoma del gusto del pittoresco tesa a collocare nel disegno formale e simbolico del parco una dimensione arcadica e campestre. La latteria di Schumacher vuole piuttosto rilanciare la Bauernkultur (cultura contadina) tradotta in chiave architettonica e produttiva, per proporsi come strumento e forma di comunicazione chiamati a stimolare la memoria collettiva e superare le condizioni della vita urbana, per unire nel grande prato popolare l’operaio e il piccolo borghese in un unico Volk nazionalpopolare. È in tale contesto che si forma il giovane architetto dei giardini Leberecht Migge (18811935), protagonista di quella che è stata definita come la rivoluzione verde della Germania tra le due guerre. La sua concezione del verde urbano parte dal giardino domestico legato al processo di riforma dello spazio abitativo, per diventare l’elemento centrale in grado di ristabilire il riequilibrio tra città e campagna sia dal punto di vista fisico, sia da quello dell’autosufficienza alimentare, così come già indicavano alcune esperienze americane cui Migge riconosce la funzione innovatrice. Sono i Kleingärten (quei piccoli appezzamenti di terra, gli orti coltivati ai margini delle città, dove i cittadini si applicano nelle ore libere con opere di giardinaggio e soprattutto di orticultu11

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ra) il tassello-chiave per la riforma del giardino tedesco estesa anche al parco urbano. Tra dimensione domestica e pubblica, Migge definisce l’originalità della sua proposta che «sta nel tentativo di fondare una riforma della città proprio assumendo il punto di vista del giardino e della sua coltivazione. Più che mai la metropoli diviene madre di giardini nel momento in cui, grazie a questi, essa si libera dalla dipendenza dalla campagna e risolve a proprio favore quel legame contro il quale avevano puntato le loro critiche i teorici del socialdarwinismo e della eugenetica sociale. La catastrofe bellica esalta tematiche siffatte. Per un istante, il ritorno alla natura sembra la sola soluzione di sopravvivenza per la Germania ridotta alla miseria e anche la soluzione espiatoria delle ragioni che avevano prodotto la guerra, l’abbandono di quella civilizzazione industriale e macchinistica la cui condizione di squilibrio era stata la premessa del conflitto»16. Nel febbraio del 1919, sotto lo pseudonimo di Spartaco verde, Migge pubblica sul Die Tat il suo Manifesto Verde, nel quale, nella constatazione della morte della vecchia città del potere borghese e nella convinzione che la campagna è il riferimento per la sua trasformazione in Stadtland (città-campagna), indica nel ritorno alla terra «l’idea generale del ventesimo secolo. [...] Le città devono riabbracciare la loro terra. Centinaia di migliaia di ettari sono oggi incolti: suoli edificabili, terreni per caserme, per strade, terreni abbandonati. Vi si ponga mano. Si piantino giardini pubblici per la gioventù schiava della città. Si piantino piccoli giardini per gli abitanti schiavi delle case cittadine. Si piantino Siedlungen per il lavoro schiavo della città». Il modello proposto da Migge è codificato nelle corone urbane di orti-giardino da costruirsi intorno alle città, un superamento dell’idea di città-giardino anglosassone, indipendente e autonoma rispetto alla città da cui fugge, nell’antitetico tentativo di fondere la nuova proposta insediativa

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13. Giardini minimi, Schrebegärten, a Berlino Wedding, 1925-31. 14. Leberecht Migge, il parco municipale colonizzatore, 1928.

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15. Leberecht Migge, plastici di giardini tipo, 1926. Sopra: piccolo orto-giardino, sotto: giardino per il colono professionale. 16. Leberecht Migge, Martin Wagner, progetto per un parco della gioventù a Berlino, 1916.

con il tessuto urbano esistente. Collaborando prima con Martin Wagner nella definizione dei Jugend­park (parchi della gioventù, 1916), sacrari di guerra pensati come parchi attrezzati, e poi disegnando le sistemazioni a verde delle Siedlungen urbane tra cui quelle della famosa corte a ferro di cavallo del progetto di Bruno Taut a Berlin-Britz (1926) e collaborando con Ernst May a Francoforte (1926-1928), Migge definisce nel 1926 una serie di modelli, presentati anche nella forma di plastici policromatici, che dal piccolo orto al giardino per il colono professionale si estendono al parco sportivo e al cimitero d’onore, in uno sforzo programmatico che trova infine la sua sintesi riformatrice, compositiva e funzionale nello schema di un utopico parco municipale colonizzatore. Dalle vicende dei Volkspark prende spunto in Olanda il progetto dell’Amsterdam Bos, un parco territoriale pensato nella forma di bosco al servizio della città di Amsterdam e proiettato verso la fruizione di un’utenza di tipo regionale. Nel 1928 si sviluppano le prime intenzioni progettuali da parte della municipalità; in seguito un gruppo di studio interdisciplinare nel 1931 elabora un piano dei lavori per affrontare la sistemazione a parco dei novecento ettari individuati nel territorio. I lavori, iniziati nel 1934, diedero

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vita a quello che è stato indicato come il più ambizioso, vasto e riuscito tentativo a scala europea di creare un parco interregionale attrezzato. La funzione sociale e gli intenti espressi dalla lezione dei Volkspark, tradotti anche in efficaci integrazioni con le grandi strutture abitative delle Siedlungen – di cui quella di Walter Determann a Weimar (1920), progettata nell’ambito della Bauhaus, sembra anticipare per approccio compositivo e cromatico le sperimentazioni del giardino cubista – saranno travisate dall’avvento del nazismo. Nel 1934 il Werk­bund tedesco, simbolo di sperimentazione nel campo architettonico e dell’industrial design, è radicalmente rifondato con membri insediati dal partito nazionalsocialista. Dal punto di vista dell’idea di parco e più in generale dell’ideale di natura, l’ideologia totalitaria del Terzo Reich esprime un filone di irrazionalismo antindustriale e antimetropolitano, teso in un ricordo nostalgico e mitico verso i perduti valori della Germania patriarcale e rurale. L’ideologia antiurbana nazista assorbe vari contributi teorici, di cui la critica alla civiltà delle macchine a opera di Oswald Spengler nel suo Der Unter­gang des Abendlandes (Il tramonto dell’Occidente, 1918-1922) appare tra le fonti principali di riferimento. Il programma di ritorno alla terra trova indicazioni in un atteggiamento romantico-nazionalistico anche nella prassi costruttiva e nel suo rapporto con la natura. Paul Schultz-Naumburg già nel suo manuale Abc des Bauens (1926) afferma: «la casa tedesca dà la sensazione di crescere con la terra stessa, come un prodotto naturale, come un albero che affonda le radici nella profondità del suolo e forma un tutt’uno con esso. È questo che ci dà il senso della patria, di un legame con il sangue e la terra». Il modello della casa isolata con giardino-orto, dallo spiccato sapore folklorico tradizionale, calata all’interno di un piano microurbanistico che cancella spazi ed edifici chiamati a favorire la vita collettiva (così come indicavano le Gartensiedlungen degli anni ’20), diventa specchio ed espressione del programma autarchico e di autosostentamento del singolo Siedler, promosso dalle nuove Kleinsiedlungen del Terzo Reich, di cui la colonia rurale di Ramersdorf alla periferia di Monaco (1934) è diretta espressione. Qui, circa centocinquanta piccole case unifamiliari scandite dalla pronunciata tettonica dei tipici tetti a spiovente e corredate dal piccolo orto-giardino si affiancano lungo i percorsi sinuosi, memoria del landscape gardening e dell’idea di un generale e mitico ritorno alla natura, per sfociare in un parco comune. Alle colonie rurali si affianca il programma delle città operaie, con schemi più ricchi di sapore howardiano, ma lo sviluppo della guerra interrompe la verifica dei nuovi modelli urbani lasciandoli sulla carta o a livello incompiuto, come avviene per il caso della Hermann-Göring Stadt. A livello più empirico e nostrano, priva di supporti teorici e di miti di riferimento, nonché di modelli urbani insediativi, appare l’esperienza italiana del ventennio fascista legata alla costruzione dei borghi rurali. In parallelo al tema della mediterraneità, nel programma ideologico fascista trova sviluppo quello della ruralità, propugnato dal primato della campagna sulla città, e dall’idea di Mussolini di fare del fascismo un fenomeno prevalentemente rurale. Il rapporto del fascismo con il disegno del verde si traduce in realtà a livello macro in un’azione sul paesaggio delle campagne che dal 1925 si esprime in due operazioni di grande rilievo: la battaglia del grano e la bonifica integrale. Due aspetti complementari di un unico disegno che tendeva all’autosufficienza cerealicola, alla bonifica e alla colonizzazione di terre paludose e zone malariche, ma anche alla bonifica degli uomini. Non a caso, una delle lapidarie frasi mussoliniane recitava: «Redimere la terra e con la terra gli uomini»17. Nel 1928 è varata la Legge per la bonifica integrale dell’Agro Pontino, predisposta già dall’inizio degli anni ’20 dall’attenta e lucida regia di Arrigo Serpieri. Tralasciando l’azione di propaganda e la retorica di regime, è oggettivamente innegabile lo spessore dell’intervento definito da Serpieri, che non si limita alle opere di drenaggio delle acque, ma si estende a un più vasto e organico disegno di riqualificazione del paesaggio, della valorizzazione delle colture e della nuova distribuzione dei terreni agricoli. Il tutto all’interno di una nuova rete di infrastrutture viarie segnate dalla costruzione dei nuovi complessi rurali di fondazione (poderi, borghi, sino alle città

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nuove). Nella generale politica di ritorno alla terra e nella convinzione mussoliniana che «i popoli che abbandonano la terra sono condannati alla decadenza», si colloca l’azione polemica e antiurbana di Strapaese, di cui si fa portavoce il settimanale Il Selvaggio diretto da Mino Maccari18. Al carattere paesano della costruzione scenica d’insieme (seppure con grammatiche più moderniste e di risultato dal sapore metafisico), si riconducono le città di fondazione sia italiane sia d’oltremare19. Il principio insediativo iniziale è quello del paese, del borgo rurale radicato nella storia del paesaggio agrario italiano, per poi mostrare un’ibrida fusione nelle città di fondazione tra tensione razionalista, sapori di ricerca verso quel carattere mediterraneo da rifondare e valori urbani di tipo tradizionale, frutto dell’ascolto della città storica e delle istanze innovative. Ma nella nuova forma urbis, declinata nella serialità centro cittadino (con le piazze – civile, religiosa e di mercato), zona di villini residenziali con piccoli giardini e zona più rurale (con case in linea corredate da orto), il disegno del verde rimane sullo sfondo, non diventando mai parte necessaria a quello d’insieme, strumento compositivo irrinunciabile, come le esperienze americane ed europee avevano già indicato. La cultura del giardino italiano rimane ancorata a modelli decorativi ottocenteschi, come si evince per esempio a Littoria – celebrata da un giovane Pietro Ingrao (segnalatosi ai Littorali di poesia del 1934) come: «una cattedrale nella selva/come isola trionfante sulle acque» – nella sistemazione delle aiuole geometriche disposte intorno alla fontana circolare con sfera centrale della piazza principale, disegnata dall’architetto Oriolo Frezzotti. La Mostra del Giardino Italiano, inaugurata a Firenze nel 1931, sottolinea lo stretto legame con la tradizione del giardino storico all’italiana nell’introduzione di Ugo Ojetti, che in prospettiva nazionalistica militante scrive: «anche questa mostra intende rimettere in onore un’arte singolarmente nostra che dopo avere conquistato il mondo sembrò offuscata da altre mode o nascosta sotto nomi stranieri». Anche i progetti presentati nella forma di diorami storici si allineano nel solco della tradizione, di cui quello del Giardino neoclassico Lombardo di Tomaso Buzzi, tra i protagonisti del Novecento milanese, appare come una composizione di libera fantasia. Progetto privo, però, delle tensioni e dell’eleganza inventiva che lo stesso architetto esprimerà in altre occasioni nella dimensione del giardino privato, di cui il formidabile complesso della Scarzuola a Montegabbione nei pressi di Terni (le cui opere di trasformazio-

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17 e 18. Pannelli a tempera con piante del Villaggio Battisti in Libia e del Villaggio Bari d’Etiopia, 1938 ca. 19. L’appoderamento dell’Agro Pontino nelle vicinanze di Littoria. 19

20. Oriolo Frezzotti, piazza centrale di Littoria, 1932.

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ne del complesso conventuale originario iniziarono nel 1958) costituisce il più felice esempio di unione tra sintesi compositiva e visione fantastica. Nella Scarzuola, al disegno del verde si unisce l’idea di un giardino di frammenti architettonici miscelati a segni scultorei, in bilico tra nuova acropoli e visioni piranesiane, in una rilettura personale e novecentista del sogno costruito nel Bosco Sacro di Bomarzo (1525-1538). Più interessanti delle composizioni offerte dai diorami furono i risultati del Concorso del Giardino Italiano20 bandito nella stessa occasione della mostra fiorentina, dove risultarono vincitori due progetti milanesi, a cura di Ferdinando Reggiori e dei laureandi della Regia Scuola Superiore di Architettura. Il modo d’intendere il verde su scala urbana quale elemento decorativo espresso nelle città di fondazione, un verde subordinato all’architettura celebrativa e monumentale del regime, emerge in modo esplicito all’interno delle vicende della costruzione dell’E42. La fusione tra architettura e verde, la miscela compositiva espressa nell’impianto dell’Esposizione Universale di Roma, per varie vicende 21 si trasformò in un’occasione perduta, nonostante il tentativo di inserire nel grande impianto geometrico segnato da due assi ortogonali episodi di tipo paesaggistico su modello delle esperienze europee. «Alla base di tutto c’era comunque, l’atteggiamento sostanzialmente ottocentesco e l’ottica riduttiva con i quali i maggiori attori dell’Esposizione – e Piacentini suo malgrado

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in prima fila – vedevano ancora i giardini, valutati con le uniche categorie di quantità e abbellimento, e preoccupati soprattutto che il verde ci fosse, fosse molto esteso, avesse forma impeccabile»22. In quest’ottica appaiono chiarificanti le indicazioni su come avrebbero dovuto caratterizzarsi i parchi e i giardini dell’Esposizione contenute nella Relazione Illustrativa del Piano Regolatore per la sistemazione arborea e floreale della zona dell’Esposizione (29 giugno 1938): «[il carattere di parchi e giardini] sarà tipicamente italiano, con elementi architettonici grandiosi. Masse di verde inquadreranno edifici, vedute e specchi d’acqua, ombreggeranno viali e giardini e saranno disposte secondo una visione armonica dell’insieme, ricca di chiaroscuro, vivace di colori per la ricca fioritura predisposta». 21. Tomaso Buzzi, veduta prospettica del giardino neoclassico lombardo, Mostra del Giardino Italiano, Firenze, 1931. 22. Tomaso Buzzi, complesso della Scarzuola, veduta delle mura esterne verso est. 23. Tomaso Buzzi, intervento alla villa di Trenzanesio, il giardino delle acque, 1955.

Il giardino, tra dimensione domestica e sperimentazione artistica Come già accennato, il nuovo secolo e la tensione verso l’idea di modernità coinvolse anche l’arte dei giardini. Il giardino, chiamato a essere parte di quell’idea, sostenuta e gridata dalle avanguardie storiche, di opera totale, sintesi di arte, natura, nuovi comportamenti e stimoli culturali tra i più eterogenei, trova diverse forme di espressione, materie e linguaggi, in un generale superamento dei tipi paesaggistici e in una vetto-

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rialità che configura un approccio di tipo sostanzialmente architettonico nel disegno del verde privato. Strettamente connesso all’abitazione, il giardino ne costituiva la naturale estensione en plein air, o veniva traslato all’interno della casa nella forma di winter garden, di logge e bow-window fioriti. In tale contesto, la natura necessariamente disegnata, doveva fungere da elemento di completamento delle nuove idee e delle figure architettoniche assunte come riferimento. Nei primi decenni del secolo, prima dell’avvento del Movimento Moderno, una breve stagione di sperimentazione caratterizza alcuni significativi episodi della storia del giardino europeo. In Austria e Germania si trovano esempi di giardini Jugend­stil, che, se da un lato traducono in forma vegetale i motivi decorativi organici e geometrici di questa corrente artistica, dall’altro ne scandiscono gli aspetti funzionali in un preciso impianto formale. Questo suddivideva il giardino in zone estetiche e in zone funzionali, dove alberi e siepi, muri e terrazze, aiuole e bersò, diventano gli elementi chiamati a comporre la geometria complessiva e a declinarne le diverse caratteristiche. Autori come F. Lebitsch, e J. Lepelmann, A. Lilienfein e architetti protagonisti della Secessione viennese quali J. Hoffmann (i giardini geometrici per Palazzo Stoclet a Bruxelles, 1905-11) e J.M. Olbrich per il giardino della sua casa a Darm­stadt (1901), privilegiano impianti fortemente geometrici con filari arborei o siepi allineate chiamati a segnare prospettive e percorsi e a enfatizzare «l’accentuazione della spazialità, ottenuta tanto utilizzando le piante quanto esaltando con mezzi architettonici i dislivelli, [anche per] fare apparire più grandi e più ampi giardini spesso molto piccoli»23. In Francia il rapporto giardino/arti figurative si esprime nei primi decenni del secolo in una serie di sperimentazioni che vanno dai giardini privati alle installazioni

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26. Joseph Maria Olbrich, progetto per il giardino della sua casa a Darmstadt, 1901. 24. Franz Lebitsch, giardino, 1909. 25. Franz Lebitsch, giardino, 1906-1907.

27. Albert Lilienfein, giardino per una villa a Stoccarda, 1908. 28. Paul Vera, giardino al sole, 1919.

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temporanee. Il tentativo di delineare una nuova estetica dei giardini, in sintonia con le nuove idee espresse in campo artistico, trova un primo protagonista in André Vera, critico sia rispetto al revival storicista dei Duchêne, sia verso i jardins paysagères per la loro imitazione artificiale della natura. Vera è autore dei volumi Le Nouveau Jardin (1912) e Les Jardins (1919), nei quali sostiene la necessità di adeguare il disegno dei giardini alle leggi della matematica e della geometria, con l’ausilio della sezione aurea e di figure semplici come il quadrato e il triangolo. Nel suo Jardin au soleil (1919), esplicita i caratteri del nuovo giardino architettonico dall’impianto geometrico ad assi ortogonali, dove siepi, aiuole e alberature sottolineano allineamenti e forme pure della composizione d’insieme. Nel giardino realizzato nel 1920 per la propria casa a Saint-Germain-en-Laye, André Vera collabora con il fratello Paul operando una sintesi compositiva di conciliazione tra classicismo e modernità. Nella rigida simmetria del disegno generale, il giardino si propone come versione geometrica dell’ambiente naturale, dove la natura, secondo l’antica pratica dell’ars topiaria, è scolpita e modellata in forme immediatamente comprensibili, codificate in elementi controllati e geometrici. Emerge l’uso quasi pittorico della vegetazione, con colori tenui usati come su una tela dipinta e l’impiego di materiali contemporanei come il cemento armato. Indicazioni che esprime anche Albert Laprade nei suoi giardini art déco, nell’accostamento di masse vegetali monocromatiche poste in contrasto e nell’alternanza di aiuole fiorite dai colori pastello, organizzate in parterres geometrici che esaltano la purezza delle linee d’insieme. Con altre soluzioni compositive, si riconduce alla pittura quale riferimento l’intera opera della scrittrice inglese Gertrude Jekyll (1843-1932), che nel suo Color Scheme for the

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29. Albert Laprade, parterre vegetale geometrico, 1925.

31. Geoffrey Jellicoe, il viale dei tassi nei giardini di Sutton Place, 1980.

30. André e Paul Vera, La Thébaïde, Saint-Germain-en-Laye, 1920 ca.

32. Geoffrey Jellicoe, Magritte walk nei giardini di Sutton Place, 1980.

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33. Geoffrey Jellicoe, il canale formale nei giardini di Shute House, 1968-1994. 34. Geoffrey Jellicoe, progetto di Shute House, 1988.

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flower garden (Londra, 1910) delinea quel modo di dipingere i giardini con l’alternanza di aiuole di diversi colori e profumi, il cosiddetto colour border, che traduce la lezione di William Robinson nel considerare i fiori e in genere le specie botaniche al centro dell’attenzione rispetto ad ogni discorso geometrico astratto, nell’ambito di una diretta continuità tra natura, paesaggio e giardino. Complessa e variegata dal punto di vista delle tematiche affrontate appare la vicenda di Geoffrey Jellicoe (1900-1996), protagonista della scena dell’arte dei giardini del xx secolo. La sua opera unisce ad una notevole carica simbolica la convinzione della preservazione della continuità storica dei siti in cui ci ritrova ad operare. La sistemazione dei giardini di Sutton Place (1980) nel Surrey in Inghilterra, realizzata alla fine della sua carriera, ma che può essere assunta come summa programmatica del suo procedere progettuale, si affianca all’ascolto della storia del luogo e della storia dei giardini, rivisitata senza cadere nella pratica revival, «un notevole simbolismo, [mentre] la progressione dall’una all’altra zona rappresenta un’allegoria dell’esistenza umana: la creazione, la vita, l’aspirazione suprema»24. Alla corrente figurativa francese che scuote nei primi decenni del secolo l’arte dei giardini si riconduce anche l’architetto art déco Robert Mallet-Stevens25, che già nel 1914 nel suo giardino per la villa Les Roses Rouges a Deauville (1914), nella personale rilettura della lezione viennese, alla geometria quadrangolare dell’impianto con vasca centrale ribassata unisce una ricca sequenza di materiali inusitati nella costruzione di spazi verdi, forse più appropriati a fare del giardino un salone all’aria aperta, naturale spazio complementare a quelli della villa.

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Attorno al quadrato del bacino d’acqua, una cornice di lastre di vetro con inserti di mosaico dorato segna il bordo della vasca prima di trovare un chemin dallé formato da una pavimentazione a scacchi bianchi e neri. Agli angoli dei declivi erbosi di contorno, quattro blocchi geometrici di siepi sempreverdi segnano lo spazio, configurandosi come dei massicci pilastri architettonici vegetali. Arrivati al percorso superiore, cintato da pareti geometriche di rose rosse che sottolineano il carattere di spazio geometrico compiuto del piccolo Jardin d’Avant-Garde, alcune panchine bianche dall’ampio schienale semicircolare si affiancano sui quattro lati all’esedra centrale, dove è collocata una statua di porcellana nera, bianca e oro, posta in asse all’accesso principale. Queste prime ricerche formali, cui si aggiungono quelle degli esponenti dell’Atelier Français de Süe, trovano il proprio momento di sintesi nell’esposizione L’Art du Jardin, allestita nel 1913 a Parigi. Rispetto a tali nuove espressioni, l’opera nel settore privato di Achille Duchêne sembra assorbire il sapore della geometria, coniugando l’ascolto dell’opera di Le Nôtre con il nuovo linguaggio del giardino architettonico. Nel Jardin de demain (1927) pensato per una famiglia di artisti, la modernità espressa dal tetto-eliporto della villa si unisce al di37

35 e 36. Robert Mallet-Stevens, prospettiva e pianta del giardino Les Roses Rouges, Deauville, 1914.

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37. Achille Duchêne, giardino per una scuola materna, 1935 ca. 38. Achille Duchêne, Jardin de demain per una famiglia di artisti, prospettiva a volo d’uccello, 1927. 38

39. Gabriel Guevrekian, Jardin d’eau et de lumière, acquerello, Parigi 1925.

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segno del giardino composto da un vasto parterre in asse all’architettura, segnato da un lungo specchio d’acqua centrale e concluso da una quinta di doppi archi, a sostenere una fitta sequenza di rose che introduce a un teatro di verzura, memoria del giardino all’italiana. Due lunghe pergole di rose affiancate da filari di cipressi separano lo spazio centrale dalle altre stanze del giardino: quelle per il riposo e quelle dedicate all’orto. Tra i Jardins de l’avenir, così come Duchêne intitola il suo libro del 1935, si trova anche il giardino di una scuola moderna per l’educazione dei fanciulli. Anche qui il tema del teatro di verzura, declinato in chiave déco, diventa un elemento centrale della composizione geometrica dell’insieme. Ma è solo nell’Exposition des Arts Décoratifs parigina del 1925 che il giardino si trasforma effettivamente in opera d’arte totale. Il Jardin d’eau et de lumière, disegnato dal giovane emigrato armeno Gabriel Guevrekian (formatosi presso lo studio di Josef Hoffmann e ai tempi dell’Esposizione collaboratore di Mallet-Stevens), si pone come un riferimento obbligato della storia del giardino moderno, precursore di molte espressioni contemporanee che nell’aspetto polimaterico trovano una delle caratteristiche guida. Definito dalla stampa «Giardino Persiano», quello di Guevrekian avrebbe potuto essere meglio descritto come cubista. Non praticabile ma contemplativo e di forma triangolare, il giardino racchiuso su due lati da una recinzione a triangoli sovrapposti e aperto verso il passaggio del pubblico con una vasca di cemento armato della stessa forma, suddivisa in diverse porzioni colorate di rosso e blu con una sfera poliedrica di specchi e vetro colorati, «rappresenta-

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va il primo tentativo di elevare l’estetica della progettazione dei giardini a livello della pittura moderna. [...] una specie di dipinto cubista in rilievo, una tela di terra, fiori e acqua che l’artista aveva appiattito, geometrizzato, scomposto e reso più luminoso possibile»26. Nella stessa occasione Robert Mallet-Stevens disegnava il famoso giardino Jean Goujon sull’esplanade des Invalides. Qui, all’interno di un impianto sostanzialmente convenzionale con aiuole simmetriche modellate in forma geometrica poste a livello inferiore a quello dei percorsi, e connesse ai bordi perimetrali costituiti da siepi regolari con leggeri piani inclinati e porzioni in quota, Mallet-Stevens, con la collaborazione degli scultori Jan e Joël Martel, costruisce quattro alberi di cemento armato con tronco cruciforme e lastre inclinate a evocare la chioma e il fogliame. È lo stesso architetto ad affermare il carattere architettonico della sua installazione: «la siepe o il bosso, tagliati e lavorati in modo che acquisiscano una silhouette e un volume prestabiliti non si avvicinano alla natura più di un albero di cemento. L’arte dei giardini sta per entrare in una nuova fase; non poteva precedere l’architettura, ma ora essa è sufficientemente affermata perché abbia origine anche un nuovo giardino»27. Salutati dai futuristi italiani che ne rivendicano addirittura la paternità (di quel periodo sono i futurfiori di Giacomo Balla, composti da superfici policrome di legno cui la composizione in lastre degli alberi di cemento parigini sembra in parte ricondursi), descritti come virtuosismi da stramberia dal critico Roberto Papini, gli alberi dell’installazione a cura di Mallet-Stevens non ebbero sviluppo in realizzazioni successive. Sarà invece Guevrekian a proseguire

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40. Robert Mallet-Stevens, giardino Jean Goujon all’Exposition des Arts Décoratifs, Parigi, 1925. 41. Pierre-Émile Legrain, giardino per Jeanne e André Tachard, planimetria, Parigi, 1924.

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42 e 43. Gabriel Guevrekian, il giardino di villa Noailles a Hyères, 1928: veduta fotografica dall’alto e prospettiva.

il discorso del giardino moderno seguito da alcune proposte astrattiste di Pierre-Émile Legrain. Nel 1925 Guevrekian è chiamato a disegnare il giardino per la villa del visconte Charles de Noailles, mecenate d’arte moderna, progettata da Mallet-Stevens sulla penisola di Giens nei pressi di Hyères, a sud della Francia. Anche qui il giardino è di forma triangolare, geometria che questa volta è imposta dalle condizioni oggettive in cui operare; e anche in questo caso la tensione verso lo sforzo di una composizione scandita da forme geometriche ben riconoscibili e scomposte, si unisce all’impiego di materiali inconsueti nell’ambito della costruzione del verde, così come anche Antoni Gaudí aveva proposto a Barcellona nel Parco Güell (1900-1914). Naturale e artificiale diventano un tutt’uno: «la ripetuta sottolineatura dell’uso di materiali non naturali implica un superamento della contrapposizione fra giardino-predominio della natura e città-predominio delle pietre, ovvero dell’aforisma secondo cui Dio ha creato il giardino. Caino prima la città. Si passa, cioè dalla distinzione tra natura ed artificio alla sua sostanziale non distinguibilità, affermata, anzi, provocatoriamente, dall’assunzione del linguaggio della città come linguaggio del giardino»28. E alla città, in chiave di rifiuto programmatico o di accettazione rifondativa, si riconducono i complessi rapporti tra giardino e Movimento Moderno, declinati secondo diverse espressioni e valori dai suoi protagonisti.

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Movimento Moderno, verde e città, parco e giardino Consapevoli della necessaria semplificazione che meriterebbe forse un capitolo a parte, fra i protagonisti della cultura architettonica del Movimento Moderno due sono le figure che meglio rappresentano e sintetizzano le opposte visioni dell’idea del giardino, nell’ottica di un inquadramento del ruolo del verde rispetto alla città: Frank Lloyd Wright (1867-1959) e Charles-Edouard Jeanneret-Gris, in arte Le Corbusier (18871965). In generale, nelle opere degli architetti del Movimento Moderno il verde appare come sfondo indifferenziato, data la prevalenza gerarchica del valore dell’edificato, o come natura esterna da osservare dagli interni delle nuove costruzioni, inquadrata come una sequenza cinematografica dalle lunghe continue finestre a nastro, nel rapporto tra nuove geometrie dell’abitare e paesaggio naturale assunto come territorio non modificato a livello progettuale. Ma nell’idea di città, nel rifiuto della condizione urbana da parte di Wright e nella rifondazione della città moderna da parte di Le Corbusier, si possono trovare indicazioni e idee sul valore del verde, del parco e del giardino, che rimangono tracciate nella storia sino ad oggi. Come si è visto nel capitolo precedente, nell’America degli anni ’20 ancora convivono le due parti del paese contrapposte, città e campagna, ma il mito agrario della terra, come elemento trainante e fondamento jeffersoniano della democrazia, diventerà lo strumento operativo in grado di combattere la condizione urbana, assunta come specchio e fucina dei mali della società. In tale contesto, all’interno

44. Frank Lloyd Wright, il complesso di Taliesin, Spring Green, Wisconsin,1932.

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45. Frank Lloyd Wright, Broadacre City, fotografia zenitale del plastico, 1934-35.

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dello scontro tra quella parte di società proibizionista-protestante-rurale e quella cattolica-antiproibizionista-urbana, nell’ascolto della lezione di Ralph Borsodi29, al limite tra il pionieristico e l’utopico, occorre collocare l’opera di Frank Lloyd Wright, per comprendere il rapporto tra architettura, verde e giardino (inteso come paesaggio in senso lato, dalla foresta al deserto), nell’ambito di un sostanziale rifiuto della città a favore di un ideale di vita raggiungibile attraverso il ritorno alla terra e alla home-production. Già nelle esperienze iniziali a Oak Park, il sobborgo residenziale di Chicago calato nel verde e distaccato dalla città, Wright esprime la prospettiva antiurbana della sua ricerca architettonica, che stabilisce con la natura un rapporto diretto, romantico e sentimentale, fisico e complementare. Le case progettate a Oak Park rivelano una predilezione per il natural, nella creazione al loro intorno di parchi e giardini (specchio anche della leisure class cui appartengono), e denunciano indirettamente una sostanziale indifferenza al farsi della città, tra cui le vicende della Fiera Colombiana del 1893 a cui Wright è volutamente estraneo. Ma è nella serialità delle esperienze di Taliesin (1911), la residenza studio che Wright costruisce nel Wisconsin al ritorno dall’Europa, e poi nel progetto programmatico di Broadacre City (1934-35), intervallato da episodi significativi come Ocotillo Camp (1927) e Taliesin West (1938) costruiti nel deserto dell’Arizona, che si coglie come «la salvezza, una volta che il messaggio agrario fallisce anche a livello della residenza urbana, è solo nella costruzione di un rifugio che racchiuda in sé lo spirito della Monticello di Jefferson e del Walden di Thoreau, della Con-

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cord di Emerson e della wilderness di Whitman»30. La rinuncia alla città di Wright si esprime chiaramente a livello teorico e progettuale con Taliesin; ma se il rifiuto della condizione urbana è il presupposto per ricominciare da zero, all’idea di città possibile Wright non rinuncia, coniugando nel modello di Broad­acre mito agrario e forma urbana, architettura e natura, e continuando in ogni modo a costruire e a progettare edifici destinati alla stessa città che combatte. La testimonianza di Wright relativa all’esperienza di Taliesin ci restituisce l’idea del rapporto tra forma costruita e ambiente naturale che il maestro americano intende sviluppare: «Doveva esservi una casa naturale, non naturale come lo erano le caverne e le capanne di tronchi, ma autoctona nello spirito e nella costruzione. [...] Era ancora una fede molto giovanile quella che intraprese la costruzione della casa. Era però la stessa fede che trapianta radici per fare frutteti, che mette a dimora talee per fare vigneti e virgulti destinati a divenire alberi prodighi di ombra benefica. Vedevo la sommità della collina, alle spalle della casa, come una sola massa di meli in fiore, il cui profumo sarebbe sceso fino alla valle, e poi i rami chini verso il suolo con i pomi rossi, bianchi e gialli che rendono il melo non meno meraviglioso dell’arancio»31. Per Wright, il verde e il giardino della casa sono in realtà paesaggio coltivato e na-

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47. Le Corbusier, l’asilo infantile sul tetto-terrazza dell’Unité d’Habitation a Marsiglia, 1946.

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46. Frank Lloyd Wright, The Living City, 1958, rielaborazione di Broadacre City.

48. Le Corbusier, tetto-terrazza dell’appartamento Beistegui, Parigi, 1930.

turale che circonda l’architettura; così come il deserto diventerà nelle esperienze in Arizona una sorta di giardino idealizzato, luogo della natura americana incontaminata allo stato puro, in cui «sta nascendo una umana gaiezza». Da Ocotillo Camp a Taliesin West emerge lo spirito del pioniere che nell’occupare un territorio arido lo trasforma in giardino – così come farà Paolo Soleri dalla metà degli anni ’50 a oggi con la Cosanti Foundation e con la costruzione della città sperimentale di Arcosanti (dal 1970) – in un recupero della natura che diventa programma comunitario autonomo, la cui compiuta sintesi troverà espressione progettuale in Broadacre. All’inizio degli anni ’30, in un periodo di programmi statali di riassetto territoriale, di sviluppo della politica della casa e di provvedimenti in favore dei contadini, Wright inizia a definire l’idea di Broadacre City; sorta di ritorno fondativo alla città come concreta risposta ai problemi dell’America urbana e agricola, progetto di insediamento sostanzialmente impostato sulla ipotesi jeffersoniana di autogoverno. Al di là della soluzione del disegno urbano, delle gerarchie di strade e spazi verdi, del recupero della griglia ortogonale distribuita a scala regionale in grado di creare la continuità tra lotto urbano e paesaggio agrario dove trova spazio anche il segno sinuoso dell’elemento naturale (il fiume, la collina), ciò che qui occorre sottolineare è lo sforzo di Wright di proporre il paesaggio agreste come luogo di salvezza, nel recupero della naturalità del territorio dell’uomo rispetto alla città del capitale. Ma se per Thoreau la natura selvaggia poteva essere vissuta e compresa solo vivendo isolati dal mondo in una capanna sulle rive del lago, nella visione della nuova città di Wright la wilderness è recuperata e proposta in chiave di landarchitecture con l’ausilio della tecnologia più avanzata e futuribile32. Allora non è più l’alienato abitante della città che ricerca la sua ragione d’esistenza nella natura – così come indicava Thoreau e come lo stesso Wright aveva attuato nel suo studio-rifugio di Taliesin – ma è colui che vive nella campagna, nella natura mitizzata, che troverà in Broadacre i vantaggi della nuova idea di città che alla natura e a una moderna visione di società agraria vuole rivolgersi in chiave fondativa. Ma il grande modello del progetto corredato da disegni e prospettive seducenti e presentato al pubblico nel 1935 al Rocke­feller Center di New York, proprio nel cuore della città che Wright rifiuta (anche se non disdegnerà poi di costruirvi il Museo Guggenheim, 1943-1959), rivela la figura di un architetto intellettuale ormai legato ai sogni dei conservatori agrari, chiuso rispetto alle istanze progressiste del New Deal e ancorato a un’idea sostanzialmente tardoromantica e pioneristica dell’uso e dell’interpretazione del paesaggio e del territorio. Diversa, più innovativa e strettamente legata all’idea di rifondazione della città contemporanea, appare la posizione di Le Corbusier rispetto al rapporto verde/architettura. Nella sua opera Corbusier oscilla, con continui sinergici rimandi, tra il ruolo del verde quale componente urbana e territoriale, e aspetto innovativo del giardino legato specificatamente all’idea di spazio domestico. Nei famosi cinque punti dell’architettura moderna, il piano pilotis, la proposta della fenêtre en longuer e la soluzione del toit-jardin, rimangono dei capisaldi nella costruzione della modernità del verde nella città contemporanea. Il portico pilotis, liberando la base degli edifici permetteva la continuità visiva e di percorso,dei giardini e del verde circostante; la finestra a nastro consentiva di incorniciare il paesaggio, incorporandolo dal punto di vista estetico nel progetto architettonico33. Infine il tetto-giardino, riprendendo l’antico giardino pensile, ne trasforma il ruolo funzionale in sorta di piano cosmologico della casa, con il cielo al posto del soffitto e il tetto piano che funge da pavimento. Il tetto giardino moltiplica il rapporto naturale/artificiale e quello tra interno/esterno caricandosi di valori scultorei e a volte surrealistici. È il caso per esempio del tetto dell’Unité d’Habitation a Marsiglia (1946), con un giardino di cemento scandito da forme e funzioni collettive (macroggetti a réaction poétique) che incornicia l’orizzonte; e ancor più, in dimensione privata e più artistica, dell’attico dell’appartamento Beistegui (1931) affacciato sugli Champs Elysèes parigini. Qui, come è stato osservato da Kenneth Frampton, il tetto-terrazza diventa uno «spazio alchemico cosmologico nel quale il

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soffitto è il cielo e il tetto è la terra, appropriamente coperta da un tappeto erboso». Sorta di acropoli privata calata nella capitale francese, la stanza-terrazza cinta da un muro bianco che ritaglia i quattro punti dell’orizzonte, attira verso di sé il paesaggio circostante dove le parti terminali dell’Arco di Trionfo, della collina del Sacro Cuore e della Tour Eiffel, isolati dal tessuto urbano tramite la linea continua del muro perimetrale, si trasformano in objets trouvés all’interno delle associazioni compositive d’insieme. «I confini fra architettura e paesaggio slittano continuamente, rafforzati da spiazzamenti scalari e da manipolazioni surreali che trasformano gli esterni in interni (la presenza per esempio del falso caminetto rococò, [dello specchio circolare che sopra il caminetto sborda dal muro di confine, dei soprammobili domestici, del falso trumeau di cemento e del tappeto erboso sintetico con margherite]), sostituiscono l’artificiale con il naturale, modificano funzione e dimensione degli elementi inquadrati, non più fondali di rappresentanza, ma veri e propri componenti architettonici di uno spazio articolato e complesso ai limiti di un gioco paradossale e pirotecnico»34. È alla scala del progetto urbanistico che Le Corbusier nel 1922, all’età di soli trentacinque anni, esprime in modo programmatico-provocatorio il rapporto tra verde e architettura declinato in una nuova città di fondazione. Il progetto di Une Ville contemporaine, pensata per tre milioni di abitanti, unisce al reticolo geometrico del suo impianto ultrarazionale il segno paesaggistico di un grande parco urbano pensato come porta di accesso alla città; «entriamo attraverso il giardino all’inglese. L’auto veloce percorre la pista sopraelevata: suggestiva corsa tra i grattacieli.[...] Si aprono distese di parchi. Edifici bassi e sviluppati in lunghezza guidano l’occhio lontano sino alle sagome mosse degli alberi. [...] Qui sorge il centro pieno di gente, in mezzo all’aria pura e alla pace, e i rumori si attutiscono sotto il fitto fogliame delle piante. La caotica New York è superata. Sorge, nella luce, una città moderna. [...] Dappertutto domina il cielo, che si estende all’infinito. L’orizzonte dei tetti a terrazza ritaglia i piani sfrangiati di verde dei giardini pensili»35. Il sogno urbanistico di Corbusier prosegue nell’equivoco visionario e totalitario del Plan Voisin per Parigi (1925), che cancella con un colpo di spugna metà della città storica, come illustra il famoso fotomontaggio planimetrico zenitale; per poi tornare in chiave di sintesi operativa ne La Ville Radieuse (1935), in cui il verde diffuso, lasciato quasi allo stato spontaneo e non addomesticato, modello antesignano del giardino in movimento di Gilles Clément, è assunto come sfondo indispensabile per lo sviluppo della città moderna. I dati previsti per la nuova città «ispirata dalle leggi naturali e umane, [le cui componenti sono] il sole, il cielo, gli alberi, l’acciaio e il cemento», indicano il 12% di superficie costruita e il restante 88% di aree libere, di cui gran parte destinate a verde, giardini attrezzati e privati, e orti coltivati. Principi poi codificati ne La Charte d’Athènes, apparsa in forma anonima nelle librerie di Parigi nel 1941. Qui, Le Corbusier sintetizza per punti programmatici i principi di una Carta dell’urbanistica messi in evidenza nel congresso del ciam del 1933 tenutosi, per l’appunto, ad Atene. È forse in questo momento che l’idea del verde, dei giardini e dei parchi urbani, perdendo il loro principale carattere compositivo e progettuale, si trasformano in standard necessario, in strumento legato alla cultura delle quantità propria dello zoning, mettendo in secondo piano la necessaria definizione delle specifiche qualità formali chiamate a soddisfare le diverse soluzioni paesaggistiche e a costruire le differenti qualità urbane declinate di luogo in luogo. Per esempio, l’arti-

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49. Le Corbusier, Plan Voisin per la città di Parigi, planimetria con fotomontaggio sul tessuto della città storica, 1925.

50. Le Corbusier, prospettiva urbana di una città contemporanea per tre milioni di abitanti da una terrazza delle torri residenziali, 1922. 51. Le Corbusier, progetto per una città contemporanea per tre milioni di abitanti, planimetria generale, 1922.

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52. Roberto Burle Marx, il giardino della residencia Odette Monteiro, Corrêas, Brasile, 1948 e 1988.

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colo 37 della sezione Dobbiamo Esigere contenuta nella pubblicazione appare chiarificatore da questo punto di vista: «Le aree verdi che saranno intimamente legate ai volumi costruiti e inserite nelle zone residenziali, non avranno soltanto la funzione di abbellire la città. Dovranno anzitutto soddisfare ad una funzione utile, e i loro prati dovranno essere occupati da installazioni di carattere collettivo [...] esse costituiranno il prolungamento dell’abitazione e dovranno essere, come questa, soggette al piano regolatore». Il compito di riportare il parco e il giardino alla loro dimensione progettuale e compositiva, poetica e collettiva, e di aprire la strada alle nuove espressioni del giardino moderno del Novecento e contemporaneo, sarà indicato e svolto in modo autonomo dalla ricerca di tre grandi architetti, paesaggisti e scultori; :l messicano Luis Barragán (19021988), il brasiliano Roberto Burle Marx (1909-1994) e l’americano di padre giapponese Isamu Noguchi (1904-1988). Alla loro opera, scevra da pregiudizi ideologici e aperta alla contaminazione di colori, figure e materiali, va il merito di avere aperto la strada della ricerca e dei linguaggi oggi presenti sulla scena del paesaggismo internazionale. Burle Marx usa macchie di vegetazione come pennellate cromatiche che ascoltano le espressioni delle arti figurative e plastiche (in particolare le opere di Hans Arp), e le fa diventare strumento di costruzione di un metodo che alla scienza botanica unisce la cultura figurativa, perché il giardino sia un elemento complementare e non sussidiario dell’architettura. Barragán nei suoi giardini ricerca l’assoluto attraverso l’uso essenziale di pochi elementi costruiti e segnati da cromatismi squillanti: un muro, un velo d’acqua indirizzato da superfici a geometrie elementari, contrapposti all’intensità di ambienti naturali. Anticipando ogni minimalismo, Barragán configura la possibilità di creare nuovi riferimenti per una nuova idea di giardino architettonico, nel quale la natura si unisce al sapore metafisico di geometrie assolute, tese nella concezione che «il mistero

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55. Luis Barragán, casa per Folke Egerstrom, laghetto dei cavalli, Città del Messico, 1966-68. 56 e 57. Isamu Noguchi, giardino d’acqua, Chase Manhattan Bank, New York, foto dall’alto e planimetria, 1959. 58. Isamu Noguchi, giardino arido, Yale University, New Haven, modello, 1960-64.

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è la cima di un albero dietro un muro» (Barragán). Noguchi, collocandosi in parte nel percorso di Barragán per quanto concerne l’aspetto scultoreo e a volte monomaterico del giardino, sviluppa uno stretto rapporto tra giardino e forma artistica, trasformando il disegno del verde in installazione. A volte contemplativi (come il giardino d’acqua circolare incassato per la Chase Manhattan Bank a New York, 1959), a volte di pietra (il giardino arido interamente costruito in marmo bianco del Vermont, uno spazio-scultura alla Yale University di New Haven, 1960-64), i giardini di Noguchi si rivolgono allo sviluppo del tema natura/artificio risolto a livello materico e figurativo, ricorrendo anche all’impiego di rocce e ghiaia rastrellata di sapore nipponico (come nel giardino per l’Unesco di Parigi, 1956-1958), proiettando la ricerca progettuale in un dialogo tra forme e figure, epoche e culture di diversa origine temporale e geografica.

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53. Roberto Burle Marx, plaza Senador Salgado Filho, aereoporto Santos Dumont a Rio de Janeiro, planimetria a colori, 1938. 54. Roberto Burle Marx, plazoleta largo de Carioca a Rio de Janeiro, 1981 e 1985.

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Verso il nuovo millennio:

il giardino come fatto mondiale

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1. Isamu Noguchi, giardino per l’Unesco a Parigi, 1956-1958, particolare. 1

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2. Luis Barragán, patio di Casa Francisco Gilardi, Chapultepec, Messico, 1976.

La scena offerta dal giardino contemporaneo, che come abbiamo già accennato appare uno dei temi più ricchi di sperimentazione progettuale e di contributi interdisciplinari nel campo del disegno dell’ambiente in senso lato, a un primo approccio potrebbe sembrare caratterizzata da un eclettismo ingovernabile. In realtà esistono delle vettorialità di riferimento che accomunano le molteplici e variegate espressioni legate ai diversi contesti e climi, paesi, storie e tradizioni. «La chiave di lettura per non abbandonarsi al rilievo puro e semplice del gioco delle differenze, oltre al riferimento alla maestria dei grandi paesaggisti del Novecento [Roberto Burle Marx, Luis Barragán, Isamu Noguchi], è da individuare nella drammaticità con cui il problema dell’ambiente è vissuto nella nostra epoca, un fatto nuovo. [...] Le inquietudini sulle implicazioni della ricerca scientifica nel campo dell’ingegneria genetica, le preoccupazioni sul destino ambientale del pianeta e, brevemente, tutto ciò che ha contribuito a costituire una nuova coscienza ambientalista come l’idea dello sviluppo sostenibile, l’angoscia per la scomparsa di specie animali e vegetali, l’inquinamento dell’atmosfera hanno modificato anche il punto di vista estetico sulla natura»1. Se da un lato la consapevolezza ambientale porta a interventi sul paesaggio mirati alla tutela e alla ricostruzione, alla rifondazione di nuovi parchi urbani ed extra-urbani, dall’altro non mancano libere espressioni di contemplazione operativa della natura tradotte in forma paesaggistica e in opere d’arte, che oscillano tra costruzione architettonica e giardino, e tra installazione temporanea o permanente nel solco indicato dalla densa stagione della land art e della earth art statunitensi2. In una condizione di pluralismo paesaggistico, si tratta di cogliere i nuovi scenari estetici e progettuali che possono essere opere a sé, segni privi di fruitori diretti dal punto di vista strettamente funzionale, o spazi verdi aperti all’uso del più vasto pubblico, pensati molte volte come «elementi connettori» di riqualificazione per porzioni di città, vita di quartiere e in alcuni casi come strumenti in grado di attivare pratiche di partecipazione collettiva in cui i cittadini siano coinvolti nella cura del loro giardino pubblico, degli orti dati in gestione ai pensionati3, e di attività didattiche e pratiche sulla botanica offerte agli studenti. Nello scavalcare il suo antico recinto, il giardino contemporaneo suggerisce anzitutto nuove modalità di fruizione, diventando «un medium straordinariamente adatto a rappresentare – in forma diretta, simbolica e allegorica – la sensibilità e le aspirazioni di un’epoca come la nostra»4. Da esempio di esteticità raccolta, il giardino diventa paesaggio, offrendo un’esteticità diffusa in cui al verde progettato si sommano segni, manufatti e tracciati. Un esempio paradigmatico di riferimento è costituito dalla vicenda del Parco della Villette parigino. Oggetto di un concorso di progettazione internazionale (1983) vinto da Bernard Tschumi, il parco doveva essere nell’intenzione

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3. Bernard Tschumi, le Folies al Parco della Villette, Parigi, 1983-1997. 3

della commissione organizzatrice non più il tradizionale polmone di verde calato nel tessuto della città, quanto piuttosto un nuovo fulcro vitale della vita urbana. Quello che si chiedeva era in sostanza di riempirlo di attività tramite un’armonica epifania di associazioni figurative e metamorfosi visive. Nel progetto di Tschumi, nonostante il successo del parco avvenuto negli anni dopo la sua formazione, il verde – e in particolare le alberature ad alto fusto – è paradossalmente minoritario, mentre l’immagine della struttura formale della grande area verde è relegata all’architettura. La qualità spaziale dell’insieme non è da ricercare nell’armonia estetica di una composizione corale, quanto piuttosto nella creazione di una regia tesa alla definizione di un massimo di contrasti, frammenti e artefatti come la serie delle riuscite folies, padiglioni rosso acceso basati sulla scomposizione e ri-composizione di un cubo di riferimento, e posati su una griglia che denuncia un modello tematico semplice. Come afferma Adriaan G ­ euze, uno tra i maggiori paesaggisti della scena olandese e fondatore dello studio West 8 Landscape Architects: «Tschumi si mantiene estraneo a quell’ostilità verso la città che è alla base della creazione della maggior parte dei parchi. Il suo parco non si difende dalla minacciosa vicinanza della screanzata città, non si pone in antitesi con essa, come una verde e isolata oasi. Il suo progetto è una vera e propria ode alla città e ai costruttivisti degli inizi del secolo che, a loro modo, magnificarono la nuova città. Il suo parco tenta di tenersi sullo stesso piano di originalità della città, con tante luci al neon, tanti colori e tante simulazioni di rumori. Ma quante attività può sopportare un parco? Infinite»5. Certo l’esperienza del Parco della Villette appare come un caso estremo ma indicativo per molti esempi successivi e soprattutto per definire nuove metodologie di approccio al disegno del verde, di cui la composita scuola paesaggista francese è senza dubbio tra i maggiori riferimenti in Europa.

Les Promenades de Paris «Tutto il bizzarro dell’uomo, e ciò che in lui di vagabondo e di smarrito, senza dubbio potrebbe riassumersi in queste tre sillabe: giardino». Con queste parole Louis Aragon, poeta e romanziere francese tra i fondatori del movimento Surrealista, apriva il capitolo dedicato agli spazi verdi della città di Parigi descritti ne Le Paysan de

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4-6. Patrick Berger, Gilles Clément, J.-P. Viguier, F.F. Jodry e Alain Provost, Parc André Citroën a Parigi, 1986-1992. Particolare, percorso e veduta dell’interno di una delle serre.

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Paris (1926), sorta di ritratto urbano-letterario della capitale francese. A sottolineare la ricca tradizione dei parchi urbani della città, l’invenzione haussmanniana del Boulevard e la lezione di Jean Charles Adolphe Alphand, ingegnere capo e coordinatore di tutti i lavori per parchi e giardini, aiuole e viali alberati della Parigi ottocentesca, nonché autore del trattato autobiografico Les Promenades de Paris (Parigi, 1867), Aragon prosegue il racconto: «I giardini erigono grandi piante brune che sembrano nel mezzo delle città accampamenti nomadi. Gli uni parlottano sottovoce, altri fumano la pipa in silenzio, altri hanno d’amore pieno il cuore. Alcuni accarezzano bianche muraglie, altri appoggiano i gomiti alla scimunitaggine delle cancellate e farfalle notturne volano tra le cappuccine». Un paesaggio urbano, quello della Parigi di inizio Novecento, che appare così popolato da un eclettico panorama di giardini, ognuno caratterizzato per forma e figura, percorsi ed essenze, prospettive, parterre e storie succedutesi nel tempo, ma ognuno definito indiscutibilmente come spazio compiuto, parte estratta al tessuto urbano dell’intorno. Questa storia, o meglio questo complesso e mutevole intreccio di storie dell’eclettica Parigi verde, continua nel tempo rinnovando giardini storici e creandone di nuovi su aree abbandonate o dismesse, su tracciati ferroviari in disuso, all’interno delle grandi nuove architetture pubbliche (prima fra tutte la Bibliothèque Nationale de France di Dominique Perrault). Il verde e il parco urbano contemporanei sono assunti come parti inscindibili al progetto di architettura nel suo insieme e come strumento indispensabile per le previsioni di riqualificazione e di sviluppo del tessuto costruito nei margini della città. In questo senso: «Il giardino può essere anche inteso quale spazio in grado di offrire occasioni multiple e articolate capaci di soddisfare la necessità di una dimensione intermedia fra l’architettura prodotta e il suo contesto urbano e viceversa: elaborate soluzioni in grado di mettere in relazione tra loro anche gli stessi edifici, sapendo di non poter contare sulla presenza di uno spazio pubblico vero e proprio»6. Nel 1972 la grande fabbrica Citroën, dove si produceva la famosa 2cv e la ds, terminava la produzione e una vasta area urbana della città di Parigi si rendeva così disponibile. La municipalità decise di bandire un concorso internazionale riservato a paesaggisti associati ad architetti (quasi in risposta all’esperienza del Parco della Villette dove l’approccio di tipo architettonico superava dal punto di vista concettuale quello del disegno paesaggistico e botanico), per definire il disegno del nuovo grande parco urbano sviluppato su una superficie di dodici ettari. Questo doveva essere il motore di riqualificazione di un vasto progetto di edificazione dell’intorno, in grado di rilanciare questa parte di città, un territorio dimenticato costretto dal complesso industriale della fabbrica di automobili. Il Parco, aperto sulla Senna e innestato nel cuore del nuovo quartiere, si presenta oggi secondo le idee espresse dai due progetti vincitori ex-aequo (1985) firmati da Patrick Berger e Gilles Clément, da J.-P. Viguier, F.F. J­ odry e Alain Provost. Fatta tabula rasa del tessuto industriale preesistente, il disegno del parco sottolinea la sua natura ex-novo nell’assoluto carattere di forma compiuta, nel disegno dell’impianto complessivo e dei dettagli, che rimarcano la vocazione di insediamento contemporaneo anzitutto nell’assumere la natura come elemento addomesticato, urbanizzato e protetto (ad esempio nelle due grandi serre di cristallo e legno che segnano il confine con la città e la prospettiva finale dalla Senna). Un grande parterre erboso si propone come vuoto centrale, al cui intorno si sviluppano diversi e compositi episodi compositivi e di paesaggio, allegorie e raffigurazioni simboliche dell’universo del giardino. Gilles Clément e Patrick Berger sono gli autori della zona nord del parco, con il giardino bianco che prolunga in forma autonoma e compiuta il disegno del paesaggio e del verde nel tessuto urbano edificato. A loro si devono anche le due grandi serre scenografiche tra cui si sviluppa la piazza dura inclinata segnata dai giochi d’acqua, ulteriore omaggio alla ricca tradizione dei grandi parchi del passato (primo fra tutti quello di Versailles). Il disegno di Clément e Berger si estende poi lungo il lato nord-ovest con i giardini seriali composti da sei piccole serre e da altrettanti canali d’acqua chiamati a caratterizzare i giardini tematici, sorta di serie di qualifi-

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cate stanze verdi en plein air dove sostare e appartarsi, in una dimensione opposta a quella del grande spazio del parterre, proponendo così dei luoghi più privati rispetto al carattere pubblico e aperto dello spazio centrale prospiciente. Viguier e Jodry sono invece i responsabili del settore sud che parte dal giardino nero, una piazza verde segnata da una fitta cortina edilizia che funge da efficace foyer del parco. Loro è il disegno del doppio canale laterale a diversi livelli, con le piccole torri architettoniche di collegamento, serie di belvedere da cui osservare il paesaggio, e segnali riconoscibili a livello urbano, per concludersi con la piccola cascata limitrofa al giardino di rocce affacciato sulla Senna. Tra microcosmo e macrocosmo, il progetto del Parco Citroën gioca su diversi insiemi e territori, tra differenti dimensioni ed essenze, delineando quattro settori di riferimento corrispondenti ai principi concettuali di natura e movimento, architettura e artificio. È in questa occasione che il paesaggista francese Gilles Clément sperimenta su scala urbana e pubblica la teoria del giardino in movimento già condotta nell’arco di sette anni nel suo giardino-laboratorio La Vallée a La Creuse. «Il giardino in movimento interpreta e sviluppa le energie presenti sul luogo e tenta di lavorare il più possibile insieme, e il meno possibile contro, alla natura. Deve il suo nome al movimento fisico delle specie vegetali sul terreno, che il giardiniere interpreta alla propria maniera. [...] Il giardino in movimento raccomanda di rispettare le specie che si insediano in modo autonomo. Questi principi stravolgono la concezione formale del giardino, che in questo caso, si trova totalmente affidato 6

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7. Gilles Clément, il giardino in movimento di La Valleé a La Creuse, Francia, 1977. 8 e 9. Marilène Ferrand, Jean Pierre Feugas, Bernard Huet, Ian Lecaisne, Bernard Leroy e Philippe Raguin, Parc de Bercy, Parigi, 1993-1997. Veduta dei nuovi percorsi all’interno delle alberature storiche conservate, e colonnato verde sullo specchio d’acqua.

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alle mani del giardiniere. Il disegno del giardino, che cambia continuamente, è il risultato del lavoro di chi lo mantiene e non di un’idea elaborata al tavolo da disegno»7. Dal lato opposto della città rispetto al Parc André Citroën, parte fondamentale dell’operazione urbanistico-edilizia d’iniziativa pubblica (zac Bercy) e tra i tasselli primari di un grande piano di riqualificazione urbana dell’area est della città, il Parco di Bercy si confronta necessariamente con le preesistenze ambientali e arboree trovate sull’area che nell’Ottocento era famosa per il commercio di vini e liquori, costituendo quasi un villaggio autonomo all’interno della città. Il progetto vincitore del Concorso nel 1987, firmato da Marilène Ferrand, Jean Pierre Feugas, Bernard Huet, Ian Lecaisne, Bernard Leroy e Philippe Raguin, si caratterizza per l’attenzione rivolta all’ascolto del luogo, alla storia del sito e alla morfologia di questo brano di città. Attraverso un calibrato e creativo gioco di memorie, i progettisti hanno ridisegnato l’impianto del verde mantenendo le grandi alberature storiche ad alto fusto, reinventando percorsi, prospettive e nuovi bastioni alberati, tradotti nella passeggiata sopraelevata alberata lungo la Senna che funge da schermo per il rumore della strada veloce e trafficata che corre lungo il fiume. Seguendo la filosofia progettuale di scrivere sul già scritto, il parco è caratterizzato da tre settori, sequenze spaziali e funzionali tra loro collegate da un’unica attenta regia, ma dal carattere compositivo differente. La prima parte del parco, alle spalle del grande edificio del Palais Omnisport e affiancato su un lato dall’American Center di Frank Gehry, dall’altro lato del bastione alberato che defi-

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nisce il nuovo fronte sulla Senna, si propone come ampio parterre erboso segnato dalle antiche alberature e da leggeri gazebi e pergolati. Il secondo episodio, centrale al parco, rappresenta la memoria storica dei giardini delle vecchie residenze aristocratiche della piana di Bercy: il giardino delle spezie, il roseto, il labirinto, il giardino degli odori, le vigne e il frutteto, sono gli elementi compositivi organizzati intorno al canale centrale per comporre un efficace collage paesaggistico e un riuscito percorso narrativo. Al di là della rue Dijon che taglia in modo trasversale il parco, dopo due scavalcamenti pedonali di collegamento, si sviluppa la terza parte conclusiva dell’impianto verde. Qui si esprime la poetica del giardino romantico tradotta in chiave contemporanea, ma lontana da ogni facile revival; sul fondo il canale centrale si trasforma in uno specchio d’acqua circolare dove, su un’isola centrale, galleggia un’antica costruzione rurale restaurata (la casa del lago). Intorno si sviluppano alcune figure chiave della grammatica paesaggistica romantica: la piccola collina, l’anfiteatro, la vallata, il Giardino del Filosofo e il Belvedere, che trova alle sue spalle la fermata della moderna linea metropolitana Metéor. Sull’altra sponda della Senna troneggia la monumentale Bibliothèque Nationale de France, opera di Dominique Perrault, vincitore del concorso internazionale. Qui il giardino, o meglio il verde, definito in collaborazione con Gaëlle Lauriot-Prevost, è assunto come parte compositiva dell’edificio. L’atteggiamento è quello di considerare il verde come natura selvaggia, come fiera e animale da osservare e da mettere in gabbia come negli zoo del passato. Così, salendo la scalinata di legno che porta alla grande piattaforma di accesso alla biblioteca, incontriamo delle siepi contenute in gabbie di rete metallica regolare, setti murari a composizione vegetale che segnano un primo confine verso la città e fungono da filtro tra interno ed esterno. Ma è la scoperta della grande corte centrale, contenuta tra le quattro torri a libro angolari, che stupisce il visitatore per intensità poetica e forza compositiva: nello spazio rettangolare regolare della corte è stato ricostruito un brano di foresta delle Alpi francesi con pini silvestri che svettano verso l’alto, secondo una disposizione che simula perfettamente l’irregolarità del bosco naturale. Come una fiera selvaggia, la foresta trasposta nel contesto urbano è solo da osservare e non da percorrere, sottolineando così il valore simbolico del verde contrapposto per forza e intensità all’architettura che lo accoglie. Questa sorta di azione surreale, di sostanziale indifferenza per il suo intorno da cui vuole staccarsi per carattere e funzione, respinge l’idea di spazio aperto pubblico, proponendosi piuttosto come una presenza volutamente distonica. All’idea di contrappunto paesaggistico si riconduce in altra forma il progetto di Gilles Clément per l’isola vegetale autonoma del Parco Henri Matisse a Lille, sopra la stazione del tgv (1989-1992). L’isola Derborence costituisce il fulcro: si tratta di un altopiano artificiale sospeso a sette metri rispetto al parco che la accoglie che si estende per circa 3.500 mq. Il suo profilo segue quello dell’isola di Antipodi in Nuova Zelanda (agli antipodi di Lille), mentre il suo nome riprende quello di una famosa foresta svizzera conservata come oasi naturale integrale. Difatti, l’isola artificiale, che

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10. Dominique Perrault e Gaëlle Lauriot-Prevost, il giardino selvaggio e contemplativo all’interno della Bibliothèque Nationale de France, Parigi, 1989-1995. 11 e 12. Gilles Clément, l’isola vegetale nel Parco Henri Matisse a Lille, Francia, 1989-1992.

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13. Christine Dalnoky e Michel Desvigne, parco urbano sulle rive della Théols a Issoudon-Indre, Francia, 1992-1994. Veduta dal fiume del giardino di ireos.

ricopre i resti del cantiere di Eurolille, non è accessibile al pubblico ed è visitata due volte l’anno da un giardiniere incaricato che osserva e registra i mutamenti limitando gli interventi al minimo indispensabile. Su questo spazio vergine, calato magicamente nel centro urbano, dopo un’iniziale piantumazione fondativa, la vegetazione si è sviluppata in modo spontaneo secondo i principi del giardino in movimento di Clément. Sempre in Francia occorre ricordare l’opera dei paesaggisti Michel Desvigne e Chris­ tine Dalnoky, che dal parco pubblico, dal paesaggio delle infrastrutture (autostrade e ferrovia), e dalla scala territoriale svincolano il disegno del verde dall’imitazione della natura. «Noi non vogliamo imitare la natura. Ciò che più ci affascina sono quei siti le cui continue e spettacolari trasformazioni eludono la rappresentazione cartografica: lagune, delta, dune, argini, burroni. La loro è una bellezza di ordine matematico: la forma vi è espressione diretta di una legge. Una duna è bella per l’intimo legame che intrattiene con le leggi della termodinamica, della turbolenza dell’aria e del vento. Qualsiasi tentativo di riprodurre tali forme sarebbe inevitabilmente riduttivo: immobilizzate, private dei propri meccanismi, esse finirebbero per riferirsi soltanto alla pura astrazione, e morirebbero. La nostra scelta consiste pertanto nell’ideare dei dispositivi che catturando, miniaturizzando ed esacerbando i fenomeni naturali, fabbrichino quelle stesse forme che non vogliamo imitare»8. Nei loro progetti, come il parco urbano a Issoudon-Indre (1997) che segue le antiche tracce della parcellizzazione del terreno, nelle sistemazioni del verde all’intorno della fabbrica Thomson di Renzo Piano e della stazione del tgv di Avignone, solo per citarne alcuni, i giardini – come tema concettuale oltre che spazi fisici – «costituiscono terreni di sperimentazione: sono laboratori per la progettazione, per così dire in vitro, di un pezzo di territorio, ma anche e soprattutto laboratori mobili, immersi in un paesaggio stesso. Questi prototipi sono le nostre tracce, i segni, che costruiamo in un paesaggio che ci sfugge»9.

Urban ready-made Viadotti ferroviari abbandonati, canali d’acqua sotterrati e rimessi in luce, fabbriche siderurgiche trasformate in parchi pubblici attrezzati: da Parigi a New York, da Seoul alla Ruhr in Germania, si assiste a una serie di esperienze progettuali che configurano nuovi percorsi di riferimento per la riqualificazione della città e del ter-

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Nella pagina seguente: 14 e 15. Patrick Berger, Philippe Mathieux, Jacques Vergely e altri, progetto di riqualificazione e sistemazione a giardino pubblico pensile del Viaduc Daumesnil presso Place de la Bastille, Parigi, 1996. Veduta degli archi del viadotto trasformati in spazi commerciali e del giardino pensile ricavato sulla sede dei binari.

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ritorio del nuovo millennio. La reinvenzione del manufatto urbano e la reinterpretazione di tracce e segni storici del paesaggio, diventano i caposaldi per nuove funzioni collettive che a volte stravolgono quelle originarie delineando le nuove potenzialità del giardino contemporaneo. Se i grandi progetti internazionali prevedono come di consueto necessarie demolizioni di parti di città, cancellando presenze storiche e memorie architettoniche per l’arrivo di nuove figure abitabili, alla tradizionale pratica della demolizione-ricostruzione si affianca da sempre quella della riqualificazione del manufatto urbano. Architetture e intere zone di città sono reinventate dal punto di vista funzionale con una sostanziale conservazione dell’impianto esistente che accoglie ampie riconversioni e nuove addizioni; molti sono i casi di recupero di zone portuali (i Docks di Londra, i Piers di San Francisco), innumerevoli le trasformazioni di fabbriche dismesse chiamate ad accogliere abitazioni, uffici e gallerie d’arte (dai singoli loft newyorkesi a intere strutture urbane), ma queste operazioni immobiliari hanno sempre riconfermato nella sostanza il carattere originario dell’edificio, la sua funzione produttiva/abitativa proiettandosi a volte verso la missione museale ed espositiva. Una serie di esempi contemporanei sembra invece reinventare in modo radicale la dimensione funzionale di manufatti urbani accolti come objets trouvés, e riproposti in una nuova soluzione paesaggistica e formale che sembra volere scrivere un nuovo capitolo dell’arte dei giardini. Alla fine degli anni ’90, a Parigi un gruppo di paesaggisti e architetti (Patrick Berger, Philippe Mathieux, Jacques Vergely e altri) progettò la riqualificazione del Viaduc Daumesnil nei pressi di Place de la Bastille. Il progetto consisteva nella conservazione e riqualificazione di un viadotto ferroviario, sospeso su una massicciata di mattoni scolpita da grandi arcate che dal Boulevard Périferique si snodava verso il centro, all’interno del tessuto ottocentesco e dei nuovi quartieri residenziali di Chalon e Reully, e che, andato in disuso, rischiava di essere demolito. Per la monumentalità della figura originaria, esempio illustre dell’architettura dei trasporti del xix secolo, e forse per il valore affettivo del manufatto urbano, si riuscì tramite un concorso di idee a conservare l’ingombrante presenza dell’infrastruttura oggetto di una radicale trasformazione, assunta poi come esempio di riferimento dalla cultura architettonica internazionale. Sgombrata la strada sospesa dagli antichi binari ferroviari, il lungo tracciato è stato trasformato in un giardino lineare pensile raggiungibile da varie scale e ascensori disposti in modo calibrato e puntuale rispetto al percorso sospeso e a quello urbano sottostante, per poi integrarsi con il giardino dello zac nel quartiere di Reully, scendendo a livello stradale. Al nuovo paesaggio vegetale del parco pubblico sospeso corrisponde, all’interno degli spazi segnati dagli archi di pietra del basamento, una serie di nuovi esercizi commerciali segnati da una coppia di infisso-facciata disposta sui due lati, a disegnare le nuove luminose vetrine: una nuova eccezionale Promenade Plantée offerta alla città. A questa esperienza di ready-made urbano si è ricondotta recentemente l’associazione Friends of The High Line newyorkese, impegnata nella conservazione-riqualificazione di un tracciato ferroviario costruito negli anni ’30 per servire quella zona di West Manhattan, conosciuta anche come West Chelsea, dove un tempo arrivavano le merci dalle grandi pianure. L’High Line, scavalcando centocinque incroci, serviva un’area di ventidue isolati sviluppandosi per una lunghezza di circa cinque chilometri alle spalle degli edifici. In seguito allo spostamento del mercato delle carni e alla trasformazione dell’area urbana tra gli anni ’50 e gli ’80, la ferrovia perse il suo valore strategico per essere infine dismessa con programma di demolizione. Si deve inizialmente a Peter Obletz, un appassionato di ferrovie, la prima mossa verso la definizione di una campagna pubblica con il fine di conservare il viadotto ferrato, che nel 2002 trova nell’associazione Friends of the High Line diretta da Joshua David e Robert Hammond, il soggetto promotore di un concorso internazionale di idee per la valorizzazione del manufatto di acciaio10. Le settecentoventi proposte pervenute hanno stimolato una sinergia di sforzi tra l’associazione e la Municipalità governata dal sindaco Bloomberg, per indire un nuovo vero concor-

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18. High Line a New York, progetto di concorso del 2002, proposta di Steven Holl per il tratto sulla 19th Street. 19. Michael van Valkenburg, progetto per il Brooklyn Bridge Park a New York del 2003, veduta prospettica a volo d’uccello. 19

16. High Line, New York, lo stato di fatto del viadotto. 17. High Line a New York, progetto di concorso del 2002, proposta di Foods Grandstand.

so in grado di attirare gli investimenti privati e concretizzare il possibile concreto riuso del manufatto ferroviario tramite un master plan. I quattro finalisti appartengono in parte allo starsystem della cultura architettonica internazionale e i loro progetti affiancano al riuso e alla reinvenzione del tracciato sospeso nuovi elementi compositivi e volumetrici di riferimento, in grado di trasformare il viadotto in un moderno e pirotecnico landmark, unendo la dimensione del progetto di architettura a quella del disegno del giardino. Nella loro proposta, Field Operations con Diller & Scofidio trasformano il percorso in una sorta di complesso asse attrezzato con cinema all’aperto, spiagge e piscine sospese, giardini e specchi d’acqua, concluso da un volume di cristallo assunto come elemento iniziale che sovrasta la scalinata di accesso. Steven Holl, con Hargreaves Associates e hntb, ha studiato una soluzione a giardino, scolpita però da episodi architettonici ai principali incroci stradali: segni emblematici in grado di disegnare un nuovo paesaggio, di verde e architettura, pubblico e collettivo, riconoscibile anche nelle ore notturne grazie a un’illuminazione policroma della parte sottostante la passeggiata pensile, enfatizzata da una serie di luci verdi e rosse alternate. Zaha Hadid, affiancata da Skidmore, Owings & Merril, con lo studio mda e Balmori Architects, assume invece il viadotto come una figura plastica continua, una sorta di dinamica architettura lineare che accoglie nel suo sviluppo giardini e percorsi, ma anche spazi pubblici, cinema e luoghi d’incontro. Infine, il gruppo terragram di Michael van Valkenburgh Associates, con d.i.r.t. Studio e Beyer Blinder Bell, lavora sul viadotto assumendolo come moderna rovina, organizzando al meglio il verde in bilico tra parco pubblico e vivaio, e segnando ancora con un volume sospeso l’inizio monco della preesistenza ferroviaria, trasformata in un percorso di fiori e piante che si insinua in modo surreale nella città. Il valore della reinvenzione si miscela inevitabilmente con una vasta operazione di riqualificazione delle zone limitrofe allo sviluppo del tracciato

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dell’High Line; è certo che un giardino pubblico attrezzato a West Chelsea porterà a un innalzamento dei valori immobiliari dell’area, sottolineando il cambiamento in atto ormai da qualche anno che ha visto aprire in questa zona della città gallerie d’arte scappate dalla Soho-Mall, seguite poi da marchi della moda internazionali. All’idea di un giardino lineare attrezzato, quale spina di riqualificazione di una parte di città, si riconduce il progetto Back to a Future presentato alla ix Biennale di Architettura veneziana (2004) e sviluppato in Corea dal Seoul Metropolitan Govern­ment. Nonostante la lontananza del progetto rispetto al contesto europeo e occidentale, cui questo libro si vuole riferire, l’idea appare emblematica e potrebbe costituire un modello per molti contesti a noi più vicini. La riapertura dell’antico canale d’acqua che arriva nel cuore della downtown di Seoul, il Cheong Gye Cheon – sotterrato negli anni ’60 per far posto a un’arteria di scorrimento veicolare poi raddoppiata in verticale con il viadotto della Cheonggye Expressway negli anni ’70 – assume il valore di un progetto che trascende i suoi pur rilevanti aspetti urbanistici per spingersi verso una dimensione simbolica di forte spessore. La reinvenzione del tracciato del canale riaperto per la sua intera lunghezza (circa sei chilometri) demolendo il viadotto automobilistico, ricostruisce un tessuto storico che appariva irrimediabilmente perduto e ristabilisce il rapporto tra città, acqua e giardini, innestandosi nella memoria collettiva e offrendo un paesaggio urbano rinnovato con nuove sponde attrezzate, ventidue ponti di attraversamento, tra cui alcuni storici e restaurati, e ampie zone a verde in grado di configurare il canale come un vero e proprio parco pubblico fluviale che ridisegna tutte le aree al suo contorno. Il nuovo master plan che costeggia il canale offre una miscela di funzioni affiancate a un preciso programma di costruzione-conservazione. Anche in questo caso le aree al

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20a, b, c. Back to a Future, progetto di recupero di trasformazione del canale storico Cheong Gye Cheon coperto da viadotto veicolare a Seoul, 2004-2009. Sequenza della trasformazione urbana da viadotto a canale-parco pubblico lineare. 21. Back to a Future, simulazione del parco urbano lineare nel tessuto della città di Seoul, veduta prospettica a volo d’uccello. 22. Back to a Future, rendering della passeggiata sui bordi del canale-parco pubblico lineare. 23-25. Latz & Partner, Landschaftspark a Duisburg Nord, Germania, 1991-1999. Recupero di un’acciaieria dismessa e trasformazione in parco pubblico; planimetria generale e vedute del parco.

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contorno saranno indubbiamente interessate da una crescita esponenziale del loro valore immobiliare, innescando una sinergia tra interessi pubblici e privati che configura il progetto come un esempio di riferimento per la pianificazione urbana del nuovo millennio. Un ready-made, ma in questo caso a scala paesaggistico-territoriale, è costituito dall’esperienza del Landschaftspark a Duisburg Nord in Germania, un recupero di un’acciaieria dismessa nel territorio della Ruhr promosso negli anni ’90 dall’iba e progettato da Latz & Partner. In più di dieci anni di sviluppo, dall’inizio degli anni ’90, il parco appare come una stratificazione di eventi distribuiti nel tempo: la vecchia fabbrica siderurgica, diventata rovina e museo di se stessa, si unisce alla funzione di spazio per il tempo libero e per il gioco, e per l’attività sportiva del free climbing (organizzata su alcuni manufatti verticali), il tutto unito in un nuovo disegno del paesaggio complessivo. Gli spazi del lavoro sono stati trasformati in stanze a cielo aperto che ospitano giardini; una serie di esempi di hortus conclusus di sapore medievale, in cui si miscelano diverse essenze e poetiche compositive. Ogni struttura industriale è stata conservata e trasformata; i passaggi sopraelevati, per esempio, costituiscono oggi una sorta di percorso sospeso da cui osservare il parco dall’alto, mentre la Cowper Place (luogo per le feste con alberi a piantumazione modulare) e la Piazza Metallica (cuore del parco con una pavimentazione centrale costruita con i coperchi degli stampi per opere di fusione) sottolineano il valore del progetto quale manifesto del rapporto artificiale/naturale, in cui le ferite ambientali prodotte dall’industria possono forse essere sanate dalla natura del parco; un luogo in divenire, in cui la crescita biologica esprime uno stato dinamico di decadimento, crescita e trasformazione.

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Giardini e paesaggi, sperimentazione e città Il generale slancio oltre il recinto del giardino contemporaneo, teso verso la costruzione di nuovi paesaggi ma anche concentrato a risolvere piccoli spazi urbani lasciati incompiuti o da riqualificare, non cancella comunque la tradizione classica del giardino quale microcosmo compiuto, in genere legato a residenze esclusive o comunque al genere della villa. Una tipologia ricca di varianti che nella storia del paesaggio italiano possiede storicamente un ruolo strategico per comprendere il rapporto tra disegno del giardino e paesaggio intorno, in genere coltivato. Dalla sistemazione del Cortile del Belvedere in Vaticano a opera del Bramante ai giardini di Villa d’Este a Tivoli che videro impegnato Pirro Lagorio nella metà del Cinquecento; dal consolidamento dell’ideologia della villa nell’ambito della cultura rinascimentale italiana alle ville venete del Palladio nell’entroterra veneziano, si assiste non solo a una nuova relazione tra architettura e natura, con un nuovo disegno del verde complementare a quello dell’edificio cui fa riferimento, ma anche a un nuovo dialettico legame tra giardino e paesaggio. «La natura si contrae nelle figurazioni geometriche delle forme vegetali, nella pietrosa plasticità delle sculture e degli artefatti o nelle fluide composizioni delle acque convogliate in laghetti, rivi e fontane. Il paesaggio disegnato si contrappone a quello naturale che lo circonda, senza però assumere il carattere difensivo dell’antico hortus conclusus, bensì affermandosi come alternativa alla cieca spontaneità della natura»10. Un rapporto che permane nel tempo ed evolve in molteplici espressioni mantenendo una sorta di tradizione che per esempio in Italia vede protagonisti progettisti come Piero Porcinai e poi tutta una serie di cultori della pratica del giardino, convinti che non si possa tanto disegnare uno spazio verde, quanto costruirlo con le proprie mani e vederlo crescere, conoscendo le piante e i fiori, le loro caratteristiche e i loro comportamenti. In Italia, l’opera di Ippolito Pizzetti, Paolo Pejrone e Anna Scaravella si colloca in tale scenario. Pizzetti aveva precorso i tempi, aveva capito che la tecnica orticolturale è solo una base da cui partire per catturare la vera essenza di un giardino, e il suo approccio era sempre di livello superiore: romantico, filosofico e poetico, artistico. Pizzetti, laureato in letteratura, aveva ben presente che il giardinaggio è prima di ogni cosa un’avventura umanistica, della fantasia e dell’intelletto. Sapeva che l’arte, anche quella dei giardini, non nasce sempre e soltanto da uno stato puramente emotivo o di esaltazione ma anche dalla paziente operosità, dall’esperienza acquisita nel tempo e sul campo, da una ricerca estetica e filosofica, e dall’idea di un progetto di giardino di tipo complesso. Perché per Pizzetti il giardino non era solo composizione di piante e fiori, accostamenti di trame, superfici, colori e periodi di fioritura – questa era solo la base da cui poter iniziare finalmente a cercare –, ma una progressiva e quotidiana conoscenza del mondo, dell’Uomo, della Natura e di se stessi, mediata appunto dal giardinaggio. «Nel giardino che progetto voglio che si realizzi uno spettacolo continuamente in evoluzione, in quattro parti che convergono l’una dentro l’altra, chiamateli pure quattro atti – primavera, estate, autunno, inverno – e cerco che operino dentro ciascuno di questi i possibili protagonisti della vicenda. Che possono essere presenti o no nello spazio su cui intendo operare, ma che comunque presenti hanno da essere nel paesaggio naturale di cui anche quel giardino fa parte: questo è anche il motivo per cui gli elementi principali, i protagonisti, sono presenti ancor prima che all’interno di esso, fuori di esso» (Ippolito Pizzetti). Nell’opera di Paolo Pejrone, classe 1941, landscape gardener piemontese, emerge anzitutto la libertà di approccio declinata caso per caso, che più che definire uno stile sembra sottolineare l’importanza di assecondare il luogo e il suo paesaggio, le sue essenze, i suoi odori e colori. Un approccio poliedrico mai ripetitivo, per costruire micropaesaggi in grado d’inserirsi in chiave armonica in quello, più vasto, che li accoglie. Da quelli più naturalistici come il giardino a Marciana sull’isola d’Elba segnato dal colore violetto degli agapanti affiancati ai pini domestici e ai rosmarini, a quelli più formali con il verde chiamato a costruire spazi, come le pergole del giardi-

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28. Anna Scaravella, vasca d’acqua lineare nel giardino di Villa Albera, Crema, 1995.

26 e 27. Paolo Pejrone, giardino di Marciana, isola d’Elba, e giardino di Banna a Poirino (Torino). 26

29 e 30. Fernando Caruncho, giardino di Mas de Les Voltes al Castel de Ampurdán, Spagna, 1995-97. Nella pagina seguente: 31 e 32. Peter Walker, il complesso paesaggistico di Solana all’intorno dell’ibm-mtp Headquarters, Westlake/Southlake, Dallas, Texas, 1984. 33. Peter Walker, giardino dell’Hotel Kempinski all’aeroporto di Monaco di Baviera, 1991-1993.

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no di Zilia in Corsica, o l’ars topiaria delle aiuole geometriche del giardino di Banna, sino a confrontarsi felicemente con gli innesti architettonici di Lazzarini e Pickering all’Argentario e con la scultura contemporanea a Torino, Pejrone delinea la giusta risposta in chiave paesaggistica. Il suo è un giardino felice che unisce alla sensibilità di sapiente gardener la cultura dell’ascolto di storie sempre diverse. Una laurea in scienze forestali e una passione per il giardino formale approfondita presso lo studio dell’architetto giapponese Haruki Miyagima, caratterizzano i progetti di giardini e di piccoli parchi pubblici di Anna Scaravella. L’approccio tecnico-scientifico a ogni progetto si traduce nell’attenzione rivolta alla scelta delle specie arboree e alla loro calibrata miscela, giocata sia dal punto di vista cromatico sia da quello volumetrico-compositivo. Insieme alla regia del verde si aggiunge il disegno formale del giardino, ben rapportato ai diversi contesti preesistenti, alle presenze architettoniche, e in genere scandito da una successione di stanze verdi caratterizzate da «elementi geometrici o sinuosi, dall’apertura o dalla chiusura verso il panorama tramite la scelta di apposite specie arboree, dall’utilizzo del bosso e delle piante di tutte le tonalità di grigio, dall’attenta scelta dei colori nei bordi misti» (A. Scaravella). In Spagna, Fernando Caruncho, reinventando la tradizione del giardino formale ne provoca uno scarto tramite l’impiego di essenze a volte improprie, come i parterre di grano nel magistrale intervento Mas de Les Voltes al Castel de Ampurdán. Caruncho ama definirsi giardiniere più che paesaggista, e nel giardino identifica lo spazio per la trasformazione e l’elevazione dello spirito umano. Molti altri sono i protagonisti impegnati in un settore, quello del giardino privato, che non manca di sperimentazione e vitalità, e che rimane in ogni caso come una delle espressioni del giardino contemporaneo. Alla scala concettuale del giardino privato, pensato più come uno spazio artificiale in grado di rappresentare il senso di esclusione dalla condizione urbana, si riconducono espressioni di riferimento prodotte però più dal mondo dell’arte che da quello della botanica. «Nella maggior parte degli esempi contemporanei si tratta della ricerca di un luogo ideale (o di riparo collettivo di fronte alle grandi incertezze contemporanee) attraverso la messa in gioco dell’artificio e poco importa se da luogo utopico e felice, di perfetta armonia tra uomo e natura, il giardino di trasformi in luogo della tentazione e della trasgressione sottomesso ai soli princìpi del dominio artistico»11. Nonostante questa ricerca di voluto distacco e autoreferenzialità rispetto ai contesti

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in cui ci si trova a operare, in America l’attività dei landscape gardeners si è intrecciata in modo fecondo con quei movimenti artistici come la Land Art, il Minimalismo, l’Astrattismo e la Pop Art, assumendoli come fonti di ispirazione per modelli, texture e pattern tradotti poi in chiave paesaggistica. In tale pratica di feconda sinergia l’americano Peter Walker, che nei suoi trent’anni di attività ha delineato un percorso esemplare in cui l’arte paesaggistica, declinata a scala territoriale e urbana, si è sviluppata in parallelo all’evoluzione delle arti. L’ascolto e la passione per l’arte influiscono nel lavoro di Walker come materiali di ricerca e di costruzione per il disegno di matrici di riferimento, artefatti per il giardino, segni di sistemi figurativi dal forte impatto territoriale. Walker afferma di essere stato influenzato dagli scritti di architettura dell’artista Donald Judd e di provare una grande attrazione per le opere di Frank Stella, Robert Smithson e Carl Andre, specificando però: «Su questi artisti e sul movimento che ora chiamiamo Minimalismo si è concentrata tanta letteratura critica che ci tengo a sottolineare come la mia iniziazione sia avvenuta esponendomi all’opera stessa e intuendone la potenziale importanza per la progettazione del paesaggio, piuttosto che per qualunque polemica artistica sul suo significato storico»12. Il modo di operare di Walker appare esplicito nella sistemazione paesaggistica del complesso di Solana nei pressi di Dallas nel Texas, sede locale della ibm e mtp. Iniziato nella prima metà degli anni ’80, l’insediamento di Solana (oltre 650 mila mq. e 20 mila dipendenti) aveva un carattere indefinito: né urbano, né suburbano e neppure rurale. Il riferimento dominante del master plan e del progetto architettonico è da ricercare nel modello della hacienda, cinta di mura e senza emergenze architettoniche autocelebrative, «per questo in una visione a distanza, a essere dominante è il paesaggio originario, la prateria ondulata»13. Il progetto si declina in episodi paesaggistici che celebrano l’arrivo dall’autostrada per proseguire nell’interno, raggiungendo «il risultato di un collage, un po’ surreale, in cui forme geometriche e organiche fluttuano in uno spazio come trascendente. Dai complessi degli edifici si proiettano ad angolo retto lunghi, diritti vialetti, canali e filari di alberi che sottolineano la piattezza del parterre e sembrano tendere verso la prateria in linee oblique e diseguali. A contrapporsi a tali linee di forza c’è un ruscello immerso nel verde che scorre dallo stagno triangolare (evocazione degli stagni dei ranch limitrofi) fino a un bacino irregolare che sfida i confini tra parterre e prateria»14. In questo aperto confronto tra paesaggio disegnato e paesaggio naturale, non mancano elementi simbolici come la linea di vapore che interrompe due dischi di pietre accatastate congiungendoli; un tumulo di pietra dell’Arizona scolpito a raggi regolari e una fontana circolare a livello del prato che contiene un giardino infossato di pietre e piante basse. Segni esoterici, vicini alle pratiche della land art che contribuiscono a formare il nuovo paesaggio complementare alle architetture del complesso. Anche i giardini pensati nei pressi dell’aeroporto di Monaco, all’intorno del Kempinski Hotel, si pongono l’obiettivo di costruire con il verde un luogo di arrivo spettacolare, da ammirare secondo diverse modalità. Quattro diversi spazi verdi delineano la sequenza paesaggistica dell’insieme, che rilegge la tradizione del giardino formale per entrare con forza sino nell’atrio dell’hotel. Macro-texture di aiuole e spicchi di ghiaia colorata da cui emergono in linea piccoli filari di cipressi, definiscono una compiuta e complessa articolazione che non trova riferimenti nel paesaggio proponendosi come serie di elementi spaziali di riferimento fondativi. È il caso anche della Keyaky Plaza a Saitama City in Giappone (1994-2000), un progetto di piazza-giardino alberata, ricavata sulla copertura di una grande struttura commerciale, dove la griglia matematica della piantumazione diventa l’elemento ordinatore di un paesaggio che richiama a livello simbolico i filari di zelkova (l’albero keyaki in giapponese) che circondano l’antico vicino tempio di Hikawa Shrine, e ne caratterizzano la direttrice alberata della sua prospettiva urbana. Martha Schwartz, allieva di Walker, in maniera forse più esplicita del suo maestro, fonde nelle sue opere pratiche proprie della Land Art alla costruzione di spazi pubblici fruibili dal pubblico. In questo senso la Schwartz inaugura alla fine degli anni

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34. Peter Walker, Keyaki Plaza, Saitama City, Giappone, 1994-2000. 35. Martha Schwartz, Federal Plaza, New York, 1996. 36. Martha Schwartz, Landschaftspark Mechtenberg Gelsenkirchen, Germania, 1999.

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’70 (con il Bagel Garden di Boston) un nuovo modo di progettare lo spazio urbano, assumendolo come il luogo deputato all’arte e alla scultura, al giardino e alll’architettura, uniti in una dimensione corale e di aperta contaminazione. I suoi spazi pubblici vogliono essere anzitutto elementi espressivi in grado di trasformare il momento dell’attraversamento e della sosta in esperienze significative, ad alto grado emozionale. Nel progetto della Jacob Javits Plaza a New York la riduttiva locuzione di arredo urbano è definitivamente superata da un percorso progettuale in cui le più recenti espressioni della Land Art si coniugano alla creazione di nuovi spazi per la città in cui la dimensione creativa sposa la verifica funzionale per l’utilità collettiva. Qui la metodologia di approccio progettuale di Martha Schwartz emerge con estrema chiarezza; la piazza era occupata precedentemente da un incombente monumento-scultura (il Tilted Arc) di Richard Serra smantellato nel 1989, una sorta di macrosegno scultoreo che negava la dimensione e la fruizione dello spazio aperto pubblico trasformando la pavimentazione in sorta di basamento di supporto al segno dell’artista. Il progetto di riqualificazione della piazza, compiuto con leggerezza e creatività dalla Schwartz, è in sostanza l’antitesi della sistemazione precedente per scala d’intervento e composizione d’insieme, ma soprattutto per avere ridato l’uso della piazza ai cittadini, quale gradevole luogo d’incontro e di sosta nel cuore di Manhattan. Il progetto reinterpreta la tradizionale panchina in liste di legno orizzontali trasformandola in ripetuto segno scultoreo di riferimento. Le panchine, di colore verde alga, sono allungate e ritorte per disegnare un’apparente illimitata offerta di sedute seguendo un motivo a serpentina che, se da un lato richiama per sottili analogie i sinuosi percorsi del giardino romantico ottocentesco e le sue siepi potate secondo la tecnica dell’ars topiaria, dall’altro si propone come segno grafico tridimensionale di riferimento circondando una serie di collinette circolari in tappeto erboso da cui emerge un rinfrescante vapore acqueo, ulteriore effetto nella composizione d’insieme. Per la Schwartz, autrice anche di giardini privati dove il legame tra arte e natura si esplicita nel trasformare il giardino in scultura e in vera e propria invenzione artistica e concettuale, «il paesaggio è un’immagine culturale, un modo pittorico di rappresentare, strutturare o simbolizzare l’intorno... Può essere rappresentato in una

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varietà di materiali e su molte superfici, con pittura su tela, scrivendo su carta, nella terra, nella pietra, nell’acqua e nella vegetazione sul suolo. Io occupo il territorio a metà strada tra due discipline, arte contemporanea e architettura del paesaggio»15. Su questa strada a metà, che oscilla tra sensibilità artistica e razionalità progettuale si sviluppa gran parte della più interessante produzione creativa degli ultimi anni nel campo dell’arte dei giardini del nuovo millennio. Non è questa le sede per delineare in modo esaustivo una rassegna ragionata dei protagonisti della scena contemporanea internazionale16, ma occorre ricordare alcuni dei paesaggisti di riferimento. Come per l’architettura, la scena olandese si dimostra ricca di stimoli e di sperimentazione. Adriaan Geuze, fondatore dello studio West 8 Landscape Architects, sviluppa in modo nuovo la progettazione del giardino e della sua estensione nel paesaggio, sia a livello urbano, sia territoriale. Nelle sue opere è indicata in modo programmatico la necessità di relazionare tra loro le problematiche urbanistiche, il progetto delle infrastrutture, le esperienze artistiche e il disegno del paesaggio. La sistemazione della centralissima Schouwburgplein (1990-95), piazza del teatro a Rotterdam ricavata sopra un parcheggio interrato, appare emblematica: «Il nostro progetto va inteso come una terapia d’urto», palme in vaso posizionate su carrelli mobili scorrono su una pavimentazione metallica, mentre quattro grandi gru pneumatiche fungono da tutori a geometria variabile per l’illuminazione (attivata a gettone dal pubblico secondo diversi effetti), e le panchine su disegno, poste in linea e pensate come presenze di riferimento nello spazio libero della piazza, fungono da margine costruito. «La piazza sembra calata da un altro pianeta, assume a propria misura solamente la linea del cielo ed esige che il frequentatore la conquisti, se ne appropri e la interpreti» (Geuze). Per il giardino Vsb a Rijnsweerd, nei pressi di Utrecht, una griglia di betulle contiene un giardino interrato di siepi di bosso che disegna, insieme al ghiaietto rosso intercalato alle lunghe linee del verde regolare, una sorta di astratto codice a barre trasposto in chiave paesaggistica. Da ricordare anche il Schelpenproject (1991-92) sulla barriera dell’East Scheldt; l’isolotto centrale utilizzato per la costruzione è stato spianato e ricoperto da uno strato di conchiglie, rifiuti dell’industria ittica normalmente smaltiti. Il microcosmo così ottenuto è stato suddiviso in macroscacchi caratterizzati da conchiglie chiare e scure, disegnando un pattern geometrico di riferimento. È interessante che gli uccelli marini, che nidificano e soggiornano sull’isolotto, scelgano a seconda del loro colore e della loro capacità di mimetizzazione uno scacco piuttosto che un altro: quelli chiari come la rondine di mare e il gabbiano argentato prediligono le campiture con sfondo bianco, viceversa, quelli dal piumaggio più scuro come ad esempio il martin pescatore scelgono il nero. In questo caso il disegno del giardino di conchiglie si rapporta alla fauna locale che ne diventa parte inscindibile: «È il più grande giardino zen, vivo, del mondo: non solo l’abitante della città, ma anche la natura vi rivela le proprie capacità di interpretazione» (Geuze).

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37-39. West 8, Adrian Gauze, Han Bauer, Giardino Vsb a Rijnsweerd, Utrecht, 1995. Planimetria e vedute del giardino che utilizza il pattern astratto del «codice a barre» come trama di riferimento compositiva.

40 e 41. Petra Blaisse, Breaking Boundaires, 20002005, intervento paesaggistico all’esterno e all’interno della biblioteca pubblica di Seattle progettata da oma. 42. José Antonio Martínez Lapeña, Elías Torres Tur, Jardín de Villa Cecilia a Barcellona, 1986-87. Veduta dell’ingresso.

Petra Blaisse, fondatrice dello studio Inside Out-side, è specializzata nel costruire affascinati relazioni tra spazi interni ed esterni. Intrecciare architettura e paesaggio, e reinventare in questa tradizionale relazione l’arte dei giardini, sembra essere il filo conduttore dei lavori di questa paesaggista olandese. Impiego di materiali insoliti, salti di scala sorprendenti come nella pavimentazione fotografica impiegata nell’interno della biblioteca di Seattle progettata da oma, sono alcune selezioni progettuali di una ricerca in continuo svolgimento. A Seattle l’intervento (Braking Boundaires, 2000-2005) porta il paesaggio vegetale dall’esterno (una sorta di biblioteca di alberi autoctoni piantumati al contorno) all’interno, rompendo i confini dell’edificio e proponendo un alternarsi di scene naturali e artificiali, dal piano terreno alla copertura. In Spagna, nel generale slancio creativo che Barcellona registrò negli anni ’80, lo spazio pubblico urbano conobbe una stagione di alta sperimentazione. Non solo piazze e molti vuoti urbani furono risolti brillantemente con nuove sistemazioni pedonali integrate a interventi artistici, ma si crearono nuovi parchi che indicarono strade innovative per l’arte dei giardini contemporanea. Tra questi occorre ricordare il Parc de la Creueta del Coll (1985-87) di nuova fondazione, firmato da Josep Martorell, Oriol Bohigas e David Mackay; il Jardín de Villa Cecilia (1986-87), ampliamento di una situazione preesistente di José Antonio Martínez Lapeña e Elías Torres Tur; il Parc del Migdia di Beth Galì, sistemazione paesaggistica alle pendici del Montjuic in un’area non interessata dall’opera di riqualificazione condotta da Jean Claude Nicolas Forestier in occasione dell’Esposizione Universale del 1929. Sino ad arrivare alle più recenti realizzazioni come il Parco de Poblenou (1990-92) di Manuel Ruisánchez Capelastegui e Xavier Vendrell Sala, che si estende per oltre due chilometri sul fronte nord della città, diviso in sei settori distinti ma tutti parte del complesso sistema costiero ridisegnato dal progetto della Villa Olimpica (1992). Nella zona dell’arrivo della Diagonal sul mare, oggetto di una massiccia riqualificazione urbana, è stato realizzato su progetto di Eric Miralles e Benedetta Tagliabue il Parco della Diagonal del Mar, che sorge all’interno di un nuovo quartiere residenziale e che, per essere stato completato prima della conclusione

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dell’iniziativa immobiliare, costituisce un esempio di riferimento se paragonato alle normali realtà edilizie dove non solo i giardini, ma strade e infrastrutture primarie, sono costruiti, se tutto va bene, solo in un secondo tempo. Questo nuovo giardino pubblico urbano appare di grande interesse anche per il disegno complessivo dell’impianto, per materiali e soluzioni adottati, che portano alla scala pubblica e in chiave architettonico-paesaggistica dimensioni proprie al giardino di casa. Attraversando il nuovo quartiere residenziale a torri sparse di cui costituisce il cuore centrale, il parco si pone anche come elemento di connessione tra la città e il mare, distribuendosi nel tessuto edilizio con percorsi pedonali e ciclabili, zone gioco per bambini e punti panoramici, e fornendo i necessari spazi ricreativi e di relax attrezzati con manufatti su disegno. In effetti, un alto grado di design caratterizza gli spazi e gli episodi che formano il complesso disegno del paesaggio. Pavimentazioni dure si alternano a percorsi in calcestre e ad ampi specchi d’acqua caratterizzati da sculture metalliche leggere; un tubo continuo in movimento statico attorcigliato su se stesso, da cui escono spruzzi d’acqua nebulizzati in grado di creare anche un fresco microclima nella fascia dell’intorno. Il tema scultoreo della struttura metallica quasi ad andamento zoomorfo segna anche gli spazi delle piazze dure dove, come uno scheletro di dinosauro, si propone come inusitata pergola e struttura tutoria per ospitare rampicanti sostenuti da sottili cavi di acciaio tesi a raggiera, mentre grandi vasi composti da frammenti di ceramica, ulteriore elemento domestico traslato in chiave di spazio pubblico, si pongono come forti segni di riferimento distribuiti secondo un disegno complessivo per ospitare altre piante e fiori colorati. Al parco urbano della Diagonal si aggiunge il Parque de Poblenou di Manuel Ruisánchez Capelastegui e Xavier Vendrell Sala, che funge da porta verde alla città, completando il generale ridisegno dell’area sul mare, all’interno della più vasta sistemazione paesaggistica del Parque del Litoral di cui è parte integrante. Sempre in Spagna, nella città di Móstoles, Javier Mariscal, che iniziò la sua carriera come disegnatore di fumetti per poi trasformarsi in designer e architetto, ha creato un giardino urbano che circonda il nuovo teatro municipale progettato da Miguel Verdú. Memorie reinventate della tradizione dell’ars topiaria, Land Art, e un forte senso dello spazio urbano si confrontano per definire il concetto di giardino come artificio. Un giardino radicale, così Javier Mariscal definisce l’intervento del Teatro del

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43. emtb Arquitectes Associates, Eric Miralles e Benedetta Tagliabue, Parque Diagonal del Mar, Barcellona, 1997-2002. Veduta d’insieme verso nord. 44-45. Manuel Ruisánchez Capelastegui, Xavier Vendrell Sala, Parque de Poblenou, Barcellona, 19901992. Vedute dei percorsi pubblici tra la città e il mare. 46. sla, Charlotte Garden, Copenhagen, 2004. Particolare delle piantumazioni all’interno del disegno astratto di riferimento. 47. Ken Smith, Triangle Park, New York, 2006. Veduta generale dell’intervento. 48. Brita von Schoenaich, aiuola colour border di fronte alla Tate Britain, Londra, 2004.

Bosque nella periferia della città. Un disegno di paesaggio fortemente riconoscibile e denso di spessore figurativo, quasi una macroscultura di verde ben lontana dalle tradizionali sistemazioni a giardinetto urbano in genere promosse dalle amministrazioni delle città europee. Con questo intervento si dimostra come anche, e soprattutto, in aree periferiche il disegno dei nuovi spazi pubblici possa essere occasione di riqualificazione e di attrazione per la cittadinanza. In questo caso il disegno del giardino è strettamente connesso al nuovo teatro municipale di cui costituisce l’insolito foyer en plein air, il percorso di avvicinamento che rifiuta la soluzione della retorica piazza dura chiamata a sottolineare la monumentalità, vera o presunta, del nuovo edificio pubblico. Qui, il rapporto tra teatro e disegno del verde è di tipo sinergico e costruttivo, fatto di assonanze e felici slittamenti in cui il giardino, che rivendica la tradizione europea e rinascimentale del verde come artificio e di paesaggio fortemente disegnato, lontano dalla simulazione romantica della natura, emerge come efficace cornice urbana per segnare la presenza del teatro. In qualche modo il giardino si propone come scena fissa, come scenografia che muta il suo colore con l’avvicendarsi delle stagioni per portare la dimensione del teatro, della finzione scenica e dello spettacolo, direttamente nel contesto urbano. Così, il verde e i suoi percorsi sono scanditi da precisi elementi-personaggi di riferimento: in un paesaggio formato da colline artificiali coperte da un manto erboso svettano sedici torri-albero, strutture cilindriche e parallelepipedi reticolari sviluppati con diverse soluzioni, da nove a ventinove livelli, chiamati a sostenere il verde distribuito alle diverse quote. Una sorta di foresta geometrica che funge da inequivocabile segnale urbano per indicare la presenza del teatro. Questo è sottolineato verso la piazza dalla presenza di due colossali sfingi ottenute dal particolare disegno delle strutture di acciaio che compongono l’andamento collinare; presenze zoomorfe mitologiche che, come i leoni del feng-shui, proteggono l’ingresso principale del nuovo teatro cittadino. Nell’ambito dell’ideazione del giardino come paesaggio, miscelando sensibilità progettuale a libertà artistica, molti sono i paesaggisti emergenti o già riconosciuti; lo studio sla di Copenhagen, fondato nel 1994, è impegnato nel disegno di nuove esperienze urbane. Il loro Charlotte Garden (Copenhagen, 2004), rileggendo la lezione di Burle Marx, completa un isolato offrendo una scena sorprendente dove macchie sinuose tradotte in forme vegetali di diverse essenze e colori, simulando le coltivazioni agricole, dipingono come un quadro astratto un pezzo di città alternando al verde percorsi e zone praticabili con sedute e attrezzature ludiche per i bambini. Il newyorkese Ken Smith (formatosi alla scuola di Peter Walker) e Brita von Schoenaich, tedesca trapiantata a Londra, nell’ascolto della tecnica del colour border di Gertrude Jekyll enfatizzano i loro interventi urbani come fossero innesti fauves, colorati e squillanti, in cui i fiori selezionati per potenza cromatica divengono il materiale cui attingere per la costruzione di piccoli giardini con aiuole a campitura mista dalle tinte miscelate come in una tavolozza da pittore. Smith è autore anche del Twin roof garden (2005) realizzato sulla copertura del MoMA newyorkese: uno spazio solo contemplativo da osservare dall’alto dei grattacieli limitrofi, costruito con materiali artificiali, frammenti di vetro, marmo e granito, e plastiche riciclate, chiamate a disegnare un giardino che non richiede alcuna manutenzione o irrigazione, ma che propone l’immagine di un paesaggio inconsueto dai pochi cromatismi, e che miscela forme sinuose nella nostalgia di quelle naturali. Michael Van Valkenburgh, sempre

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in America, conduce una ricerca progettuale ricca di realizzazioni in cui la natura del giardino proposta in forma spontanea si unisce a forti presenze chiamate a definire dei percorsi di riferimento: parallepipedi di cemento sovrapposti a formare una riuscita composizione froebeliana in scala macro per il Garden on Turtle Creek a Dallas (1999); rocce a grosse scaglie sovrapposte (nel ricordo del paesaggio dell’Hudson River Valley) per il Teardrop Park a Battery Park City nella punta sud di Manhattan; tavole di tronchi arborei posizionati nel prato in modo apparentemente casuale nelle Tahari Courtyards a Mill­burn (2003). Ancora a metà strada tra giardino e piazza urbana, tra uso del verde come materiale non esclusivo, ma parte di una palette compositiva più vasta, è il lavoro dello studio Topotek1 di Berlino guidato da Martin Rein-Cano (Buenos Aires, 1967) e Lorenz Dex­ler (Darmstadt, 1968). La loro ricerca si colloca in una scena nuova del disegno del paesaggio e del verde, in una condizione che unisce in modo sinergico e multidisciplinare l’attenzione verso la rilettura delle condizioni esistenti («asfalto significa trasporto, la superficie di un luogo è molto di più di quella che l’occhio può incontrare») alle istanze del nuovo intervento, declinato di volta in volta secondo modalità differenti: in situazioni urbane ed extraurbane, in zone industriali dismesse, in installazioni temporanee, o in efficaci confronti con giardini storici. Per Topotek1 «la superficie terrestre è il luogo del movimento umano, l’origine del lavoro dell’uomo. L’uomo dipinge, disegna, struttura e definisce questa superficie come qualcosa che si osserva dall’alto. La superficie non è stata usata solo come una tela su cui gli oggetti sono posizionati, ma come oggetto essa stessa». In tale accezione, la superficie diventa lo strumento primario di riqualificazione e d’intervento paesaggistico con il preciso «scopo di dialogare con la natura e con il paesaggio». L’assumere la superficie come elemento di riferimento tra i principali temi del progetto porta Topotek1 a fare parte di quel diffuso fenomeno contemporaneo che attraversa con molteplici espressioni progettuali l’intero pianeta: l’architettura a zero cubatura. Si tratta di tutti quei progetti che intervengono nel paesaggio e nel territorio in modo sensibile, senza tuttavia costruire, nel senso volumetrico e tradizionale del termine, cubature edificate. In questo nuovo genere di «architettura a volume zero»17 i luoghi delle infrastrutture, delle reti, dei margini, e gli spazi pubblici sono interpretati in nuove più ampie prospettive che sfuggono alle tradizionali dizioni di piazza, viale, parco e giardino, per sostituire all’idea di spazio pubblico collettivo quello della categoria di spazio aperto.

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Nell’ambito di un paesaggio assunto come categoria/specchio della complessità si muove l’azione progettuale di Topotek1; allora ad esempio, in questo nuovo e più consapevole atteggiamento progettuale, un elemento comune come l’asfalto assume valori che a una prima istintiva e immediata osservazione non emergono nella loro oggettiva realtà multisensoriale: «L’asfalto è un’elegante, sensuale superficie. [...] L’asfalto è un mezzo di trasporto visuale. Un doppio strato disteso sul paesaggio guida le tue impressioni visuali dei luoghi e delle scene che ti passano davanti; e infatti trasporta ancorandoli a sé immagini e luoghi. La superficie [della strada] trasporta immagini, segni e segnali che in cambio ti trasportano, ti guidano e ti attirano verso lo spazio. Le fermate, le soste e le ripartite, i qua e i là della strada formano un linguaggio nello spazio. Noi proviamo a lavorare con questo linguaggio, trasportandolo e trasformandolo e facendo dell’esperienza estetica della superficie trafficata e della sua grafica un linguaggio poetico paesaggistico». Dall’osservazione e reinterpretazione dei segni del paesaggio e della strada, Topotek1 trae spunto per progettare nuovi spazi verdi attrezzati, parchi che diventano nuovi land­mark anticelebrativi, angoli urbani pensati come stanze en plein air, interventi dove molte volte il design assume caratteristiche lontane dalla categoria dell’arredo urbano, per proporsi come vera e propria presenza estetica e formale che, al di là della sua specifica funzionalità, assume valore di emergenza rispetto all’intervento e al luogo, alla geometria complessiva dei percorsi e del disegno del verde progettati. Ecco allora che nel progetto di Kindergarten Schöneweide a Berlino (2007) la complessa architettura del recinto in cemento, pensata come un contemporaneo hortus conclusus su cui è impressa a mo’ di insegna pubblicitaria la funzione dell’organismo architettonico, si affianca a una pavimentazione fauve scandita da squillanti sfumature di rosa, conclusa verso la strada da una panca sempre in cemento scolpita da fenditure corredate da anelli metallici per le catene antifurto delle biciclette. Riusci-

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49. Michael Van Valkenburgh, Garden on Turtle Creek, Dallas, Texas, 1999. 50. Ken Smith, Twin roof garden, giardino pensile contemplativo realizzato sulla copertura del Museum of Modern Art, New York, 2005. 51. Topotek1, Martin Rein-Cano, Lorenz Dexler, Kindergarten Schöneweide, Berlino, 2007. 52. Topotek1, intervento di panca continua al Garden Show di Eberwalde, Germania, 2002.

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te sperimentazioni sul tema della superficie quale elemento espressivo sono presenti nel progetto di Broderie Ur­bane, pensato per la corte di un severo edificio per uffici a Berlino (2006), dove un macro-motivo floreale barocco invade come una sensuale e inarrestabile figurativa gramigna infestante la scura pavimentazione di asfalto. Le grandi foglie bianche (come le strisce pedonali sull’asfalto nero), che diventano giallo-oro con il riverbero della luce del sole, reinventano il senso dello spazio pubblico collettivo trasformandolo in seducente ricordo di un interno domestico d’altri tempi trasposto in chiave contemporanea. Altri interventi privilegiano ed enfatizzano la dimensione dell’allestimento temporaneo paesaggistico quale forma progettuale del xxi secolo; in questo ambito l’allestire non si traduce però nella costruzione di nuovi volumi, ma nell’intervenire in contesti specifici introducendo un punto di vista privilegiato che condizioni e orienti la visione in modo innovativo. Sono interventi leggeri e mirati in grado di modificare, più che i singoli paesaggi, parchi e giardini, il modo di percepirli, di percorrerli e di fruirli. Il progetto per il Garden Show nel parco del Castello di Wolfsburg (2004) si pone in quest’ottica, come una sceneggiatura cinematografica che rilegge la storia delle folies da giardino ottocentesche in chiave contemporanea. Il progetto offre una serie di scene fisse all’interno di un racconto complessivo. Il percorso si compone di tre episodi (lo Sculpture Garden, il Rose Garden e il Forest Garden) accompagnati da manufatti emergenti, quali un percorso di legno flottante sui prati, un’installazione di volumi rivestiti in acciaio a specchio che riflette frammentandola la vegetazione storica del parco, e una suggestiva serie di installazioni gonfiabili praticabili in plastica rosa, tonalità declinata in varie gradazioni anche nell’insolito recinto dei cavalli. L’edizione di due anni prima, svolta a Eberswalde nei pressi di Brandeburgo, si confrontava invece con un parco di recente formazione, costruito nell’ambito della conversione di una zona industriale segnata da un canale artificiale. Qui gli interventi hanno disegnato trame e percorsi sottolineati da arredi paesaggistici come la lunga panchina continua in listelli di legno arancione, che segue in modo sinuoso la morfologia del terreno, con zone di sosta e stuoie imbottite dello stesso colore disposte in modo casuale come macchie geometriche colorate sui prati e brani compiuti che, seguendo l’antico concetto del giardino medicale a porzioni quadrangolari indipendenti, hanno delineato una sorta di riuscito giardino-collage, un sistema aperto alla sperimentazione e alla contaminazione figurativa e cromatica in grado di rappresentare la complessità del presente.

53. Andy Goldsworthy, Folded wall, Stato di New York, 1999. 54. Giuliano Mauri, Cattedrale Vegetale, Malga Costa, Borgo Valsugana, Val Sella, 2001. 55. Mikael Hansen, Autostrada Organica, Tickon Skulturpark, Langeland, Danimarca, 1995. 56. Patrick Dougherty, Putting Two and Two Together, Woodson Art Museum, Wasau, Wisconsin, 2004. 57. Sanfte Strukturen, Weidendom, Rostock, Germania, 2001.

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Il giardino temporaneo e i muri vegetali Il giardino temporaneo è uno degli altri importanti aspetti dell’attuale scena del giardino. Una pratica che, da un lato è diffusa in festival e manifestazioni botaniche in modo da offrire saggi di sperimentazione paesaggistica in aree di piccole dimensioni, dall’altro si lega alle installazioni artistiche (a volte anche permanenti) come alcune di Andy Goldsworthy, di cui Folded wall (1999), un muro in pietra a secco che si snoda come un serpente nella foresta dell’Orange County nello Stato di New York, appare di grande intensità e indicativa del modo di assumere l’artefatto – un muro, un cumulo di pietre, un sasso colorato nel letto di un torrente, una composizione di foglie a sfumatura variabile – come elemento fondativo per trasformare il paesaggio in giardino. L’opera del danese Mikael Hansen condotta in boschi e foreste, le magiche architetture vegetali dell’italiano Giuliano Mauri, del russo Nikolay Polissky, dell’americano Patrick Dougherty, del gruppo statunitense Narchitects e di quello svizzero Sanfte Strukturen di Marcel Kalberer, gli artefatti naturali e i sentieri sensibili dell’austriaco Armin Schubert, i segni paesaggistici che assecondano e sottolineano quelli naturali dei francesi Gilles Bruni e Marc Babarit, i parterre scultorei dell’olandese Daniel Ost, si collocano in tale ambito; sono «opere che utilizzano le risorse dei luoghi, i caratteri specifici del sito, i processi di crescita, i fenomeni

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spontanei e accidentali, e che interrogano il nostro sentimento della natura, mettono alla prova la nostra sensibilità e i nostri pregiudizi e suggeriscono un approccio più dolce e amichevole, meno antagonista e disattento nei confronti dell’ambiente naturale. [...] Sono lavori che non si possono definire ambientalisti o ecologisti, almeno per la maggior parte, ma che operano un repentino avvicinamento al mondo naturale. Usando, senza retorica, gli elementi naturali, impossessandosi di un luogo, sottoscrivono con le forze della natura un patto che, nella maggior parte dei casi, è temporaneo»18. Al carattere di installazione e di sperimentazione esplicita si riconducono quei giardini temporanei che affollano i Garden Show, i festival dei fiori, e che diventano le attrazioni di questi appuntamenti. Basterebbe osservare il successo di pubblico dell’appuntamento annuale costituito dal Chelsea Flower Show londinese per rendersi con-

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Nella pagina precedente: 58. Gilles Bruni & Marc Babarit, Il cammino dell’acqua; vestire le sponde per confronto e coabitazione dello stesso letto, Giardino Botanico di Clemson, Carolina del Sud, 1998. 59. Armin Schubert, Sentiero sensibile, Lustenau, Austria, 2005. 60-62. Chelsea Flower Show 2008, Londra. Da sinistra a destra: A Cadogan Garden di Robert Myers, The Savills Garden di Philip Nixon, The Oceanic garden di Sir Terence Conran e Diarmuid Gavin. 63. Claude Cormier, Blue Stiks, Somerset, Gran Bretagna, 2004. 64 e 65. Land-I, installazione di giardino temporaneo al Westonbirt Festival, Metropolis, Glouchester, Gran Bretagna, 2003.

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to del fenomeno, con i suoi Show Gardens temporanei (il cui prestigioso premio è stato vinto nel 2008 da Tom Stuart-Smith) affollatissimi dal pubblico e dalla critica. Al tema del giardino temporaneo si riferiscono anche le opere dell’inglese Tony Heywood, espresse anche nella forma di microgiardini in vaso (Superbotanics, 2006), delle colorate e polimateriche installazioni realizzate nel Belfast Botanic Garden (The Calling ed Echo, 2006), e del piccolo giardino Kinki Kensho al Festival di Chaumont in Francia (2002). Il canadese Claude Cormier, collaboratore di Martha Schwartz, nei suoi lavori trasforma l’occasione del disegno del giardino in nuova espressione concettuale polimaterica, come nell’opera itinerante Blues Sticks (2004), una piccola radura di bastoni colorati di blu su due lati e di rosso sui rimanenti, capaci di creare un effetto ottico-spaziale sorprendente legato al verde del prato da cui svettano allineati a formare campiture regolari. Una realtà, quella dei festival e delle mostre botaniche, dove si trovano anche partecipazioni di giovani paesaggisti italiani, come lo studio romano Land-I e Antonio Perazzi di Milano. Quest’ultimo, selezionato per partecipare a due prestigiosi festival internazionali di giardini contemporanei nell’edizione del 2003 (il Festival des jardins de Chaumont sur ­Loire in Francia, e il Métis Garden Festival nel Québec in Canada), ha risposto con due progetti di giardini temporanei ma pensati anche per poter crescere nel tempo, con soluzioni praticabili anche nell’immediato urbano e con una filosofia di approccio metodologico che si estende alla dimensione del paesaggio. «Indirizzo comune dei due progetti è la relazione tra pianificazione del territorio e sviluppo incontrollato, della natura e in modo particolare delle piante, all’interno del binomio ambiente costruito/ambiente spontaneo». Spinasecca è il titolo del giardino pensato per il festival di Chaumont, il cui tema era quello delle erbacce, della vegetazione che cresce spontanea nelle città, trovando spazio tra le crepe dei marciapiedi e nelle aiuole, ma anche delle piante pericolose quali quelle spinose e le droghe.

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Perazzi, insieme a Masayo Ave, puntando l’attenzione verso i materiali poveri e le essenze capaci di colonizzare i vuoti urbani, ha creato un sistema di pavimentazione in cemento con una linea predisposta di fratturazione centrale, una sorta di crepa compositiva di riferimento, in cui le erbacce trovavano la loro naturale sede di piantumazione. Tra i percorsi pedonali, le strade e i lotti liberi erano riempiti di ghiaia in lava nera «per esprimere l’aspetto imprevisto degli eventi naturali e la conseguente percezione dello spazio». Se il progetto francese aveva come messaggio la ricerca di una relazione sostenibile tra uomo e ambiente, quello a tema libero disegnato per il festival canadese intitolato Bleu de Bois ha voluto porre l’attenzione sull’aspetto organico del giardino e sul suo mutare di colore e odore durante le ore del giorno. Esteso su una superficie di circa trecento metri quadrati, il giardino si strutturava su un sistema di quadrati di un metro di lato, adibiti ad accogliere vegetazione, ma anche specchi d’acqua riflettenti. La griglia stemperata e diffusa così definita, in bilico tra interpretazione cartesiana e razionale dello spazio e interazione con l’ambiente naturale, era circondata da un tappeto composto dai noti noccioli di ciliegia essiccati. Nel giardino, i visitatori erano invitati a camminare scalzi in modo da comprendere, attraverso il corpo, la trasformazione termica dell’insolito parterre, fresco il mattino e tiepido al tramonto, per il calore conservato dai noccioli esposti al sole. Il rapporto architettura/verde, nel senso di contaminazione compositiva di soluzioni vegetali integrate a quelle più canoniche alla disciplina costruttiva, ha origini antiche e lontane: dai giardini pensili di Babilonia al mausoleo di Adriano, i cui gradoni circolari erano coperti da alberature ad alto fusto, percorrendo i secoli e arrivando alle teorizzazioni del modernismo con il famoso tetto a giardino elencato da Le Corbusier nei punti di riferimento per la nuova architettura, sino alla green architecture di Emilio Ambasz e di James Wines del gruppo site, vere e proprie sperimentazioni dove il verde sostituisce a volte l’idea di facciata e di copertura, una pratica oggi consolidata e sperimentata con riuscita convinzione in alcuni progetti anche da Renzo Piano e da Mario Cucinella e, in generale, dalla cultura architettonica più vicina all’ecosostenibilità e attenta alle nuove tecniche costruttive e di gestione dei nuovi edifici. Si arriva poi agli eccessi; oggi per ogni iniziativa immobiliare sembra obbligatorio mascherare qualsiasi edificio o grattacielo di verde. Ecco allora degli improbabili boschi verticali, atri-serra, e una moltitudine di facciate verdi con terrazze-giardino sempre più ampie, il tutto calato in ampi giardini a livello stradale (almeno nei seducenti rendering che illustrano le varie inziative degli ultimi anni). Esiste tuttavia un aspetto che occorre mettere in rilievo nel complesso scenario offerto dal giardino contemporaneo: il muro vegetale. L’idea di questa soluzione, sorta di giardino traslato di 90°, prende ispirazione dalla condizione naturale che in alcune situazioni esplicita l’autonomia delle piante dal suolo. La sperimentazione di tale possibile espressione di giardino legata all’architettura si deve a Roberto Burle Marx; la particolare condizione climatica del Brasile e la ricchezza di specie vegetali gli permisero di realizzare alcune prime sperimentazioni osservando le broeliacee e soprattutto le molteplici specie di sassicole che crescevano in modo spontaneo sulle rocce granitiche nei dintorni di Rio de Janeiro. Per il Banco Safra a San Paolo (198283), Burle Marx costruì degli affascinanti pannelli vegetali nell’interno e colonne di verde negli spazi esterni. Sono questi i riferimenti per tutta una serie di muri vegetali che a cavallo del nuovo millennio occupano un capitolo a sé dell’arte dei giardini. Sviluppati in genere al di fuori di un contesto naturale e distaccati da un più vasto disegno del verde di un giardino, i muri vegetali si collocano in genere all’interno di spazi costruiti, senza disdegnare di fungere anche da lussureggianti facciate19. Lo studio Klein Dytham Architecture realizza nel 2003, nella centralissima arteria di Omotesando a Tokyo, l’installazione Green Green Screen. Si tratta di una riuscita miscela tra il concetto di muro vegetale e di facciata effimera, dove alla vegetazione si miscelano pattern grafici a grande dimensione per definire una vera e propria recinzione organica che si interpone con convinzione tra decorazione artificiale e naturale, rapportate alla scala urbana.

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66 e 67. Antonio Perazzi, giardino temporaneo Spinaspacca per il Festival di Chaumont-sur-Loire, Francia, 2003; giardino temporaneo Bluedebois International Garden Festival, Reford Garden, Métis, Québec, Canada, 2003-2004. 68. Gross.Max., progetto per un Vertical Garden, Londra, 2005. 69. Patrick Blanc, Edouard François, scultura vegetale verticale, torre La Défense, Parigi.

A cavallo tra muro vegetale e giardino troviamo il progetto del Vertical Garden, sviluppato nel 2005 dallo studio Gross.Max. di Edimburgo con Mark Dion. Si tratta del riutilizzo di un manufatto di riserva idrica preesistente, ubicato nei pressi del Tower Bridge di Londra, trasformato ad altri usi. La scala di sicurezza necessaria è lo spunto per realizzare una gabbia verticale interamente piantumata con diverse specie vegetali (selezionate anche in relazione alla microfauna ospitata, soprattutto di farfalle), per creare così un giardino percorribile su più livelli. Protagonista indiscusso del muro vegetale è il francese Patrick Blanc, che all’arte dei giardini unisce una sensibilità pittorica e un’idea di decorazione attiva, mutevole nel tempo con l’avvicendarsi delle stagioni. Come in una tavolozza di colori, Blanc miscela le specie vegetali ottenendo sorprendenti composizioni cromatiche, chiamate di volta in volta a rendere affascinante un parcheggio interrato (una lunga treccia di verde che scende nei diversi livelli del Parking de Ternes di Parigi pensata insieme a Edouard François), a diventare un monumento vegetale (la torre di verde alla Défense, realizzata sempre con Edou­ ard François); a costituire il muro vegetale per la hall dell’Hotel Pershing parigino ristrutturato da Andrée Putman, una sorta di billboard in movimento di nuova generazione e di grande dimensione per il Marché des Halles ad Avignone; e infine

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a definire il recente fronte per il Musée di Quai Branly a Parigi progettato da Jean Nouvel. In questo caso la facciata di verde (ottocento metri quadri) copre un intero brano del museo, circondando ampie finestre regolari e offrendo alla città un surreale edificio muschiato, una natura artificialis che si affianca in modo disinvolto e dirompente all’elegante linguaggio dell’edificio ottocentesco che lo affianca: un giardino verticale che funge da elemento complementare a quello più vasto, disegnato all’intorno del museo da Gilles Clément. Il giardino contemporaneo, nelle sue molteplici soluzioni e scale d’intervento, rimane un ambito dove la sperimentazione progettuale e creativa sembra libera di esprimersi miscelando in modo sinergico e proficuo stimoli e istanze provenienti da varie discipline per «la costruzione di una natura padroneggiabile dalla mente perché la mente possa ricevere a sua volta ritmo e proporzione dalla natura»20.

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70. Jean Nouvel, Patrick Blanc, muro vegetale al Musée du Quai Branly, Parigi, 2004. 71. Patrick Blanc, muro vegetale al Marché des Halles, Avignone. 72. Orto monastico della basilica di Santa Croce in Gerusalemme a Roma, creato da Paolo Pejrone all’interno dell’anfiteatro Castrense, 2008. 73. Portale d’ingresso dell’orto monastico con il monumentale cancello di Iannis Kounellis.

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BIBLIOGRAFIA E NOTE INDICE DELLE PERSONE E DEI GIARDINI


Bibliografia e Note Questa bibliografia costituisce l’elenco dei libri dedicati al tema della cultura del verde, dei parchi e del giardino, parte della biblioteca dell’architetto Virgilio Vercelloni conservata oggi presso la Biblioteca dell’Accademia di Architettura di Mendrisio. Questo regesto bibliografico, oltre a offrirsi come strumento di approfondimento per ogni lettore, è quindi un documento legato alla figura di progettista e studioso di uno degli autori del presente volume. Qualora le opere non siano indicate nell’edizione originale, si riporta la data della versione anastatica in possesso dell’autore. Seguono le note relative all’introduzione e agli ultimi tre capitoli del volume, opera di Matteo Vercelloni. A garden alphabet, London 1979. A garden treasury, London 1987. A propósito de la Agricultura de jardines, Madrid 1991. Altri orti, altri giardini, Milano 1986. Ambiente s’impara, Milano 1984. American landscape architecture, Washington 1989. An English Arcadia, 1600-1990, Washington 1991. Ancient Roman gardens, Washington 1981. Ancient Roman villa gardens, Washington 1987. Architettura del paesaggio, Firenze 1974. Arredo per parchi, Bolzano 1990. Art into Landscape, London 1974. Arte delle grotte, Genova 1987. Beatrix Jones Farrand (1872-1959), Washington 1982. Berlin durch die Blüme, oder Kraut und Rüben, Berlin 1985. Boboli 90, Firenze 1991. Città, agricoltura, commercio, Modena 1985. Coté jardin, Paris 1984. Croara Country Club, Dorland 1980. Denatured visions, New York 1991. Die Gärten der Herzöge von Württemberg, Worms 1981. Eaux et fontaines dans la ville, Paris 1982. El paisaje, Madrid 1991. El Parc de la Ciutadella, Barcelona 1990. El Parc Güell, Barcelona 1990. Elements & [and] total concept of urban tree design, Tokyo 1988. Equipment for parks and amenity areas, London 1979. Erf en tuin in Oud-Amsterdam, Amsterdam 1980. ... et les jardins en France?, Paris 1988. Ferrara, Venezia 1982. Fiori e giardini estensi a Ferrara, Roma 1992. Fons sapientiae, Washington 1978. Forestazione urbana e volontariato in Europa, 1986. Garden design, London 1984. Garden lore of ancient Athens, Princeton 1963. Gardens and landscapes, London 1977. Gardens horticulture floral art, London 1980. Gärten in Basel, Basel 1980. Giardini cinesi classici, Milano 1990. Giardini d’arte, Bologna 1986. Giardini di villa, Milano 1989. Giardini in Europa, Ravenna 1988. Giardini italiani, 1981. Grandes et Petites Heures du Parc Monceau, Paris 1981. Historic gardens of Virginia, Richmond 1930. Historische Gärten und Anlagen als Aufgabengebiet der Denk­mal­pflege, Tübingen 1978. Hortorum libri, London 1992. Hortus sitwellianus, Torino 1988. I giardini dei monaci, Lucca 1984. I giardini d’Italia, Milano 1834.

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Banham, Scenes in America Deserta, Thames and Hudson, London 1982, tr. it. Deserti americani, Einaudi, Torino 2006. 8. Giorgio Ciucci, La città nell’ideologia agraria di F.Ll. Wright, in AA.VV., La città americana dalla guerra civile al «New Deal», Laterza, Bari 1973. 9-10. Brani tratti da Horticulture in Times and Season, 1 febbraio 1842, e dal Neighbor di Nauvoo, 3 maggio 1843, riportati in Dolores Hayden, Seven American Utopias. The Architecture of Communitarian Socialism, 1790-1975, The mit Press, Cambridge, Mass. 1976, tr. it. Sette Utopie Americane. L’Architettura del socialismo comunitario 1790-1975, Feltrinelli, Milano 1980. 11. Francesco dal Co, Dai parchi alla regione. L’ideologia progressista e la riforma della città americana, in AA.VV., La città americana dalla guerra civile al «New Deal», cit. 12. Andrea Mariani, Il giardino americano nella foresta dei sogni, introduzione al volume Riscritture dell’Eden. Il giardino nell’immaginazione letteraria angloamericana, Liguori, Napoli 2003. 13. Francesco dal Co, op. cit. 14. Ibidem. 15. James Ackerman, The Villa. Form and Ideology of Country House, Princeton University Press, Princeton 1990 (tr. it. La villa. Forma e ideologia, Einaudi, Torino 1992), mette in luce il valore della residenza di Monticello quale gesto progettuale programmatico di uno scenario più ampio, dove linguaggio architettonico – il Neoclassicismo – e il landscape diventano strumenti di supporto al valore della nuova democrazia: «Monticello costituisce l’affermazione eloquente di uno stile di vita colto e impegnato. La sua ubicazione in un luogo isolato, la funzionalità della sua organizzazione strutturale e, infine, la sua indipendenza dalla pretenziosità predominante nell’architettura coloniale, rivelano la volontà di trovare un’espressione architettonica consona agli ideali della nuova democrazia. La sua riaffermazione dell’autorevolezza della classicità, benché filtrata attraverso l’interpretazione offertane da Palladio e dai teorici successivi, così come la selezione dei più recenti elementi di innovazione introdotti dall’architettura francese contemporanea e dai testi inglesi, denunciano l’aspirazione ad arricchire il linguaggio architettonico americano dotandolo di una prospettiva cosmopolita pregna del retaggio classico. [Per Thomas Jefferson] l’agricoltura costituì il punto focale delle convinzioni sia sociali sia etiche. Egli riteneva, infatti, che la forza della nuova democrazia derivasse dalle piccole proprietà fondiarie e che la pratica dell’agricoltura rendesse gli uomini onesti, vigorosi e indipendenti. Lo scopo della sua vita a Monticello non fu semplicemente la fuga dalle tensioni della città, ma anche l’affermazione dell’idea che il lavoro della terra produce salute e forza morale». 16. Francesco dal Co, op. cit. 17. A Treatise on the Theory and Practice of Landscape Gardening Adapted to the North America; With a View to the Improvement of Country residence di Andrew Jackson Downing è pubblicato nel 1841. 18. Francesco dal Co, op. cit. 19. Lewis Mumford, op. cit. 20. Henry James, The American Scene, London-New York 1907, tr. it. La Scena Americana, Arnoldo Mondadori, Milano 2001, New York, Scene sociali, cap. iv, Central Park. 21 Frederick Law Olmsted, Calvert Vaux, Report to

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the Brooklyn Park Commission, 1868, tr. it. Politica dei parchi e valore della proprietà privata, in Paolo Sica, Antologia di urbanistica. Dal Settecento a oggi, Laterza, Bari 1980. 22. Francesco dal Co, op. cit. 23. Ibidem. 24. Nel 1892 fu inaugurato Roland Park a Baltimore nel Maryland. Il sobborgo residenziale ideale di Druid Hills a nord est della città di Atlanta è elaborato da Frederick Law Olmsted nel 1893 e portato a compimento dal figliastro Joel Hurt nel 1905. 25. Per il successo del teatro di verzura nell’America del xx secolo cfr. Vincenzo Cazzato, I teatri di Verzura del Novecento fra riscoperta e revival, in AA.VV., Lo Specchio del Paradiso. Giardino e Teatro dall’Antico al Novecento, Silvana, Milano 1997. 26. Edith Warthon, Italian Villas and their Gardens, 1904. 27. Francesco dal Co, op. cit. 28. In J. Robertson, Renowned Landscape Architect Dan Kiley reviews his life and times in a University of Virginia symposium, in «Inland Architect», marzo-aprile 1983. Citato in Christian Zapakta, op. cit. 29. Michela Pasquali, Loisaida nyc Community Garden, A+MBookstore, Milano 2006; Ead., I giardini di Manhattan. Storie di guerrilla gardens, Bollati Boringhieri, Torino 2008. 30. La coltivazione di orti urbani si configura negli Stati Uniti come un significativo fenomeno collettivo che si diffuse dalla fine dell’Ottocento. I community gardens rispondevano, durante i periodi di crisi, alle esigenze primarie di consumo e produzione di ortaggi da parte delle classi sociali più povere. Spesso sostenuti e finanziati da enti governativi, sia locali, sia federali, gli orti autogestiti occupavano aree abbandonate urbane e suburbane ubicate nelle aree più degradate offrendo opportunità di lavoro per i disoccupati, e fungendo da elementi d’integrazione sociale e di sviluppo di piccoli commerci locali. 31. Ibidem. 32. Massimo Venturi Ferriolo, Giardini vernacolari, in Michela Pasquali, op. cit. Il Novecento (pp. 214-245) 1. Ebenezer Howard (1850-1928) pubblica a Londra nel 1892 il suo Tomorrow: A Peaceful Path to Real Reform, meglio noto con il titolo dell’edizione del 1902 Garden Cities of Tomorrow (tr. it. L’idea della città giardino, Calderini Editore, Bologna 1962), dove enuncia i principi per una città ideale, autonoma e autosufficiente in cui «città e campagna si devono sposare» in un dettagliato impianto radiale il cui centro è un grande parco circondato da costruzioni a bassa densità, case unifamiliari con giardino, su modello di quanto già sperimentato in America dalle comunità ottocentesche. 2. Vedi Alessandra Ponte, Arte civica o sociologia applicata? P. Geddes e T.H. Mawson: due progetti per Dunfermline, in «Lotus international», 30, Electa, Milano 1981. 3. Il Gardenesque nasceva dal nuovo interesse dimostrato dal vasto pubblico per la botanica e l’agricoltura. Una sorta di nuova moda culturale, stimolata dall’importazione di nuove specie di piante e fiori, dallo sviluppo e dalla sperimentazione di nuove tecniche botaniche atte ad acclimatare e coltivare le specie esotiche nella condizione climatica dell’Inghilterra. La principale caratteristica di questa scuola di progettazione dei giardini era quella di enfatizzare

la bellezza individuale di ogni specie impiegata, creando per ognuna un habitat specifico allo scopo di conservarne e di esaltarne le qualità estetiche e olfattive. Loudon sosteneva in tale vettorialità l’apertura e la creazione di nuovi giardini botanici pubblici, sia per il loro valore didattico-educativo, sia per l’aspetto di luoghi ricreativi e naturali. 4. Thomas H. Mawson, Civic Art. Studies in town planning parks boulevards and open spaces, B.T. Badsford, London 1911, citato in Franco Panzini, Per i piaceri del popolo. L’evoluzione del giardino pubblico in Europa dalle origini al xx secolo, Zanichelli, Bologna 1993. 5. Patrick Geddes, City Development. A Study of Parks, Gardens, and Culture-Institute, Geddes and Company, Outlook Tower-The Saint George Press, Edinburgh-Birmingham 1904, citato in Franco Panzini, op. cit. 6. Carlo Ginzburg afferma, nel suo saggio Spie. Radici di un paradigma indiziario (in Crisi della ragione, a cura di A. Gargani, Einaudi, Torino 1979): «se la realtà è opaca, esistono zone privilegiate – spie, indizi – che consentono di decifrarla […] indizi minimi sono stati assunti volta a volta come elementi rivelatori di fenomeni più generali. La visione del mondo di una classe sociale, oppure di uno scrittore, oppure di una società intera». 7. Ignasi de Solà Morales, Il giardino Beaux-Arts, in AA.VV., a cura di Monique Mosser e Georges Teyssot, L’architettura dei giardini d’Occidente, Electa, Milano 1990. 8. Jean-Claude-Nicolas Forestier, Grandes villes et systèmes de parcs, Hachette, Paris 1906, citato in Franco Panzini, op. cit. 9. Franco Panzini, op. cit. 10. Forestier è impegnato in Marocco nel 1913, in Argentina per il piano di abbellimento ed estensione di Buenos Aires nel 1923, a Cuba per la definizione del sistema dei grandi viali-giardino all’Avana tra il 1925 e il 1930, a Barcellona è chiamato per il disegno di alcuni giardini sulla collina del Montjuïch in occasione dell’esposizione internazionale del 1929. 11. Franco Panzini, op. cit. 12. Camillo Sitte, urbanista austriaco, affronta nella sua nota opera Der Städtebau nach seinen Künstlerischen Grundsätzen (L’arte di costruire la città. L’urbanistica secondo i fondamenti artistici), pubblicata a Vienna nel 1889, il tema di una razionale metodologia di pianificazione che affronta anche il tema del verde urbano, contestando la pratica dei viali alberati e dei piccoli giardini urbani limitrofi agli assi stradali, per proporre la costruzione di spazi verdi a contatto con le abitazioni, quali corti-giardino e giardini privati, cui affiancare grandi parchi da realizzare negli spazi aperti. L’anno seguente l’urbanista tedesco Joseph Stübben pubblica il suo Der Städtebau (Darmstadt 1890), un’opera enciclopedica più che un trattato operativo come quello di Sitte, in cui si delinea però l’idea di Piano Regolatore dove il verde diventa standard e dove il parco è diviso in due categorie. La prima è quella dei parchi-giardino e parchi forestali (tra i 5 e i 200 ettari), la seconda è quella dei parchi-passeggiata. Nella prima confluiscono tutti i giardini pubblici urbani, specificando che ogni città di almeno 20.000 abitanti deve avere almeno un parco urbano, per poi indicare un sistema di parchi quale standard necessario alla grande città. Per questi Stübben indica i caratteri e le possibili soluzioni compositive. «Il parco non dovrebbe essere solo un bel pezzo di natura, ma dovrebbe anche

mostrare in modo adeguato l’intervento della mano e del pensiero umano. Da ciò l’opportunità di trovare sempre una mescolanza di vegetazione spontanea e di linee geometriche. […] i parchi delle città tedesche provano ad evitare le esagerazioni dei giardini inglesi e francesi: sono giardini paesaggistici creati con molta cura, punteggiati di parti formali. Non celano la loro origine artificiale e cercano di perseguire quanto più possibile il loro scopo, la ricreazione all’aria aperta. […] i parchi-passeggiata dovrebbero per quanto possibile consentire una visione libera della natura, verso monti e valli di cui solo le parti brutte dovrebbero essere celate, in contrasto con quanto avviene nei parchi-giardino e nei parchi a bosco che in genere offrono viste paesaggistiche al loro interno.» 13. Vortrag von L. Lesser, Die Volksparks der Zukunft, in «Der Städtebau», ix, 1912, citato in Marco De Michelis, La rivoluzione verde. Leberecht Migge e la riforma del Giardino nella Germania modernista, in AA.VV., a cura di Monique Mosser e Georges Teyssot, op. cit. 14. Cfr. Arnalda Venier, Il latte, il prato, l’acqua, il mattone. Storia dello Stadtpark di Amburgo, in «Lotus international», 30, Electa, Milano 1981. 15. Ibidem. 16. Marco De Michelis, La rivoluzione verde. Leberecht Migge e la riforma del Giardino nella Germania modernista, cit. 17. Carlo Cresti, Architettura e fascismo, Vallecchi, Firenze 1986. 18. Vedi Fabrizio Brunetti, Architetti e Fascismo, Alinea, Firenze 1998, cap. 16, La polemica di Strapaese. 19. Cfr. AA.VV., Metafisica Costruita. Le Città di fondazione degli anni Trenta dall’Italia all’Oltremare, catalogo della mostra promossa dalla Regione Lazio, Touring Club Editore Milano 2002. Cfr. AA.VV., a cura di Giuliani Gresleri, Pier Giorgio Massaretti, Stefano Zagnoni, Architettura italiana d’oltremare 1870-1940, catalogo della mostra promossa dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Bologna, Marsilio, Venezia 1993. Vedi anche Città Nuove. Innovazione e idealità nelle città di fondazione, catalogo della mostra itinerante, foto di Donata Pizzi, Skira, Milano 2004; dodecaneso – 1920-1940. Architetture italiane nelle isole dell’Egeo, foto di Donata Pizzi, Sirai, Cagliari 2003. Antonio Pennacchi, Fascio e martello. Viaggio per le città del duce, Laterza, Bari 2008. 20. Le illustrazioni e il resoconto del concorso furono pubblicate dalla rivista «Architettura e Arti Decorative», luglio 1931, anno x, fascicolo ix. 21. Cfr. Massimo de Vico Fallani, (1937-1943): Contributo alla storia dei parchi e giardini dell’E42, in E42. Utopia e scenario del regime, catalogo della mostra, a cura di Maurizio Calvesi, Enrico Guidoni, Simonetta Lux, volume ii, Marsilio, Venezia 1987. Cfr., dello stesso autore, Raffaele De Vico e i Giardini di Roma, Sansoni, Firenze 1985. 22. Massimo de Vico Fallani, (1937-1943): Contributo alla storia dei parchi e giardini dell’E42, cit. 23. Birgit Wahmann, Il giardino Jugendstil, in AA.VV., a cura di Monique Mosser e Georges Teyssot, cit. 24. George Plumptre, I giardini di Geoffrey Jellicoe a Sutton Place, Surrey, in AA.VV., a cura di Monique Mosser e Georges Teyssot, cit. Cfr. anche Marco Bay e Lorenzo Quadri, Geoffrey Jellicoe dall’arte al giardino, Il Verde, Milano 1999. 25. Sull’opera di Robert Mallet-Stevens, cfr. Cristina Volpi, Robert Mallet-Stevens – 1886-1945, Electa, Milano 2005.

26. Richard Wesley, Gabriel Guevrekian e il giardino cubista, in «Rassegna», anno iii, n. 8, La natura dei giardini, c.p.i.a., Bologna, ottobre 1981. 27. Robert Mallet-Stevens, Le jardin moderne et les arbres en ciment armé in «Le Bulletin de la vie artistique», n. 17, settembre 1931, citato in Cristina Volpi, op. cit. 28. Vito Cappiello, Il progetto moderno del giardino, in Giovanni Cerami, Il giardino e la città. Il progetto del parco urbano in Europa, Laterza, Bari 1996. 29. Ralph Borsodi (1886-1997), economista e teorico del back to the land movement, rifiuta in modo esplicito la città di New York isolandosi in una piccola fattoria di otto acri a due ore dal centro urbano e fondando un’unità autosufficiente, basata sul lavoro della terra e sulla produzione privata e autarchica di ogni strumento per vivere e lavorare. L’iniziale esperienza personale lo spinge a fondare una comunità più vasta: Suffern. Questa si configura come un’intera cittadina autosufficiente, dove la produzione è circoscritta ai nuclei familiari per quanto riguarda l’aspetto alimentare; è invece estesa alla dimensione della bottega artigiana per ciò che concerne i manufatti tessili, di legno e metallo. Come nota Giorgio Ciucci, è «una proposta di vita integrata che porta alla rifondazione della struttura della società, un ideale di decentramento dove la famiglia ritorna ad essere il centro della vita associativa e comunitaria: […] è lo spirito del pioniere americano che anima questa iniziativa, solo che alla tradizionale Bibbia viene sostituito il Self-Reliance di Emerson». 30. Giorgio Ciucci, La città nell’ideologia agraria di F.Ll. Wright, in AA.VV., La città americana dalla guerra civile al «New Deal», Laterza, Bari 1973. 31. F.Ll. Wright, An Autobiography, New York 1943, tr. it. Una autobiografia, Jaca Book, Milano 1998. 32. Nelle prospettive a volo d’uccello che rappresentano The Living City (1958), revisione di Broadacre, lungo le grandi arterie che segnano il disegno della città proiettata nella campagna, si riconoscono – secondo uno spirito alla Jules Verne – automobili elettriche e people mover dalle forme inusuali, elicotteri-dischi volanti che arricchiscono la scena campestre indicando le nuove possibilità di utilizzazione del territorio dal punto di vista degli spostamenti e dei trasporti. 33. Per Le Corbusier «l’onnipresente e dominante presenza del paesaggio, a lungo andare, stanca; per acquistare significato, il paesaggio deve avere dei limiti e deve essere messo in proporzione. Esso deve essere sbozzato da mura che si aprono a mostrarlo in pochi punti strategici». 34. Paola Gregory, La dimensione paesaggistica dell’architettura nel progetto contemporaneo. L’architettura come metafora del paesaggio, Laterza, Bari 1998. 35. Le Corbusier, Une ville contemporaine, in «Urbanisme», Paris 1925, tr. it. Una città contemporanea, in Le Corbusier, Scritti, a cura di Rosa Tamborrino, Einaudi, Torino 2003. Verso il nuovo millennio (pp. 246-275) 1. Pierluigi Nicolin, Nuovi paesaggi: temi e figure, in Pierluigi Nicolin, Francesco Repishti, Dizionario dei nuovi paesaggisti, Skira, Milano 2003. 2. Per un’aggiornata selezione critica delle nuove espressioni artistiche legate all’intervento nella natura

e in stretto rapporto con essa cfr. A. Rocca, «Architettura Naturale», 22, Publishing srl, Milano 2006. 3. A Osaka, in Giappone, le terrazze piantumate che formano la collina-canyon artificiale dello Shopping Center Namba Park, progettato da John Jerde a fianco della centralissima stazione di Namba, sono state date in gestione a una serie di pensionati che ogni giorno, nel centro della città, coltivano e accudiscono piccoli appezzamenti di giardino offerti alla città come un’inusitata quanto preziosa passeggiata vegetale. 4. Pierluigi Nicolin, op. cit. 5. Adriaan Geuze, Nuovi parchi per nuove città, in «Lotus international», 88, febbraio 1996, Electa, Milano. 6. Francesco Repishti, Oltre il giardino, in «Lotus international», 128, settembre 2006, Editoriale Lotus srl, Milano. 7. Gilles Clément, in Gilles Clément-nove giardini planetari, a cura di Alessandro Rocca, 22 Publishing srl, Milano 2007. 8. Michel Desvigne, Christine Dalnoky, Trasformazioni indotte, in «Lotus international», 87, novembre 1995, Electa, Milano. 9. Ibidem. 10. La storia dell’High Line e informazioni sul concorso e sulle possibilità di nuovo sviluppo-conversione, Reclaming the High Line, è scaricabile gratuitamente in rete: http://www.thehighline.org. Cfr. anche Designing the High Line: Ganseroot st to 30th st, Friends of the High Line Editior, New York. 11. Maurizio Vitta, Il paesaggio. Una storia fra natura e architettura, Einaudi, Torino 2005. 12. Francesco Repishti, Oltre il giardino, cit. 13. Peter Walker, Dal parco al giardino, in «Lotus international», 87, novembre 1995, Electa, Milano 1995. 14. Ibidem. 15. Ibidem. 16. Si rimanda, per un aggiornamento critico e un confronto delle poetiche, figure e approcci problematici al tema del giardino del nuovo millennio, a T. Schröder, Changes in Scenery-Contemporary Landscape Architecture in Europe, Birkäuser Publisher for Architecture, Basel 2002; Peter Reed, Groundswell-constructing the contemporary landscape (catalogo della mostra), The Museum of Modern Art, New York 2005; Tim Richardson, Avant Gardeneres-50 Visionaries of the Contemporary Landscape, Thames & Hudson, London 2008. 17. Aldo Aymonino, Valerio Paolo Mosco, Spazi pubblici contemporanei. Architettura a volume zero, Skira, Milano 2006. Affermano gli autori: «Fino a non molto tempo fa, mero sfondo consolatorio, vernacolare e intoccabile perché non appetibile dal punto di vista economico, il paesaggio è oggi considerato come opera d’arte collettiva. Patrimonio e motore di interessi pubblici e privati che ne traggono giovamento e ne indirizzano scelte e mutazioni produttive ed estetiche, il paesaggio contemporaneo gode di una complessità di differenze semantiche, tecniche e materiche che nulla hanno da invidiare alla pluralità delle sperimentazioni urbane». 18. Alessandro Rocca, Architettura Naturale, cit. 19. Un regesto critico e ricco di documentazione iconografica sul tema del muro vegetale, con fotografie di Mario Ciampi, è costituito dal libro Giardini in verticale di Anna Lambertini, con un’introduzione di Jacques Leenhardt, Verbavolant, London 2007. 20. Italo Calvino, I mille giardini, in Collezioni di Sabbia, Einaudi, Torino 1976.

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Indice delle persone e dei giardini Alberti Leon Battista, 37 Aldrovandi Ulisse, 58 Alphand Jean Charles Adolphe, 167, 181, 184, 219, 249 Ambasz Emilio, 272 Amboise, 46 Amburgo, Stadtpark, 222 Amsterdam Bos, 225 Andre Carl, 260 André Edouard, 149-150, 155, 159, 219 Aragon Louis, 248-249 Arcosanti, 192, 241 Aretino Pietro, 43 Aristotele, 16 Arp Hans, 244 Asheville, Biltmore Estate, 203 Ashridge P., 163 Assurbanipal, 13-14 Atlanta, residenza di Mrs. James J. Goodrum, 205 Attiret Jean-Denis, 124 Audot Louis-Eustache, 141 Ave Masayo, 272 Avignone, Marché des Halles, 274 Babarit Marc, 268, 270 Babilonia, g. pensili, 7, 13, 272; g. di Marduk-aplaiddina, 14 Bacon Francis, 81 Badeslade J., 100-101 Bagshaw Ward Nathaniel, 158 Balla Giacomo, 236 Baltimore, Maryland, Roland P., 203 Banks Joseph, 62 Barcellona, J. de Villa Cecilia, 263; P. del Migdia, 263; P. de la Creueta del Coll, 263; P. de Poblenou, 263264; P. della Diagonal del Mar, 264; P. Güell, 237 Barillett-Deschamps Pierre,180-181, 184, 219 Barker Robert, 116 Barragán Luis, 244-245, 247 Barthes Roland, 147 Bath, 173 Bauer Friedrich, 222 Bélanger J.F., 116 Belfast Botanic G., 271 Bening Simon, 35 Bennet Edward, 204, 206 Berger Patrick, 248- 249, 253-254 Berlino, Frohnau, P. per il gioco e lo sport, 222; Frohnau, Schillerpark, 222; Kindergarten Schöneweide, 266-267; Wedding, Schrebe­gärten, 224 Betz, 136-137 Bierstadt Albert, 192 Bimeler Joseph, 194

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Birkenhead, 217 Blaikie Thomas, 116 Blaisse Petra, 263 Blanc Patrick, 272-273 Blenheim, 104, 154-155 Bligh William, 158 Blois, 65 Boccaccio Giovanni, 28-29 Bohigas Oriol, 263 Boitard Pierre, 120 Bomarzo, 74-75, 136, 228 Borgo Valsugana, Malga Costa, 268 Borromeo, famiglia, 76 Borsodi Ralph, 239 Boston, Bagel G., 261; Emerald Necklace, 219-201; Franklin P., 200-201 Bourgeois Constant, 137 Boyle Richard, 19, 101 Braintz, 112 Bramante Donato, 38, 258 Bridgeman Charles, 100, 102-103; Sarah, 103 Broadacre City, 192, 239-241 Brooklyn, Bridge P., 255; Eastern Parkway, 198, 200; Greenwood Cemetery, 194, 196; Prospect P., 199 Brown, Lancelot Capability, 99-100, 104-105, 147, 149-150, 177 Brueghel Pieter il Vecchio, 52-53 Bruni Gilles, 269-270 Bruxelles, Palazzo Stoclet, 230 Buonarroti Michelangelo, 43 Buontalenti Bernardo, 44 Burle Marx Roberto, 244, 247, 265, 272 Burlington, lord e lady, 92, 99-102 Burnham Daniel, 205-206 Buzzi Tomaso, 227 Cambridge, Mount Auburn Rural Cemetery, 196 Campbell Colin, 92 Canonica Luigi, 179-180 Caprarola, 204 Carême Marie-Antonin, 168 Carnegie Andrew, 216 Carrogis Louis, Carmontelle, 114-115 Carskoje Selo, Puskin, 114 Caruncho Fernando, 259 Caserta, reggia e p., 96 Castel de Ampurdán, Mas de Les Voltes, 259 Castell Robert, 19, 101 Castiglioni Giuseppe, 124, 126 Caterina ii la Grande, 114 Chambers William, 126-127 Channing Ellery, 190 Chantilly, Dulles International Airport, 208

Chapultepec, Casa Francisco Gilardi, 247 Charlottesville, Monticello, 194-195; Univ. of Virginia, 194-195 Chaumont sur Loire, Festival des j., 271 Chelsea Flower Show, 271 Chicago, Grant P., 206; Jackson P., 206; Oak P., 239; Riverside, 201202 Chisius, Charles l’Ecluse, 63 Chiswick, 100-102 Church Frederick Edwin, 191-192; Thomas, 209 Cicerone, 42 Citera, isola, 41, 173 Città del Messico, casa di Folke Egerstrom, 245 Città del Vaticano, Belvedere, 38, 258; g. dei semplici, 56 Clément Gilles, 9-10, 242, 248-251, 253, 274 Clemson, G. botanico, 270 Cobham, lord, 103 Colbert Jean Baptiste, 184 Cole Thomas, 190-191 Colonia, Vorgebirgspark, 222 Colonna Francesco, 40-42 Columella, 23 Copenhagen, Charlotte G., 264-265 Cordus Valerius, 65 Cormier Claude, 271 Cornovaglia, Glendurgan G., 109 Corrêas, G. Odette Monteiro, 244 Crema, Villa Albera, 259 Ctesibio, 16 Cucinella Mario, 272 Dal Re Marc’Antonio, 76, 88, 123 Dallas, complesso di Solana, 259260; G. on Turtle Creek, 266; Westlake/Southlake, ibm -mtp Headquarters, 259 Dalnoky Christine, 253 Dati Gregorio e Lorenzo, 27-28 David Joshua, 254 De’ Barbari Jacopo, 42-43 De Caus Isaac, 81; Salomon, 66-68, 81 De Crescenzi Pietro, 34 De la Barauderie Jacques Boyceau, 44 De Laborde Alexandre, 112-113, 136-137, 139 De Lorris Guillame, 30 De Montauban Renaud, 26-27 De Monville M., 136 De Pisan Christine, 27 De Rossi Matteo Gregorio, 73 De Vries Hans Vredeman, 48-49, 65 Deauville, 233; Les Roses Rouges, 234 Deering James, 204

Derborence, isola, 252 Desvigne Michel, 253 Determann Walter, 215, 226 Dexler Lorenz, 266 Dézallier D’Argenville Antoine-Joseph, 90-91, 100, 133, 154 Dioscoride, 16, 23, 59, 62 Dougherty Patrick, 268 Downing Andrew Jackson, 194, 196 Du Cerceau Jacques Androuet, 46-47 Duchêne Achille, 154-155, 219-220, 231, 234-235; Henri, 154-155, 219 Dughet Gaspard, 99 Duisburg, Landschaftspark, 256, 257 Dumbarton Oaks, 204 Dunfermline, Pittencrieff P., 216-218 Duvillers François, 183, 219 East Scheldt, Schelpenproject, 262 Ebenezer Howard, 215 Eberwalde, G. Show, 266, 268 Eckbo Garrett, 208 Eliot Charles, 195, 200-202, 208 Emerson Ralph Waldo, 195 Encke Fritz, 222 Ercolano, Villa dei Papiri, 18 Erodoto, 13 Erone d’Alessandria, 16, 67-68 Estienne Charles, 55 Etzler John, 192 Eugenio di Savoia, 91 Falda Giovanni Battista, 72-73 Fariello Francesco, 23-24 Farley, 102 Febvre Lucien, 13 Federico il Grande, 117 Federico v, 67-68 Ferdinando I, 44 Ferrand Beatrix Jones, 204 Ferrand Mariléne, 251 Feugas Jean Pierre, 251 Fiesole, San Bernardino, 32 Filarete, Averlino Antonio, 37, 179 Filone di Alessandria, 16 Firenze, g. di Boboli, 71; Villa Lante, 204; Villa Gamberaia, 204 Fischer Von Erlach Johann Bernhard, 79 Flaubert Gustave, 119-120 Ford Henry, 202 Forestier Jean-Claude-Nicolas, 217220, 263 Fox Alfred, 109 Frampton Kenneth, 241 Francesco i, 25, 44, 160 Francoforte, Ostpark, 222 François Edouard, 272-273 Frezzotti Oriolo, 227 Frigimelica De Roberti Girolamo, 96 Galì Beth, 263

Galveston, 18 Garneray Auguste, 160 Garneray Jean-François, 160 Gaston de Foix, duca d’Orléans, 65 Gaudí Antoni, 237 Geddes Patrick, 216-218 Gehry Frank, 252 Gelsenkirchen, Landschaftspark Mechtenberg, 261 Gerard John, 59 Gesner Konrad, 64-65 Getty Jean-Paul, 18, 210 Geurin Jules, 206 Geuze Adriaan, 248, 262 Giacomo i, 68 Gianda Jean, 88 Giens, Hyères, villa di Charles De Noailles, 237 Gilgamesh, re di Uruk, 7 Girard Dominique, 94 Giulio Parigi, 71 Giuseppe ii, 176 Giverny, g., 170-171 Gloucester, Badminton House, 91-92; Westonbirt festival, 270 Goethe Johann Wolfgang von, 111112, 120 Goldsworthy Andy, 268 Granada, Alcazar, 143, 163 Gravetye, 170 Grohmann J.G., 142-143 Guevrekian Gabriel, 235-237 Hadid Zaha, 255 Hammond Robert, 254 Hansen Mikael, 268 Harmony, Pennsylvania, 193 Haussmann Georges-Eugène, 185 Hearne Thomas, 147 Heick Carl, 222 Heidelberg, 66-67 Heine Christian Johann Heinrich, 111 Heywood Tony, 271 Higmore Joseph, 132 Hirschfeld Christian Cay Lorenz, 109111, 120, 154, 222 Hoffmann Josef, 230, 235 Hogarth William, 79 Holl Steven, 255 Hollis Hunnewell Horatio, 204 Hoole House, 166-167 Howard Ebenezer, 215 Huet Bernard, 251 Irwin Robert, 210 Isole Borromee, 74, 76 Issoudon-Indre, 253 Jackson Davis Alexander, 201 James Henri, 199 Jappelli Giuseppe, 140 Jashemski Wilhelmina F., 18 Jefferson Thomas, 191-193, 203, 206, 239 Jekyll Gertrude, 170, 232, 265 Jellicoe Geoffrey, 18, 154, 232-233 Jodry F.F., 248-250

Johnson Philip, 209 Josephine imperatrice, 166 Joyes Claire, 170 Judd Donald, 260 Kalberer Marcel, 268 Karlsruhe, Hardtwald, 173 Karr Alphonse, 141 Kemp Edward, 217 Kent William, 99-100, 102-103, 105106 Kerner Von Marilaun Anton, 156-157 Kew, Royal Botanic G.s, 62-63, 126127, 142, 156 Kiley Daniel Urban, 208-209 Kinki Kensho, 271 Kleiner Salomon, 86-87, 91-94 Kounellis Iannis, 274 Krafft Jean-Charles, 112, 144-145 Krakauer Jon, 191 La Creuse, La Vallée, 250-251 Lago di Como, Villa Carlotta, 123; Villa Clerici, 123 Lagorio Pirro, 258 Lambertini Anna, 10 Langeland, 268 Langley Batty, 101, 108-109 Laprade Albert, 231 Läuger Max, 222 Laurentum, g. di Plinio il Giovane, 19 Lauriot-Prevost Gaëlle, 252-253 Law Olmsted Frederick, 195-201, 203 Lawson William, 55 Le Corbusier, Charles-Edouard Jeanneret-Gris, 238, 241-243 Le Nôtre André, 81, 89-90, 208, 219, 234 Le Pautre Pierre, 82 Le Rouge Georges Louis, 110-111, 126-127, 132-133, 138, 142 Lebitsch Franz, 230 Lecaisne Ian, 251 Legrain Pierre-Émile, 236-237 Leida, orto botanico, 63 Lenné Peter Joseph, 116-117 Leonardo da Vinci, 37 Lepelmann J., 230 Lequeu Jean-Jacques, 132-133 Leroy Bernard, 251 Lesser Ludwig, 222 Levi D’Ancona Mirella, 166 Lilienfein Albert, 230-231 Lille, P. Henri Matisse, 252-253 Linderhof, 154 Littoria, 227 Londra, Buckingham Palace, 153; Hyde P., 188; Crystal Palace, 140, 158; Show G., 271; St.-James’s P., 188; Vertical G., 273 Lorrain Claude, 8, 98-100 Los Angeles, Central G., Getty Center, 210 Loudon John Claudius, 148-149, 151, 153, 156-159, 166-167, 195, 216 Lovejoy Arthur O., 8

Ludwig di Baviera, 154 Luigi xiii, 81, 89; L. xiv, Re Sole, 65, 81-83, 87 Lustenau, 270 Lutyens Edwin, 170 Maccari Mino, 227 Mackay David, 263 Madrid, Buen Retiro, 186 Mallet-Stevens Robert, 232-237 Malmaison, g. dell’imperatrice Josephine, 163 Mangin Arthur, 188 Manuzio Aldo, 40 Marciana, isola d’Elba, 258 Mariscal Javier, 264 Markham Gervase, 54-55, 109 Marly, Retz, 136 Martel Jan, 236; Joël, 236; John, 144 Martínez Lapeña José Antonio, 263 Martorel Josep, 263 Marziale, 17 Mathieux Philippe, 253-254 Mattioli Pietro Andrea, 59, 61-62 Mauri Giuliano, 268 Mawson Thomas H., 216 May Ernst, 225 McKim, 206 Meier Richard, 210 Menzel Otto, 222 Métis G. Festival, 271 Meyer Gustav, 150-152 Miami, Villa Vizcaya, 204 Migge Leberecht, 223-225 Milano, Arena, 178; Castello sforzesco, 37; Giardini pubblici, 176; Villa Arconati Visconti di Bollate, 88; Villa Belgiojoso, 120-121; Villa Visconti Arese Litta di Lainate, 134-136; Villa Trenzanesio, 228 Millburn, Tahari Courtyards, 266 Milner Henry Ernest, 217 Mique Richard, 223 Miralles Eric, 264 Miyagima Haruki, 259 Mollet Andrè, 44 Monaco, Englischer G., 132, 177179; Hermann-Göring Stadt, 226; Kempinski Hotel, 259; Ramersdorf, 226 Monceau, 110, 114-115 Monet Claude, 170-171 Mongin Pierre-Antoine, 116 Montalbano, Villa di Artiminio, 44 Montargis, 47 Montegabbione, Terni, Scarzuola, 228 Monticello, 203, 239 Monza, P. Reale, 180-181 Morandi Giovan Battista, 63 Morris, 170 Móstoles, Teatro del Bosque, 265 Mountain Dydymus (Thomas Hill), 53-54 Munstead Wood, 170 Mussolini Benito, 226

Nabucodonosor, 13 Napoleone Bonaparte, 178; N. iii, 169 Nash John, 136 Nauvoo, 193 Nesfield William Andrews, 153 Neuschwanstein, 154 New Canaan, 210 New Haven, Yale University, 245 New York, Battery P. City, Teardrop P., 266; Central P., 196-198; Chase Manhattan Bank, 245; Federal Plaza, 261; High Line, 10, 254255; Jacob Javits Plaza, 261; Loisaida, guerilla gardens, 212; Riverside P., 200; Rockefeller Sculpture G., 209; Triangle P., 264; Twin roof garden, 265-266 Nieuhof Jan, 79 Noguchi Isamu, 244, 247 Norimberga, g. di Christoph Peller, 70 Nouvel Jean, 273 Oakland Museum, 208-209 Obletz Peter, 254 Ojetti Ugo, 227 Olbrich Joseph Maria, 231 Orange County, New York State, 268 Orsini Vicino, 74 Osaka, Namba P., 10 Ost Daniel, 269 Padova, orto botanico, 56-57; Palazzo della Ragione, 140 Palladio, 258 Panini Francesco, 38 Papini Roberto, 236 Parigi Alfonso, 71; Giulio, 71 Parigi, Bagatelle, 116, 184 – Bois de Boulogne, 184, 220; Bibliothèque Nationale de France, 252-253; Bois de Vincennes, 184; Buttes-Chaumont, 180-181, 183-184; Champ de Mars, 186, 218; G. dell’Unesco, 245, 247; Hotel Pershing, 273; J. Botanique, 32; Jean Goujon, 236; La Muette, 95; Musée di Quai Branly, 274; Palais Omnisport, 251; P. André Citroën, 248-251; P. de Bercy, 251; La Ville Radieuse, 242; La Villette, 247-248; Plan Voisin, 242; Tuileries, 88; Viaduc Daumesnil, 10, 253, 254 Parkinson John, 62 Parmentier André, 195 Parsons Alfred, 169 Patel Pierre, 83 Paxton Joseph, 140, 217 Payne Knight Richard, 147, 149 Pechino, g. della Città Proibita, 152; palazzo di K’ien-Long, 127 Pedralves, Hotel del Leone, 220 Pejrone Paolo, 258-259, 274 Penn Sean, 191 Perazzi Antonio, 271-272 Perkins Marsh George, 157, 192 Perrault Dominique, 249, 252-253

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Philippe Egalité, Duca di Chartres, 115 Piacentini, 229 Piano Renzo, 253, 272 Piermarini Giuseppe, 176, 180 Pierre Charles L’Enfant, 206 Pietro il Grande, 114 Piranesi Giovanni Battista, 73, 128-129 Pizzetti Ippolito, 258 Plinio il Vecchio, 23 Poirino, Torino, g. di Banna, 258-259 Polissky Nikolay, 268 Pollack Leopold, 177 Pompei, Casa del Frutteto, 17 Pope Alexander, 19, 99-100 Porcinai Piero, 258 Poussin Nicolas, 8, 99 Pratolino, 44 Praz Mario, 160 Pretaia, 44 Price Uvedale, 147, 149 Procaccini Giulio Cesare, 135 Provost Alain, 248-249 Putman Andrée, 274 Raffaello Sanzio, 20 Raguin Philippe, 251 Rastrelli Carlo, 114 Redouté Pierre-Joseph, 163-164, 166 Reggiori Ferdinando, 228 Rein-Cano Martin, 266 Repton Humphry, 106-107, 144, 148149, 163, 177, 195 Ricci Matteo, 79 Rigaud J., 85, 87, 103 Rijnsweerd, Utrecht, Vsb garden, 262 Ritter von Neuhaus Theodor Joseph, 161 Robert Nicolas, 64-65 Robinson William, 168-170, 232 Rocque J., 100-101 Rolin Antoine, 26 Roma, g. di Plinio il Giovane, 101; g. del Principe Ludovisi, 72; g. dell’imperatrice Livia, 17; Horti Sallustiani, 72-73; Monte Pincio, Collis Hortulorum, 73; S. Paolo f.l.m., 7; S. Croce in Gerusalemme, 274; Villa Corsini fuori di Porta S. Pancrazio, 145, 204; Villa Giulia, 39

Roosevelt Delano Franklin, 207 Rosa Salvator, 8, 99 Rostock, 268 Rotterdam, Schouwburgplein, 262 Ruggeri Giovanni, 88 Ruisánchez Capelastegui Manuel, 263264 Ruskin, 170 Rykwert Joseph, 9 Rysbrack Peter Andreas, 102 Saarinen Eero, 208 Saint-Germain-en-Laye, Thébaide, 232 Saitama City, Keyaky Plaza, 260-261 Salem, Nichols G., 195 Salt Lake City, 194 San Gallo, 22-23 San Pietroburgo, Isola Dlinnaja, p. di Gatcina, 114 Sandroni, 134 Sanssouci, 116, 119, 128 Sawrey Gilpin William, 146-147, 149 Scamozzi Vincenzo, 19 Scaravella Anna, 258-259 Scedrin Semën, 114 Schinkel Karl Friedrich, 120 Schubert Armin, 268, 270 Schultz-Naumburg Paul, 226 Schumacher Fritz, 222-223 Schwartz Martha, 260-261, 271 Seattle, 263 Senofonte, 15 Seoul, Back to a Future, 256; Cheong Gye Cheon, 256 Serlio Sebastiano, 43-44 Serpieri Arrigo, 226 Serra Richard, 261 Sezincote (Costwold Hill), 144 Sforza Francesco, 37 Shute House, 233 Sichelbarth Ignaz, 124 Siena, Villa Gori, 204-205 Silva Ercole, 79, 120-121 Sitte Camillo, 222 Siviglia, P. Maria Luisa, 219 Smith Joseph, 193-194; Ken, 265-266 Smithson Robert, 260 Soleri Paolo, 192, 241 Somerset, 271

Sonora County, California, El Novillero, 208 St. Louis Ark P., 208 Stein Gertrude, 163 Stella Frank, 260 Stendhal, 134 Stowe, 100, 103-104, 130 Stra (Vicenza), Villa Pisani, 96 Stuart-Smith Tom, 271 Stübben Joseph, 222 Suarez Diego, 204 Surrey, Sutton Place, 232 Switzer Stephen, 100-101 Tachard, Jeanne e André, 236 Tagliabue Benedetta, 264 Taliesin Spring, 203, 238-239 Taut Bruno, 225 Temple William, 79 Teofrasto, 16, 23 Terry Quinlan, 154 Thom René, 74 Thouin Gabriel, 121, 144-145, 154-155 Thoreau Henry David, 190, 192, 195, 239, 241 Tivoli, Villa d’Este, 258 Torelli Giacomo, 79 Torino, orto botanico, 63 Torres Tur Elías, 263 Toulgouat Jean-Marie, 170 Trammell Shultze Philip, 205 Tribolo Niccolò, 71 Trismosin Salomon, 50-51 Tschumi Bernard, 247-248 Tuby Jean Baptiste, 84 Turner Frederick J., 192 Tuscum, g. di Plinio il Giovane, 19 Utens Giusto, 44 Vacherot Jules, 219 Val Bavona, 11 Van de Pass Crispin il giovane, 64 Van Valkenburgh Michael, 255, 266 Varé, 184 Vaux Calvert, 195-199, 201, 208 Vaux-le-Vicomte, 82, 219 Vendrell Xavier Sala, 263-264 Venezia, Giudecca, 42 Vera André, 220, 231; Paul, 232 Verdú Miguel, 264

Vergely Jacques, 253-254 Vergnaud Nicolas, 104 Versailles, 81, 83-85, 87, 121, 154, 249 Vienna, Augarten, 176; Belvedere, 93-94 Vignola, Jacopo Barozzi, 39 Viguier Jean-Paul, 248-250 Virgilio, 50 Vitruvio, 41 Von Knobelsdorff Georg Wenzeslaus, 117 Von Pückler-Muskau Hermann, 111112, 168-169 Von Schoenaich Brita, 264-265 Von Sckell Friedrich L., 177-178 Wagner Martin, 225; Richard, 154 Waldmüller Ferdinand Georg, 161 Walker Peter, 259-261, 265 Walpole Horace, 53, 100, 102-103, 106 Warton Joseph, 99 Wasau, 268 Washington Irving, 143 Washington Vanderbilt George, 203, 206 Weimar, Bauhaus Siedlung, 215 Weisman Alan, 10 Wellesles, Massachusetts, Hunnewell G.s, 204 West Orange, Llewelyn P., 201-202 Wharton Edith, 205 Wheeler Stearns, 190 Whitman Walt, 195, 239 Wilkins Eithne, 166 Willmott Ann Ellen, 166 Wilton G., 81 Wines James, 272 Wolfsburg, G. show, 268 Wood John il Vecchio e il Giovane, 173-174 Woodside, Hamilton Residence, 208 Wright Frank Lloyd, 192, 203, 238239, 241 Young Brigham, 194 Zagari Franco, 8 Zilia, Corsica, 259 Zoar, Ohio, 194

Crediti fotografici Archivio fotografico Scala, Firenze: 44(14), 45(15). Archivio Mulas, Milano: 229(23). BAMS Photo Rodella: 77(16), 96(25, 26), 180(12). Bildarchiv Monheim: 130(9, 10), 131(11), 132(13), 177(8). Martin Brett, http://www.pbase.com/belvedere: 74(12). Caroline Browm: 266(49). ©Fernando Caruncho: 259(29, 30). Mario Ciampi/ Verba Volant: 273(69), 274(70, 71). Corbis: 190(2). Corbis/©Ruggero Vanni: 75(14). Il Dagherrotipo: 80(1), 86(10), 95(23), 97(27, 28), 182(15, 16), 185(20, 21), 186(22), 187(24, 25), 196(11). Il Dagherrotipo/©Matteo Bazzi: 180(13); /©Lucio Bracco: 142(29), 188(27), 189(28); /©Andrea Getuli: 123(41a, 41b); /©Giorgio Oddi: 32(16), 71(6), 108(16), 175(5); /©Marco Ravasini: 186(23); /©Giovanni Rinaldi: 39(5); ©Fulvio Santos: 84(8). ©Photoservice Electa/Chemollo: 229(22); /su concessione dell’Archivio Scarzuola 228(21). Excalibur: 104(12). Excalibur/S. Toniolo: 118(33, 34), 119(35, 36), 129(8). Dario Fusaro: 258(26, 27). The J. Paul Getty Museum/Becky Cohen : 210(36), 211(37, 38). Andy Goldsworty: 268(53). Dan Kiley, Vermont: 208(31, 32). Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe: 57(9). Antonio Perazzi: 272(66, 67). Torben Petersen: 265(46). Ryan Renaud: 275(74, 75). Paul Rocheleau, Richmond: 201(18), 202(21). Foto Saporetti: 178(10). Anna Scaravella: 259(28). ©Shutterstock: 71(6) Dmitri Naumov, 80(1) Michael Warwick, 86(10) Catarina Belova, 93(21) Canadastock, 95(23) Olgalgns, 96(25) Gimas, 97(27) Roberto Panaccione, 108(16) Rolf E. Staerk, 118(33) e 119(36) Claudio Divizia, 129(8), 175(5) Travellight, 176-177(8) Kelifamily, 182-183(15, 16) Christian Mueller, 186(23) Bokstaz, 188-189(27) e 189(28) Masami Khiara, 196(11) Robert Cicchetti, 197(12) T Photography, 201(19) Courtesy Library of Congress, 203(23) Courtesy Library of Congress, 209(33) Siso Seasaw, 210(36) Ceri Breeze, 221(9) Taras Verkhovynets, 229(22) DinoPh, 257(25) Saiko, 274(71) Heracles Kritikos. Ken Smith: 265(47). Angelo Stabin: 198(13). Foto Unesco: 246(1). Matteo Vercelloni: 10(4), 11(5), 18(10), 197(12), 209(33), 241(47), 248(3), 249(5), 250(6), 251(8, 9), 252(10), 254(14, 15), 225(16, 17, 18), 256(20a, 20b, 20c, 21, 22), 263(42), 264(44, 45), 267(51, 52), 270(60, 61, 63), 271(62, 64, 65). Brita von Schoeneaich: 265(48). Paul Warchol: 210(34, 35), 261(35). Si sono inoltre utilizzati i seguenti volumi: M. Bay e L. Quadri, Geoffrey Jellicoe dall’arte al giardino, Il Verde Editoriale, 1999; D.G. Riccardo Carugati, Giuliano Mauri, Electa, 2003; Gilles Clément, Nove giardini planetari, 22publishing, 2008; M. Mosser e G. Teyssot, L’Architettura de giardini d’Occidente, dal Rinascimento al Novecento, Electa, 1990 e 2005; A. Riggen Martinez, Luis Barragan 19021988, Electa, 2004; A. Rocca, Architettura Naturale, 22publishing, 2006.

In copertina: Claude Monet, Jeanne-Marguerite Lecadre in giardino a Saint-Adresse, 1866, Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo. © Mondadori Portfolio/AKG

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