LA PITTURA MEDIEVALE A ROMA 312-1431 CORPUS
UNIVERSITÉ DE LAUSANNE
MARIA ANDALORO
SERENA ROMANO
LA PITTURA MEDIEVALE A ROMA 312-1431 CORPUS E ATLANTE
CORPUS Maria Andaloro - Serena Romano Ideazione e direzione scientifica
ATLANTE - PERCORSI VISIVI Maria Andaloro Ideazione e direzione scientifica
I Volume*
I Volume*
L’ORIZZONTE TARDOANTICO E LE NUOVE IMMAGINI
VATICANO, SUBURBIO, RIONE MONTI
II Volume
II Volume
III Volume
PRIMA E DOPO IL MILLE IV Volume*
RIFORMA E TRADIZIONE V Volume*
IL DUECENTO E LA CULTURA GOTICA VI Volume
APOGEO E FINE DEL MEDIOEVO
* volumi pubblicati
FONDS NATIONAL SUISSE RECHERCHE SCIENTIFIQUE
Serena Romano
IL DUECENTO E LA CULTURA GOTICA
PIANO DELL’OPERA
ROMA E BISANZIO
DE LA
RIONI TREVI, COLONNA, CAMPO MARZIO, PONTE, PARIONE, REGOLA, PIGNA, CAMPITELLI, SANT’ANGELO III Volume
RIONI RIPA, TRASTEVERE, ESQUILINO, SALLUSTIANO, CELIO, SAN SABA
1198-1287 ca. CORPUS VOLUME V
DIREZIONE SCIENTIFICA Serena Romano Copyright © 2012 Editoriale Jaca Book SpA, Milano Maria Andaloro Serena Romano Tutti i diritti riservati Prima edizione italiana Marzo 2012
ISBN 978-88-16-60375-2 Progettazione, realizzazione grafica e assistenza redazionale a cura di Editoriale Jaca Book CentroImmagine, Lucca Selezione delle immagini Pixel Studio Srl, Milano Stampa e legatura Grafiche Flaminia, Foligno
In copertina Pavone, Roma, sottotetto della basilica di Sant’Agnese fuori le mura Foto di Domenico Ventura International distribution by Brepols Publishers, Begijnhof 67, B-2300 Turnhout Tel: +32 14 44 80 30 - Fax: +32 14 42 89 19 info@brepols.net - www.brepols.net Per informazioni sulle opere pubblicate e in programma ci si può rivolgere a Editoriale Jaca Book – Servizio Lettori via G. Frua 11, 20146 Milano, tel. 02/48561520-29, fax 02/48193361 e-mail: serviziolettori@jacabook.it, sito internet: www.jacabook.it
Collaboratrici scientifiche Irene Quadri e Karina Queijo Redazione scientifica e indici Irene Quadri e Karina Queijo Edizione dei testi epigrafici Stefano Riccioni (S. Ric.) Claudio Noviello (C.N.), per la scheda 30
Testi Walter Angelelli Sofia Barchiesi Fabio Betti Giulia Bordi Guido Cornini Anna Maria De Strobel Andreina Draghi Daniele Ferrara Silvia Leggio Ilaria Molteni Rossella Motta Irene Quadri Karina Queijo Serena Romano Daniela Sgherri
Le campagne fotografiche realizzate per questo volume sono di Domenico Ventura
Il Duecento e la cultura gotica Il Duecento e la cultura gotica costituisce il V volume del progetto ‘La pittura medievale a Roma 312-1431. Corpus e Atlante’ ed è compiuto in collaborazione con i Musei Vaticani e la Biblioteca Apostolica Vaticana (BAV), con il concorso del Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Sovraintendenza ai Beni Culturali di Roma Capitale. La ricerca ha avuto il sostegno finanziario del Fonds National Suisse de la Recherche Scientifique e dell’Université de Lausanne. La pubblicazione ha avuto il contributo della Fondazione van Walsem dell’Université de Lausanne, del Fonds de publications de l’Université de Lausanne, e della Société Académique Vaudoise.
Si ringraziano le istituzioni che, a vario titolo, hanno sostenuto la ricerca: l’Université de Lausanne, l’Università degli Studi della Tuscia, l’American Academy in Rome, la British School at Rome, la Biblioteca e la Fototeca Hertziana di Roma, la Biblioteca dell’Istituto Austriaco di Roma, l’Istituto Svizzero di Roma, la Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte di Palazzo Venezia, la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, l’Istituto Centrale per il Restauro, l’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma, la Sovraintendenza ai Beni Culturali di Roma Capitale; e coloro che all’interno delle istituzioni hanno offerto un fondamentale aiuto per attuare il progetto: per l’Université de Lausanne Anne Bielman Sanchez, già Doyenne de la Faculté des Lettres; per l’Università degli Studi della Tuscia Giulia Bordi; per i Musei Vaticani Antonio Paolucci, Direttore Generale, Arnold Nesselrath, Direttore del Dipartimento per l’arte medievale e moderna, Anna Maria De Strobel, Curatore del Reparto per l’Arte bizantino-medievale e del Reparto Arazzi e Tessuti, Guido Cornini, Curatore del Reparto Arti Decorative, Rosanna Di Pinto, Responsabile dell’Archivio Fotografico; per la Biblioteca Apostolica Vaticana Mons. Cesare Pasini, Prefetto e Ambrogio Piazzoni, Vice Prefetto; per la Veneranda Fabbrica di San Pietro Pietro Zander, Responsabile della Necropoli e delle Antichità classiche; per la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra Fabrizio Bisconti, già Segretario, e Raffaella Giuliani, Ispettore delle catacombe di Roma; per la Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico e del Polo Museale della città di Roma Rossella Vodret, Soprintendente, Andreina Draghi e Alia Englen; per la Soprintendenza per i Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici del Lazio, Anna Imponente, Soprintendente e Giorgio Guarnieri dell’Archivio Fotografico; per la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma Maria Antonietta Tomei, Direttore del Foro Romano e Palatino
6
e Mauro Petrecca; per la Soprintendenza ai Beni Culturali U.O. Rossella Motta; per l’Ufficio per la Conservazione e lo Sviluppo del Patrimonio Artistico, Senato della Repubblica, l’Ingegner Christian Di Bella, Consigliere Parlamentare Reggente; per la British School at Rome Valerie Scott, Direttrice della Biblioteca; per l’Istituto Svizzero di Roma, Christoph Riedweg, Stephan Markus Berger, Responsabile Amministrazione; per la Biblioteca Hertziana le direttrici Sybille Ebert-Schifferer e Elisabeth Kieven, Stefan Morét e Michael Schmitz; per l’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione Anna Perugini; per la Sovraintendenza ai Beni Culturali di Roma Capitale, Umberto Broccoli, Sovraintendente, Claudio Parisi Presicce, Direttore Musei, Maria Dell’Era, Curatore Beni Culturali, Margherita Albertoni, Funzionario Direttivo Beni Culturali e Anna Maria Cerioni, Curatore Storico dell’Arte; l’abate Jacques Brière e Pierluigi Caponera dell’Abbazia delle Tre Fontane; il padre Stefano Fossi di San Saba; il padre LoïcMarie Le Bot dell’Istituto Angelicum ai Santi Domenico e Sisto; il padre Franco di Sant’Agnese fuori le mura e Barbara Rossetti, Architetto; il priore di San Silvestro in Capite, padre John Fitzpatrick; il parroco di Santa Balbina, Monsignor Alfredo Maria Scipione; il parroco di San Crisogono, padre Venanzio di Matteo; il parroco Michael Joseph Higgins e il diacono Francesco Mattiocco dei Santi Cosma e Damiano; il parroco Virgilio Sabatini e padre Vincenzo Patella di Santa Maria Nova; Vincenzo Coraggio, Segretario per gli affari generali dell’Abbazia di San Paolo fuori le mura; la madre priora del monastero dei Santi Quattro Coronati, suor Chiara Palmosi; i sacerdoti di Santa Bibiana; il parroco della collegiata di San Michele a Vico nel Lazio; un grazie ancora a Nathalie Blancardi, Adrien Bürki, Damien Cerutti, Peter Cornelius Claussen, Clario Di Fabio, Yann Dahhaoui, Ivan Foletti, Julian Gardner, Sergio Guarino, Herbert Kessler, Daniela Mondini, Valentino Pace, Pier Luigi Tucci, Domenico Ventura; e come sempre Sante Bagnoli, Joshua Volpara e Giulia Valcamonica di Jaca Book.
SOMMARIO
INTRODUZIONE
13
SCHEDE 1. Le Storie di san Pietro e san Paolo nell’oratorio di Giovanni VII in San Pietro in Vaticano, K. Queijo
51
2. Il perduto medaglione Paparoni nel pavimento di Santa Maria Maggiore, K. Queijo
54
3. Gli affreschi staccati dall’abside di San Basilio ai Pantani. L’Ascensione, I. Quadri e K. Queijo
56
4. L’affresco con la Vergine, il Bambino e santi in San Bartolomeo all’Isola, I. Quadri
59
5. Il mosaico absidale di San Pietro in Vaticano, K. Queijo
62
6. La Leggenda di Ansedonia sull’Arco di Carlomagno all’abbazia delle Tre Fontane, I. Quadri
67
7. Il mosaico con la Virgo lactans e le vergini sagge e folli sulla facciata di Santa Maria in Trastevere, K. Queijo
72
7a. Prima fase: gruppo centrale e vergini S2, S1, D1 e D2 7b. Seconda fase: vergini D3 e D4
73 75
8. Il mosaico absidale di San Paolo fuori le mura, K. Queijo
77
9. L’icona musiva con la Vergine e il Bambino in San Paolo fuori le Mura, K. Queijo
88
10. Il mosaico dell’ingresso monumentale di San Tommaso in Formis, K. Queijo
90
11. Il fregio a mosaico sull’architrave del portico di San Lorenzo fuori le mura, K. Queijo
92
12. La decorazione a finti mattoni nel portico di San Lorenzo fuori le mura, K. Queijo
94
13. La perduta Crocifissione con Onorio III e Iacobus penitentiarius al Laterano (?), K. Queijo
95
14. Il volto duecentesco dell’icona di Santa Maria Nova, K. Queijo
96
15. Gli affreschi del cosiddetto oratorio di Onorio III in San Sebastiano fuori le mura, K. Queijo
98
16. La perduta decorazione dell’oratorio di San Silvestro a San Martino ai Monti, K. Queijo
104
17. La decorazione di Santa Bibiana. Il frammento con Onorio III nella sacrestia, K. Queijo
107
18. I frammenti della decorazione della parete absidale di Santa Maria Nova, W. Angelelli
110
19. Il mosaico della facciata di San Pietro in Vaticano, K. Queijo
113
20. Gli affreschi staccati dall’abside di San Basilio ai Pantani. La Virgo lactans e santi, I. Quadri
117
21. Il palinsesto pittorico della terza cappella della parete sinistra di Santa Balbina, G. Bordi
119
22. Il palinsesto pittorico della terza cappella della parete destra di Santa Balbina, G. Bordi
122
23. Il perduto dipinto murale in San Salvatore in Thermis, G. Bordi
124
24. La “Madonna della Catena” a San Silvestro al Quirinale, S. Leggio
125 7
25. La decorazione del portico di San Saba, I. Quadri
128
43. Il fregio a racemi di Santa Maria Domine Rose, F. Betti
265
26. La decorazione della sala capitolare e del vestibolo all’abbazia delle Tre Fontane, I. Quadri
129
44. I dipinti ai Santi Cosma e Damiano, G. Bordi e I. Quadri
266
27. I velaria nel chiostro di San Paolo fuori le mura, K. Queijo
130
44a. Le decorazioni delle finestre absidali della basilica, G.B.
28. La decorazione pittorica in un edificio in piazza Lovatelli, R. Motta
131
266 267 269
29. Il mosaico con la Vergine e il Bambino nella nicchia del sacello di San Zenone a Santa Prassede, K. Queijo
133
30. Il complesso dei Santi Quattro Coronati, A. Draghi e K. Queijo
136
30a. L’Aula ‘Gotica’, A.D. 30b. I frammenti di affreschi nella sala adiacente l’Aula ‘Gotica’, A.D. 30c. I frammenti di affreschi nel sottotetto della torre minore, A.D. 30d. La Sala delle Pentafore, A.D. 30e. Il Calendario nella sala antistante la cappella di San Silvestro, A.D. 30f. La decorazione della cappella di San Silvestro, A.D. 30g. Il fregio nel sottarco del portico, K.Q. 30h. Il perduto affresco con la Crocifissione nella basilica, K.Q. 30i. I resti della decorazione affrescata sulla controfacciata della basilica, K.Q.
31. Le decorazioni affrescate della residenza di San Clemente, S. Romano 31a. Saletta nella torre 31b. Salone
32. Il Palazzo Apostolico Vaticano. Prima fase, G. Cornini, A.M. De Strobel e I. Quadri 32a. La stanza al primo piano della Torre d’Innocenzo III, I.Q. 32b. La Stanza d’Innocenzo III o della Cicogna all’ammezzato della Torre d’Innocenzo III, I.Q. 32c. La Stanza della Falda, I.Q.
137 177 178 179 180 191 209 210 212 216 216 219 220 222 223 224
44b. I velaria nell’emiciclo della Rotonda, I.Q. 44c. Il ciclo nella nicchia della Rotonda, I.Q.
45. La Croce dipinta ai Santi Domenico e Sisto, I. Quadri
274
46. La Crocifissione nella navata di Santa Prassede, I. Quadri
278
47. La decorazione della “torre” presso San Crisogono, G. Bordi
280
48. La lunetta con la Vergine, il Bambino e santi sull’Arco di Carlomagno all’abbazia delle Tre Fontane, I. Quadri
283
49. Gli affreschi nel sottotetto della basilica di Sant’Agnese fuori le mura, S. Romano
285
50. L’abside di Santa Passera, I. Molteni
294
51. La Crocifissione dal convento di Santa Balbina, I. Quadri
296
52. La Crocifissione nella sesta nicchia della parete sinistra di Santa Balbina, G. Bordi
298
53. La Madonna Odigitria dei Santi Cosma e Damiano, D. Sgherri
300
54. L’icona di san Francesco a San Francesco a Ripa, K. Queijo
303
55. La Croce dipinta nel convento di Sant’Alberto, I. Quadri
305
56. La decorazione a fresco in Palazzo Saragona-Albertoni (Museo Nazionale Romano, Crypta Balbi), F. Betti
308
56a. Il salone a ‘L’ al primo piano
308 310
33. Il pannello della Madonna col Bambino e santi dal chiostro di Santa Maria Nova, W. Angelelli
226
34. La decorazione pittorica ai Santi Giovanni e Paolo, S. Barchiesi e D. Ferrara
228
57. Il mosaico della facciata di Santa Maria in Trastevere. Terza fase: vergine D5, K. Queijo
311
228 229 230
58. Gli affreschi dell’Aula Consiliare del Palazzo Senatorio, S. Romano
312
59. Il ciclo con Storie dei santi Pietro e Paolo e di san Silvestro e Costantino nel portico di San Pietro in Vaticano, I. Quadri
316
35. Il perduto Calendario di Santa Maria de Aventino, I. Quadri
238
60. La cappella del Sancta Sanctorum nel Palazzo del Laterano. Affreschi e mosaici, S. Romano e K. Queijo
321
36. I frammenti dei Lavori dei Mesi (?) nel Palazzo Senatorio, I. Quadri
242
61. La decorazione duecentesca in San Paolo fuori le mura, S. Romano
339
37. Il ciclo dei Mesi e le raffigurazioni allegoriche nella torre abbaziale di San Saba, I. Quadri
245
61a. Quattro clipei con ritratti papali (Museo della basilica di San Paolo)
340 344
38. La perduta decorazione di San Lorenzo in Lucina, K. Queijo
249
34a. I frammenti nel portico 34b. I frammenti nell’ambiente al secondo piano del convento 34c. L’affresco del Salvatore con gli apostoli nella navata sinistra della basilica
38a. Le Storie di san Lorenzo nell’emiciclo absidale 38b. La lunetta con la Vergine e il Bambino tra santo Stefano (?), san Lorenzo (?) e una donatrice 38c. Il Cristo con i simboli degli Evangelisti
249 251 252
39. Il medaglione con cavalieri nel pavimento di San Lorenzo fuori le mura, K. Queijo
253
40. Le perdute Storie di san Lorenzo sulla controfacciata di San Lorenzo fuori le mura, K. Queijo
255
41. La perduta decorazione della tomba di Guglielmo Fieschi in San Lorenzo fuori le mura, K. Queijo
259
56b. La sala al secondo piano
61b. I dipinti su piedritti e navata centrale
62. Il Palazzo Apostolico Vaticano. La seconda fase pittorica, I. Quadri 62a. La Stanza della Falda 62b. Il Cubicolo di Niccolò V 62c. La Sala Vecchia degli Svizzeri 62d. La Sala dei Chiaroscuri 62e. La seconda Sala dei Paramenti o del Concistoro Segreto
42. Il mosaico del tabernacolo Capocci di Santa Maria Maggiore (Vico nel Lazio, collegiata di San Michele Arcangelo), K. Queijo
8
262
62f. La Cappella Niccolina 62g. La Stanza d’Innocenzo III
346 346 347 347 347 350 350 350
63. La Natività e l’Incoronazione della Vergine nella sacrestia dell’abbazia delle Tre Fontane, I. Quadri
353
64. Il ciclo pittorico nella cappella di Santa Barbara ai Santi Quattro Coronati, S. Romano e I. Quadri
358
9
65. La Madonna Advocata di San Lorenzo in Damaso, D. Sgherri
364
66. La decorazione pittorica della “quarta navata” di San Saba, I. Quadri
367
67. La Vergine col Bambino e santi in San Gregorio Nazianzeno, I. Quadri
373
68. La Vergine con il Bambino nella terza cappella della parete sinistra di Santa Balbina, G. Bordi
375
69. L’affresco con la Crocifissione dal convento di San Silvestro in Capite, S. Romano
376
APPARATI
Abbreviazioni Bibliografia Indice dei nomi Indice dei luoghi Indice delle illustrazioni
10
384 385 412 414 416
Nota all’apparato epigrafico L’apparato epigrafico, denominato Iscrizioni nelle schede relative ai singoli monumenti, è stato curato da chi scrive seguendo i criteri qui di seguito brevemente enunciati. L’esame delle iscrizioni si è basato di regola sull’osservazione autoptica; in alcuni casi, la trascrizione e la descrizione delle epigrafi sono state eseguite anche ricorrendo a riproduzioni fotografiche e/o a trascrizioni tramandate (edizioni o copie). In particolare, chi scrive ha redatto la sezione Iscrizioni siglate: “S. Ric.”. Per quanto riguarda il complesso dei Santi Quattro Coronati, l’apparato epigrafico delle schede 30a e 30e, è stato interamente curato da Claudio Noviello. Lo schema editoriale dell’apparato epigrafico segue le Inscriptiones Medii Aevi Italiae (IMAI, 1, 2002, VIII-X), in forma abbreviata, relativamente a: Tipologia dell’iscrizione; Posizione nell’opera; Spazio grafico; Allineamento; Stato di conservazione; Tipologia scrittoria; Morfologia e, ove individuabile, Fonte del testo. L’edizione delle iscrizioni si basa sulla metodologia della paleografia latina e della diplomatica (Petrucci 1992, 38-47, 184-194) e, in particolare, accoglie i criteri di normalizzazione del testo elencati nella raccolta Le lettere originali del Medioevo latino (VII-XI sec.) diretta da Armando Petrucci: adeguamento a criteri moderni nell’uso della punteggiatura logica; distinzione tra maiuscole e minuscole, secondo il sistema moderno corrente; scioglimento delle abbreviature (tranne le dubbie); separazione delle singole parole; lettere incluse, inscritte o soprascritte vengono trattate alla stregua del testo rimanente; normalizzazione dell’ortografia limitata alla distinzione tra u e v (j, y, ij ... vengono trascritte come sono); si mantiene la distinzione tra monottongo e dittongo (ae, e); non si interviene sullo stato grafico fonetico del testo, che viene lasciato invariato; (LOML, I, 2004, XIX). Per quanto riguarda l’edizione dei testi, sono stati adottati le norme e i segni diacritici stabiliti da Silvio Panciera e Hans Krummrey (Krummrey – Panciera 1981, 205-15; Panciera 1991, 9-21), per il Corpus Inscriptionum Latinarum, nonché le indicazioni fornite da Ivan Di Stefano Manzella (Di Stefano Manzella 1987, 36-39), adattati da chi scrive per l’edizione delle iscrizioni medievali (Riccioni 2009). Per l’immissione dei testi è stato utilizzato il carattere tipografico Pserif roman, gentilmente concesso dal prof. Silvio Panciera, che qui ringrazio. L’edizione dei testi epigrafici è composta da una trascrizione integrativa seguita (ove necessario) da un sintetico apparato di natura filologica e/o di commento per giustificare le scelte testuali, le integrazioni di parti mancanti del testo nonché le varianti all’edizione proposta. A fini esplicativi sono state impiegate le seguenti formule: “Trascrizione da foto, disegno, acquerello, etc. (riferimento bibliografico)”, per le iscrizioni perdute, ma tramandate da copie sulla base delle quali è stata realizzata l’edizione del testo; “Trascrizione secondo (singolo riferimento bibliografico)” per le iscrizioni perdute, ma tramandate da trascrizioni ritenute attendibili; “Trascrizione in base a (più di un riferimento bibliografico comprensivo anche di fotografie, disegni, etc.)” per le iscrizioni perdute, ma tramandate da più edizioni e/o copie. Le iscrizioni integrate sulla base di disegni, fotografie, etc. sono segnalate con: “Integrazione da (riferimento bibliografico)”; le trascrizioni integrate con trascrizioni precedenti sono indicate con: “Integrazione secondo (riferimento
bibliografico)” o “Integrazione in base a (più di un riferimento bibliografico comprensivo anche di fotografie, disegni, etc., quando questi sono posteriori alla trascrizione tramandata)”.
Segni diacritici Di norma la trascrizione si dispone su una riga impiegando: / : la barra obliqua posta tra due spaziature per indicare fine riga; quando la parola è divisa fra righe successive, la barra obliqua viene inserita senza spaziature; // : le doppie barre oblique poste tra due spaziature per indicare fine pagina o fine sezione; nei casi in cui il testo prosegue su un nuovo supporto: nuovo cartiglio, nuova tabella, nuova epigrafe, nuova pagina, nuova cornice, etc. Fanno eccezione le iscrizioni metriche, per le quali si va a capo alla fine di ogni verso. | | : le doppie barre verticali separate da una spaziatura indicano l’interruzione dell’iscrizione per la presenza di un immagine o parte di essa. abc (minuscolo corsivo) : trascrizione dei testi dall’originale quando chiaramente leggibili o trascrizione di iscrizioni perdute ma tramandate. ABC (maiuscolo tondo) : trascrizione di lettere e numerali chiaramente leggibili, ma posti all’inizio, in mezzo o alla fine di una o più parole che non si può/possono ricostruire chiaramente. abc (minuscolo corsivo sottolineato) : lettere trascritte da precedenti trascrizioni o da altre testimonianze e inserite ad integrazione della trascrizione. a ßb cß ß: lettere con punto sottostante indicano una lettura incerta. + + + : lettere non riconoscibili; per ciascuna croce si intenda una singola lettera. a(bc) : lettere tra parentesi indicano scioglimento di abbreviazione. âb̂c: lettere in nesso, segnalate con una o più lettere congiunte mediante segno angolato posto sulla prima lettera della coppia in nesso, o prime due. <abc> : aggiunta di testo, da parte dell’editore. £abc¤ : lettere errate corrette dall’editore. `abc´ : lettere aggiunte in antico per correggere il testo. {abc} : lettere aggiunte per errore, espunte dall’editore. [ ] : le parentesi quadre indicano, in generale, che il testo è lacunoso, quando all’interno di esse si trova un testo [abc], si intenda lacuna colmata dall’editore. [- - -] : lacuna non quantificabile con precisione a destra o sinistra di una lettera o parola insistente sulla medesima riga. [- - - - - -] : lacuna consistente in una riga intera. - - - - - - : lacuna di un numero indefinibile di righe. [[ ]] : lettere o parte di testo che siano stati cancellati. Per l’elenco completo si vedano le citate pubblicazioni di Krummrey e Panciera. Stefano Riccioni
11
I CANTIERI DI ROMA
LUOGHI E COMMITTENTI 1 - Il primo Duecento La centralità di Roma, il suo ruolo fondamentale per gli svolgimenti della cultura di età gotica in Italia, la sua funzione di melting pot tra il Nord Europa e il Mediterraneo, e infine il suo peso per la “rivoluzione del 1300” e per la formazione di Giotto: sono i temi che motivano la discussione sul Duecento romano, il secolo che ha visto più novità e scoperte durante il Novecento, e che continua in questi anni ad apparire come una sorta di inesauribile vaso di Pandora, la cui abbondanza speriamo di mostrare in questo volume. È un tournant storiografico, quello che affrontiamo in queste pagine. Nessun secolo, infatti, come il Duecento, ha tanto sofferto per gli schemi di giudizio profondamente radicati nella tradizione storiografica italiana: ha sofferto perché la straordinaria cultura toscana, il cui successo è inseparabile dalla personalità di Giotto, ha imposto un ordine di lettura che non ammetteva veri interlocutori e co-attori a fianco degli artisti toscani e soprattutto fiorentini. Lo sguardo di Ghiberti e quello di Vasari, ma anche quello via via più articolato del Lanzi e della critica ottocentesca, hanno oscurato e diminuito la presenza di Roma sulla scena, puntando al Trecento, quando Firenze e la Toscana esprimono artisti a livelli incomparabili, e Roma invece si eclissa per l’assenza della corte pontificia. Nulla è più lontano dalle mie intenzioni, nel presentare il lavoro di vari anni condotto con giovani studiosi e colleghi, del lanciare in questo libro una vuota polemica di retroguardia circa la rivalità di Firenze e di Roma nella gerarchia del Medioevo italiano. Questo tema ha animato la ricerca nel corso del Novecento, ha avuto anche ricadute giornalistiche a forti tinte, ma oggi viene discusso in modi molto più maturi e condivisi, con molta maggiore consapevolezza dei dati della questione e soprattutto delle assenze macroscopiche in un panorama – quello toscano, e ancor più quello romano – di cui noi sbirciamo fantasmi, piccoli resti, frammenti, o echi impalliditi1. L’obiettivo di questo volume, come di tutta l’impresa del Corpus-Atlante, è di recuperare tutti i dati possibili, e di riconnetterli tra loro storicamente; le somme saranno tirate alla fine, ma in questo saggio cercherò di presentare le linee essenziali del panorama che si è venuto così a dettagliare, e di confrontarne i risultati con i precedenti punti d’arrivo storiografici. Qual era, la visione tradizionale del Duecento romano? Direi, un inizio roboante con Innocenzo III, una prosecuzione con Onorio III; poi la crisi federiciana, la caduta in verticale della produzione, il vuoto di metà secolo, l’ulteriore fase dei papi francesi e della corte pontificia fuori Roma; alla fine degli anni Settanta Niccolò III, il suo breve revival ‘romanistico’; e poi ci si ritrovava ad Assisi, a decidere quale fosse stato il ruolo dei mestieranti romani, stretti fra il grande Cimabue e il grandissimo Giotto. Cosa rimane, oggi, di questo modo di vedere la storia, e non certo solo a seguito del volume del Corpus, ma di decenni di studi e scoperte, alcune delle quali mozzafiato? Tentiamo di andare in ordine cronologico, e tocchiamo in primo luogo la questione “Innocenzo e Onorio”, quindi i primi trent’anni circa del secolo. L’impressione è chiara: nel campo della committenza artistica la statura di Innocenzo rimane, ad un’analisi ravvicinata, certo imponente, ma nei suoi inizi sembra dover molto ai temi sviluppati già dal predecessore Celestino III (11911198): da un Celestino che lavora a stretto contatto con Cencio Camerario, futuro Onorio III, il regista di alcuni atti cruciali per l’amministrazione e la vita liturgica della curia – pensiamo al suo Liber Censuum e alla sua nuova redazione del cerimoniale pontificio – e molto probabilmente il vero ispiratore di molta politica pontificia della fine del XII secolo2. È la coppia Cencio-Celestino che dona le porte bronzee del Laterano, nelle quali la figura dell’Ecclesia e la carica simbolica della città di Roma quale sede dell’autorità papale costituiscono precise anticipazioni di quanto poi Innocenzo svolgerà nell’abside di San Pietro3. La contiguità dell’universo ideologico e figurativo di Celestino e di Innocenzo aiuta anche a comprendere come mai ben due cicli pittorici, ambedue perduti, siano stati attribuiti ora all’uno, ora all’altro dei due papi: il fregio del portico lateranense studiato da Ingo Herklotz e nella scheda del Corpus IV (¤ 62) assegnato a Celestino; e le storie petrine dell’oratorio di Giovanni VII in Vaticano, che invece sono inserite in questo volume (¤ 1), dunque con una preferenza per Innocenzo III. Nell’impossibilità di prendere decisioni su base stilistica, un argomento che ha pesato nella valutazione è stato certamente quello della scelta del sito: il Laterano è carissimo a Celestino, mentre è sembrato che le storie petrine dell’oratorio possano essere un plausibile atto di Innocenzo, che istituisce la processione della Veronica conservata nell’oratorio e potrebbe averla circondata di Storie dell’Apostolo, l’archetipo pontificio per eccellenza4. Nel Vaticano Innocenzo concentrerà il suo messaggio figurativo più alto e più ‘pesante’, quello del mosaico dell’abside (¤ 5) [1], dove egli elimina l’antica redazione, probabilmente una Traditio legis, per fissarvi l’immagine del Cristo nella sua massima autorità escatologica e giudiziaria, e apporvi l’Ecclesia Romana affrontata alla sua propria immagine: un testo, quello del mosaico vaticano, che da solo basta a garantire la fama di questo pontefice, audace come e più di quanto sarà, alla fine del secolo, Niccolò IV, che oserà demolire il vetusto e miracolo mosaico lateranense e vi si farà effigiare5. È assolutamente ovvio che per un pontefice I CANTIERI DI ROMA 13
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del calibro e della forma mentis di Innocenzo, metter le mani – per così dire – sulla basilica di San Pietro fosse un atto quasi dovuto, il solo degno del suo progetto politico e comunicativo; è altrettanto ovvio che all’intervento su San Pietro dovesse corrispondere, nel suo programma, quello su San Paolo, il pendant apostolico di garanzia della storia della Chiesa romana. I Gesta dicono con assoluta chiarezza che Innocenzo aveva già lanciato il progetto per la basilica ostiense e vi aveva già destinato fondi6; la lettera di Onorio III al doge veneziano, 1218, dice con tutta evidenza che a Roma c’erano già artefici veneziani al lavoro per il nuovo mosaico – e che non bastavano7. È certo che tutto il lavoro preliminare – messa a punto del progetto, demolizione del vecchio mosaico, inizio del lavoro al nuovo – mai potrebbe esser contenuto nei primi mesi del pontificato di Onorio: l’inizio spetta dunque a Innocenzo, che poi fu espunto dal risultato finale, pagando così di fatto un debito a Cencio Camerario che sotto di lui, per diciotto anni, era stato marginalizzato nella curia e nella politica ecclesiastica8. Toccare un testo figurativo venerato in una grande basilica romana era un atto ‘pesante’, e sappiamo, per quanto si conosce della storia di Roma medievale, che i pontefici hanno sempre cercato un equilibrio tra la conservazione e l’innovazione. Così, e se all’inizio del Duecento sopravviveva a San Paolo il mosaico probabilmente paleocristiano che doveva accompagnare quello di V secolo esistente sull’arco, è possibile immaginare che questo obnubilato testo pre-duecentesco assomigliasse a quello quasi altrettanto irraggiungibile della San Pietro pre-duecentesca, e vi comparisse quindi una teofania con un Cristo stante accompagnato da possibili due, o quattro figure laterali9. Nella scheda pubblicata in questo volume, Ilaria Molteni avanza l’ipotesi che l’arcaico schema compositivo dell’affresco absidale di Santa Passera (¤ 50), già negli anni Sessanta o Settanta del secolo, conservi i tratti essenziali di un più antico affresco che doveva completare la decorazione della chiesa altomedievale, di cui sono in effetti sopravvissuti consistenti brani. Una sorta di nuova edizione marcatamente conservativa, che non stonerebbe nel clima e nelle abitudini romane. Ma suppone anche che questa prima virtuale decorazione, e quindi la seconda che la ricalcherebbe, dipendesse da quella pre-duecentesca della basilica ostiense, nella cui orbita la piccola chiesa della via Portuense gravitava: Santa Passera, luogo alquanto marginale, ‘copiando’ il proprio stesso schema absidale pre-duecentesco, ne avrebbe conservato gli elementi di fondo comuni al mosaico pre-duecentesco di San Paolo, a una data in cui questo era stato invece già rinnovato. Se questa ipotesi è plausibile, la San Paolo pre-innocenziana risulterà aver avuto una decorazione absidale affine a quella, presunta, della San Pietro dei primi secoli, con un Cristo stante e figure laterali; altrettanto paralleli quindi, nel primo Duecento, risulteranno i due progetti, ambedue innocenziani, per i mosaici delle due basiliche. In ambedue, il nucleo essenziale della trasformazione riguardò – verosimilmente – la figura del Cristo stante, che venne trasformata nel molto più autoritario Cristo in trono, una Maiestas Domini [2]10. Ma a questo punto Innocenzo muore, e interviene Onorio: ed è forse lui il padre dell’ulteriore e rivoluzionaria idea, che alla fine fa di San Paolo non una mera copia del Vaticano, ma un testo aggiornato su ulteriori questioni teologiche, capace anche di aprire a quella che potrei definire una diversa emozionalità11. Rimando alla scheda di Karina Queijo per tutti i dettagli (¤ 8): ma ricordo che il suo studio appunto propone una novità rispetto agli studi precedenti, e cioè che il tessuto concettuale del mosaico 14 I CANTIERI DI ROMA
ostiense includa non solo le prospettive escatologiche legate al trono-altare e ai santi Innocenti raggruppati sotto di esso in attesa del Giudizio Finale, ma anche, e in modo ad esse intersecato, una riflessione eucaristica, argomento di estrema attualità nel primo Duecento e oggetto di grande attenzione da parte di Innocenzo III, ma che Onorio avrebbe visualizzato nella propria stessa apparizione nel mosaico, prosternato e a testa nuda come egli stesso aveva prescritto che ognuno dovesse inchinarsi davanti al Sacramento12. Onorio fu molto attivo in campo artistico, più di Innocenzo: a prescindere dalle già citate porte bronzee del Laterano, da cardinale fu attivo ai Santi Giovanni e Paolo13; fu lui il padre della grande, lunga e complessa impresa a San Lorenzo fuori le mura, che ribaltò audacemente la chiesa altomedievale e che in questo volume è rappresentata dal fregio musivo del portico (¤ 11); sappiamo che intervenne in Santa Bibiana (¤ 17); appariva ai piedi di una non precisamente ubicabile Crocifissione, probabilmente in Laterano (¤ 13); non è da escludere sia stata davvero sua l’iniziativa dei dipinti nel cosiddetto oratorio di Onorio III a San Sebastiano fuori le mura (¤ 15). Resta invece senza un padre famoso l’altro grande progetto musivo della Roma primo duecentesca, il mosaico di facciata di Santa Maria in Trastevere (¤ 7, ¤ 57), un testo sistematicamente trascurato o frainteso negli studi, e di cui proponiamo qui un’ipotesi di lettura forse complessa, ma aderente all’analisi visiva e agli aspetti conservativi. Per maltrattato e mutilo che oggi sia, non se ne deve sottovalutare l’importanza: fu un manifesto di prezioso mosaico esposto, contemporaneo – se le nostre ipotesi sono giuste – ai cantieri vaticano e ostiense; e fu un’idea programmatica inedita per quanto si sa a Roma, e tutta imperniata sul mito della basilica trasteverina e della “Fons Olei”14. Il modo in cui vengono fusi e manipolati gli elementi del programma è eccezionale: è usato lo schema delle vergini sagge e delle vergini folli in quanto metafora dell’attesa escatologica dello Sposo, ma il Cristo cede il passo a sua Madre al centro della composizione – omaggio all’intitolazione della basilica e metafora della Ecclesia – e l’olio delle lampade si trasfigura in quello che miracolosamente cola nel sito della chiesa. Non è impossibile che il progetto prendesse piede ad opera di ignoti ecclesiastici – raffigurati in ginocchio accanto al trono della Vergine – attorno o a partire dal 1215, anno in cui si consacra la chiesa, dunque proprio durante i vent’anni di intermezzo nella titolarità della basilica, che dopo il cardinal Papareschi, morto nel 1208, deve aspettare il 1228 per accogliere colui che sarà protagonista della vita artistica e culturale cittadina per tutto il secondo quarto del secolo, Stefano Conti15. Sarà però proprio sotto il cardinalato di Stefano Conti che si renderà necessaria già la prima opera di restauro al mosaico, che darà filo da torcere nel corso di tutto il secolo, forse per una difficile o mal fatta aderenza alla superficie curva del cavetto: ne risulterà una sorta di diario dello stile ‘medio’ delle botteghe cittadine del mosaico, dagli echi monrealesi all’età di Torriti e Cavallini. L’importanza del ciclo pittorico della cappella di San Silvestro a San Martino ai Monti (¤ 16) è stata fortemente penalizzata dalla perdita dei dipinti, di cui oggi restano solo gli acquerelli seicenteschi. Doveva essere un complesso programmaticamente antiquariale, di un gusto ancora fortemente legato a quello dei decenni attorno alla Riforma gregoriana; celebrava infatti, coerentemente, i tempi eroici dei primordi della Chiesa, attraverso il personaggio di papa Silvestro. Ma occorre sottolineare che vi si associavano i due personaggi di Silvestro e di Thomas Becket, quest’ultimo I CANTIERI DI ROMA 15
già celebre in Italia centrale e onorato in particolare da Guala che tra 1216 e 1218 era stato legato in Inghilterra e ne riportò le reliquie che forse Stephan Langton gli aveva passate16. Inutile insistere sul significato politico del personaggio di Becket: va detto però che la scelta iconografica dell’affiancamento Becket/papa Silvestro, di trasparente senso polemico e celebrativo, verrà replicata dopo una ventina d’anni o poco più nel complesso dei Santi Quattro, che pure dedica due dei nuclei del programma, nell’oratorio di San Silvestro (¤ 30f) e sulla controfacciata della chiesa (¤ 30i), alle medesime due molto politicizzate figure di Silvestro e di Becket17. Altri committenti restano invece più nell’ombra. Se Irene Quadri ha ragione, un omonimo di Cencio Camerario, il Cencio Cancellarius dell’Urbe – dunque un laico, rappresentante del potere comunale cittadino ormai resuscitato da più di mezzo secolo – potrebbe essere il committente della grande Madonna con il Bambino e santi, sorta di grande icona affrescata nell’abside destra di San Bartolomeo all’Isola (¤ 4), e se così fu, di Cencio abbiamo notizie tra 1201 e 1204. Non molto tempo dopo, fu presumibilmente l’abate delle Tre Fontane colui che decise di far decorare il cosiddetto Arco di Carlomagno (¤ 6), in pratica l’ingresso monumentale all’abbazia in cui si inscena la celebrazione dei possedimenti maremmani del monastero; si è talvolta voluto che fino al 1216 questo abate sia stato Raniero Capocci, futuro cardinale di Santa Maria in Cosmedin e altro uomo-chiave nella Roma politica e culturale del secondo quarto del secolo18. Lo stesso anno 1216 potrebbe essere cruciale per fissare la data di quello che dovette essere un episodio importante nel paesaggio artistico romano. I frammentari affreschi staccati da Santa Maria Nova (¤ 18) sono quanto rimane della campagna decorativa che si ha ragione di legare appunto all’incendio scoppiato nel 1216, e al conseguente programma di restauro al tetto: l’incendio danneggiò anche la venerata icona mariana della chiesa, anch’essa poi riparata imitando, come era prevedibile, le fattezze della vecchia (¤ 14). Il costo dell’intervento al tetto sembra esser stato sostenuto da Sinibaldo, canonico di Santa Maria Maggiore (altro santuario mariano) e camerario papale tra 1217 e 1221, morto nel 1222 e nel 1223 sepolto nel portico della chiesa; resta del tutto ignoto se questo Sinibaldo avesse rapporti familiari o clientelari con i Frangipane, cui Santa Maria Nova pertineva quasi come fosse una chiesa o cappella palatina, mentre una notizia pur molto leggendaria collega le vicende dell’icona alla famiglia dominante sul Palatino19. L’attenta verifica dei frammenti ancora in situ ha permesso a Walter Angelelli di collocarli con precisione sull’arco absidale: una novità rispetto a quanto si sapeva prima, quando si pensava genericamente al “transetto”20. L’integrazione di mosaico e affresco fra abside e arco absidale non è in genere progettuale a Roma: sembra piuttosto essere il frequente risultato di scelte scalate a grande distanza di tempo, spesso generate da esigenze occasionali. A Grottaferrata, il mosaico del 1200 circa fu sovrastato dopo qualche decennio da un ciclo testamentario ad affresco, eseguito per integrare lo spazio della sopraelevazione della chiesa, e forse la stessa cosa avvenne a Santa Maria Nova21. Poco più tardi, nell’abside dei Santi Cosma e Damiano, due intradossi dipinti nelle finestre absidali (¤ 44a) farebbero pensare a un’impresa di adornamento attorno al grande mosaico paleocristiano, in uno spazio dove di lì a poco venne installata la nuova icona della Vergine (¤ 53); nella seconda metà del secolo, timpani e cornici ad affresco affiancarono il mosaico di VII secolo anche a Sant’Agnese fuori le mura (¤ 49). 2 - Gregorio IX, Federico II, il ‘vuoto’ e il ‘pieno’ di metà secolo Gregorio, Ugolino dei Conti, il grande cardinale, l’interprete geniale e precoce del ruolo del francescanesimo nella Chiesa, il papa parente di Innocenzo e a lui simile nel creare una curia di cardinali ‘universitari’ formati a Parigi o a Bologna; papa fanatizzato nei suoi tempi tardi e difficili, regna per lunghi anni, dal 1227 al 1241, ma a lui spetta un’unica impresa romana22. Non possiamo spiegare questo apparente scarso impegno: forse con lo stato di ansia e pericolo causato dalle tensioni con Federico II, forse con il fatto che la corte fu assente da Roma per più di metà del pontificato; forse con la perdita di altre opere, o forse per l’esistenza dell’altro, assorbente progetto della basilica e del convento di San Francesco ad Assisi23. Ma questa sua unica impresa, il mosaico di facciata di San Pietro in Vaticano (¤ 19), appare emblematica in quanto affermazione dell’autocoscienza e dell’autorappresentazione pontificia, nel paesaggio di una città troppo vicina al potere del grande nemico. Impossibile dire se il mosaico vaticano sia stato concepito come un’opera ex-novo, o se fu in realtà un più modesto aggiustamento, conservativo, tecnico e iconografico, della grande raffigurazione musiva che campeggiava sul prospetto della basilica già nell’Alto Medioevo, sinteticamente testimoniato dalla miniatura farfense [3]24. Abbiamo detto “modesto”: ma è probabile che, se aggiustamento fu, sia stato un progetto quasi ancora più ambizioso di uno completamente ex-novo, appartenendo a una delle modalità dominanti nella committenza pontificia cittadina: conservare l’esistente ma adattarlo radicalmente ai nuovi tempi, mantenere la carica ideologica e simbolica della tradizione, avvalendosene per rendere più efficacemente comunicativo il nuovo contenuto25. Le procedure tecniche e operative cambiano di caso in caso, come si vede al solo considerare il caso dell’abside vaticana (¤ 5) o, a fine secolo, di quella dell’abside lateranense26: sulla facciata vaticana, il nuovo progetto mantiene, e anzi accresce il sapore escatologico e apocalittico della messa in scena, inserendo al suo interno quella che potremmo definire come la doppia attualità, spirituale e temporale, dei tempi di Gregorio. Quindi la Deesis, la preghiera 16 I CANTIERI DI ROMA
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d’intercessione della Vergine e di san Pietro presso il Cristo – nessuno stupore che in Vaticano san Pietro soppianti il Battista o l’Evangelista – secondo una scelta devozionale probabilmente in debito ai modelli bizantini recentemente ‘rinforzati’ anche alle porte di Roma27. E soprattutto, se è giusta l’analisi acuta di Gandolfo, mediante l’allusione al rito dell’aureum coronarium la facciata ora comunicava l’immagine della ‘discesa’ del potere, che si trasmette dal Cristo, al papa, al sovrano, gerarchicamente ordinati come in una precisa piramide feudale, con il papa quale inevitabile e inamovibile intermediario di qualsiasi autorità imperiale28. Non c’è stato finora modo di accertare la data precisa dell’impresa vaticana, e dunque non si può che circoscriverla ai quattordici anni del pontificato gregoriano. Ci sfugge così, ancora, un dato importante: il rapporto cronologico tra le due imprese esposte – se ci si passa il termine – di Gregorio e di Federico: la facciata di San Pietro, e la Porta di Capua [4], che sembrano guardarsi accigliate da lontano, espresse in tecniche contrapposte – il tradizionale, pontificio, mosaico, e la ‘nordica’ scultura con uso di spolia antiche – ma in fondo accomunate da un affine bagaglio concettuale. La Porta, iniziata nel 1234 e ultimata nel 1239 circa, ci appare quale risposta deliberata e orgogliosa di Federico all’affermazione teocratica dell’abside vaticana di Innocenzo: una Giustizia laica e antica, con Federico imperatore sul fronte della Porta che guardava a Roma, una Maiestas imperiale affiancata dai suoi personali intercessori e consiglieri, Taddeo da Sessa e Pier delle Vigne29. Il grande indice di differenza, e una differenza palesemente ispirata all’Antico, è che si tratti di un manifesto, appunto, ‘esposto’, pubblico, non dello splendore di un mosaico incardinato nel punto più sacro di una chiesa. La decisione di Gregorio, di metter mano alla facciata della basilica e di svolgervi il tema dell’autorità inquadrato in una prospettiva escatologica, può essere letta in un contesto di necessità storica accresciuta e di bisogno urgente di comunicazione, il più possibile pubblica: ma forse fu il suo atto estremo e quindi una sorta di risposta al ‘manifesto’ imperiale federiciano; e forse le caratteristiche che intravvediamo nei pochi frammenti sopravvissuti – grandi disparità di stile, quindi molti artefici recuperati da cantieri precedenti e messi insieme senza troppe preoccupazioni di omogeneità, con ‘risparmio’ di intere zone del mosaico precedente – fanno pensare a un programma deliberato, ma anche a una precisa necessità di tempi rapidissimi di esecuzione. Dopo di che, Gregorio IX a Roma sembra tacere: se Gandolfo ha ragione, è piuttosto nel ciclo pittorico della cripta di Anagni che andranno rintracciate le visioni forti e fosche di questo pontefice, connotate – in fondo al pari della facciata vaticana – da vaste sottolineature apocalittiche30. Alla sua morte, siamo al 1241: ancora pochi anni, e nel 1244 la corte pontificia parte per Lione, Innocenzo IV Fieschi – uno degli uomini più importanti del Duecento europeo – fugge da Roma: il motivo contingente è il concilio, ma il concilio durerà pochi mesi e lui invece non tornerà se non alla soglia della morte, quasi dieci anni dopo31. Il sapore di questa assenza fu forse percepito meno, dai contemporanei, di quanto sembri a noi oggi, forse perché nella nostra esperienza storica c’è Avignone. Ma fu nondimeno un periodo diverso rispetto alle normali assenze della curia, anche prolungate, con pontefici che talvolta non mettevano quasi piede a Roma: ci fu la coscienza dell’assenza, perché il papa delegò i cardinali a tenergli la città, e rese così il loro ruolo più potente e significativo di quanto si fosse visto in precedenza. I CANTIERI DI ROMA 17
3 - Aria nuova in città Gli studi su Roma medievale, così inevitabilmente catalizzati dal riferimento alla presenza della corte papale e al registro altissimo di committenza da essa garantito, sono sempre a disagio quando questa presenza si sfuma e lo spazio da essa occupato viene condiviso con altre realtà. Così è nato, nella storia dell’arte a Roma nel Medioevo, il concetto di “vuoto di metà secolo”: che sembrava perfettamente confermato da altri studi storici, i quali bene avevano mostrato la questione dell’itineranza della corte papale nel Duecento, un vagabondare per lidi più sicuri di quelli romani e per palazzi più protetti, ad Anagni, a Orvieto, a Viterbo, per non parlare del lungo soggiorno della curia a Lione32. Il periodo in questione è quello che va, appunto, dal concilio di Lione (1244) all’avvento al trono pontificio di Niccolò III Orsini (1277): decenni ai quali fino a non molto tempo fa era difficile assegnare una fisionomia che non fosse per così dire in negativo, un intervallo tra l’acme raggiunto a inizio secolo e quella che sarà poi la fioritura della sua fine. Il grande scossone a questo modo di vedere la storia di Roma è stato dato – credo lo si possa dire – dalla scoperta dei dipinti dell’Aula ‘Gotica’ ai Santi Quattro Coronati (¤ 30a) [5]: un episodio di stupefacente ampiezza, del tutto coerente con quanto si sapeva della storia della pittura e della cultura a Roma e al tempo stesso rivoluzionario nel riportare alla città, e ai suoi foyers, gli elementi che fino a quel momento erano stati considerati allogeni, prodotti dalla freschezza e dalle novità a Roma impossibili e a Roma importate33. Le centinaia di metri quadrati dei dipinti dell’Aula ‘Gotica’, con il loro universo enciclopedico, naturalistico, antichizzante, con i riferimenti all’attualità religiosa del primo Duecento espressi in una forma altrove non nota (Francesco e Domenico sulle spalle di Virtù, nani sulle spalle dei giganti di memoria chartriana) fotografano la cultura visuale di Roma poco prima della metà del secolo rendendola per così dire degna dei quadri storici descritti negli studi di Agostino Paravicini Bagliani e di altri studiosi34. Con questo gigantesco asso nella manica acquistano un senso diverso e molto più coerente i tanti altri episodi, più frammentari o addirittura distrutti, oppure già noti e non ben valutati, o del tutto nuovi per ulteriori scoperte o restauri: questo volume, lo spero con tutti i suoi autori, rende qualche giustizia al paesaggio troppo spesso perduto della Roma di metà Duecento. La corte dei papi e i personaggi che la abitano sono il luogo e il terreno privilegiato per l’affluenza – si direbbe oggi – del registro più alto della ricerca; sono un foyer internazionale, percorso dai pensatori provenienti da ogni dove e spregiudicato, questa è l’impressione, nell’entrare a contatto anche con ambienti in via di principio alternativi a quelli ecclesiastici. Il contatto con la corte federiciana appartiene a quest’ultimo aspetto della questione: la cultura araba, scientifica, naturalistica, aristotelica, fonte antica dei nuovi saperi nei campi della medicina, dell’astronomia, della botanica, della matematica, dell’ottica, viatico per la conservazione e la riscoperta della cultura e dei testi greci, non era monopolio esclusivo dell’entourage di Federico II e sarebbe incomprensibile senza le premesse della Sicilia normanna, ma alla sua corte ebbe asilo e udienza35. L’immagine del cardinal Raniero Capocci, cistercense titolare di Santa Maria in Cosmedin e commendatario di San Clemente fino al 1250, seduto davanti a Federico, alla sua corte, intento a discussioni matematiche con il grande matematico Leonardo Fibonacci che all’imperatore e al cardinale dedica i suoi libri, è uno di quei rari spaccati di una realtà estremamente più complessa e flessibile di quanto la rappresentino gli schemi riduttivi dell’immaginazione e della lacunosa documentazione storica36. Nella stessa famiglia Conti, la famiglia di Innocenzo III e di Gregorio IX, non mancarono le figure che si prodigarono in mediazioni e che cercarono il compromesso e talvolta l’amicizia dell’imperatore, e basti citare due nomi, quello di Stefano – proprio il committente del gran programma dei Santi Quattro – mediatore a tutti costi ancora dopo il 1241, e di suo fratello Giovanni, senatore di Roma a più riprese, lui addirittura amico e fedele dell’imperatore, e suo consuocero tramite la figlia Margherita, senza peraltro aver mai dovuto, per questo, dissociarsi dalla propria cerchia familiare o entrarne in collisione37. Contatti, interessi, curiosità, letture, incontri, un movimento incessante di uomini, oggetti, libri, certamente garantivano alle élites delle pur contrapposte corti del papa e dell’imperatore la comune appartenenza alla più alta circolazione del sapere d’avanguardia in Europa38. È difficile, naturalmente, legare in maniera stretta e univoca i fenomeni legati al sapere letterario, scientifico e filosofico e quelli attinenti alla sfera visuale. Ed è anche impossibile tracciare uno spartiacque cronologico netto tra fasi storiche, ipotizzando – ad esempio – che durante i pontificati di Innocenzo III o Onorio III fossero assenti dalla corte papale gli indici di novità così evidenti nei decenni centrali del Duecento; molte aperture verso il Nord Europa, anzi, sono state già notate dalla critica, specialmente per ciò che attiene Innocenzo e la sua committenza nel campo dell’illustrazione libraria e dell’arte dei metalli39. È tuttavia estremamente probabile che la decisiva fase dell’invasione della nuova cultura visiva nella città di Roma si sia verificata in concomitanza, se non a causa, delle condizioni politiche cui accennavo più sopra: ampie premesse nel corso degli anni Trenta, poi nel 1244 il concilio di Lione, Innocenzo IV che fugge in Francia e più non torna a Roma fino al 1253 morendo poi a Napoli nel 1254; i quattro cardinali che tengono Roma e di fatto se ne appropriano, occupando lo spazio di committenza che, presente il papa, al papa soprattutto spettava e si concentrava sui luoghi emblematici della cristianità romana, le basiliche40. Così come, nel Trecento, gli anni difficili e pericolosi di Cola di Rienzo aprirono verosimilmente le porte a sistemi figurativi caratteristici delle civiltà cittadine non romane (Siena, Firenze), anche ora, a metà Duecento, Roma senza papa non muore affatto e non resta certo 18 I CANTIERI DI ROMA
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afasica, ma allenta per un po’ il nodo tra la presenza pontificia e i luoghi e il paesaggio della città41. Le grandi basiliche – siti dedicati all’autorappresentazione pontificia – vengono lasciate stare, mentre emergono altri protagonisti e si aprono scenari diversi. A voler tentare un primo bilancio degli studi più recenti, ma soprattutto di quelli che sono confluiti in questo volume e che sono in larga parte dovuti alla generosissima collaborazione degli storici dell’arte che lavorano nella città e nelle sue istituzioni, i punti essenziali mi sono sembrati i seguenti. Il primo, e in parte l’abbiamo già anticipato, riguarda la visibilità dei cardinali e delle loro residenze. Specie durante il soggiorno di Innocenzo IV a Lione, i quattro cardinali che assicurano il controllo di Roma – Rainaldo di Jenne, futuro papa Alessandro IV; Raniero Capocci, cardinale cistercense di Santa Maria in Cosmedin; Riccardo Annibaldi, cardinale di Sant’Angelo; e Stefano Conti, cardinale di Santa Maria in Trastevere, tutti in varia misura parenti di Innocenzo III e, nel caso di Annibaldi, dello stesso Rainaldo di Jenne – abitano i più grandi e ben difesi palazzi cardinalizi della città, i cui titoli – una coincidenza, o una circostanza deliberatamente perseguita e consolidata per lungo tempo? – restano comodamente vacanti, e quindi fonte di lucrose commende, per tutto il secolo o gran parte di esso. La prima nomina del titolare dei Santi Quattro è del 1338, il titolo di San Clemente è vacante dal 1199 al 1294, quello dei Santi Giovanni e Paolo dal 1217 al 1310: si tratta delle residenze meglio difese, e verosimilmente più ornate, della città42. La perdita di quasi tutti gli apparati decorativi medio duecenteschi del Palazzo Vaticano non ci permette alcuna supposizione sulla circolarità e similarità di modelli, sulla condivisione di pittori, tra le residenze cardinalizie e quella pontificia vaticana: non bastano le vestigia pittoriche nella Torre cosiddetta di Innocenzo III (¤ 32) per capire se il papa Fieschi, e altri suoi predecessori/successori, si fossero preoccupati di addobbare il Palazzo in modo degno di una corte pontificia pur quasi sempre assente. Ancora una volta quindi bisogna essere avvertiti che le assenze e le lacune del panorama storico potrebbero indurre in gravi errori di valutazione: ma a considerare quello che resta, l’intraprendenza dei quattro cardinali romani mi sembra comunque un dato reale e coerente con il quadro storico. Il Capocci si occupa molto di San Clemente, di cui è commendatario, e forse ne fa dipingere gli ambienti di rappresentanza, così come aveva fatto per il proprio palazzo viterbese, sontuoso e già distrutto nel 1247. A Viterbo Capocci ospitò Gregorio IX nel 1236, e nel 1240 Federico II in persona: una data assai impressionante visto che a quell’epoca il cardinale era già schierato sul fronte antifedericiano. In quello di San Clemente entra Giunta Pisano nel 1239, accanto al cardinale, in veste di testimone di un atto notarile43. Stefano Conti abita nel palazzo dei Santi Quattro e lo fa decorare con la spettacolare veste pittorica che conosciamo, e di cui si parlerà ancora più avanti in questo saggio: resta forse da ricordare che Stefano è l’unico cardinale del Duecento ad esser ritratto [6] in un’opera da lui non commissionata, distante decenni dalla sua morte, celebrato quale patrocinatore di un monastero di Clarisse nel sud del Lazio, presso Alatri, in quel meridione laziale così vitale per tutta la prima metà del Duecento romano44. La notizia che Riccardo Annibaldi occupi il palazzo dei Santi Giovanni e Paolo è del 1256, ma è possibile I CANTIERI DI ROMA 19
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che l’Annibaldi, cardinale di Sant’Angelo dal 1239, si fosse già da tempo appropriato del palazzo, auspice Rainaldo di Jenne, suo parente e protettore, cardinale dal 1227, camerario papale e futuro Alessandro IV, sotto il quale il palazzo viene definito «nostro»45. Morto Stefano Conti nel 1254, fu rapido Ottaviano Ubaldini, cardinale di Santa Maria in Via Lata, a sostituirlo ai Santi Quattro, e altrettanto tempestivo Ottobono Fieschi, cardinale di Sant’Adriano, a occupare dopo la morte di Capocci (1250) quello di San Clemente46. Il costume è principesco e lussuoso: e altri palazzi saranno fondati o ampliati di lì a poco, segno di un’esigenza di rappresentanza e di visibilità che non è attestata o documentata, per quel che sappiamo, nei secoli precedenti. Fra 1284 e 1287, il palazzo di Ugo di Evesham a San Lorenzo in Lucina sarà un altro caso esemplare di residenza cardinalizia ambiziosa e principesca, edificata certo riusando strutture precedenti limitrofe alla chiesa titolare. Ugo sembra essere arrivato alla corte romana più per i suoi meriti scientifici che per la sua pietà religiosa, in questo simile al suo precedessore nel titolo, il cistercense medico e inglese Giovanni da Toledo (cardinale dal 1244 al 1262) e all’altro grande caso di Pietro Ispano, lo scienziato e medico divenuto papa Giovanni XXI nel 1276; impiantato direttamente sul sito dell’Ara Pacis, il cantiere del medico-cardinale inglese permise forse un contatto con il monumento antico e le sue sculture, ben prima del Rinascimento47. Alla fine del secolo (ma qui travalichiamo i confini di questo volume, e rimandiamo quindi i dettagli al futuro tomo del Corpus) Niccolò IV assegnò il palazzo dei Santi Quattro, a vita, a Benedetto Caetani, il quale, divenuto papa Bonifacio VIII, lo passò al nipote Francesco, mentre l’altro nipote Giacomo Caetani Tomassini si faceva sistemare e decorare il palazzo cardinalizio di Santa Maria in Cosmedin, che forse il Capocci, qualche decennio prima, aveva trascurato in favore di quello di San Clemente48. E così prestigiose e decorate, così alla moda e recentemente addobbate, queste residenze antenate delle mondanissime livree avignonesi di fatto diventano una specie di alberghi a cinque stelle disseminati nel cuore della città, usati dai suoi principi ma occasionalmente a disposizione di ospiti particolarmente importanti: come si vede nel 1265, quando a Carlo d’Angiò fu benevolmente consigliato di andare a risiedere ai Santi Quattro e non al troppo pontificio Laterano49, nel 1267 quando vi fu ospitato Enrico di Castiglia, o più tardi, nel 1302, quando Bonifacio VIII sembra abbia tenuto compagnia a Carlo di Valois nel palazzo di San Clemente, mentre la famiglia di Carlo II di Napoli era stanziata a Santa Sabina50. Le botteghe dei pittori dovevano girare in questi circuiti cardinalizio-pontifici: l’omogeneità degli apparati di fregi e di ornamentazioni in queste residenze rispetto ai già citati resti in quella duecentesca vaticana, ma anche in quelle di Viterbo, Orvieto, e prima ancora di Anagni, non può sorprendere51. Pur in quantità molto limitata, e mutilata di tutto quanto si vorrebbe sapere circa i modelli composizionali d’insieme e gli eventuali pattern narrativi, emerge però in questo volume, imprevista e inedita, un’ulteriore e meno nota committenza, quella laica privata, benestante o aristocratica, o – se il termine è lecito – protobaronale: famiglie, in sostanza, residenti in città e sufficientemente ambiziose e alla moda da volere per i propri spazi privati una decorazione pittorica che forse non disdiceva al gusto del tempo e anzi si poneva in competizione con i modelli più nobili. Abbiamo esempi come sempre molto frammentari: i resti d’affresco del palazzo Lovatelli (¤ 28), del poco più tardo Saragona (¤ 56); i lacerti del cosiddetto battistero di San Crisogono, che si è rivelato 20 I CANTIERI DI ROMA
essere una torre nobiliare verosimilmente annessa a una residenza e ‘appoggiata’ al sito della basilica (¤ 47); all’estremo di questo volume, i malridotti dipinti della cappella di Santa Barbara ai Santi Quattro Coronati (¤ 64). Le famiglie – che restano purtroppo ignote – si fanno dipingere gli spazi dove abitano e quelli nei luoghi di culto dove probabilmente contano di farsi seppellire, e li costellano – grande novità – delle loro insegne araldiche, un’invasione che questo volume mostra essere più precoce di quanto si sapesse e che si affianca all’apparizione dei pannelli musivi dei Paparoni in Santa Maria Maggiore (¤ 2) e di sconosciuti cavalieri in San Lorenzo fuori le mura (¤ 39)52. Famiglie che non sono ancora, appunto, i baroni della seconda metà del secolo53, ma che in buona parte certamente vivono nell’ombra protettrice del potere ecclesiastico e curiale (il caso dei pannelli musivi è esplicito) e appaiono aperte a un gusto che palesemente pesca in tutt’altri repertori che quelli cui il paesaggio ‘ufficiale’ romano ci ha abituati: in palazzo Lovatelli soprattutto, alberi fioriti, animali, cacciatori, donne con lunghe trecce, immagini insomma rigorosamente laiche che forse citano favole o altro materiale narrativo e librario, e tra di esse si affaccia una silhouette di giovane ricciuto degna della miniatura francese di metà secolo [33]. E sembra strizzare un occhio al Nord Europa l’idea di situare figure di cavalieri bardati di tutto punto con stendardi e insegne araldiche, nel pavimento di spazi liturgici basilicali: quasi una versione musiva e meridionale di altre apparizioni cavalleresche e principesche, note nelle cattedrali transalpine54. Il paesaggio devozionale cittadino resiste a sua volta benissimo alle asprezze dei tempi, e mostra qualche evidente attitudine conservativa, che però presto si affianca all’ingresso delle stesse tematiche innovatrici avvistate nei casi sopra menzionati. In città operano e arrivano ordini religiosi vecchi e nuovi: naturalmente i Benedettini di San Lorenzo e San Saba, i Giovanniti di Gerusalemme che soppiantano gli antichi Basiliani a San Basilio, i Trinitari di san Giovanni de Matha, i Cistercensi delle Tre Fontane, i quali in particolare sembrano attivamente implicarsi nel mondo delle immagini, con buona pace di san Bernardo di Chiaravalle. Invece, per tutta la più gran parte del secolo, Francesco d’Assisi e Domenico di Guzman non sembrano aver grande visibilità nella città dei papi55. Bisognerà aspettare Niccolò IV e le absidi del Laterano e di Santa Maria Maggiore per vedere san Francesco campeggiare nello spazio absidale di una grande basilica, e verosimilmente gli stessi anni per avere cicli francescani in navate di chiese o in grandi cappelle di famiglia56. Le apparizioni precedenti – con tutto il beneficio del dubbio nel giudicare un panorama così lacunoso – sembrano più sporadiche e in certo modo marginali. Nell’Aula ‘Gotica’ ai Santi Quattro (¤ 30a) Francesco e Domenico appaiono immessi nel sistema enciclopedico e moralizzante del grande programma, in qualche modo perdendo la propria specificità di nuovi santi/eroi duecenteschi [8-9]. Non è certo sia Francesco il santo che accompagna la Crocifissione del convento di Santa Balbina, circa gli anni Sessanta-Settanta (¤ 51), e all’incirca contemporanea è l’effigie del santo forse ab antiquo fatta fare per il convento di San Francesco a Ripa, che volle un’immagine calcata su quelle di Margaritone (¤ 54)57. Infine, una Stigmatizzazione di san Francesco è testimoniata in una delle nicchie del deambulatorio di Santa Costanza da Pompeo Ugonio, in un ciclo forse dedicato agli evangelizzatori di Roma. La notizia è molto interessante, ma ce ne sfugge la data, forse parallela a quella del portico vaticano; ancora una volta, sembrerebbe, il personaggio di Francesco era omologato all’interno di un programma più tradizionalmente romano58. I CANTIERI DI ROMA 21
Colpisce invece la diffusione delle tematiche latamente profane, in ogni caso enciclopediche e cosmologiche, che sono testimoniate con tanta ampiezza nella residenza cardinalizia dei Santi Quattro [7]. Gli spazi degli ordini religiosi rappresentati in città – Cistercensi, Benedettini, e si aggiungano i Templari – si aprono volentieri a narrazioni in cui la cornice liturgica si imbeve di altri elementi, più vicini alla vita quotidiana e all’esperienza del lavoro dell’uomo. Questi interventi si situano nei palazzi residenziali annessi alle chiese, quasi a testimoniare una volontà di partecipazione delle comunità religiose alla vita della società cittadina: facendo così registrare un cambiamento significativo in rapporto ad altre e più antiche apparizioni di Calendari in contesti monastici e invece affiancandosi alle tipologie note in altre regioni dell’Italia del Nord59. Alcuni sembrano, come è ben stato detto, quasi trascrizioni di libri liturgici sulle pareti dipinte: le immagini sono accompagnate da testi scritti a due colori e rispettosi delle partizioni e degli incolonnamenti della scrittura libraria60. Così era nel portico della domus Templare dell’Aventino (¤ 35), e anche nel vano che fa da anticamera alla cappella di San Silvestro ai Santi Quattro (¤ 30e): nel primo caso, immagini iconiche e narrative integravano il Calendario, mentre nel secondo i ‘fogli’ erano retti da giganteschi personaggi a mezza figura, e non è certo comparissero altre figurazioni, ad esempio i Lavori o i Mesi. Ancora simile, aperto sul portico e affacciato sulla campagna – come aveva detto molti anni fa, in maniera estremamente suggestiva, Carlo Bertelli – sarà il caso del tutto analogo del Calendario delle Tre Fontane, attorno all’anno 130061. I Lavori dei Mesi occupano una parte molto consistente del ciclo dell’Aula ‘Gotica’ ai Santi Quattro (¤ 30a): sono parte di una dettagliata descrizione cosmologica che restituisce l’immagine di un ordinato e scolastico edificio del sapere, i Mesi accanto alle Stagioni, allo Zodiaco, alle Arti Liberali, alle Virtù, e attorno al tema centrale della Giustizia che si esprime nella figura di Salomone. Mesi o Lavori invece, accompagnati da altre allegorie di più difficile interpretazione ma a carattere apparentemente non devozionale, sono nella torre abbaziale di San Saba (¤ 37), un luogo probabilmente destinato a funzioni amministrative, come se lo svolgimento di funzioni concretamente terrene venisse accompagnato da finestre dipinte sulla parallela vita dell’uomo comune e dalla nozione del Tempo che scorre con i suoi ritmi e le sue ben identificabili liturgie. Per quanto incardinati in sistemi solidamente fondati nel ritmo dell’anno liturgico o nell’ossatura moralizzante del sapere, gli aspetti del lavoro e dell’attività dell’uomo prendono insomma spazio e si articolano in modo spesso colorito e veritiero, affiancati o no dalle immagini dei santi e dei loro martiri, in ogni caso parte di addobbi gradevoli e ornati. Perso il caso straordinario dell’Aventino, non abbiamo assoluta certezza della sequenza di realizzazione di questi episodi: possiamo verosimilmente immaginare che quelli dell’Aventino e dei Santi Quattro fossero all’incirca contemporanei nel corso degli anni Quaranta; che il caso di San Saba seguisse, nel corso degli anni Cinquanta; che quindi i casi romani siano anteriori all’altro splendido esempio di Bominaco (1263 [32]), opera di una bottega che doveva includere, tra altri, pittori romani certamente a giorno della cultura dei Santi Quattro62; e che soprattutto questa sequenza accolga centralmente un episodio di ben diversa committenza, quella del Palazzo Senatorio, che ha conservato qualche frammento di scene di Lavori, avari resti di
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quella che doveva essere una straordinaria decorazione di un ambiente attiguo all’Aula consiliare, probabilmente – ritroviamo il pattern dell’Aventino – aperto su un cortile (¤ 36)63. La possibilità che il ciclo del Campidoglio sia stato il frutto della committenza di Brancaleone degli Andalò, negli anni del suo potere senatoriale (1252-1255 e 1257-1258) e verosimilmente nella prima metà degli anni Cinquanta, è altissima: conte bolognese – dunque impregnato della cultura dell’Italia settentrionale e comunale che tanti Mesi e Mestieri scolpisce sulle facciate delle sue cattedrali e rappresenta sui suoi pavimenti e sulle sue pareti – fautore e realizzatore dell’organizzazione delle corporazioni dei mestieri nella società comunale romana, Brancaleone è un proto- o mini-Cola di Rienzo, e come lui forse cedette un po’ all’ubriacatura del potere o fu travolto dalle sue tenaglie64. 4 - Questione di donne
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Il nome di Brancaleone ci offre il pretesto per evocare un’altra zona del panorama, che non è importante solo per il Duecento, ma prosegue come un filo rosso dai secoli precedenti: la questione femminile, che nell’XI e XII secolo si era posta con tanta vivezza e così drammatico rapporto con il potere pontificio65. La sorella di Brancaleone, Diana, giovinetta nobile bolognese fulminata dall’incontro con san Domenico, aveva condotto un’aspra battaglia contro la propria famiglia e la società per potersi dedicare alla propria vocazione e poter fondare a Bologna il primo monastero femminile domenicano, nel quale arrivarono – per abitarlo e dirigerlo – le religiose domenicane di San Sisto a Roma, tra cui Cecilia, autrice dei celebri Miracula66. San Sisto, nel 1221, era divenuto il pivot della grande operazione condotta congiuntamente da san Domenico e da Onorio III sulle comunità religiose femminili. È un’ulteriore fase della partita sferrata già da Gregorio VII ai tempi della Riforma: e quindi l’obiettivo primario è la clausura, cui le donne sfuggivano aggrappandosi alla regola carolingia di Aquisgrana, e che ora viene implacabilmente riproposta quale esigenza irrinunciabile, presentata come privilegio e libera scelta67. Trovare informazioni sui monasteri femminili romani è un’impresa ardua: a tutt’oggi, non solo manca un panorama d’insieme sufficientemente dettagliato, ma mancano anche le indagini preliminari, in un deserto in cui spuntano soltanto pochi casi più fortunati. Su San Sisto si sanno tuttavia alcune cose68. In esso confluì la comunità del venerabile Monasterium Tempuli con la veneratissima immagine mariana, l’icona Tempuli che nel primo XII secolo sembra esser stata il vessillo delle autonomie femminili monastiche; come in un racconto a puntate, è ancora una volta l’icona che scrive la storia del nuovo monastero, ‘scegliendo’ di stare con le monache che accettano la riforma claustrale di Domenico, e così, dopo esser stata il vessillo dell’autonomia femminile antigregoriana, l’icona Tempuli passa ora dalla parte dei riformatori e dà il buon esempio, non tornando miracolosamente al vecchio monastero ma rimanendo nel nuovo69. In San Sisto confluisce anche una parte (piccola) delle monache di Santa Bibiana – della cui chiesa Onorio si occupa intensamente (¤ 17) – un altro dei monasteri femminili romani di più antica data e probabilmente di tradizionali relative libertà70. L’ostilità delle famiglie aristocratiche, di cui il racconto agiografico dà conto, ribelli contro la drastica limitazione delle libertà delle loro figlie monache, dice molto circa la composizione altolocata di questi conventi metropolitani, e spiega anche come si determinasse poi in questo quadro la committenza femminile, indissociabile dal rango sociale e dal censo: vale la pena di dire che la riforma domenicano-onoriana non ebbe per ora gran successo, riuscendo a coinvolgere solo il monastero di San Sisto con le monachine da Tempuli e da Santa Bibiana, mentre gli altri monasteri si mantennero piuttosto distanti, fino a necessitare una nuova ondata di pressioni e di ‘riforme’ undici anni dopo, da parte di Gregorio IX71. Di queste monache riformate di San Sisto conosciamo un’unica impresa, ma significativa: il Crocifisso oggi ai Santi Domenico e Sisto (¤ 45) fu fatto per loro, e dovette formare, con l’icona Tempuli, una precocissima ‘coppia’ come quelle molto più celebri che popolarono poi le chiese specialmente toscane, alla fine del secolo, per le mani di Cimabue, di Duccio, di Giotto72. Ai piedi del Crocifisso compaiono le monachine [10], piccola folla anonima e senza l’orgogliosa menzione dei nomi come invece era stato nella superba tavola del Giudizio da Campo Marzio (Corpus IV ¤ I CANTIERI DI ROMA 23
3), quasi due secoli prima; a pendant, sono gli altrettanto anonimi frati, così come avviene per le Clarisse del San Pietro in Vineis ad Anagni, in anni strettamente contemporanei73. E ancora le Clarisse appaiono protagoniste in un altro monastero, questa volta romano: San Cosimato, che nel 1230 Gregorio IX concede alle Benedettine e ‘gira’ alle Clarisse già quattro anni dopo. Le Francescane sembrano agguerrite, e non credo si sbagli a collegare la grandeur del loro progetto con il loro altolocato status sociale. Esse scelgono rapidamente la strada dell’abbellimento del proprio convento e della propria chiesa, fornendosi già nel 1238 di una campana fabbricata dal celebre fonditore Bartolomeo da Pisa; poi – tra 1234 e 1246 – parte il vasto programma lanciato dalla nobile badessa Jacopa Cenci, che fa rinnovare la chiesa, il convento, fa probabilmente realizzare il chiostro, e molto verosimilmente dona l’arredo liturgico cosmatesco che sopravvive oggi in minuscoli miserabili resti74. Siamo attorno alla metà del secolo, e sembra di essere di fronte a un pattern di committenza perfettamente calcato su schemi ben noti: la scelta dell’arredo cosmatesco è una scelta di lusso e di decoro alla romana, degno di qualsiasi grande basilica cittadina75. Non dissimile, ma ancora più ambiziosa, almeno a giudicare dai dati documentari a disposizione, è infine la storia di un altro luogo femminile di Roma, ma su questo la fortuna ha aperto più finestre, e di recente ha non solo scovato fonti cinque e seicentesche, ma anche riscoperto marmi e affreschi, ha ritrovato decorazioni straordinarie, e ha fatto intravedere cosa potesse dire, nella Roma pontificia che si ricostruiva dopo la tempesta federiciana, essere un forte organismo ecclesiastico, un’istituzione avvinta alla radice paleocristiana e martiriale cittadina, e ovviamente luogo a densa circolazione di artisti e di committenti di altissimo livello. Questo luogo così ricco è Sant’Agnese fuori le mura (¤ 49), monastero femminile, benedettino, di antichissima fondazione, e da sempre – fatto fondamentale – custode della sepoltura di Agnese, affiancata dalla sua compagna di Passio, Emerenziana, e dall’ombra della principessa constantiniana divenuta Santa Costanza76. Sembrano esserci pochi dubbi che per questo complesso monumentale monastico il Duecento sia stato il momento forse più splendido della sua storia: stesso schema che per le Clarisse, una badessa e una priora verosimilmente intraprendenti e ben relazionate, una sacrista donatrice (generosa), un progetto di rinnovamento e di abbigliamento decorativo e liturgico della chiesa che abbiamo ragione di credere si sia esteso nell’arco di molti anni e di varie fasi77. La data-cardine è attestata dall’epigrafe di consacrazione dell’altare – 1256, l’anno in cui Alessandro IV era presente a Roma e si dette molto da fare per consacrazioni, tra Sant’Agnese e i Santi Giovanni e Paolo (¤ 34c) – che registra una cerimonia di impeccabile solennità, con il papa e tutti i cardinali, con tutte le monache attorno a Lucia abatissa, a Teodora priorissa e a Jacoba sacrista, tutte nominate una per una nell’epigrafe e senza alcuna figura di chierico o curatore d’anime, insomma senza mediatori tra la comunità femminile e i più alti vertici della curia pontificia78. Gli studi di Cornelius Claussen hanno accertato che la sacrista Jacoba, la quale lascia tre volte il proprio nome sull’arredo liturgico come più di un secolo prima aveva fatto Alfano a Santa Maria in Cosmedin, aveva mirato alto per la sua chiesa79. Il marmoraro cui si rivolge è infatti il non plus ultra del momento: Oderisio, o Odoricus, è il Cosmato che fa il pavimento per il santuario di Westminster, nel quadro del regio programma di costruzione dinastica e agiografica tramite le sepolture di Edoardo il Confessore e dei re d’Inghilterra, di cui era almeno l’agente, se non uno dei ‘motori’ insieme al re, l’abate benedettino di Westminster Richard de Ware80. Con il programma di Westminster siamo entro il 1269: la data dell’arredo di Sant’Agnese è agganciata al 1256 dell’epigrafe, e tutto fa pensare fosse approntato per la cerimonia della consacrazione. Richard de Ware è abate dal 1258, e viene a Roma nel 1260 per essere confermato abate dal papa. Non è illegittimo pensare che in quest’occasione egli abbia avvistato e già reclutato gli artisti, forse avendo visto l’opera di Oderisio proprio a Sant’Agnese – monastero benedettino come benedettino era de Ware. La English connection continuerà con il figlio di Oderisio, Pietro, che farà a sua volta il va e vieni tra la corte inglese e quella pontificia di Viterbo81. Ci si chiedeva, fino a poco tempo fa, quale fosse l’origine delle presenze oltremontane nella basilica di Assisi: si riportava l’opera del pittore probabilmente inglese, nel transetto destro della chiesa superiore, ai contatti dell’ordine con l’Inghilterra, ai tempi – ormai accertatamente troppo precoci – del Generale dell’ordine Aymone di Faversham82. Ora, l’idea che questi contatti siano passati per Roma, e da Roma semmai abbiano raggiunto Assisi, assumerebbe una certa verosimiglianza: e concorderebbe con la lettura eminentemente pontificia e – appunto – “alla romana”, delle vicende del monumento francescano assisiate83. La questione femminile ha ancora un altro episodio giusto alla conclusione del volume: è anch’esso, se non un’assoluta novità, certo una rivisitazione accresciuta e meglio contestualizzata. Si tratta dell’affresco staccato con la Crocifissione (¤ 69) oggi appeso nell’ambiente dove si vendono le cartoline a San Silvestro in Capite. Meglio leggibile dopo il restauro, è un dipinto di qualità considerevole, che ora sappiamo fosse situato nel coro ‘superiore’ della chiesa, dunque negli spazi che dovevano essere riservati alle clarisse di Margherita Colonna. Le Clarisse furono installate da Onorio IV nell’antica basilica e convento benedettino dopo la morte della nobile devota, sorella del senatore Giovanni e del cardinale Giacomo, dunque non un personaggio qualunque nella Roma di fine Duecento84. Il passaggio delle Clarisse avvenne nel 1285, e si accompagnò ad una massiccia presenza Colonna negli spazi della chiesa85. La Crocifissione deve esser stata dipinta per le monache – la bottega giottesca ne realizzerà un’altra a Santa Chiara, in una situazione di spazi
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liturgici forse non dissimile – da parte di un pittore forse umbro, o vicino alla pittura dell’Umbria meridionale, magari scelto proprio perché già noto nei circuiti francescani della regione, come accadeva spesso, apparentemente, negli ambienti francescani. Monache dunque: ma promosse e marcate dalla protezione Colonna e – di conseguenza – direttamente da quella di papa Savelli. La narrazione è così arrivata alla Roma dei baroni; ha toccato e superato gli anni del pontificato di Niccolò III Orsini, tra 1277 e 1280, una vera e propria restaurazione coltissima e operosissima, un breve e clamoroso periodo della storia, e dell’autocoscienza, della città di Roma. Anni della formidabile sintesi fra tradizione e innovazione, cruciale a tutti i livelli, e dunque anche del tutto fondamentale per la nascita della “nuova pittura”, cui si accennava all’inizio di queste pagine. Prima di arrivarci, quindi, dobbiamo integrare il panorama che si è fin qui tracciato, con un’altra storia, o per meglio dire con un’altra faccia della stessa storia: seguendo il filo della pittura e del mosaico, fra artisti e botteghe, tra conservato e perduto, ricominciando il tragitto a partire dagli anni di Innocenzo III.
I PERCORSI DELLA PITTURA 1 - Città del Sud I due attoniti bambolotti che nell’abside di San Pietro incarnavano il grande concetto innocenziano dell’Ecclesia Romana (¤ 5) lasciano interdetto lo studioso di oggi. Con tutto il beneficio delle vicissitudini conservative, a partire dallo stacco e l’ablazione dal grande monumento medievale condannato, la qualità di questi brani musivi non può non apparire inadeguata all’occasione. Si può certo argomentare che la parte più importante dell’opera fossero le figure del Cristo e degli apostoli, non solo per il loro significato ma per la loro visibilità; al contrario, forse la fascia bassa del mosaico, dove si trovavano il trono vuoto e le due figure di Innocenzo e dell’Ecclesia, era meno dominante, e anche probabilmente più schermata dalla pergula sopra l’altare86. Ma è d’altra parte inverosimile che Innocenzo [11] considerasse la propria effigie un dettaglio minore di un programma – si veda qui la scheda (¤ 5) con tutta l’importante bibliografia precedente – che nel suo complesso proponeva l’immagine articolata di un potere assoluto e divino discendente dal Cristo, al gruppo del papa e dell’Ecclesia ai lati dell’Etimasia, e infine al vero trono pontificio e marmoreo nell’abside87. Di fatto non si può negare che l’Innocenzo e l’Ecclesia Romana siano mosaici della provincia monrealese, effetto di un riflusso da sud che si dilava nel tempo, e opera di un artefice che non comprende la straordinaria funzione di linea e colore dei mosaici siciliani; che ne afferra, si direbbe, solo il concetto semplificatorio meglio inquadrabile nella tradizione della Roma medievale, che alla leggibilità di effigi e immagini sacre aveva sempre affidato molto della sua capacità di comunicazione. Basti però citare il san Pietro di V secolo dall’arco di San Paolo per capire come altrimenti semplificazione e leggibilità potessero essere concepite, e resistere anche alle vicissitudini conservative: a San Pietro, per quel che si vede, alla leggibilità è stato molto sacrificato88. Non ci sono dunque elementi per ritenere che Innocenzo e i suoi consiglieri si siano dati a una caccia all’eccellenza, e che il mosaico sia il frutto di un’importazione diretta di tecnica e linguaggio. I modi dei frammenti sopravvissuti sembrano già il prodotto di un’acculturazione, o quanto meno di una già ampia diffusione di linguaggio. In città, d’altronde, se le ricerche per questa scheda hanno detto il vero, questo episodio di pertinenza monrealese non fu nemmeno il primo e il più antico: a parte l’episodio di Grottaferrata, evento molto monrealese e di grande qualità alle soglie del 1200, entro le mura cittadine la bella Madonna col Bambino e santi, grande icona a fresco nell’abside destra di San Bartolomeo all’Isola (¤ 4), potrebbe legarsi alla committenza di un Cencio cancellarius Urbis e datarsi fra 1201 e 1204, laddove l’abside vaticana si situa invece verosimilmente nella seconda metà del decennio. Le somiglianze di timbro vivace, di forte colore, e di elegante tracciato grafico, che emergono nella Madonna dell’Isola richiamano meglio il picchettato pannello con Innocenzo III e l’abate Romano al Sacro Speco di Subiaco [12]89: l’impressione è, dunque, che il linguaggio di radice siciliana e tardo comnena si fosse già abbondantemente diffuso, e ora già si radicava, si modulava, si mescolava con altri elementi. Tutti i primi due decenni di vita della città nel nuovo secolo ci appaiono d’altronde non facili da decifrare, certamente tra loro non omogenei, e sicuramente così frammentari oggi da non permettere sintesi troppo ambiziose. Forse conscio della non eccellenza dei mosaicisti vaticani, fu probabilmente lo stesso Innocenzo a cambiar strada e a chiamare i veneziani a San Paolo: così si potrebbe pensare sulla base della lettera di Onorio che, nel 1218, dice chiaramente che artefici veneziani erano già presenti a Roma, e già attivi nel cantiere ostiense90. I resti fortunatamente staccati nel Settecento dall’abside di San Paolo (¤ 8) testimoniano il monumentale e grafico concetto formale che doveva aver dominato nel mosaico, forse già prima ma certo dopo la morte di Innocenzo nel 1216; ma che avrà a Roma un seguito a sua volta dilavato e aggiustato alle abitudini locali, come i lacerti della produzione figurativa romana ci mostrano, nel corso degli anni che seguono la morte di Onorio e prima del gran tournant che coincide con il pontificato di Innocenzo IV Fieschi91. I monumenti che in questo volume sono collocati in questi vent’anni circa sono parecchi: oltre a quelli già citati, c’è il piccolo ciclo dell’Arco di CarloMagno alle Tre
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firmata dal cosmato Iacobus – e quella di Santa Maria in Trastevere si parlano strettamente, facendo pensare che il mestiere del mosaico, a Roma, rimanesse vivo e radicato per tutti i primi decenni del secolo, e nonostante l’arrivo dei forestieri94.
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Fontane (¤ 6), di marca ‘innocenziana’ ancora molto evidente [13]; probabilmente ancora a inizio secolo ci sono gli innesti un po’ alieni e balcanizzanti dell’Ascensione da San Basilio ai Pantani (¤ 3); sotto Onorio, molto verosimilmente, si svolge il cantiere pittorico che integra la parete absidale sopra il mosaico di Santa Maria Nova (¤ 18), un’opera di cui si rimpiange molto la perdita, e che conosciamo solo in un frammento ancora luminoso e ariosamente colorato. Legato, l’affresco di Santa Maria Nova, alle parti migliori di quello un po’ bislacco dell’oratorio presso la Platonia a San Sebastiano fuori le mura (¤ 15), in cui lavorano pittori tra loro molto diversi, alcuni sensibili ai sistemi pittorici di luminescenze e grafismi compatibili con quelli dei mosaici veneziani, altri più rudi, più locali, e muniti di seguito negli anni futuri, come il secondo strato pittorico di San Basilio (¤ 20) dimostra. Con questi episodi, comincia a circolare a Roma un vento diverso, che la logica porta a ricondurre all’arrivo dei mosaicisti veneziani, giunti in città presumibilmente verso la metà del secondo decennio: forse motivati dal loro esempio, i pittori romani si azzardano a movimentare le loro superfici pittoriche con nervosi e quasi capricciosi tratti di calce – come si vede a San Sebastiano – in un modo che alla fine non risulta così lontano da quanto doveva vedersi nella citata Ascensione di San Basilio92. Sono però echi di non lunga durata: solo marginalmente sollecitati dall’inserto veneziano, i mosaicisti al lavoro nella parte bassa e ancora leggibile del mosaico di San Paolo fuori le mura (¤ 8) non sembrano sensibili alle possibilità di scrittura grafica e luminosa della forma, e si limitano a variare le ‘ricette’ locali producendo moduli di allungamento dei corpi e teste “a fagiolo”, che persisteranno e continueranno a ripercuotersi nel restauro della venerata e incendiata icona mariana di Santa Maria Nova (¤ 14), poi, già verso gli anni Quaranta, nel pannello frammentario staccato presso il chiostro della stessa Santa Maria Nova (¤ 33) – un luogo evidentemente molto vivace in questi anni – fino alla strapazzata cappella di San Silvestro ai Santi Quattro Coronati (¤ 30f)93. Le botteghe del mosaico, dal canto loro, conoscono un momento fortunato: oltre ai cantieri di San Pietro e San Paolo, forse in concomitanza con la consacrazione della chiesa nel 1215 o poco tempo dopo, si apre anche il grande cantiere di Santa Maria in Trastevere (¤ 7), oggi ridotto al solo cavetto ma in origine verosimilmente esteso all’intera facciata al di sopra del portico. Il mosaico darà filo da torcere per tutti i seguenti decenni tra restauri e vastissimi rifacimenti: non fu un capolavoro di tecnica probabilmente già in origine, ma svolgerà in certo modo una funzione importantissima per la continuità del mestiere. Sarà restaurato infatti almeno un paio di volte nel corso del mezzo secolo seguente, infine fornito di belle figure di tipo torritiano, in una specie di rattoppo continuo che riempie un po’ il rinsecchirsi dei cantieri musivi cittadini a partire dagli anni Trenta-Quaranta del secolo, dopo la misteriosa e disomogenea facciata vaticana (¤ 19) – forse a sua volta un rattoppo o integrazione dell’esistente – e insieme al piccolo mosaico Capocci del 1256 (¤ 42). Che i Cosmati eseguissero direttamente i mosaici previsti nelle loro opere, o li affidassero a specialisti, era probabilmente un dato pratico attinente alla dimensione del mosaico da eseguire, se mero fregio visualmente sopraffatto da tutto il resto dell’apparecchiatura architettonica e decorativa come nel portico di San Lorenzo fuori le mura (¤ 11), o immagine emblematica per la celebrazione dell’ordine dei Trinitari e caricata di risonanze escatologiche, come a San Tommaso in Formis (¤ 10): in ogni caso la piccola facciata di San Tommaso – nell’edicola 26 I CANTIERI DI ROMA
Il panorama dunque non è facilmente leggibile, e appare a dir poco composito. Tuttavia, il dato più persistente che se ne possa desumere è quello che è stato sempre messo in luce dagli studi, e che già è stato largamente evocato a proposito del mosaico vaticano e degli episodi ad esso affini. Si tratta della coerenza di una parte consistente della cultura pittorica di Roma con i grandi eventi ed episodi della regione a sud/sud-est della città: e sotto questa coerenza c’è un dato specifico e concreto di radicamenti geografici dei committenti, di legami familiari, di lobby e di cerchie ecclesiastiche e aristocratiche. La potenza dei Conti è la potenza della famiglia di Innocenzo III nella regione a sud di Roma, attorno ad Anagni; la stessa zona cui pertineva suo nipote, il cardinale Ugolino, colui che fonda la cappella di san Gregorio a Subiaco, il cardinale che introduce san Francesco a Roma, il primo protettore dell’ordine, il futuro papa Gregorio IX; la stessa della famiglia di Riccardo Conti, il padre di Stefano [6], cardinale di Santa Maria in Trastevere; di Rainaldo di Jenne, decano del collegio di cardinali che reggerà Roma alla fuga di Innocenzo IV e figlio della gran famiglia di feudatari della zona di Subiaco. Mille altri rapporti e legami si annodano attorno a questo nucleo familiare, moltissimi dei quali ci restano ignoti soprattutto per ciò che attiene l’affollato mondo clientelare che attorniava i personaggi principali di questo teatro; mi limito qui a evocare un dato relativo a un personaggio che torna a più riprese in queste pagine, il cardinale Raniero Capocci, non aristocratico romano ma viterbese e rettore attorno al 1220 del ducato di Spoleto – il sud dell’Umbria, implicato dai medesimi movimenti stilistici che toccano Roma nei primi decenni del secolo – in strettissimi, quasi simbiotici rapporti con il cardinale Ugolino95. Il riferimento alla regione a sud e sud-est di Roma è dunque politico prima ancora di essere artistico; ma si concreta poi in alcuni episodi nodali, a cominciare dal più antico, quello della cappella di san Gregorio a Subiaco [14]. Proprio il citato Arco di CarloMagno alle Tre Fontane ne richiama in parte gli apparati decorativi, e questi sono a loro volta molto affini alle decorazioni eleganti della prima bottega attiva nella cripta di Anagni [15]96. La cappella è legata non solo agli anni, ma alla stessa persona del cardinal Ugolino/Gregorio IX, il quale – venuto a ritirarsi nell’eremo sublacense quando era già papa, fra 1228 e 1229 – l’aveva consacrata, e si fece ritrarre in quest’atto, apponendo anche su una parete della stessa cappella il celebre ritratto di san Francesco (ricordiamo che Ugolino è colui che accompagna Francesco da Innocenzo III, ne fa approvare la Regola, e che da papa lo canonizza), che il Toesca voleva attribuire al Terzo Maestro di Anagni97. Si noti che se le cronologie assegnate all’Arco e alla cappella di Subiaco sono giuste – quella della cappella del tutto certa – l’episodio romano può essere anteriore all’altro, e anche al ciclo della cripta di Anagni: tutto questo problema dev’essere dunque compreso non nella semplicistica ipotesi di un riflusso a senso unico da sud a nord, ma in un sistema molto più complesso di impatto di committenze e di spostamenti di pittori secondo i cantieri aperti, con équipes continuamente modificate, con pittori che garantiscono una continuità e altri che cambiano, quindi con assi persistenti e modifiche progressive. L’identificazione del gruppo di pittori – forse si potrebbe azzardare a chiamarlo il Maestro – della cappella di San Gregorio tout court con uno dei maestri di Anagni e in particolare con il Terzo, non va per me completamente de plano: il ‘punto’ stilistico dei dipinti di Subiaco [16] non è separabile dagli esiti della pittura in Umbria meridionale, e specialmente nello spoletino, che ha un punto forte nel Martirio di Thomas Becket ai Santi Giovanni e Paolo a Spoleto, mentre questo elemento ad Anagni poi si spegne, sostituito, come è stato detto e si vedrà più avanti, da altre e diverse iniezioni meridionali. Il pittore di Subiaco mantiene un nesso con i modi, ripetiamo la solita definizione, tardo comneni di Alberto “Sozio”: non altrimenti si possono spiegare i ritmi fluenti e le lunghe silhouettes dei pannelli sublacensi, la cui gamma cromatica si distanzia radicalmente da quella di Anagni98. Ma per converso, la linea di svolgimento che ne risulta è coerente: una corrente forte di cultura romana ha dialogato con la zona interna della regione umbro-laziale e ha così accolto una versione importante della vague bizantinizzante tardo-comnena, diversa, ovviamente, da quanto già era avvenuto a Roma per il tramite del riflusso più specificamente monrealese e musivo. In seguito, i pittori organizzano nuove imprese e nuove botteghe, quel particolare accento svanisce e si mette in opera il nuovo cantiere anagnino, con le molte sfumature che esso comporta: a una data che deve a mio avviso necessariamente distanziarsi di qualche tempo dal 1228-29 della cappella di San Gregorio, e non coincidere con essa come in alcuni studi recenti99. Una data, quella del ciclo pittorico di Anagni, che non è ancorabile con certezza a nessuno dei dati offerti dal corredo epigrafico della cattedrale. Questo infatti è composto dalla lastra del vescovo Alberto, nel pavimento davanti alla cappella Caetani nella chiesa superiore, databile fra 1224 e 1227: attesta la realizzazione del pavimento – si suppone dell’intera chiesa superiore – da parte di Cosma. L’epigrafe incastonata nella parete di fondo della cripta, a sua volta, attesta che nel 1231 lo stesso Cosma ritrova e rimette nell’altare della cripta le reliquie di san Magno: nessuna menzione è fatta circa il pavimento della cripta. Nel 1250 su un pilastro della chiesa superiore il vescovo Pandolfo dice di aver fatto fare «hoc opus», non si sa se il dipinto con la Vergine sul medesimo pilastro, o il rifacimento architettonico, o quello pittorico della chiesa superiore; nel 1255 si consacra la cripta, in relazione alle reliquie negli altari laterali100. È plausibile che l’operazione delle reliquie di san Magno sia stata legata al rifacimento del pavimento della cripta da parte di Cosma, ed è vero
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che questi interventi appartengono appunto alla generazione di Cosma e non a quella successiva dei Vassalletto, operosi a metà secolo per l’arredo della chiesa superiore. Ma potrebbe averne costituito il punto di partenza; che l’affrescatura della cripta debba assolutamente costituirne la fase preliminare in quanto addobbo dell’ambiente, non è assolutamente accertato – la logica interna dei cantieri medievali non è così implacabile – e il nesso, che considero del tutto plausibile, del programma iconografico con la persona di Ugolino/Gregorio IX, spinge forse meglio ad ambientare le tinte fosche e apocalittiche del racconto attorno alla metà o nella seconda metà del quarto decennio, nel clima difficile degli anni federiciani101. 2 - Il pienissimo vuoto di metà secolo I maestri che la tradizione degli studi ha chiamato Secondo e Terzo Maestro di Anagni – continuiamo ad usare questa definizione, fermo restando che si tratta comunque di piccoli gruppi, due o tre mani di cui una con ruolo-guida – appaiono nella cripta anagnina in una formazione che si inserisce nel cantiere con ruoli, anche reciproci, calibrati al millimetro102. Se infatti cerchiamo di contabilizzare le superfici pittoriche della cripta, grosso modo possiamo dire che si trattava di 21 voltine e 13 pareti, più l’intera parete orientale con le tre absidi e i tratti di pareti intercalati. Di queste, 11 voltine e 4 pareti, più l’intera parete absidale, spettano alla bottega del Primo Maestro: la XIV volta e altre tre pareti sono oggi distrutte, ma si ha ragione di supporre che spettassero alla stessa bottega. Al Secondo vanno 5 volte e 3 pareti; al Terzo 4 volte, 3 pareti più il registro basso di quella dove la prima bottega affresca Ippocrate e Galeno. Le pareti di competenza sono quelle attigue alla volta, e così avviene pure per i sottarchi103. Secondo e Terzo Maestro, con i loro aiuti, sembrano dunque, per così dire, pittori di eguale peso contrattuale – forse con una sfumatura in meno per il Terzo – e si dividono gli spazi della cripta in modo attentamente ripartito, come per non invadere l’uno il territorio dell’altro104. Il Secondo arriva a brani di qualità altissima, ma è accompagnato da mani più stinte e monotone (si vedano ad esempio alcuni profeti della volta VII); i modi del Terzo paiono variare a seconda del tema – volta, o parete – ma sembrano sostanzialmente molto unitari105. Quando una parte di questa compagine riappare ai Santi Quattro, la formazione è radicalmente cambiata, e i rapporti di forza sono tutt’altri. L’impressione è che sia stato lanciato un progetto grande e sostanzialmente simultaneo, che andava a toccare la basilica (¤ 30g, h, i), la cappella palatina e i suoi annessi (¤ 30e, f), e il palazzo, con l’Aula presumibilmente usata per le funzioni giudiziarie del cardinale (¤ 30a) e almeno altre due sale (¤ 30b, c), della cui decorazione per la prima volta Andreina Draghi pubblica qui i frammenti; queste novità, insieme ad altri frammenti e indizi dicono che molto altro poteva esistere in questa fastosa residenza e forse ancora aspetta di essere messo in luce. Un progetto dal forte indirizzo ideologico che si fa esplicitamente politico nei luoghi più ‘pubblici’ – come mostrano i nuclei iconografici dedicati a Thomas Becket e al papa Silvestro sulla controfacciata della chiesa e nella cappella – e amplissimo negli orizzonti culturali, come l’Aula eloquentemente dice. Precisarne la cronologia interna non è cosa semplice: Stefano Conti probabilmente risiedeva nel palazzo già prima del 1244, anno della fuga di Innocenzo IV e della curia, e della sua nomina a Vicarius Urbis, e vi restò presumibilmente fino a quel giorno del 1254, quando partì per Napoli con Innocenzo appena tornato a Roma, e vi morì il giorno dopo di Innocenzo, l’8 dicembre del 1254106. Senza poterne avere la certezza, si è indotti a immaginare che la più forte motivazione a lanciare un programma di immagini così ambizioso sia radicata nel momento in cui Stefano si ritrovava in pratica signore di Roma, dunque a partire dal 1244: l’Aula celebra la figura del Giudice – Salomone – come giudice era Stefano, certo prima del 1244 ma soprattutto dopo, quando era arbitro di tutta l’amministrazione cittadina. La cifra stilistica dell’intero complesso appare omogenea, ancorché affidata a varie équipes di pittori, come è ovvio date le dimensioni dell’impresa. È a dir poco rischioso pronunciarsi sull’intrigantissimo frammento venuto alla luce nel sottotetto (¤ 30c), che farebbe quasi pensare ad una serie di figure eroiche, quasi antenati degli Uomini Illustri: i racemi che circondano le mutilate figure appartengono alla stessa famiglia di quelli sparsi ovunque in Roma, e ad esempio nella Torre di Innocenzo al Palazzo Vaticano (¤ 32). L’altro frammento con le architetture, i fiori e l’uccello (¤ 30b) sembra molto ben compatibile con la pittura dell’Aula: e tutto questo nucleo ‘residenziale’ appare coerentemente limitrofo a quello della chiesa e della cappella, inoltre garantito da quanto è conservato della mutilatissima Stanza del Calendario (¤ 30e), che con la pittura dell’Aula mantiene un nesso strettissimo. La cappella di San Silvestro (¤ 30f) e la controfacciata della chiesa (¤ 30h, i) godono di maggiori agganci cronologici: la cappella, infatti, è legata al 1246 della lapide di consacrazione (¤ 30f); attorno al 1248 si fissa la controfacciata della basilica, per la quale probabilmente la committenza si aprì a interventi privati, di Divitia (¤ 30h), forse dell’obliterata Maria, e verosimilmente – per non lasciare la parete affrescata da una parte e nuda dall’altra – del Raynaldus e dell’altro monaco che compaiono nel pannello presso il ciclo di Becket (¤ 30i)107. Il ciclo di San Silvestro è il più crudo, e anche il meno ‘anagnino’: radicato negli esiti locali della maniera di San Paolo108, accoglie forse qualche più stanco aiuto del Secondo Maestro, come si sbircia nel David o nel Salomone della volta VII della cripta109. Andrei fino a sospettare che i pittori di San Silvestro si siano aggiudicati il lavoro in quanto in possesso di strumenti e modelli sufficienti a mettere in scena un ciclo così ampio sui fatti di Costantino e Silvestro, di cui non si conoscono
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precedenti diretti o altrettanto dettagliati110. Il nesso con i modi pittorici del ciclo di San Silvestro si intravede nelle figure assise di quello di Becket in basilica, dove i monaci inginocchiati però sono molto più plastici e ‘meridionali’: ricordiamo che Hélène Toubert li aveva legati al manoscritto eseguito per Ottaviano degli Ubaldini, realizzato verso la metà degli anni Quaranta111. Tra la cappella e i successivi cantieri romani si formano invece i pittori che poi andranno a restaurare l’Aula negli anni Cinquanta (¤ 30a), come Andreina Draghi ha ben indicato112. Punta di diamante dell’intero cantiere almeno a quanto oggi sappiamo, nell’Aula la gara è stata vinta (usiamo terminologie anacronistiche) dal gruppo del Terzo Maestro: ma a un grado di qualità così aumentato, e in un’équipe al tempo stesso così omogeneizzata e così arricchita rispetto ad Anagni, da far ulteriormente riflettere sull’origine del gruppo, i sistemi di reclutamento, e il luogo di reperimento dei nuovi pittori, quelli che ad Anagni non compaiono. È lecito immaginare che dieci anni all’incirca passino fra l’uno e l’altro di questi due cantieri cruciali: più o meno lo stesso stacco che interviene fra il ciclo francescano di Assisi e quello di Padova, con le conseguenze che si conoscono sul percorso e lo sviluppo della pittura di Giotto, e in qualche misura il salto fra Anagni e i Santi Quattro fa registrare un balzo in avanti non troppo dissimile113. Mai ad Anagni la pittura del Terzo Maestro era stata così plastica, così perseguita l’interazione fra l’architettura e il suo rivestimento pittorico, così bizzarra e provocatoria l’ansia deformatrice dei corpi stirati in posizioni e gesti estremizzati dal disegno semplificato e dalle campiture cromatiche a grossi e lunghi tratti scuri e luminosi a contrasto, costantemente assente il profilo nero e il disegno a vantaggio di una tavolozza di terre grassa e rotonda [17]. Il bagaglio di soluzioni formali di origine – diciamo genericamente – meridionale, che nel Secondo Maestro era più accentuatamente siciliana e monrealese, viene rapidamente sciolto dal Terzo, che si avvia verso una supremazia dell’effetto pittorico, sciogliendo il reticolo grafico di origine siciliana in un contrasto cromatico dove i bianchi e i chiari dominano, accompagnati da un’incessante movimentazione plastica della superficie che, d’altronde, è sostenuta dal disegno compositivo, fatto a nuclei che si sciolgono l’uno nell’altro come gomitoli legati da fili che organizzano e guidano la lettura della narrazione114. La scrittura è dunque spesso deliberatamente sommaria, o così sembra all’osservatore che è catturato dal continuo alternarsi dei bianchi e dei colori di terra, ocra, marrone, verde, una tavolozza estremamente sobria usata indifferentemente per paesaggio, architetture, figure umane. Troppo poco è rimasto della decorazione di quella che chiameremo la seconda aula del palazzo (¤ 30b), ma il tratto forte e i colori contrastati e molto vivaci sono affini a quelli dell’Aula; vi si vedono colonne possenti, uccelli, piccoli fiori gigliati che sembrano scappati fuori dai fregi delle cornici, e forse si trattava di un’ulteriore spericolata rappresentazione di spazi, magari ancora più audace rispetto alle soluzioni dell’Aula. È chiaro che in molti brani della cripta anagnina (la Battaglia di Masphit della volta VI è esemplare) l’importanza dell’eventuale modello miniatorio e narrativo spinge ulteriormente i pittori verso questi esiti di semplificazione cromatica e plastica della forma: si veda quanto più composte siano le lunette (ad esempio le pareti 6 e 7 con le due Guarigioni [18]), ma si veda anche che ovunque, appena può, il Maestro si dà alle sue lunghe e riassuntive pennellate, scrivendo le sue figure quasi con un unico tratto attorcigliato e con testine dalle guance rosse e dal naso così aguzzo che sembra che lì vada a finire tutto il movimento e il disegno del personaggio. Nell’Aula – dove anche la tavolozza complessiva appare più fredda e smaltata, ricca di azzurri di altissima qualità, azzurrite e I CANTIERI DI ROMA 29
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lapislazzuli, ed è palesemente più costosa rispetto ai pigmenti anagnini – le mani sono numerose e mescolate, e costituirne una mappa precisa non è compito di questa mia introduzione: d’altronde le dimensioni del cantiere spiegano da sé la presenza di molti pittori, tuttavia solidamente agganciati al Terzo Maestro e sempre in contatto con le radici formali del suo linguaggio. Guardando i tanti metri quadri dell’Aula, è evidente il modo in cui soluzioni e modelli vengono usati e insieme ripensati, applicati e insieme variati e svolti: cito, a campione sparso, le vesti nei mesi di Giugno, Agosto e Settembre, ancora fedeli al tracciato grafico dei bianchi e alle pieghe angolose, e la redazione invece liberissima del pestatore di uva di Ottobre; ma cito soprattutto i Telamoni [17], dove la funzione metaforica della figura si esprime in una serie davvero mirabolante di sfide pittoriche e disegnative, e va a mutare anche le stesure pittoriche che ulteriormente si semplificano e rinunciano del tutto a grafismi e lumeggiature in favore dei campi contrastati a corpose pennellate chiare e colorate. Individuare con precisione le radici e i modelli meridionali di questa pittura è molto arduo. Il riferimento al Sud federiciano è cruciale115; ma il naufragio di tanta parte dell’arte federiciana – ricordo per tutti la perdita del testimone originario del De arte venandi, perso nell’assedio di Vittoria del 1248 – non aiuta a cercare confronti, che restano a un tempo convincenti come indirizzo generale ma mai veramente esaustivi116. Un codice come il Liber Astrologiae di Georgius Fendulus
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(BNF, ms. lat. 7330) risulta per esempio molto suggestivo [19-20], in primo luogo per le tematiche astrologiche e cosmologiche così importanti nell’Aula: il codice è datato al secondo quarto del secolo, eseguito alla corte imperiale di Sicilia dove, tra 1227 e 1231, Michele Scoto è alla corte di Federico II, e intrattiene stretti rapporti con quella pontificia dove aveva soggiornato tra 1215 e 1217 presenziando al Concilio lateranense117. Le miniature in cui figurazioni colorate e dinamiche – penso specialmente ai simboli zodiacali – si stagliano contro fondi azzurri e a fasce colorate, sbordando dal campo, danno un’idea del tipo di materiale figurativo che potrebbe esser stato noto a chi compose il programma iconografico dell’Aula; i piccoli gigli che spuntano nel frammento del sottotetto nell’altra sala del palazzo sono molto simili a quelli che fioriscono nel manoscritto, nelle pagine dello Zodiaco. Nella pittura romana degli anni seguenti ci saranno altri echi significativi, specie nel persistente uso dei fondi bicromatici e nei motivi animalistici molto in voga anche nel palazzo di San Clemente (¤ 31a) [21]. La radice siciliana di questa corrente stilistica affiora tra l’altro nell’Aula in un gruppo di dipinti, soprattutto nelle due figure allegoriche simili ai Fiumi della parete orientale [22], che mantengono un disegno angoloso dei panneggi, astratto nelle ricadute delle pieghe e tendente all’arzigogolo linearistico, affine peraltro a qualche episodio romano, in particolare alle ricadute delle vesti sui piedi delle vergini musive della facciata di Santa Maria in Trastevere (¤ 7)118. Si avvicinano agli stessi esiti il Sole e la Luna, il Mitra tauroctono, la mutila Astronomia; e questo modo di rappresentare le pieghe a budelli seriali affiora anche in altre figure, come se questo o questi pittori, maggiormente presenti forse nella campata settentrionale, andassero poi a lavorare random nell’Aula, dove servisse: l’allievo dell’Aritmetica ne è un buon esempio, ma si veda poi come in altri brani questi stessi pattern si sciolgano e trasformino, redatti da un pennello più fluido e aggiornato, dallo stesso morbidissimo cacciatore di Aprile o dal contadino di Giugno, al possibile Euclide della Geometria, in parte alla Musica. Non è facile ricavare una ratio dall’osservazione degli affreschi dell’Aula: non si riesce a leggerne lo svolgimento secondo le ripartizioni iconografiche del programma – ma influisce senz’altro anche sulla redazione pittorica il gran numero di modelli, spesso probabilmente miniatori [23], che necessariamente devono aver sorretto l’ideazione di nuclei come quelli dello Zodiaco e del Paesaggio marino [24] – né tanto meno in relazione alle varie pareti: il cantiere è stato presumibilmente piuttosto rapido, i maestri hanno lavorato contemporaneamente su un unico ponteggio, mescolati ove necessario, più minuziosi nel disegno nelle figure più monumentali, più svelti e sommari certamente in quelle di contorno o di minori dimensioni. Ogni tentativo di ridurre in due parole la cultura figurativa dell’Aula ‘Gotica’ è vano, tanto complesso è il mondo culturale e visivo che in essa si mostra. I pittori riuscirono a tenere in equilibrio elementi assolutamente disparati e potenzialmente contraddittori: accanto a quelli cui si è già accennato, a guardare le pareti dell’Aula si vedono coesistere il lessico antiquariale – tutto un vocabolario e un repertorio che fa da ponte tra le esperienze antiquarie della Roma paleocristiana [25], quelle di XI e XII secolo [26], e quelle dell’ultimo quarto del Duecento fra Roma e Assisi – con preziosismi assolutamente gotici, così che la struttura a ‘nicchie’ incorniciate da delfini, festoni e putti antichi, risulta non solo memoria di cose antiche e di mosaici paleocristiani, ma anche la I CANTIERI DI ROMA 31
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traduzione colorata di casse-reliquiario mosane e di smalti limosini; senza l’Aula [27], è ormai incomprensibile il Sancta Sanctorum [28], e con l’Aula, la coerenza della tradizione romana risulta sempre più luminosa, e libera nel conservarsi e allo stesso tempo nell’accogliere continue e profonde novità. Impensabile, tuttavia, non legare il plasticismo pittorico dell’Aula a una somma di altri vasti fenomeni, ben più ampi di quelli soltanto romani, ed è cosa assai diversa dal considerarne semplicemente forestieri e importati i pittori. Significa, invece, riconoscere quello che appare un dato coerente della storia di Roma, la capacità permanente, strutturale, della città, di accogliere nel quadro ideologico, figurativo, tecnico, della tradizione, dati extra-cittadini, e farli propri: fu così per Raffaello, nel Cinquecento. Dunque, per capire la pittura dell’Aula – anche e soprattutto rispetto a quella di Anagni – bisogna, sì, fare appello all’Italia meridionale e al federicianesimo, come per primo aveva detto il Bologna, ma anche risalire più indietro e più oltre, al Mediterraneo ellenizzante attraversato dalle crociate, al fenomeno che continuiamo a chiamare lingua franca, ai macroavvenimenti che toccano Costantinopoli, i regni latini, il riflusso della cultura bizantina e delle sue radici ellenistiche in Occidente e la sua commistione con quella europea e francese119. Basta porre mente agli impressionanti telamoni dell’Aula ‘Gotica’ – una squadra di atleti acrobatici al limite dello scardinamento – per ricordarsi le sculture padane, quelle di Castel del Monte, fino alle miniature di Giovanni da Gaibana e agli altri telamoni del Maestro di San Francesco ad Assisi, che fino ad ora sembravano la più antica edizione pittorica del motivo120; e per mettere in parallelo l’‘episodio’ dell’Aula ‘Gotica’ con altri solo apparentemente remoti, le pitture del Battistero di Parma, ad esempio, la cui datazione agli anni Sessanta appare davvero troppo attardata e meglio orientabile in un momento parallelo ai fatti romani121. Sono due imprese tra loro non legate, ma ambedue non comprensibili senza il riferimento alla cultura mediterranea e in particolare alla produzione acritana. Più pertinente ancora per inquadrare il caso romano e nutrirlo di ragioni è il richiamo a Giunta Pisano, toccato da vicino dalla maniera greca e mediterranea nel corso del quinto decennio del secolo. La concomitanza cronologica con i fatti di pittura romana è precisa, specie nella Croce di San Ranierino che con buone ragioni Boskovits e Tartuferi ritengono autografa122. Giunta è documentato a Roma nel 1239, non turista di passaggio ma pictor e magister accompagnato da un famulus, dunque da un aiuto o allievo, dunque, ancora, non improbabilmente in veste e attività professionali. Aveva peraltro un figlio Leopardo, chierico verosimilmente residente in città: e compare nel documento quale testimone dell’arbitrato di una controversia sorta tra l’abate di San Sebastiano ad catacumbas (San Sebastiano fuori le mura) e il capitolo di Santa Maria Nova, l’arbitro essendo Raniero Capocci, cardinale di Santa Maria in Cosmedin a noi ben noto; non a caso l’atto si svolse a San Clemente, certamente nel palazzo123. Il ruolo di Giunta, che Andreina Draghi ha molto sottolineato in rapporto all’Aula124, è stato costantemente sottovalutato, ed è invece ‘pesante’ almeno quanto quello che nel 1272 riguarderà poi Cimabue: aggiungo qui, senza poter ora approfondire la questione, che attorno alla metà del secolo Giunta, insieme – si noti – ai nobili della città, presta giuramento di fedeltà (si è detto, un rapporto quasi feudale) all’arcivescovo di Pisa, Federico Visconti, personaggio di grande statura, familiare e cappellano di Sinibaldo Fieschi/Innocenzo IV, ed è nella cerchia dell’altro cardinale Fieschi fratello di Sinibaldo, Ottobono, che Cimabue apparirà poi a Roma nel 1272125. Scrivere la storia dei contatti della città – e della curia, della corte, del numero non calcolabile dei personaggi che la animano – con l’orizzonte mediterraneo e orientale è un compito ben superiore a questo saggio: nelle figure dell’Aula, la crescita rapidissima della sensibilità plastica, e l’ispirazione che a questo cambiamento potè essere offerta dalle vicende della pittura bizantina e balcanica, sono elementi che non si possono
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ignorare, e la sequenza del volto di Novembre [29], di quello dell’ancella nella Natività di Sopoćani [30], e del Matteo del Sancta Sanctorum [31], mostra per quali strade il dialogo avviato ai Santi Quattro continuerà a svolgersi nel corso degli anni seguenti, e fino al pontificato di Niccolò III. 3 - Oltre e dopo l’Aula Le distruzioni del panorama romano sono tali, che anche la certezza che il cantiere dei Santi Quattro sia stato veramente il laboratorio di punta della Roma di metà secolo deve combattere con la prudenza. Gli indizi – pochi – sembrano dire che il complesso spiccasse per lo splendore delle sue pitture e delle sue specialissime iconografie forse più che qualsiasi altro luogo di Roma: il Memoriale de Mirabilibus et Indulgentiis quae in Urbe Romana existunt, una guida scritta da un monaco benedettino all’epoca di Urbano V e Gregorio IX, elenca chiese e monasteri di Roma per intere pagine e solo dei Santi Quattro dice «sunt ibi pulchrae picturae»; attorno alla metà del Seicento Mancini ancora ricorda il Salomone dell’Aula, che certamente era già scialbato126. Non stupisce dunque che il censimento della produzione pittorica romana del quinto decennio e attorno alla metà del secolo faccia pensare che la grande bottega dei Santi Quattro abbia imposto un gusto, anche per le concrete vie della dispersione dei pittori e del loro reimpegno in altri cantieri cittadini, semmai più modesti. Se si segue il filo tenue ma affascinante del lessico ornamentale di fregi e velari, vediamo che i pittori sembrano pescare tutti negli stessi modelli, che hanno base monrealese e rapidamente si goticizzano: festoni, foglie gigliate, pattern più semplici o composti, qualche volta in ocra su fondo bianco, più spesso negli amatissimi rosso e azzurro screziati di rialzi bianchi, in risalto su fondi azzurro scuro, quasi nero. Questi fregi sono nei luoghi già noti dei Santi Quattro Coronati, e anche nell’inedito frammento affrescato su un timpano, che qui è pubblicato per la
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agli anni di Innocenzo IV132. Furono un intervento importante nello spazio liturgico della chiesa di Lucina: così che viene in mente come fino al 1244 il cardinale del titolo fosse Sinibaldo Fieschi, futuro Innocenzo IV, ligure e devoto a san Lorenzo come gli altri membri della sua famiglia – a san Lorenzo è dedicata la Cattedrale di Genova – come Guglielmo, il cardinale di Sant’Eustachio (†1256) che infatti si fa seppellire a San Lorenzo fuori le mura133. I fondi a due campiture bordate da greche, i colori malva e rosa, la proporzione delle figure, la tipologia delle architetture, tutti questi elementi incoraggiano a costituire questi episodi come un gruppo omogeneo, e il nesso con la “maniera dei Santi Quattro” appare plausibile, inoltre ampiamente suggerito dall’ubicazione di uno dei dipinti del gruppo, la Crocifissione di Divitia. L’ordine interno non è, ovviamente, facile a stabilirsi: si sarebbe tentati di pensare che il caso di Lucina possa essere il più antico; che seguissero poi quello della Crocifissione (1248), dell’Aventino (al massimo 1250) e di San Lorenzo fuori le mura; forse un’eco del plasticismo dinamico dell’Aula gotica si ritrova in qualche scena della controfacciata di San Lorenzo – nella Decapitazione di Romano – ma anche nel Calendario dell’Aventino, nella figura del Luglio. La tomba di Guglielmo Fieschi in San Lorenzo fuori le mura è ancorata alla data di morte del cardinale, 1256. A giudicare dalla documentazione ottocentesca e dalle fotografie anteriori alla distruzione, i dipinti (¤ 41) non coincidevano completamente con gli altri ‘numeri’ di questo gruppo, specialmente il pannello con la Vergine, di scrittura più aguzza e tormentata. Il dipinto con la Presentazione del cardinale al Cristo, dove compare anche il papa Innocenzo IV Fieschi (già morto, al momento della realizzazione del sepolcro) è più rigido e stereotipato rispetto al ciclo di controfacciata, forse anche per pesanti ridipinture ottocentesche. Ma potrebbe ben funzionare come punto di passaggio verso un’opera extra-romana: il ciclo di San Pellegrino a Bominaco in Abruzzo, specialmente nel Calendario [32], dove fondi bicolori, cornici a grechette, apparati di fregi vegetali, appaiono coerenti con i fatti pittorici romani, e come questi sono in rapporto con il mondo federiciano, a una data – 1263 – che conclude di fatto questa vicenda134.
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prima volta (¤ 30c). Li troviamo negli avari resti del Palazzo Vaticano (¤ 32): il riferimento tradizionale è al pontificato di Innocenzo IV, il quale pur da lontano sembra essersi preoccupato di rendere splendida la residenza vaticana («cameras et turrim pulcherrimas»127), ma è chiaro che la storia decorativa del Palazzo si sarà distesa nel corso di tutto il Duecento, e che quanto oggi ci rimane non permette di ricostruirne una vicenda a tutto tondo. E gli stessi fiori e le stesse foglie sono sparsi ovunque in città e nella regione: nel frammento dal chiostro di Santa Maria Nova (¤ 33), ai Santi Cosma e Damiano, sia nella basilica che nella Rotonda (¤ 44a, b, c), nella residenza di San Clemente (¤ 31), ai Santi Giovanni e Paolo (¤ 34c), nel San Pietro in Vineis di Anagni, e qualche anno più tardi nella Torre di San Saba (¤ 37), e qualcosa è sopravvissuto anche a Orvieto e a Viterbo128. Nessun fregio è mai identico a un altro, ma i motivi vanno svolgendosi, mantenendo gli elementi costitutivi – l’elemento gigliato a foglie bianche e screziate in rosso, blu e verde; la foglia ‘spinosa’, lunga e attorta; la rosetta – e alternandone gli effetti rispetto al fondo, in modo da valorizzare i contrasti cromatici semplici tra i colori fondamentali. Ancora il festone a motivi gigliati a incorniciare l’abside di Santa Passera (¤ 50), poi sarà sui sottarchi della quarta navata di San Saba (¤ 66), e ora lo conosciamo nel timpano di Sant’Agnese fuori le mura (¤ 49); le lunghe foglie non dissimili dall’acanto compaiono ancora nel palazzo Saragona (¤ 56), ma soprattutto nel timpano vegetalizzato del Palazzo Senatorio (¤ 58), su un fondo giallo che sarà ancora usato alla fine del secolo nell’altro timpano di Santa Maria Maggiore, e con una rosetta a base quadrata che sembra tirata giù da qualche fregio scolpito antico, e che compare a palazzo Saragona e anche nel palazzo papale di Viterbo129. Troppo poco per disegnare i percorsi di specifiche botteghe: ci immaginiamo, in città, circolare i nomi di alcuni celebri decoratori, impiegati dalla committenza più alta e circondati da molti aiuti e collaboratori indispensabili per rispondere a una domanda così abbondante e impiegati poi in casi minori, da parte di committenti meno illustri, in grado di pagarsi decorazioni più semplici per le quali si usavano però i medesimi schemi e modelli. Si sarebbe invece tentati di individuare una vera e propria bottega al lavoro, attorno alla metà del secolo, anche se l’identificazione può avvenire soltanto sulla base delle copie seicentesche, ed è quindi rischiosissima, insidiata alla radice dal filtro barberiniano. I copisti barberiniani, però, avevano occhio filologico per le differenze stilistiche, le registravano e le rispecchiavano nei propri documenti: cito per tutti il caso delle due Uccisioni dei Primogeniti di San Paolo, dove la distanza tra la scena probabilmente paleocristiana e quella tardo medievale è perfettamente leggibile nei due fogli barberiniani130. Azzardiamo dunque la costituzione di un gruppo, composto dal Calendario di Santa Maria de Aventino (¤ 35) e da un gruppo a tema laurenziano: il ciclo della controfacciata di San Lorenzo fuori le mura (¤ 40), e le due scene in San Lorenzo in Lucina (¤ 38a), probabilmente con le ulteriori opere pittoriche copiate negli acquerelli e ipoteticamente situate nella stessa basilica. A giudicare dalle copie, le medesime caratteristiche tornavano anche nella già citata Crocifissione donata nel 1248 da Divitia sulla controfacciata dei Santi Quattro (¤ 30h); può entrare in discussione anche il doppio affresco che decorava un tempo la tomba di Guglielmo Fieschi, ancora a San Lorenzo fuori le mura (¤ 41). Il Calendario dell’Aventino rimonta presumibilmente agli anni Quaranta, forse – se la questione della data della Pasqua è affidabile – al massimo al 1250131. Il ciclo di controfacciata in San Lorenzo fuori le mura fu donato da un Matteo di Sant’Alberto a una data non documentabile. Le Storie di San Lorenzo in Lucina invece ornavano il cilindro absidale, e sembrano proprio il tentativo forte di mettere in valore l’intitolazione della basilica e le sue reliquie, in un momento in cui l’altra basilica laurenziana aveva ricevuto una sfarzosissima veste architettonica, liturgica e decorativa, da parte di Onorio III fino 34 I CANTIERI DI ROMA
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Di più difficile ricostruzione – ma non vuoti – sono gli anni che coincidono con i pontificati dei papi francesi, Urbano IV (1261-1264) e Clemente IV (1265-1268): né l’uno né l’altro cardinali, ambedue giuristi, il primo di grandi interessi nel campo della geometria e dell’astronomia e protettore di Campano da Novara – si dice che con lui il collegio dei cardinali dovesse darsi alle disputazioni scientifiche dopo il pranzo – il secondo poeta provenzale e mistico135. La corte doveva aver assunto costumi mondani e romanzi, con gli scienziati e i poeti che vi soggiornavano: Enrico di Würzburg, il poeta tedesco, descrive Giovanni Gaetano Orsini, il futuro Niccolò III, come un principe cortigiano e raffinato che quasi fa da valletto per introdurlo alla presenza del papa136. Di certo né Urbano né Clemente misero mai il loro pontificio piede a Roma, e preferirono Orvieto e Viterbo; in città, gli episodi che compongono il quadro dell’attività presumibili degli anni Sessanta e Settanta sono piuttosto sparpagliati, e si fa fatica a individuarne un’unica logica. Già forse qualche anno prima, a San Saba (¤ 37), opera una bottega che gestisce iconografie laiche – i Lavori dei Mesi, di cui sopra abbiamo accennato – palesemente marcata dal debito a repertori e modelli molto gotici, quasi certamente di origine miniatoria, molto evidenti nei medaglioni con le misteriose allegorie delle figure femminili con l’arco [34]. Così come nel caso del più antico fregio del palazzo oggi Lovatelli (¤ 28) [33], l’ingresso di materiale narrativo e allegorico profano, favolistico o enciclopedico è anche una porta aperta a un linguaggio figurativo extra-romano, e se si accostano le silhouettes delle figure con l’arco di San Saba [34] a qualche miniatura del Magister Nicolaus, specialmente il Sacramentario di Anagni [35], si vedrà che doveva esistere, in città, una non trascurabile corrente di linguaggio francesizzante, attestata alla corte pontificia nel caso di
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Nicolaus e probabilmente molto legata al mondo della miniatura, come anche il ciclo di San Saba farebbe supporre137. Il crescente numero di cardinali non italiani, e soprattutto francesi, doveva aver moltiplicato l’afflusso di oggetti di lusso – libri, oggetti, stoffe, gioielli – di cui restano tracce anche negli inventari138. Fu comunque proprio Giovanni Gaetano Orsini il donatore della grande Bibbia in nove volumi al convento di Aracoeli: collezione di libri variegati, alcuni francesi di fine XII secolo, altri invece parigini di metà Duecento, tutti comunque attestanti la natura transalpina della decorazione e prova della sua verosimilmente ampia presenza in città e alla curia in campo librario139. Nel centro antico della città, invece, la Rotonda ai Santi Cosma e Damiano è un monumento fittamente decorato in questi anni (¤ 44), chissà se per iniziativa di un cardinal titolare – Egidio de Torres dal 1216 al 1254, Giordano Pironti dal 1262 al 1269. Successivamente alla realizzazione di un grande progetto di ornamentazione dello spazio sia della parte absidale della basilica, che della stessa Rotonda, i dipinti della nicchia, voluti forse da un privato, forse da una donna (¤ 44c), ostentano una figura d’angelo che non starebbe male in qualche monastero serbo o balcanico, quasi ritagliata e inserita tra i restanti dipinti che, invece, parlano un linguaggio locale. Anche la tecnica mostra che qualcosa sta cambiando: la preparazione verde comincia ad affiorare tra i lacerti che conosciamo, visibile nel disastrato tessuto pittorico della Crocifissione di Santa Prassede (¤ 46), dove il Cristo ha tratti giunteschi che fanno pensare a Rainaldetto di Ranuccio o a Simeone e Machilone140; più forte, l’uso del verdaccio affiora nei dipinti frammentari di Santa Balbina, sia nella Crocifissione staccata dal convento (¤ 51) che in quella in una nicchia della navata (¤ 52)141. Un cammino di bizantinizzazione è dunque percepibile in questi anni fino al 1270-1275, ma raramente si tratta di appelli chiari alla cultura metropolitana bizantina; in particolare quando si tratti di pittura su tavola, i maestri romani si accostano volentieri alla pittura delle regioni vicine, con l’Umbria nella Croce di San Sisto (¤ 45), in parte con la Toscana nell’icona dei Santi Cosma e Damiano (¤ 53).
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NICCOLÒ III, ROMA, ASSISI 1 - Niccolò III Orsini e l’Antico In questo volume abbiamo inteso la nozione di “stile” nel senso più largo possibile142. Ha incluso, infatti, tutto quanto può attenere al mestiere delle botteghe: il bagaglio della tradizione, i repertori, i modelli, e naturalmente il dettaglio delle maniere pittoriche – dal ‘tocco’ del pennello sul muro agli effetti calcolati della posa di tessere musive – che sono state osservate quasi sempre nel loro manifestarsi per gruppi, per attinenze e affinità, e molto raramente, ma non c’è da stupirsene, hanno potuto far pensare all’attività di maestri riconoscibili quali personalità individuali. L’organizzazione del lavoro e le procedure tecniche delle botteghe, unite alla situazione disastrosamente lacerata delle testimonianze sopravvissute del Duecento romano, inducono a ragionare in questo modo, che nulla deve ai fantasmi di produzione anonima e corale dei pii artefici di un religioso medioevo, e anzi assomiglia a moderni sistemi di produzione quasi proto-industriale, in ogni caso ad una catena produttiva con divisione di compiti ed esigenze di efficienza: così intendo, per quanto mi riguarda, la vexata quaestio delle sagome e dei patroni143. Solo attorno al cosiddetto Terzo Maestro, e ferma restando la nebulosa del sistema produttivo di bottega, le domande hanno potuto farsi più stringenti, e avvistare l’emergere di una personalità pittorica di prepotente qualità, dotata di qualche plausibilità di percorso nel corso di decenni, in un modo che comincia ad assomigliare a una sorta di ‘proto-catalogo’. Il concetto di “stile” invece, arrivando agli anni di Niccolò III, richiede approcci ancora più ampi. Siamo infatti, con gli anni orsiniani, in quello che ci appare un frangente evenemenziale, uno di quei momenti in cui la convergenza di fatti storici, e il ruolo di personalità forti nei terreni concomitanti della politica culturale e della committenza, permettono un’accelerazione straordinaria degli eventi. Questi ci appaiono omogenei nei terreni non per forza sincronici della volontà del committente, dell’occasione storica, e della disponibilità di attori – gli artisti – in grado di interpretare efficacemente volontà e occasioni, dunque di rispondere brillantemente all’orizzonte d’attesa creando al contempo una piattaforma verso il futuro: uso questi termini e questi concetti ben conscia di quanto possano essere scivolosi e di quanto accecata sia la nostra conoscenza dalla perdita di tanto patrimonio artistico144. I fatti artistici, di cui sempre si postula il carattere comunque interstiziale, in relazione a Niccolò III si fanno pesanti, fondamentali: almeno allo stato delle nostre conoscenze, sono forse tra gli argomenti più ricchi per comprendere gli anni di questo pontificato145. E aggiungo che in questi stessi anni la storia di Roma, che è sempre in qualche misura un caso speciale, acquista un interlocutore senza il quale sarebbe forse incomprensibile: senza il polo francescano di Assisi, senza le vicende della sua basilica, quello che accade a Roma fra 1280 e 1300 rimarrebbe monco. Ma – nella mia opinione – lo splendore quasi intatto della veste pittorica della basilica di San Francesco non deve far dimenticare che all’altro capo del medesimo percorso c’era un altro splendore, più complesso e oggi quasi perso; e che se il cantiere francescano ci appare come un laboratorio sperimentale in grado di far reagire tra loro i migliori artisti centro-italiani, chiamati a lavorare fianco a fianco in un unico luogo e nei medesimi anni e mesi, a Roma, nelle basiliche, nei monasteri, nei palazzi, i medesimi artisti 36 I CANTIERI DI ROMA
lavoravano a opere che oggi sono in larghissima misura scomparse, e nel quadro di una città dal paesaggio incomparabilmente suggestivo di Medioevo e di Antico. È proprio la riflessione sull’Antico, in tutta la possibile accezione del termine, quella che sembra marcare le imprese che risalgono a Niccolò III Orsini [36]. Il rampollo della grande famiglia baronale, il cardinale lungamente arbitro della politica pontificia nel corso di più di tre decenni, il creato di Innocenzo IV Fieschi, il quasi pater dei Francescani: Gian Gaetano Orsini è uomo di agguerrita modernità, cui non sfugge nulla delle dinamiche di lunga durata che sostengono la vita della Chiesa, ma interpreta con rapidità e lucidità quelle più attuali, le previene, le favorisce, con atti che ci appaiono fortemente autoritari ma anche straordinariamente autorevoli146. La direzione del cantiere del Sancta Sanctorum, che di Niccolò III è opera certa e sopravvissuta, è affidata al tradizionale protagonista dei cantieri pontifici romani, un Cosmato, che accoglie nel proprio vocabolario architettonico elementi cosmateschi abituali, da chiostro o da arredo liturgico, e altri invece goticizzanti, che fanno eco a quelli in opera ad Assisi. Il progetto suddivide le tecniche decorative more romano – mosaico nello spazio facente funzione di abside, affresco nel resto – e ‘eleva’ le reliquie come a Parigi nella Sainte-Chapelle147. Chi ideò il sistema decorativo conosceva in dettaglio le grandi tappe della decorazione romana a mosaico e ad affresco, e ragionava sulle potenzialità spaziali del lessico scenotecnico messo a punto nel corso di una decina di secoli; citava il gioco dei finti teatrini che, incorniciati di fregi e di delfini, schiudevano le scene narrative sulle rive del fiume argentato nella cupola di Santa Costanza [25] (ovviamente ben visibile ancora nel Duecento) e gli altri siparietti pieni anch’essi di delfini, putti e racemi, che nell’Aula ‘Gotica’ scandiscono Mesi e Virtù [7, 8, 9, 27]148. Nel trasporne il sistema al Sancta Sanctorum (¤ 60), ne muta il cromatismo, evita gli effetti acquatici di Santa Costanza e quelli da smalto dell’Aula, dà largo spazio ai toni rossi e porpora, trasparente allusione, e li accosta a superfici azzurro cupo in cui navigano gli angeli: profondità e aperture sono intuibili, ma sono ribaltate sulla superficie, una redazione tutta romana dello spazio gotico “per fogli”149. È un progetto straordinariamente colto e intellettuale, certo non destinato a un vasto pubblico e dunque fortemente elitario, ellittico nella narrazione e fulmineo nell’intesserla degli elementi simbolici raison d’être dell’intero programma. Niccolò III aveva organizzato l’intero indirizzo del proprio pontificato sui temi del recupero e della riproposizione della tradizione – della tradizione romana – connettendosi ai temi portanti innocenziani e precorrendo, e di larga misura, quelli bonifaciani di fine secolo. Visualizzare la tradizione era per lui vitale; l’Antico, per lui, è molteplice, è ovunque si veda la tradizione della Chiesa che coincide con la storia di Roma, è negli oggetti e nelle immagini che hanno costruito il nesso fra la Chiesa, il Papato, la Città, e ci limitiamo a richiamare qui l’Acheropita ‘citato’ nel riquadro con il Cristo in trono [46]150. È nel paesaggio urbano in cui si affiancano i segni antichi e martiriali che conferiscono autorità alla Chiesa: così nascono il paesaggio della Crocifissione di san Pietro e quello della Decapitazione di san Paolo (¤ 60)151. La perdita della più gran parte delle altre imprese che a Gian Gaetano Orsini certamente o probabilmente risalivano ci impedisce di conoscere il suo programma in tutta l’estensione delle sue pieghe, in tutti gli indirizzi di comunicazione: certo, il ciclo del portico di San Pietro (¤ 59) doveva svolgere un programma molto più fortemente ‘pubblico’ – e vi si narravano le storie apostoliche, con i paesaggi di Roma in fiamme sotto Nerone – mentre rimane non chiaro in cosa sia consistito il suo intervento in San Giovanni in Laterano e in San Paolo, al di là della palese scelta di ribadire il valore dei primi secoli di storia della Chiesa tramite la serie di ritratti papali, che in San Paolo (¤ 61a) sappiamo, con certezza, riguardarono, appunto e soltanto, i pontefici della serie più antica152. Scavando per ampliare il Palazzo Vaticano, espropriando terreni e orti, chissà se gli operai orsiniani non abbiano anche fatto scoperte archeologiche: verrebbe davvero da immaginarlo, per capire l’improvviso rinforzarsi degli elementi antiquari nella pittura romana, a partire dall’epoca orsiniana153. D’altra parte, l’impressione di chi studi la storia della figuratività nella Roma medievale è che questa storia sia strutturata di continue riscoperte e rinascenze, così che sia molto difficile individuare un coerente momento storico di assenza di questo dato, ma solo delle tendenze e degli episodi interlocutori e integrati agli altri. A voler scegliere un esempio per tutti, pensiamo a quei finti cornicioni costruiti con mensoloni prospettici e abitati da uccelli e animali: tante volte li si è considerati il marchio distintivo di momenti deliberatamente e programmaticamente antichizzanti – il renouveau della Riforma gregoriana – ma ora sappiamo come la Roma medievale fosse piena di questi mensoloni, che bordavano le pareti delle navate anche in epoche non identificabili come periodi di ‘rinascenza’ (a San Giovanni a Porta Latina, a San Martino ai Monti: Viscontini, in Corpus IV¤ 61; Romano, in Corpus IV ¤ 60), frutto del mestiere conservativo delle botteghe. Attorno alla metà del Duecento appaiono in certo modo disarticolati della loro funzione spaziale all’Aula ‘Gotica’ dei Santi Quattro (¤ 30a) ma, con data un po’ più incerta, bordano spazialmente la parete nel palazzo dei Santi Giovanni e Paolo (¤ 34b); rimarrà, temo, misterioso, il sistema di addobbi pittorici della nuova sala dei Santi Quattro (¤ 30b), dove comparivano finte colonne, dadi massicci, ma anche fiori e uccellini come liberi accanto alle architetture154. C’era dunque qualche precedente a quello che vediamo avvenire negli anni di Niccolò III e in quelli subito seguenti: è probabilmente poco dopo i suoi anni che le sale di rappresentanza del Palazzo dei papi furono addobbate con una veste pittorica deliberatamente e abbondantemente
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allusiva ai sistemi dell’architettura dipinta dell’antichità: perché non solo il lessico architettonico dipinto è anticheggiante – timpani, archi, festoni, colombe – ma lo è la finzione dello spazio che si apre sotto il pennello dei pittori, così come si apriva nelle residenze della Roma antica, che chissà in quali modi e luoghi doveva esser nota ai romani del Medioevo155. Lo sguardo all’indietro dei pittori, insomma, sembra farsi meno episodico e antologico, e sembra voler non solo appropriarsi di motivi e spunti, ma penetrare il senso retorico profondo della finzione spaziale affidata alla pittura: un percorso, questo, che va inevitabilmente a parare sulla formazione di Giotto, sulla scenotecnica del ciclo francescano di Assisi, e sulle due storie del Maestro d’Isacco, che di questa riscoperta profondamente e intellettualmente meditata sono certamente l’apice156. Non ripeto qui tutte le considerazioni che ho tentato altrove, ma ricordo che proprio la finzione spaziale attuata con strumenti visivi presi in prestito all’Antico è la parte giocata dal “pensiero pittorico” nel quadro della cultura sviluppata alla corte pontificia negli anni attorno e dopo la metà del secolo, dove si svolgevano i dibattiti ottici e matematici dei tempi di Capocci e Fibonacci, e le colte discussioni cui Urbano IV praticamente obbligava i suoi cortigiani negli anni Sessanta del secolo, con i medici che diventavano cardinali e papi, gli astrologi, gli astronomi, gli studiosi di tutta Europa che convergevano alla curia157. L’acuità dello sguardo e la voglia di individualizzare, di dare un nome, di collegare pensiero e percezione, assi della cultura e della spiritualità del gotico europeo, a Roma – e ad Assisi – si vestono più che altrove di Antico, nei testi e nelle immagini, nelle pagine dei libri e negli strumenti e repertori delle botteghe; il ritratto ‘personale’ di Niccolò III con gli occhi grigi, nel Sancta Sanctorum, non sarebbe altrettanto impressionante se non si affrontasse al ritratto del Cristo/Acheropita, l’immagine sacra così ‘antica’ da coincidere con l’inizio della vicenda cristiana nella città di Roma158. 2 - 1280. Assisi e Roma
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Se le nostre ipotesi cronologiche sono giuste – mi riferisco a quelle molto dibattute della decorazione del transetto e del coro ad Assisi – i pochi ma bollenti anni del pontificato di Gian Gaetano Orsini furono dunque un laboratorio a due teste, quella romana e quella francescana assisiate, e da Assisi, Roma venne osservata e ritratta, in un cantiere pieno di pittori non romani, ma da Roma affascinati. L’episodio più eclatante, e pittoricamente non romano, è naturalmente quello dell’Ytalia della crociera [38], dove Cimabue guarda la città e riproduce con nettezza quasi documentaria i suoi monumenti-simbolo nella veste aggiornata del Duecento, il gruppo vaticano del Martirio di Pietro, la Deesis sulla facciata di San Pietro, il Palazzo Senatorio con gli stemmi Orsini che oggi sono stati riscoperti e restaurati al suo interno (¤ 58)159. Nell’attiguo transetto, le Storie apostoliche analogamente sciorinano i paesaggi romani asciugati e sintetici della Crocifissione di san Pietro, gli stessi che appaiono contemporaneamente nel Sancta Sanctorum (¤ 60) e nel portico di San Pietro in Vaticano (¤ 59)160. La questione è talmente nota che non vale la pena di riassumerla qui: mi limito a rimandare alle schede e alla relativa bibliografia. Ma se il ruolo e la presenza di Cimabue ad Assisi costituiscono un punto fermo degli studi – se non cronologico certamente pittorico, poiché nessuno dubita dell’attribuzione a lui e alla sua bottega del cantiere nel coro, crociera e transetti – la definizione della porzione di cantiere nel transetto settentrionale, dove sono attivi i pittori probabilmente inglesi, è stata più complessa e meno agevole, e solo in tempi recenti sembra aver trovato qualche più solido aggancio161. Si è passati in sostanza da uno schema a blocchi separati e poco comunicanti – il “Maestro Oltremontano” quale presenza aliena e confinata in lontani anni anteriori alla metà secolo; i pittori romani che ne continuano il lavoro ma quasi soppiantandone la presenza e a lui opponendosi nello stile – a un concetto di cantiere multiplo e simultaneo, in cui lo spazio coloratissimo e bidimensionale dei pittori inglesi accoglie elementi prospettici tipicamente italici e romani; in cui i pittori romani convivono con quelli transalpini e se ne lasciano in parte formare, tuttavia modificandone poi progressivamente i modelli e i sistemi pittorici; e in cui questo strano gruppo internazionale lavora fianco a fianco, sullo stesso ponteggio, con i pittori cimabueschi162. In questo popolato mondo pittorico, internazionale come un’aula di una grande università duecentesca a Parigi, Oxford o Bologna, lavorano appunto uno o più maestri che si inseriscono nel progetto diafano dei maestri inglesi, e nella galleria orientale impongono le proprie sagome – uso questo termine in senso generale, perché nessuno studio è andato a verificare l’eventuale uso di veri e propri ‘patroni’ – ben diverse da quelle della galleria occidentale, arcuate e svolazzanti nell’aria: sono silhouettes perfettamente coerenti con quelle romane del portico di San Pietro e del Sancta Sanctorum, e al Sancta Sanctorum un’eco di quelle gotiche oltremontane ben si vede proprio nella scena più romana di tutte, quella della Crocifissione di san Pietro (¤ 69). Sottolineo peraltro che oggi – rispetto a questo grumo già così complesso – il discorso rischia di allargarsi ulteriormente, perché la riscoperta della decorazione dipinta nel sottotetto di Sant’Agnese fuori le mura (¤ 49) fa forse entrare in gioco altri elementi e altri luoghi importanti. All’episodio importante del 1256 si è accennato più sopra: la English connection, con la presenza di Odoricus, il marmoraro che poi, entro il 1269, passa a Westminster al servizio del re e dell’abate de Ware163. Negli affreschi ora nel sottotetto della basilica, l’apparato del timpano di controfacciata usa ancora un repertorio decorativo legato a quelli dell’Aula ‘Gotica’ ai Santi Quattro, ma con una libertà di segno [39], con tanti svolazzi e scherzi, con colori diversi rispetto alla gamma cui eravamo abituati in tutto 38 I CANTIERI DI ROMA
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il corpus di metà secolo: una tavolozza gioiosa e brillante, in cui gli azzurri e i verdi in qualche modo richiamano i cromatismi dei pittori nordici d’Assisi, e anche di Cimabue [40-41]. Nel timpano al di sopra del mosaico absidale, invece, che dobbiamo supporre contemporaneo all’altro per non complicare assurdamente la questione, i pittori si sono messi a contrapporre gli effetti dorati e antispaziali del mosaico di VII secolo a quelli fortemente prospettici, quasi brutali, della stupefacente finta travatura rossa attorno all’oculo; al bordo verso il mosaico, in basso, una serie di mensoloni prospettici non simili a quelli romani medioduecenteschi, né a quelli ‘abitati’ del Palazzo Vaticano, ma classici e cosmateschi insieme [42] – con decorazioni a foglia d’oro imitanti il mosaico, incredibili a quell’altezza – del tutto simili a quelli che Cimabue affresca nel transetto assisiate [43]. La decorazione oggi nel sottotetto di Sant’Agnese dovette essere la prima tappa del programma pittorico della chiesa e del convento, destinato a proseguire nei decenni successivi: difficile immaginare i fregi, le foglie gigliate, troppo in là nel secolo, tant’è vero che nella scheda se ne propone la cronologia al settimo o ottavo decennio del secolo. I classici mensoloni, dunque, I CANTIERI DI ROMA 39
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furono l’opera di un pittore romano che copiava Cimabue ad Assisi, un’eco del passaggio del pittore toscano a Roma, o un’invenzione romana cui Cimabue si ispirò? L’estendersi e approfondirsi delle ricerche produce, sembrerebbe, più dubbi che certezze, ma l’evidenza ci dice che è in questo humus fortemente internazionalizzato, tra Roma e Assisi, che si mette progressivamente in luce la prima personalità d’artista romano cui sia possibile dare un nome e assegnare un catalogo che assomigli ad una vicenda leggibile nel tempo, fornita di luoghi, di committenti, addirittura di firme164. Jacopo Torriti fu senza alcun dubbio il pittore della corte pontificia, ed è con il viatico di questo status sociale altissimo che giunge a lavorare nei cantieri più importanti dell’Italia centrale negli ultimi due decenni del Duecento165. Non mi sembra ancora sciolto il nodo della sua fisica presenza nel gruppo del transetto destro ad Assisi: le analisi sperimentali di Maria Andaloro propongono che ci fosse passaggio degli strumenti di bottega, sagome e modelli, fra il transetto e la navata, dove Torriti sicuramente dirige il lavoro nelle prime due campate166. Il diafano Battista [44] accanto alla quadrifora del transetto nutre certamente quello torritiano della volta della navata; il san Pietro della galleria orientale, quello del vecchio portico vaticano, i personaggi della frammentaria Resurrezione di Lazzaro dell’inizio della navata, sono brani che si parlano strettamente, e per questa strada si può arrivare fino ai dipinti della “quarta navata” di San Saba (¤ 66)167. Per le figure non nordicizzanti della galleria orientale sono stati anche proposti confronti in ambito umbro-toscano168; ricordo peraltro che nella discussione sulla formazione di Torriti è stato introdotto il caso dei grandi apostoli con le croci di consacrazione, dipinti sul muro di San Bevignate a Perugia [45], che secondo Scarpellini furono eseguiti attorno al 1283, quando a Perugia e a San Bevignate era presente Guillaume Charnier, già ostiario di Niccolò III e amministratore dei beni dell’ordine in tutto il territorio alla destra del Tevere, nel Lazio settentrionale e nella Toscana inferiore»; e che Belting ha legato i suddetti apostoli ai profeti a tutta pagina su fondo oro, nel Libro dei Profeti della Biblioteca Vaticana, sontuoso manoscritto con figure su fondo oro a tutta pagina, opera di un pittore costantinopolitano di afflato fortemente monumentale169. L’orizzonte del 1274, l’année charnière, l’anno del secondo concilio di Lione, sembra insomma marcare uno scalino nella cultura figurativa che ingloba e avvolge Roma, e spostarne decisamente uno degli assi portanti. Al concilio si discusse la vetusta questione della riunione delle due chiese di Oriente e Occidente; il va e vieni diplomatico fra Roma e Costantinopoli era intensissimo, con domenicani e francescani protagonisti delle missioni presso l’imperatore paleologo, con l’idea rinnovata di una nuova evangelizzazione globale, che Cimabue mette in scena nella crociera assisiate negli evangelisti che hanno vicina la parte di mondo da loro conquistata170. Nel Sancta Sanctorum, nella parete della Presentazione, la cifra stilistica non è più il plasticismo mediterraneo del Terzo Maestro, né la tendenza all’arrotondamento delle fisionomie, che ancora in effetti si affacciano nell’opera degli altri maestri che dipingono nella cappella le Storie di Stefano e Lorenzo, ma è l’appello alla pittura dell’Impero paleologo risalito sul trono di Costantinopoli; solo da questo tipo di modelli altissimi potrebbe discendere la pittura finissima piena di effetti dorati a punta di pennello (l’angelo dietro il trono del Cristo) e di silhouettes (l’apostolo Paolo) che sono molto più vicine a quanto si conosce negli illustri monasteri di Serbia che alla tradizione solo romana. Questo indirizzo stilistico è affine a quello che si vede nell’unico medaglione ancora leggibile staccato dalla navata di San Paolo (¤ 61a), anch’esso frutto della committenza di Niccolò III e opera di un pittore fortemente torritiano, talvolta ritenuto Torriti stesso; e vedo analoghe tendenze nell’angelo ora restaurato dell’Aula al Palazzo Senatorio (¤ 58), la cui veste ha velature e pieghe ‘antiche’ e ellenizzanti171. Il trono ligneo del Cristo del Sancta Sanctorum, invece, echeggia forse quelli toscani e cimabueschi; ma è integrato ad un sedile marmoreo con dossale a semicerchio, quasi ad abside, che ci sembra direttamente preso in prestito da quelli delle grandi icone pre-iconoclaste costantinopolitane, di cui il Cristo del Sinai è quello più facilmente evocabile172. In questo terreno dovette concludere la sua fase giovanile Jacopo Torriti, accanto a un maestro – oso riproporre qui la mia ipotesi, ben consapevole che 40 I CANTIERI DI ROMA
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ce ne sono altre non certo prive di spessore e plausibilità173 – più anziano di lui, che in qualche modo aprì la porta a questo massiccio ingresso bizantino, da Torriti poi usato a fondo. La sequenza dei volti di Cristo, che si allineano tra Roma e Assisi in questi anni finali del secolo, è messa in moto dai prototipi antichi: al Sancta Sanctorum, dall’Acheropita/ombra, nascosto dietro il volto del Cristo in trono al Sancta Sanctorum [37]; e dai modelli costantinopolitani, che invece agiscono in modo diretto e inequivocabile su Torriti, il quale vi si accosta e ci ragiona, qualche anno più tardi, nel Cristo della Creazione e in quello dorato della volta, nella navata di Assisi174. Costantinopoli, ha scritto Le Goff, era molto più presente alla sensibilità dell’uomo del Duecento, di quanto alla nostra attuale non sia Istanbul175. Senza il rinnovato contatto con la pittura costantinopolitana, la pittura di Jacopo Torriti non si comprende, e il suo lato gotico rimane senza interlocutore. CONCLUSIONE Nella Roma post-orsiniana su cui il volume si chiude, l’intellettualismo del programma orsiniano del Sancta Sanctorum non è – ovviamente – ascoltato. Le soluzioni compositive e decorative fanno scuola, apparentemente, ma è difficile dire se sia stato direttamente il testo pittorico della cappella a colpire i tanti maestri pittori romani, o se le invenzioni della bottega reclutata per il papa Orsini siano poi state riutilizzate e diffuse da parte dei pittori, visto che nel Sancta Sanctorum il comune mortale, si suppone, non poteva entrare. Il carattere dominante della maniera torritiana è evidente, come evidente è anche il successo di alcune formule che noi vediamo in piena fioritura, per la prima volta, proprio al Sancta Sanctorum. Al complesso pittorico della “quarta navata” di San Saba (¤ 66) è stato attribuito anche un diretto riferimento a Torriti: la qualità, tuttavia, non è certo alta nel Miracolo delle Fanciulle povere, né nel ‘trittico’ con i tre santi, e nemmeno negli apparati con finti mensoloni, piuttosto sgangherati, mentre è notevole nel pannello sulla parete di fondo, con la Vergine, san Saba e sant’Andrea. Tuttavia la delicatezza del volto della Vergine, vicina a quella un po’ più tarda dell’icona di Santa Maria del Popolo, in qualche modo contrasta con la plasticità monumentale dei brani torritiani autografi, in particolare con quello della Vergine nella
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volta della Deesis nella navata assisiate, che invece può essere, credo, compresa come un logico svolgimento, ad esempio, del volto di Matteo nel Sancta Sanctorum176. Altri episodi mostrano appunto che le formule circolavano. Nella sacrestia delle Tre Fontane, sembrerebbe proprio che il pittore conoscesse la scenotecnica e usasse i repertori di fregi e acanto del Sancta Sanctorum: coincide l’idea della lunetta – anche se la scena centrale è unica, non essendoci la finestra – il fondo rosso e la fioritura di racemi. Il pittore, però, è un torritiano di qualità non straordinaria, che abbiamo ristretto agli anni Ottanta, considerandolo anteriore allo stadio pittorico del Torriti di Niccolò IV – ma ovviamente la data potrebbe scivolare leggermente più avanti senza che la valutazione dell’episodio cambi. Il motivo dei racemi invece sarà ripreso e amplificato in un’altra zona del convento e, a nostro avviso, più avanti nel secolo, quando il programma decorativo cistercense va a toccare il dormitorio e il corpo di fabbrica nel quale si situava il distrutto Calendario e, al di sopra di questo, il ciclo enciclopedico ora staccato177. La magnifica redazione di queste superfici di porpora e d’acanto ci è parsa vicinissima a quella del transetto di Santa Maria Maggiore, e come tale rinviata alla prossima fase di pittura romana178. Poi ci sono altre discendenze ancora più mediate. Piuttosto ermetico il caso della cappella di Santa Barbara ai Santi Quattro (¤ 64), la cui rovina non aiuta a penetrare un testo pittorico non di gran livello, ma molto probabilmente anch’esso sotto l’influsso del Sancta Sanctorum, sia per la volta a quattro vele con gli evangelisti, che per i motivi cosmateschi dipinti, anch’essi divenuti presto molto alla moda; la vena narrativa del piccolo ciclo appare compatibile con gli svolgimenti dell’opera dei pittori che nella cappella del Laterano operavano alle Storie di Stefano e Lorenzo, e tutto sommato non estranea a quanto si vede nel portico di San Lorenzo fuori le mura, nel ciclo oggi così massacrato da non lasciar capire se si trattasse di un’impresa iconograficamente impegnativa ma affidata a pittori di second’ordine, i non altrimenti noti Paolo e suo figlio Filippo: l’abbiamo rinviato al prossimo volume, ritenendolo sostanzialmente unitario, e quindi non anticipabile al di qua della soglia degli anni Novanta179. Di fatto, gli anni che seguono al grande momento orsiniano attorno al 1280 fanno fatica a situarsi con precisione nella cronologia; la linea di demarcazione assegnata a questo volume – il 1287 – non coincide tanto con la data di morte e la fine del pontificato di Onorio IV, pontefice cui si stenta ad assegnare una fisionomia precisa di committente in campo pittorico, quanto con la soglia di quello che segue, Niccolò IV, con il quale si inaugura una nuova fase sia ad Assisi che a Roma, e che aprirà il sesto e ultimo volume di questo Corpus. Cosa abbia fatto Torriti in persona tra la fine del cantiere lateranense e la partenza per Assisi nel 1288, resta non chiaro; forse fu impegnato a San Paolo, ma la questione dei cicli della navata è ora in sospeso, e l’attribuzione dei pannelli fatti fare dall’abate Bartolomeo sui piedritti dell’arco trionfale (¤ 61b) è ovviamente impossibile. Pietro Cavallini, si direbbe, non è avvistabile per tutti gli anni Ottanta. Al tournant del 1288, si riaprono i grandissimi cantieri: si riapre Assisi, si riapre la basilica del Laterano, si apre quella di Santa Maria Maggiore. L’appuntamento è al futuro volume.
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È ovviamente d’obbligo la citazione del Giudizio sul Duecento di Roberto Longhi (1948), un testo nato da un’occasione speciale e successivamente letto in modo ancor più autoritario e tranchant. Per le ricadute accademiche della storiografia si veda Zeri 1995. I dibattiti giornalistici si sono accesi sistematicamente in occasione delle grandi scoperte o ri-scoperte romane: quando fu presentato il restauro del Sancta Sanctorum, o fu data notizia dell’Aula ‘Gotica’ ai Santi Quattro, i giornali intitolarono «Demolito il primato di Firenze?», o addirittura «È Giotto l’autore degli affreschi del Sancta Sanctorum?», rivelando così la persistenza del pregiudizio. Sulla questione dei ‘primitivi’ voglio ancora citare il grande libro di Previtali 1964, che sarebbe importante oggi rimeditare, e storicizzare, proprio in funzione di una rinnovata lettura dei percorsi dell’arte medievale italiana. Ho provato a farlo in rapporto alla formazione di Giotto in Romano 2008c, tentando di uscire dal concetto rigido della ‘città’ di Giotto e mostrando la convergenza degli elementi nella costruzione della sua personalità: ma su questo punto potrei ricordare molti altri studi, e cito ad esempio i saggi di Boskovits 2000 e 2001. Ho proposto questa lettura in Romano c.s. (b). Per l’opera di committente di Innocenzo anche anteriormente al pontificato, Iacobini 1996, Pace 2003, Gardner 2003, Iacobini 2003; resta sempre fondamentale Maccarrone 1972. Lo studio delle porte bronzee del Laterano è di Antonio Iacobini (1990 e 1991). Bolton 1992; Egger 1998. Tomei 1990. Il passo dei Gesta è il seguente: «pro musivo eiusdem basilicae, centum libras et decem et septem uncias auri» (Innocentii III Papae in Gesta, PL CCXIV, c. 205; Iacobini 1996. «Tue nobilitatis litteras benigne recepimus (...). Ad haec nobilitati tue gratias referentes de magistro, quem nobis misisti pro mosaico opere in beati Pauli ecclesie faciendo. Rogamus devotionem tuam quia cum ipsum tante sit magnitudinis quod per illum non possit extra longi temporis spatium consumari, duos alios in iamdicti operis arte peritos nobis destinare procures, ut et nos liberalitati tue grates reddere teneamur et tu per hoc specialiter desiderandum ipsius gloriosissimi apostoli patrocinium assequaris...»: ASV, Reg. Vat. Lib. 2, ep. 864, f. 212; Ladner 1941, 90; Pressutti 1888 [1978], I, 173. Carocci-Vendittelli 2000; Romano 2005a. La questione è naturalmente spinosissima, e non la affronto in questa sede. Nella San Pietro paleocristiana l’esistenza di una Traditio legis è plausibile, ancorché ovviamente non certa: si veda per l’intera questione Moretti, in Corpus I (¤ 2a, 87-90), e la critica di Brenk (Brenk-Kessler 2008, 138). Per il parallelismo delle due absidi, in epoca paleocristiana e nel Duecento, anche Andaloro-Romano 2000b, 112-117. Si veda qui la scheda sull’abside innocenziana di San Pietro (¤ 5), Buddensieg 1959, e Andaloro-Romano 2000a; Andaloro 1989c per il frammento del san Pietro dall’arco di V secolo Bordi, in Corpus I (¤ 44c). Cfr. nota precedente. Romano 2005a. La posizione e il gesto di Onorio e la datazione della zona bassa del mosaico sono questioni che hanno fatto scorrere molto inchiostro: rimando a Gandolfo 1997 e 2000, e a Romano 2005a, ma anche al puntuale stato degli studi nella scheda (¤ 8). Ne era il cardinale titolare. Claussen 1987, 96, e si veda la scheda (¤ 34c) Mi riferisco all’affascinante ipotesi discussa da Bull-Simonsen Einaudi 1990. Su Stefano Conti, si veda più avanti in questo saggio, e Maleczek 1983. Su Guala, si veda The letters and charters 1996; sull’altro grande progetto del cardinale, il Sant’Andrea di Vercelli, Schilling 2003. Su Becket nella controfacciata dei Santi Quattro la prima proposta era stata di chi scrive (Romano 2007, 630) relativamente al possibile Assassinio; la scheda di K. Queijo (¤ 30i) propone di identificare la scena marina con la Fuga di Becket, un’idea a mio avviso molto plausibile. La notizia che Capocci sia stato prima monaco e poi abate alle Tre Fontane risale all’Ughelli, ma in tempi recenti non sembra essere accolta se non da Ruotolo (1972, 64-69); Barclay Lloyd (2006) non la menziona affatto. Su Capocci, Kamp 1975. La notizia è in qualche misura controversa (si veda qui la scheda ¤ 18, e anche Claussen 2002, 468). Per Sinibaldo, Rusch 1936, 139. Sui Frangipane e il legame con Santa Maria Nova, chiesa attigua ai possedimenti e al palazzo di famiglia sul Palatino, Thumser 1991. Ad esempio Gandolfo 1988, 301. Andaloro 1983; Pace 1987. Maleczek 1984, 126-33; Capitani 2000; e si veda sempre Paravicini Bagliani 1972. Si ricordi, a proposito di Ugolino cardinale e committente, l’importantissimo episodio della cappella di San Gregorio al Sacro Speco di Subiaco, con l’annesso ritratto di san Francesco ‘vivo’: Bianchi 1980, e per le ricadute stilistiche sull’attività del Maestro di San Francesco ad Assisi, Romano 1982 [2001a]. Paravicini Bagliani 1988, 159, calcola che Gregorio sia stato lontano da Roma per più del 60% del tempo. Su Assisi, si vedano almeno Hertlein 1964, Rocchi 1982, Rocchi Coopmans de Yoldi 2002, Schenkluhn 1991, Cadei 1991. WEC, Cod. Farf. 124, f. 122. Si veda su questo concetto Ladner 1967 e Romano 2002a; e nel campo della scultura l’articolo di Pace 1994. Tomei 1990; Andaloro-Romano 2000b. Il riferimento è ovviamente a Grottaferrata (Andaloro 1983; Pace 1987). Sull’iconografia della Deesis, gli studi di Walter 1968, 1970 e 1980. Gandolfo 1988, 310-311. Willemsen 1953; Bologna 1989; Claussen 1990b; Brenk 1991; Meredith 1994. Su Anagni, Gandolfo 1988 (con datazione tra il 1227 e il 1231: la data dell’epigrafe nel pavimento, 1231, è il pernio anche di altri studi, ad esempio Parlato-Romano 1992 [2001], 241-55). L’inquadramento del ciclo nella
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temperie dello scontro tra Federico e la corte papale in Hugenholtz 1979 (tradotto in Un universo di simboli 2001, 47-69) e Frugoni 2001. Per il ciclo della cripta si veda anche più avanti in questo saggio. Su Innocenzo IV, si veda Martini 1938, e Paravicini Bagliani 2000; e la biografia di Niccolò da Calvi, in Pagnotti 1898. Per comprendere in che modo sia stato prospettato negli studi il cosiddetto “vuoto di metà secolo” basti leggere l’introduzione al capitolo sul secondo Duecento in Matthiae 1966a [1988], 161-163, in cui in particolare è assente qualsiasi riferimento ad un possibile legame con il mondo gotico europeo, e gli interlocutori dello sviluppo dell’arte duecentesca a Roma sono individuati soltanto nell’orizzonte bizantino e nel legame con l’Antico. Per l’itineranza della Curia, Paravicini Bagliani 1988. Draghi 1999a; Ead. 1999b; Ead. 2004a; Ead. 2004b; Ead. 2006, e in questo volume (¤ 30a). Si vedano in particolare i saggi raccolti in Paravicini Bagliani 1991, ma anche, in particolare per il rapporto tra curia e Federico II, Paravicini Bagliani 1994 [1997], con ampia bibliografia. L’iconografia degli apostoli sulla spalla dei profeti è anche a Santa Maria in Pallara: si veda di recente Marchiori 2009, 225. Cfr. nota precedente. Romano 2004a, con la bibliografia. Non pretendo certo di scrivere qui una storia delle relazioni tra la Chiesa, le cerchie familiari romane, e la corte federiciana. Ho desunto le notizie sopra riportate da Maleczek 1983 e Dykmans 1983. Ho espresso già questa convinzione in Romano 2004a e Romano 2007; aggiungo anche il rinvio al mio libro su Giotto, in cui ho tentato un quadro dell’ambiente romano della seconda metà del Duecento nella prospettiva della formazione di Giotto: Romano 2008c (in particolare 117-125). I fatti cui si accenna risalgono ancora agli anni Venti del Duecento, prima della crisi definitiva tra il papato e Federico. Su Fibonacci si veda anche Muccillo 1997. Per i manoscritti innocenziani, specie i Registri (ASV, Reg. vat. 4; ASV, Reg. vat. 5; ASV, Reg. vat. 7), Pace 1980 e Iacobini 1991, 300-304; per i metalli, specialmente Iacobini 1990 e 1991. Paravicini Bagliani 1988, 159: Innocenzo fu lontano da Roma per il 90% del suo pontificato, e peraltro Urbano IV e Clemente IV non ci misero mai piede, mentre Alessandro IV vi si fece vedere nel 1256-1257 e nel 12601261, e Gregorio X solo nel 1272. Per questo aspetto degli anni di Cola a Roma, Romano 1995c [2000, 227-256]. Eubel 1912, passim, per i dati sui titoli e i cardinali. Sui palazzi romani, pontifici e no, si vedano gli studi di Le Pogam 2004b e 2005. Kamp 1975 per il palazzo viterbese, e per Giunta, Verani 1958, nonché più avanti in questo saggio, p. 32. Mi riferisco al monastero di San Sebastiano presso Alatri, la cui chiesa viene dipinta attorno al 1270-1280. Su una parete compaiono i ritratti dei due personaggi che avevano favorito l’installazione delle Clarisse nell’antica abbazia, dunque il vescovo di Alatri Giovanni, e il cardinal Conti. Il documento che testimonia le modalità dell’installazione delle Clarisse dice che l’atto fu compiuto per compiacere Stefano e in piena sintonia con lui: («(...) Cum ven. pater dominus Stephanus tit. S. Maria Transtyberim presb. card. semper dilexerit Ecclesiam Alatrinam et eam habuit in visceribus charitatis ac Nos etiam post Deum et Vs ipsum habemus patrem et dominum specialem, cupimus ei in omnibus beneplacitis suis, juxta possibilitatem nostram modis quibus possumus complacere»: Scaccia Scarafoni 1918, 242-247); Romano 2005b. Bourrel de La Roncière et al. 1902, 385-387 e (¤ 34b); il documento firmato da Alessandro ospita alcune righe firmate da Riccardo Annibaldi e datate dai Santi Giovanni e Paolo, in cui il cardinale attesta di prendere atto delle parole del papa (p. 386); il quale conclude poi il documento stesso con le parole «Actum in palatio nostro apud ecclesiam Sanctorum Johannis et Pauli, IIII kalendas aprilis, pontificatus domini Alexandri pape IV anno secundo». È possibile che il palazzo fosse, o fosse considerato, di pertinenza della famiglia, da cui l’espressione «in palatio nostro». Sull’Ubaldini, i documenti, recentemente ristudiati dalla Barelli (1998), sono quelli già pubblicati in Bourrel de La Roncière et al. 1902, IV, 390 n. 1306 (1 maggio 1256, Ottaviano Ubaldini sentenza «in domo hospicii eiusdem domini cardinalis Sanctorum Quattuor Coronatorum de Urbe». In altri due documenti, del 10 febbraio e del 27 aprile 1257, il palazzo è sempre chiamato «hospitium» (Levi 1891, 297 n. XXIII, «lata fuit haec ordinatio sive pronunciatio in Urbe, in hospitio predicti domini cardinalis»; Levi 1890, 173 nota 2, «actum in domo hospitii eiusdem domini cardinalis Ss. Quattuor in Urbe»). Il 30 agosto 1257 infine Emanuele Maggi, bresciano deposto dalla carica di senatore di Roma e rifugiatosi presso l’Ubaldini (Guerrini 1929), fa testamento «in palacio Sanctorum Quattuor de Urbe domini Octaviani cardinalis». Sul cardinale si veda il già citato Levi 1891 e Paravicini Bagliani 1972, 279-299). Per il Fieschi a San Clemente, Paravicini Bagliani 1972, 372. 1265, Carlo d’Angiò; 1267, Enrico di Castiglia. A Benedetto Caetani Niccolò IV lo affida a vita (e Benedetto, divenuto papa Bonifacio VIII, lo passa al nipote Francesco). Sui palazzi cardinalizi, Monciatti 2005a e Brancone 2010. Reumont 1884; Bertoldi 2000; Romano 2008b; Ead. 2008c, 202. Del palazzo medievale non resta più nulla; per la lastra tombale del cardinale, i cui frammenti sono affissi nel portico di San Lorenzo in Lucina, Bertoldi 1994 e Ead. 1999. Langlois 1886, nn. 7382-7383; Giovenale 1927. Lauer 1911, 197-198; Monciatti 2005a, 25. Barelli 1998; Barclay Lloyd 1989, 145. Cfr. schede; per Viterbo, si veda Radke 1984; per Orvieto e Anagni, si veda Monciatti 2005a, 39 ss., con altra bibliografia, di cui cito in particolare, su Anagni, Carbonara-Bianchi 1989. Questo aspetto è molto arricchito rispetto alle conoscenze passate: ma sulla questione vedi già Pace 1998. Sui ‘baroni’, Carocci 1993; sulla ‘bipartizione’ della nobiltà romana, Carocci 1989 e Vendittelli 2001, 17-20. Mi riferisco ad esempio al caso celebre del cosiddetto cavaliere di Bamberga, la cui identificazione è ancora irrisolta, nonché agli studi sulla presenza della statua probabilmente di Filippo Augusto in Notre-Dame a Parigi, e quella di Filippo il Bello. Träger 2008, Baron 1968 e Ead. 1999. Sulla penetrazione dei francescani a Roma, Barone 1978, Righetti Tosti-Croce 1978 e Ead. 1991, 57. Gregorio IX concesse loro la benedettina San Biagio, dipendente da san Cosimato, nel 1229 (ma i Francescani vi si erano installati già almeno da una decina d’anni). Per le absidi, Tomei 1990; Ghiberti (ed. Von Schlosser 1912, 39) attribuisce il ciclo francescano nella navata di San Francesco a Ripa a Cavallini, e analogamente cavalliniano doveva essere l’altro ciclo nella cappella Savelli all’Aracoeli (Herklotz 1983) dove l’abside visualizzava invece il ‘mito augusteo’ della basilica. Tomei 1982.
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La proposta di identificare il santo della Crocifissione di Santa Balbina con Guglielmo di Malavalle incontra molte difficoltà, ma deve esser presa in considerazione. Si veda la scheda (¤ 51). Ugonio, BAF, ms. CC. 161, ff. 1103-1110; Alfarano 1574 [1914], 17; Monciatti 2005a, 136 nota 112. Palazzo 2002, per le tipologie dell’XI secolo, e la serie di saggi in Il Maestro dei Mesi 2007. Si veda, per un interessante caso pittorico medioduecentesco presso Como, Gadia Rusmini 2000; altrettanto interessante nel campo dell’iconografia profana medioduecentesca il ciclo della cosiddetta Aula della Curia di Bergamo, un vasto ambiente situato tra la Cattedrale e l’Episcopio, dalle funzioni non ben precisabili (Polo D’Ambrosio 1992). Non si sa se fossero i Lavori dei Mesi il tema della decorazione pittorica proveniente dal palazzo pisano Da Scorno, datata da Burresi-Caleca 2003, 43-45, e da Carletti 2005a, molto presto, ancora alla metà del XII secolo: l’impaginazione risulta suggestiva ad esempio in rapporto ai frammenti del Palazzo Senatorio (¤ 58). S. Maddalo (2007a, 583) giustamente insiste sul possibile nesso dei Calendari duecenteschi con quelli antichi e tardo antichi, testimoniati a Roma in forma monumentale nel Calendario sottostante la basilica di Santa Maria Maggiore (per cui Magi 1972 e Salzman 1981). Maddalo 2007a; Ead. 2007b. Bertelli 1970b. Il calendario si trovava al piano sottostante il ciclo enciclopedico, e mostra elementi che lo spingono verso la stessa data attorno al 1300. L’interpretazione in senso molto romano è di Lucherini 2000. L’ipotesi che l’ambiente – oggi difficilmente rintracciabile nella sua originaria fisionomia – fosse aperto su un portico spetta a Claudio Parisi Presicce, Direttore dei Musei Capitolini, durante il sopralluogo nel Palazzo Senatorio e la fruttuosa discussione che ne è seguita. Dupré Theseider 1952; Cristiani 1961. Romano 2006b; e successivamente si vedano anche Romano 2008a, e Ead. 2009. Koudelka 1961; su Cecilia e i Miracula, Walz 1967. Si vedano Carocci-Vendittelli 2000, 361, con bibliografia. Per l’architettura già al tempo di Innocenzo III, Barclay Lloyd 2003, e si veda anche Bolton 1990. Spiazzi 1993, 12 ss. Per questi dati, Koudelka 1961, Spiazzi 1992 e Id. 1993. Per tutta la questione inerente l’icona Tempuli fra XI e XII secolo, il contrasto delle donne con Gregorio VII e con la Riforma, e i monasteri femminili romani, Romano 2006b, 16 ss. Secondo Spiazzi i monasteri femminili romani all’inizio del XIII secolo erano sette: oltre a quello Tempuli, c’era Sant’Andrea di Biberatica, Sant’Agnese fuori le mura, San Ciriaco di Camilana, Santa Maria in Campo Marzio, Santa Bibiana e Santa Maria della Massima. Spiazzi 1993, 129: sembra ne sia stato auspice e promotore un ignoto arciprete dei Santi Ciro e Giovanni, cioè Santa Passera (¤ 50). Si veda, anche per la questione delle donne devote e aristocratiche, la ‘congiuntura’ Ugolino/Jacques de Vitry, in Bolton 1976. Le carte di San Sisto, in Carbonetti-Vendittelli 1987; si veda anche Montaubin 2004, 170. Per le ‘coppie’ di tavole dipinte, con Croce e Maestà della Vergine, si veda Bellosi 2002 e la recensione di Romano 2004c, in cui tra l’altro si ricorda il caso romano menzionato da Ghiberti a Santa Maria sopra Minerva, nel quale è stata implicata la tavola della Vergine col Bambino pubblicata da Todini sotto l’attribuzione a Giotto (Todini 1992). Su Anagni, Bianchi 1983, Romano 1997, Böhm 1999. Un saggio pionieristico sulla questione femminile è quello di Gardner 1995b. Sulla campana, De Blaauw 1994 e Gardner c.s. (b). Bartolomeo era un ben noto fonditore pisano probabilmente legato ai circoli francescani, visto che nel 1268 realizzerà poi la campana per l’Aracoeli. Su San Cosimato, o Santi Cosma e Damiano in Mica Aurea, Barclay Lloyd-Bull Simonsen Einaudi 1998 e Corpus Cosmatorum III 2010, 348-359. Ricordiamo ancora il caso del monastero di San Pancrazio, la cui chiesa fu ornata alla cosmatesca dall’abate Ugo tra 1244 e 1249, e che passò subito dopo, nel medesimo anno 1249, alle monache cistercensi: Barclay Lloyd 2004. Frutaz 1969; Romano 2008a. Questo volume non include, per ragioni cronologiche, tutte le novità relative a Sant’Agnese. Vi rientrano solo i dipinti riscoperti nel sottotetto (¤ 49), già pieni di straordinarie novità rispetto a quanto prima si sapeva; altri due nuclei, quello con la Crocifissione pertinenti ad un ambiente conventuale (cfr. Romano 1989b, Ead. 1992), e un altro del tutto inedito in un’altra sala del convento, di qualche anno più tardi, saranno pubblicati al momento debito. Rinnovo qui i miei vivi ringraziamenti al parroco, don Franco, all’architetto Barbara Rossetti che cura i lavori, ad Andreina Draghi che li supervisionava per la Soprintendenza, per avermi consentito con tanta gentilezza e liberalità lo studio e il rilevamento fotografico degli affreschi, e spero molto che si potrà proseguire insieme lo studio. Ricordo la notizia in Montaubin 2004, 170, del lascito testamentario di 100 soldi al monastero da parte di Niccolò d’Anagni, già camerario papale, nel 1273. Claussen 2002, 55. Cfr. nota precedente. Per Alfano a Santa Maria in Cosmedin, Parlato-Romano 1992 [2001], 45-52. Wander 1978; Claussen 1987, 172-173; Id. 1990a; Gardner 1990a; Binski 1995, 97; Westminster Abbey 2002. Di recente, il ruolo di Richard de Ware sembra subire un ridimensionamento, meno protagonista quanto agente di Enrico III. Binski 2009; Id. 2010. La questione non tocca né diminuisce la nostra, anzi coincide bene con l’idea dell’abate venuto a Roma anche al fine di reperire artisti del tipo voluto dal re. Claussen 1990a; Gardner 1990a; Id. 1992, 69-70. Per la questione del pittore oltremontano ad Assisi cfr. lo status quaestionis in Romano 1984a e la cronologia molto alta in Cadei 1983; ma poi si veda, per quella alla fine degli anni Settanta, Romano 2001a e 2001b, nonché Romano 2003b. Cito per tutti Belting 1977. Oliger 1922; Id. 1935; Barone 1983; Federici 1900, 416-417. Su Santa Chiara a Napoli, Bruzelius 2004, 133150; per la Crocifissione giottesca nel coro, Leone De Castris 2006, 73. Forse ulteriori ricerche potranno meglio chiarire l’articolazione degli spazi a San Silvestro in Capite: per ora sembrerebbe che il punto denominato «coro superiore» nei documenti ottocenteschi possa essere stato uno spazio subito attiguo al coro della chiesa
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e riservato alle monache. Mi propongo di scavare ancora negli archivi dei lavori per il Ministero delle Poste, dove già si sono reperiti i documenti relativi all’affresco e pubblicati nella scheda (¤ 69). 85 Gardner c.s. (a). 86 Iacobini 1991, 245: i mosaicisti siciliani – di qualità più alta, e simili a quelli che operano a Grottaferrata – si sarebbero riservati le figure degli apostoli, e agli aiuti romani sarebbero toccate quelle della fascia bassa. Naturalmente l’ipotesi è plausibile ma non dimostrabile. La formulazione dell’ipotesi siciliana in Demus 1949, 453-454, e si veda Gandolfo 1988, 278. 87 Iacobini 1997. 88 Andaloro 1989c e Corpus I ¤ 44c. 89 Il pannello di Subiaco, secondo Boskovits, «can firmly be dated to the first decade of the thirteenth century» (Boskovits 1993, 62). Ladner 1970, 68; Cristiani Testi 1982a, 111. 90 Cfr. più sopra in questo saggio, nota 7, e scheda (¤ 8). 91 Boskovits 1993 per il medesimo peso attribuito all’elemento ‘locale’ romano. 92 Angelelli 1998. Affinità si riscontrano forse tra quanto rimane del volto del Cristo di San Basilio e l’altro di Santa Maria Nova. 93 Si vedano nella scheda (¤ 30f) le analisi di Andreina Draghi sulle vicende conservative degli affreschi della cappella di San Silvestro, così pesanti da compromettere gravemente la lettura del testo pittorico. 94 Sulla questione dell’‘indipendenza’ dei mosaici nelle opere cosmatesche: Gandolfo 1988, 305. 95 Difficilissimo ricostruire la storia delle familiae cardinalizie per ciò che attiene la committenza. Indispensabile: Paravicini Bagliani 1972; di recente molte informazioni – quasi mai direttamente pertinenti al mondo artistico – in Montaubin 2004. Un’impressionante ricostruzione del sistema che oggi chiameremmo di regalie, mazzette e prebende ‘obbligatorie’ in Vendittelli 2001. Per le elementari notizie sui personaggi citati nel testo rimando come sempre alle informazioni e alla nutrita bibliografia contenuta nelle voci del Dizionario biografico degli italiani e nella più recente Enciclopedia dei papi (2000). 96 Si veda la questione e la bibliografia alle note 30, 51 e 73. 97 I dipinti della cappella di san Gregorio hanno avuto attenzione molto sobria negli studi: mancano, per fare un esempio, nella Pittura murale di Demus (1968 [1969]), e non sono particolarmente illuminati dallo studio di Cristiani Testi (1982a). Dopo Toesca (1902, 139 ss.), l’intervento più pertinente resta quello di Bianchi 1980, tuttavia essenzialmente iconografico e storico, da integrare con Gandolfo (1988, 296-297), anch’esso tuttavia rapido. 98 Su “Sozio” si veda almeno Monciatti 2005b e Romano c.s. (a), in particolare per quanto attiene l’aspetto stilistico, con la bibliografia precedente. 99 Per Subiaco, Bianchi 1981, e Cristiani Testi 1982a; di nuovo Bianchi 2003, 53-56. 100 I dati epigrafici in Claussen 1987, 96-98, che avvisa della tradizione relativa ad un’ulteriore lastra, tuttavia non reperibile, che menzionerebbe ugualmente la rimozione dell’altare della cripta da parte di Cosma nel 1231. 101 La questione è ovviamente assai complessa. La datazione degli affreschi entro il 1231 in Boskovits 1979; Gandolfo (1988, 291-298) arriva alle medesime conclusioni, e attribuisce l’impresa a Gregorio IX, considerando le decorazioni nel palazzo di Gregorio ad Anagni e l’impresa nella cripta due facce della stessa committenza pontificia, con la cripta quasi ‘cappella palatina’ di Gregorio. In seguito la datazione alta ha trovato consensi, ma anche non ha convinto: Tomei (2001a) la accetta, la Frugoni (2001, 5), considera invece il 1231 il post quem per la decorazione pittorica. Ho mantenuto prudenza in Parlato-Romano 1992 [2001], 241-254: sottolineo che tutti questi interventi datano anteriormente al ritrovamento del ciclo dell’Aula dei Santi Quattro. Nell’introduzione al volume che pubblica il ciclo dell’Aula, Gandolfo (2006) però ha ribadito la datazione alta per Anagni, tendendo tuttavia, significativamente, ad alzare anche quella dell’Aula, di cui pone in evidenza solo il post quem del 1235 costituito dalla canonizzazione di san Domenico. Il ruolo di ponte, che la pittura dell’Aula palesemente svolge nei confronti delle vicende pittoriche della seconda metà del secolo, dal Sancta Sanctorum a Torriti, come già indicato da Draghi (2006), rende a mio avviso questa cronologia molto difficile. 102 La distinzione tra due ‘mani’ si deve a Gandolfo 1988, 296-297; e si veda anche Bianchi 2003 con il dettaglio relativo a tutti gli affreschi. 103 Tento queste riflessioni sulla base del volume dell’Istituto Centrale del Restauro, in cui Alessandro Bianchi ha dato conto dei risultati del restauro e delle indagini tecniche (Bianchi 2003), gemellando questo aspetto con quello storico-artistico e fornendo così agli studi uno strumento preziosissimo. 104 Con l’eccezione della volta VII, più isolata tra il settore spettante al primo Maestro e le volte e una parete del Terzo (Bianchi 2003, 116). 105 La distinzione in Mano A e Mano B in Bianchi 2003. 106 Maleczek 1983; Paravicini Bagliani 2000. 107 Vicino alla Crocifissione il Mancini vedeva dipinti donati da una Donna Maria: Mancini ante 1630 [1956-1957], 67. Non si può ovviamente sapere se fossero duecenteschi. Il convergere di almeno due, se non tre interventi finanziati da ‘privati’ e concorrenti a decorare l’intera controfacciata fa pensare a un’implicazione larga e forse deliberata da parte di chi risiedeva nel palazzo, dunque il Conti. Il resto della basilica era probabilmente già decorato, certamente la parte absidale già dall’epoca di Pasquale II (Draghi, in Corpus IV ¤ 31). 108 Semplifico qui una questione veramente molto complessa, su cui si è molto scritto, con conclusioni molto contraddittorie. Il nesso San Paolo/San Silvestro è affermato con forza da Boskovits (1979 e 1993), che riporta comunque, e con altrettanta forza, l’origine dell’Ornatista, dunque della seconda bottega di Anagni, a Roma, e al cantiere ostiense. Radicata nella cultura tardo-comnena, forse identica a quella del Maestro di Filettino, è la seconda bottega di Anagni per Gandolfo (1988, 294-296), che però ne riconosce i forti nessi romani e ostiensi. Bianchi (2003) separa nettamente la cultura del Secondo da quella del Terzo Maestro/Gruppo di Anagni, orientando senza ambiguità quest’ultimo in direzione meridionale e federiciana, come per primo affermato da Bologna (1969). 109 Bianchi 2003, 116. 110 Nel San Silvestro di Tivoli ne compaiono solo 4 contro le 11 della cappella (Lanz 1983; Parlato-Romano 1992 [2001], 227-231). Mitchell 1980 sottolinea l’indipendenza del ciclo della cappella, che pesca in svariate riserve iconografiche come a seguito di un lavoro di assemblaggio, rispetto a quello di Tivoli.
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Si veda la scheda (¤ 30i) per la discussione circa la proposta della Toubert e i nessi con i modi del Terzo Maestro. 112 Già nel volume del 2006, e anche nella scheda (¤ 30a). 113 Per la questione, Romano 2008c, sp. 144-145 e 181-190. 114 Le radici tardo antiche e bizantine della pittura del Terzo Maestro furono affermate dal Toesca 1902; anche Boskovits 1979 lo identifica con il pittore della cappella di San Gregorio a Subiaco. Gandolfo 1988, 297, dice che «la componente locale» del Terzo Maestro «era stata attiva nel 1228 a Subiaco». 115 Bologna 1969, 24 e 38. 116 Tomei 2001a, 45, rileva l’impossibilità di stabilire veri confronti con opere superstiti. Per la miniatura federiciana rinvio alla recente ed eccellente sintesi di Orofino 2010, con tutta la rassegna bibliografica. Per i codici manfrediani si veda di recente Maddalo 2003, con ottima introduzione. 117 Sul Fendulus, Gousset-Verdet 1989; su Scoto, Paravicini Bagliani 1991, 58-62 e 215-216, e Burnett 1994. Scoto è destinatario di benefici e lettere da parte di Innocenzo III, Onorio III e Gregorio IX. 118 Vi ritrovo ancora un’eco di episodi siciliani e tardo comneni di altissima qualità quali le miniature del Sacramentario di Madrid, specialmente la pagina con la Vergine in trono: Pace 1998-1999, con la complessa discussione storiografica. 119 Senza poter dare un panorama bibliografico esaustivo dell’immensa questione, mi limito a ricordarne i pilastri storiografici, raccolti nel volume 41 della Zeitschrift für Kunstgeschichte: Belting 1978, Weitzmann 1978, Kroos 1978; per la miniatura nei regni crociati Buchthal 1957, Folda 1976; l’importante volume degli atti del convegno del CIHA, svoltosi a Bologna nel 1979, in particolare la sezione diretta da Hans Belting e intitolata Il Medio Oriente e l’Occidente nell’arte del XIII secolo (Belting 1982; Il Medio Oriente e l’Occidente 1982). Il ruolo di Venezia in Bellinati-Bettini 1968, con l’opera di Giovanni da Gaibana. 120 Per il manoscritto di Giovanni da Gaibana (1259), Bellinati-Bettini 1968; per la questione di Assisi, avevo già tracciato la rete di riferimenti – ovviamente senza conoscere l’Aula – in Romano 1982 [2001a], 31. 121 La data dei dipinti del Battistero di Parma è stata molto discussa. Chiara Frugoni (1993, 237), usando argomenti iconografici francescani, li situa tra 1228 e 1259, più vicini alla prima data; altrettanto precoce la datazione di Geymonat (2006) e di Fiaccadori (1999) alla metà degli anni Trenta. Gandolfo (1982 e 2003) li vuole invece subito anteriori alla data della consacrazione (1270), come anche Calzona (1989, in Quintavalle 1989) e Quintavalle (1989). Per questioni storiche e di influssi gioachimiti, Pagella (1993) li fissa subito prima del 1250, come Pace 2004-2005, e agli anni Quaranta pensa Véronique Rouchon Mouilleron, che li ha studiati in molteplici occasioni (Rouchon Mouilleron 2003a; Ead. 2003b; Ead. 2005) e che ringrazio per aver discusso con me l’argomento. La cronologia agli anni Quaranta è ovviamente molto interessante per i possibili nessi con i fatti mediterranei specialmente dello scriptorium di Acri (Buchthal 1957) e per il parallelismo con quelli romani. 122 Boskovits 1973a, 340; Tartuferi 1991, 16; Boskovits 1993, 76-81; Bellosi 1998, 33; Carletti 2005b. “Greco” e “mediterraneo” sono naturalmente termini storiograficamente pesanti, per cui mi limito a rimandare all’articolo di Cormack-Mihalarias 1984. Per il nesso tra Giunta e la pittura dell’Aula, Draghi 2006, 88-92. 123 Verani 1958. Si tratta di due pergamene conservate nell’Archivio Storico del Comune di Rieti. Nella prima è citato «Leopardo Clerico nato Magistri Iunctae pictoris Pisani»; nella seconda di nuovo «Leopardo Clerico nato magistri Iuncte pictoris (...) et Iohanne pisano famulo Magistri iunctae». Verani nota giustamente che se Leopardo nel 1239 è in grado di testimoniare doveva avere almeno 25 anni, dunque esser nato prima del 1214, quando Giunta doveva avere almeno 18 o 20 anni, e quindi esser nato non dopo il 1190 o al massimo qualche anno più tardi. Tartuferi 1991, 9. Per Raniero Capocci e il palazzo di San Clemente, cfr. più sopra in questo saggio, p. 19, e la scheda (¤ 31). 124 Draghi 2006, 88-89. La ‘rivalutazione’ di Giunta si deve, mi sembra, soprattutto a Miklós Boskovits (1973a). 125 Per Federico Visconti e Sinibaldo Fieschi: Paravicini Bagliani 1972, 68; Tartuferi 1991, 10; Burresi-Caleca 2005, 72; per Cimabue e il documento romano del 1972 si veda più avanti in questo saggio. 126 Il testo in Valentini-Zucchetti 1953, IV, 78-79; Mancini ante 1630 [1956-1957], 278, e si veda Draghi 2006 e la scheda (¤ 30a). 127 Pagnotti 1898, 111; e cfr. l’introduzione di Guido Cornini e Anna Maria De Strobel alle schede sul palazzo (¤ 32). 128 Per Orvieto: Monciatti 2005b, 43; per Viterbo: Radke 1984. Sul San Pietro in Vineis di Anagni cfr. nota 73. 129 Per Santa Maria Maggiore: Wilpert 1916, IV, tav. CCLXX. 130 Romano 2002a; si veda qui la scheda su San Paolo (¤ 61) dove do conto anche delle successive proposte cronologiche di Pöpper 2004, e Kessler 2004. 131 Cfr. scheda (¤ 35): il testo del Calendario usa la data della Pasqua fissa al 27 marzo. Poiché l’uso era a questo tempo già obsoleto, è stato supposto che si tratti in realtà dell’intenzione di fornire un indizio circa il momento di realizzazione del Calendario (Curzi 2002; Id. 2003). Pasqua era caduta il 27 marzo solo nel 1239 e nel 1250, ed è quest’ultima data che viene ritenuta la più probabile. Personalmente diffido un po’ di tutto questo ragionamento, e penso che potrebbe trattarsi semplicemente di un testo un po’ antiquato, trascritto sul muro forse da un modello. La data al quinto decennio del secolo è comunque del tutto plausibile. 132 Mondini 2010a. 133 Si veda la questione del culto di san Lorenzo a San Lorenzo in Lucina, e la relativa bibliografia, in Romano, in Corpus IV (¤ 50); sui Fieschi, Gardner 2000a. 134 Su Bominaco, datato 1263, Lucherini 2000; Della Valle 2006. 135 Per questi aspetti rimando ancora agli studi di Paravicini Bagliani 1991. Clemente IV, Guy Foucois, era un laico, sposato e poi rimasto vedovo, presente alla celebre corte di Raimondo di Tolosa, entrato nello stato ecclesiastico solo a metà degli anni Cinquanta. Si veda anche Cerrini 2000 e Kamp 2000. 136 Grauert 1912. 137 Il Magister Nicolaus è stato identificato da Pace 1985; si veda in seguito Maddalo 2000, Avril 2000, Bilotta 2000, Gousset 2000a, Bilotta 2004 e Ead. 2008. 138 Si vedano specialmente gli studi di Julian Gardner 1969, 1975, 1990b, 2000a, 2000b, 2001-2002. 139 La Bibbia conta nove volumi: BAV, Vat. lat. 7793-7801. Si veda Manzari 2000 e Magrini 2000, con la bibliografia 111
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precedente; il 7795 e il 7798 sono considerati prodotto del “Channel Style” ancora di fine XII secolo, mentre gli altri volumi sono in varia misura pertinenti la cultura parigina alla metà del secolo o nel sesto decennio. 140 Francesizzante secondo Gardner 1990b, che ricorda come il cardinale titolare della basilica fosse, dal 1263 al 1286, Ancher de Troyes, nipote di Urbano IV. 141 Ma anche nel Pontificale Romano della Pierpont Morgan Library a New York, attribuito al Maestro Nicolaus circa 1260-70: si veda Avril 2000. 142 Senza voler qui entrare nel dibattito più che vasto sull’argomento, mi riferisco agli studi che hanno tentato di discutere la questione dello stile in senso generale, e in quello specificamente artistico e pittorico, nel quadro dell’arte medievale, con le sue caratteristiche tecniche e le sue troppe lacune. Si vedano ad esempio Recht 1993-1994, e l’intelligentissimo Sauerländer 1983. Nessuno di questi studi, avverto, tocca la situazione italiana e romana. All’Italia si è accostato talvolta lo stesso Sauerländer, nel tentativo di tranciare spinosissime questioni attribuzionistiche e filologiche quali quelle relative all’Antelami o allo stesso Giotto (Sauerländer 1995 e 2002); molte delle sue considerazioni sono acute, ma confesso che per mio conto la negazione di qualsiasi possibilità di leggere l’apporto individuale, e il totale rinvio al concetto di corpus o di bottega, rimane insoddisfacente e non contribuisce a far avanzare la riflessione, quanto piuttosto a sigillarla su una formula. Peraltro, la dominanza degli studi, appunto, stilistici, nella tradizione italiana di tutto il Novecento non sembra aver prodotto una riflessione sufficientemente ampia sul reale significato del termine “stile”, applicato alla particolare condizione operativa nelle botteghe medievali, e anzi ha spesso causato quelle che a mio avviso sono semplificazioni riduttive di questioni complicate, o applicazioni tout court di metodi adatti a epoche più tarde. Negli studi non italiani sul Medioevo italiano e in special modo romano, invece, la questione dello stile è molto spesso evitata: mi chiedo se non si possa cercare una soluzione a questi due estremi, e talvolta ho provato a esperire approcci che tenessero insieme la questione definibile come ‘stilistica’ e la faccia dell’organizzazione del lavoro, per cui vedi anche la nota seguente. 143 L’uso dei patroni è stato affermato proprio in relazione alla pittura romana, e in particolare alla cappella di San Silvestro ai Santi Quattro Coronati, da Nimmo-Olivetti 1985-1986; e in seguito da Zanardi 1995 e Andaloro 1995 a proposito del Sancta Sanctorum. A Bruno Zanardi si deve l’inchiesta più approfondita sulla questione, ben al di là del solo caso romano: Zanardi 1993, 1996, 1999, 2002, 2004, con ricerche di natura insieme documentaria e tecnica, applicate soprattutto ai casi romani e assisiati. Molta attenzione al problema è stato dedicato anche da Maria Andaloro, che lo ha studiato in particolare in quella che sembra esser stata la sua culla, quanto meno storiografica, in area bizantina: oltre al già citato saggio del 1995 sul Sancta Sanctorum, ricordo infatti Andaloro 2002a, e Andaloro-Viscontini 2003. Assolutamente scettico White 1996, che dà molto maggior risalto alle capacità tecniche dell’artista medievale, in grado di disegnare e dipingere usando i propri repertori e modelli, senza bisogno di patroni. Per mio conto, come ho altre volte scritto, l’esistenza di strumenti di bottega che sostenessero l’invenzione e permettessero di ‘stoccare’ modelli e soluzioni mi sembrerebbe del tutto possibile, ferme restando tra l’altro le testimonianze delle fonti; il caso di San Silvestro ai Santi Quattro, dove l’uso delle sagome sembrerebbe veramente dimostrabile, costituisce ai miei occhi un caso di tale monotonia compositiva, da far pensare che quanto più debole era la capacità tecnica della bottega, tanto più intenso e scoperto poteva divenire il supporto di strumenti ripetitivi. 144 Il concetto di “orizzonte di attesa” in Jauss 1972 [1978]. 145 La definizione di ‘interstiziale’ è stata utilizzata nel caso del genere biografico, per cui si veda Le Goff 1996. 146 Gian Gaetano, figlio di Matteo Rosso e di Perna Caetani, fu fatto cardinale di San Nicola in Carcere da Innocenzo IV, nel 1244. Trentatre anni di cardinalato, molti conclavi, grandi diplomazie con Carlo d’Angiò, fecero di lui il decano del collegio e certamente il capo del “partito romano” all’interno della curia. La bolla Fundamenta militantis ecclesiae, data il 28 luglio 1278 – fu eletto papa il 26 dicembre 1277 – fu un atto deliberato di politica romana antiangioina (esclusione degli ‘stranieri’ dalle magistrature romane, e quindi di Carlo d’Angiò dalla carica di senatore di Roma) è un atto politico, ma anche un manifesto culturale nella ricapitolazione della storia della città intersecata alla storia della Chiesa, nell’affermazione della donazione costantiniana, dunque nella riproposizione in chiave per così dire romanista dei principi teocratici che avevano guidato il pontificato di Innocenzo III. La morte per apoplessia, il 22 agosto 1280, interruppe un programma che in soli due anni e mezzo aveva già compiuto numerosissimi atti, molti in ambito edilizio e artistico. Demski 1903; Sternfeld 1905 [1965]; Huyskens 1906; Allegrezza 1998 e 2000; sulla bolla, Elizondo 1963; e sulla committenza, D’Onofrio 1983, Tomei 1995, Romano 1995b, 2001-2002, e 2006a. 147 Si veda nella scheda (¤ 60); Gardner 1973b; Id. 1995a; Cadei 1996. Il tabernacolo Capocci del 1256 a Santa Maria Maggiore, e l’altro quasi contemporaneo che ospitava la Salus Populi Romani, testimoniati dal de Angelis (1621), anticipano in certa misura le scelte architettoniche del Sancta Sanctorum, e probabilmente costituivano un caso di elevazione di reliquie, ancorché diversamente necessitato. Si veda Gardner 1970 e 1995a, 33. 148 Su Santa Costanza: Amadio 1986; Piazza, in Corpus I (¤ 1d). 149 Ricordo per altri versi la suggestiva definizione di pinakes, introdotta da Belting (1977, 165) e precisata da Herklotz (1997) circa i riquadri narrativi del Sancta Sanctorum, ‘appesi’ alle pareti. 150 Romano 1995b; Ead. 2001-2002. 151 Ho proposto questa lettura in Romano 1995b e 2001-2002. Ricordo anche Herklotz 1997, con altre osservazioni coerenti con il medesimo approccio, e il più recente Triff 2009. Quanto al recente Wollesen 2007-2008, mi sembra si limiti a ripetere quanto da lui stesso detto nel 1981, peraltro asserendo che nessun altro a tutt’oggi si sia posto domande e abbia tentato risposte sull’argomento. 152 Si veda l’introduzione alla scheda su San Paolo (¤ 61) per il resoconto sulla storiografia che tradizionalmente attribuiva a Niccolò III la committenza del ‘restauro’ del ciclo pittorico della navata. 153 Sul Palazzo: Monciatti 2005a, con tutta la precedente bibliografia; l’ipotesi di ritrovamenti ‘archeologici’ durante i lavori di ampliamento promossi da Niccolò III, anche in Romano 2008c, 51. 154 Per il concetto di renouveau, ovviamente Toubert 1970 e Kitzinger 1972, con il punto d’arrivo attuale in Romano, in Corpus IV, specialmente 163-164. 155 In questo senso sono particolarmente suggestive le ricostruzioni grafiche degli apparati decorativi delle sale vaticane, che Monciatti (2005a) ha ipotizzato sulla base dei pochi resti attuali. 156 Romano 2008c. 157 Come nota precedente.
48 I CANTIERI DI ROMA
Wilpert 1907; sull’immagine del Cristo, anche più in generale, si vedano Kessler 1999, Wolf 2000, Kessler 2006. 159 Andaloro 1984; Romano 2001a; Ead. 2007; Romano-Foletti 2010b. 160 Wollesen 1977; Id. 1981; Parlato 2001a; Id. 2001b. 161 La cronologia dell’intervento di Cimabue ad Assisi è dibattuta tra i due pontificati di Niccolò III e Niccolò IV. Per il primo si veda – limito le citazioni, essendo la restante bibliografia contenuta in questi titoli: Andaloro 1984; Romano 2001a; per Niccolò IV: Bellosi 1998; Id. 2007a. 162 Le tappe della questione storiografica sono esposte in Romano 2001a e 2001b, nonché Romano 2003b. Per il gruppo cosiddetto Oltremontano: Aubert 1907; Belting 1977; Pace 1983; Bellosi 1989; Bagnoli 1994; Binski 2001. La cronologia a metà secolo circa, in Cadei 1983 e 2001. La questione dei pittori romani nasce con Hueck 1969-1970; le puntualizzazioni circa la contemporaneità fra cimabueschi, oltremontani e romani, sono state rese possibili dai ponteggi e dai restauri seguiti al terremoto del 1997, diretti dall’Istituto Centrale per il Restauro e da Giuseppe Basile, e sono nei saggi sopracitati di chi scrive, e Tomei 2001b. 163 Cfr. più sopra in questo saggio, p. 24. 164 Ben diversa e più individuale rispetto, ad esempio, a quella del Terzo Maestro, la vicenda ‘biografica’ di Torriti è sancita anche da Vasari, che lo ricorda anche se lo identifica con il frate francescano autore dei mosaici della ‘scarsella’ del Battistero di Firenze (Vita di Andrea Tafi, in Vasari 1550 e 1568 [1967-1968], II, 76). 165 Tutti i dati essenziali in Tomei 1990; e si veda Le Pogam 2004a per la questione dell’artista alla corte pontificia. 166 Andaloro-Viscontini 2003. 167 Wollesen 1983. 168 Cadei 2001; Tomei 2001b. 169 Per San Bevignate: Belting 1977, 46; Tommasi 1981, 51-52; Scarpellini 1987, 148; Curzi 2002, 50-51; Scarpellini 2008, 236. Per il rinvio al cosiddetto Libro dei Profeti, BAV, Vat. gr. 1153: Belting 1982, 4. 170 Loenertz 1965. Per un quadro generale ancora utile Nicol 1972 e Richard 1977; sul secondo concilio di Lione, 1274. Année charnière 1974. Nel 1274, appunto durante il concilio di Lione, morì Bonaventura, Generale francescano, e al suo posto fu eletto Girolamo da Ascoli, futuro papa Niccolò IV, che in quel momento si trovava a Costantinopoli. Per gli evangelisti di Cimabue, Battisti 1963, e rimando anche al mio Romano 2001a, specie 102-106. 171 Per il san Paolo del Sancta Sanctorum, Romano 1995b, 78. Per le ipotesi sul ritratto papale da San Paolo, si veda la scheda (¤ 61a). 172 Romano 2001-2002. Sul Cristo del Sinai: Chatzidakis 1967. 173 Mi riferisco ovviamente a quella di Bellosi (1998), che identifica il Maestro del Redentore con Torriti. 174 Romano 2001a, 189-191; Romano 2001-2002. 175 Le Goff 1996. 176 Sulla Vergine di Santa Maria del Popolo, in genere fissata all’ultimo decennio del secolo, recentemente Angelelli 2009. 177 Bertelli 1969; Mihályi 1991; Romano 1992, 83-94. 178 Gardner 1973a. 179 Agli anni Novanta era riferito da chi scrive (Romano 1992, 25-35), quale impresa unitaria realizzata da vari gruppi di pittori di cui quelli delle Storie di santo Stefano e san Lorenzo estremamente arcaicizzanti, manipolatori di materiali e schemi compositivi vecchi di un secolo; Boskovits (2001, 153-158) dissocia le Storie del Conte Enrico dal resto del ciclo, e le considera degli anni Novanta, mentre data le altre all’altezza del Sancta Sanctorum. Gli argomenti di Boskovits sono come sempre da prendere in seria considerazione: confesso che trovo la questione alquanto ardua a causa delle stato di conservazione dei dipinti. Mi sembra però ancora di poter istituire un nesso tra le Storie di santo Stefano e l’opera di Conxolus a Subiaco (che non può esser datata prima della conclusione della navata di Assisi), e sono reticente a pensare che si siano aggiunte le Storie del Conte Enrico dieci o quindici anni dopo le altre. La questione sarà discussa nel prossimo volume del Corpus. 158
I CANTIERI DI ROMA 49
1. LE STORIE DI SAN PIETRO E SAN PAOLO NELL’ORATORIO DI GIOVANNI VII IN SAN PIETRO IN VATICANO Fine XII-inizio XIII secolo
Nelle Grotte Vaticane, all’ingresso della galleria di Clemente VIII, si conserva un frammento musivo molto restaurato, raffigurante san Pietro in atto di benedire [3]. Proviene dall’oratorio di Giovanni VII, demolito nel 1602 al momento dei lavori per il nuovo San Pietro, e pertineva a un ciclo di Storie dei santi Pietro e Paolo. Meno studiato rispetto a quello cristologico, questo ciclo occupava la parete nord dell’oratorio, ed è documentato da vari disegni, e dalle illustrazioni e descrizioni del manoscritto del Grimaldi. Nel 1635 il Torrigio (1635, 121) ricordava altri frammenti dallo stesso oratorio nella chiesa di San Filippo Neri, oggi perduti. Il ciclo contava sei scene a coppie su tre registri [1]. Le prime tre erano tre scene della Predicazione di san Pietro, a Gerusalemme, Antiochia e Roma, ed erano compositivamente affini: Pietro aureolato, in piedi, con le chiavi nella mano sinistra e con la destra levata, parlava alla folla inginocchiata ai suoi piedi. Lo sfondo architettonico era dato da grandi torri merlate. Le due Prediche del primo registro avevano un titulus nel bordo inferiore, mentre nella terza, al secondo registro, la parola «Roma» era inscritta all’interno stesso della scena, vicino alla testa di san Pietro: il frammento della figura di Pietro proviene da qui. La quarta scena, nel secondo registro a destra, era la Disputa di Pietro e Paolo con Simon Mago, con un soldato in piedi davanti a Nerone assiso in trono: ogni personaggio aveva il nome inscritto. L’ultimo registro combinava più scene in un unico campo. A sinistra in alto la figura di Simone che vola, e subito sotto, la sua caduta provocata dalle preghiere di Pietro e Paolo, situati sulla destra con la schiena rivolta alla scena e in atto di pregare verso la luce divina apparsa nel cielo; Nerone, accompagnato da un soldato, assisteva alla scena. Nerone e Simone erano gli unici identificati dal nome inscritto. Nella parte destra del campo, dopo una separazione costituita da un’alta torre, si vedevano i martiri dei due santi, Pietro a testa in giù sulla croce e Paolo in ginocchio davanti all’aguzzino che lo decapita. Tutti i disegni del manoscritto di Grimaldi rappresentano il ciclo in modo identico ad eccezione di qualche variante nella ripartizione delle scene: i manoscritti ACSP, H. 3 e BNC, II-III 173 le separano nettamente mediante fasce orizzontali e verticali, mentre nel BAV, Barb. lat. 2733 la separazione è data soprattutto dallo sfondo.
Iscrizioni
Iscrizioni identificative, perdute. Trascrizioni dai disegni, BAV, Barb. lat. 2732, f. 75v, e BAV, Barb. lat. 2733, f. 89r (Grimaldi 1619 [1972], 118). 1 - Primo registro, nella fascia ai piedi della raffigurazione: Civitas Hierosolyma (primo riquadro); Civitas Antiochia (secondo riquadro) 2 - Secondo registro, primo riquadro, ai lati della figura: Roma 3 - Secondo registro, secondo riquadro, sopra le figure: Nero; Magus; S<anctus> Petrus; S<anctus> Paulus 4 - Terzo registro, primo riquadro, nella fascia rettangolare sopra la raffigurazione, secondo BAV, Barb. lat. 2732, f. 75v, ma all’interno del riquadro, secondo BAV, Barb. lat. 2733, f. 89r (Grimaldi 1619 [1972], 118): Magus; Nero (S. Ric.)
1
Note critiche
Il busto di Pietro dalla Predica ai Romani, solo frammento sopravvissuto del ciclo [3], è stato depositato alle Grotte Vaticane poco dopo lo stacco. Torrigio lo cita nel 1618, poi nel 1635, accompagnandolo con una scritta IMAGO B. PETRI PRAEDICANTIS ROMANIS EX SACELLO IOANNIS VII PAPAE PAULUS V PONT. MAX. (Torrigio 1618, 78; Id. 1635, 85). Grimaldi attesta che i mosaici erano già in cattivo stato prima della demolizione dell’oratorio (BAM, A. 166, f. 16v), il che può forse spiegare i rifacimenti eseguiti dopo lo stacco. Ulteriori interventi fecero poi scomparire la parola «Roma» e le chiavi di Pietro, e hanno talmente compromesso lo stile dell’opera da far dubitare che il mosaico avesse mai fatto parte del ciclo dell’oratorio (Garrucci 1877; van Marle 1921; Matthiae 1967). Sul braccio di Pietro si vede ancora qualche tessera autentica, di minori dimensioni rispetto alle altre, ma probabilmente non più nella posizione originaria (Müntz 1877; Clausse 1893; Nordhagen 1965). Essendo impossibile studiare il ciclo per il tramite di questo tormentato frammento, sono stati i disegni di Grimaldi a essere oggetto di recenti analisi che ne hanno discusso soprattutto la data, tradizionalmente legata al pontificato di Giovanni VII (705-707) come l’altro ciclo cristologico pure nell’oratorio. W. Tronzo (1987), rilevando le grandi dimensioni della figura di Pietro, le torri merlate che separano le scene, le grandi fasce che le incorniciano e che contengono spesso dei tituli, non ritrova SAN PIETRO IN VATICANO / ATLANTE I, 1 51
Ante 1773: restauro del san Pietro ed eliminazione dell’iscrizione «Roma» (Dionisio è il primo a non vederla più nel 1773). Tra 1828 e 1877: restauro del san Pietro ed eliminazione delle chiavi (né Müntz né Garrucci nel 1877 le vedono). 1925: il frammento è trasferito al Museo Petriano. Tra 1940 e 1950: il frammento torna alle Grotte vaticane.
Documentazione visiva
3
2
le stesse caratteristiche nel ciclo cristologico: rispetto al quale il ciclo apostolico non si allinea perfettamente, rimanendo anzi decentrato sulla parete, che in basso mostra un rivestimento a pannelli per tutta la larghezza del muro, anche oltre il limite delle scene. Tronzo dunque conclude che il ciclo apostolico non appartiene alla fase Giovanni VII, ma fu eseguito molto più tardi, probabilmente alla fine del XII secolo quando l’oratorio e la sua reliquia, la Veronica, attirarono fortemente l’attenzione pontificia. Nel 1995, Van Dijk riprende l’ipotesi, modificandola considerevolmente. A suo avviso, il ciclo sarebbe stato concepito sotto Giovanni VII, ma le prime tre scene di Predicazione sarebbero state restaurate durante il pontificato di Celestino III o di Innocenzo III: è in queste che si ritrovano le incoerenze messe in luce dall’analisi di Tronzo. Rileva inoltre che nella terza Predica l’iscrizione «Roma» si trova all’altezza della testa di Pietro come nel ciclo cristologico: il che farebbe pensare che questa scena sarebbe stata rimaneggiata meno delle altre. La datazione del registro basso all’VIII secolo viene giustificata notando che anche nel ciclo cristologico le scene sono più semplici nel registro alto e si complicano in quelli bassi, dove più episodi si combinano insieme (Van Dijk 1995, 80-86). La datazione del ciclo di Pietro e Paolo può basarsi soltanto sui disegni eseguiti vari anni dopo la demolizione dell’oratorio, e non è quindi agevole; alcuni elementi rilevati da Tronzo – la silhouette dei personaggi, o la sfasatura in altezza delle due pareti – potrebbero essere, come vuole Van Dijk, frutto della redazione seicentesca. Ma nemmeno le affinità che la studiosa stabilisce con altre opere dell’VIII secolo (specialmente con i dipinti di Santa Maria Antiqua) convincono del tutto. Le scene della Disputa di Simon Mago, o della sua Caduta, potrebbero agevolmente datarsi al XII o al XIII secolo: gli abiti militari all’antica di Nerone o del soldato potrebbero confrontarsi con gli affreschi del XII secolo a Santa Maria in Cosmedin (si veda 52 SAN PIETRO IN VATICANO / ATLANTE I, 1
il Nabucodonosor: Croisier, in Corpus IV ¤ 40) come con gli affreschi del Sancta Sanctorum (il soldato della Crocifissione di san Pietro: ¤ 60); le scene dei martiri degli apostoli sono al Sancta Sanctorum (¤ 60), nel portico di San Pietro (¤ 59), ma anche in Sant’Andrea in Catabarbara (Waetzoldt 1964, 29-30). Il martirio di san Pietro doveva esistere anche nel ciclo petrino del transetto nella basilica vaticana, purtroppo perduto e non documentato (Weis 1963). L’elemento più affidabile ai fini di una datazione è forse quello delle architetture degli sfondi. Rispetto alle architetture complesse e a più piani della Crocifissione di san Pietro al Sancta Sanctorum quelle dei disegni sono più sommarie; le torri da cui cade Simon Mago nella seconda metà del XIII secolo sono slanciate strutture lignee (per esempio nel portico vaticano (¤ 59) o nel transetto della basilica di Assisi (Wollesen 1981, 44-46; Parlato 2001a; Romano 2001a) e non pesanti torri in pietra come queste dell’oratorio. Per questi motivi, ma anche per il modo in cui i personaggi occupano lo spazio, il ciclo di Pietro e Paolo potrebbe in effetti datarsi, come secondo Tronzo, agli ultimi anni del XII o ai primi decenni del XIII secolo. Impossibile dire se si sia trattato di un intervento ex novo o di un restauro di qualcosa già esistente. Il duplice modo di inserire le iscrizioni – nei bordi delle scene, o all’interno di esse – non è argomento dirimente, perché esiste anche, ad esempio, nelle Storie di san Lorenzo del portico di San Lorenzo fuori le mura (Romano 1992, 9-29). I pontificati di Celestino III (1191-1198) o di Innocenzo III (11981216) sono a questo punto le possibilità più verosimili. Ambedue i papi portarono grande attenzione all’oratorio e alla Veronica: Celestino le offrì un nuovo ciborio, Innocenzo – che si concentrò sulla basilica in modo quasi esclusivo – nel 1208 istituì una nuova e importante processione per la Veronica, che ne promosse il culto (Wolf 2000, 104). Secondo Paola Pogliani, Innocenzo potrebbe aver fatto restaurare l’oratorio proprio in previsione
del nuovo accendersi dell’interesse intorno all’icona (Pogliani 2001, 520-521). E attorno all’anno 1200, toccare un ciclo di Pietro e Paolo era comunque un atto estremamente significativo. La figura di Pietro, il primo papa, era la base della rivendicazione del primato della Chiesa, e in particolare di quella romana: le dimensioni del suo personaggio nelle Prediche erano certo uno stratagemma per metterlo in ancor maggior rilievo. Pietro non è in realtà più alto degli altri personaggi, ma poiché questi sono inginocchiati, è chiaro che tutta la composizione era pensata per dare evidenza a lui, in piedi, frontale, dominante rispetto a tutte le altre figure. L’iterazione dell’attributo delle chiavi e del gesto della benedizione, pur in scene narrative, tende anche di certo ad una ‘iconicizzazione’ del santo. Mentre le scene del martirio degli apostoli sono attestate nelle fonti testuali (Lipsius-Bonnet 1891), la rappresentazione delle Prediche a Gerusalemme, Antiochia e Roma è invenzione iconografica non basata su alcuna fonte testuale specifica (Carr 1978, 146; Van Dijk 1995, 87). È in realtà un unicum; il tema della predicazione di Pietro appare altrove (nell’abside nord di Müstair, nel pannello di Sant’Andrea in Catabarbara o nei mosaici di Monreale) ma sempre con i due apostoli associati. Secondo Pogliani (2001, 523), lo scopo può esser stato di suggerire che Pietro era all’origine di queste tre sedi apostoliche, e quindi di esprimere la volontà di unificare i cristiani d’Oriente e di Occidente sotto il solo potere pontificio romano, così come Innocenzo III aveva proclamato nel Concilio Lateranense del 1215 (Constitutiones 1215 [1981], 52, constitutio n. 5). Il cantiere dell’oratorio di Giovanni VII, probabilmente il primo dei vari che nel corso del secolo avrebbero rinnovato l’aspetto della basilica di San Pietro, avrebbe dunque avuto il compito di sottolineare e celebrare l’universalità del potere del papa.
Interventi conservativi e restauri
1602: demolizione dell’oratorio di Giovanni VII. Poco dopo il 1602: a seguito dello stacco, restauro del frammento con il san Pietro dalla Predica ai Romani, probabilmente prima che fosse esposto nelle Grotte vaticane, nella cappella di Santa Maria Praegnantium. Altri frammenti menzionati dal Torrigio in San Filippo Neri sono oggi scomparsi (Torrigio 1635, 121).
Giacomo Grimaldi, disegno (1612-1620), BAV, Barb. lat. 2732, f. 75v; Giacomo Grimaldi, disegno (1618), ACSP, H. 3, ff. 114v (ciclo apostolico), 122v-123r (cicli apostolico e mariano); Giovan Battista Ricci da Novara, affresco riportato su tela (1618-1619), conservato alle Grotte Vaticane, nella Cappella della Madonna della Bocciata (dalla descrizione di Grimaldi); Giacomo Grimaldi, disegno (1619-1620), BAV, Barb. lat. 2733, ff. 89r (ciclo apostolico), 94v-95r (cicli apostolico e mariano); Giacomo Grimaldi (1620), BNC, II-III 173, f. 100; Giacomo Grimaldi (1621), BAV, Vat. lat. 11988, f. 86; Giacomo Grimaldi (1621), BAM, A. 168 inf., ff. 93 (ciclo apostolico), 101 (cicli apostolico e mariano); Giacomo Grimaldi (1628), BAV, Vat. lat. 8404, ff. 113v-114r (cicli apostolico e mariano), f. 106 (ciclo apostolico); Giacomo Grimaldi (1630), ACSP, H. 3 bis, ff. 99 (ciclo apostolico, copia del f. 114v del ms. H. 3), 104v-105r (cicli apostolico e mariano, copia dei ff. 122v-123r del ms. H. 3); Giacomo Grimaldi (s.d.), BAV, Vat. lat. 6439, pp. 257 (ciclo apostolico), 269 (cicli apostolico e mariano); Dionisi 1773, tav. XVIII.3 (busto di san Pietro); Garrucci 1877, tav. 282 n. 1 (ciclo apostolico), n. 2 (busto di san Pietro); de Rossi 1899, tav. XX.1c (busto di san Pietro).
Fonti e descrizioni
Giacomo Grimaldi (1612-1620), BAV, Barb. lat. 2732, f. 75v; Giacomo Grimaldi (1618), ACSP, H. 3, ff. 22r-22v, 115r-115v; Giacomo Grimaldi (1619-1620), BAV, Barb. lat. 2733, ff. 89r, 94v-95r (insieme); ACSP, Album, A. 64 ter, f. 50r; Torrigio 1618, 78; Giacomo Grimaldi (1620), BNC, II-III 173; Giacomo Grimaldi (1621), BAV, Vat. lat. 11988, f. 85v; Giacomo Grimaldi (1628), BAV, Vat. lat. 8404; Giacomo Grimaldi (1621), BAM, A. 166; Torrigio 1635, 85; Furietti 1752, 79; Dionisi 1773, 42.
Bibliografia
Barbier de Montault 1866, 23; Casassayas 1867, 75; Mignanti 1867, 151; Garrucci 1877, 102-103; Müntz 1877, 148; Garrucci 1881, 582-583; Clausse 1893, II, 416-417; de Rossi 1899; de Grüneisen 1911b, tav. LXVIII; Wilpert 1916, I, 399-400; van Marle 1921, 51-52; van Marle 1923, 63; Van Berchem-Clouzot 1924, 209-210; Ladner 1941, 90; Schüller-Piroli 1950, 213-214; De Tóth 1955, 66; Weis 1963, 230, 233 nota 9, 242-246, 256; Waetzoldt 1964, 68-69; Nordhagen 1965, 141; Matthiae 1965 [1987], 104-105; Matthiae 1967, 215; Niggl 1971, 40; Glasberg 1974, 119; Wilpert-Schumacher 1976, 71, 332; Carr 1978, 146151; Eleen 1982, 9-10; Tronzo 1987, 489-491; Andaloro 1989b, 174; Kessler 1989a, 51; Tomei 1989b, 69-70; Van Dijk 1995, 1-26, 77-102, 172-191, 266-279; Kessler 1999, 269; Kessler-Zacharias 2000, 211-213; Monciatti 2000a, 885; Pogliani 2001; Romano 2001a, 120-127; Van Dijk 2001; Filippini 2003, 119-120; Pogliani, in Atlante I (¤ 1); Lanzani 2010, 257. Karina Queijo
SAN PIETRO IN VATICANO / ATLANTE I, 1 53
2. IL PERDUTO MEDAGLIONE PAPARONI NEL PAVIMENTO DI SANTA MARIA MAGGIORE Entro il 1201
Il pavimento medievale di Santa Maria Maggiore è stato completamente rifatto nel 1750, durante la grande campagna di lavori disposta da Benedetto XIV e diretta dal Fuga. In quel frangente scomparve anche il pannello che ornava il pavimento nella navata centrale, in prossimità dell’ingresso principale. Lo si conosce tramite alcuni disegni e incisioni, in particolare quella pubblicata dal Ciampini [1]. In un campo rettangolare bordato da una cornice a intrecci geometrici apparivano due cavalieri affiancati e diretti verso sinistra: Scoto e Giovanni Paparone, identificati da iscrizioni. Reggevano ognuno la spada (poco visibile), lo stendardo e lo scudo con le armi di famiglia, la papera e il serpente. La papera ornava anche la gualdrappa del cavallo di Scoto, mentre quella del cavallo di Giovanni aveva semplici frange all’altezza del collo. Alla sinistra del cavallo di Scoto un’iscrizione ricordava restauri cinquecenteschi al pavimento, e una seconda iscrizione più in basso ne ricordava altri fatti eseguire da membri della famiglia nel 1625 (Int. cons.). L’acquerello barberiniano e la descrizione del Mellini indicano che il mosaico aveva tessere nere, bianche e rosse, come quello di San Lorenzo fuori le mura (¤ 39).
Iscrizioni
Due iscrizioni identificative, già disposte all’interno dell’area illustrata, accanto ai personaggi, prive di uno spazio grafico di corredo. Perdute. 1 - Scot/t/us | | Pa/pa/ro/ne Trascrizione da disegno, BAV, Barb. lat. 4333, f. 6r. Sc/ot/us | | Paparo/ne, Ciampini 1690, tav. XXXI, fig. 2; Iozzi 1904, disegno a fine volume. 2 - Ioh(anne)s / Papa/rone / fili(us) / ei(us) Trascrizione da disegno, BAV, Barb. lat. 4333, f. 6r. Iozzi 1904, disegno a fine volume. Fili ei per fili(us) ei(us), Ciampini 1690, tav. XXXI, fig. 2. (S. Ric.)
Note critiche
La partecipazione di Scoto Paparone alle spese per il pavimento di Santa Maria Maggiore era esplicitamente attestata dall’iscrizione distrutta nella stessa occasione in cui fu perso anche il pannello: «Virgo serena tibi Scotus pavimenta locavit / Filius atque parens Scotus Paparone Iohannis / Sanguine qui claro tam duris qui stetit annis / Consule quo trepidans Roma regente stetit / Rursus et absumpto facti consorte Iohanne / Prole sua Consul tuta dracone fuit / Immemor haud sumptae Scotus Paparone salutis / Tale pavimentum dat tibi Virgo parens» (Bianchini, ACMM, C. III; Tacconi-Gallucci 1911, 86). Il testo lodava la carriera politica di Scoto come console (1160), proseguita come senatore unico nel 1198, fino a quando Innocenzo III non gli chiede di abbandonare la funzione (Bartoloni 1946, 55-56; Savio 1999, III, 1358). I Paparoni erano una ricca e nobile famiglia romana, particolarmente legati a Santa Maria Maggiore di cui il fratello di Scoto, Rolando, era stato arciprete tra 1188 e 1193 (Ferri 1905, 456; Savio 1999, IV, 684-685); del resto, la famiglia possedeva numerose case di fronte alla basilica (Ferri 54 SANTA MARIA MAGGIORE / ATLANTE I, 27
1905, 453). Scoto visse dunque nella seconda metà del XII secolo. La maggior parte degli studi ha creduto che Scoto abbia finanziato l’insieme del pavimento della basilica al tempo dei grandi lavori ordinati da Eugenio III (de Angelis 1621; Nibby 1839 [1971]; Letarouilly 1868; Stevenson, in Mostra della città di Roma 1884, 185; Angeli 1904; Biasiotti 1911; Cecchelli s.d. [1956]; Buchowiecki 1967; Apollonj Ghetti 1988; FernándezAlonso 1988; De Blaauw 1994, I; O’Foghludha 1998). È tuttavia inverosimile che fra 1145 e 1153, gli anni di Eugenio III, Scoto potesse farsi rappresentare già accompagnato da un figlio adulto: se così fosse, egli avrebbe esercitato la carica di senatore, nel 1198, a un’età davvero vegliarda. È difficile quindi capire a quando datino precisamente i lavori finanziati da Scoto, e in cosa esattamente siano consistiti, se in un rifacimento integrale del pavimento, o in un rimaneggiamento parziale, come vuole Paolini Sperduti (1996, 120). Il solo elemento certo è che nel 1201 sia Scoto che suo figlio erano già morti: in quest’anno, Aldruda, la sua vedova, finanzia da sola dei lavori a San Biagio ai Monti, e ricorda il defunto marito e il figlio in un’iscrizione oggi conservata a Santa Maria del Buon Consiglio (Armellini-Cecchelli 1942, I, 191), che fornisce quindi il terminus ante quem per l’esecuzione del pannello musivo (Pace 1998, 177). Il fatto che nell’iscrizione dedicatoria non si faccia menzione di Rolando, che pure era arciprete della basilica fra 1188 e 1193 rende meno probabile una datazione del mosaico in quegli anni. Il pannello musivo dei Paparoni e quello – più tardo di una cinquantina d’anni – a San Lorenzo fuori le mura (¤ 39) sono gli unici esempi noti di pavimento cosmatesco romano a figure. Il mosaico dei Paparoni, benché fatto per una chiesa, non ha traccia di temi religiosi: il suo discorso ‘profano’ si adatta bene al luogo di destinazione, un pavimento. Committenza di esponenti dell’aristocrazia locale, è esempio precoce di una propaganda visuale laica a Roma. L’uso di motivi cavallereschi, più diffusi nei pavimenti dell’Italia settentrionale e della Francia (Barral i Altet 2010, 94-96), ricorda i sigilli e gli emblemi araldici cavallereschi; lo scopo è la rappresentazione del lignaggio familiare, e ciò spiega perché i cavalieri si dirigano verso sinistra (secondo le convenzioni araldiche) e non verso destra (secondo le convenzioni narrative). Si comprende quindi facilmente la moltiplicazione delle armi di famiglia nel pannello. I Paparoni, implicati nella politica cittadina, visualizzano il proprio desiderio di un’accresciuta visibilità tramite l’intervento in una delle più grandi basiliche romane.
Interventi conservativi e restauri
1512: primo restauro noto del pavimento (FELX / SAX / RESTA / MDXII: Ciampini 1690, tav. XXXI). 1675: secondo restauro, effettuato a spese di Fabrizio Guastaferri, discendente dei Paparoni (FABRITIVS . GVASTAFERRVS LAVRAE PAPARONE EX FILIA NEPOS REST. C / A. MDCLXXV: Ciampini 1690, tav. XXXI).
1
Fonti e descrizioni
Panvinio 1570 [it.], 303-304; Ugonio 1588, 67r; de Angelis 1621, 89; Mancini ante 1630 [1956-1957], 66; Benedetto Mellini (ante 1667), BAV, Vat. lat. 11905, f. 239v; Ciampini 1690, 82.
Bibliografia
Stevenson, in Mostra della Città di Roma 1884, 185; Iozzi 1904, 6-7; Frothingham 1908, 133-134; Biasiotti 1911, 17; Tacconi-
Gallucci 1911, 85-86; Armellini-Cecchelli 1942, I, 191; Cecchelli s.d. [1956], 245-246; Matthiae 1966a [1988], 147; Buchowiecki 1967, 240; CBCR 1971, III, 27; Martinelli 1975, 30; Glass 1980, 112; Guide rionali. Monti III 1982, 90; Apollonj Ghetti 1988, 15-18, 181; Fernández-Alonso 1988, 27; De Blaauw 1994, I, 358; Paolini Sperduti 1996, 119; O’Foghludha 1998, 196-197; Pace 1998, 177; Savio 1999, III, 1358; Savio 1999, IV, 684, 834; Mondini 2010b, 388-390; D’Achille c.s. Karina Queijo
Documentazione visiva
Disegno acquerellato (s.d. [XVII secolo?]), BAV, Barb. lat. 4333 f. 6r; de Angelis 1621, 56; incisione, in Ciampini 1690, tav. XXXI, fig. 2; disegno (s.d., da Ciampini), in Apollonj Ghetti 1988, 15; incisione di Gutensohn, Pianta della Basilica di Santa Maria Maggiore, detta Liberiana (1824), in Bunsen et al. 1872, tav. IX; disegno (s.d.), in Iozzi 1904. SANTA MARIA MAGGIORE / ATLANTE I, 27 55
3. GLI AFFRESCHI STACCATI DALL’ABSIDE DI SAN BASILIO AI PANTANI
Gli affreschi dell’abside della chiesa di San Basilio ai Pantani al Foro d’Augusto furono staccati nel 1926, poco prima che si procedesse all’eliminazione di quel che restava della chiesa e dell’annesso convento medievale. Erano venuti alla luce nel 1924, quando, nell’ambito degli interventi di liberazione della zona dei Fori Imperiali, si demolì la chiesa della Santissima Annunziata, costruita nel 1566 sui resti di quella di San Basilio [1]. Inglobata e nascosta dal coro quadrato del nuovo edificio, l’abside medievale riapparve al di sopra dell’altare maggiore dell’Annunziata nel momento in cui venne rimossa la volta cinquecentesca. L’altezza sorprendente alla quale si trovava – sei metri dalla quota della platea del tempio di Marte Ultore – si spiega ipotizzando un innalzamento avvenuto probabilmente tra il XII e il XIII secolo: è in questo periodo che, a causa del forte impaludamento della zona, si sostituì la costruzione originaria – posta a livello del tempio romano – con quella in questione, eretta su un riempimento che sfruttava anche strutture preesistenti antiche (Meneghini-Santangeli Valenzani 1996, 85-89, 96-97). Ciò dovette accadere a una data non troppo distante dall’arrivo dei cavalieri dell’ordine di San Giovanni Battista di Gerusalemme che, in un momento imprecisato, sostituirono i monaci basiliani, fondatori del complesso. Se, infatti, nel XII secolo il monastero basiliano appare in piena attività ed è annoverato tra i più importanti della città – nel 1119 l’abate Rainero partecipa all’elezione di papa Callisto II, nella seconda metà del XII secolo, il monastero è negli elenchi delle venti maggiori abbazie romane stilati da Giovanni Diacono e da Pietro Mallio (Valentini-Zucchetti 1946, III, 362, 439) – nel 1217 i Giovanniti hanno già preso possesso della dimora nel Foro: in una lettera scritta da Onorio III il 4 dicembre di quell’anno, sono citati i frati e il priore dell’ospedale gerosolimitano di San Basilio (Hagemann 1964, 240). I frammenti superstiti della decorazione dell’abside testimoniano due fasi pittoriche: la prima è l’Ascensione, staccata dalla conca absidale, la seconda è la Vergine col Bambino, il Battista, san Paolo e san Basilio (¤ 20), staccata dal cilindro. Irene Quadri
poco leggibile. I quattro apostoli superstiti del gruppo di sinistra [3] sono un po’ meno rovinati: hanno la mano destra levata e un rotulo nella sinistra; tre di loro guardano verso il Cristo, mentre il secondo da destra guarda all’indietro.
Note critiche
W. Angelelli (1998, 16), che ha dedicato uno studio approfondito alle pitture di San Basilio, ha già sottolineato l’estraneità dell’iconografia dell’Ascensione in un’abside romana. Altrove in Italia se ne conoscono esempi anche precoci – XI secolo – ad esempio a San Vito a Montecorvino Pugliano, o a San Pietro a Tuscania (Angelelli 1998, nota 47, nota 56). Lo stato di conservazione di quella di San Basilio rende difficile individuarne le fonti: se il Cristo era assiso – improbabile su un trono, vista l’assenza di suppedaneum, forse su un globo o sull’arco cosmico – era forse di tipo bizantino, se era stante, forse paleocristiano (Angelelli 1998, 15). Il tipo della Vergine orante, di origine in effetti paleocristiana, è costante nei contesti bizantini di XI e XII secolo (Santa Sophia a Kiev, Santa Maria Assunta a Torcello); bizantino è il gesto dell’angelo che volta la testa indietro e solleva il braccio indicando il Cristo [3], come nell’Ascensione dei Santi Anargyroi a Kastoria (Angelelli 1998, 19). La sola altra Ascensione absidale a Roma era quella di Santa Maria de Aventino, passata dai monaci cluniacensi ai Templari, e poi ai Giovanniti nel 1312: la decorazione della chiesa essendo già distrutta nel XVIII secolo, non è possibile capire se tra le due absidi esistesse qualche legame, né quali soggetti decorassero il cilindro di San Basilio prima della nuova fase pittorica del 123040 (Angelelli 1998, 16). Stile e tecnica dei frammenti dell’Ascensione – figure slanciate, gestualità animata, rialzi luminosi – si differenziano chiaramente da quelli della fase pittorica successiva. Ai confronti di ambito bizantino proposti da Angelelli e ripresi da Iacobini (2004, 38) – San Demetrio a Vladimir, San Nicola Kasnitsi a Kastoria e San Giorgio a Kurbinovo, molto pertinenti specie per le silhouettes
L’ASCENSIONE 1200 ca. I frammenti superstiti dell’Ascensione che decorava la conca absidale sono stati montati su sei pannelli nel 1976-1978. Due sono frammenti della figura del Cristo: in uno, il volto barbuto, la parte superiore della veste rossa e il braccio destro teso [5], nell’altro il bordo della veste e i piedi, sul fondo di una mandorla azzurra su fondo verde. Un terzo pannello conserva piccole parti illeggibili di pittura, una cornice decorativa e un pezzo dell’ala di un angelo che doveva probabilmente reggere la mandorla del Cristo. Angelelli (1998, 9) vi vede anche la sagoma di un albero. I frammenti rimontati sugli altri tre pannelli vengono dalla fascia sottostante. Nel primo una Vergine in piedi, frontale, in posizione d’orante; a sinistra un angelo tende la mano verso il punto dove era situato il Cristo e volge la testa in direzione opposta; i resti dell’ala di un altro angelo a destra della Vergine [4]. Le foto anteriori allo stacco documentano questo gruppo al centro del registro: ai lati c’era la serie degli apostoli, di cui il gruppo di destra – riposizionato sul secondo pannello – era abbastanza conservato nel 1924-1925 (Doc. vis.) e ha molto sofferto per lo stacco, risultando oggi ben 56 SAN BASILIO AI PANTANI / ATLANTE II, 44
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4. L’AFFRESCO CON LA VERGINE, IL BAMBINO E SANTI IN SAN BARTOLOMEO ALL’ISOLA 1201-1204 (?)
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delle figure – e a quelli con i dipinti di Santa Maria Maggiore a Ninfa ora a Sermoneta, Castello Caetani (Angelelli 1998, 18), si possono aggiungere almeno in parte quelli con gli affreschi del cosiddetto oratorio di Onorio III (¤ 15), dove il gioco dei bianchi si fa ancora più aulico e raffinato, o – per risalire un po’ più indietro – con i panneggi rigonfi e luminosi di certe pitture di San Giovanni a Porta Latina (Viscontini, in Corpus IV ¤ 61). ll frammento del volto del Cristo appare ripassato [5] – così come il braccio del terzo apostolo da sinistra [3] – ma Angelelli (1998, 17) rileva anche affinità con i sistemi fisionomici delle icone laziali del Salvatore. Per Angelelli e Iacobini il pittore era di formazione bizantina; non sembra però da escludere anche la possibilità di un maestro formatosi localmente, nella tradizione che segue a San Giovanni a Porta Latina, ma familiare a iconografie e modelli orientali, sui quali può aver lavorato. La datazione di Angelelli al pontificato di Innocenzo III è perfettamente plausibile: il cantiere di San Basilio ai Pantani può dunque esser stato contemporaneo o di poco successivo all’altro grande cantiere basiliano del tournant de siècle, quello musivo di Grottaferrata (1191-1204 ca.).
Iscrizioni
1976-1978: campagna di restauro condotta da Rossano Pizzinelli che comportò la rimozione delle ridipinture e delle stuccature alterate e la sostituzione dei telai di legno e gesso, con pannelli di poliuretano espanso (Angelelli 1998, 9, 25 nota 2).
1 - Iscrizione identificativa, disposta ai lati del capo della Vergine, priva di uno spazio grafico di corredo, allineata su una linea orizzontale secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere bianche su fondo blu. Lacunosa.
Documentazione visiva
M(»th)r | | [Qeoà]
Fotografie (1924-1926), AFC xd 8196, 8199; fotografie (dopo 1926), ICCD (Roma: Foro di Augusto) N 78478, 78479, 78480, 78481, 78482, 78483, 78484, 78485.
(S. Ric.)
Bibliografia
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Note critiche
Ricci 1930, 177-178; Ricci et al. 1933, 113; Zucchi 1940, 36; Fiorini s.d. [1951], 41; Montini 1955b, 332; Pecchioli-Pietrangeli 1981, 26; Parlato-Romano 1992 [2001], 156; Angelelli 1998, 9-21; Claussen 2002, 169; Curzi 2003, 214-216; Iacobini 2004, 36-38. Karina Queijo
Interventi conservativi e restauri
Dicembre 1924: riscoperta dei dipinti murali in occasione dei lavori di demolizione della chiesa e del convento della Santissima Annunziata (Ricci 1930, 178; Angelelli 1998, 9). 1925: i dipinti vengono protetti con una larga tettoia (Angelelli 1998, 14). Ottobre 1926: le pitture vengono staccate e spianate, poi montate su telai di legno dal prof. Tito Venturini Papari. Durante il mese di novembre si finisce di demolire i resti dell’edificio (Angelelli 1998, 14) e gli affreschi staccati vengono deposti nella Sala bizantina della Casa dei Cavalieri di Rodi (Parlato-Romano 1992 [2001], 156).
L’affresco con la Vergine e il Bambino e Santi nell’abside della cappella della Madonna in San Bartolomeo all’Isola [1] è stato scoperto all’inizio del secolo scorso (Muñoz 1905) e liberato dalle pesanti ridipinture moderne durante i restauri del 1975-76 (Int. cons.). Le grandi figure della Vergine e il Bambino dai nimbi dorati – quello del Bambino è crucisegnato – si stagliano su sfondo blu. La Madonna Odighitria è seduta su un trono senza dossale con veste rossa e maphorion blu; il Bambino, invece, ha tunica azzurra e mantello ocra, alza la mano destra in atto benedicente mentre con la sinistra stringe un rotulo. Ai piedi della Vergine, ai lati del trono, sono rappresentate, in dimensioni molto ridotte rispetto a quelle della Madonna e del Bambino, due coppie di personaggi. A destra, in primo piano, una figura femminile aureolata con un abito azzurro e una stola arancio fa un gesto d’intercessione verso la Vergine e il Bambino; dietro di lei vi è un uomo con barba e capelli scuri con tunica rossa e cappa marrone [3]. A sinistra, invece, il santo in primo piano ha barba e capelli grigi, veste azzurra e manto arancio; compie lo stesso gesto della santa che gli fa da pendant [2]. Il personaggio alle sue spalle – figura maschile con barba e capelli grigi – s’intravede appena sia per le estese lacune della superficie pittorica che per la cornice in stucco seicentesca che lo nasconde parzialmente.
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L’immagine della Vergine col Bambino è fortemente iconica, come già riconosciuto da Gandolfo (1988, 302): così si potrebbe spiegare la forte differenza di proporzioni tra il gruppo centrale con la Vergine e il Bambino e quello dei santi ai loro piedi, l’impiego dell’oro non solo nei nimbi della Vergine e il Bambino, ma anche nella veste di quest’ultimo – piuttosto raro nella pittura monumentale – e la presenza del monogramma greco MP a destra di Maria (Iscr.; Iacobini 1991, 258). L’ipotesi d’identificazione dei santi ai lati della Madonna con santa Teodora, Abbondio, Abbondanzio e Marciano (Iacobini 1991, 258, nota 39) è persuasiva: le reliquie di santa Teodora, infatti, erano probabilmente proprio custodite nell’altare della cappella della Vergine (Casimiro da Roma 1744 [1845], 392-393; Cecchelli 1951b, 39), ed è possibile quindi immaginare che anche quelle dei tre martiri romani, le cui vicende sono appunto legate alla figura di Teodora, fossero custodite nello stesso luogo. L’affresco della cappella della Madonna metterebbe dunque in scena martiri le cui reliquie sono strettamente connesse alla storia della fondazione della basilica da parte di Ottone III; anche in questo caso, la scelta di dotare la basilica di San Bartolomeo di reliquie di santi appartenenti a lignaggi aristocratici ed estranei alla tradizione agiografica più specificatamente romana, sembra rientrare in quella politica di renovatio imperiale perseguita dal sovrano
ottoniano e già messa in evidenza dal Gandolfo in relazione al culto di sant’Adalberto (Gandolfo 2007a), nelle discussioni sul mosaico di facciata (Piazza, in Corpus IV ¤ 28) e sulla vera da pozzo (Claussen 2002, 132-134, 152-162). L’affresco con la Vergine e il Bambino è forse da mettere in relazione con l’iscrizione – oggi scomparsa – nella quale è menzionato Cencio, cancellario della città: «Cencius excelse tibi cancellarius urbis – se pia commendat gesse clarissima Virgo – qui benedictorum fuit ortus stemmate... huic peccatorum veniam da... Cencius atque bona genitor genitii...inspiciens...mino cum dictis» (Casimiro da Roma 1744 [1845], 427); infatti, se Mabillon riferisce che l’epigrafe si trovava in uno degli ambienti del convento (Mabillon 1869, 166), Casimiro la menziona in relazione al muro sud della cappella della Madonna, ovvero sulla parete adiacente all’affresco che qui si studia (Casimiro da Roma 1744 [1845], 427). La lettura dell’epigrafe non è semplice, ma se ne potrebbe dedurre che Cencio compaia insieme a sua moglie Bona; in ogni caso, il Cencio in questione non è da identificarsi con il celebre Cencio – camerario papale tra il 1194 e il 1198 e più tardi papa con il nome di Onorio III (Claussen 2002, 139, nota 30) – ma piuttosto con quel Cencio «Cancell Urbis» già conosciuto per la sua attività di donatore nella chiesa di Santa SAN BARTOLOMEO ALL’ISOLA 59
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Marina ad Ardea, dove pare aver commissionato la costruzione del portale, come testimonia l’epigrafe ancora visibile sull’architrave (Cecchelli 1951b, 75; Parlato-Romano 1992 [2001], 267). Molto probabilmente si tratta dello stesso Cencio – appartenente alla famiglia Cenci che aveva la sua dimora nella zona di Monte Cenci, poco distante dall’Isola Tiberina – che è attestato come cancelliere comunale nei documenti relativi al Senato Romano tra il 1201 e il 1204 (Bartoloni 1946, 2-6; Id. 1948, 92-94; Cecchelli 1951b, 75). La cronologia suggerita dall’iscrizione ben si accorda con le peculiarità stilistico-formali che caratterizzano le pitture: esse, infatti, si inseriscono a pieno titolo nel panorama artistico cittadino che si sviluppa tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo, quando il linguaggio bizantino dei mosaici di Monreale penetra e si diffonde a Roma. A Monreale rimanda la maniera di rendere il panneggio delle vesti dei personaggi – rilevabile soprattutto negli abiti del Bambino, nel maphorion della Vergine e nella tunica del santo in secondo piano a destra della Madonna – tramite una fitta trama di pieghe che spezzano la superficie, increspandola a diverse profondità, e vanno a formare orli mossi e frastagliati, come quello della tunica del Bambino [1, 4]. Anche il drappeggio così stranamente semplificato del manto dei due santi in primo piano [2, 3] si ritrova spesso nelle vesti dei personaggi dei mosaici siciliani, dove la serie di profonde pieghe a V si articola soprattutto sul petto e sulla parte finale delle gambe. La vicinanza tra l’affresco romano e i mosaici siciliani è avvertibile anche nella resa fisionomica dei volti, come dimostra il confronto tra la Vergine di San Bartolomeo [4] e quella dell’Annunciazione nel pennacchio destro dell’arco absidale di Monreale o quella con il Bambino nella lunetta sopra l’ingresso della parete ovest della navata: sia per i lineamenti del viso – grandi occhi a mandorla 60 SAN BARTOLOMEO ALL’ISOLA
segnati inferiormente da vistose occhiaie e incorniciati da ampie sopracciglia, e nasi lunghi e stretti leggermente aquilini – che per la maniera di rendere l’incarnato, illuminato negli stessi punti. L’assegnazione dell’affresco a un periodo tra il 1201 e il 1204 porrebbe un nuovo e importante tassello nella storia della pittura romana dei primi anni del secolo: maestranze di orbita monrealese sarebbero così attestate nella regione romana prima dell’inizio del cantiere del mosaico absidale di San Pietro – verosimilmente collocato intorno al 1205 – al quale tradizionalmente si lega l’arrivo degli artisti siciliani a Roma. D’altronde, se per l’esecuzione del mosaico con la Pentecoste della badia criptense si accetta una datazione che si aggira attorno al 1204, mosaicisti siciliani erano già attivi nell’abbazia di Grottaferrata a un’epoca di poco precedente quella dell’inaugurazione dell’impresa vaticana (Andaloro 1983, 269; Monciatti 1997, 513-514; successiva per Pace 1987, 62-64). L’appiglio cronologico fornito dall’iscrizione renderebbe così insostenibile l’ipotesi che colloca l’esecuzione degli affreschi della basilica tiberina al pontificato di Onorio III. In particolare, convince poco il paragone tra le figure della Vergine e del Bambino di San Bartolomeo e i due angeli accanto al trono vuoto dell’Etimasia nel fascione del mosaico absidale di San Paolo fuori le mura (Iacobini 1991, 258; Monciatti 1997, 517), in cui la concitazione lineare tipica dei panneggi siciliani si è cristallizzata in un insieme di forme schematiche, smorzando l’effetto dinamico, ancora così vivo nelle vesti dei protagonisti delle pitture del San Bartolomeo. Nell’affresco, poi, è completamente assente quella connotazione monumentale dei personaggi che invece è uno dei dati dominanti del linguaggio artistico di stampo veneziano che si inaugura nel mosaico di San Paolo. Se è vero che spesso le opere dei primi decenni del XIII secolo sono state forse troppo schematicamente analizzate
e ricondotte all’antinomia Monreale/Venezia, gli affreschi di San Bartolomeo non paiono ancora appartenere a quella fase della pittura romana che prende avvio nel cantiere musivo di San Paolo, in cui la commistione di caratteri derivanti da culture artistiche diverse – siciliana da una parte, veneziana dall’altra – condizionerà la produzione pittorica della regione fino almeno alla metà del secolo (Gandolfo 1988, 286-290; Iacobini 1991, 257).
Interventi conservativi
1910: restauri effettuati da Tito Venturini-Papari sotto la direzione di Antonio Muñoz. Le pitture sono state pulite – in alcune piccole parti è stata rimossa la tintura a olio applicata – e si è consolidato l’intonaco. Le lacune sono state riempite con stucco e tinteggiate. (ACS, AA.BB.AA., Div. I, 1908-1924, b. 122, fasc. 2848: chiesa di San Bartolomeo all’Isola – affreschi).
1975-1976: restauri effettuati dal Genio Civile.
Fonti e descrizioni
ACS, AA.BB.AA., Div. I, 1908-1924, b. 122, fasc. 2848: chiesa di San Bartolomeo all’Isola (affreschi).
Bibliografia
Muñoz 1905, 60-62; Cecchelli 1951b, 75; Matthiae 1966a [1988], 143; Buchowiecki 1967, 444; Scarfone 1976, 77; Sisti 1978, 10; Macchiarella 1981, 83; Bertelli 1987, 603, tavv. 501-505; Marques 1987, 98-99; Gandolfo 1988, 302-303; Iacobini 1991, 258; ParlatoRomano 1992 [2001], 142; Monciatti 1997, 517; Richiello 2001, 94; Claussen 2002, 143, nota 50; Pupillo 2003, 50. Irene Quadri
SAN BARTOLOMEO ALL’ISOLA 61
5. IL MOSAICO ABSIDALE DI SAN PIETRO IN VATICANO
5a - A(gioj) / P/a/à/l/o/j
1205-1209/12
5b - S(an)c(tu)s / Pa/u/l/u/s
Della decorazione medievale della basilica vaticana non resta che qualche frammento, sopravvissuto alla totale demolizione cinqueseicentesca. Tre di questi provengono dal mosaico absidale, distrutto nel 1592: si tratta del busto di papa Innocenzo III, di un medaglione con una fenice (MPB, inv. 5650 e 5652) [2, 6], e della Ecclesia romana (MB, inv. 209) [3]. Il disegno del mosaico absidale è noto da un gran numero di testimonianze letterarie e grafiche, ma di essi solo alcune possono considerarsi fonti veramente affidabili in quanto realizzate prima della distruzione dell’abside: la descrizione di Tiberio Alfarano; i disegni di Ciacconio (BAV, Vat. lat. 5407 e forse 5408 [4, 5]); l’acquerello del f. 50r dell’Album dell’Archivio Capitolare (ACSP, A. 64 ter) [1], con la descrizione di Quintiliano Gargario (Ballardini 2004). Tutti gli altri documenti non sono che interpretazioni o copie di questi: sarà dunque su questo gruppo di fonti primarie che si fonderà il nostro discorso. L’attuale f. 50r dell’Album è un documento di natura notarile, realizzato nell’agosto del 1592 al fine dichiarato di documentare, con disegno e con testo scritto, il mosaico absidale della vecchia basilica vaticana prima della sua demolizione. L’acquerello rappresenta l’insieme del catino absidale, apparentemente in buono stato e senza zone particolarmente danneggiate. Al centro c’è il Cristo in trono, con tunica rossa e manto bianco, un libro nella mano sinistra e la destra benedicente. A sinistra – alla destra del Cristo – una figura stante, san Paolo, identificato da una doppia iscrizione in greco e in latino (Iscr. 5), in veste verde e manto chiaro; con la destra accenna al Cristo, mentre nella sinistra ha un cartiglio. Dall’altra parte, simmetrico, appare san Pietro, anch’egli accompagnato dalla doppia iscrizione (Iscr. 3), in veste bianca e manto azzurro, con il cartiglio nella mano sinistra. I tre personaggi sono rappresentati in un paesaggio paradisiaco: la scena è inquadrata fra due palme, e sul terreno verdeggiante appaiono piccoli personaggi; sotto i piedi del Cristo c’è la fonte dei quattro Fiumi paradisiaci, cui si abbeverano due cervi. Al sommo del catino, una camera fulgens con la mano di Dio. Le stelle sullo sfondo sono il frutto di un restauro cinquecentesco (Int. cons.). Nel registro inferiore, due cortei di sei agnelli escono dalle città di Gerusalemme (a sinistra) e Betlemme (a destra) e si dirigono verso il centro, dove sul monticello appare l’Agnello con il nimbo crucigero, con il sangue che sgorga dalla ferita e si versa in un calice. Più indietro si vede un trono vuoto, con schienale e con la Croce posata sul cuscino. A sinistra, la figura stante di Innocenzo III, con l’iscrizione che lo designa (Iscr. 8): se ne è conservato il busto [2], ma la figura intera è documentata anche dal disegno di Ciacconio (BAV, Vat. lat. 5407, p. 112) [4]. Il pontefice è rivolto verso destra e tende le mani verso l’Agnello; indossa la tiara e un pallio bianco a croci nere, nonché una pianeta rossa bordata d’oro, su una veste bianca; il disegno documenta con chiarezza che il papa aveva i baffi. Dall’altra parte dell’Agnello, la figura dell’Ecclesia romana, con la relativa iscrizione (Iscr. 9): il busto è conservato [3], e Ciacconio (BAV, Vat. lat. 5407, p. 103) ugualmente documenta la figura intera, a piedi nudi, con il vessillo con le due chiavi [5]. Ha i capelli sciolti, è coronata, vestita di verde con una cappa azzurra, di cui nel disegno si vede perfino la fibula. Dietro i cortei degli agnelli la composizione è ritmata da due serie di cinque alberi: i due più centrali contengono un medaglione con la figura di un uccello, e quello vicino a Innocenzo, la Fenice, è il frammento ancora conservato, rivolto verso destra e con un’aureola contornata da fiammelle [6]. L’abside è inquadrata da una fascia azzurra decorata da tralci uscenti da due vasi; sulla fascia in basso, un’iscrizione (Iscr. 10). 62 SAN PIETRO IN VATICANO / ATLANTE I, 1
6 - Iscrizione esegetica, già disposta all’interno dell’area illustrata, nel rotulo tenuto da san Paolo, allineata su cinque righe. Inchiostro dorato su fondo bianco. Scrittura minuscola corsiva.
Mihi / vive/re Chr(istu)s / est Mihi / vivere / Chr(istu)s est, BAV, Barb. lat. 2733, ff. 158v-159r (Grimaldi 1619 [1972], 196-197: 197). 7 - Iscrizioni identificative, già disposte sotto ai quattro fiumi, inchiostro chiaro su fondo bianco. Scrittura minuscola corsiva: Gion; Thison; Tigris; Euphrates. 8 - Iscrizione identificativa, disposta all’interno dell’area illustrata, tra la figura del papa e il trono, allineata su quattro righe.
Inno/cen/tius / p<a>p<a> III Papa / III, BAV, Barb. lat. 2733, ff. 158v-159r (Grimaldi 1619 [1972], 196-197: 197). 1
Iscrizioni
L’edizione delle iscrizioni, tutte perdute, è stata eseguita sull’acquerello notariale del 1592, ACSP, A. 64 ter (Album), f. 50r [1]. 1 - Iscrizione identificativa, già disposta all’interno dell’area illustrata, ai lati del capo di Cristo.
I(hsoà)j | | C(ristÒ)j
9 - Iscrizione identificativa, disposta all’interno dell’area illustrata, tra la figura della Chiesa e il trono, allineata su quattro righe orizzontali.
Ec| |le/si| |a ro| |ma/n| |a Eclesia / romana, a destra della figura, BAV, Barb. lat. 2733, ff. 158v-159r (Grimaldi 1619 [1972], 196-197: 197). 10 - Iscrizione esegetica disposta alla base della calotta absidale, in una fascia rettangolare, allineata su due righe orizzontali. Lettere bianche su fondo blu. Scrittura capitale.
2 - Iscrizione esegetica, già disposta nel libro sorretto da Cristo. Non presente nell’acquerello notariale.
Summa Petri sedes est hec sacra principis a^edes mater cunctar(um) decor et decus ecclesiar(um) [[in isto]] / devotus Chr(ist)o qui tenplo servit in isto flores virtutis capiet fructusq(ue) salutis
Ego / sum / via // ve/rit/as et / vita
Haec per hec, templo per tenplo, BAV, Barb. lat. 2733, f. 157v (Grimaldi 1619 [1972], 195).
Trascrizione dal disegno, BAV, Barb. lat. 2733, ff. 158v-159r (Grimaldi 1619 [1972], 196-197: 197).
11 - Iscrizione identificativa, già nel tamburo absidale, a destra accanto alla figura architettonica, allineata su tre righe: Be/tl/eem.
3 - Iscrizioni identificative, già disposte all’interno dell’area illustrata, sul lato destro dell’abside, a destra (in greco) e a sinistra (in latino) di san Pietro.
Beth/leem, BAV, Barb. lat. 2733, ff. 158v-159r (Grimaldi 1619 [1972], 195-196) | Betalem, BAV, Vat. lat. 5408, ff. 29v-30r.
3a - A(gioj) / P/™/t/r/o/j
12 - Iscrizione identificativa, già nel tamburo absidale, a sinistra accanto alla figura architettonica, allineata su tre righe: Hie/rusa/ lem.
3b - S(an)c(tu)s / Pe/t/r/u/s 4 - Iscrizione esegetica, già disposta all’interno dell’area illustrata, nel rotulo tenuto da san Pietro, allineata su sette righe. Inchiostro nero su fondo bianco. Scrittura capitale.
Tu es / Chr(istu)s / fili/us / Dei / viv/i Tu / e(s) / Chr(istu)s / fili/us / Dei / vivi, BAV, Barb. lat. 2733, ff. 158v-159r (Grimaldi 1619 [1972], 196-197: 197). 5 - Iscrizioni identificative, già disposte all’interno dell’area illustrata, sul lato sinistro dell’abside, a sinistra (in greco) e a destra (in latino) di san Paolo.
Hieru/salem, BAV, Barb. lat. 2733, ff. 158v-159r (Grimaldi 1619 [1972], 195-196). (S. Ric.)
Note critiche
La presenza di Innocenzo III nel programma iconografico dell’abside di San Pietro dice chiaramente che fu questo papa il committente del mosaico duecentesco. I Gesta Innocentii III (PL CCXIV, c. 205) testimoniano però che Innocenzo si era limitato a restaurare il mosaico precedente, che si sa esser già stato restaurato nel 640 sotto il papa Severino (LP I, 326). Lo schema
compositivo di questo mosaico più antico, presumibilmente in origine paleocristiano, era stato il modello per tutta una serie di opere, in particolar modo il cofanetto-reliquiario di Pola (V secolo, Venezia, Museo archeologico) (Buddensieg 1959; Moretti, in Corpus I ¤ 2a). I primi a proporre che il mosaico duecentesco fosse la copia dell’originale paleocristiano distrutto, addizionato della figura di Innocenzo certamente duecentesca, furono i bollandisti (AASS, Iunii, VII, 134). Il confronto tra l’acquerello dell’Album e le ‘copie’ dell’abside pre-innocenziana consente di mettere in evidenza altri elementi significativi: le ‘copie’ paleocristiane della prima abside di San Pietro attestano tutte una Traditio Legis e non una Maiestas, che era invece al centro dell’abside duecentesca. Che in epoca paleocristiana nell’abside vaticana ci fosse una Traditio Legis rimane certo un’ipotesi, ancorché supportata dai molti oggetti che ne mantengono la traccia; ma l’ipotesi è convincente, anche perché l’iconografia della Maiestas si diffonde solo a partire dall’età romanica, mentre quella della Traditio Legis ha la sua massima fortuna appunto in epoca paleocristiana (Buddensieg 1959, 164; Matthiae 1966a [1988], 118). Nell’abside innocenziana la posizione di san Paolo – identica a quella del santo nel cofanetto di Pola – fu probabilmente ripresa dal mosaico paleocristiano; mentre la figura di san Pietro sembra aver subito modifiche – il corpo è stato raddrizzato, la mano è vuota e tesa verso il Cristo – che si spiegano facilmente, visto che Pietro non doveva più ricevere il rotulo con la Legge dalle mani del Cristo (Buddensieg 1959, 166). L’Ecclesia romana, nel registro inferiore, non appare mai nelle ‘copie’ pre-innocenziane dell’abside; la corona, il vessillo con le due chiavi pontificie (di cui è questa la prima apparizione: Erdmann 1931; Paravicini Bagliani 1998 [2005], 20, 45), sono elementi inesistenti nelle Ecclesiae paleocristiane, ad esempio quella di Santa Pudenziana (Andaloro, in Corpus I ¤ 8) o di Santa Sabina (Leardi, in Corpus I ¤ 40a) e fanno pensare che questa figura sia stata ideata ex-novo per il mosaico di Innocenzo. Gli altri elementi di questo registro – l’Agnello insanguinato, l’Etimasia, gli agnelli uscenti dalle Città – esistono anche ben prima del XIII secolo e sono anzi testimoniati anche nel cofanetto di Pola: il che toglie credibilità alle ipotesi che interpretano l’Agnus Dei quale allusione alle riflessioni di Innocenzo sulla questione dell’Eucaristia (De sacro altaris mysterio libri sex, in PL CCXVII, cc. 763-920) (Pace 2003, 1233). Altri elementi ancora, le grandi palme del catino superiore, le scene campestri ai piedi degli apostoli, i due cervi che si abbeverano alla sorgente dei quattro Fiumi, sono perfettamente coerenti con un’origine paleocristiana, e fanno pensare che in effetti il mosaico dell’abside innocenziana sia stato molto fedele verso i motivi tradizionali che dovevano essere presenti nella redazione più antica. Molto più difficile è capire se questi motivi di tipo paleocristiano fossero vere e proprie parti del mosaico più antico, conservate e reinseriti nel nuovo (Müntz 1882, 143), o se invece fossero il frutto della trascrizione duecentesca, come spesso era accaduto in opere del renouveau paléochrétien e anche in altre opere primo duecentesche, quindi contemporanee all’abside vaticana (Margiotta 1988, 24; oratorio di San Silvestro a San Martino ai Monti ¤ 16). Dei frammenti conservati dell’abside innocenziana, quello con il busto di san Paolo (oggi nelle Grotte Vaticane, Cappella della Bocciata) era apparso stilisticamente ‘paleocristiano’, a differenza di quello con il busto di Innocenzo o dell’Ecclesia; ma gli studi di Iacobini (1989, 121) e Ballardini (2009) hanno appurato trattarsi di una copia, verosimilmente primo seicentesca, del san Paolo medievale perduto – il busto attuale è in effetti troppo piccolo per aver fatto parte dell’abside. La fenice, come motivo iconografico, avrebbe anche potuto far parte dell’abside antica, ma la stilizzazione del corpo non è compatibile con una datazione così alta. In realtà i frammenti conservati sono tra loro stilisticamente coerenti, e sono tutti pertinenti – con l’eccezione del san Paolo – al testo duecentesco. Ladner ha potuto circoscrivere la datazione SAN PIETRO IN VATICANO / ATLANTE I, 1 63
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agli anni 1205-1209/12, durante i quali il papa aveva i baffi, così come sono rappresentati nel mosaico (Ladner 1970, 65-66). La data vale ovviamente solo per la parte bassa, da dove provengono tutti i frammenti, e anche le considerazioni sullo stile toccano solo questa fascia del mosaico. Esso è stato legato all’attività dei mosaicisti veneziani a San Paolo fuori le mura (e addirittura al Giudizio Universale di Torcello): infatti, nella lettera del 1218, in cui Onorio III chiede al doge ulteriori artefici per il mosaico di San Paolo (¤ 8), si comprende che a Roma c’erano già altri mosaicisti veneziani. Alcuni studiosi hanno quindi pensato che questi artefici fossero stati attivi al mosaico absidale di San Pietro (Arslan 1926-1927, 762; Toesca 1927 [1965], 1000-1001; Bettini 1966; Oakeshott 1967, 256). Invece Matthiae (1966a [1988], 118; Id., 1967), nella stessa linea di pensiero di van Marle (1921, 194-195), considera romano lo stile dei frammenti, e sottolinea le somiglianze con il fregio musivo del portico di Santa Cecilia in Trastevere (Dos Santos, in Corpus IV ¤ 34), con il mosaico di Santa Maria in Trastevere (Croisier, in Corpus IV ¤ 55), e anche con gli affreschi di San Giovanni a Porta Latina (Viscontini, in Corpus IV ¤ 61). Una diversa possibilità è stata quella indicata da Demus (1949 [1988]) che rileva come lo stile dei mosaici non abbia nulla di veneziano, e li lega piuttosto ai mosaici di Monreale. Questa direzione sembra ormai la più verosimile: l’anello mancante 64 SAN PIETRO IN VATICANO / ATLANTE I, 1
fra San Pietro e Monreale potrebbe essere quello dei mosaici di Grottaferrata – tuttavia non databili con certezza – affini a quelli vaticani in importanti dettagli, come si vede dal confronto tra il volto di Tommaso a Grottaferrata e quello di Innocenzo III, per la forma ovale del viso, gli occhi sgranati, il naso un po’ gobbo, gli zigomi rossi, gli angoli della bocca cascanti (Pace 1986b, 453; Iacobini 1989; Pace 2000; Iacobini 2004, 41). I frammenti vaticani sono però più rigidi e con tratti fisionomici più stilizzati rispetto a quelli di Monreale o Grottaferrata, ma l’uso di tessere più piccole per i volti di Innocenzo e dell’Ecclesia [2, 3] indica che a questa parte del mosaico fu dedicata molta cura, forse perché si trattava della fascia più bassa, dunque la più vicina agli occhi degli osservatori – tra cui lo stesso Innocenzo. Gli elementi del programma iconografico dell’abside vaticana sono molto rivelatori della concezione che il papa aveva della Chiesa: le innovazioni si inserivano nel programma tradizionale come se ne avessero fatto parte fin dall’origine, e anzi acquistandone autorità. Il potere della Chiesa, e in special modo quello del papa, è messo in straordinaria evidenza dalla struttura della composizione. Il papa è posto al centro dell’abside, mentre tutti i pontefici donatori e committenti dei secoli precedenti si facevano rappresentare con in mano il modello della chiesa, e disposti all’estremità dell’abside, spesso presentati al Cristo per l’intermediazione di un altro santo. Innocenzo invece forma con l’Ecclesia romana una coppia inedita: Paravicini Bagliani (1998 [2005], 46-47) e Iacobini (1989, 126) hanno ben mostrato come il binomio papa/Ecclesia sia essenziale nel pensiero di Innocenzo. Nel sermone In consecratione Pontificis (in PL CCXVII, cc. 662-665) infatti, Innocenzo traccia un parallelo tra la coppia dello Sposo/Cristo e della Sposa/Vergine del Cantico dei Cantici, con quella del papa/Vicarius Christi e della Ecclesia romana; e presenta questa unione come il solo modo che il papa abbia per acquisire la plenitudo potestatis. La coppia papa/Ecclesia
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sembra in questo senso quasi un’eco della coppia Cristo/Maria, rappresentata nel mosaico absidale di Santa Maria in Trastevere, opera realizzata negli anni Quaranta del XII secolo per Innocenzo II (Croisier, in Corpus IV ¤ 55). Iacobini (1989), Paravicini Bagliani (1996; Id. 1998 [2005]: Id. 2001) e Andaloro-Romano (2000b) hanno indicato come questo accento posto sul potere e l’autorità papale si rifletta anche nei molti riferimenti al motivo del trono. Il primo è nella trasformazione dell’originaria Traditio in una Maiestas: il Cristo, e quindi la Chiesa, sono ormai figure di potere. Un altro trono è quello dell’Etimasia del registro inferiore; e infine un trono reale si materializza nella vera cattedra marmorea situata nell’abside della basilica e vuota in attesa del papa (Iacobini 1989, 129). Dunque i troni sono tre, disposti in una sorta di linea discendente da quello del Cristo a quello del pontefice; il potere – si deduce visualmente – risale direttamente a Cristo. Questi simboli d’autorità, non solo il trono, ma anche la corona e il vessillo dell’Ecclesia e il phrygium del papa (il copricapo donato da Costantino al papa Silvestro che gli attribuiva il potere temporale sull’Occidente), sono motivati dal frangente politico (Iacobini 1991, 243-244), in cui le relazioni tra Papato e Impero, dunque tra Innocenzo III, Ottone di Brunswick e il giovane Federico II, erano estremamente tese. È possibile che il programma innocenziano avesse inoltre tenuto conto del contesto figurativo della basilica: sull’arco trionfale appariva infatti, forse già dal IV secolo, l’imperatore Costantino in atto di offrire il modello della basilica al Cristo (Liverani, in Corpus I ¤ 2b) e questo appello alla fondazione costantiniana di San Pietro concorre al discorso innocenziano ribadendo la sottomissione dell’imperatore al Cristo. Così, nello spazio della basilica, solo l’imperatore appare quale donatore, mentre il papa Innocenzo, liberato da questa
funzione, diviene parte integrante di un discorso più universale sulla gerarchia del potere in seno alla Chiesa. L’insistenza sul motivo del trono non può infine mancare di evocare la cathedra Petri, reliquia del trono di san Pietro conservata nella basilica (Maccarrone 1985). Innocenzo III la venerava in modo speciale, tanto da aver scelto il giorno della festa della cathedra Petri, il 22 febbraio, come giorno della propria intronizzazione (Paravicini Bagliani 2001, 214). Essa è d’altronde citata nell’iscrizione fatta apporre alla base dell’abside, in sostituzione di un’iscrizione precedente (Iscr. 10): e giustifica l’attribuzione della definizione di San Pietro come «mater cunctarum ecclesiarum», che prima di Innocenzo spettava alla basilica lateranense (Gandolfo 1983a, 81-85, 111-113). Il Laterano era nato come sede dell’autorità pontificia, ma ora, dice l’iscrizione innocenziana, questa autorità si trova lì dove è conservata la cathedra Petri, dunque a San Pietro, al Vaticano, al quale l’Impero e tutta la Chiesa devono sottomettersi.
Interventi conservativi e restauri
1507: a causa della demolizione dei bracci del transetto, l’abside è «tota conquassata» (Paris de Grassis [1506-1508], II, BAV, Chigi L. I. 18, f. 250r; Ballardini 2004, 25 nota 40). 1507-1514: Bramante costruisce il tegurium, una struttura di protezione intorno alla vecchia abside, che deve permettere di continuare le celebrazioni all’altar maggiore durante tutta la durata dei lavori. 1531: mentre Clemente VII dice messa, dall’abside si stacca un pezzo di mosaico che manca di poco il papa. Giovanni da Udine consolida il mosaico mediante grappe a forma di stella (Libri dei Conti, BCU, mss. 1195 e 1197/7; Tiberio Alfarano, ACSP, G. 5, 176-78; Furlan 1988). SAN PIETRO IN VATICANO / ATLANTE I, 1 65
1532: restauro del mosaico da Marco Viniziano (Marco Luziano Rizzo) (Furlan 1988, 533). 1592, settembre: stacco dei tre frammenti musivi ancora oggi conservati, e demolizione dell’abside. 1592 o 1606: il busto di Innocenzo e la fenice sarebbero stati donati da Clemente VIII a Lotario Conti, che li avrebbe fatti inserire nell’altare della cappella di villa Catena a Poli (cfr. iscrizione commemorativa); secondo Grimaldi invece i frammenti sarebbero stati conservati ancora vari anni nei depositi della Fabbrica di San Pietro, e sarebbero stati donati a Carlo, e non a Lotario Conti, suo fratello, nel 1606, data della demolizione della facciata di San Pietro, insieme con il busto di Gregorio IX, proveniente dalla stessa facciata (¤ 19). 1905: il frammento con l’Ecclesia si trova al Museo Barracco. Secondo il catalogo del museo (1907) proverrebbe da casa Barberini: su questo non c’è altra informazione (Arslan 19261927, 754; Iacobini 1989, 121). 1953: i principi Torlonia, nuovi proprietari di villa Catena, riportano i frammenti a Roma e li affidano alla Reverenda Fabbrica di San Pietro perché siano restaurati. A Poli, gli originali sono sostituiti da copie ottocentesche, realizzate per l’esposizione di Torino (1884). 1958: Don Andrea Torlonia vende il busto di Innocenzo e la fenice alla città di Roma. Vengono depositati al Museo di Palazzo Braschi, dove anche l’Ecclesia è conservata tra 1958 e 1995. 1995: l’Ecclesia torna al Museo Barracco.
Documentazione visiva
Raffaello e allievi, affresco, Donazione di Roma a papa San Silvestro (1520 ca.), Città del Vaticano, Stanze di Raffaello, Sala di Costantino; Alfonso Ciacconio, penna e tempera acquerellata su carta (prima dell’estate 1592), BAV, Vat. lat. 5407, pp. 103, 112 (Ecclesia e Innocenzo III); piccolo disegno a penna al margine (1592), ACSP, Privilegi e atti notarili, 39, f. 45v; penna e tempera acquerellata su pergamena (3 agosto 1592), ACSP, A. 64 ter (Album), f. 50r; Alfonso Ciacconio, disegno acquerellato (1592-1599), BAV, Vat. lat. 5408, ff. 29v-30r, 31v-32r; disegno acquerellato (fine sec. XVI), BAR, C. 2. 11, f. 18; copia del BAV, Vat. lat. 5407, pp. 103, 112, BAM, F. 221 inf. 1, f. 20r, e inf. 2, f. 23r; Giovanni Battista Ricci, riproduzione ad affresco nelle Grotte Vaticane (1617), perduta, foto Anderson 20309; Giacomo Grimaldi, disegno acquerellato (1619-1620), BAV, Barb. lat. 2733, ff. 158v-159r; Giacomo Grimaldi, disegno acquerellato (1620), BNC, II-III-173 (olim Fondo Magliabechiano, III, n. 173 e cl. XXXVII, n. 60), f. 4r; Giacomo Grimaldi, disegno acquerellato (1621), BAV, Vat. lat. 11988, f. 209r; Giacomo Grimaldi, disegno acquerellato (1621), BAM, A. 168 inf., f. 4r; copia di Giacomo Grimaldi, disegno acquerellato (1622 ca.), BAM, F. 227 inf., ff. 10v-11r; disegno acquerellato (1633), BAV, Barb. lat. 4410, f. 26; olio su tela (Tavola Mariotti) (prima metà del XVII secolo), Città del Vaticano, Museo Cristiano, inv. 973; acquerello (prima metà del secolo), WRL 8966; copia di Giacomo Grimaldi, disegno acquerellato (1706), BANLC, 39. D. 4, (Cors. 276) f. 266v; Ciampini 1693 [1747], tav. XIII; incisione (1717), AASS, Junii, VII, 135; incisione (s.d.), AW, Ital. Architekturzeichnungen, Rom, Mappen XXII-XXV, Nr. 601 (Innocenzo III); P. Bombelli, incisione dalla Tavola Mariotti, in A. Mariotti, Delle virtù... (1767) (agnello); incisione, in Dionisi 1773, tav. LXIX.1 (san Paolo); cromolitografia, in de Rossi 1899, tav. IX.3b e 3c.
Fonti e descrizioni
Gesta Innocentii III, in PL CCXIV, c. 205; Ad Innocenti III Vitam Addimentum [1841], 300; Mariano da Firenze 1518 [1931], 78; Panvinio 1570 [lat.], 147; Alfarano 1574 [1914], 156-157; Alfarano (entro il 1579), ACSP, G. 5, 176-178, 247; Quintiliano
66 SAN PIETRO IN VATICANO / ATLANTE I, 1
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Gargario (3 agosto 1592), BAV, ACSP, A. 64 ter, f. 50r; Grimaldi 1619 [1972], 287 (san Paolo); Torrigio 1618, 55-60, 69; Torrigio 1635, 72 (busto di san Paolo); AASS, Junii, 1717, VII, 134-138; Furietti 1752, 93 (busto di san Paolo); Dionisi 1773, 173-174 (busto di san Paolo).
Bibliografia
Sarti-Settele 1840, 113; Valentini 1845, 26-27; Barbier de Montault 1866, 75-77; Casassayas 1867, 62; Mignanti 1867, 162-166; Müntz 1882, 143-145; Stevenson, in Mostra della città di Roma 1884, 208; Stevenson 1887, 16-17; Clausse 1893, II, 401-407; de Rossi 1899; Marucchi 1902, 116-117; Wilpert 1916, I, 361-367; Muñoz 1921, 91-94; van Marle 1921, 16, 175, 194195; van Marle 1923, 434; Arslan 1926-1927, 754-762; Toesca 1927 [1965], 1000-1001, nota 36; Van der Meer 1938, 54-56; Armellini-Cecchelli 1942, II, 896-898; Hermanin 1945, 272; Demus 1949 [1988], 453-454; Schüller-Piroli 1950, 101-104, 360361; Sibilia 1953, 79-82; Hoogewerff 1955, 306-308; Buddensieg 1959; Muñoz 1959, 8-13; Schumacher 1959; Ladner 1961, 247248; Waetzoldt 1964, 71; Bettini 1966, 38; Bovini 1966, 18-25; Matthiae 1966a [1988], 118; Lazarev 1967, 240; Matthiae 1967, 324-336; Oakeshott 1967, 24-25, 67-69, 256; Ruysschaert 19671968b; Ladner 1970, 56-68; Zuliani 1974b; Schumacher-Wilpert 1976, 11-12, 62-64; Krautheimer 1980 [1999], 545-547; Lanz 1983, 77-78; Demus 1984, 223; Tomei 1984a; Pace 1986a, 423; Furlan 1988, 525-533; Gandolfo 1988, 285-286; Margiotta 1988, 22-33; Paravicini Bagliani 1998 [2005], 20, 45-51; Iacobini 1989; Wolf 1990, 117-119; Iacobini 1991, 242-245; Gandolfo 1997, 164165; Iacobini 1997; Monciatti 1997, 511-514; Osborne-Claridge 1998, 76-77; Kessler 1999, 263-264; Silvan 1999a; Strinati 1999a; Strinati 1999b; Strinati 1999c; Andaloro-Romano 2000b, 112115; Gandolfo 2000, 186; Monciatti 2000b; Monciatti 2000c; Monciatti 2000d; Pace 2000, 311; Pinelli 2000, 32-33; Boyle 2003, 13-19; Pace 2003, 1228-1240; Ballardini 2004; Gandolfo 2004, 30-32; Iacobini 2004, 38-41; Ballardini-Casartelli Novelli 2005, 156-160; Iacobini 2005; Romano 2005a, 555; Moretti, in Corpus I (¤ 2a); Pogliani, in Atlante I (¤ 1); Gandolfo 2007b, 321; Ballardini 2009; Romano c.s. (b). Karina Queijo
6. LA LEGGENDA DI ANSEDONIA SULL’ARCO DI CARLOMAGNO ALL’ABBAZIA DELLE TRE FONTANE Primo ventennio del XIII secolo
L’arco d’ingresso all’abbazia delle Tre Fontane conserva ampi frammenti di una decorazione affrescata della quale ci sono pervenute anche le copie di Antonio Eclissi (BAV, Barb. lat. 4402, ff. 36r, 37r, 40v e 41r). Sulle pareti laterali sono visibili alcune scene della cosiddetta Leggenda di Ansedonia: vi sono narrate le vicende relative alla donazione di alcune terre della Maremma toscana all’abbazia delle Tre Fontane da parte di Carlomagno e Leone III, dopo la miracolosa conquista di Ansedonia resa possibile dalla reliquia di sant’Anastasio. Grazie al supporto delle copie seicentesche lo svolgimento narrativo del ciclo è facilmente ricostruibile. Il primo registro della lunetta di sinistra comincia con Il viaggio di Carlomagno verso Ansedonia, oggi quasi completamente scomparso [2]: nel disegno dell’Eclissi, infatti, è ben visibile la barca che trasporta il sovrano e i suoi soldati e una parte delle mura turrite della cittadina toscana [1]. Il registro si conclude con l’immagine – ancora quasi interamente visibile – dell’accampamento dell’esercito imperiale, Carlomagno siede all’ingresso della tenda in primo piano e leva il braccio destro indicando la ribelle Ansedonia che non si lascia conquistare; sulla destra, anche papa Leone III – munito di tiara e accompagnato da un folto seguito – alza il braccio in direzione della città [1, 2]. Nel registro sottostante la narrazione non segue più un andamento lineare: come mostra l’acquerello dell’Eclissi, infatti, l’episodio con il Sogno di Carlomagno e del papa che interviene a questo punto della storia, era dislocato ai due estremi della scena [1]; si è conservata l’immagine dell’imperatore che dorme e dell’angelo chino su di lui [2]. Al centro, Carlomagno e Leone III – solo parzialmente visibili – sono seduti in trono con un cartiglio in mano (del cartiglio del papa rimangono poche lettere, l’iscrizione di quello del re, se c’era, è completamente persa): ordinano a un gruppo di monaci (quasi integralmente perduti) di recarsi all’abbazia delle Tre Fontane per recuperare la reliquia della testa di sant’Anastasio, secondo le prescrizioni impartite dall’angelo apparso loro in sogno [1, 2]. Nell’angolo sinistro del primo registro della lunetta di destra (già al tempo dell’Eclissi segnato da estese lacune) un monaco porge all’imperatore e al papa – ancora ben riconoscibili nell’affresco – la testa di sant’Anastasio, mentre sulla destra era probabilmente rappresentata la venerazione della sacra reliquia, come suggerisce la presenza, nella copia seicentesca, di alcuni personaggi inginocchiati in atto di adorazione [3].
Nel secondo registro si ha l’epilogo della vicenda [3, 4]: da sinistra verso destra troviamo il papa, seguito da alcuni monaci, che sorregge la testa di sant’Anastasio, mentre Carlomagno e le sue truppe circondano, per terra e per mare, la città (Eclissi registra male la scena); grazie all’intercessione della sacra reliquia gli abitanti di Ansedonia – rappresentati come esseri mostruosi – sono sconfitti e la città toscana viene finalmente espugnata. Infine, dopo la rappresentazione dell’Isola del Giglio e di un altro strano orbicolo a forme forse vegetali rosse, nei pressi della tomba del santo che ha permesso il miracolo, il papa e Carlomagno porgono ai monaci delle Tre Fontane il documento (Iscr. 4) che attesta la donazione delle terre toscane appena conquistate al monastero romano [5]. Queste, rappresentate nel terzo registro [3, 4], di cui sussiste oggi solo la metà di sinistra, sono: il Mons Argentarius, Orbitellus, Altricoste, Masianus, Aquilace, Acapite, Serpena e il Mons Acutus (Iscr. 5 e 6). Al centro della volta dell’arco campeggiava un Cristo benedicente iscritto in un clipeo – già in parte abraso nel Seicento e oggi quasi completamente scomparso – attorno al quale sono disposti riquadri con quattro angeli a mezzo busto e i simboli degli evangelisti, attualmente solo parzialmente visibili [6, 7]. Negli spazi di risulta tra il clipeo centrale e gli scomparti quadrangolari sono inseriti, a intervalli regolari, tondi e rombi con motivi animali e floreali che si ripetono simili anche nelle campiture esterne.
Iscrizioni Parete sud-occidentale Primo registro 1 - Iscrizione identificativa, disposta all’interno dell’area illustrata, nella parte centrale-sinistra, tra due figure, sotto la reliquia di sant’Anastasio, priva di uno spazio grafico di corredo, allineata su due righe orizzontali, secondo un andamento rettilineo irregolare. Lettere bianche su fondo scuro. Intera ma abrasa. Scrittura maiuscola squadrata.
Cap(ut) s(an)c(t)i / Ana/staøiî
1
2
ABBAZIA DELLE TRE FONTANE / ATLANTE I, 12 67
Parete sud-occidentale Primo registro 7 - Due iscrizioni, la prima esegetica, la seconda identificativa, già disposte in una fascia rettangolare alla base delle scene, allineate in senso orizzontale, secondo un andamento rettilineo, in corrispondenza delle raffigurazioni. Perdute.
Ite / ad / aqua(s) / salvia(s)
7a - Karol(us) imp(er)ator exercit(us) ei(us)
11 - Due didascalie identificative, disposte all’interno dell’area illustrata, nell’apertura delle due tende da campo. La prima è allineata su due righe orizzontali, secondo un andamento rettilineo non regolare. Lacunosa. Lettere scure su fondo bianco. Scrittura maiuscola squadrata. La seconda è perduta.
7b - Ansidonia Trascrizioni dal disegno acquerellato di Antonio Eclissi, BAV, Barb. lat. 4402, f. 36r. 3
4
Secondo registro 2 - Iscrizione identificativa, già disposta in una fascia rettangolare alla base del riquadro, allineata su una riga orizzontale, secondo un andamento rettilineo. Perduta.
[K]ærol(us) i(m)p(er)ator Trascrizione dal disegno acquerellato di Antonio Eclissi, BAV, Barb. lat. 4402, f. 37r. 3 - Iscrizione identificativa, disposta all’interno dell’area illustrata, nella parte centrale-destra, all’interno di un motivo circolare rappresentante una collina, allineata su due righe orizzontali, secondo un andamento rettilineo irregolare. Lettere bianche su fondo scuro. Lacunosa.
ST++ / Gilgo La presenza delle lettere nella prima riga emerge chiaramente ad un esame ravvicinato ma non è possibile stabilire se si tratti di un’iscrizione cancellata o di un testo collegato al toponimo Gilgo, poi caduto. 4 - Iscrizione esegetica, disposta all’interno dell’area illustrata, a sinistra in alto, dentro un rotulo svolto in orizzontale, sorretto da due gruppi di figure, allineata su cinque righe orizzontali, secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere, a righe alterne, di colore rosso e nero, su fondo bianco. Intera ma abrasa. Scrittura maiuscola squadrata.
Co<n>cedim(us) et do/nam(us) eccl(es)ie tue / Ansidonia(m) cu(m) ca/stris istis aucto÷/itate ap(osto)lica et i(m)p(er)îæñî 5 - Due iscrizioni identificative, disposte all’interno dell’area illustrata, dentro una cornice ellittica irregolare; la prima si trova in alto, ai lati di una torre, allineata su due righe orizzontali, secondo un andamento rettilineo irregolare. Intera. La seconda, in basso, ai piedi di motivi sovrapposti rappresentanti un monte, allineata su due righe orizzontali, secondo un andamento rettilineo irregolare. Lacunosa. Entrambe sono redatte in lettere bianche su fondo rosso e con scrittura maiuscola squadrata. 5a - Ar| |gen/ta| |ria 5b - Mons Argênta/rîúø Integrazioni dal disegno acquerellato di Antonio Eclissi, BAV, Barb. lat. 4402, f. 37r. 68 ABBAZIA DELLE TRE FONTANE / ATLANTE I, 12
6 - Otto iscrizioni segnaletiche, perdute, descritte e trascritte dal disegno acquerellato di Antonio Eclissi, BAV, Barb. lat. 4402, f. 37r.
8 - Due didascalie identificative, in una fascia rettangolare alla base delle scene, la prima sotto l’accampamento, la seconda sotto la figura del papa, allineate in orizzontale, secondo un andamento rettilineo irregolare. Lacunose. Scrittura maiuscola squadrata. 8a - P(o)õ(u)ñ(u)ø ÷ôòanús
6a - All’interno dell’area illustrata, in alto, dentro un motivo rappresentante un monte, allineata su una riga orizzontale, secondo un andamento rettilineo.
8b - Leo õ(a)p(a) III
Orbitellus
Secondo registro
6b - Nella fascia rettangolare sottostante le scene, in asse con la figura di una torre, allineata su una riga orizzontale, secondo un andamento rettilineo.
9 - Iscrizione esegetica, già disposta nella fascia rettangolare a destra e nella parte superiore, allineata su una riga secondo un andamento misto, orizzontale e verticale, da destra verso sinistra; le lettere sono eseguite in modo speculare. Perduta.
Altricoste
10 - Iscrizione esegetica, già disposta all’interno della raffigurazione, a destra dell’immagine del papa, priva di uno spazio grafico di corredo, allineata su tre righe orizzontali. Perduta.
Integrazioni dal disegno acquerellato di Antonio Eclissi, BAV, Barb. lat. 4402, f. 37r.
Mane cu(m) surexeris mitte Ro/ma(m) ad aqua(s) salvia(s)
Trascrizione dal disegno acquerellato di Antonio Eclissi, BAV, Barb. lat. 4402, f. 36r.
11a - Papili/ones Integrazioni dal disegno acquerellato di Antonio Eclissi, BAV, Barb. lat. 4402, f. 36r. 11b - Papi/liones Trascrizione dal disegno acquerellato di Antonio Eclissi, BAV, Barb. lat. 4402, f. 36r. 12 - Didascalia identificativa già in alto a sinistra, all’interno dell’area illustrata, priva di uno spazio grafico di corredo, andamento orizzontale da destra verso sinistra; le lettere sono eseguite in modo speculare. Perduta. Porta Trascrizione dal disegno acquerellato di Antonio Eclissi, BAV, Barb. lat. 4402, f. 36r. (S. Ric.)
6c - In una conice rettangolare non delimitata lateralmente, sotto la figura di una torre composita, allineata su una riga orizzontale, secondo un andamento rettilineo.
Masianus 6d - Nella fascia rettangolare alla sommità delle scene, allineata in orizzontale, secondo un andamento rettilineo.
Karolus i(m)p(er)ator eccl(es)ia s(anctus) Anastasii abas monachi conversi 6e - In una conice rettangolare, sotto la figura di una torre, allineata su una riga orizzontale, secondo un andamento rettilineo.
Aquiliaci 6f - Nella fascia rettangolare sottostante le scene, sotto la figura di una torre, allineata su una riga orizzontale, secondo un andamento rettilineo.
Acapite 6g - In una cornice sottostante la figura di una torre composita, allineata su una riga orizzontale, secondo un andamento rettilineo.
Serpena 6h - Nella fascia rettangolare sottostante le scene, sotto la figura di una torre composita, allineata su una riga orizzontale, secondo un andamento rettilineo.
Mons Acutus
5
ABBAZIA DELLE TRE FONTANE / ATLANTE I, 12 69
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Note critiche
Gli studi sugli affreschi dell’Arco di Carlomagno non sono molto numerosi: prima dell’articolo della De’ Maffei (1970), le menzioni relative al ciclo in questione sono poche e s’interessano soprattutto alla maniera in cui sono stati rappresentati i feudi in possesso dell’abbazia romana nella parete di sinistra (Barbier
de Montault 1883, 38, nota 1; de Grüneisen 1911a, 393-395; Bertolini 1913). Sulla datazione dei dipinti, in passato molto controversa tra gli anni Quaranta del XII secolo (Garrison 1957-1958, 28) e il secondo decennio del XIII (Gandolfo 1988, 284), un punto fermo è costituito dalla presenza dell’affresco con la Vergine e il Bambino tra Santi (¤ 48) sulla parete di fondo dell’arco, palesemente eseguito su uno strato d’intonaco sovrapposto a quello del ciclo di Ansedonia e databile agli anni SessantaSettanta. Un altro elemento importante di discussione è quello in rapporto ai possedimenti dell’abbazia, attestati da numerose bolle papali (le più note sono quella un tempo affrescata nel portico antistante la chiesa dei Santi Vincenzo e Anastasio e quella fatta copiare da Urbano V da una non meglio identificata lastra in bronzo forse nella sacrestia; Torrigio 1639, 239-240; Ughello 1717-1722 [1972-1985], I, 50-52; Muratori 1738-1742 [1965], III, 10; Ratti 1797, 9; Scriptorum veterum 1831, 229-230; Moroni 1842, 64; Jaffé 1851, 943; Giorgi 1878, 54-55; Dom Gabriel 1882; Kehr 1906, 173; San Paolo e le Tre Fontane 1938, 92-105; Tomassetti 1979, 140-144; apocrife ma tradizionalmente riferite al tempo di CarloMagno, De’ Maffei 1970, 369-370). Nella bolla del 1161 Alessandro III sancisce definitivamente l’egemonia dei monaci bianchi sul convento alle Acque Salvie: ciò costituirebbe un convincente termine post quem per l’esecuzione del ciclo (Parlato-Romano 1992 [2001], 85), essendo più probabile che gli affreschi siano stati concepiti e realizzati in un momento di riconquistata stabilità, piuttosto che in circostanze di crisi – gli anni Cinquanta del XII secolo – quando anche i Benedettini di San Paolo fuori le mura reclamavano il controllo dell’abbazia romana e dei possedimenti ad essi connessi (De’ Maffei 1970, 372, 378). La notizia, poi, che nei primi anni del XIII secolo la città di Orvieto abbia strappato con la forza all’abbazia romana il feudo di Orbetello, che rimase in mano alla città umbra fino
al 1269 (Amalfitano 1887, 22, 24-25), ci pare costituire una buona occasione storica alla quale connettere l’esecuzione degli affreschi dell’Arco, e spiegherebbe perché, durante il XIII secolo, il tema dei possedimenti maremmani sia ancora rappresentato nel reliquiario d’argento fatto eseguire dall’abate Martino (12831306) l’anno della sua elezione (Bertelli 1970a, 15). Il ciclo con la Leggenda di Ansedonia costituiva così una sorta di ‘manifesto’ visivo che marcava a chiare lettere la legittimità delle proprietà cistercensi toscane contro qualsiasi tentativo di usurpazione. Il dato stilistico conferma una datazione al primo ventennio del secolo. I personaggi della Leggenda di Ansedonia [5], infatti, trovano i loro confronti migliori nell’Ecclesia dell’abside vaticana (¤ 5), cui peraltro la stessa De’ Maffei paragona gli angeli della volta dell’arco (De’ Maffei 1970, 377) [8]. Le analogie coinvolgono sia la maniera complessiva di costruire i volti, dall’impianto lineare pesantemente marcato, sia i dettagli fisionomici, come i grandi occhi sporgenti, l’ampia arcata sopraccigliare, il largo naso dalla punta arrotondata e la bocca, il cui labbro superiore è formato da un breve segmento orizzontale. I paragoni più calzanti per lo schema compositivo della volta dell’arco [6, 7], invece, si hanno con le decorazioni della volta della cappella di Gregorio IX al Sacro Speco di Subiaco (Bertelli 1978, 77) e con quella – assegnata al Maestro delle Traslazioni – della volta numero XV nella cripta della cattedrale di Anagni (Gandolfo 1988, 284; Iacobini 1991, 271). La sintassi degli elementi decorativi è molto simile soprattutto a Subiaco, anche se alle Tre Fontane ha una redazione più grossolana; si possono anche rilevare echi dei ricchi partiti decorativi di altre volte anagnine, come quelle attribuite al Maestro delle Traslazioni, Abramo e Melchisedech e Elia rapito al cielo. Il sostrato culturale dei dipinti di Subiaco e Anagni è il medesimo delle Tre Fontane, formatosi a partire dalle nuove esperienze artistiche che, al tempo di Innocenzo III, si elaborarono nel cantiere musivo di San Pietro.
L’affinità d’intonazione stilistica con i brani anagnini è visibile anche nella maniera di rendere le fattezze dei personaggi, con gli stessi visi rotondi con grandi occhi spalancati e leggermente a mandorla, incorniciati da larghe sopracciglia arcuate. L’allusione alle crociate, piuttosto esplicita nella raffigurazione dei soldati con cotte di maglia ed elmi decorati dalla croce, non è necessariamente da intendersi in riferimento alla terza Crociata (Bertelli 1978, 80), specie se si considera quale peso abbia avuto questo tema anche nella politica di Innocenzo III, sotto il cui pontificato si svolse appunto la celebre quarta Crociata.
Documentazione visiva
Antonio Eclissi, disegni acquerellati (1630 ca.), BAV, Barb. lat. 4402, ff. 36r, 37r, 40v, 41r; Jean Baptiste Séroux d’Agincourt, disegni (1780-1790), BAV, Barb. lat. 9843, ff. 5v-7r, 14v-15r; Séroux d’Agincourt 1826-1829, V, tavv. XCVII 1-3 e CVI 6-10.
Bibliografia
Séroux d’Agincourt 1826-1829, II, 289; Séroux d’Agincourt 1826-1829, III, 235, 242; Barbier de Montault 1883, 38, nota 1; de Grüneisen 1911a, 393-395; Caetani Lovatelli 1914, 7-8; Bertolini 1915; San Paolo e le Tre Fontane 1938, 93-95; Armellini-Cecchelli 1942, II, 1169; Garrison 1957-1958, 27-28; Waetzoldt 1964, 80; Matthiae 1966a [1988], 116; De’ Maffei 1970, 365-378; Bertelli 1978, 77-80; Tomassetti 1979, 147; Gandolfo 1988, 283-284; Mulazzani 1988, 50-52; Iacobini 1991, 267-271; Parlato-Romano 1992 [2001], 84-85; Quattrone 1995, 45-48; Tempesta 1995, 203205; Barclay Lloyd 1997, 294-308; Barclay Lloyd 2006, 27, 230231; Pogliani, in Atlante I (¤ 12). Irene Quadri
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ABBAZIA DELLE TRE FONTANE / ATLANTE I, 12 71
7. IL MOSAICO CON LA VIRGO LACTANS E LE VERGINI SAGGE E FOLLI SULLA FACCIATA DI SANTA MARIA IN TRASTEVERE
7a. PRIMA FASE: GRUPPO CENTRALE E VERGINI S2, S1, D1 E D2 Secondo-terzo decennio del XIII secolo
1
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Il mosaico nel cavetto della facciata di Santa Maria in Trastevere mostra una Virgo lactans verso cui si dirigono due gruppi simmetrici di cinque figure femminili [1]. Vestita di una veste rosa che spunta solo sul braccio e sui piedi, con tunica verde a bordi gemmati e manto blu sul capo, la Vergine offre il seno al Bambino, a sua volta vestito di tunica verde e manto rosa. Il trono è senza schienale, gemmato, con due cuscini rosa e blu [2]. Lo affiancano due piccole figure, con un ginocchio a terra e le mani giunte: a sinistra un chierico tonsurato con barba grigia, vestito di tunica bianca e manto rosso, a destra un secondo chierico tonsurato senza barba e con capelli scuri, con tunica rosa e manto blu. Ai lati della Vergine si trovano una serie di figure femminili, verosimilmente i due gruppi di cinque vergini sagge e folli della parabola evangelica (Not. crit.). Quelle alla destra della Vergine, quindi alla sinistra dell’osservatore, sono aureolate e incoronate, tutte rivolte verso di lei e con in mano lampade accese: nell’ordine, una vergine (S1) con manto blu su una tunica rossa gemmata e veste azzurra [3]; la corona ha tre decorazioni gigliate e la lampada è a doppia ansa con piede. La seconda (S2), corona e lampada uguali all’altra, è in veste rosa, tunica verde a bordi gemmati, manto blu ricadente sul braccio sinistro; le tre seguenti (S3, S4, S5) hanno diademi perlati ma senza decorazioni gigliate, reggono lampade bianche e scanalate con manici ad ansa sulle mani velate da un drappo bianco. La terza (S3) ha una semplice veste bianca che ricade sui piedi, coperta da tunica rossa con bordo decorato, e manto azzurro raccolto sul braccio destro davanti al corpo. La quarta (S4) ha gli stessi colori, ma il manto non è raccolto davanti e la tunica ha bordo a quadrettini azzurri e rossi. La quinta (S5) infine ha veste bianca, tunica pure bianca a medaglioni disegnati in rosso, e manto rosso. Dall’altro lato, altre cinque vergini aureolate, le due più vicine alla 72 SANTA MARIA IN TRASTEVERE
Vergine (D1, D2) non coronate ma col capo velato da una stoffa bianca a righe; le lampade, verdi e rotonde, non hanno fiamma. Al contrario, le tre vergini restanti hanno corone a motivi gigliati schematizzati e lampade verdi con fiamma. La più vicina alla Vergine ha veste verde, tunica azzurra a bordi gemmati e manto azzurro ripiegato sul braccio destro; la seconda (D2) veste azzurra, tunica rosa gemmata e manto verde sul braccio sinistro [4]; la terza (D3) veste rosa, tunica gemmata a decorazioni quadrettate multicolori, e manto azzurro. La quarta (D4) è in veste verde, tunica gemmata con quadrettatura a toni azzurrati e manto di un azzurro violaceo; infine la quinta (D5) ha veste azzurro chiaro, tunica a quadrettatura a toni rosso scuro e con orlo gemmato, e manto verdazzurro che copre la mano con cui regge la lampada (¤ 57). Lo schema compositivo è a evidenza unitario: le figure compaiono su fondo oro, e sono inquadrate da un fregio a motivi vegetali, che corre tutt’intorno al cavetto, in basso sostituito dalla versione ottocentesca dipinta. Al livello della testa della Vergine, un medaglione con l’Agnus Dei e la croce a lunga asta. Il suolo è verde, sui lati integrato da motivi curviformi, e nella parte centrale realizzato a tre fasce di colore digradante, che tuttavia scompaiono in corrispondenza delle tre figure di sinistra e delle tre di destra, sostituite da un campo cromatico più uniforme e peraltro molto pasticciato. Altrettanto complesso lo stato di conservazione del fondo oro, che mostra anch’esso pesanti segni di manipolazione specialmente in corrispondenza delle triadi di destra e di sinistra; lo sfondo del gruppo delle tre figure di sinistra ha tessere di dimensioni minori rispetto al resto, e all’altezza del medesimo gruppo si registra anche una leggera variante nel fregio della cornice, dove le foglie gigliate tripartite hanno una forma più aperta rispetto al resto del fregio.
Note critiche Il mosaico della facciata di Santa Maria in Trastevere pone questioni complesse di ordine sia stilistico che iconografico, ed è a tutta evidenza il frutto di fasi esecutive e manipolazioni multiple, realizzate già nel corso del Duecento e poi proseguite anche successivamente, forse per problemi tecnici provocati da una non buona tenuta del mosaico sulla parete, che periodicamente necessitarono restauri e riparazioni. Gli studi sono andati via via registrando le differenze interne, e sono passati dall’antica attribuzione dell’intero mosaico al Cavallini (Vasari 1550 e 1568 [1967-1968]; Mancini ca. 1625 [1923]; Furietti 1752), alle osservazioni di Séroux d’Agincourt (1829), Nibby (1839 [1971]) e Melchiorri (1840) che si avvedevano della disparità di stile tra le parti del mosaico, e ne situavano una prima fase al tempo dei lavori di Innocenzo II – identificando, pur in mancanza di attributi, le figure dei donatori inginocchiati con lo stesso Innocenzo e con il suo successore Eugenio III – e riferendo però una seconda fase di conclusione dei lavori al Cavallini. Nel 1927 il Toesca per primo distingue le tre fasi di esecuzione oggi largamente accettate: la più antica nel gruppo della Vergine e delle quattro vergini a lei più vicine (S2, S1, D1, D2); la più recente, a fine Duecento, nelle tre vergini di sinistra (S5, S4, S3), una fase intermedia nelle rimanenti tre figure di destra, D3, D4 e D5. La sua idea viene ripresa e sviluppata solo più tardi da Matthiae e Oakeshott (1967). Il gruppo delle tre vergini S5, S4 e S3 non riguarda il presente volume, essendo queste figure di manifesta fisionomia torritiana, e verosimilmente di fine secolo. Il gruppo delle tre figure di estrema destra, D3, D4 e D5, a sua volta, è il frutto di vicende complesse,
che verranno analizzate nella seconda parte di questa scheda e nella successiva (¤ 57). Il gruppo centrale, costituito dalla Vergine col Bambino e i due donatori, e dalle vergini S2, S1, D1 e D2, è invece quanto resta dell’impianto decorativo originario, che doveva aver incluso l’intera lunghezza del cavetto. Oakeshott (1967, 245) ne propone una datazione all’ultimo decennio del XII secolo, mentre il Matthiae pensa alla metà del XIII (1967, 386). Al primo Duecento, e agli anni di Innocenzo III, pensano invece van Marle, Hermanin, Golzio e più di recente Gandolfo, che vi rileva motivi tardo comneni (Gandolfo 1988, 303). Le figure di questo gruppo mostrano elementi stilistici non coincidenti in tutto con quanto si conosce della pittura bizantinizzante in Italia centrale all’inizio del secolo. Si inseriscono nel contesto romano dei primi decenni del secolo in notevole indipendenza rispetto agli altri testimoni conosciuti: ad esempio, non sembrano avere grandi rapporti con quanto ci rimane del mosaico absidale vaticano (¤ 5), che pure è il gran cantiere di inizio secolo, e da cui ci si aspetterebbe che gli artefici di Santa Maria in Trastevere siano usciti. Maggiori rapporti si possono istituire con altri documenti pittorici più o meno contemporanei, che condividono un indirizzo stilistico ‘sicilianizzante’: con la Vergine di San Bartolomeo all’Isola ad esempio (¤ 4), rispetto alla quale tuttavia il volto della Virgo lactans di Trastevere è più duro e ha tratti più rigidi, con modellato privo di rialzi luminosi e incarnato realizzato uniformemente con tessere lapidee, con ombre sotto gli occhi quale sola indicazione di volume. Un confronto persuasivo per i tratti fisionomici è quello con l’angelo vicino alla Vergine del SANTA MARIA IN TRASTEVERE 73
cosidetto oratorio di Onorio III a San Sebastiano fuori le mura (¤ 15), o con l’icona musiva di San Paolo (¤ 9). La tecnica ‘siciliana’ di realizzare i contorni del volto con file di tessere rosse o blu è seguita nelle due vergini di sinistra (S1, S2) mentre nel volto di Maria e nelle due vergini di destra (specie la D1) il blu tende a scomparire. I panneggi graficizzati, con zone a tinta unita segnate da tratti diramati a partire dai punti di contatto col corpo sottostante – come nella tunica di Maria o nella vergine D1 – non hanno nulla a che fare con le pieghe turbinose e ritorte dei mosaici siciliani, e alla pittura iconica fanno pensare le lumeggiature dorate sulla veste della Vergine. La data del gruppo centrale, quindi quella del programma e della prima messa in opera del mosaico, può dunque situarsi nel corso del secondo o del terzo decennio del secolo, forse in concomitanza o in rapida successione rispetto alla nuova consacrazione della chiesa nel 1215 (Gandolfo 1988, 303). Alcuni studiosi (Stevenson, in Mostra della città di Roma 1884, 206; Clausse 1893, II, 256; de Rossi 1899; Angeli 1904, 396; Frothingham 1908, 323; Cecchelli 1933, 72; Hermanin 1945, 271; Golzio-Zander 1963, 188; Matthiae 1967, 236; Piazza 2010, 128) hanno interpretato la lampada spenta delle due vergini di destra (D1, D2) come un errore di qualche restauro, e quindi non hanno identificato la fonte del soggetto iconografico del mosaico nella Parabola delle vergini sagge e folli di Mt 15, 1-13, vedendovi piuttosto un semplice corteo di sante. In realtà le figure con le lampade spente non sono rifatte (Cantone 1992, 230); al contrario, testimoniano del programma originario del mosaico anteriormente ai primi restauri. Le vergini D1 e D2 hanno in mano la lampada senza fiamma, hanno la testa velata e non coronata e piegano la testa con espressione afflitta. La pertinenza del soggetto della parabola sembra del tutto accettabile, anche se il personaggio centrale non è il Cristo della parabola, ma la Vergine: e la sostituzione non fu casuale. Nel Medioevo, infatti, la basilica trasteverina era creduta sorta sul luogo della Fons olei, fonte di olio sgorgato per giorni, miracolosamente, e annunciante la nascita del Cristo. A partire dall’XI secolo il sito era anche associato alla Taberna meritoria, antico ospizio per soldati invalidi (Kinney 1975, 170-176; Bull-Simonsen Einaudi 1990, 219-220). Un’iscrizione segnalata da Alveri (1664, II, 339) all’interno della chiesa sopra
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7b. SECONDA FASE: VERGINI D3 E D4 Terzo-quarto decennio del XIII secolo
Note critiche
Nel tessuto molto tormentato del mosaico di Trastevere, le tre vergini di destra (D3, D4, D5) costituiscono a nostro avviso, e secondo quanto anche osservato da Oakeshott (1967, 245 e fig. 145), una fase mediana nella realizzazione del mosaico. È un brano cui è stata prestata finora poca attenzione, considerando soprattutto che le figure siano fortemente manipolate da restauri moderni, il che è vero solo in parte; è vero invece che le tre figure non sono tra loro identiche, anche se condividono alcune caratteristiche. Giustamente Oakeshott vede la vergine all’estrema destra (D5; ¤ 57) di maniera più evoluta (e quindi cronologicamente successiva) rispetto alle altre due, abbigliata con una veste serrata alla vita da una cintura che forma pieghe eleganti ed evidenzia il leggero déhanchement del corpo, accompagnato dalla ricaduta ricca ma naturale del manto sopra il braccio che regge la lampada. Le rimanenti due (D3 e D4) hanno ambedue tunica dritta e senza pieghe, come le vergini D1 e D2; la ricaduta delle pieghe sui piedi è un motivo che si trova peraltro già nella D2. I volti, però, non sono altrettanto omogenei: quello della D4 è completamente rifatto, ma quello della D3 è reso in modo più volumetrico rispetto a quelli del gruppo centrale; le sopracciglia arrotondate e le borse sotto gli occhi sporgenti assomigliano a quelle dei volti nella parte bassa dell’abside di San Paolo (¤ 8), o a quelle del Cristo di San Tommaso in Formis (¤ 10). La figura D3 ha panneggi voluminosi, con pieghe pastose rese per sfumature di colore del tutto assenti da quelle secche delle vergini del gruppo centrale e simili invece, di nuovo, a quelli di San Tommaso in Formis. Questa mescolanza di elementi, alcuni affini al gruppo
centrale, altri dissimili, fanno pensare che le figure D3 e D4 siano dovute ad un restauro molto precoce, ma radicale, del mosaico originario, eseguito in uno stile già toccato dai modi delle fasi conclusive del cantiere musivo di San Paolo. Non è peraltro escluso che nella stessa occasione si sia messo mano anche alla vergine D5, poi ulteriormente rimaneggiata. È evidente che i restauratori cercarono di garantire l’omogeneità dell’insieme, non toccando il fregio della cornice e mantenendo proporzioni e atteggiamento delle figure più antiche: nella D3, i cui tratti fisionomici pure derivano dai modelli venezianeggianti del cantiere ostiense, si continuano però a usare le file di tessere blu e rosse come nei volti delle figure centrali. La vera trasformazione, che di certo risale a questo primo restauro, è nel dettaglio delle lampade, che vengono ‘accese’ mutando quindi le originarie vergini folli in vergini sagge. Il motivo però ci sfugge: fu forse null’altro che un errore, anche se è strano pensarlo a così poca distanza dalla prima esecuzione del mosaico. Due notizie del primo Trecento nel necrologio di Santa Maria in Trastevere ritrovato da Stevenson (LBM, ms. 14801) potrebbero mettersi in rapporto con gli interventi alla facciata musiva. La prima cita esplicitamente il mosaico nell’obiit del 15 luglio del «pbri B. de Malpiliis can. n. qui fecit fieri tres ymagines muisaycas virginum supra portas (...)» (Egidi 1908, 95). La seconda segnala al 2 ottobre l’obiit del «pbr. titulo S. Silvestri qui fecit reparari tres imagines musaicas» (Egidi 1908, 99). De Rossi (1899), a differenza di Cecchelli (1933, 38-39), pensa che quest’ultima notizia si riferisca al mosaico della facciata, e ritiene che le immagini restaurate siano le medesime tre di B. de Malpiliis, che avrebbe diviso la spesa con
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l’ingresso principale, ma da Gaume (1857, II, 199) e Bleser (1866, 298) invece situata precisamente sotto il mosaico, recitava: DUM TENET EMERITUS MILES, SUM MAGNA TABERNA / SED DUM VIRGO TENET ME MAJOR NUNCUPOR ET SUM / TUM OLEUM FLUO SIGNANS MAGNIFICAM PIETATEM / CHRISTI NASCENTIS, NUNC TRADO PETENTIBUS IPSAM. L’iscrizione era già distrutta prima della fine del XIX secolo, ed è difficile assegnarle una data: per Forcella (1873, II, 347) è forse cinquecentesca, per Cecchelli (1933, 147) è medievale. Essa in ogni caso attesta l’associazione tra la Fons Olei, la Taberna meritoria, e Santa Maria in Trastevere. Il tema iconografico del mosaico di facciata fu quindi perfettamente coerente con il sito cui era destinato (Wollesen 1998, 91-92): le vergini – folli e sagge – sono un onorifico corteo che si dirige non solo verso la Maria-Mater, ma anche verso la Maria-Ecclesia, simbolo della basilica trasteverina, il luogo dove sgorga l’olio indispensabile a tener accese le loro lampade. I forti riferimenti escatologici e apocalittici (la parabola di un giudizio) non sono troppo distanti da quelli, di formulazione forse più tradizionale, dell’altra grande facciata, quella di San Pietro in Vaticano (¤ 19) (Harding 1983, 164; Wollesen 1998, 93). La trasformazione delle tre vergini folli in vergini coronate e con lampade accese fu dunque, come già voleva Mâle (1942, 218), il prodotto di un restauro e forse di un fraintendimento. Lo stato attuale della facciata – le finestre a tutto sesto e i dipinti murali risalgono al restauro diretto da Vespignani tra il 1865 e il 1869 (Cantone 1992, 232) – non permette di capire se il mosaico si estendeva originariamente non solo al cavetto ma anche al resto della facciata – come sembrerebbe logico – e quale ne fosse l’eventuale soggetto.
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il prete di San Silvestro. Non conoscendo precisamente la data di morte di ambedue i personaggi, non possiamo tirare conclusioni definitive. Tuttavia, le parole usate per Malpiliis – «fecit fieri» – si adatterebbero bene al caso delle tre vergini di sinistra (S5, S4 e S3), che appaiono creazione ex-novo della fine del XIII secolo; l’altra menzione – «fecit restaurari» – si adatterebbe meglio al caso delle tre vergini di destra (D3, D4 e D5): tuttavia, si dovrebbe in questo caso supporre che la morte del prete di San Silvestro sia avvenuta a notevole distanza cronologica dal momento del restauro, e fosse così ricordata nel necrologio.
Interventi conservativi
Anni Settanta del Duecento: pesante rifacimento della vergine D5 (¤ 57). Fine XIII secolo: esecuzione delle vergini S5-S3 (¤ Corpus VI) Pontificato di Niccolò V (1447-1455): sono citati dei restauri, ma senza che vengano precisate le zone interessate (Cantone 1992, 229). Pontificato di Clemente XI (1700-1721): restauri di Pietro Paolo de Christopharis (Furietti 1752, 108). È interessata soprattutto una zona di vari centimetri nella parte bassa del mosaico (Cantone 1992, 232); ARFP, Archivio II Piano – Anticamera – Armadio n. 80, f. 6, Santa Maria in Trastevere: nota per un risarcimento da farsi, 10 feb. 1706 (Cantone 1992, 236-237). Pontificato di Pio VII (1800-1823): sono documentati interventi (Matthiae 1967, 422; Cantone 1992, 229). Pontificato di Leone XII (1823-1829): sono citati restauri senza precisare in quali zone (Cantone 1992, 229). 1985-1989: Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Lazio: pulitura e consolidamento del mosaico (Cajano-Degni 1992, 228).
Documentazione visiva dell’insieme del mosaico
Girolamo Francino, incisione in Le cose meravigliose dell’alma città di Roma, 1588, 20; Alfonso Ciacconio, disegno acquerellato (1590 ca.), BAV, Vat. lat. 5408, ff. 19v-20r (senza le vergini D2-D5); Antonio Eclissi, disegno acquerellato (1630-1640), Windsor RL 9046-9050, 9052; Antonio Eclissi, disegno acquerellato (1630-1640), BAV, Barb. lat. 4404, ff. 1, 2, 4-8; Johann Martin Zempel, incisione in Roma antica e moderna, 1745, I, 174; Jean Baptiste Séroux d’Agincourt (1780-1790),
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Vat. lat. 9841, f. 52r; Séroux d’Agincourt 1826-1829, V, tav. XVIII.16; incisione di I.G. Gutensohn (1823), in Bunsen et al. 1872, tav. XLIV; Achille Pinelli (1832-1835) (riprodotta in Brizzi 1984, 153); incisione, in Fontana 1838 [1855], I, tav. XXXVII; incisione, Rohault de Fleury 1878, II, tav. CII (Virgo lactans); ricostruzione della facciata, acquerello (XIX secolo), Foto ICCD D 1658; cromolitografia, in de Rossi 1899, tav. XXXI; anonimo, disegno (s.d.), Lulworth Manor, Foto Courtauld Inst. 504/6/8 (Fototeca della Biblioteca Hertziana, Roma, B20-284447).
8. IL MOSAICO ABSIDALE DI SAN PAOLO FUORI LE MURA Secondo-terzo decennio del XIII secolo
Fonti e descrizioni
Necrologio di Santa Maria in Trastevere (XIV secolo), LBM, ms. 14801 (in Egidi 1908, 95, 99); Vasari 1550 e 1568 [1967-1968], I, 423; Ugonio 1588, 138r; Grimaldi 1619 [1972], 413; Mancini ca. 1625 [1923], 61; Malvasia 1678, 10; Mabillon 1687, 61; Piazza 1703, 370, 372; Furietti 1752, 99, 108.
Bibliografia
Séroux d’Agincourt 1829, III, 154; Platner et al. 1838, III-2, 662663; Nibby 1839 [1971], 491-492; Melchiorri 1840, 227; Barbet de Jouy 1857, xxiv-xxv, 78-79; Gaume 1857, II, 200; Bleser 1866, 323; Pellegrini 1869, 396; Navone 1878, 220, 223; Rohault de Fleury 1878, II, 52; Stevenson, in Mostra della città di Roma 1884, 205-206; Crowe-Cavalcaselle 1886, 127; Clausse 1893, 254-256; de Rossi 1899; Angeli 1904, 396; Bourgeois 1904, 30; Venturi 1904, 872; Frothingham 1908, 322-323; van Marle 1921, 178; van Marle 1923, 417-418; Venturi 1926, 48; Toesca 1927 [1965], 1022 nota 40; Mann 1928, 121; Cecchelli 1933, 38-39, 66, 72-74; SandbergVavalà 1934, 54; Armellini-Cecchelli 1942, II, 786-787; Mâle 1942, 216-219; Hermanin 1945, 271; Golzio-Zander 1963, 188; Waetzoldt 1964, 51-52; Matthiae 1966a [1988], 143-144; Matthiae 1967, 386, 422; Oakeshott 1967, 244-247; Pericoli Ridolfini 1970, 16; Marinelli s.d. [1972], 62-63; Glasberg 1974, 145-146; Kinney 1975, 302-306; Guide rionali. Trastevere II 1980, 94-96; Kitzinger 1980, 13; Harding 1983, 160-165; Luciani 1987, 18, 20; Gandolfo 1988, 303, 337, 339; Barclay Lloyd 1990, 84; Cantone 1992; DegniCajano 1992, 228; Osborne-Claridge 1996, 224-233; Harding 1997, 19-21; Kuhn-Forte 1997, 737-739; Marchei 1999, 28-30; Schüppel 2007b, 150; Piazza 2010, 127-128. Karina Queijo
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Il mosaico absidale di San Paolo è, nel suo stato attuale, il frutto dei restauri settecenteschi, ma soprattutto del rifacimento attuato a seguito dell’incendio della notte fra il 15 e il 16 luglio 1823. La maggior parte della superficie musiva dovette essere restaurata o rifatta, in modo mimetico rispetto all’originale; ma alcune porzioni dell’opera duecentesca, protette dal calore grazie al monumentale tabernacolo posto nel coro nel 1600, non furono toccate dai restauri ottocenteschi, e sono ancora oggi in situ. L’incisione di Mattheus Greuter (Ciacconio 1630 [1677], c. 48) e il disegno della Biblioteca Angelica (C. 2. 11, c. 17), ambedue anteriori ai restauri documentati, mostrano che a parte qualche variazione nelle iscrizioni e qualche inversione nell’ordine degli apostoli nel registro inferiore (de Rossi 1899), l’iconografia e lo schema compositivo del mosaico attuale sono sostanzialmente pre-ottocenteschi e, presumibilmente, conformi all’originale duecentesco. Al centro del registro superiore, identificato da un’iscrizione come tutti gli altri personaggi, il Cristo, assiso su un trono senza schienale, con il libro aperto e la destra benedicente. Ai suoi piedi il papa Onorio III in proskynesis, minuscolo in rapporto al gigantesco Cristo, con tunica rossa e casula bianca ricamata in oro [3]. Attualmente il papa non ha alcun copricapo; nell’incisione di Nicolai ha sul capo la tiara, mentre il disegno della Biblioteca Angelica mostra la tiara posata per terra ai suoi piedi (Doc. vis.). Poiché la zona in questione – tutta la parte superiore della testa di Onorio a partire dalla metà circa del naso, ma anche una vasta porzione di tessere circostanti – appare completamente rifatta, è difficile dire quale fosse stata la scelta iconografica originaria; ma non è impossibile che il mosaico, pur se restaurato, sia fedele alla redazione duecentesca. Ai lati del Cristo, quattro santi, in piedi e con un rotulo: a sinistra, san Luca e san Paolo, a destra san Pietro e sant’Andrea. Il suolo è verde, abitato da uccelli; alle estremità, due palme; al colmo del catino, la camera fulgens. Al centro del registro inferiore è l’Etimasia, un trono senza schienale rivestito di un drappo azzurro scuro cosparso di stelle; sul drappo sono posati un libro e le Arma Christi; al di sopra del trono appare la Croce gemmata, con al centro una sorta di
grande cammeo ‘intagliato’ con la figura del Cristo in trono. Al di sotto del trono il gruppo dei santi Innocenti, cinque identiche figurine aureolate, vestite di bianco, con la palma e il rotulo nelle mani [14]. Li affiancano le figure del sacrista Adinolfo (Iscr. 39) e dell’abate Giovanni Caetani (Iscr. 41), inginocchiati e con le mani giunte, con abito azzurro e cappuccio. Il resto del registro è occupato dalla teoria degli apostoli ed evangelisti, separati da palme, ognuno con un rotulo: da sinistra Barnaba, Taddeo, Giacomo (Minore?), Matteo, Filippo, Giovanni e infine un angelo, poi, ripartendo dall’Etimasia, un altro angelo, Giacomo (Maggiore?), Bartolomeo, Tommaso, Simone, Mattia e Marco: la posizione degli ultimi due è invertita nell’incisione di Greuter. L’incisione di Nicolai mostra che il terreno era abitato da vari uccelli. Infine, l’intradosso dell’arco ha un ricco fregio vegetale, con alla sommità un medaglione con l’iscrizione HONORIVS. PP.III. Le porzioni musive originarie ancora in situ vanno all’incirca dai piedi del Cristo e dal primo uccello a destra fino al gruppo degli Innocenti e dei due ecclesiastici, includendo la figura di Onorio fino a circa metà della testa, l’Etimasia, i due angeli del registro inferiore, e i due apostoli più centrali, Giovanni e Giacomo. All’incendio sono scampati altri frammenti, staccati presumibilmente nel corso dei restauri settecenteschi, quando il mosaico era in così cattivo stato che si staccava dal muro a pezzi (BAV, Vat. lat. 9023, ff. 133r-140r; Int. cons.). Sono oggi conservati nella sacrestia della basilica (testa di san Pietro [2], due teste di apostoli del registro inferiore [9, 10], quattro figure d’uccelli [4, 5, 7, 8]); inoltre alle Grotte Vaticane si conserva un’altra testa d’apostolo [12], la cui provenienza è già avvertita da Dionisio (1773, 174), e un altro uccello [6], identificato da Oakeshott (1967, 309).
Iscrizioni
La trascrizione delle iscrizioni è stata eseguita direttamente dal mosaico. Si segnalano in apparato le varianti presenti nell’incisione di Mattheus Greuter in Ciacconio 1630 [1677], c. 48. SAN PAOLO FUORI LE MURA / ATLANTE I, 8 77
1 - Iscrizione di committenza, disposta nel sottarco, entro una cornice circolare, allineata su tre righe orizzontali secondo un andamento rettilineo irregolare. Lettere scure su fondo dorato. Intera ma di restauro. Scrittura maiuscola.
Hono/rius p(a)p(a) / III 2 - Iscrizione identificativa, disposta all’interno dell’area illustrata, a sinistra del capo del santo, priva di uno spazio grafico di corredo, allineata in verticale secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere scure su fondo dorato. Intera ma di restauro. Scrittura maiuscola.
S(anctus) / L/u/c/a/s / ev(an)g(elista) 3 - Iscrizione esegetica, disposta all’interno dell’area illustrata, nel rotulo sorretto da san Luca, allineata su sette righe orizzontali, secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere scure su fondo dorato. Intera ma di restauro. Scrittura maiuscola. Fonte del testo: At 9, 22.
Sa^ul<us> / a^ut(em) c<on>/valesce/bat et c<on>fu/ndebat Iu/£d¤eos affi/(r)ma<n>s q(uonia)m / hic e<st> Chr<istu>s r.7. U da noi corretto in D (Iudeos) 4 - Due iscrizioni identificative, disposte all’interno dell’area illustrata, una a sinistra (in greco), l’altra a destra (in latino) del capo del santo, prive di uno spazio grafico di corredo, allineate in verticale, secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere scure su fondo dorato. Intera ma di restauro. Scrittura maiuscola. 4a - A(gioj) / P/a/à/l/o/j 4b - S(an)c(tu)s P/a/u/l/u/s 5 - Iscrizione esegetica, disposta all’interno dell’area illustrata, nel rotulo sorretto da san Paolo, allineata su sette righe orizzontali, secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere scure su fondo bianco. Intera ma di restauro. Scrittura maiuscola. Fonte: Fil 2,10
μ In nomine / Ih(es)u o(m)ne / genu fle/ctatur ca/elestium / terestriu(m) et / infernorum 6 - Iscrizione identificativa, disposta all’interno dell’area illustrata, ai lati del capo di Cristo, priva di uno spazio grafico di corredo, allineata su una riga orizzontale, secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere scure su fondo dorato. Intera ma di restauro.
I(hsoà)j | | C(ristÒ)j 7 - Iscrizione esegetica, disposta all’interno dell’area illustrata, nelle due pagine del libro tenuto da Cristo, allineata su sei righe oblique in ogni pagina, secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere scure su fondo bianco. Intera ma di restauro. Scrittura maiuscola. Fonte: Mt 25, 34.
Veni/te be/nedic/ti pa/tris / mei // per/cipi/te re/gnum / q(uod) v<obis> p<aratum> / a £c¤<onstitutione> m<undi> p.2.r.6. O da noi corretto in C 8 - Iscrizione identificativa, disposta all’interno dell’area illustrata, a sinistra del capo del santo, priva di uno spazio grafico di corredo, allineata in verticale, secondo un andamento rettilineo irregolare. Intera ma di restauro. Lettere scure su fondo dorato. Scrittura maiuscola.
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78 SAN PAOLO FUORI LE MURA / ATLANTE I, 8
S(an)c(tu)s / P/e/t/r/u/s 9 - Iscrizione esegetica, disposta all’interno dell’area illustrata, nel rotulo sorretto da san Pietro, allineata su cinque righe orizzontali secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere scure su fondo bianco. Intera ma di restauro. Scrittura maiuscola. Fonte: Mt 16, 16.
Tu es / Chr(istu)s / fiulius / Dei / vivi 10 - Iscrizione identificativa, disposta all’interno dell’area illustrata, a sinistra del capo del santo, priva di uno spazio grafico di corredo, allineata in verticale, secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere scure su fondo dorato. Intera ma di restauro. Scrittura capitale.
S(an)c(tu)s / A/n/d/r/e/a/s 11 - Iscrizione esegetica, disposta all’interno dell’area illustrata, nel rotulo sorretto da sant’Andrea, allineata su sette righe orizzontali, secondo un andamento rettilineo irregolare. Lettere scure su fondo bianco. Intera ma di restauro. Scrittura maiuscola.
Beatus / Andreas du<m> / penderet / in cruce / deprecaba/tur d(omi) nu(m) / Iesu(s) Cr<i>st<um> 12 - Due iscrizioni segnaletiche, disposte all’interno dell’area illustrata, alla base della calotta, una a sinistra dell’immagine di Onorio III, priva di uno spazio grafico di corredo, allineata su una riga orizzontale, secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere bianche su sfondo scuro. Intera ma di restauro. Scrittura maiuscola. L’altra, sotto la figura del papa, priva di uno spazio grafico di corredo e sovrapposta alla cornice che separa la parte superiore da quella inferiore della calotta, allineata su una riga orizzontale, secondo un andamento rettilineo irregolare. Lettere dorate su fondo nero, bianco e rosso. Intera. Scrittura maiuscola gotica. 12a - Honorius p(a)p(a) III 12b - Honorius p(a)p(a) III Registro inferiore 13 - Iscrizione identificativa, disposta all’interno dell’area illustrata, a destra e a sinistra del capo del santo, priva di uno spazio grafico di corredo, allineata in verticale, secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere scure su fondo dorato. Intera ma di restauro. Scrittura maiuscola.
S(anctus) / B/a/r| |n/a/b/a/s 14 - Iscrizione liturgica, disposta all’interno dell’area illustrata, nel rotulo sorretto da san Barnaba, allineata su sette righe orizzontali, segnate sopra e sotto le lettere, secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere scure su fondo bianco. Intera ma di restauro. Scrittura maiuscola. Fonte: dossologia maggiore (Gloria in excelsis Deo).
Q<u>i s/ede/s ad / dex/tera<m> / p<atris> m<iserere> / n<obis> 15 - Iscrizione identificativa, disposta all’interno dell’area illustrata, a destra e a sinistra del capo del santo, priva di uno spazio grafico di corredo, allineata in verticale, secondo un andamento rettilineo irregolare. Lettere scure su fondo dorato. Intera ma di restauro. Scrittura capitale.
T/h/a/d| |d/a^e/u/s 16 - Iscrizione liturgica, disposta nel rotulo sorretto da san SAN PAOLO FUORI LE MURA / ATLANTE I, 8 79
Taddeo, allineata su sette righe orizzontali, segnate sopra e sotto le lettere, secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere scure su fondo bianco. Intera ma di restauro. Scrittura maiuscola. Fonte: dossologia maggiore (Gloria in excelsis Deo).
Qui / tol/lis p/ecc/ata / m£u¤/n<di> r.6. M da noi corretto in U. 17 - Iscrizione identificativa, disposta all’interno dell’area illustrata, a destra e a sinistra del capo del santo, priva di uno spazio grafico di corredo, allineata in verticale, secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere scure su fondo dorato. Intera ma di restauro. Scrittura capitale.
S(anctus) / I/a/c/o| |b/u/s 18 - Iscrizione liturgica, disposta all’interno dell’area illustrata, nel rotulo sorretto da san Giacomo (Minore?), priva di uno spazio grafico di corredo, allineata su sei righe orizzontali, segnate inferiormente (tranne che nella secondo riga segnata sopra e sotto alle lettere), secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere scure su fondo bianco. Intera ma di restauro. Scrittura maiuscola. Fonte: dossologia maggiore (Gloria in excelsis Deo).
D(omi)ne / fili / uni/gen/ite / I<esu> Ch<riste> 19 - Iscrizione identificativa, disposta all’interno dell’area illustrata, a destra e a sinistra del capo del santo, priva di uno spazio grafico di corredo, allineata in verticale, secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere scure su fondo dorato. Intera ma di restauro. Scrittura capitale.
S(anctus) / M/a/t| |h/e/u/s 20 - Iscrizione liturgica, disposta all’interno dell’area illustrata, nel rotulo sorretto da san Matteo, allineata su cinque righe orizzontali, segnate inferiormente, secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere scure su fondo bianco. Intera ma di restauro. Scrittura maiuscola. Fonte: dossologia maggiore (Gloria in excelsis Deo).
D(omi)ne / Deus / rex / cele/stis 21 - Iscrizione identificativa, disposta all’interno dell’area illustrata, a destra e a sinistra del capo del santo, priva di uno spazio grafico di corredo, allineata in verticale, secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere scure su fondo dorato. Intera ma di restauro. Scrittura capitale.
S<anctus> / P/h/£i¤| |l/i/p/p(us) r.4. V corretta in I, secondo l’incisione in Ciacconio 1630 [1677], c. 48. 22 - Iscrizione liturgica, disposta all’interno dell’area illustrata, nel rotulo sorretto da san Filippo, allineata su cinque righe orizzontali, segnate sopra e sotto le lettere, secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere scure su fondo bianco. Intera ma di restauro. Scrittura maiuscola. Fonte: dossologia maggiore (Gloria in excelsis Deo).
S(anctus) | | I/o/h(anne)/s Io/an/nes, secondo l’incisione in Ciacconio 1630 [1677], c. 48. 24 - Iscrizione liturgica, disposta all’interno dell’area illustrata, nel rotulo sorretto da san Giovanni, allineata su cinque righe orizzontali, segnate sopra e sotto le lettere, secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere scure su fondo bianco. Intera ma di restauro. Scrittura maiuscola. Fonte: dossologia maggiore (Gloria in excelsis Deo).
Be/ned/ici/mu/s te 25 - Iscrizione liturgica, disposta all’interno dell’area illustrata, nel rotulo sorretto dall’angelo a sinistra del trono, allineata su sette righe orizzontali, segnate sopra e sotto le lettere, secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere scure su fondo bianco. Intera ma di restauro. Scrittura maiuscola. Fonte: dossologia maggiore (Gloria in excelsis Deo).
31 - Iscrizione identificativa, disposta all’interno dell’area illustrata, a destra e a sinistra del capo del santo, priva di uno spazio grafico di corredo, allineata in verticale, secondo un andamento irregolare. Lettere scure su fondo dorato. Intera ma di restauro. Scrittura capitale.
S(anctus) / T/h/o| |m/a/s 32 - Iscrizione liturgica, disposta all’interno dell’area illustrata, nel rotulo sorretto da san Tommaso, allineata su sette righe orizzontali, segnate inferiormente nelle prime quattro righe, ma sopra e sotto le lettere nelle ultime tre, secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere scure su fondo bianco. Intera ma di restauro. Scrittura maiuscola. Fonte: dossologia maggiore (Gloria in excelsis Deo).
33 - Iscrizione identificativa, disposta all’interno dell’area illustrata, a destra e a sinistra del capo del santo, priva di uno spazio grafico di corredo, allineata in verticale, secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere scure su fondo dorato. Intera ma di restauro. Scrittura capitale.
S(anctus) / S/i| |m/o/n 34 - Iscrizione liturgica, disposta all’interno dell’area illustrata, nel rotulo sorretto da san Simone, allineata su sei righe orizzontali, segnate sopra e sotto le lettere, secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere scure su fondo bianco. Intera ma di restauro. Scrittura maiuscola. Fonte: dossologia maggiore (Gloria in excelsis Deo).
De(us) p/ate/r om£n¤ip/ote/£n¤s
Et i/n te/rra / pax / h<ominibus> / b<onae> / v<oluntatis>
Gra<tia>/s ag/imu/s ti/bi p<ropter> / m<agnam> / g<loriam> t<uam>
r.4 e r.6. M corretto in N, secondo l’incisione in Ciacconio 1630 [1677], c. 48. Dne per Deus, secondo l’incisione in Ciacconio 1630 [1677], c. 48.
rr.5-7. H B V non trascritte nell’incisione in Ciacconio 1630 [1677], c. 48.
rr.2-3. Agamus, secondo l’incisione in Ciacconio 1630 [1677], c. 48.
35 - Iscrizione identificativa, disposta all’interno dell’area illustrata, a destra e a sinistra del capo del santo, priva di uno spazio grafico
26 - Iscrizione liturgica, disposta all’interno dell’area illustrata, nel rotulo sorretto dall’angelo a destra del trono, allineata su sette righe orizzontali, segnate sopra e sotto le lettere, secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere scure su fondo bianco. Intera ma di restauro. Scrittura maiuscola. Fonte: dossologia maggiore (Gloria in excelsis Deo).
Gl(ori)a / in e/cel/xis /D(e)o rr.2-4. Excelsis, secondo l’incisione in Ciacconio 1630 [1677], c. 48. 27 - Iscrizione identificativa, disposta all’interno dell’area illustrata, a destra e a sinistra del capo del santo, priva di uno spazio grafico di corredo, allineata in verticale, secondo un andamento rettilineo regolare. Il senso di lettura è da sinistra a destra e le lettere sono eseguite in modo speculare. Lettere scure su fondo dorato. Intera ma di restauro. Scrittura capitale a destra e maiuscola a sinistra.
S(anctus) / I/a/c/o| |b/u/s s.2rr.1-3. bus per S(anctus) Iacobus, Nicolai 1815, tav. VIII. 28 - Iscrizione liturgica, disposta all’interno dell’area illustrata, nel rotulo sorretto da san Giacomo (Maggiore?), allineata su cinque righe orizzontali, segnate sopra e sotto le lettere, secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere scure su fondo bianco. Intera ma di restauro. Scrittura maiuscola. Fonte: dossologia maggiore (Gloria in excelsis Deo).
La/ud/am/us/ te 29 - Iscrizione identificativa, disposta all’interno dell’area illustrata, a destra e a sinistra del capo del santo, priva di uno spazio grafico di corredo, allineata in verticale, secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere scure su fondo dorato. Intera ma di restauro. Scrittura maiuscola squadrata.
Glo/rif/ica/m<u>s / te
S(anctus) / B/a/r/t^ho| |l/o/m/e/u/s
23 - Iscrizione identificativa, disposta all’interno dell’area illustrata, a destra e a sinistra del capo del santo, priva di uno spazio grafico di corredo, allineata in verticale, secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere scure su fondo dorato. Intera ma di restauro. Scrittura maiuscola.
30 - Iscrizione liturgica, disposta all’interno dell’area illustrata, nel rotulo sorretto da san Bartolomeo, allineata su quattro righe orizzontali, segnate sopra e sotto le lettere, secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere scure su fondo bianco. Scrittura maiuscola. Fonte: dossologia maggiore (Gloria in excelsis Deo).
80 SAN PAOLO FUORI LE MURA / ATLANTE I, 8
Ado/ram/us / te
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SAN PAOLO FUORI LE MURA / ATLANTE I, 8 81
Trascrizione secondo Severano 1630, p. 397. Prius per pius, papa per papam e Ioannis per Ioannes, Nicolai 1815, tav. VIII (S. Ric.)
Note critiche
L’abside della basilica ostiense, presumibilmente decorata a mosaico già in epoca paleocristiana, era stata già restaurata una volta sotto il papa Simmaco (498-514: LP I, 262). Il secondo restauro accertato è quello progettato da Innocenzo III, il quale destinò «centum libras et XVII uncias auri» al rifacimento del mosaico (Ad Innocenti III Vitam Addimentum [1841], 302). Innocenzo tuttavia non appare nel mosaico, dove invece campeggia il suo successore Onorio, sia in immagine che tramite il nome più volte ribadito nelle iscrizioni. In quella che circonda il catino, e che gioca sul concetto di honor e sul nome del papa, si attesta che Onorio morì prima della conclusione dei lavori, e che il cantiere fu concluso da Giovanni Caetani (da non confondere con Niccolò III come in Nicolai 1815, 20) citato come abate per la prima volta nel 1212 e morto tra 1230 e 1235, che ebbe così modo di farsi effigiare nel mosaico insieme con il sacrista Adinolfo, certo colui che gestiva l’organizzazione del cantiere e forse partecipava al finanziamento. La lettera scritta da Onorio al doge di Venezia il 23 gennaio 1218 (de Rossi 1899) fornisce indicazioni ulteriori. Onorio ringrazia il doge per il mosaicista già inviato a San Paolo, e ne chiede altri due, indispensabili a concludere rapidamente il mosaico («Tue nobilitatis litteras benigne recepimus [...]. Ad hec nobilitati tue gratias referentes de magistro quem nobis misisti pro mosaico opere in beati Pauli ecclesie faciendo. Rogamus devotionem tuam quia cum ipsum tante sit magnitudinis quod per illum non possit citra longi temporis spatium consumari, duos alios in iamdicti operis arte peritos nobis destinare procures [...]»: ASV, Reg. Vat. 9., epist. 864, f. 213v). La componente veneziana è dunque indiscutibile; ma la lettera indica anche che nel 1218 il mosaico era ben lontano dall’essere concluso. La presenza di un mosaicista veneziano già durante il primo anno del pontificato di Onorio, e il fatto che Innocenzo III avesse già attribuito fondi all’opera, sono elementi che fanno pensare ad un cantiere già aperto al momento dell’elezione di Onorio; il programma iconografico poteva quindi esser stato definito nelle linee di fondo già sotto Innocenzo. Questo dato può spiegare le affinità tra il programma dell’abside ostiense e quello vaticano (Andaloro-Romano 2000b, 112-117). A San Paolo, come a San Pietro, il Cristo in trono fu
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di corredo, allineata in verticale, secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere scure su fondo dorato. Intera ma di restauro. Scrittura maiuscola.
S(anctus) / M/a| |t/i/a/s S(anctus) / Mar/cus, secondo l’incisione in Ciacconio 1630 [1677], c. 48. 36 - Iscrizione liturgica, disposta all’interno dell’area illustrata, nel rotulo sorretto da san Mattia, allineata su sei righe orizzontali, segnate sopra e sotto le lettere, secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere scure su fondo bianco. Intera ma di restauro. Scrittura maiuscola. Fonte: dossologia maggiore (Gloria in excelsis Deo).
D<omi>ne / D<eu>s / agn/us D<ei> / fili/us p<atris> r.6. Patr per P, secondo l’incisione in Ciacconio 1630 [1677], c. 48. 37 - Iscrizione identificativa, disposta all’interno dell’area illustrata, a destra e a sinistra del capo del santo, priva di uno spazio grafico di corredo, allineata in verticale, secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere scure su fondo dorato. Scrittura maiuscola.
S(anctus) / M/a/r| |c/u/s S(anctus) / Mat/hias, secondo l’incisione in Ciacconio 1630 [1677], c. 48. 38 - Iscrizione liturgica, disposta all’interno dell’area illustrata, nel rotulo tenuto da san Simone, allineata su sei righe orizzontali, segnate inferiormente, secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere scure su fondo bianco. Scrittura maiuscola. Fonte: dossologia maggiore (Gloria in excelsis Deo). 82 SAN PAOLO FUORI LE MURA / ATLANTE I, 8
Qui / tollis / pecca/ta mun/di sus<cip>e / d<eprecationem> n<ostram> rr.5-6. S D N per suse d n, secondo l’incisione in Ciacconio 1630 [1677], c. 48. 39 - Iscrizione segnaletica, disposta all’interno dell’area illustrata, sotto il trono dell’Etimasia, a sinistra, e sopra la figura del sacrista, priva di uno spazio grafico di corredo, allineata su due righe orizzontali, secondo un andamento rettilineo irregolare. Lettere scure su fondo dorato. Intera. Scrittura maiuscola gotica.
Adinulfus s/ac<r>is| |ta 40 - Iscrizione segnaletica, disposta all’interno dell’area illustrata, sotto il trono dell’Etimasia e sopra le figure dei santi, priva di uno spazio grafico di corredo, allineata su una riga orizzontale, secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere scure su fondo dorato. Intera. Scrittura maiuscola gotica.
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molto probabilmente un’innovazione duecentesca rispetto alla fase paleocristiana. Secondo Gandolfo (1988, 288) le figure di Paolo nei due mosaici potrebbero addirittura derivare dal medesimo cartone: stessa silhouette, stesso gesto, stessa doppia iscrizione in greco e in latino. Anche le due Etimasie hanno forti somiglianze, mentre lo schema a cinque figure dell’abside ostiense, diverso da quello vaticano a tre figure, riflette forse la differenza originaria delle due absidi paleocristiane. L’elemento di più grande diversificazione dell’abside ostiense rispetto alla vaticana è la figura di Onorio, minuscolo, a testa scoperta e in proskynesis. Secondo Gandolfo (2000, 187) e Iacobini (2004, 44) in origine il papa appariva in piedi, con la tiara, presentato al Cristo da san Paolo, mentre dopo la sua morte l’abate Caetani avrebbe fatto rimaneggiare il mosaico, spostando la figura di Onorio, ponendolo in proskynesis, e privandolo della tiara che poteva essere attributo soltanto di un papa vivente. A questa ipotesi ostano tuttavia varie considerazioni. In primo
Hi s(unt) i(n)nocentes 41 - Iscrizione segnaletica, disposta all’interno dell’area illustrata, sotto il trono dell’Etimasia, a destra, e sopra la figura, priva di uno spazio grafico di corredo, allineata su due righe orizzontali, secondo un andamento rettilineo irregolare. Lettere scure su fondo dorato. Intera. Scrittura maiuscola gotica.
Ioh(anne)s Caitan/us | | abas 42 - Iscrizione dedicatoria, disposta alla base della calotta absidale, in una fascia rettangolare, allineata su una riga orizzontale, secondo un andamento rettilineo regolare, come si evince dal disegno di Carlo Ruspi in Nicolai 1815, tav. VIII.
Totius orbis honor quod Honorius artis honore papa pius fecit fulget fulgente decore | | abbas post papam quem Christus ad alta vocavit omne Ioannes opus mira pietate beavit
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SAN PAOLO FUORI LE MURA / ATLANTE I, 8 83
luogo, la zona del mosaico in cui Gandolfo vorrebbe situare la figura originaria del papa non è più medievale: ciò spiega il marcato disordine delle tessere, che non è argomento per un sicuro rimaneggiamento duecentesco. Anche la parte superiore della testa di Onorio, fino all’altezza del naso, è parte di una più ampia zona restaurata [3]; d’altra parte l’attribuzione della tiara a un papa già defunto non è cosa eccezionale – si veda l’oratorio di San Nicola al Patriarchio Lateranense, 1130-1134 (Croisier, in Corpus IV ¤ 49) – né, per converso, è raro trovare papi viventi raffigurati a testa scoperta, come Pasquale I a Santa Maria in Domnica (817-824) o Callisto II e Anacleto II nel citato oratorio di San Nicola. Pasquale I, Callisto II e Anacleto II appaiono per di più in proskynesis, ancorché in modo meno accentuato e indirizzato non al Cristo ma alla Vergine (Ladner 1970, 85); la proskynesis bizantina – come quella dell’imperatore Leone IV nel mosaico del nartece di Santa Sophia (886-912: Whittemore 1933, 14-20) – appare invece nelle porte bronzee di San Paolo, dono di Pantaleone nel terzo quarto dell’XI secolo (Pace 1995 [2000], 83), un testo figurativo ovviamente noto agli autori del programma absidale. Nel mosaico ostiense, l’assenza della tiara e la posizione umile di Onorio sembrano una scelta consapevole, forse dovuta alla volontà dello stesso Onorio di differenziarsi da Innocenzo III (Andaloro-Romano 2000b, 117). L’umiltà di Onorio era d’altronde nota ai suoi contemporanei, come nelle parole di Jacques de Vitry – anch’esse certo in debito a un topos – «bonum senem et religiosum, simplicem valde et benignum, qui fere omnia que habere poterat pauperibus erogaverat» (Jacobus de Vitriaco 1160-1240 [1960], 74). Nell’Ordo di Gregorio X (1272-1276), il ceremoniale della messa pontificale richiedeva che al momento della consacrazione dell’ostia il papa si inginocchiasse, a testa scoperta, in adorazione del Sacramento (Mabillon 1689, 235-236; Ladner 1961, 269). Non è certo che il rituale fosse già in vigore al tempo di Onorio, ma se così fosse, l’assenza della tiara nel mosaico potrebbe suonare come un’allusione all’attitudine del papa davanti all’ostia, nel corso del rito eucaristico: il papa, qui, è in ginocchio direttamente davanti al Cristo, e non soltanto davanti alla sua presenza transustanziata nel Sacramento. La transustanziazione era stata di recente proclamata da Innocenzo III al Concilio Lateranense del 1215 (Constitutiones 1215 [1981], 42); Onorio, nel 1219, dispose che durante la messa
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il Sacramento fosse innalzato e mostrato al popolo, che doveva inchinarsi davanti ad esso (Mangenot 1911, c. 2321). In questo modo Onorio portava a compimento quanto già era affiorato nel XII secolo in Guillaume d’Auxerre, Eudes de Sully (Mangenot 1911, cc. 2320-2328) e anche poi in san Francesco d’Assisi (Ladner 1961, 269); ma si situava anche nella linea delle riflessioni di Innocenzo III, in particolare del De sacro altaris mysterio libri sex (PL CCXVII, cc. 763-920). Accanto agli evidenti elementi di tipo escatologico-apocalittico (la figura del Cristo-Giudice, l’Etimasia), il mosaico di San Paolo presenta anche riferimenti eucaristici, e la coesistenza dei due temi si attua nel gruppo dei santi Innocenti ai piedi del trono. Essi visualizzano il passo dell’Apocalisse 6, 9-11, in cui i martiri cristiani vestiti di bianco si radunano sotto un altare, gridando vendetta per il loro sangue versato. Per mezzo loro, il trono dell’Etimasia diviene così l’altare dell’Apocalisse (Romano 2005a, 559). Il nesso è attestato in un’antifona cantata nella basilica il 28 dicembre, festa dei Santi Innocenti: «Sub throno Dei omnes sancti clamant: vindica sanguinem nostrum Deus noster» (Christe 2000, 92; Romano 2005a, 562). È stato detto che le reliquie degli Innocenti siano state portate a San Paolo dall’Oriente in occasione della Quarta Crociata (de Rossi 1899; Oertel 1938, 264; Christe 2000, 92), ma a nostra conoscenza di questo trasporto non c’è alcuna prova; le ossa dei martiri sono attestate a Gerusalemme e a Costantinopoli all’inizio del Duecento (Exuviae sacrae Constantinopolitanae [1878], II, 209, 217, 224) ma potevano essere presenti a San Paolo da molto tempo, soprattutto se si pensa che ab antiquo a San Paolo si svolgeva la liturgia stazionale appunto nel giorno della festa degli Innocenti, il 28 dicembre (Hesbert 1963-1979, 493, n. 5039; Romano 2005a, 562). Di altre reliquie invece si è più sicuri, in particolare quelle di sant’Andrea, portate ad Amalfi dal cardinale Pietro Capuano (Exuviae sacrae Constantinopolitanae [1878], II, 276): ciò potrebbe spiegare l’evidenza della figura di questo apostolo nel mosaico ostiense, e far pensare ad un forte interessamento del cardinal Capuano – committente del chiostro cosmatesco della basilica – anche al mosaico. Quanto alle Arma Christi, già presenti all’inizio del XII secolo nel Giudizio Universale di Santa Maria Assunta a Torcello, appaiono per la prima volta in ambito romano in questa particolare combinazione con l’Etimasia: e l’assimilazione del trono a un altare accentua
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il loro significato di strumenti del sacrificio di Cristo, e quindi del sacrificio eucaristico. L’Eucaristia diventa così, grazie alla coesistenza di elementi apocalittici-escatologici e di allusioni eucaristiche, il passaggio privilegiato verso la salvezza, e Onorio prosternato mostra ai fedeli il giusto atteggiamento davanti a questo mistero. Spingendosi ancora oltre, si potrebbero associare le parole dell’inno Gloria in excelsis Deo, che appaiono sui cartelli degli angeli e degli apostoli, all’altra parola-chiave, «honor», usata nell’epigrafe dedicatoria quasi certamente concepita già da Onorio, e interpretarle come un’allusione alla frase «Omnis honor et gloria», pronunciata durante la “piccola” elevazione dell’ostia a partire già dal IX secolo (Mangenot 1911, c. 2321). L’interesse mostrato sia da Innocenzo che da Onorio verso le questioni eucaristiche non agevola l’attribuzione del programma iconografico ostiense all’uno o all’altro pontefice. Tuttavia, bisogna dire che in varie opere che ricadono sotto la responsabilità di Onorio compaiono i santi Innocenti o gruppi di martiri anonimi. Onorio sembra essersi particolarmente occupato delle chiese che conservavano le reliquie di questi santi: a Santa Bibiana, dove l’iscrizione cita le sepolture di 5266 martiri (¤ 17), e nel cosiddetto oratorio di Onorio III a San Sebastiano fuori le mura (¤ 15), dove l’affresco del Massacro degli Innocenti forse echeggia la presenza dell’antico mausoleo degli Innocentiores. Se questo è vero, forse fu proprio Onorio, e non Innocenzo, né l’abate Caetani come ritiene Iacobini (1991, 255), a volere le figure degli anonimi martiri nel mosaico absidale di San Paolo. Ci sono comunque sufficienti indizi per negare l’iniziativa a Caetani e a Adinolfo: non sembra spettare a loro la programmazione di questa zona del mosaico, dato che le loro stesse figure vi sono inserite a forza, strette contro i piedi degli angeli, ma a loro volta senza piedi per mancanza di spazio (Gandolfo 1988, 288). Gli Innocenti invece hanno tutto lo spazio necessario. Senza di loro, l’Etimasia avrebbe per così dire navigato al di sopra di uno spazio vuoto: sembra legittimo
considerarli pertinenti ad una redazione ragionata dell’opera, e non ad una modifica in parte anche mal riuscita. Possiamo dunque considerare che nel 1227, alla morte di Onorio, il mosaico potesse essere tutto progettato e quasi finito, e che l’opera di Caetani si sia limitata al completamento della zona più bassa e all’inserzione delle due nuove figure. La sequenza esecutiva fu dall’alto in basso, e – verosimilmente – in orizzontale nel registro inferiore, apostolo per apostolo. La parte centrale con l’Etimasia poteva quindi essere già conclusa nel 1227, mentre alcune figure di apostoli potevano essere ancora in lavorazione. Il fatto che il Caetani abbia preso in mano il cantiere e si sia fatto effigiare nel mosaico si spiega facilmente con il prestigio della sua carica (Onorio stesso nel 1218 aveva confermato i privilegi dell’abate ostiense e il permesso di indossare la mitra: Brentano 1974, 218), e il ruolo da lui giocato nel completamento del chiostro della basilica mostra ulteriormente la sua capacità gestionale (Claussen 1987, 134); il sacrista Adinolfo deve aver avuto un ruolo notevole, non si sa se anche finanziario come più tardi a Sant’Agnese fuori le mura (¤ 49) la sacrista Jacoba. Rimangono attuali le considerazioni di Valentino Pace (1991) circa la forte autonomia e il protagonismo dei Benedettini ostiensi, fosse pure vis-à-vis del papa. L’argomento principale nella discussione sulla provenienza dei mosaicisti attivi a San Paolo è stato naturalmente, fin dal momento della sua prima pubblicazione, la lettera di Onorio. Le argomentazioni addotte per affermare il legame stretto fra il mosaico ostiense e i mosaici di San Marco a Venezia richiedono tuttavia qualche attenzione. Secondo Demus, il primo e il secondo maestro attivi al pannello di San Marco con l’Orazione nell’Orto sarebbero i medesimi che il doge Ziani invia a Roma (Demus 1966, 130; Id. 1984, 19-20); Gandolfo, invece, sottolinea l’unitarietà stilistica del mosaico ostiense, e ritiene che sia stato realizzato sotto la direzione di un unico maestro, ancorato allo stile dei mosaici marciani della Passione, di fine XII secolo, dunque anteriori di vari anni all’Orazione nell’Orto (Gandolfo 1997, 166-167). SAN PAOLO FUORI LE MURA / ATLANTE I, 8 85
contemporanea di vari artefici veneziani, forse appunto il primo maestro arrivato a Roma, accompagnato dai suoi aiuti. Altre caratteristiche formali del mosaico romano, in particolare le espressioni fisse dei volti, la cui forma tende ad arrotondarsi, o le pieghe sulla fronte a forma di “m” echeggianti il profilo delle sopracciglia [10], appaiono poco veneziane, e sembrano diventare più forti e più frequenti via via che l’esecuzione del mosaico prosegue e si avvicina alla conclusione. Sono specialmente visibili nei volti degli angeli e negli apostoli a destra nel registro inferiore (l’apostolo Giacomo accanto all’angelo, Simone [10], e l’apostolo delle Grotte [12]), e nelle figure di Adinolfo e del Caetani [15] cancellano praticamente i dati veneziani. Questi elementi hanno spinto Boskovits (1993, 66-68) a giudicare i mosaici ostiensi molto radicati nella tradizione locale, ma sono stati anche spiegati con l’eventuale presenza nel cantiere ostiense di artefici che avevano lavorato nel cantiere vaticano, e che avevano dunque una formazione di base siciliana (Iacobini 1991, 255; Parlato-Romano 1992 [2001], 105; Gandolfo 1997, 167) (¤ 5). L’ipotesi è credibile, dato che alla fine del cantiere vaticano Roma si trovava a disporre di manovalanza specializzata, e che lo stesso Innocenzo III poteva aver fatto affidamento su di essa per intraprendere il nuovo cantiere a San Paolo (Iacobini 2004, 41). Il dato innovatore e sorprendente è, al contrario, che si sia andati a cercare artefici a Venezia: Iacobini (2004, 43) lo interpreta quale volontà di innovare rispetto ai lavori intrapresi da Innocenzo III a San Pietro. Si trattò tuttavia anche di una necessità pratica, causata dal molto lavoro in corso a Roma. A San Pietro, già Innocenzo III aveva fatto restaurare il mosaico della facciata (¤ 19), ed era in corso quello della facciata di Santa Maria in Trastevere (¤ 7); forse – nessuna certezza è qui possibile – si lavorava forse anche all’abside di Santa Bibiana (¤ 17). I grandi cantieri siciliani erano ormai chiusi: l’expertise veneziana era la soluzione più logica.
1828-1836: restauro da parte dell’Accademia di San Luca (Melchiorri 1840). 1889-1893: lavori di consolidamento, necessari perché il mosaico si stacca dal muro (ACS, AA.BB.AA., II versamento, 2° serie (1891-1897), b. 418, fasc. 4632, pos. 2, Roma-Basilica S. Paolo, restauro dei Musaici, 1889; ACS, AA.BB.AA., Primo versamento 1860-1890, b. 575, fasc. 923, 10, Roma basilica di S. Paolo, lavori urgenti 1890). 1938-1939: pulitura e restauro (Ladner 1970, 80).
Documentazione visiva
Alfonso Ciacconio, disegno acquerellato (1590 ca.), BAV, Vat. lat. 5407, f. 61r (Onorio III); BAM, F. 221 inf. 2, f. 24; disegno acquerellato, BAM, A. 178 inf. f. 42r (Adinolfo e Giovanni); disegno acquerellato (1599 ca.), BAR, C. 2. 11, c. 17; incisione di Mattheus Greuter in Ciacconio 1630 [1677], c. 48 (reimpresso nel disegno della Raccolta Lanciani, BIASA, Roma. XI. 47.III, f. 3 (31908); Giovan Battista Piranesi, Spaccato interno della basilica di S. Paolo fuori delle mura (1748 ca.) (in Wilton-Ely 1994, I, 181); Giovanni Paolo Pannini, olio su tela (1750 ca.), MPM; Giovanni Battista Piranesi, acquaforte (1766), GDSBAV, Stampe Cartella Piranesi Fondo Ashby 14 (1); Dionisi 1773, tav. LXIX.2; vedute disegnate da Carlo Ruspi e incise da P. Ruga e Giuseppe Mochetti, in Nicolai 1815, tavv. II, III, IV e VIII; incisione su disegno di Knapp, Mosaico della tribuna della Basilica di S. Paolo, del 13mo secolo (1822), pubblicato in Bunsen et al. 1872, tav. XLV; incisioni su disegno di Gutensohn (1822), pubblicati in Bunsen et al. 1872, tavv. V e VII; Luigi Rossini, incisione per Antichità romane, 1823; Antonio Acquaroni, Veduta interna della Basilica di S. Paolo presa immediatamente dopo il suo incendio, inc. 1823, ASP; B. Pinelli, disegno, La Basilica dopo l’incendio; Filippo Bombelli, olio su tela (1836), MV-CARM, inv. 42651; Fontana 1870, tavv. XVII e XVIII; disegno acquerellato (1823-1833), BIASA, Racc. Lanc., Roma. XI.47.III, f. 4 (31872).
Interventi conservativi e restauri
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L’identità stilistica tra il mosaico ostiense e i mosaici marciani non appare tuttavia indiscutibile. I volti veneziani sono più larghi, più raffinati; non mostrano gli zigomi rossi tipici delle opere romane. Il san Pietro veneziano – l’unico apostolo dell’Orazione nell’Orto che abbia gli occhi aperti – ha capelli a grossi boccoli e panneggi molto angolosi; i capelli delle figure di San Paolo hanno ciocche ondulate e ben ordinate, e i loro panneggi sono più morbidi. Nulla prova, ovviamente, che il doge Ziani abbia veramente risposto alla richiesta di Onorio e abbia inviato a Roma i due mosaicisti che Demus cerca di rintracciare; ma anche se si accettasse il riferimento ad un unico e più arcaico artista, come vuole Gandolfo, non si potrebbe comunque riconoscere l’identità della maniera dei mosaici della Passione, raffinati e grafici, con quella ostiense, più pesante e meno concitata. Forse qualche nesso più convincente – se si cerca un confronto all’interno della basilica marciana – potrebbe trovarsi con le figure della cupola centrale, alla fine del XII secolo (Demus 1984, 171-195). Nei volti degli apostoli veneziani ci sono affinità con il Pietro [2] e il Giovanni [11] di San Paolo, specie per le proporzioni allungate, il profilo sinuoso, la disposizione serpentina delle tessere attorno ai volumi della fronte e degli zigomi, la pelle aggrottata fra le sopracciglia, le ombre marcate attorno agli occhi. I capelli del san Simone (?) romano [10], lisci in alto e ricadenti a ciocche sulle tempie e sulla fronte, si confrontano con quelli del Bartolomeo delle Storie degli apostoli della navata sud della basilica marciana, circa 1200. Un confronto interessante tra il volto di Onorio, nella sua parte inferiore che è l’unica medievale, e le teste di Michea e Gioele dei mosaici nel braccio occidentale di San Marco, è proposto da Iacobini (2004, 43): il fatto che questi indizi si ritrovino in misura variabile in tutto il mosaico ostiense fa pensare alla presenza in
1730-1747: il mosaico è in cattivo stato, e Clemente XII fa intraprendere restauri, tuttavia rapidamente interrotti e ripresi sotto Benedetto XIV (Marangoni 1742, 183; Nicolai 1815, 28). Ante 1773, forse durante i restauri degli anni Quaranta: la testa dell’apostolo imberbe [12] viene staccata, molto probabilmentte insieme agli altri frammenti attualmente nella sacrestia, e viene depositata alle Grotte Vaticane dove la vede il Dionisio nel 1773. De Rossi (1899) dice che gli anziani si ricordano di aver visto i frammenti nella sacrestia della basilica prima dell’incendio. 15 luglio 1823: incendio. Le sole parti del mosaico rimaste indenni sono quelle protette dal monumentale tabernacolo situato nel coro nel 1600.
Fonti e descrizioni
Ad Innocenti III Vitam Addimentum [1841], 302; ASV, Reg.Vat. lib. 2 (Reg. Vat. 9), epist. 864, f. 213v (Pressutti 1888 [1978], I, 173); LP II, complementi, 453; Onofrio Panvinio (1560), BAV, Vat. lat. 6780, f. 47; Panvinio 1570 [lat.], 73; Ugonio 1588, 237v; Severano 1630, 397; Baglione 1639 [1990], 79; Marangoni 1747, 183; Furietti 1752, 93; Dissertazione sopra la fabbrica... (XVIII secolo) BAV, Vat. lat. 9023, ff. 122r-153r; Dionisi 1773, 174.
Bibliografia
Nicolai 1815, 20, 26-29, 308; Nibby 1839 [1971], 580, 584; Melchiorri 1840, 207-209; Sarti-Settele 1840, 8; Roma descritta 1856, 95; Barbier de Montault 1866, 44; Letarouilly 1868, 689, 696; Pellegrini 1869, 561-562; Fontana 1870, 15-16; CroweCavalcaselle 1886, 131-132; Clausse 1893, 310-315; de Rossi 1899; Marucchi 1902, 139-141; Bourgeois 1904, 31; Venturi 1904, 874-876; Wilpert 1916, II, 549-554; van Marle 1921, 179180; van Marle 1923, 418-419; Lavagnino s.d. [1924], 11, 49-50; Venturi 1926, 40-41; Toesca 1927 [1965], 977, 1000; Demus 1931, 90; Schuster 1934, 110-112; Lavagnino 1936, 394; Oertel
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1938, 264; Armellini-Cecchelli 1942, II, 1162; Demus 1949 [1988], 454; Hoogewerff 1955, 306; Salmi 1955, 20-21; Ladner 1961, 247, 249-250; Waetzoldt 1964, 64; Bettini 1966, 38; Demus 1966, 130; Matthiae 1966a [1988], 118-120; Lazarev 1967, 243; Matthiae 1967, 128, 337-341; Oakeshott 1967, 70, 295-297, 309, 377; Parsi 1968, I, 109; Ladner 1970, 80-91; Marinelli s.d. [1972], 21, 65; Bettini 1974, 73; Glasberg 1974, 122, 148; Zuliani 1974a; Wilpert-Schumacher 1976, 85-87; Krautheimer 1980 [1999], 547; Lanz 1983, 100-103; Demus 1984, 19-20, 223-224; Pace 1986a, 423-425; Gandolfo 1988, 286-290; Iacobini 1991, 248257; Pace 1991, 181-183; Parlato-Romano 1992 [2001], 104105; Boskovits 1993, 66-68; Gandolfo 1997, 164-171; Monciatti 1997, 515-517; Andaloro-Romano 2000b, 112-117; Christe 2000, 92; Gandolfo 2000, 186-188; Kessler-Zacharias 2000, 176-177; Gardner 2003, 1250; Valenziano 2003; Gandolfo 2004, 3436; Iacobini 2004, 41-54; Romano 2005a; Docci 2006, 79-81; Viscontini, in Atlante I (¤ 8, 97, 101); Ballardini 2007, 273, 276-279. Karina Queijo
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9. L’ICONA MUSIVA CON LA VERGINE E IL BAMBINO IN SAN PAOLO FUORI LE MURA Primo quarto del XIII secolo
Nell’attuale cappella del Sacramento in San Paolo fuori le mura si conserva un mosaico su supporto ligneo, che rappresenta una Madonna col Bambino del tipo dell’Odigitria. La Vergine è avvolta da un manto blu con decorazioni dorate, che le copre la testa, con sulla fronte una stella d’oro. Il Bambino ha un rotulo nella mano sinistra e la destra benedicente; è vestito con tunica rossa a rialzi dorati, stretta alla cintura e al petto da una fascia di tessuto azzurro. Il nimbo crociato è gemmato e perlato, mentre il profilo dell’aureola della Vergine è segnato solo da due file di tessere rosse e bianche. Il bordo del pannello – a motivi cruciformi alternativamente blu, rossi e verdi su fondo bianco – è in gran parte frutto di rifacimenti, specie nella parte bassa dove fu rifatto all’inizio del Novecento; precedentemente, come si vede nell’acquerello di Wilpert [1], tutta la parte bassa era perduta.
Iscrizioni
1 - Iscrizione identificativa, disposta all’interno dell’area illustrata, ai lati della Vergine, priva di uno spazio grafico di corredo, allineata su due righe orizzontali, secondo un andamento rettilineo irregolare. Lettere scure su fondo dorato. Intera. Scrittura maiuscola gotica.
M/a/t(er) | | D(omi)ni (S. Ric.)
Note critiche
Davanti a questa immagine Ignazio di Loyola prese i voti nel 1541: questo evento è la prima testimonianza dell’esistenza dell’icona in San Paolo fuori le mura. L’opera non ha attirato mai molta attenzione da parte della critica, che si è limitata a inserirla tra le opere del Duecento romano. Il fatto che si trovi a San Paolo, tuttavia, ha indotto a qualche riflessione circa i possibili nessi con la bottega veneziana attiva al mosaico absidale. Matthiae (1967) pensava che ne fosse autore uno dei maestri veneziani dell’abside, mentre Gandolfo (1988) la crede opera di un artista di seconda generazione rispetto ai maestri dell’abside, e sottolinea le somiglianze con le figure dei santi Innocenti e dei benedettini, rappresentati nella fascia bassa del mosaico absidale (¤ 8). Iacobini (1991), per il quale l’autore è un marmoraro romano, mette in evidenza alcune affinità con la Madonna col Bambino del saccello di San Zenone a Santa Prassede (¤ 29), e Pace (1997 [2000]), riprendendo il nesso con la Vergine di San Zenone, ritiene l’Odigitria di San Paolo anteriore di «un decennio, un ventennio, di più?» al mosaico di San Zenone, che egli data tra il 1255 e il 1275. Il nesso con la Vergine di San Zenone appare tuttavia meno forte di quanto sia stato detto. È vero che le vesti dei personaggi sono molto simili, e che ombre e luci dei volti sono in ambedue i casi resi con tessere blu e rosse; ma l’ovale della Vergine di San Paolo è meno arrotondato dell’altro, e i panneggi delle vesti sono meno sciolti e cromaticamente più poveri: le pieghe, chiuse e rigide, assomigliano piuttosto a quelle della figura della Virgo lactans di Santa Maria in Trastevere (¤ 7a). Rispetto al mosaico dell’abside, è evidente che il confronto con i frammenti staccati non tiene, e che le maggiori affinità sono, come indicato da Gandolfo (1988), quelle con le figure dei benedettini del registro basso, quindi con una fase che non è certo più fortemente veneziana. Per alcuni tratti fisionomici – le ‘borse’ sotto gli occhi, il lungo naso, la bocca piccola, gli zigomi rosati – l’icona mantiene nessi anche con le opere di più o meno diretta ascendenza siciliana, ad esempio con l’affresco di San Bartolomeo all’Isola (¤ 4), ma in versione strettamente locale.
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Interventi conservativi e restauri
Ante 1596: anteriormente ai lavori eseguiti sotto Clemente VIII, l’icona era addossata al pilastro destro dell’arco trionfale, dalla parte della navata (Docci 2006, 200). Dal 1596: in seguito al rinnovamento degli altari addossati ai pilastri dell’arco trionfale, l’icona viene trasportata al pilastro di sinistra del muro divisorio del transetto (Docci 2006, 200, 202). Maggio 1725: conclusa la costruzione della cappella del Sacramento, all’epoca dedicata al Crocifisso, vi si pongono il Crocifisso detto del Cavallini e l’icona. Poco prima del 1917: in occasione dello studio del Wilpert, l’icona è messa in maggiore evidenza all’interno della cappella; si integra la parte inferiore della bordura e la fascia bassa del manto della Vergine.
Documentazione visiva
Giovanni Maggi, incisione a bulino (1618), ASP; Wilpert 1916, III, tav. CXIX.
Fonti e descrizioni
Visitatio Basilicae S. Pauli, die X novembris 1624, ASV, Misc., Arm. VII, 111, f. 69v; Panciroli 1625, 656; Baglione 1639 [1990], 79.
Bibliografia
Nicolai 1815, 37; Wilpert 1916, II, 558-560; van Marle 1921, 186; van Marle 1923, 421; Arslan 1926-1927, 762 nota 7; SandbergVavalà 1934, 38; Schuster 1934, 228; Hermanin 1945, 273; Matthiae 1967, 340; Oakeshott 1967, 256-258; Dejonghe 1969, 110; Marinelli s.d. [1972], 64; Glasberg 1974, 149; Wilpert-Schumacher 1976, 338-339; Gandolfo 1988, 305; Tomei 1988, 56; Iacobini 1991, 294; Pace 1997 [2000], 117; Docci 2006, 101, 200, 202; Viscontini, in Atlante I (¤ 8, 101). Karina Queijo
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10. IL MOSAICO DELL’INGRESSO MONUMENTALE DI SAN TOMMASO IN FORMIS Secondo decennio del XIII secolo
Sull’arco di ingresso al complesso monastico di San Tommaso in Formis, antica sede dell’ordine dei Trinitari, c’è un grande medaglione a mosaico (ø cm 176) al centro di un’edicola a due colonnette. Rappresenta un Cristo assiso in un trono senza schienale; ha ambedue le braccia tese, veste una tunica rosata e un manto azzurro scuro; i piedi, calzati di sandali sottili, poggiano su uno sgabello semicircolare. Alla sua destra un personaggio di pelle bianca, piccolo, vestito solo di un panno attorno ai fianchi, con una croce a lunga asta nella sinistra e legato per ambedue i piedi al trono divino. Alla sinistra del Cristo invece un personaggio a pelle scura, con un panno chiaro alla vita; tiene in mano i capi dei legacci che gli avvincono i piedi. L’iscrizione che corre attorno al bordo del medaglione cita il motto dell’ordine dei Trinitari (Iscr. 1).
Iscrizioni
1 - Iscrizione segnaletica, disposta lungo la cornice, allineata su una riga secondo un andamento circolare non sempre regolare. Lettere dorate su fondo blu. Mutila e restaurata. Scrittura maiuscola.
μ Signum ordinis sanctae Trinitatis et captivorum (S. Ric.)
Note critiche
L’ordine dei Trinitari era stato fondato da Giovanni de Matha alla fine del XII secolo, qualche anno dopo la caduta di Gerusalemme (1187), allo scopo di liberare i prigionieri cristiani detenuti specialmente in Terrasanta. L’impulso a fondare l’ordine era venuto a Giovanni de Matha da una visione avuta a Parigi nel 1193, mentre celebrava la sua prima messa, durante la quale gli sarebbe apparso Dio o il Cristo in maestà, tenendo un prigioniero moro in una mano e un prigioniero bianco nell’altra (Cipollone 1984, 33). In alcuni testi del Seicento al Dio/Cristo si sostituisce un angelo (Panciroli 1625, 120), secondo una tarda variante della tradizione originale relativa alla visione la quale è comunque già attestata nel XIII secolo (Cipollone 1984, 33-34). Il nuovo ordine è riconosciuto ufficialmente il 17 dicembre 1198 da Innocenzo III (Die Register Innocenz’ III 1964, I, 703-708), che nel 1209 concede ai Trinitari come sede dell’ordine il complesso di San Tommaso in Formis (Cipollone 1984, 50). La visione di Giovanni figurava sui sigilli dell’ordine – il più antico (1203), oggi perduto, veniva dal convento di Marsiglia – e sull’ingresso delle fondazioni trinitarie che accoglievano i prigionieri recentemente liberati (Svizzeretto 2003, 397). Il medaglione sull’ingresso di San Tommaso riproponeva dunque un tema diffuso in seno all’ordine; l’iscrizione lo designa quale
«signum ordinis sanctae Trinitatis», dunque “emblema”, ma anche “sigillo” dei Trinitari. Dal punto di vista iconografico, il medaglione è conforme alla visione di Giovanni de Matha e mette in risalto la missione essenziale dell’ordine: liberare i prigionieri cristiani dagli infedeli. I due prigionieri raffigurati, il cristiano con la croce e l’altro, che verosimilmente rappresenta un infedele, sono così trattati in modo diverso: i lacci del prigioniero bianco (cristiano) sono legati al trono divino e sembrano sciogliersi, mentre quelli del prigioniero nero (non cristiano) gli stringono ancora le caviglie, e lui stesso li tiene nella mano. È probabilmente il riflesso del diverso modo in cui i Trinitari trattavano i prigionieri: essi si occupavano di liberare anche degli infedeli, ma in genere solo per scambiarli in seguito con prigionieri cristiani (Règle de l’ordre des Trinitaires: Svizzeretto 2003, 399). Il prigioniero nero quindi conserva le proprie catene, perché non è veramente libero, ma servirà solo come moneta di scambio (Svizzeretto 2003, 399). Il mosaico però propone anche un altro livello di lettura, più escatologico. Il non cristiano tiene lui stesso le proprie catene perché non potrà mai essere libero se non prenderà anch’egli la croce per seguire la religione cristiana, la sola che garantisce non solo la liberazione del corpo (tramite i Trinitari), ma anche quella dell’anima, poiché solo il Cristo, per mezzo della morte in croce, permette la redenzione, dunque il riscatto, dei peccati, e la salvezza dell’anima (Svizzeretto 2003, 400). Il modo in cui il Cristo tiene il prigioniero cristiano ricorda le raffigurazioni della vittoria del Salvatore sulla morte: l’Anastasis, dove il Cristo solleva Adamo dall’Inferno tenendolo per il polso, come ad esempio nel Giudizio Universale di Santa Maria Assunta di Torcello (Cipollone 1984, 116; Polacco 1984), ma anche le opere paleocristiane in cui il Cristo resuscita qualcuno dalla morte (ad esempio nella Resurrezione della figlia di Giaro della Lipsanoteca di Brescia, IV secolo: Brandenburg 1987, 124). Più in generale, per l’opposizione tra la destra e la sinistra del Cristo, il rinvio visuale è ai Giudizi dove compaiono l’Ecclesia e la Sinagoga. Il prigioniero cristiano è dunque raffigurato, per più d’un verso, con tratti di privilegio. L’ingresso monumentale di San Tommaso in Formis è opera firmata dal marmoraro Iacobus con suo figlio Cosma; l’iscrizione + MAGISTER IACOBUS CVM FILIO SVO COSMATO FECIT OHC OPVS (Claussen 1987, 91) si trova su una delle ghiere del portale. La stessa paternità è nel portico del duomo di Civita Castellana, che oltre alla firma reca anche la data del 1210 (Claussen 1987, 67-71). Alcuni studiosi hanno voluto vedere somiglianze stilistiche tra il busto musivo del Cristo nella lunetta del portale nord di Civita Castellana e il medaglione di San Tommaso (Platner et al. 1837, III-1, 492; Crowe-Cavalcaselle 1864, 99-100). È stato solo Gandolfo (1988), seguito da Iacobini (1991) e poi dalla Svizzeretto (2003), a sottolineare che le due opere non presentano alcuna reale affinità, il Cristo di San Tommaso essendo molto più plastico rispetto all’altro. Per spiegare la divergenza stilistica all’interno di due opere situate in edifici firmati dalla medesima bottega, Gandolfo suppone che per l’esecuzione di mosaici figurativi Iacobus facesse appello a specialisti, al contrario dei Vassalletti che – verosimilmente – eseguivano loro stessi le piccole porzioni di mosaico figurato all’interno delle loro opere, come ad esempio il fregio del portico di San Lorenzo fuori le mura (¤ 11) (Gandolfo 1988, 305). Il medaglione di San Tommaso è stato legato alle opere cosmatesche romane (Hermanin 1945, 141), alle tendenze bizantinizzanti nella Roma di Innocenzo III (van Marle 1921, 177), o infine alle ricadute del cantiere di San Paolo (Mitchell 1980, 29; Gandolfo 1988, 304). Alcuni tratti del volto del Cristo, specie degli occhi, si ritrovano in effetti in opere romane del primissimo Duecento, come l’affresco di San Bartolomeo all’Isola (¤ 4), mentre la capigliatura e gli zigomi rossi del prigioniero richiamano ad esempio l’Ecclesia da San Pietro in Vaticano (¤ 5). La plasticità del volto, le ombre
sotto gli occhi e le sopracciglia, spingono però a supporre che gli artefici già conoscessero quanto accadeva nel cantiere musivo dell’abside di San Paolo, alcuni anni dopo gli episodi innocenziani citati. Secondo Claussen, il portale monumentale e il medaglione musivo non sono separabili, come aveva invece pensato la Enking (Claussen 1987, 94; Enking 1964, 52); ma a nostro avviso, per ragioni stilistiche, una leggera postdatazione sia del mosaico, che del connesso portale, rispetto all’anno di installazione dei Trinitari sul Celio, 1209, non sarebbe impossibile. Si ricordi ad esempio che nel 1217 cade appunto la conferma dei beni dell’ordine da parte di Onorio III (ASV, Reg. Vat. 9, ff. 83r-83v, n. 319; Pressutti 1978, I, 66, n. 374). Il mosaico così si situerebbe in un momento cruciale per lo sviluppo del linguaggio duecentesco romano, tra le novità apportate dagli artisti veneziani in città, e la persistenza delle formule più tradizionali, e costituisce probabilmente una delle prime riformulazioni locali dello stile di San Paolo.
Interventi conservativi e restauri
1987: restaurato da Rossano Pizzinelli (SBAP; consolidamento, pulitura, ricostruzione dell’ultima parte dell’iscrizione).
Documentazione visiva
Alfonso Ciacconio, disegno acquerellato (1590 ca.), BAV, Vat. lat. 5407, f. 53v; incisione (primi anni del XVIII), MCN, lamina n. 4186 («Portada», riprodotta in Cipollone 1984, tav. L); incisione (1781), pubblicata in Bullarii Ordinis, II, 48-49 («Prospectus», riprodotta in Cipollone 1984, tav. LI); Jean Baptiste Séroux d’Agincourt, disegno (1780-1790), BAV, Vat. lat. 9841, ff. 51r, 55v; Séroux d’Agincourt 1826-1829, V, tav. XVIII.9; Johann Anton Ramboux (†1866), acquerello, DKK, Inv. n. 97 neg. n. 8505/7; de Rossi 1899, tav. XXXVI.
Fonti e descrizioni
Panciroli 1625, 120-121; Ioannes a Conceptione 1664, 44; Vasi 1771, I, 75; Cano y Nieto 1776, 449-451; Forcella 1876, VII, 193.
Bibliografia
Séroux d’Agincourt 1826-1829, III, 154; Platner et al. 1837, III-1, 492; Barbet de Jouy 1857, 112-113; Crowe-Cavalcaselle 1864, 99-100; Bleser-Roger 1866 [1900], 340; Forcella 1876, VII, 190, 193; Grifi 1877, 8; Adinolfi 1881 [1981], 348-349; CroweCavalcaselle 1886, 154-155; Armellini 1891, 504; Clausse 1893, 466-467; de Rossi 1899; Angeli 1904, 583; Venturi 1904, 791-792; Frothingham 1908, 326; Stettiner 1911, 364; van Marle 1921, 177-178; van Marle 1923, 417; Venturi 1926, 41-42; Dell’AssuntaRomano di S. Teresa 1927, 92; Casarini 1934, 213; Bessone Aurelj 1935, 79, 174; Hermanin 1945, 67, 263, 273; Hutton 1950, 13; Matthiae 1960b, 58; Golzio-Zander 1963, 201; Enking 1964, 53; Escobar 1964, 62; Matthiae 1966a [1988], 147; Matthiae 1967, 386-387; Oakeshott 1967, 295, 298-299; Ponti 1967, 357; Glasberg 1974, 155; Grioni 1975, 162; Petrassi 1975, 293; Caraffa 1978, 23; Devisse 1979, 146; Mitchell 1980, 29; Guide rionali. Celio I 1983, 74; Harding 1983, 129-132; Cipollone 1984; Toubert 1985; Pace 1986a, 426; Claussen 1987, 92-94; Gandolfo 1988, 304-305; Lafontaine-Dosogne 1988; Iacobini 1991, 246-248; Antellini 1992; Parlato-Romano 1992 [2001], 155-156; Harding 1997, 15-17, 25; Kuhn-Forte 1997, 50-51; Bonavia et al. 2000, 562-567; Iacobini 2003, 1287; Svizzeretto 2003, 397-402; Severi 2004, 133; Tomei 2007, 615. Karina Queijo
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90 SAN TOMMASO IN FORMIS
SAN TOMMASO IN FORMIS 91
11. IL FREGIO A MOSAICO SULL’ARCHITRAVE DEL PORTICO DI SAN LORENZO FUORI LE MURA Pontificato di Onorio III
L’architrave del portico di San Lorenzo reca un fregio a mosaico cosmatesco, con al centro, all’altezza dell’ingresso principale della chiesa, due pannelli figurativi, distrutti dalle bombe del 19 luglio 1943 e solo parzialmente ricostituiti dai restauri del 1946-50; ne abbiamo le copie di Eclissi [3, 4], e alcune foto di prima della distruzione (Doc. vis.). Il riquadro a sinistra mostra tre personaggi a mezzo busto, al centro il Cristo frontale e imberbe con il libro e la destra benedicente; a sinistra una santa col capo velato che tende le mani verso il Cristo, e a destra santo Stefano con le pietre attorno alla testa e un tempo – secondo Eclissi – vestito con una dalmatica ornata e le mani levate. A questo riquadro, oggi ridotto a qualche tessera, seguono due medaglioni con l’Agnello, il primo reggente la croce, l’altro anche il calice. Ancora oltre c’è il secondo riquadro, quasi completamente rifatto dai restauri. San Lorenzo in piedi regge la croce con la destra, e con l’altra tiene per il polso il papa Onorio III in abiti pontifici; all’estrema destra si vede un personaggio in tunica rossa corta, in ginocchio e con le mani giunte.
Iscrizioni
1 - Iscrizione identificativa, già disposta nell’area illustrata, a sinistra del santo, priva di uno spazio grafico di corredo, allineata su tre righe orizzontali, lettere scure su fondo dorato. Perduta. Scrittura maiuscola.
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Honori(us) / p(a)p(a) / III Integrazioni dalla fotografia di Sansaini, Muñoz 1944, tav. IX. Séroux d’Agincourt 1826-1829, V, tav. XVIII.11; Biasiotti 1920, 243. r.1. Honer per Honori(us), disegno acquerellato di Antonio Eclissi, BAV, Barb. lat. 4403, f. 3r. r.3. CI+ per III, disegno acquerellato di Antonio Eclissi, BAV, Barb. lat. 4403, f. 3r.
S<anctus> / La/ur<entius> Trascrizione in base alla fotografia di Sansaini, Muñoz 1944, tav. IX, e al disegno acquerellato di Antonio Eclissi, BAV, Barb. lat. 4403, f. 3r. 2 - Iscrizione identificativa, disposta nell’area illustrata, tra le figure di san Lorenzo e di papa Onorio III, priva di uno spazio grafico di corredo, allineata su tre righe orizzontali. Lettere scure su fondo dorato. Lacunosa. Scrittura maiuscola.
(S. Ric.)
Note critiche
La presenza di Onorio III nel fregio musivo indica che esso fa parte della grande campagna di lavori lanciata dal papa in San Lorenzo. Gli abiti pontificali di Onorio dicono chiaramente che il mosaico va datato agli anni del pontificato (i lavori alla basilica erano partiti anche prima), tra 1216 e 1227. In ragione delle affinità con il
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chiostro del Laterano, opera firmata dei Vassalletto, Giovannoni (1908, 270-273) attribuisce il portico alla stessa bottega e – vista l’ampiezza del cantiere – ne orienta la cronologia agli ultimi anni del pontificato di Onorio, attorno al 1225. Da Bra (1924, 40) preferisce pensare più largamente agli anni Venti, mentre Claussen (1987, 140) osserva che il gesto di san Lorenzo che stringe il polso di Onorio ricorda quello dell’Anastasis ma non indica comunque che il fregio sia stato eseguito dopo la morte del papa. Secondo il van Marle (1923, 434) il Cristo imberbe sarebbe un elemento più antico inglobato nel fregio onoriano, completato da Onorio che vi si sarebbe fatto inserire dopo l’elezione pontificia. L’ipotesi non è ovviamente percorribile, ma si può capire l’impressione di arcaismo suscitata dallo stile sommario e secco delle figure (Mann 1928, 123; Matthiae 1966a [1988]; Id. 1966b; Id. 1967), forse dovuto anche al poco spazio a disposizione. Così, i tratti dei volti sono ridotti al minimo, con occhi enormi e spalancati, lunghi nasi, bocche appena accennate, e con colori privi di sfumature. Per i volti però sono state usate tessere più piccole, così come si nota in opere più monumentali, dal busto di Innocenzo III in San Pietro (¤ 5) al mosaico absidale di San Paolo (¤ 8), ma non in casi più antichi come il fregio musivo di Santa Cecilia in Trastevere (Dos Santos, in Corpus IV ¤ 34). Ciò fa pensare che – se fu la bottega vassallettiana a eseguire il fregio – i marmorari romani erano aggiornati sulle procedure utilizzate all’inizio del secolo nei grandi cantieri musivi della città. La santa alla sinistra del Cristo, priva di iscrizioni e attributi, è stata identificata con santa Cirilla (Ciampini 1699), con la Vergine (Giovannoni 1908, 270 nota 1; van Marle 1921, 176; Id. 1923, 434) o con santa Ciriaca (Biasiotti 1920, 243; Da Bra 1924, 65; Muñoz 1944, 12; Ladner 1970, 92; Matthiae 1966b, 61; Claussen 1987, 141; Mondini 2010b, 365): sia Cirilla che Ciriaca fanno parte della Passio laurenziana; in più, la catacomba di Santa Ciriaca è annessa alla basilica di San Lorenzo (Biasotti 1920, 243; Ladner 1970, 92). Il gesto della figura ricorda però quello della Vergine advocata, usato anche nelle Deesis: nel fregio fu quindi forse adattato questo schema, con santo Stefano al posto del Battista (Harding 1983, 128). Si noti però che questa figura tende verso Lorenzo e Onorio, e non verso il Cristo. Il personaggio inginocchiato è stato identificato con Pierre de Courtenay, imperatore di Costantinopoli, incoronato nel 1217 da Onorio proprio nella basilica di San Lorenzo (Pollio 1999): e si è pensato che il fregio volesse ricordare l’evento, la prima incoronazione di un imperatore bizantino a Roma (Biasiotti 1920; Mann 1928, 123; Da Bra 1952, 95; Faldi Guglielmi 1966, 171). La figura tuttavia non presenta alcun attributo imperiale, ha una semplice tunica rosso-marrone e calzature assortite. Altri hanno pensato ad un ecclesiastico (Crowe-Cavalcaselle 1886, 132; Foresi da Morovalle 1861, 80; Giovannoni 1908, 270; Da Bra 1929) ma l’abito che porta non può che far pensare a un laico, forse l’anonimo donatore (Foresi da Morovalle 1861, 80; Ladner 1970, 93; Matthiae 1966b, 56; Claussen 1987, 141; Iacobini 1991, 272; Mondini 2010b, 366).
Interventi conservativi e restauri
1945-50: restauri dopo le bombe del 1943. Ricostituzione del fregio (ACS, AA.BB.AA., Divisione II, 1940-1945, b. 143, S. Lorenzo fuori le mura, Perizia di spesa per i lavori urgenti da eseguirsi nella Basilica di San Lorenzo fuori le mura in Roma, 2 gennaio 1945, firmata da A. Terenzio, Soprintendente).
Documentazione visiva
Antonio Eclissi, disegni acquerellati, BAV, Barb. lat. 4403, ff. 2r, 3r; Antonio Eclissi, disegni acquerellati, WRL 9017, 9018; Mattheus Greuter, incisione, in Ciacconio 1630 [1677], II, c. 48; incisione in Ciampini 1699, tav. XXVIII; incisione in Séroux d’Agincourt 1826-1829, V, tav. XVIII.10 e 11; R. Moscioni, fotografia, n. 6052, MV IX.35.6; Fotografia (ante 1943), ICCD M 2002 (Fototeca della Biblioteca Hertziana 217341); Pompeo Sansaini, fotografia (ante 1943) (pubblicata in Muñoz 1944, tav. IX); Haase, fotografia (1943).
Fonti e descrizioni
Ugonio 1588, f. 151r; Mancini ca. 1625 [1923], 73-74; Baglione 1639 [1990], 152; Benedetto Mellini (ante 1667), BAV, Vat. lat. 11905, f. 197; Mabillon 1687, 81; Ciampini 1699, 103; Bianchini (1740-1746), BVR, T9, t. 28, f. 77; Marangoni 1747, 183; Furietti 1752, 93; Lalande 1769 [1790], III, 321.
Bibliografia
Séroux d’Agincourt 1826-1829, III, 154; Platner et al. 1838, III-2, 319; Nibby 1839 [1971], 297; Melchiorri 1840, 220; Gori 1855, 2; Foresi da Morrovalle 1861, 72, 79-80; Gori 1862, 19, 35; Memoria 1865, 7-8; Pellegrini 1869, 171; Crowe-Cavalcaselle 1886, 132; Rohault de Fleury 1888, 99; Rohault de Fleury 1889, 139; Rohault de Fleury 1897, 13; de Rossi 1899; Giusti s.d. [1901-1923], 6; Marucchi 1902, 481; Giovannoni 1908, 270; Biasiotti 1920; van Marle 1921, 176, 195; van Marle 1923, 434; Da Bra 1924, 65; Mann 1928, 123; Da Bra 1929, 14; Armellini-Ceccheli 1942, 1082; Muñoz 1944, 12-13; Hermanin 1945, 72; Anthony 1951 [1971], 82, nota 47; Da Bra 1952, 95-96, 235; CBCR 1962, II-1, 14; Waetzoldt 1964, 44; Faldi Guglielmi 1966, 171, 175; Matthiae 1966a [1988], 147; Matthiae 1966b, 15, 56, 61; Matthiae 1967, 385; Ladner 1970, 9193; Brentano 1974, 144; Glasberg 1974, 136; Gandolfo 1980, 359; Krautheimer 1980 [1999], 543; Gandolfo 1983a, 77; Harding 1983, 127-129; Claussen 1987, 140-141; Gandolfo 1988, 304-305; Iacobini 1991, 272; Parlato-Romano 1992 [2001], 117-119; Boskovits 1993, 72 nota 139; Osborne-Claridge 1996, 122-123; Wollesen 1998, 5758; Pollio 1999, 155; Bordi, in Atlante I (¤ 6); Ciranna 2006, 220; Mondini 2010b, 364-366. Karina Queijo
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92 SAN LORENZO FUORI LE MURA / ATLANTE I, 6
SAN LORENZO FUORI LE MURA / ATLANTE I, 6 93
12. LA DECORAZIONE A FINTI MATTONI NEL PORTICO DI SAN LORENZO FUORI LE MURA
13. LA PERDUTA CROCIFISSIONE CON ONORIO III E IACOBUS PENITENTIARIUS AL LATERANO (?)
Secondo quarto del XIII secolo
1220-1226
Le bombe cadute nel 1943 su San Lorenzo fuori le mura provocarono – tra gli altri gravissimi danni – il distacco di una parte dei dipinti tardo duecenteschi del portico (Romano 1992, 9-35), mettendo in luce i frammenti di una decorazione precedente. Al di sopra del portale sud, sull’arco di scarico, si vede un motivo di finta cortina a fasce rosse e tratti bianchi a sottolineare gli elementi portanti della parete. In altri punti si nota un semplice intonaco chiaro, così sottile da far intravedere in trasparenza l’apparecchio del muro sottostante.
Il f. 1r e il f. 7r del BAV, Barb. lat. 4423 riproducono – il f. 7r in formato più piccolo – una Crocifissione oggi perduta. Il Cristo ha gli occhi aperti, la testa semi inclinata a destra e aureola crucisignata con bordo rosso a perline bianche. Il perizonium scende fino all’altezza delle ginocchia e alla vita ha un nodo rosso. Dalle mani cola qualche goccia di sangue, mentre non appaiono i chiodi ai piedi. A sinistra, ai piedi della croce, il papa Onorio III (Iscr. 2) con tiara e tunica bianca, casula azzurra e pallio; le ginocchia sono leggermente piegate e le mani levate verso il Cristo ricordano l’attitudine di Innocenzo III nel mosaico absidale di San Pietro (Ladner 1970, 95) (¤ 5). Di fronte, in simile atteggiamento, il frate Iacobus, penitentiarius di Onorio (Iscr. 3), con barba e tonsura, tunica bianca e manto rosso. Il fondo della scena è decorato a piccoli mazzi di fiori rossi. La parte inferiore della scena era già lacunosa al momento dell’esecuzione dell’acquerello.
Note critiche
La decorazione a finta cortina del portico di San Lorenzo ha un terminus post quem e un terminus ante quem sicuri, offerti rispettivamente dalla costruzione del portico – committenza di Onorio III – e dalla data del ciclo agiografico affrescato nell’ultimo ventennio del secolo (Romano 1992, 9-35; si veda Corpus VI). Negli anni Venti il portico era dunque decorato a finta cortina e non da cicli narrativi agiografici, come precisato da Matthiae (1966a [1988]), e da Basile (1985) e contro l’opinione degli storici ottocenteschi. Questo strato decorativo aniconico è quasi una semplice protezione del muro, del quale riprende i colori del più abituale materiale edilizio di Roma, il mattone (Autenrieth 1991, 384-385). Si differenzia dunque da quello un po’ più tardo di San Saba (¤ 25), San Clemente (¤ 31b) o di Anagni (Romano 2004a; Ead. 1997), dove il finto apparecchio murario non segue la reale struttura sottostante e anzi la dissimula. È impossibile attualmente comprendere se alcuni minuscoli frammenti pittorici, sparsi all’interno dell’intonaco del restauro post-bellico, nelle parti basse della parete, appartengano a una delle fasi duecentesche della decorazione, o siano posteriori, come l’altro riquadro quattrocentesco conservato sotto le Storie di santo Stefano.
Interventi conservativi e restauri
1945-50: restauri post-bellici. Alcune zone messe in luce dai bombardamenti sono lasciate a vista, altre coperte di intonaco e
Iscrizioni
Tre iscrizioni identificative, perdute. Descrizioni e trascrizioni dal disegno acquerellato, BAV, Barb. lat. 4423, f. 1r.
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dipinte a colore neutro. Le decorazioni alla sommità delle pareti sono il frutto di questo intervento (Basile 1985, 137). 1983: restauro degli affreschi da parte di Paolo Ferri, diretto da Giuseppe Basile (ICR).
Bibliografia
CBCR 1962, II-1, 36; Matthiae 1966a [1988], 172; Matthiae 1966b, 63; Basile 1985; Basile et al. 1988, 209-214; Wollesen 1998, 80; Mondini 2010b, 361.
1 - Nella tabella alla sommità del braccio verticale della croce, allineata su due righe orizzontali.
Ih<esus> N<azarenus> LSE / N S V 2 - Nell’area illustrata, a sinistra della figura del papa, allineata su tre righe orizzontali.
Hono/rius / p(a)p(a) III
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3 - Nell’area illustrata, a destra della figura del cappellano, allineata su cinque righe orizzontali.
Fr<ater> Ia/cob<us> ei(us) / p(e)ni(tenti)ari(us) / et cap/pellan<us>
Karina Queijo
(S. Ric.)
Note critiche
I rari studi su questa perduta Crocifissione l’hanno considerata un dipinto murale, anche se le perle dell’aureola di Cristo, rese con molta evidenza nell’acquerello, ricordano le madreperle spesso usate nei mosaici. L’acquerello non registra l’ubicazione dell’opera, ma poiché il BAV, Barb. lat. 4423 raccoglie solo copie di opere situate al Laterano, si ritiene in genere che vi fosse anche la Crocifissione. Diversamente da Innocenzo III che aveva chiaramente privilegiato il Vaticano, Onorio III aveva infatti mostrato un marcato interesse per il Laterano: vi aveva fissato la residenza pontificia (Carocci-Vendittelli 2000, 358), promosso grandi lavori di restauro al Sancta Sanctorum (LP II, 453) e fatte molte donazioni in favore del sito (Rasponi 1656). La Crocifissione che il manoscritto barberiniano documenta, con il suo Cristo triumphans e non ancora patiens, è composta su uno schema molto verticale, come per una nicchia o su una parete stretta e alta; i motivi a mazzetti di fiori non si adatterebbero a una decorazione absidale, che a priori richiederebbe un programma più articolato e più sviluppato lateralmente. Si potrebbe pensare alla cappella di San Nicola, come voleva Wilpert, o alla navata della basilica (Waetzoldt 1964, fig. 98; Bordi, in Atlante I ¤ 15), ma anche altrove nel grandissimo complesso lateranense, che includeva anche locali per i penitenzieri. Tale era il frate Iacobus, che l’acquerello raffigura accanto al papa, menzionato come
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94 SAN LORENZO FUORI LE MURA / ATLANTE I, 6
penitenziere di Onorio III nei registri papali dal 1220 al 1226 (Paravicini Bagliani 1972, I, 118 nota 2; Barclay Lloyd 2006, 26 nota 125, 160 nota 104). Al pari degli altri penitenzieri al servizio di Onorio III, Iacobus aveva il compito di giudicare e assolvere i crimini gravi (Göller 1907, 129-131; Chouet 1933). Spesso i penitenzieri assommavano altre cariche oltre a questa – Iacobus appare infatti nei Regesta Honorii III come «Magister Iacobus, penitentiarius, cappellanus», e anche quale legato papale in Scozia e Irlanda (Pressutti 1978, I, nn. 2590, 2591, 2601, 2604, 2606, 2870, 3194 e 3506). I penitenzieri potevano venire anche dalle varie comunità religiose, in seno alle quali essi continuavano a vivere anche nel corso della nuova carica. Iacobus veniva dal monastero delle Tre Fontane, dove il suo nome figura su un architrave – «Frater iacobus domini honorij pp. iii poenitentiarius ac capellanus, hanc domum fieri fecit, pro animam suam, et jacobi nepotis» (Barclay Lloyd 2006, 26 nota 125) – il che prova anche il suo ruolo attivo in varie committenze di tipo artistico. Ricordiamo che anche i mazzetti di fiori stilizzati della Crocifissione trovano un parallelo nelle decorazioni realizzate qualche anno prima proprio alle Tre Fontane, nella volta dell’Arco di Carlomagno (¤ 6).
Documentazione visiva
Acquerello (XVII secolo), BAV, Barb. lat. 4423, ff. 1r, 7r.
Bibliografia
Wilpert 1916, I, 174; Mann 1928, 124 nota 1; Ladner 1961, 250251; Waetzoldt 1964, 37; Ladner 1970, 95-96; Monciatti 1997, 528; Bordi, in Atlante I (¤ 15). Karina Queijo
COMPLESSO LATERANENSE / ATLANTE I 95
14. IL VOLTO DUECENTESCO DELL’ICONA DI SANTA MARIA NOVA Post 1216
L’icona della Vergine si trova oggi nell’abside di Santa Maria Nova (Santa Francesca Romana). I due frammenti di tessuto dipinto antico, con i volti della Vergine e del Bambino, sono protetti da un vetro e incastonati nell’armatura lignea moderna. Solo il volto della Vergine è certamente duecentesco (Int. cons.): è ritratto di tre quarti, leggermente inclinato verso destra, ha fronte piuttosto bassa e lungo naso. I capelli sono nascosti da un velo ocra, con un sottovelo bianco a righe nere.
Note critiche
La presentazione attuale del volto della Vergine, inserito com’è nella tavola moderna, risale agli anni Cinquanta e al restauro dell’icona effettuato da Pico Cellini. Prima del restauro l’icona aveva pesanti ridipinture ottocentesche, che non avevano impedito a Garrison (1949, 63) di attribuirla al XIII secolo. Il restauro di Cellini gli dette ragione, ma la scoperta di uno strato pittorico ancora più antico eclissò completamente la questione duecentesca: Cellini sollevò delicatamente il tessuto del volto medievale della Vergine e quello quattrocentesco del Bambino, e mise in luce un secondo e più antico strato di stoffa, sul quale erano dipinti – in dimensioni maggiori rispetto a quelli aggiunti successivamente – i volti della Vergine e del Bambino, resti di quella che deve probabilmente essere considerata una delle più antiche icone romane, di cronologia discussa tra V e VIII secolo (Andaloro 2000b). A partire dal momento di questa grande scoperta, la maggior parte degli studiosi (ad eccezione di Kitzinger 1955 e Guarducci 1989) si è limitata a menzionare solo rapidamente il volto duecentesco della Vergine attribuendolo all’intervento di un pittore toscano intervenuto per riparare i danni provocati dall’incendio scoppiato in Santa Maria Nova nel 1216. Il riferimento all’incendio è tuttavia giustificato, e avallato da altre testimonianze e indizi. Una leggenda infatti narra che l’icona, scampata alle fiamme, sarebbe stata depositata a Sant’Adriano, ma una volta restaurata Santa Maria Nova, sarebbe miracolosamente ritornata al suo luogo originario (Panciroli 1625, 105). Il miracolo non fa ovviamente alcuna menzione del rifacimento duecentesco dell’icona, ma vede l’incendio come una tappa determinante nella sua vita. La redazione trecentesca dei Mirabilia segnala invece che i volti erano le sole parti dell’icona sopravvissute all’incendio (Mirabilia Romae 1350-1375 [1869], 62), e ne registra quindi i danni, pur se in un’accezione poco credibile. Un restauro dell’icona, e specialmente dei due elementi principali dell’immagine, è dunque del tutto plausibile. Lo stile del volto della Vergine appare del tutto compatibile con una datazione al primo quarto del XIII secolo. La fronte bassa, il naso leggermente aquilino con una sola narice in vista, gli zigomi rosati e la bocca con il labbro inferiore più carnoso, fanno pensare al volto della Vergine di San Bartolomeo all’Isola (¤ 4); le borse sotto gli occhi, indicate come un campo in colore più scuro, sono anche nella Virgo lactans della facciata di Santa Maria in Trastevere (¤ 7a). Per altri versi, le somiglianze sono meno marcate. Il volto dell’icona appare più massiccio e meno delicato rispetto a quelli delle Vergini sopra citate; la bocca e gli occhi risultano dunque piccoli, l’occhio destro sembra come schiacciato sotto il sopracciglio. Non c’è traccia dell’abituale tratto rosso sul naso e alle sopracciglia, né la fronte è aggrottata come nei dipinti citati; i rialzi di luce sono meno brillanti e più sfumati che a San Bartolomeo, dove ogni tocco di pennello è perfettamente visibile. Sono elementi di diversità che non possono essere spiegati soltanto con la distanza del genere iconico da quello monumentale 96 SANTA MARIA NOVA / ATLANTE II, 25
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ad affresco o a mosaico: infatti, per la forma e per lo stile, il volto duecentesco di Santa Maria Nova si allontana sia dalle icone romane del secolo precedente (Sgherri, in Corpus IV ¤ 15, ¤ 17, ¤ 41) che da quella di poco successiva di San Silvestro al Quirinale (¤ 24). Le distanze che abbiamo constatato si spiegano a nostro avviso solo con il fatto che il nuovo volto dell’icona fu concepito come attualizzazione del volto originario dell’immagine. È un caso di restauro medievale particolarmente interessante, anche perché, grazie a Cellini, i due strati possono oggi essere osservati uno accanto all’altro. Il fatto stesso che l’intervento duecentesco sia stato effettuato su un’altra stoffa, e non abbia comportato il ritocco dell’originale, è già un dato molto importante: il pittore dovette creare un nuovo volto su un nuovo supporto, e questo implicò una distanza nei confronti dell’opera originaria – non fosse altro che a livello materiale. La rinuncia ad alcuni stilemi tipici della pittura romana duecentesca potrebbe allora spiegarsi con la volontà di rispettare alcune caratteristiche formali dell’opera antica, per evitare di conferire una connotazione troppo moderna ad un’immagine creduta dipinta dalla mano di san Luca; il volto massiccio, la lunghezza del naso e la piccolezza della bocca sono elementi ‘recuperati’ dal volto originario per creare una somiglianza e persuadere lo spettatore dell’identità
dell’immagine. Una procedura, d’altronde, ben nota nel caso delle ‘copie’ della celebre icona Tempuli (Bertelli 1961 [2006], e per il caso probabilmente già duecentesco di San Pietro in Valle a Ferentillo, Romano 2003a) Questa speciale circostanza non impedisce comunque di ravvisare nel volto duecentesco dell’icona una flessione stilistica che ben si accorda con l’ambiente artistico romano del primo Duecento; generico rimane il richiamo alla pittura su tavola in Toscana. Resta da capire perché non l’intera icona, ma soltanto il volto della Vergine sia stato rifatto, e perché di dimensioni minori dell’originale. La Guarducci (1989, 17-20), basandosi su Kitzinger (1955, 147-149), propone una spiegazione piuttosto convincente. Nel 1955, Kitzinger citava le copie cinqueseicentesche di Panvinio e Cassiani da un antico manoscritto perduto, nel quale si menzionava il fatto che l’icona «circumsepta tota argentea est», dunque probabilmente inserita in una sorta di cassa in argento. Kitzinger pensava che la cassa fosse quella che era stata realizzata durante il pontificato di Gregorio III (731741) per una «imaginem sancte Dei genitricis antiquam» (LP I, 419), imago che forse era proprio l’icona in questione, in quegli anni ancora conservata a Santa Maria Antiqua e trasportata a Santa Maria Nova dopo l’abbandono della chiesa antica nel IX secolo. Secondo la Guarducci la cassa la copriva completamente, ma con aperture che consentivano di vedere i volti della Vergine e del Bambino; la dimensione dell’apertura corrispondente al volto della Vergine avrebbe determinato le misure del volto duecentesco. L’ipotesi della Guarducci spiega anche perché la stoffa su cui è dipinta la testa quattrocentesca del Bambino ha il bordo leggermente ripiegato: il tessuto fu probabilmente inserito attraverso l’apertura della cassa, senza smontarla. La redazione trecentesca dei Mirabilia non cita la cassa, ma dice che erano visibili solo i volti della Madre e del Figlio, corroborando quindi l’ipotesi del parziale coprimento dell’icona. Questa procedura ricorda quella attuata sotto Innocenzo III per l’Acheropita lateranense (Wilpert 1916, II, 1111) e testimonia di una pratica corrente, o almeno non isolata. Il manoscritto copiato da Panvinio e Cassiani evoca ancora due elementi. Il primo è il fatto che l’immagine, abitualmente coperta, era mostrata ai fedeli soltanto «quando locus aperitur»; verosimilmente dunque in conseguenza dell’incendio non ci si limitò a riparare la cassa di cui era stato danneggiato l’argento («denigrato argento»), ma si aggiunsero due sportelli che permettevano di nascondere l’immagine (Guarducci 1989, 18), verosimilmente anche a seguito delle decisioni del Concilio Lateranense del 1215 (Constitutiones 1215 [1981], constitutio n. 62, 101-103; Bolton 1992, 125). Inoltre il manoscritto citava un’iscrizione apposta intorno all’immagine, in cui si affermava che essa era stata dipinta da san Luca, a Troia. Da questo elemento origina la tradizione regolarmente citata a partire dal XVI secolo (Wolf 1990, 56), secondo la quale Angelo Frangipane avrebbe portato l’icona da Troia verso il 1100, all’epoca della prima Crociata. Secondo Thumser, il solo Frangipane di nome Angelo avrebbe vissuto verso gli anni Trenta del Duecento (Thumser 1995, 115); Claussen (2002, 469 nota 13) considera che egli poteva
essere presente e attivo vari anni prima – quindi anche negli anni che toccano la questione dell’icona – ma considera puramente ipotetica qualsiasi ulteriore conclusione. La coincidenza tra la notizia leggendaria e quella documentaria mantiene tuttavia qualche interesse.
Interventi conservativi e restauri
XV secolo: nuova testa del Bambino. XVI secolo: l’icona è liberata dalla cassa argentea. I busti sono ridipinti e sulla tavola lignea si applica un fondo oro (Guarducci 1989, 16). 12 septembre 1662: incoronazione (Sindone [1756], ACSP, Madonne coronate, XXVII). 1805: ridipintura di Pietro Tedeschi, che firma sul retro della tavola. 1950: i monaci olivetani segnalano che in certi punti la pittura si stacca dal supporto (Guarducci 1989, 14). La Soprintendenza alle Gallerie di Roma e Lazio affida il restauro dell’icona a Pico Cellini, che ne scopre i vari strati. «Eliminata la pittura ottocentesca, le due teste medievali furono applicate ad una tavola di robusto compensato e rifinite con l’esatta riproduzione del completamento cinquecentesco. Poiché dietro le teste medievali erano rimasti alcuni piccoli residui delle teste più antiche, fu messo dietro le teste medievali un vetro (...). La tavola moderna con le due teste medievali fu di novo collocata sull’altare (...).» (Guarducci 1989, 16).
Documentazione visiva
Fotografia (1950 ca.), ICCD E 28261.
Fonti e descrizioni
Mirabilia Romae 1350-1375 [1869], 62; Mariano da Firenze 1518 [1931], 26; Onofrio Panvinio (1556), BAV, Barb. lat. 2481, ff. 100r-101v; Nicolò Cassiani (inizio XVII secolo), BAV, Reg. lat. 2100, ff. 13r-14v; Visitatio Ecclesie S. Marie Nova, die 14 decembris 1629, ASV, Misc., Arm. VII., 112, f. 61; Onofrio Panvinio (XVIII secolo), BAR, C. 77, 257-260; Panciroli 1625, 105; Piazza 1703, 727; Raffaele Sindone (1756), ACSP, Madonne coronate, XXVII, ff. 169-170.
Bibliografia
Nibby 1839 [1971], 764-765; Sandberg-Vavalà 1934, 35; Garrison 1949, 63; Cellini 1950, 3-5; Ansaldi 1953, 63; Grabar 1954 [1968], 529; Morey 1954, 118; Kitzinger 1955, 132, 147-149; Dejonghe 1969, 242; Conti 1971, 34; Buchowiecki 1974, 56; Mangia Renda 1985-1986, 356; Amato 1988, 22; Guarducci 1989, 14-20; Wolf 1990, 268 note 180, 182; Andaloro 2000b, 660; Claussen 2002, 468. Karina Queijo
SANTA MARIA NOVA / ATLANTE II, 25 97
15. GLI AFFRESCHI DEL COSIDDETTO ORATORIO DI ONORIO III IN SAN SEBASTIANO FUORI LE MURA Terzo decennio del XIII secolo
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Il mausoleo semicircolare noto dal Cinquecento sotto il nome di “Platonia” è situato sul lato sud-ovest della basilica di San Sebastiano fuori le mura, accessibile dal deambulatorio della chiesa tramite una scala coperta a volta, che attraversa un piccolo ambiente a forma trapezoidale, tutto dipinto e noto attualmente come “oratorio di Onorio III”. La parete ovest di questo ambiente [1], che è la più grande e anche quella che il visitatore vede per prima quando percorre la scala, ha tre registri di decorazione pittorica murale. Nella parte alta, la Vergine con il Bambino in trono, con due angeli [3]. Sulla sinistra, un medaglione con il busto del profeta Geremia, con il rotulo ed il nome inscritto (Iscr. 2a), e un altro medaglione più piccolo con un altro personaggio, probabilmente un altro profeta, senza rotulo. Dall’altro lato della Vergine, altri due medaglioni, simmetrici, il maggiore con il busto di Isaia e l’altro con un altro busto di profeta non identificabile [4]. Questo registro è separato
dal successivo per mezzo di un fregio a nastro pieghettato panna e rosso mattone, con tre puntini bianchi nei triangoli di risulta. Nel secondo registro, dalla sinistra si vedono due piccoli personaggi in calze nere [8] che scoccano frecce contro un grande san Sebastiano, nudo: la figura è quasi del tutto perduta. A destra, un santo vescovo con mitra e pallio: oggi si vede solo il busto e una parte dello scettro, ma Perret (1855, 25) ne vedeva ancora la mano destra benedicente. Ancora oltre un serafino, poi un arcangelo con scettro e sfera crucigera, tunica e loros gemmato. Di seguito, una Crocifissione di cui resta solo la parte superiore con due angeli in volo che si coprono il volto con il velo [5]; il Cristo ha la testa inclinata e gli occhi chiusi, del torace resta solo un frammento. A sinistra della croce si vede qualche magro resto della figura della Vergine, e a destra la testa di san Giovanni; ancora più in là, la testa di una donna aureolata che piega la testa in direzione della Crocifissione ma di cui non è chiaro il nesso con la scena: l’allargamento della porta di comunicazione verso la “Platonia” ha parzialmente distrutto la figura. Infine l’ultimo registro era formato da velaria, i cui resti – una stoffa bianca con pieghe sottolineate in ocra e in giallo, con motivi a cerchio e un altro motivo a giglio rovesciato – sono ancora visibili al di sotto degli arcieri del san Sebastiano [8]. A due registri è invece la parete sud, posta nel prolungamento della volta. In alto il Cristo assiso nella mandorla portata da due angeli con ali spiegate, con il libro aperto nella mano sinistra e la mano destra levata [6, 7]. In basso invece i santi Pietro e Paolo in piedi ai lati dell’unica finestra dell’ambiente [9]. Volto e busto di Pietro sono molto rovinati, come pure le chiavi, di cui si vedono ancora solo le estremità; di Paolo è invece ben conservato il volto e la spada, ma del corpo solo l’orlo della veste e i piedi. Al di sotto si svolge un fregio vegetale ocra e giallo su fondo bianco.
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La decorazione della parete est è composta da pannelli giustapposti [10]. In alto si vede un riquadro incorniciato con fasce ocra e gialle, con una santa coronata, in piedi, con un libro nella sinistra e la mano destra levata e aperta, veste ocra a riquadri e un manto. Sulla destra, un medaglione molto rovinato, con il busto di un personaggio che secondo l’acquerello di Wilpert sembra una donna. Più in basso, il campo maggiore è occupato da un Massacro degli Innocenti, con il re Erode assiso sulla sinistra, la mano tesa verso un soldato che sta per trafiggere il bambino nudo tenuto per la gamba. A terra molti piccoli corpi, a destra i volti delle madri che osservano la scena, e più in basso due altre donne che stringono al seno i bambini fasciati. Al di sotto del già menzionato riquadro con la santa, e a sinistra del Massacro, la parete è decorata da girali di foglie ocra e gialle, che continuano sul tratto di muro corrispondente al fianco della scalinata d’ingresso. Le volte dell’ambiente e quella del passaggio con la scala sono coperte da una distesa di motivi geometrici con stelle, rosette, uccelli; nel tratto di corridoio che comunica con la chiesa si vedono i resti di medaglioni con la figura di un grifo e di un agnello.
Parete est 2 - Due iscrizioni identificative, disposte all’interno dell’area illustrata, nei rotuli sorretti dai profeti Geremia e Isaia, allineate su una riga secondo un andamento circolare regolare. Lettere rosse su fondo bianco. Intere. Scrittura maiuscola. 2a - Ieremias 2b - Îøæîæø 3 - Iscrizione identificativa, disposta all’interno dell’area illustrata,
Iscrizioni Parete nord 1 - Iscrizione esegetica, disposta all’interno dell’area illustrata, nel libro sorretto da Cristo, allineata su due righe orizzontali che non rispettano la separazione delle pagine, secondo un andamento rettilineo irregolare. Lettere scure su fondo bianco. Lacunosa. Scrittura maiuscola.
Eg//o / su(m) // [l]ux
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SAN SEBASTIANO FUORI LE MURA / ATLANTE I, 10 99
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sulla tabella affissa al braccio verticale della croce, allineata in orizzontale, secondo un andamento rettilineo irregolare. Mutila.
I(hsoà)[j] | | C(ristÒ)j 4 - Iscrizione identificativa, disposta all’interno dell’area illustrata, a sinistra di san Sebastiano, allineata su una riga secondo un andamento rettilineo irregolare. Lettere bianche su fondo ocra. Lacunosa. Scrittura maiuscola.
S(anctus) Seb[astianus] Parete ovest 5 - Iscrizione identificativa, disposta all’interno dell’area illustrata, sullo zoccolo del trono di Erode, allineata su una riga secondo un andamento rettilineo irregolare. Lettere bianche su fondo ocra. Lacunosa. Scrittura maiuscola.
SCO OSS in [- - -]
Note critiche
(S. Ric.)
La ricchezza della storia archeologica del sito di San Sebastiano fuori le mura ha prodotto grande interesse per le tappe costruttive della basilica e per gli altri spazi antichi circostanti. Il cosiddetto oratorio di Onorio III è un ambiente tardo antico, scavato tra 1892 e 1894 da A. De Waal; il terreno, sventrato dallo scavo e abbandonato, ha reso l’oratorio non più accessibile dalla scala che serviva come ingresso nel Duecento, attualmente a qualche metro di altezza dal suolo scavato (Nieddu 2009, 411-414). I dipinti 100 SAN SEBASTIANO FUORI LE MURA / ATLANTE I, 10
dell’oratorio avevano attirato l’attenzione di qualche erudito ottocentesco come Marchi, Perret e Lugari, il quale per primo nel 1888 le attribuì al tempo di Onorio III. Questa cronologia, poi generalmente accettata, si basa fondamentalmente sul fatto che nel 1218 Onorio III consacrò l’altare di san Sebastiano nella cripta della chiesa (Panvinio 1570 [it.], 123), atto finale dei grandi lavori che tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo andarono a toccare la struttura dell’edificio e del complesso architettonico (Nieddu 2009, 404). Non c’è tuttavia alcuna documentazione dell’eventuale nesso tra Onorio e la decorazione pittorica dell’oratorio. Gli spazi dell’oratorio e della “Platonia” erano tra loro strettamente connessi e costituivano un nucleo liturgico importante accanto alla chiesa. L’oratorio, benché di piccole dimensioni, aveva un altare e un banco lungo tre pareti (Baglione 1639 [1990]; Marchi 1844); la “Platonia” era chiaramente l’ambiente più importante, con una cattedra (vista ancora in situ da Panvinio 1570 [it.], 123) e un altare – datato da De Waal al Duecento (1894, 116) – oggi incorporato in un altare barocco. All’interno dell’altare medievale resta ancora una traccia di stelle dipinte su fondo scuro, datate da Mondini agli stessi anni dei dipinti dell’oratorio (Mondini 2000, 220; Styger 1935, 159). Nel V secolo la sala semicircolare era un mausoleo dedicato a san Quirino (De Waal 1894); nel Seicento si credeva fosse la «platonia» costruita da papa Damaso sul luogo del pozzo dove sarebbero state gettate le spoglie di Pietro e Paolo («dedicavit platoniam in Catacumbas, ubi corpora Petri et Pauli apostolorum jacuerunt»: LP I, 212). La funzione di questo ambiente e di quello adiacente nel Duecento non è invece del tutto chiara. L’epigrafe, verosimilmente duecentesca, incastrata in una parete dell’oratorio, copia i primi versi di un’iscrizione più antica attribuita a Damaso – «Hic . ha(b) itare . pri(u)s . s(an)c(t)os . cognoscere / debes + no(m)i(n)a . q(u) isq(ue) . Petri . Pauli . pariterq(ue) / req(ui)ris + discip(u)los . orien(n)
s . misit . q(u)od . spo(n)te [...]» (Nieddu 2009, 405) – ma fu posta dove oggi si trova soltanto nel XVII secolo (Severano 1630, 443) e quindi non basta a provare che nel Duecento i due spazi fossero dedicati al culto dei due apostoli. Mostra però che nel XIII secolo gli apostoli erano venerati a San Sebastiano fuori le mura, come lo erano già nel IX, quando la basilica era denominata “Basilica Apostolorum”. Lo Styger (1915b, 197), sulla base di una fonte costituita dal racconto di un pellegrino olandese, aveva pensato che l’assimilazione dell’ambiente semicircolare con il sito del pozzo degli apostoli risalisse già al 1370, e si era chiesto se non si dovesse arrivare al Duecento, visto che l’episodio è rappresentato per la prima volta nell’ultimo quarto del secolo, negli affreschi del portico di San Pietro (¤ 59). Ancora oltre, Mondini (2000, 218) pensa che all’origine del radicamento del culto dei due apostoli nel mausoleo semicircolare ci sia stato proprio Onorio III; ma visto che era stato Innocenzo II a trasferire le reliquie di Quirino a Santa Maria in Trastevere, bisogna chiedersi se il culto di Pietro e Paolo nel mausoleo non sia ancora anteriore al XIII secolo. Per le sue catacombe aperte e accessibili ai visitatori lungo tutto il Medioevo (Ferrua 1968, 22) e i mausolei che affiancavano la basilica, San Sebastiano fuori le mura doveva chiaramente apparire come una chiesa-necropoli. Il piccolo oratorio, seminterrato e con un’unica finestra come fonte di luce, era luogo propizio ai riti funerari. Nel Duecento si misero così in evidenza i santi le cui reliquie erano conservate nella basilica: Pietro e Paolo al posto d’onore sotto il Cristo nella mandorla; san Sebastiano, allora già titolare della chiesa; un santo vescovo che dal tempo di De Waal viene identificato con san Quirino; la santa in piedi viene in genere creduta santa Cecilia, ma De Waal voleva fosse Lucina, i cui resti – al contrario di quelli di Cecilia – sono anch’essi nella basilica (De Waal 1894, 45, 116); infine, il Massacro degli Innocenti ricorda quello nel portico sud di San Lorenzo fuori le mura (Bordi-Dos Santos, in Corpus IV ¤ 25a), con l’aggiunta di Rachele che piange il suo bambino secondo la profezia di Geremia 31, 15 (Acconci 1998-1999, 94). Secondo la Acconci questi Innocenti echeggiano quelli apocalittici di San Paolo, altra impresa onoriana (Acconci 1998-1999, 105 nota 75). A San Paolo esistevano le reliquie degli Innocenti (¤ 8); a San Sebastiano, gli scavi hanno rivelato che la basilica era stata costruita su un sito funerario che includeva il mausoleo antico detto degli Innocentiores (Ferrua 1968, 10-11; Spera 1997, 67). È possibile che anche se nel Duecento questo mausoleo non era più accessibile, se ne conservasse però il ricordo, e si sia voluto rappresentare gli Innocentiores nell’oratorio assimilandoli ai bambini del massacro evangelico. Poiché anche a Santa Bibiana, dove Onorio lanciò una grande campagna di lavori, erano seppelliti «5.266 martiri, senza contare le donne e i bambini», celebrati in un’iscrizione (¤ 17), tutto induce a pensare che Onorio avesse una particolare devozione per i gruppi di martiri anonimi, e il dato costituisce un indizio supplementare per riferire a lui la committenza dei dipinti murali dell’oratorio. La presenza del Cristo patiens [5] si inserisce bene in questo contesto funerario così denso. Il Cristo morto esisteva già nelle regioni sotto influenza bizantina, in manoscritti a partire dal X secolo (Cristiani Testi 1982b, 250); ma a Roma questo tipo si instaura solo a partire dal Duecento, e il Cristo di San Sebastiano fuori le mura ne è un esempio precoce, preceduto soltanto da quello del mosaico absidale di San Clemente, peraltro meno patetico (Croisier, in Corpus IV ¤ 32). Le immagini della Vergine con il Bambino, della Crocifissione e del Cristo in gloria nella mandorla ricordano che il Cristo ha permesso la redenzione dei cristiani per mezzo della propria incarnazione e morte (Isaia 53). In ogni caso, le referenze alla morte dovettero agevolare la scelta di un vocabolario proprio agli spazi funerari paleocristiani. I colori di terre – bianco, giallo, ocra, bruno, nero – richiamano i timbri delle decorazioni pittoriche catacombali, anche della stessa San Sebastiano. Il confronto talvolta è diretto, come sulla volta dove il motivo a ‘puzzle’ echeggia quello di IV secolo sottostante allo strato duecentesco e visibile là dove la pittura medievale è caduta
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(Acconci 1998-1999, 101). È dunque possibile che nel Duecento l’oratorio sia stato trasformato in una sorta di pantheon visivo e sotterraneo dei principali santi di San Sebastiano, circondato da un più generale discorso sulla morte e la resurrezione e accompagnato da un vocabolario di circostanza. L’effetto d’insieme sfiora tuttavia un po’ quello di un patchwork. Sulla parete ovest, la ripartizione in due registri ricorda le decorazioni delle facciate, divise in registro inferiore e timpano, o quelle delle absidi, divise in calotta e cilindro; la Crocifissione però è decentrata e messa accanto ad altri soggetti senza apparente gerarchia. Sulla parete orientale, è evidente che la struttura irregolare del muro ha determinato la disposizione dei soggetti, distribuiti in un riquadro rettangolare, un medaglione, una scena narrativa, e un campo a racemi ornamentali [10]. Ne deriva un’impressione di disordine, che non permette di capire se l’insieme delle scene e delle effigi di santi risponda a un programma compatto e consapevole, o se invece non si debba
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giudicare il ciclo pittorico dell’oratorio quale agglomerato di parti più organizzate (la parete ovest specialmente) e di altre inserite su base devozionale e funeraria, con riferimento ai santi interrati nel sito di San Sebastiano. Analogamente piuttosto disparato è lo stile pittorico del ciclo. Il Matthiae (1966a [1988]) vi distingueva varie mani, separando i medaglioni dei profeti, marcati da ombre intense che accentuano i volumi, dagli angeli ai lati della Vergine, le cui vesti hanno sinuosi rialzi in bianco, e anche dal registro della Crocifissione che era, a suo avviso, di maniera meno plastica. La distinzione non è stata unanimemente accettata, anche se tutti gli studi concordano a definire ‘non omogeneo’ il complesso pittorico. I suoi vari aspetti sono stati spiegati in rapporto alla pittura bizantina di fine XII secolo (Matthiae 1966a [1988]; Iacobini 1991; Acconci 1998-1999), con il precoce accoglimento del vocabolario veneziano giunto a Roma nel cantiere di San Paolo (Gandolfo 1997), con un legame con la pittura campana (Acconci 1998-1999), o ancora con nessi con la pittura su tavola di primo Duecento (Parlato-Romano 1992 [2001]), il tutto in una prospettiva non separata dalle tradizioni locali romane. Il confronto con le tradizioni locali sembra perfettamente appropriato: alcuni dettagli, come il modulo ovale del volto dell’arcangelo, o i tratti più duri di quello dell’angelo presso la Vergine hanno affinità con quelli delle vergini folli D1 e D2 del mosaico di facciata di Santa Maria in Trastevere (¤ 7a); mentre per la Vergine, l’accostamento all’angelo dell’arco absidale di Santa Maria Nova (¤ 18) sembra molto pertinente. Tuttavia, 102 SAN SEBASTIANO FUORI LE MURA / ATLANTE I, 10
i rialzi a calce, che abbondano soprattutto sulla parete della Vergine con gli angeli, sono uno stilema non frequente a Roma, reperibile forse soltanto nella rovinata Ascensione di San Basilio (¤ 3) e – ancor prima – in qualche brano meno distrutto a San Giovanni a Porta Latina (Viscontini, in Corpus IV ¤ 61), dove i tocchi che illustrano le ombre e le luci sono però più violenti e grafici che a San Sebastiano. I rialzi chiari, sinuosi e calligrafici dell’oratorio (per riprendere i termini di Iacobini e Gandolfo), sottolineano panneggi ondulati e aggraziati: le vesti dell’angelo si staccano dal corpo della figura come accade ad esempio a Monreale, ma senza le pieghe esasperate e gli andamenti angolosi dei mosaici siciliani. Il debito alla pittura bizantina di fine XII secolo invocato dal Matthiae è dunque meno netto che nel caso, ad esempio, dell’Ascensione di San Basilio ai Pantani (¤ 3). In alcuni brani, sembra invece molto appropriato l’appello al «bizantinismo d’origine campana» rilevato dalla Acconci (1998-1999, 94): difficile dire se si tratti di un contatto diretto, o di elementi già penetrati nella cultura romana, probabilmente già in varie tappe. Arcaicizzante, ad esempio, appare il modello della santa, forse santa Cecilia, che sembrerebbe ancora vicina a episodi meridionali vecchi anche di vari decenni (pensiamo agli affreschi di Santa Maria in Piano ad Ausonia: Macchiarella 1981) e semmai rinverditi da ulteriori ondate, in particolare quella di origine monrealese di fine secolo, attestata a Rongolise (Piazza 2006). Tuttavia altri elementi parlano di una cultura più recente: i tratti morbidi del Cristo patiens, quasi pre-giuntesco, o – per converso – quelli duri e un po’ schematici del volto allungato
di san Paolo che si accosta alla figura dello stesso santo a San Basilio ai Pantani (¤ 20) inducono a pensare che i dipinti della “Platonia” possano anche essere leggermente più tardi rispetto alla data tradizionale del 1218 che, come si è detto, riguarda solo la consacrazione dell’altare della basilica.
Interventi conservativi e restauri
1998: restauro promosso dalla Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, condotto da Niccolò Mario Gammino con la supervisione scientifica di Raffaella Giuliani.
Documentazione visiva
Jean Baptiste Séroux d’Agincourt (1780-1790), disegno a matita, BAV, Vat. lat. 9849, f. 11v; disegno di F. Fontana, inciso da G. Cottafavi e pubblicato in Marchi 1844, tav. XL; Emile Beau, litografie e cromolitografie in Perret 1851, I, tavv. IX-XIII, XIV; Wilpert 1916, IV, tav. CCLXII.
Fonti e descrizioni
Visitatio Ecclesie S. Sebastiani, die 24 novembris 1624, ASV, Misc., Arm. VII., 111, f. 81v; Baglione 1639 [1990], 108.
Bibliografia
Melchiorri 1840, 225; Marchi 1844, 219; Perret 1855, 25; Mostra della città di Roma 1884, 230; Lugari 1888, 64-65; De Waal 1894, 44-45; Grisar 1895, 444-445; Styger 1915b, 196-197; Marucchi 1917, 62 nota 3; Wilpert 1916, II, 772, 1003-1004; van Marle 1921, 193-194; Mancini 1928, 71; Fornari 1934, 19; Styger 1935, I, 159-160; Lavagnino 1936, 396; Armellini-Cecchelli 1942, II, 1127-1128; Matthiae 1966a [1988], 115-116; Petrassi 1975, 237; CBCR 1976, IV, 101; Ferrua 1979 [1990], 53; Lanz 1983, 99; Pace 1986a, 425; Marques 1987, 96; Iacobini 1991, 261-266; Parlato-Romano 1992 [2001], 153-155; Boskovits 1993, 68-69; Gandolfo 1997, 169; Acconci 1998-1999; Mondini 2000, 217, 220; Nieddu 2000 et al., 27; Spera 2000, 66; Moretti, in Atlante I (¤ 10), 135, 137. Karina Queijo
SAN SEBASTIANO FUORI LE MURA / ATLANTE I, 10 103
16. LA PERDUTA DECORAZIONE DELL’ORATORIO DI SAN SILVESTRO A SAN MARTINO AI MONTI 1219-1227
[2], separato dal catino da un bordo a racemi. Si vedono quattro santi in piedi, separati da tre finestre: al centro sant’Eusebio di Vercelli e san Thomas Becket di Canterbury (Iscr. 3d, 3e) (Filippini 1639, 13), a testa scoperta, Eusebio con manto rosso, Thomas verde, ambedue su dalmatiche decorate a motivi d’uccelli come quelle di Silvestro e Martino, ambedue con un libro chiuso, Eusebio benedicente alla greca, Thomas alla latina. Gli altri due personaggi alle estremità erano, secondo Filippini, sant’Agnese a sinistra e santa Cecilia a destra (sant’Elena secondo Monciatti 2005a, senza spiegazioni): Filippini non attesta alcuna iscrizione. Le due sante hanno il manto sopra tuniche ornate da larghe fasce gemmate incrociate sul davanti; dal velo che copre il capo sfuggono qua e là i capelli. Hanno un giglio in mano e nell’altra una lampada accesa. Filippini ci informa che al momento della scoperta la finestra centrale era murata e dipinta con una Vergine del Carmine, certamente più tarda degli altri dipinti (Bonifacio VIII concesse San Martino ai Monti ai Carmelitani nel 1299) che dovette essere rapidamente distrutta visto che nessun acquerello la documenta. Le copie riproducono solo la parete absidale, ma Filippini scrive che le altre tre pareti erano «dipinte da alto, infino a terra, con pitture, simili a i grotteschi del nostro tempo, e non contenevano quasi altro, che alcuni tondi, o circoli, dentro i quali erano uccelli e fiori, et in alcuni la figura d’un Cristo, come fin’hora si vede in due ordini de i detti circoli, che al pari del soffitto sono restati illesi, e servono per fregio a due delle medesime pareti; essendosi fatto di nuovo alla quarta parete il fregio, con altri tondi, che contengono l’insegne di Santa Chiesa e dell’Impero» (Filippini 1639, 16).
Iscrizioni
1 - Iscrizione celebrativa, già disposta nella fascia rettangolare alla sommità dell’abside, allineata su una riga orizzontale. Perduta.
Virgo Maria salutatur stupet annuit et gravidatur. Concipit ad verbum angeli per Spiritum sanctum Trascrizione in base ai disegni acquerellati, BAV, Barb. lat. 4405, f. 42v; WRL 9088. Filippini 1639, 8. 2 - Iscrizione dedicatoria, disposta nella fascia rettangolare sottostante la calotta absidale, allineata su una riga orizzontale. Perduta. 1
Le pitture della cappella, situata nel monastero presso la chiesa, furono scoperte nel corso dei lavori promossi nel 1636 dal priore Giovanni Antonio Filippini. Filippini fu entusiasta del ritrovamento, credendo che si trattasse dell’oratorio in cui san Silvestro diceva la messa, e scrisse di questa cappella chiamandola «l’oratorio di San Silvestro». Questa descrizione completa e arricchisce quanto documentano gli acquerelli realizzati negli stessi anni da Marco Tullio Montagna (BAV, Barb. lat. 4405, ff. 42v, 49). La parete absidale era riccamente decorata [1]. Al centro del catino absidale era la Vergine con il Bambino su un trono gemmato senza schienale, con ai lati quattro santi stanti: il papa Silvestro e san Paolo a sinistra, a destra san Pietro e san Martino papa, tutti identificati da iscrizioni (Iscr. 3) ad eccezione di san Martino, che è il papa, e non il santo vescovo di Tours (Filippini 1639). Silvestro e Martino indossano ambedue il phrygium e il pallium, e hanno in una mano un libro chiuso, tendendo invece l’altra verso la Vergine. Indossano un manto sopra una tunica riccamente decorata a motivi di gemme e di medaglioni con uccelli. San Paolo ha veste bianca, piedi nudi, un rotulo nella sinistra e la destra levata verso la Vergine; anche san Pietro ha i piedi nudi, 104 SAN MARTINO AI MONTI / ATLANTE I, 26
un manto arancio sulla tunica, un libro chiuso nella sinistra e la destra benedicente. L’acquerello mostra i personaggi stagliati sul fondo azzurro dell’abside, che al sommo è conclusa da una camera fulgens punteggiata di stelle. In basso i personaggi poggiano su una fascia verde, e al di sotto corre l’iscrizione «fracta vetusta (...)» (Iscr. 2). Attorno alla curva absidale una doppia fascia decorativa con semicrocette rosse e blu su fondo bianco, la seconda anche con una fascia a ghirlande vegetali; e sulla parete, da ambedue i lati una colonna tortile con capitello corinzio davanti ad una seconda colonna scanalata, portanti un architrave con soffitto cassettonato e sormontato dall’iscrizione «Virgo Maria salutatur (...)» (Iscr. 1) inquadrata fra due file di ovuli e di palmette stilizzate. Altri due capitelli e una piccola porzione di colonna spuntano molto più vicino al sommo della curva absidale. Secondo Filippini, l’iscrizione si riferiva ad un’Annunciazione, giudicata più tarda dal Mellini (ante 1667, BAV, Vat. lat. 11905, f. 156r) e tuttavia non attestata nelle copie. Nei triangoli di risulta, una coppia d’agnelli si stagliava al di sopra di un suolo disseminato di foglie d’acanto. Gli acquerelli del BAV, Barb. lat. 4405, f. 49 e di WRL 9093 mostrano che la decorazione proseguiva nell’emiciclo absidale
Fracta vetusta nimis solisq(ue) relicta ruinis ne Silvestri obeat noctis amica domus. Pr(esbyte)r hanc renovat sacrumq(ue) altare vetustum rep{p}arat inque Dei praesulis inque decus Trascrizione in base ai disegni acquerellati, BAV, Barb. lat. 4405, f. 42v; WRL 9088. Integrazione ed espunzione secondo Filippini 1639, 8. Hincque per inque, Filippini 1639, 8. 3 - Cinque iscrizioni identificative, disposte, secondo Filippini (che fornisce l’unica edizione), accanto ai personaggi. «Le lettere de i nomi sono tutte bianche, & hanno qualche similitudine di carattere Gothico», Filippini 1639, 15. 3a - Già nella calotta absidale: S<anctus> Petr(us) 3b - Già nella calotta absidale: S(an)c(tu)s Paul(us) 3c - Già nella calotta absidale: S(an)c(tu)s Silve(st)r<us> p<a>p<a> 3d - Già nell’emiciclo absidale: S(an)c(tu)s Eusebius Ep(iscopu)s Cellen(sis)
3e - Ubicazione nell’emiciclo absidale: S(an)c(tu)s Thomas Cantuar archiep(iscopu)s (S. Ric.)
Note critiche
La presenza di Thomas Becket aureolato nell’emiciclo absidale fornisce un indiscutibile post quem al complesso pittorico, eseguito dunque dopo la morte del santo nel 1170 e la sua canonizzazione nel 1173. Alcuni hanno voluto datare gli affreschi all’epoca del cardinal Uguccione (†1205), donatore di nuovi amboni alla chiesa nel 1201 (Wilpert 1916, I, 335; van Marle 1921, 176; Borenius 1932, 15; Boaga 1956, 277). La cronologia più solida e comunemente accettata è però quella di Vielliard (1931, 113-114): la campagna pittorica appartiene alla fase dei lavori intrapresi nel primo quarto del secolo nel monastero di San Martino ai Monti da parte del successore di Uguccione, Guala Bicchieri, cardinale di San Martino dal 1211 al 1227, già canonico di Sant’Eusebio a Vercelli, poi legato pontificio in Francia tra 1208 e 1209, e tra 1216 e 1218 in Inghilterra, da dove egli portò un coltello liturgico appartenuto a Thomas Becket (Castronovo 1992, 221). La presenza di Thomas Becket e di Eusebio di Vercelli negli affreschi indicano quindi Guala Bicchieri come il più probabile committente della decorazione della cappella. San Thomas Becket appare dunque in una decorazione monumentale romana qualche anno dopo le sue prime apparizioni ad Anagni e al duomo di Monreale, dove ha una fisionomia del tutto analoga a quella di San Martino ai Monti, con capelli scuri e corta barba. Il culto e l’iconografia di Thomas Becket ebbero una grande fioritura in Italia tra la fine del XII e la prima metà del XIII secolo (Nilgen 1995, 115). Vi contribuì anche Onorio III, facendo riconsacrare nel 1217 l’altare della cripta dei Santi Bonifacio e Alessio, in cui era contenuta una reliquia del santo inglese. Onorio manteneva buone relazioni con Canterbury, l’arcivescovado di Becket: aveva riabilitato l’arcivescovo di quegli anni, Stephan Langton – esiliato per ordine di Innocenzo III – e concesso indulgenze ai pellegrini che visitavano la sepoltura del santo nel 1220, in occasione del giubileo promosso da Langton per celebrare la traslazione del corpo del santo (Nilgen 1995, 110). Il contesto per l’arrivo delle reliquie a Roma era dunque favorevole: esse arrivarono probabilmente durante il pontificato di Onorio, portate forse da Guala al suo ritorno in Italia nel 1219, o dall’arcivescovo di Canterbury, Stephan Langton, che era a Roma nell’autunno 1220 (Pezza 2004, 118). L’oratorio di San Silvestro, costruito come l’intero monastero di San Martino ai Monti sulle fondazioni di una casa romana, utilizzava un muro del III secolo ma era certamente medievale, risalente alla fase della fondazione del monastero sotto Sergio II (844-847) o al rinnovamento promosso da Guala (Vielliard 1931, 99-101, 111). L’iscrizione «fracta vetusta (...)» conferma che nel Duecento lo si collegava alla persona del papa Silvestro, il che potrebbe forse dare indicazioni circa la scelta dei motivi decorativi, di eco anticheggiante e paleocristiana. I modelli forse venivano da vicino, visto che al pianterreno della casa romana la sala detta “a sei vani” aveva pitture romane a colonnette, racemi e ghirlande, oggi perdute ma ancora visibili nel Seicento (BAV, Barb. lat. 4405, f. 44; Buchowiecki 1974, 904). Esse non dovettero rimanere inavvertite nel Duecento, quando si dovette accedere alla sala per rinforzare le fondazioni del monastero, in vista dei lavori di rinnovamento. Si potrebbe anche pensare che le decorazioni che Filippini descrive sulle altre tre pareti dell’oratorio e che definisce «grotteschi» fossero pitture duecentesche all’antica (Silvagni 1912a, 42); anche i tondi con uccelli che egli descrive ricordano quelli che decorano le tuniche di Silvestro, Martino, Eusebio e Thomas nell’acquerello e – inoltre – i motivi di gusto paleocristiano nell’oratorio di Onorio a San Sebastiano fuori le mura (¤ 15). Lo schema compositivo della decorazione ricorda quello paleocristiano della perduta abside di Sant’Andrea in Catabarbara SAN MARTINO AI MONTI / ATLANTE I, 26 105
(WRL 9172) – con una Vergine in trono al posto del Cristo come già era accaduto circa cinquant’anni prima nel mosaico absidale di Santa Maria Nova (Enckell Julliard-Romano, in Corpus IV ¤ 58) – nonché la parete dell’oratorio di San Nicola in Laterano, con la Vergine coronata in trono affiancata da papi (Croisier, in Corpus IV ¤ 49). Ma soprattutto significativa è l’associazione di Silvestro e di Becket: il programma dell’oratorio dovette esser concepito per celebrare il primato del potere ecclesiastico e pontificio. Silvestro era figura cruciale per la Chiesa, riunendo nella propria persona il potere sacerdotale e anche quello temporale, accordatogli da Costantino. Silvestro aveva ottenuto l’accordo con l’Impero, tramite Costantino; Becket invece aveva dato la vita nella lotta per la legittimità del potere ecclesiastico. Le tensioni tra Papato e Impero erano ben lungi dall’essere risolte all’inizio del Duecento, e sia Innocenzo III che Onorio avevano dovuto battersi per imporre l’autorità pontificia a re e imperatori. Forse le «insegne della Santa Chiesa e dell’Impero» che Filippini menziona, purtroppo in modo non chiaro (1639, 16), se erano davvero duecentesche, potrebbero esser state legate a questi temi. Il programma pittorico dell’oratorio di San Silvestro può esser stato un’ennesima affermazione delle tradizionali prerogative dell’autorità della Chiesa di fronte all’Impero, e il gusto antichizzante dei dipinti bene potrebbe esser considerato esito coerente della ‘moda’ antiquaria particolarmente forte nella Roma ‘gregoriana’ e post-gregoriana dei secoli XI e XII.
Interventi conservativi e restauri
1636-1655: lavori di restauro diretti da Filippini. Probabili primi restauri agli affreschi. Ante 1771: Vasi deplora i ritocchi agli affreschi (Vasi 1771). Inizio del XX secolo: gli affreschi sono totalmente svaniti (Silvagni 1912a, 39).
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17. LA DECORAZIONE DI SANTA BIBIANA
1927-1937: demolizione delle parti alte del monastero, compreso l’oratorio, per problemi statici.
Documentazione visiva
Marco Tullio Montagna, disegni acquerellati (XVII secolo), BAV, Barb. lat. 4405, ff. 42v, 49; disegni acquerellati (XVII secolo), WRL 9088, 9093; BVR, L. 28, f. 42; Jean Baptiste Séroux d’Agincourt, disegni a matita e a penna (1780-1790), BAV, Vat. lat. 9843, ff. 43, 46; Jean Baptiste Séroux d’Agincourt, disegno a matita (1780-1790), BAV, Vat. lat. 9849, ff. 64r-65r; Séroux d’Agincourt 1826-1829, V, tav. CV.5.
La chiesa medievale di Santa Bibiana era il frutto di – almeno – due campagne di lavori. La prima, dovuta al papa Simplicio I (468483; LP I, 249), che fece costruire una chiesa sul sito della sepoltura della santa, e una seconda, attestata da un’iscrizione e conclusa nel 1224, sotto Onorio III (LP II, 453; Forcella 1877, XI, 114, n. 229; Ferri 1904, 153-155). La chiesa venne rinnovata e fu ricostruito l’annesso convento femminile: è probabile che questi lavori onoriani siano legati alla riforma spirituale del convento, in continuità con le iniziative di Innocenzo III nei confronti dei conventi femminili romani, tese soprattutto a imporre la clausura (Koudelka 1961, 43-48). Ma ci potrebbe essere stata una ragione ulteriore all’interesse di Onorio per Santa Bibiana: la chiesa era creduta sorgere sul luogo di sepoltura di «5266 martiri, senza contare le donne e i bambini», come dice una seconda iscrizione duecentesca (Forcella 1877, XI, 113; Claussen 2002, 179). La presenza di questi anonimi martiri a Santa Bibiana richiama quella dei santi Innocenti (Ap 6, 9-11) fatti raffigurare probabilmente da Onorio nel mosaico absidale della basilica di San Paolo, che conservava le loro reliquie (¤ 8); nonché quelli, analogamente onoriani, del Massacro degli Innocenti a San Sebastiano fuori le mura (¤ 15). Il restauro della chiesa di Santa Bibiana potrebbe dunque essere un ulteriore episodio della particolare devozione che Onorio sembra aver tributato alla variegata categoria dei santi anonimi/Innocenti – la distinzione tra i diversi gruppi non osta, a nostro avviso, a considerarsi affini nella sensibilità duecentesca.
Fonti e descrizioni
Filippini 1639, 8-16; Lezana 1645-1656, 553, 558; Benedetto Mellini (ante 1667), BAV, Vat. lat. 11905, ff. 155v-156r; Piazza 1703, 425-427; Vasi 1771, I, 119-120.
Bibliografia
Séroux d’Agincourt 1826-1829, III, 241; Platner et al. 1838, III2, 244-245; de Rossi 1899; Marucchi 1902, 318; Silvagni 1912a, 11-12, 39-44; Silvagni 1912b, 331-332, 359-364; Silvagni 1913, 172; Wilpert 1916, I, 335-337; van Marle 1921, 111, 176; Vielliard 1931, 99-114; Borenius 1932, 14-15; Demus 1949 [1988], 453; Boaga 1956, 277-278; Bertelli 1961, 339; Waetzoldt 1964, 5354; Matthiae 1966a [1988], 156; CBCR 1971, III, 88, 91, 93; Buchowiecki 1974, 885, 905; Métraux 1979, 33-70; Lanz 1983, 83; Iacobini 1991, 261; Pistilli 1991, 56; Nilgen 1995, 111; OsborneClaridge 1998, 97-98, 107; Romano 2000b, 154; Gardner 2003, 1257; Pezza 2004, 117-118; Monciatti 2005a, 87-88; Pogliani, in Atlante I (¤ 26).
L’acquerello di Ciacconio del BAV, Vat. lat. 5407, f. 73r (copiato nel BAM, F. 221 inf. 2, f. 7) mostra che nell’abside della chiesa c’era un mosaico danneggiato e ridipinto, con la figura del papa Simplicio, primo fondatore della chiesa. Era una figura stante, di tre quarti; il papa aveva la barba e portava una tiara con due nastri pendenti, un pallio ornato da croci e sotto al pallio una casula rossa e una tunica bianca. Con la mano sinistra il papa accennava verso quello che doveva essere originariamente il centro della decorazione – verosimilmente il Cristo o la Vergine – mentre la destra era sollevata e mostrata aperta allo spettatore. Si tratta dell’unica porzione nota della decorazione absidale di Santa Bibiana, distrutta durante i lavori promossi da Urbano VIII (Int. cons.). Le recenti ricerche archeologiche hanno messo in luce frammenti di muratura forse dell’epoca della fondazione (Milella 2001, 223), provando che Onorio III rinnovò, non ricostruì ex fundamentis la piccola chiesa: l’abside duecentesca poteva dunque aver conservato strutture o decorazioni anteriori. L’immagine tramandata dall’acquerello non può tuttavia datarsi all’epoca paleocristiana: la forma appuntita della tiara e il pallio a “Y” obbligano a pensare a un momento posteriore al V secolo (Ladner 1941). Nell’impossibilità di accedere con certezza alla datazione onoriana ipotizzata dal Claussen (2002, 180), ma per non obliterarne del tutto il problema, abbiamo evocato la questione senza dedicare una scheda all’immagine conservata nell’acquerello.
Karina Queijo
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106 SAN MARTINO AI MONTI / ATLANTE I, 26
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SANTA BIBIANA 107
IL FRAMMENTO CON ONORIO III NELLA SACRESTIA dopo 1227 (?) Il frammento ancora oggi visibile si trova sulla parete meridionale della sacrestia (cm 80 ca. x 50 ca.) [1]. È illustrato nell’acquerello realizzato per Ciacconio al f. 56r del BAV, Vat. lat. 5407 [2], e rappresenta il papa Onorio III: così attesta anche Mellini, che nel XVII secolo vedeva ancora il nome del papa inscritto al di sopra della figura (Iscr. 1), così come un’altra iscrizione – dipinta o incisa – «Felicis Recordationis Honorius PP. Tertius VII Anno P.II. / In honorem Beate Bibiane Virginis et martiris consec...» (Benedetto Mellini, BAV, Vat. lat. 11905, f. 176r). Onorio, in piedi, con la barba, tende le mani verso destra; indossa la tiara, con i due nastri che scendono fino alle spalle, una tunica bianca, una casula rossa, e sopra ancora un pallio. La testa e la mano sinistra sono oggi perdute, ma si vede ancora l’estremità di uno dei due nastri e si capisce che il pallio era ornato di croci nere. Nel 1900 circa, Stevenson vedeva ancora qualche altro dettaglio da lui registrato nel disegno ora alla Vaticana (BAV, Vat. lat. 10577, f. 31r) [3]: la figura del papa appariva in un riquadro incorniciato da fasce, mentre sulla sinistra c’era un secondo riquadro con motivi architettonici e forse un sarcofago; sotto i due riquadri, dei velaria. Altre tracce di intonaco dipinto sono registrate in un altro punto della parete.
Iscrizioni
1 - Sopra la figura di papa Onorio III, perduta.
S<anctus> Honorius III pont<ifex> max<imus> Trascrizione da disegno acquerellato, BAV, Vat. lat. 5407, f. 56r. (S. Ric.)
Note critiche
L’acquerello di Ciacconio, anteriore ai lavori del 1624-1626, dice solo che il ritratto di Onorio si trovava allora «ad fores S. Vibianae». Successivamente ai lavori berniniani, il Mellini precisa che il frammento era sulla parete esterna nord della chiesa, dove alla fine dell’Ottocento lo vede Armellini (1891, 805), rilevandone il pessimo stato di conservazione e predicendone la rapida sparizione. In seguito, gli studiosi hanno dato per scontata la perdita del dipinto (a partire da Mann 1928) con l’eccezione di Ladner (1970), che vide il frammento già in sacrestia, con una cornice successivamente eliminata. Sul lato nord della chiesa si trovava fino al XVII secolo un portico, con una porta che comunicava con lo spazio interno della chiesa, murata poi durante i lavori berniniani (Fedini 1627, 65-66). La sacrestia attuale è invece un ambiente realizzato probabilmente nel primo trentennio del Novecento, nel corso dei lavori del 1903-1944 (Claussen 2002, 180): nel 1925 comunque, le piante conservate presso la SBAP (cartella Santa Bibiana) la indicano già come semplice ‘ripostiglio’. La parete meridionale dell’attuale sacrestia è dunque in realtà quella settentrionale della chiesa, dove Mellini descriveva il ritratto di Onorio. È Claussen (2002, 180) a chiedersi se l’ubicazione originaria del frammento non fosse piuttosto sulla facciata occidentale della chiesa, e se esso non fosse stato spostato sul lato nord quando, nel Seicento, la facciata fu rifatta. Nel 1900 circa, tuttavia, il disegno di Stevenson mostra che il dipinto sulla parete nord era ben più grande dell’attuale: e sembra dunque improbabile che il cantiere berniniano si sia preso la pena di non distruggere – come in altri casi coevi – le superfici pittoriche e le abbia staccate per riposizionarle tutte altrove nella chiesa. L’ipotesi più plausibile resta dunque che il frammento sia nella sua originaria ubicazione, e che l’espressione «ad fores» dell’acquerello di Ciacconio si riferisca al portale dell’ingresso settentrionale della chiesa.
Il disegno di Stevenson [3] mostra che il programma iconografico includeva una figura isolata in un riquadro (il ‘ritratto’ di Onorio) e almeno una scena narrativa (quella di cui Stevenson registra i motivi architettonici): identificare quest’ultima è ovviamente quasi impossibile, ma se veramente vi compariva un sarcofago si potrebbe pensare, ad esempio, a una Deposizione delle reliquie di santa Bibiana. La combinazione di pannelli iconici e di scene narrative è testimoniata in varie altre chiese romane (nella chiesa inferiore di San Crisogono, terzo quarto del XI secolo, Bordi-Romano, in Corpus IV ¤ 8; San Lorenzo fuori le mura, controfacciata della basilica pelagiana, XII secolo, Romano, in Corpus IV ¤ 53; controfacciata dei Santi Quattro Coronati, ¤ 30i). Il motivo dei velaria in un luogo aperto e protetto da un portico si ritrova anche nel chiostro di San Paolo fuori le mura (¤ 27). L’espressione «Felicis recordationis (...)» attestata dal Mellini è spesso usata nei documenti pontifici quando un papa ricordava decisioni prese dai propri predecessori. Non è possibile, allo stato delle informazioni esistenti, sapere se l’iscrizione fosse dipinta all’interno degli affreschi – e fosse così contemporanea alla loro realizzazione e dunque posteriore alla morte di Onorio, come anche l’affresco: è l’opinione di Ladner (1970, 94) – oppure se fosse apposta ad esempio su una lastra scolpita, e commemorasse quindi la consacrazione della chiesa senza alcun rapporto con i dipinti. Le condizioni di conservazione rendono molto difficile il giudizio stilistico sul dipinto: l’unico dettaglio è la piega morbida con cui la tunica bianca ricade sui piedi del papa che ricorda un po’ quelli della veste dello stesso Onorio nel mosaico di San Paolo (¤ 8). Altrettanto difficile da valutare è l’informazione trasmessa dal Fedini, il quale, anteriormente ai lavori berniniani, registrava dipinti murali sulla controfacciata («A mano sinistra della porta di mezzo sotto alla nave grande si vedeva una pittura sul muro à fresco, opera alla maniera di quattrocento anni, dove le Monache di Santa Bibiana distribuivano l’acque e l’herba»: Fedini 1627, 63). A voler dar fede a quel «quattrocento anni fa» si andrebbe a una cronologia duecentesca, addirittura attorno al 1227, data di morte di Onorio III; non c’è alcun dubbio che la decorazione pittorica di santa Bibiana fosse, nel medioevo e forse nel Duecento, più estesa di quanto lasci intravedere l’acquerello di Ciacconio.
Interventi conservativi e restauri
1624-1626: rifacimento della chiesa da parte del Bernini; parziale distruzione della decorazione. Primo trentennio del Novecento: costruzione della sacrestia attuale. L’affresco, già all’esterno, viene a trovarsi all’interno dell’ambiente, ed è provvisto di una cornice. Dopo 1970: eliminazione della cornice.
Documentazione visiva
Alfonso Ciacconio, disegno acquerellato (1590 ca.), BAV, Vat. lat. 5407, f. 56r; copia del Vat. lat. 5407, f. 56r, BAM, F. 221 inf. 2, f. 4; Mattheus Greuter, incisione in Ciacconio 1630 [1677], c. 48; Enrico Stevenson, disegno a matita (1900 ca.), BAV, Vat. lat. 10577, f. 31r.
Fonti e descrizioni
Alfonso Ciacconio, didascalia dell’acquerello (1590 ca.), BAV, Vat. lat. 5407, f. 56r; Fedini 1627, 63; Benedetto Mellini (ante 1667), BAV, Vat. lat. 11905, f. 176r.
Bibliografia: il ‘ritratto’ di Onorio III
Rohaut de Fleury 1889, 140; Armellini 1891, 805; Duchesne 1892, 453, nota 9; Enrico Stevenson (1900 ca.), BAV, Vat. lat. 10577, f. 30r; Angeli 1904, 74; Mann 1928, 124; Donckel 1937, 130; Armellini-Cecchelli 1942, 995, 1268; Waetzoldt 1964, 30; Buchowiecki 1967, 470; Ladner 1970, 94-95; Recio Veganzones 1974, 314; Guide rionali. Esquilino 1982, 62-64; Vasco Rocca 1983, 38 nota 38, 48; Parlato-Romano 1992 [2001], 151-152; Lanciani 1994, 124; Chiesa di Santa Bibiana s.d. [2000], 5; Claussen 2002, 179-180, 185.
Bibliografia: il ‘ritratto’ di Simplicio I, già nell’abside
Mann 1928, 108; Ladner 1941, 60-61; Armellini-Cecchelli 1942, II, 1268; Waetzoldt 1964, 30; Recio Veganzones 1974, 313316; Vasco Rocca 1983, 37; Zampa 1986, 59; Milella 2001, 223; Claussen 2002, 180, 182, 185. Karina Queijo
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108 SANTA BIBIANA
SANTA BIBIANA 109
18. I FRAMMENTI DELLA DECORAZIONE DELLA PARETE ABSIDALE DI SANTA MARIA NOVA Terzo decennio del XIII secolo
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Nel 1950, durante i lavori di rifacimento del soffitto a cassettoni che copre l’intero transetto di Santa Maria Nova, venne recuperato e staccato dalla sua originaria collocazione nel sottotetto un frammento di affresco rappresentante Cristo, con il libro nella mano sinistra, in una mandorla sorretta da un angelo. Pochi i tratti conservati delle due figure: i volti, inquadrati da aureole gialle profilate di bianco e rosso; le spalle di Cristo, coperte da una tunica bruno-rossastra impreziosita da una fascia gemmata e bordata di perle; la parte superiore del libro, in cui si leggono soltanto le lettere EG.. SU.. (Iscr. 1); e, infine, un’ala dell’angelo con le piume singolarmente delineate e colorate di bianco, verde e ocra. Una fotografia scattata prima dello stacco e pubblicata da Matthiae (1966a [1988], fig. 138) documenta le condizioni della pittura al momento del suo rinvenimento; mentre un sopralluogo nel sottotetto della chiesa ha potuto accertare la provenienza dell’affresco dalla sezione più alta della parete absidale, con il Cristo al centro, in asse con il sottostante clipeo contenente una croce, posto al culmine del mosaico absidale, databile agli anni Sessanta del XII secolo. Questa decorazione, oggi completamente perduta, ci è nota da due acquerelli di Antonio Eclissi, eseguiti verso il 1630-40 (WRL 8974, 8976: Romano-Enckell Julliard, in Corpus IV ¤ 58), quando gli affreschi qui in considerazione non vennero riprodotti, forse perché già danneggiati o, più probabilmente, nascosti da un soffitto posto all’incirca alla stessa altezza del cassettonato della metà del Novecento. Le dimensioni dei frammenti superstiti, la presenza della mandorla – solitamente associata a Cristo rappresentato stante o seduto, ma in ogni caso a figura intera – e l’altezza della sezione di parete tra la cornice del mosaico absidale e il tetto lasciano supporre che la decorazione prevedesse appunto personaggi a figura intera, profilati su fondo azzurro e inseriti all’interno di un campo delimitato da una sottile cornice a segmenti bianchi e rossi, in tutto uguale a quella che delimita il perimetro della mandorla di Cristo, di cui si conservano scarse ma inequivocabili tracce al di sopra delle teste dell’angelo e di Gesù. Nulla invece sappiamo circa la provenienza di un altro brano di pittura molto consunto, anch’esso staccato e, come gli altri, oggi esposto nella sacrestia della chiesa, in cui si distingue con certezza solo il frammento di un’aureola e una mano che sembra indicare alcuni elementi colorati di rosa e di bianco – con buona probabilità delle nuvole – fluttuanti un poco più in alto sul fondo azzurro [3]. Il colore giallo oro e il doppio bordo bianco 110 SANTA MARIA NOVA / ATLANTE II, 25
e rosso accomunano quest’ultima aureola a quelle del Cristo e dell’angelo nell’altro frammento. Nelle condizioni attuali tuttavia non è possibile avanzare alcuna ipotesi circa il nesso compositivo e tematico che i due brani potevano eventualmente stringere, e che, in ogni caso, doveva vedere il frammento meno leggibile in una posizione più bassa rispetto all’altro, per l’assenza del bordo bicolore che corre poco al di sopra delle figure.
Iscrizioni
1 - Iscrizione esegetica, disposta all’interno dell’area illustrata, nel libro sorretto da Cristo, allineata su due righe verticali (conservate) per pagina, secondo un andamento rettilineo irregolare. Lacunosa. Scrittura maiuscola gotica.
E/g/[o] // s/u/[m] (S. Ric.)
Note critiche
Ogni tentativo di definire le matrici culturali delle pitture si scontra con l’esiguità dei frammenti superstiti, ridotti quasi esclusivamente ai lineamenti delle due figure. Il volto di Cristo, molto rovinato e abraso, conserva fra i tratti più leggibili il profilo della testa e i capelli che ricadono sulle spalle in ciocche, separate da pennellate fluide che ne esaltano la morbida consistenza. Più salda appare invece la definizione dei tratti somatici come ad esempio il disegno netto degli archi sopraccigliari e del naso, costruito con una spessa linea di contorno rossa, o la trama delle lumeggiature che costruiscono graficamente l’intera maschera facciale e si addensano in particolare sulla fronte a rilevare le orbite degli occhi, sul naso, sul labbro superiore e sulle gote a separare come due filamenti luminosi i pomelli rossi degli zigomi dalla parte inferiore delle guance. Una maggiore morbidezza caratterizza invece l’incarnato dell’angelo, al quale certamente giova uno stato di conservazione migliore. Anche in questa figura sono visibili i rialzi luminosi che costruiscono il viso, animato da due grandi occhi disegnati con spesse linee di contorno e con orbite e occhiaie scurite dall’ombra per conferire allo sguardo maggiore intensità. Il segno incisivo dei tratti somatici può trovare qualche significativo elemento in comune con i volti negli affreschi del cosiddetto oratorio di
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SANTA MARIA NOVA / ATLANTE II, 25 111
Onorio III, presso la chiesa di San Sebastiano fuori le mura (¤ 15). A dispetto dello stato rovinoso di quest’ultimo ciclo e delle differenze qualitative tra i pittori in attività nel complesso del Foro e in quello sull’Appia, in entrambi i monumenti si può scorgere il comune sforzo di conferire consistenza plastica alle figure attraverso l’irreggimentazione dei sistemi lineari propri delle modalità costruttive di matrice bizantina, con un effetto che si traduce in tratti marcati e contorni assai spessi. La massa dei capelli dell’angelo in Santa Maria Nova è realizzata poi con ciocche inanellate e raccolte in un’acconciatura elegante, che ricorda la capigliatura degli angeli ai lati dell’Etimasia del mosaico absidale di San Paolo fuori le mura (¤ 8); un partito quest’ultimo di sicura provenienza veneziana, che avrà grande fortuna a Roma e che, a Santa Maria Nova, sembra incarnare uno stadio iniziale del suo processo di adattamento in città. Infatti, le figure che possono con certezza essere attribuite alla stesura originaria del mosaico ostiense presentano non pochi tratti in comune con quelle dell’affresco: dal disegno degli occhi alla costruzione della bocca, con il labbro superiore separato con una spessa linea nera da quello inferiore un po’ più piccolo; dal sistema filante delle lumeggiature alla fitta trama di pieghe piuttosto ripetitive e standardizzate, che in un caso animano il piccolo lacerto della veste di Cristo – dunque ancora memore delle accensioni lineari e dinamico-luministiche della pittura tardocomnena – nell’altro definiscono i rigidi panneggi degli angeli, del sacrista Adinolfo e dell’abate Giovanni Caetani, dove è evidente il sopravvento del linguaggio locale sull’innesto veneziano. La notizia di un incendio divampato in chiesa per tre giorni nel 1216 (Campello 1883, 8) e la memoria tramandataci da Fioravante Martinelli (1653, 231) – desunta da un’iscrizione perduta ma trascritta in un manoscritto non identificato di Pompeo Ugonio – del rifacimento del tetto ad opera del camerario papale Sinibaldo, già morto nel 1222 e sepolto nell’atrio della basilica (Rusch 1936, 138), sono fatti che la storiografia non ha mancato di correlare e di leggere come probabili post quem per la realizzazione degli affreschi (Claussen 2002, 468). Le stesse informazioni consentono altresì di datare ad epoca anteriore a quella della morte del camerario l’immagine della Madonna col Bambino che decorava la cuspide centrale del portico di Santa Maria Nova e che, illeggibile nelle sue linee iconografiche, è documentata da una incisione del XVI secolo (Claussen 2002, 479, fig. 382). In questa chiave cronologica possono essere letti anche i legami
stilistici tra le figure dell’abside ostiense e le pitture in Santa Maria Nova, benché queste ultime tradiscano una fattura più sciolta e libera, che sembra anticipare modalità di stesura del colore (nonché la comparsa di elementi iconografico-decorativi, come la fascia con perle e gemme della veste di Cristo) da leggere come spie di una più avanzata data di realizzazione (Matthiae 1966a [1988], 143; Claussen 2002, 468), forse durante il pontificato di Gregorio IX (1227-1241). Di grande interesse infine è la natura e il carattere della campagna decorativa che i frammenti pittorici documentano. L’originaria collocazione dei pochi lacerti testimonia come in realtà si trattasse di un consistente intervento di aggiornamento e arricchimento della parete absidale – magari esteso all’intero transetto – di cui però non è possibile definire in alcun modo l’entità e la complessità tematica. Forse, accanto al tema iconico della Maiestas Domini non mancavano episodi a carattere narrativo, anche di ragguardevoli dimensioni. La loro esecuzione con una tecnica differente e a distanza di oltre un secolo dalla primitiva decorazione dell’abside presenta caratteri del tutto inediti nel panorama romano e, semmai, sembra anticipare la più tarda stagione dei ‘restauri’ nell’abbaziale di Grottaferrata.
Interventi conservativi e restauri
Stacco delle pitture successivo all’ottobre 1950, ma forse entro la fine di quello stesso anno.
Documentazione visiva
Fotografie (ottobre 1950), Soprintendenza ai monumenti del Lazio: 1671, 1672, 4601.
Fonti e descrizioni Martinelli 1653.
Bibliografia
Campello 1883, 8; CBCR 1937, I, 222; Matthiae 1966a [1988], 142-143 e fig. 138; Buchowiecki 1974, 57; Parlato-Romano 1992 [2001], 143-144; Claussen 2002, 468. Walter Angelelli
19. IL MOSAICO DELLA FACCIATA DI SAN PIETRO IN VATICANO 1227-1241
Tre frammenti del mosaico di facciata di San Pietro scamparono alla demolizione del 1606: il ritratto di papa Gregorio IX (MPB 5651), molto restaurato [2]; un volto maschile in atto di levare la testa verso l’alto, identificato come quello dell’evangelista Luca (MV, inv. 44915), in discreto stato di conservazione [3]; e un busto della Vergine (MPM, inv. 2858), molto restaurato soprattutto nella zona del velo e del collo [4]. I due ultimi sono stati collegati alla facciata vaticana solo nel 1989, in occasione della mostra Fragmenta Picta (Ghidoli 1989; Andaloro 1989a). Le descrizioni di Alfarano e Grimaldi e l’acquerello di Tasselli danno un’idea abbastanza precisa della decorazione della facciata all’inizio del XVII secolo. Il testo di Grimaldi è preciso (BAV, Barb. lat. 2733, f. 131): c’erano due registri, ognuno interrotto da tre finestre e separati tra loro da una fascia con una lunga iscrizione (Iscr. 2). Nel registro alto appariva il Cristo in trono con il libro aperto e la mano benedicente, alla sua destra la Vergine, alla sinistra san Pietro, ambedue in piedi e con le mani tese verso il Cristo. Grimaldi ricorda la presenza di Gregorio IX (Iscr. 1a) inginocchiato ai piedi del trono, in atto di offrire al Signore delle monete d’oro posate su un cuscino. Un disegno di Ciacconio (BAV, Vat. lat. 5407, f. 25r) documenta più precisamente la figura del papa, rappresentato con le mani giunte, con la tiara, una casula scura e un pallio sopra una veste chiara decorata a piccoli disegni a puntini dorati. Ancora più lontano c’erano i simboli degli evangelisti, a sinistra il Leone e l’Angelo, a destra l’Aquila e il Toro. Più in basso, tra le finestre, i quattro evangelisti Marco, Matteo (Grimaldi ne inverte l’ordine rispetto ai simboli), Giovanni e Luca. Un secondo disegno di Ciacconio (BAV, Vat. lat. 5407, f. 62r) mostra san Matteo con barba e capelli scuri, tunica azzurra e manto bianco, libro nella sinistra e la destra levata [5]. Tra le finestre del registro inferiore c’erano i Ventiquattro Vegliardi dell’Apocalisse in quattro gruppi, in atto di offrire al Cristo le loro corone. Sotto ad essi gli agnelli uscenti dalle città di Betlemme e Gerusalemme raffigurate ai due estremi della facciata. Il disegno di Tasselli [1] conferma questa descrizione, anche se in modo meno preciso e senza attestare alcuni dettagli, come le monete d’oro sul cuscino e gli agnelli: questi dettagli mancano in tutte le copie più tarde, che si basano tutte sull’acquerello di Tasselli.
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BAV, Barb. lat. 2733, ff. 133v-134r (Grimaldi 1619 [1972], 164165). 2 - Iscrizione esegetica, già nella fascia rettangolare che separava le immagini del registro superiore da quelle del registro inferiore.
Ceu sol fervescit sidus super omne nitescit et velut est aurum rutilans // super omne metallum / doctrinaque fide calet et sic / pollet ubique / ista domus petra supra fabri/cata quieta BAV, Barb. lat. 2733, ff. 131v-132r (Grimaldi 1619 [1972], 163). 3 - Iscrizione identificativa, già associata a san Matteo.
S<anctus> Matthaeus apostolus et evangelista Testo secondo BAV, Vat. lat. 5407, f. 62r. 4 - Iscrizione esegetica, già nel libro sorretto da san Matteo.
Iscrizioni
Le iscrizioni sono tutte perdute, le trascrizioni, tranne quando specificato diversamente, sono state eseguite dal disegno di Domenico Tasselli, ACSP, A. 64 ter (Album), f. 10r.
Assumpsit Iesus Petrum, Iacobum et Ioannem Testo secondo BAV, Barb. lat. 2733, f. 131v (Grimaldi 1619 [1972], 163).
1 - Tre iscrizioni identificative, già disposte in alto, a sinistra della figura del papa (a), e in basso alle due estremità, destra (b) e sinistra (c), del registro inferiore. 1a - Gre/gorius / papa IX Grego/rius / p<a>p<a> VIIII, BAV, Barb. lat. 2733, ff. 133v-134r (Grimaldi 1619 [1972], 164-165). 1b - Bet/le/em Beth/le/em, BAV, Barb. lat. 2733, ff. 133v-134r (Grimaldi 1619 [1972], 164-165). 1c - Hieru/salem
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(S. Ric.)
Note critiche
La facciata della basilica vaticana offre un’opportunità rara per comprendere quali potessero essere i nessi di un programma realizzato nel Duecento – nel caso specifico, da Gregorio IX – con un programma più antico: ben diversamente che nel caso, ad esempio, delle absidi vaticana e ostiense, dove il discorso rimane molto più ipotetico. Una miniatura del manoscritto di Farfa, oggi a Windsor (WEC, Cod. Farf. 124, f. 122) mostra infatti – con tutti i limiti ‘documentari’ di una miniatura – l’aspetto che la facciata vaticana doveva avere nell’ultimo quarto dell’XI secolo quando fu eseguita la miniatura (Bordi, in Corpus I ¤ 46) e ancora nel 1227, anno dell’elezione pontificia di Gregorio IX. Tra l’XI secolo SAN PIETRO IN VATICANO / ATLANTE I, 1 113
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e il pontificato di Gregorio IX si registra anche un intervento alla facciata, voluto da Innocenzo III: ma secondo le fonti si trattò di un semplice restauro (Ad Innocenti III Vitam Addimentum [1841], 302). Secondo Wilpert (1916, I, 373) tuttavia, la miniatura farfense restituirebbe un’immagine molto sintetica della facciata, limitata ai soli elementi indispensabili a identificarla; Krautheimer e Corbett considerano probabile che le due file di finestre attestate da Tasselli esistessero già dal tempo di Leone I (440-461). Sotto Gregorio IX, essa sarebbe stata soltanto rialzata tramite l’inserzione di un cavetto (CBCR 1980, V, 222; Bordi, in Corpus I ¤ 46). Dal punto di vista iconografico, la miniatura di Farfa e il disegno di Tasselli concordano nel testimoniare un programma di tipo apocalittico. Molto simili sono i quattro gruppi dei Vegliardi tra le finestre: non si sa tuttavia se Gregorio IX abbia fatto conservare questa parte dell’antico mosaico e integrarla nel nuovo (Pinelli 2000, 32). Il tema dei Vegliardi è stato comunque recuperato e ricontestualizzato, e la stessa cosa si deve dire del tetramorfo. Il carattere sintetico della miniatura di Farfa non permette di dire se in quella fase gli evangelisti erano già doppiamente raffigurati, come simboli e come figure umane, e se nella parte inferiore apparivano gli agnelli: l’unico agnello visibile nella miniatura è l’Agnus Dei nel clipeo posto alla sommità della facciata. Secondo Wilpert, sotto l’Agnello si sarebbe trovato un Cristo, non testimoniato nella miniatura (Wilpert 1916, I, 373; Bordi, in Corpus I ¤ 46). Il trono attestato da Tasselli deve esser stato però un’innovazione puramente duecentesca, eco delle Maiestates delle absidi di San Pietro e San Paolo. La presenza della Vergine e di san Pietro è sembrata improbabile a vari studiosi: Grisar per primo (1895 [1899], 494-496) pensava che la lettura di Grimaldi fosse sbagliata, e basandosi sul testo inscritto sul libro di Matteo, «Assumpsit Iesus Petrum, Iacobum et Ioannem» (Mt 17, 1-9), riferito alla trasfigurazione di Cristo, proponeva che la facciata recasse appunto una Trasfigurazione. Accanto a Matteo 114 SAN PIETRO IN VATICANO / ATLANTE I, 1
ci sarebbero quindi stati Pietro, Giacomo e Giovanni, e ai lati del Cristo Mosè ed Elia. Altri ancora hanno pensato al Cristo in maestà con Pietro e Paolo, in uno schema iconografico debitore all’abside vaticana (Mignanti, 1867, 38; Paravicini Bagliani 2001, 220). Il disegno di Tasselli non consente di concludere in un senso o nell’altro, ma l’Ytalia di Cimabue ad Assisi, dove compare la facciata della basilica vaticana, dà ragione a Grimaldi testimoniando la Vergine e san Pietro ai lati del Cristo (Harding 1983, 152; Andaloro 1984, 155-156; Ead. 1989a, 139). Le obiezioni sono cadute quando a Mosca si è ritrovato il busto di una Vergine a mosaico, compatibile con lo stile romano degli anni di Gregorio IX: il mosaico è stato identificato con il frammento dalla facciata vaticana (Andaloro 1989a) [4]. Di fatto dunque la facciata recava una variante della Deesis bizantina, con san Pietro, titolare della basilica, al posto del Battista quale intercessore presso il Cristo al pari della Vergine (Andaloro 1970, 109-110; Iacobini 1991, 274). Un precedente della Deesis – ma con il Battista – si trovava già nel Giudizio della controfacciata di Santa Maria Assunta a Torcello, giusto accanto all’Etimasia con le Arma Christi: forse i mosaicisti veneziani giunti a Roma per il mosaico dell’abside di San Paolo contribuirono a diffondere questi temi iconografici in città, ma non bisogna dimenticare che un’altra Deesis si trovava già dall’inizio del XII secolo sull’ingresso del nartece dell’abbazia di Grottaferrata (Andaloro 1983, 266-269; Harding 1983, 81; Pace 1987, 58), e, specificamente su una facciata, dal 1207 su quella del duomo di Spoleto, questa volta con Giovanni Evangelista (Harding 1983, 107-108; Andaloro 2002b). Lo schema originario con il san Giovanni Battista si troverà a Roma negli anni Quaranta nella cappella di San Silvestro ai Santi Quattro (¤ 30f). La Deesis comporta sempre implicazioni apocalittiche più o meno esplicite, l’intercessione della Vergine e del Battista presso il Cristo riferendosi tradizionalmente alla fine dei tempi; essa risulta quindi adatta a comparire nei contesti figurativi apocalittici sull’ingresso
delle chiese, all’esterno e all’interno (Harding 1983, 111). Altri dubbi toccano il dettaglio del cuscino con le monete d’oro offerte da Gregorio, descritto da Grimaldi ma non nel disegno di Tasselli né in quello di Ciacconio (Stevenson, in Mostra della città di Roma 1884, 208-209; Grisar 1895 [1899], 493; Ladner 1961, 251-252). Grimaldi però è categorico, e si spinge a stabilire il nesso tra questo dettaglio e il rito dell’aurum coronarium, l’offerta di oro che l’imperatore presentava al papa in segno di sottomissione durante la cerimonia dell’incoronazione (BAV, Barb. lat. 2733, f. 131). Data la poca precisione del disegno di Tasselli, e il fatto che Ciacconio documenta solo la figura di Gregorio, non c’è ragione di mettere in dubbio la testimonianza di Grimaldi, che attesta tra l’altro dettagli minimi, quali l’iscrizione sul libro di Matteo. Il mosaico della facciata di San Pietro è la sola impresa nota di Gregorio IX a Roma. Innocenzo III aveva appena fatto restaurare la facciata, che quindi doveva essere in ottimo stato: la decisione di far eseguire un nuovo mosaico dice quindi molto circa l’importanza che il papa annetteva al nuovo programma. Il punto cruciale dell’aggiornamento iconografico era il dettaglio dell’offerta dell’oro da parte del papa al Cristo. Era un gesto di incondizionata sottomissione del papa al Signore – «genuflexus» e «fere prostatus» (BAV, Barb. lat. 2733, f. 131v) – e si esprimeva in modo molto simile alla proskynesis d’Onorio III a San Paolo (Harding 1995, 3536; ¤ 8). Ma, come ha ben scritto Gandolfo, questa sublimazione della cerimonia dell’aurum coronarium doveva anche illustrare la gerarchia dei poteri medievali: il potere si trasmetteva dal Cristo al papa, e poi solo il papa poteva trasmetterlo all’imperatore, incoronandolo nella basilica di San Pietro (Gandolfo 1988, 310-311). L’immagine di quest’ordine gerarchico riprendeva e continuava quella dell’abside innocenziana (¤ 5), in cui il papa otteneva la plenitudo potestatis direttamente dal Cristo, ma tramite l’unione con l’Ecclesia romana (Harding 1983, 152; Ead. 1995, 30, 33; Iacobini 2005, 61). Le risonanze temporali del rito dell’aurum coronarium sono anche nella posizione delle mani giunte di Gregorio IX, che ricordano il gesto feudale della commendatio, un rito in cui il vassallo posava le mani giunte nelle mani del suo signore in segno di sottomissione e fedeltà. È con il ritratto di Gregorio IX che questo nuovo gesto appare nell’iconografia pontificia, forse sotto influenza francescana, e pronto a trasformarsi più tardi nel gesto abituale della preghiera (Ladner 1961, 251-252, 274). Avere usato per la facciata vaticana un gesto che ricorda cerimonie imperiali o feudali si spiega forse con il difficile contesto politico degli anni di Federico II: Gregorio IX potrebbe aver voluto ristabilire il giusto ordine, precisando che l’imperatore doveva sottomissione al Cristo tramite il suo Vicario (Gandolfo 1988, 311) e così rivendicando la supremazia della chiesa contro l’arroganza delle prerogative imperiali. L’iscrizione (Iscr. 2) che separa i due registri del mosaico mette in evidenza proprio il motivo dell’oro, facendo un parallelo fra il sole e la basilica di San Pietro, simbolo della Chiesa, che brillano ambedue sul mondo, ambedue simili all’oro, il sole per il suo splendore, la Chiesa per la sua dottrina (Maccarrone 1983, 737). Tramite la nuova facciata a mosaico, San Pietro brillava dello splendore dell’oro nel vero senso del termine. E forse nell’iscrizione c’è anche l’allusione alla rivalità tra San Pietro e il Laterano, con una presa di posizione in favore della prima (Harding 1995, 33). La continuità stilistica tra il cantiere del mosaico absidale di San Paolo e quello della facciata vaticana, corroborata dalla loro stretta sequenza cronologica, è un dato presente già negli studi ottocenteschi (Grisar 1895 [1899], 492-493). Si era anzi creduto che non solo il busto di Gregorio, ma anche quello dell’apostolo proveniente da San Paolo e oggi alle Grotte Vaticane, provenissero ambedue dalla facciata di San Pietro. In effetti, le somiglianze tra i frammenti della facciata e le figure del mosaico ostiense sono molto marcate, e l’unico ad opporsi all’identificazione era stato il Matthiae (1966a [1988], 120). La Vergine dalla facciata [4], con gli occhi infossati nelle scure orbite, la fila di tessere rosse al contorno del naso, la ruga leggera tra le sopracciglia, ricorda molto
da vicino i registri bassi del mosaico di San Paolo (Etinhof 1991, 31-32; Iacobini 1991, 275), ad esempio gli angeli, testimoniando così di un linguaggio locale già radicato. Il volto di Gregorio IX [2] è terribilmente restaurato, così da rendere quasi impossibile il giudizio; Gandolfo (1988, 290; Id. 1997, 168) ne sottolinea la vicinanza al volto dell’abate Caetani a San Paolo, forse in qualche tratto delle sopracciglia e della parte alta degli occhi. Il volto del san Luca [3] invece si allontana completamente dai modelli ostiensi. Quando ancora il frammento non era stato riconnesso alla facciata vaticana, Maltese (1945, 206-207) ne notava la distanza rispetto all’abside di San Paolo, e lo datava all’XI-XII secolo; più recentemente Ghidoli (1989) e Monciatti (1997, 521) difendono la provenienza dalla facciata vaticana, argomentando che non c’era a Roma un altro cantiere di pari qualità e soprattutto – visto che il frammento proviene da una superficie piatta – non absidale. È difficile avere un quadro completo della produzione musiva a Roma nella prima metà del Duecento, ma ha ragione Monciatti (1997, 521) nel sostenere che in ogni caso l’autore del san Luca non è il medesimo della Vergine o di Gregorio IX: la forma degli occhi, la disposizione delle tessere, la gamma di colori terrosi e il tipo di materiali non coincidono con quelli dei due altri frammenti. La conclusione più logica è che a lavorare al mosaico della facciata siano stati chiamati vari gruppi di mosaicisti, al fine di concludere in tempi ragionevoli un progetto cruciale nelle intenzioni politiche del pontificato di Gregorio IX.
Interventi conservativi e restauri
1308: Gaddo Gaddi, chiamato a Roma da Clemente V, restaura la facciata di San Pietro (Vasari 1550 e 1568 [1967-1968], I, 279). 1336-1337: pagamento «pro reparatione frontis ecclesie et pignaculi a parte ante ipsius ecclesie tam in muro calce arena et cruce», in totale, 366 fl. (De Blaauw 1994, II, 639). Pontificati di Eugenio IV (1431-1447) e Niccolò V: restauri citati da Panvinio (Panvinio XVI sec. [1853], 233), Grimaldi (BAV, Barb. lat. 2733, f. 131v) e Torrigio (1639, 155). Le armi di Eugenio
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(XVII secolo), BAM, F. 221, inf. 2, f. 13 (Gregorio IX) e inf. 3, f. 14 (Matteo); disegno acquerellato (XVII secolo), ACSP, A. 64 ter (Album) f. 10; Giacomo Grimaldi (1612-1620), BAV, Barb. lat. 2732, f. 54; Giacomo Grimaldi (1619), BAV, Barb. lat. 2733, ff. 133v-134r; BAV, Barb. lat. 4410, f. 28 (insieme, dall’affresco nelle Grotte); Martino Ferrabosco, incisione in Costaguti 1620 [1684], tav. IV; inchiostro e acquerello (1621), BAV, Vat. lat. 11988, f. 101r; Giovan Battista Ricci da Novara (†1627), affresco in una lunetta delle Grotte Vaticane, Cappella della Madonna delle Partorienti; AW, Ital. Architekturzeichnungen, Rom, Mappen XXII-XXV, n. 600 (busto di Gregorio, già staccato); Fontana, Templum vaticanum et ipsius origo, 1694, 99, fig. 2; Ciampini 1693 [1747], tav. IX; Bonanni, Numismata summorum pontificum templi vaticani fabricam indicantia, 1699 [1715], tav. V, fig. 2; Valentini 1845, I, tav. IV, fig.1; de Rossi, 1899 tav. IX.3 (testa di Gregorio).
20. GLI AFFRESCHI STACCATI DALL’ABSIDE DI SAN BASILIO AI PANTANI LA VIRGO LACTANS E SANTI Quarto-quinto decennio del XIII secolo
Fonti e descrizioni
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erano visibili presso uno dei Ventiquattro Vegliardi (disegno di Tasselli). Tra 1574/75 e 1608: la facciata è ornata di volute (non appaiono ancora nel disegno di Dosio nel 1574-75 (CBCR 1980, V, 230). 1606: la facciata viene demolita. Vengono conservati solo tre frammenti: il busto di Gregorio IX e quello di Innocenzo III dall’abside sono dati al cardinal Conti (Mancini ante 1630 [19561957], 62); la Vergine entra in possesso del cardinale Benedetto Giustiniani, e probabilmente in questa stessa occasione viene messa in una cornice lignea (Etinhof 1991, 31; Danesi Squarzina 1999); la testa di Luca, verosimilmente acquisita da Giovanni Angelo Altemps, è posta in una lunetta della cosiddetta stanza del Borromeo di palazzo Altemps, e integrata a tempera (Torrigio 1639, 155; Maltese 1945, 206; Ghidoli 1989). 1793: la Vergine è ancora presso la famiglia Giustiniani. Metà del XIX secolo: restauro della Vergine (Etinhof 1991, 31). 1863: Pietr Ivanovic Sevastjanov, archeologo russo, compra la Vergine a Roma da un antiquario (Danesi Squarzina 1999, 1189). 1924: la Vergine entra al Museo Storico Statale di Mosca. 1932: la Vergine passa al Museo Pushkin. 1958: Don Andrea Torlonia vende il ritratto di Gregorio IX alla città di Roma, che lo deposita al Museo di Roma. 1984-1986: la Vergine è restaurata da T. Koch, a Mosca (Etinhof 1991, 30). 1989: la testa di Luca è restaurata da G. Liberati (consolidamento e reintegrazione a tinte neutre delle lacune) (Mancinelli 1989, 355).
Documentazione visiva
Cimabue, affresco (Ytalia), Basilica superiore di San Francesco ad Assisi (ca. 1280); Raffaello Sanzio e scuola, affresco, L’incendio del Borgo (1514-1517), Città del Vaticano, Stanze di Raffaello; Antonio Dosio, schizzo, Firenze, Uffizi (1574-1575) (perduto dopo il 1939); Alfonso Ciacconio, disegni acquerellati (1590 ca.), BAV, Vat. Lat. 5407, ff. 25r (Gregorio IX), 62r (Matteo); disegni acquerellati
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Ad Innocenti III Vitam Addimentum [1841], 302; Vita Gregorii IX, in RIS III, 578; Mariano da Firenze 1518 [1931], 78; Vasari 1550 e 1568 [1967-1968], I, 279; Alfarano 1574 [1914], 20, 31; Panvinio XVI sec. [1853], 233; Tiberio Alfarano (ante 1579), ACSP, G.5, 3; Ugonio 1588, 94v; Giacomo Grimaldi (1619), BAV, Barb. lat. 2733, ff. 14v, 118v, 131v-132r, 172v-173r; Giacomo Grimaldi (XVII secolo), ACSP, A. 64 ter (Album) f. 10; Giacomo Grimaldi (1621), BAV, Vat. Lat. 11988, ff. 98-99v; Inventario redatto alla morte di Benedetto Giustiniani (1621), ASR, Fondo Giustiniani, Notai del tribunale AC, uff. 8, vol. 1302 (Rainaldo Buratti); Mancini ante 1630 [1956-1957], 62; Inventario redatto alla morte di Vincenzo Giustiniani (1638), ASR, Fondo Giustiniani, b. 16; Baglione 1639 [1990], 42; Torrigio 1639, 154-155; Inventario di tutta la robba della Cappella della bona memoria del Signor Cardinale Giustiniani (1649), ASR, Fondo Giustiniani, b. 15 (volume 10A, parte IV), 92-94; Ciampini 1693 [1747], 37-38; Bonanni 1696 [1715], 54-55; Furietti 1752, 66, 93.
Bibliografia
Valentini 1845, 27-28; Barbier de Montault 1866, 44; Mignanti 1867, 37-39; Stevenson, in Mostra della città di Roma 1884, 208209; Stevenson 1887, 16-17; Rohault de Fleury 1889, 139; Clausse 1893, 395-397; Grisar 1895 [1899], 464, 480-498; de Rossi 1899; Wilpert 1916, I, 371-376; Muñoz 1921, 175; van Marle 1921, 175; Toesca 1927 [1965], 1001 nota 36; Van der Meer 1938, 93-94; Armellini-Cecchelli 1942, II, 901; Hermanin 1945, 273; Maltese 1945, 206-207; Schüller-Piroli 1950, 364-367; De Tóth 1955, 14; Sibilia 1958, 18-21; Muñoz 1959, 8-13; Ladner 1961, 251-252, 269, 274; Waetzoldt 1964, 67-68; Matthiae 1966a [1988], 120 e 157-158; Matthiae 1967, 127-128; Oakeshott 1967, 67, 256; Ladner 1970 , 98-105; Glasberg 1974, 125, 128; Wilpert-Schumacher 1976, 6567; L’arte di Bisanzio 1977, III, 14, n. 888; CBCR 1980, V, 176, 229-230; Harding 1983, 19, 72,149-160; Andaloro 1984, 155-156; Gandolfo 1988, 290, 310-311; Andaloro 1989a; Gandolfo 1989; Ghidoli 1989; Mancinelli 1989, 355; Etinhof 1991, 30-34; Iacobini 1991, 274-275; Boskovits 1993, 69; Morello 1993, 150; De Blaauw 1994, II, 638-639; Lisner 1994, 66-67; Carpiceci-Krautheimer 1995, 58; Harding 1995, 29-36; Carpiceci-Krautheimer 1996, 52; Gandolfo 1997, 168; Monciatti 1997, 518-522; Paravicini Bagliani 1998 [2005], 33, 49; Danesi Squarzina 1999, 1189-1195; Kessler 1999, 263; Silvan 1999b; Strinati 1999d; Gandolfo 2000, 188; Monciatti 2000e; Monciatti 2000f; Pace 2000, 312; Pinelli 2000, 31-32; Paravicini Bagliani 2001, 219-220; Gandolfo 2004, 38-40; Iacobini 2005; Bordi, in Corpus I (¤ 46); Pogliani, in Atlante I (¤ 1); Tomei 2007, 614; Piazza 2010, 129-130. Karina Queijo
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Per l’inquadramento storico si veda la scheda sull’Ascensione (¤ 3). Oltre ai frammenti con l’Ascensione (¤ 3), la Casa dei cavalieri di Rodi custodisce altri affreschi staccati provenienti dall’abside di San Basilio ai Pantani. Rappresentano la Vergine in trono che allatta il Bambino e alla loro destra i santi – tutti stanti – Giovanni Battista, Paolo e Basilio [1]. Le figure appaiono sotto archetti trilobi sostenuti da colonnine – tortili e scanalate – munite di capitelli. Superiormente la decorazione è conclusa da un nastro rosso pieghettato campito su fondo scuro e compreso tra una doppia cornice verde e rossa, separata da una fila di perline bianche; sulla fascia inferiore rossa compaiono le iscrizioni con i nomi dei personaggi (Iscr. 1). La Vergine, con veste blu e manto rosso, è seduta su un trono senza dossale ed ha il capo coperto da un velo bianco; il Bambino porta una veste chiara. Al suo fianco, san Giovanni – la mano destra regge un cartiglio (Iscr. 2), la sinistra è indirizzata verso la Vergine e il Bambino – veste una tunica color sabbia e un mantello marrone. San Paolo, nelle mani il libro e la spada, indossa una tunica azzurra e un mantello viola. San Basilio, con mitra bianca, volge la mano sinistra verso la Vergine e il Bambino; ha una veste rossa riccamente decorata sulla quale spicca il pallium. Lo sfondo è diviso in due fasce, la più bassa e più stretta è di colore ocra e rappresenta il suolo con steli fioriti e ciuffi d’erba ancora visibili ai piedi di san Basilio e di san Paolo; la fascia più alta è blu. Si conserva, poi, un frammento con motivi ornamentali che per
la gamma cromatica e la maniera pittorica sembra appartenere alla stessa campagna di quelli appena descritti: campi romboidali rossi si alternano, intrecciandosi agli angoli, a campi triangolari gialli, con, rispettivamente, rosette intere e mezze rosette bianche [2]. Dal bordo bianco delle prime spuntano quattro gigli stilizzati ormai molto sbiaditi, il bordo nero delle seconde, invece, è impreziosito da tre gigli neri.
Iscrizioni
1 - Quattro iscrizioni identificative, disposte in una fascia rettangolare soprastante le figure, allineate su una riga, secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere bianche su fondo rosso. Intere ma poco leggibili per la caduta di pigmento pittorico. Scrittura maiuscola gotica. 1a - S(anctus) Basili(us) 1b - S(anctus) Paúñúø 1c - S(anctus) Iôí(ann)ês Çæõ[tista] 1d - M(»th)r Q(eo)à 2 - Iscrizione esegetica, disposta all’interno dell’area grafica, nel rotulo sorretto da san Giovanni Battista, allineata su otto righe orizzontali, secondo un andamento rettilineo non regolare. Lettere SAN BASILIO AI PANTANI / ATLANTE II, 44 117
scure su fondo bianco. Mutila e poco leggibile per la caduta di pigmento pittorico. Scrittura maiuscola gotica.
[A]gnu/s D(e)i / ecce / q(u)i t/ol(l)is / peca/ùa mu(n)/di (S. Ric.)
Note critiche
Grazie alle fotografie scattate quando gli affreschi erano ancora in situ è possibile ricostruire l’aspetto globale della decorazione pittorica dell’abside e capire in che rapporto fosse il gruppo di affreschi di cui qui ci occupiamo con l’Ascensione (¤ 3), di qualche decennio antecedente. Le pitture con la Vergine e il Bambino e i santi Giovanni, Paolo e Basilio si disponevano nel registro più basso dell’emiciclo. Probabilmente, coprivano quella parte di decorazione che in origine completava l’Ascensione, con il Cristo in mandorla nella calotta e la Madonna orante, gli angeli e gli Apostoli nel registro sottostante; è, infatti, poco plausibile che durante la campagna decorativa di inizio secolo, questa zona del vano absidale non fosse stata affrescata, lasciando ai nuovi pittori la possibilità di intervenire su un intonaco vergine. Probabilmente nello zoccolo era l’ornato a rombi rossi e triangoli gialli. Attraverso la presenza del patrono dell’ordine basiliano, san Basilio, e di quello gerosolimitano, san Giovanni Battista, entrambi raffigurati nell’abside, gli affreschi stessi ben testimoniano l’avvicendamento dei due ordini religiosi e il passaggio di proprietà dai Basiliani ai Giovanniti: a san Giovanni, infatti, spetta la postazione simbolicamente più importante a destra della Vergine e il Bambino. Verosimilmente, altri santi affiancavano la Vergine e il Bambino a sinistra, occupando in questo modo anche la metà destra dell’emiciclo che al momento del ritrovamento aveva già completamente perso l’intonaco che la rivestiva (Angelelli 1998, 21). Da un’altra fotografia che ritrae i dipinti prima che fossero staccati, si desume che il programma prevedeva un quarto santo a destra di san Basilio: proprio dietro al vescovo, è infatti visibile la parte terminale di un’iscrizione – DICT – e l’imposta di un archetto. Si trattava probabilmente della figura di san Benedetto (Angelelli 1998, 10). Al legame dei cavalieri Giovanniti con la Terra Santa e con l’ambiente crociato si può forse riferire la scelta di raffigurare la Vergine come lactans: il successo che questa particolare iconografia di Maria incontra durante il XIII secolo sembra spiegarsi, infatti, almeno in parte, con la diffusione delle icone
cretesi della Galaktotrophousa, favorita a quest’epoca dai crociati (Cecchini 1997, 223). Nonostante l’interesse suscitato dal rinvenimento dei resti del complesso medievale di San Basilio, è solo con il recente intervento di Angelelli (1998) che le pitture dell’abside trovano una collocazione all’interno del panorama pittorico romano del Duecento: il gruppo con la Vergine che allatta viene finalmente disgiunto da quello con l’Ascensione (¤ 3) e assegnato a un’epoca e a una campagna decorativa diverse. I volti allungati delle figure dell’abside basiliana, il panneggio rigido e frastagliato delle vesti, la fissità delle pose [1], sono tutte caratteristiche che si ritrovano nella pittura del secondo quarto del secolo, fortemente condizionata dalla maniera dei mosaicisti veneziani attivi in San Paolo fuori le mura (¤ 8); a San Basilio, tuttavia, questa maniera si cristallizza, dando luogo a uno stile più secco e austero. Per certi aspetti le pitture basiliane si avvicinano ad alcune parti del composito ciclo dell’oratorio di Onorio III alla Platonia (¤ 15), come dimostra il confronto tra le due figure di san Paolo. L’impostazione severa e la rigidità del disegno degli affreschi di San Basilio annunciano già gli esiti di certa pittura della fine del quinto decennio, come i dipinti dell’oratorio di San Silvestro ai Santi Quattro Coronati (¤ 30f; Angelelli 1998, 24). Anche per il partito decorativo le affinità maggiori si hanno con opere del secondo quarto del secolo; sono ancora gli affreschi dell’oratorio di Onorio III alla Platonia (¤ 15) a costituire un buon termine di paragone (Angelelli 1998, 22), sia per il motivo del nastro pieghettato compreso tra una doppia cornice rossa e verde che divide i primi due registri della parete ovest, sia per lo schema ornamentale della volta a campi romboidali rossi e gialli con rosette in medaglioni, dai quali si dipartono racemi e inflorescenze gigliacee. Il motivo a losanghe rosse e gialle si ritrova nel ciclo di Palazzo Lovatelli (¤ 28) e anche nella Sala delle Oche del palazzo papale di Gregorio IX ad Anagni (Carbonara-Bianchi 1989). La collocazione di figure entro archetti trilobi – derivante dalla diffusione di schemi e motivi gotici – compare in esempi più tardi rispetto agli affreschi di San Basilio, come il perduto, ma documentato ciclo con Storie di san Lorenzo che copriva la controfacciata dell’omonima basilica (¤ 40) e le pitture murali abruzzesi di San Pellegrino a Bominaco, datate al 1263 e gravitanti nell’orbita della pittura romana della metà del Duecento (Baschet 1991; Lucherini 2000); con questi episodi, i dipinti di San Basilio condividono tale puntuale soluzione formale, ma non la complessiva cifra stilistica che a San Lorenzo fuori le mura e a San Pellegrino si riferisce ormai ad altri orizzonti pittorici. Intorno al 1230-1240, dunque, i Giovanniti devono aver fatto eseguire gli affreschi con la Virgo lactans tra Santi nell’abside di San Basilio; allo stato attuale della conoscenza, non è chiaro se si sia trattato del primo intervento nella chiesa da loro acquisita, o se anche la prima fase della decorazione, quella con l’Ascensione (¤ 3), risalisse alla loro committenza. Interventi conservativi e restauri (¤ 3) Documentazione visiva (¤ 3)
Bibliografia
Ricci 1930, 176-177; Ricci et al. 1933, 113; Zucchi 1940, 35-40; Fiorini s.d. [1951], 36, 41; Pecchioli-Pietrangeli 1981, 25; Barroero 1983, 177; Guide rionali. Monti IV 1984, 18; Meneghini-Santangeli Valenzani 1996, 85, 89; Angelelli 1998; Rolfi Ožvald 2006, 361; Parlato-Romano 1992 [2001], 156; Claussen 2002, 169. Irene Quadri 2
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21. IL PALINSESTO PITTORICO DELLA TERZA CAPPELLA DELLA PARETE SINISTRA DI SANTA BALBINA Secondo quarto del XIII secolo
La terza nicchia della parete sinistra presenta un complesso palinsesto pittorico di quattro strati di intonaco dipinto di cui il primo altomedievale, il secondo di XI secolo (Bordi, in Corpus IV ¤ 9b) e gli ultimi due invece riferibili entrambi al XIII secolo. L’ultimo strato è di fatto una redazione aggiornata dello strato precedente, ma risulta oggi leggibile quale testo pittorico coerente: lo abbiamo dunque analizzato in una scheda separata (¤ 68). I brani pittorici che qui identifichiamo come ‘terzo strato’ del palinsesto consistono in un riquadro con i santi nimbati Giovanni Battista, Paolo, Pietro e Giacomo, che s’inserisce nell’emiciclo della nicchia, su un ampio campo bianco, decorato da grandi stelle rosse ad otto punte e fiori a quattro petali ocra all’interno di clipei chiusi da una ghiera di bottoni bruni. I quattro santi si stagliano su fondo a due bande ocra e blu, quest’ultima chiusa da una cornice verde, e sono disposti a coppie ai lati della Vergine con il Bambino in trono che oggi è visibile nell’aggiornamento pittorico di fine secolo (¤ 68). Della Madonna di terzo strato emerge, nel lato in basso a sinistra, parte del montante del trono, decorato da arcatelle lunghe e strette, e lembi della veste rossa e del manto blu-porpora, caratterizzati entrambi da un panneggio a pieghe geometriche dalle terminazioni a punta. Tra il montante del trono e san Paolo si legge la piccola figura inginocchiata di un donatore a mani giunte. Il san Giovanni Battista appare alquanto dilavato dai restauri e privo del volto; san Paolo indossa una veste celeste coperta da un manto cangiante bruno-viola, la mano destra, che esce dall’ampia piega del manto, impugna la spada, il volto è parzialmente conservato; san Pietro veste una tunica celeste e un manto bruno, tiene nella sinistra un codice gemmato e una cordicella rossa alla quale erano legate le chiavi, oggi perdute
insieme alla parte inferiore della figura; Giacomo indossa una veste celeste e un manto rosso, il volto è quasi integralmente di restauro. Altre tracce del terzo strato affiorano lungo il margine sinistro del trono del quarto strato. Nella parte superiore, appena sopra le teste di Paolo e di Pietro e a destra del Bambino del quarto strato, si distinguono, attraverso le lacune, brani della cornice semicircolare a tre bande che inquadrava la Vergine del terzo strato, di dimensioni ridotte rispetto alla successiva. Nella calotta della nicchia si staglia, su un fondo blu e all’interno di una cornice a tre bande (rossa, bianca con dentelli rossi e verde), l’imago clipeata di Cristo che con la mano destra benedice alla greca, mentre con la sinistra tiene il libro chiuso. La figura indossa una veste rossa con scollo gemmato e un manto cangiante bruno-ocra caratterizzato da una fitta rete di pieghe piuttosto rigide e gruppi sparsi di tre puntini bianchi. Si tratta del brano più integro, e meno toccato dalle ridipinture di restauro, tra i dipinti del terzo strato giunti fino a noi. Chiudeva la decorazione in basso uno zoccolo con girali campiti in ocra e bruno su fondo bianco, con al centro ampi petali a ventaglio, di cui restano alcuni frammenti lungo il bordo inferiore.
Iscrizioni
1 - Iscrizione identificativa disposta all’interno dell’area illustrata, ai piedi di san Pietro, priva di uno spazio grafico di corredo, allineata su una riga orizzontale, secondo un andamento rettilineo irregolare. Manca la parte inferiore delle lettere. Lettere nere su fondo ocra. Scrittura maiuscola gotica.
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Ø(anctus) Õêù÷úø 2 - Iscrizione identificativa disposta all’interno dell’area illustrata, ai piedi di san Giacomo, priva di uno spazio grafico di corredo, allineata su una riga orizzontale, secondo un andamento rettilineo irregolare. Lettere nere su fondo ocra. Intera. Scrittura maiuscola gotica.
S(anctus) Iacobus 3 - Iscrizione identificativa, all’interno dell’area illustrata, disposta ai piedi di san Paolo, priva di uno spazio grafico di corredo, allineata su una riga orizzontale, secondo un andamento rettilineo irregolare. Lettere nere su fondo ocra. Mutila. Scrittura maiuscola gotica.
[Sanctus Pa]ul[us] (S. Ric.)
Note critiche
La nicchia ha accolto nell’arco di cinque secoli quattro diverse decorazioni dipinte, probabilmente tutte connotate dal carattere votivo della pittura e dallo stesso soggetto iconografico, la Vergine in trono tra santi, aggiornato di volta in volta al gusto corrente. Dei primi due strati restano pochi ma significativi elementi: i piedi di alcune figure stanti e il suppedaneo di un trono, del primo strato (fine dell’VIII-prima metà del IX secolo); la figura del Battista, alcuni brani riconducibili alla Vergine in trono e alla figura di un donatore, pertinenti al secondo strato (terzo quarto dell’XI secolo; Bordi, in Corpus IV ¤ 9b). La presenza di uno strato più antico al disotto dei due del XIII secolo era stata già notata da Lotti e Romano (Lotti 1972, 38; Romano 1992, 65). Quest’ultima si è soffermata sui due strati più recenti, proponendo per il terzo strato, una datazione agli anni Settanta-Ottanta del XIII secolo, mentre per il quarto, intorno agli anni Novanta dello stesso secolo, riconoscendo nella Vergine in trono con il Bambino una decorazione aggiornata alla moda di ‘frangia torritiana’, vicina al Maestro di San Saba. Il Faenza invece assegna le pitture del terzo strato ad una bottega maturata nell’ambiente dei pittori dell’oratorio di Onorio III a San Sebastiano fuori le mura (¤ 15), che egli data tuttavia agli anni Sessanta del XIII secolo, stessa cronologia che assegna alla Crocifissione della sesta nicchia (¤ 52). Decorazioni che sarebbero state entrambe realizzate nell’ambito dei restauri del monastero e della chiesa di Santa Balbina, seguiti all’arrivo dei Guglielmiti e di poco successivi al rinnovo dell’arredo liturgico, il cui pezzo più rilevante resta la cattedra conservata nell’abside (Gandolfo 1980, 363-365; Claussen 2002, 125-128; Faenza 2006, 59). Il carattere votivo della decorazione, reso manifesto dalla presenza del donatore laico ai piedi del trono, svincola le pitture della cappella dal riferimento all’arrivo dei Guglielmiti, nel sesto decennio del XIII secolo, e alla supposta, estensiva campagna decorativa nella chiesa. I santi del terzo strato presentano
nelle figure e nei volti una salda monumentalità e una marcata intensificazione del contorno di gusto occidentale. I volti di Pietro e Paolo sono costruiti con rigore e caratterizzati da grandi occhi e nasi sottili individuati da una spessa linea: rossa, per quanto riguarda la canna nasale e la palpebra; nera, per gli occhi, le sopracciglia e il contorno di barba e capelli. Il linguaggio è ancora legato a quello dei mosaici di San Paolo fuori le mura, nei brani post-onoriani dell’abate Giovanni e del sacrista Adinolfo (¤ 8), e ai dipinti dell’oratorio di Onorio III presso San Sebastiano fuori le mura (¤ 15), specie nella Vergine della Crocifissione, nel san Sebastiano, e soprattutto nei santi Paolo e Pietro, quest’ultimo in gran parte perduto ma apprezzabile nella fotografia acquerellata Wilpert-Tabanelli (Wilpert 1916, IV, tav. 262.2). Le figure del terzo strato, avvolte in ampie vesti caratterizzate da fitti e lumeggiati panneggi le cui linee appaiono oggi addolcite dalle riprese dovute ai restauri, sembrano inserirsi in quella linea che dalla basilica ostiense porta alla Vergine in trono con il Bambino tra santi in Santa Maria Nova (¤ 33) e alla metà del secolo al Salvatore e Apostoli dei Santi Giovanni e Paolo (¤ 34c). Il Cristo clipeato nella calotta della nicchia, invece, con i suoi grandi occhi languidi e il viso appuntito, non trova confronti immediati in ambito strettamente romano, ma interessanti punti di contatto tipologici e formali con il Cristo in trono fra quattro santi, dipinto sulla parete sud della IV volta della cripta di Anagni, attribuito al Secondo Maestro (da ultimo Bianchi 2003, 102, fig. 177). Un altro elemento che aiuta a confermare l’ambito cronologico di queste pitture nel secondo quarto del XIII secolo viene, inoltre, dalla decorazione dello zoccolo a girali ocra con fiori a ventaglio, di cui nella nicchia restano pochi frammenti, ma che si conserva interamente nella nicchia prospiciente (¤ 22). Lo stesso motivo si ritrova sia nello zoccolo dell’oratorio di San Sebastiano fuori le mura (¤ 15), sia nella Torre di Innocenzo III nel Palazzo Vaticano (¤ 32).
Interventi conservativi e restauri
1571: scialbatura a calce dei dipinti murali medievali e chiusura delle nicchie per volere del capitolo di San Pietro, a cui la basilica di Santa Balbina era stata affidata dal pontefice Pio IV (1559-1565) (Buchowiecki 1967, 426). 1927: riapertura delle nicchie laterali della basilica e scoperta dei dipinti medievali sotto lo spesso strato di scialbo del 1571, durante i lavori di restauro dell’edificio condotti da Antonio Muñoz tra il 1927 e il 1930 (Bellanca 2003, 122-124). 1970: campagna di restauro della Soprintendenza per i beni architettonici e ambientali di Roma all’interno e all’esterno della chiesa, a cura di Ermete Crisanti. Gli intonaci medievali sono stati fissati con un cospicuo numero di grappe, le lacune stuccate a gesso e a malta e reintegrate con pesanti ridipinture a tratteggio (Albini et al. 1991-1992, 13-14). 1991-1992: indagini diagnostiche sullo stato di conservazione dei dipinti murali condotte dagli allievi del XLIII Corso di restauro, Settore conservazione dei dipinti e dei beni architettonici, anno accademico 1991/1992 dell’ISCR (Albini et al. 1991-1992, 159225, tavv. 9.1-9.3). 1996: intervento di pulitura, consolidamento e restauro dei dipinti murali realizzati dalla Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici di Roma, a cura della Delphica restauri, sotto la direzione di Andreina Draghi. L’intervento ha comportato la rimozione delle stuccature, delle grappe e delle ridipinture del 1970 e la scoperta di alcune parti di decorazione dipinta ancora nascoste dallo scialbo del 1571 (Archivio Delphica restauri). 2000 ca.: intervento conservativo della Soprintendenza per i beni artistici e storici di Roma, che ha messo a nudo il paramento murario in laterizio (Flaminio 2002, 485).
Bibliografia
Muñoz 1931, 37-38; Buchowiecki 1967, 430; Lotti 1972, 38; Marques 1987, 99; Romano 1992, 67; Faenza 2006, 58-59. Giulia Bordi
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22. IL PALINSESTO PITTORICO DELLA TERZA CAPPELLA DELLA PARETE DESTRA DI SANTA BALBINA Secondo quarto del XIII secolo e anni Ottanta-Novanta
Nella terza nicchia della parete destra si conserva un palinsesto pittorico composto da due strati di intonaco dipinto appartenenti a due diverse campagne decorative. La superficie pittorica si presenta di difficile lettura a causa del pessimo stato di conservazione e del recente inserimento di un altare coronato da un drappo azzurro e da una schiera di angeli inseriti nelle lacune del dipinto murale. La parte centrale della decorazione, inoltre, è andata perduta con la creazione, in epoca moderna, di un’apertura che metteva in comunicazione con l’esterno (CBCR 1937, I, 86). Nella parte superiore della nicchia, il primo strato di intonaco, il più interno, emerge laddove il secondo, dipinto su una preparazione sottilissima, è caduto o, più probabilmente, è stato asportato in modo incauto durante le operazioni di restauro. Dato lo stato larvale delle pitture che, come vedremo, presentano il medesimo tema iconografico, si è scelto di trattare dei due strati, pur appartenenti a due distinte fasi pittoriche, in un’unica scheda. Appartengono al primo intervento pittorico: in alto, brani del fondo bianco decorato da stelle rosse ad otto punte e fiori a quattro petali ocra all’interno di clipei chiusi da una ghiera di bottoni bruni; un semiarco di cornice a tre bande (rossa, bianca con dentelli rossi, ocra); scendendo, una figura femminile di tre quarti con aureola che indossa una veste bianca e un manto rosso che le copre anche il capo; a destra, un’altra figura di santa, in posa frontale, con una veste a fondo rosso decorata a losanghe, che stringe nella destra un oggetto difficile da identificare, forse un libro. A sinistra e a destra dell’apertura, oggi tamponata, si riconoscono i montanti gemmati di un trono con cuscino. Chiude la decorazione in basso uno zoccolo con girali delineati in ocra e bruno su fondo bianco, con al centro ampi petali a ventaglio. Del secondo strato di decorazione dipinta si leggono: al centro, la testa della Vergine, posta di tre quarti, con la cuffia rossa e il maphorion blu all’interno di un’aureola a pastiglia raggiata e poco più in basso, parte dell’aureola del Bambino e tracce della veste rossa di quest’ultimo; a destra, il busto di una figura maschile nimbata di tre quarti con le mani rivolte verso la sacra coppia; a sinistra, una figura femminile, in posa frontale, che indossa un copricapo di forma tronco-conica, probabilmente una corona. Le quattro figure si stagliano su un fondo blu chiuso da una cornice a tre bande (rossa, bianca con dentelli neri e croci rosse, verde).
duecenteschi della terza cappella della parete sinistra (¤ 21), speculare alla nostra, di cui sembrano la controparte, anche se con qualche variante. Sul primo strato è rappresentata, all’interno di un riquadro chiuso in alto da un semiarco, la Vergine in trono con il Bambino tra due sante stanti. Il riquadro termina, in basso, con uno zoccolo a girali e si staglia su un fondo bianco decorato con stelle e fiori clipeati, analoghi a quelli della nicchia di fronte. Il secondo strato, ripropone lo stesso soggetto: la Vergine in trono con il Bambino affiancata a sinistra da un santo, forse Pietro, e a destra da una santa coronata, posti all’interno di un riquadro con terminazione cuspidata. Qualche indicazione per la cronologia del primo strato si ricava dalla decorazione dello zoccolo, la parte meglio conservata del riquadro. Il motivo a girali ocra con al centro ampi petali a ventaglio trova un confronto preciso nella decorazione dello zoccolo della scala d’accesso e delle pareti nord ed ovest dell’oratorio di Onorio III presso San Sebastiano fuori le mura (¤ 15). Lo stesso motivo si ritrova anche nel Palazzo Vaticano, nell’intradosso di una feritoia situata sulla parete nord della Stanza di Innocenzo III (¤ 32). Contatti con la decorazione dell’oratorio di Onorio a San Sebastiano si riscontrano, per quanto consentito dallo stato frammentario delle pitture di Santa Balbina, anche nel confronto tra i montanti del trono della Vergine e quelli dello stesso soggetto nell’oratorio; nel sistema di lumeggiature del manto della santa a sinistra con quello degli angeli della stessa parete; e nel motivo dei fiori clipeati del fondo, vicino a quello della decorazione a scacchiera della volta (¤ 15). Sulla base di questi elementi, si propone per il primo strato una datazione nel secondo quarto del XIII secolo. Per quanto riguarda il secondo strato, le condizioni larvali della 2
pittura si prestano a ben poche considerazioni stilistiche sulla decorazione. I brani conservati del volto della Vergine e del Bambino mostrano, tuttavia, forti punti di contatto con quelli del quarto strato della nicchia di fronte, anche se il Bambino qui sembra rivolto a sinistra e non a destra. La datazione di questo strato, pertanto, non dovrebbe distaccarsi dall’ottavo-nono decennio del XIII secolo.
Note critiche
La decorazione di questa nicchia, a causa del pessimo stato di conservazione con il quale è giunta a noi, ha ricevuto in passato scarsa attenzione. Vi accenna brevemente Serena Romano la quale vi riconosce, su un unico strato, le sagome ‘larvali’ della Madonna con il Bambino e lo zoccolo a girali, avanzando una cauta datazione tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo, in sintonia con i dipinti della prima nicchia della parete destra (Romano 1992, 67) che esulano dalla cronologia affrontata in questo volume. Pasquale Faenza, invece, nota la presenza di due strati distinti connotati da un identico soggetto iconografico: la Madonna in trono tra santi e in basso lo zoccolo con motivi a girali, che definisce identico, nella tavolozza e nello stile, a quello della terza nicchia della parete sinistra. Lo studioso data il primo strato al sesto decennio del XIII secolo, nell’ambito della campagna decorativa che fece seguito all’arrivo dei Guglielmiti a Santa Balbina (¤ 21; Faenza 2006, 60, nota 11). Provare a ricostruire l’assetto originario delle decorazioni della nicchia è possibile, oggi, tramite il confronto con gli strati 122 SANTA BALBINA
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Interventi conservativi e restauri
1571: scialbatura a calce dei dipinti murali medievali e chiusura delle nicchie per volere del capitolo di San Pietro, a cui la basilica di Santa Balbina era stata affidata dal pontefice Pio IV (1559-1565) (Buchowiecki 1967, 426). 1927: riapertura delle nicchie laterali della basilica e scoperta dei dipinti medievali sotto lo spesso strato di scialbo del 1571, durante i lavori di restauro dell’edificio condotti da Antonio Muñoz tra il 1927 e il 1930 (Bellanca 2003, 122-124). 1970: campagna di restauro della Soprintendenza per i beni architettonici e ambientali di Roma all’interno e all’esterno della chiesa, a cura di Ermete Crisanti. Gli intonaci medievali sono stati fissati con un cospicuo numero di grappe, le lacune stuccate a gesso e a malta e reintegrate con pesanti ridipinture a tratteggio (Albini et al. 1991-1992, 13-14).
1996: intervento di pulitura, consolidamento e restauro dei dipinti murali realizzati dalla Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici di Roma, a cura della Delphica restauri, sotto la direzione di Andreina Draghi. L’intervento ha comportato la rimozione delle stuccature, delle grappe e delle ridipinture del 1970 e la scoperta di alcune parti di decorazione dipinta ancora nascoste dallo scialbo del 1571 (Archivio Delphica restauri). 2000 ca.: intervento conservativo della Soprintendenza per i beni artistici e storici di Roma, che ha messo a nudo il paramento murario in laterizio (Flaminio 2002, 485).
Documentazione fotografica
Fotografie (1937 ca.). Fototeca della Bibliotheca Hertziana: U10, lascito Richard Krautheimer.
Bibliografia
Muñoz 1931, 37-38; Lotti 1972, 36; Romano 1992, 67; Faenza 2006, 47, 60, nota 11. Giulia Bordi
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23. IL PERDUTO DIPINTO MURALE IN SAN SALVATORE IN THERMIS
24. LA “MADONNA DELLA CATENA” A SAN SILVESTRO AL QUIRINALE
Secondo quarto del XIII secolo
Secondo quarto del XIII secolo
Presso la biblioteca del Senato è conservato un album contenente un gruppo di fotografie che documentano la decorazione pittorica della chiesa di San Salvatore in Thermis, oggi perduta (Affreschi e frammenti scoperti nella demolizione e sterro dell’antica chiesa di S. Salvatore de Thermis, BDS, E 49). Tra queste vi è un collage di cinque diversi scatti dei dipinti della parete sud della cappella nord occidentale, secondo quanto annotato nella pianta e nella descrizione di Luigi Morganti redatte nel 1908 durante i lavori di scavo nella chiesa. Sulla parete si leggono alcuni brani di intonaco dipinto pertinenti a due distinte fasi decorative. Alla prima fase appartengono tre scene dedicate ad un ciclo del Nuovo Testamento, riferite con una certa cautela alla prima metà del XII secolo (Enckell Julliard, in Corpus IV ¤ 27). Alla seconda, il brano conservato all’estrema destra del collage. Si tratta di un riquadro mutilo su entrambi i lati e nella parte superiore, la cui estensione originaria è difficile da stabilire a causa del taglio, oltre i margini, della foto. Si tratta di una Vergine con il Bambino assisa su un trono gemmato, della quale è rimasta la parte inferiore, dal busto in giù, affiancata sulla sinistra da un personaggio di ridotte dimensioni rivolto verso la coppia. Lungo il bordo inferiore, al di sotto di una cornice dentellata, è conservata un’iscrizione frammentaria che recita: «Maria Simeonis P.I. [...]».
Inserita ed esaltata all’interno di una grande tela seicentesca di Giacinto Gimignani (1611-1681), la tavola con l’immagine della Vergine, nella seconda cappella a destra della chiesa di San Silvestro al Quirinale, è riconducibile alla tipologia iconografica della Virgo lactans (la bizantina Galaktotrophousa). La Madonna, dalle proporzioni piuttosto allungate, campeggia perfettamente frontale su un fondo dorato, avvolta in un manto blu orlato in oro che le copre anche il capo, in corrispondenza del quale si arriccia in pieghe rigide e simmetriche. Porge con una mano il seno al Bambino che, vestito con una tunica rossa e un manto dorato con fitte pieghe ‘a pettine’, protende la destra in un gesto benedicente mentre con la sinistra stringe un rotulo. Il braccio sinistro della Madre è completamente disteso a sostenere il peso del Figlio, secondo lo schema del linksseitigen Typus. Preziose rifiniture in pastiglia rivestita di argento dorato sono impiegate per i lembi delle maniche, per le fasce sulla tunica del Bambino e per le aureole, crucisegnata quella del Bambino e decorata a rosette quella della Vergine. Sebbene in parte danneggiate, esse
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Note critiche
La chiesa di San Salvatore in Thermis faceva parte del gruppo di edifici afferenti a Palazzo Madama e fu demolita nel 1908. Deve il suo appellativo alle terme Alessandrine, fatte erigere da Alessandro Severo (222-235 d.C.) su quelle di Nerone (5468 d.C.), sui resti delle quali era stata costruita. La sua data di fondazione si fa risalire al tempo di Gregorio Magno (590-604) in base ad un’iscrizione conservata presso l’altare maggiore e ad una cassetta di reliquie trovate nello stesso luogo (Armailhacq 1894, 3; Dubrulle 1905, 413-414; Sabatini 1907, 8-10, 28). In un documento del 998 risulta tra i possessi romani dell’abbazia di Farfa, che la dota di un monastero e di altre due chiese (Regesto di Farfa, III, 137, doc. 426). Entro il 1478 San Salvatore passò alla compagnia di San Luigi, come ricordato nella bolla Creditam nobis de super di Sisto IV (1471-1484), emendata in quell’anno (Atti del notaio Marius Durandi, 10-11 gennaio 1478: Lacroix 1868 [1892], 292298; Fiore Cavaliere 1978). In base alla planimetria di Morganti, la chiesa era a navata unica absidata, di ridotte dimensioni, aveva una pianta irregolare con l’ingresso su uno dei lati maggiori, ai fianchi del quale si aprivano due cappelle asimmetriche. La parete sud della cappella destra ospitava i dipinti, andati in parte già perduti al momento della loro scoperta a causa dell’apertura di un passaggio che metteva in comunicazione l’ambiente con la navata. Questo varco fu realizzato forse agli inizi nel XVI secolo, quando la cappella fu dedicata a san Giacomo Maggiore per volere di Jean Vicomte, che qui si fece seppellire nel 1509 (Dubrulle 1905, 415; Benucci c.s.). Il riquadro con la Vergine in trono con il Bambino è di dimensioni quasi doppie rispetto alle scene neotestamentarie attigue, l’impianto è quello di un’icona trasferita in pittura su muro. La Vergine è maestosa e regge sulle possenti ginocchia, incise dai panneggi, il Bambino sgambettante, anch’esso di notevoli dimensioni. La posizione del Figlio e l’atteggiamento nei confronti della Madre fanno pensare all’iconografia della Maria
lactans, così come appare, ad esempio, nel mosaico della facciata di Santa Maria in Trastevere (¤ 7a) e nell’icona di San Silvestro al Quirinale (¤ 24). La figura maschile di dimensioni ridotte posta a destra e dipinta come se fosse sospesa, o meglio in secondo piano rispetto al sacro gruppo, potrebbe appartenere ad un donatore. Il titulus sottostante, in parte perduto, sembra alludere alla profezia enunciata da Simeone durante la presentazione al Tempio. A causa della perdita della parte superiore del dipinto e in mancanza di una sua adeguata documentazione, risulta arduo esprimere un’opinione precisa sul dipinto. Alcuni particolari, tuttavia, come il panneggio fitto di pieghe della Vergine, il trono gemmato con il suppedaneo decorato a tralci e i caratteri epigrafici del titulus, sembrano assai vicini ai dipinti della cripta di Anagni del Primo e del Secondo Maestro, mentre il terreno ad onde e piccoli arbusti stilizzati si ritrova negli affreschi dell’Aula ai Santi Quattro Coronati (¤ 30a) e nei Miracoli postumi di san Magno sempre nella cripta di Anagni. Questi confronti, pertanto, inducono a proporre una cronologia vicina ai contesti appena ricordati, o di poco precedente, nel secondo quarto del XIII secolo.
Note critiche
Documentazione visiva
Fotografie, BDS, Affreschi e frammenti scoperti nella demolizione e sterro dell’antica chiesa di S. Salvatore de Thermis, E 49; pianta e descrizione di L. Morganti.
Bibliografia
Armellini-Cecchelli 1942, I, 547; Fiore Cavaliere 1978, 142-145; Benucci c.s. Giulia Bordi 1
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mostrano ancora una meticolosa lavorazione con motivi in leggero rilievo, probabilmente eseguiti a stampo e non incisi a stecca, come lascia intuire la loro regolarità. Nella parte alta del dipinto, ai lati dell’aureola della Vergine, si dispongono due angeli a mezzo busto in scala minore, le cui teste sono oggi perdute: rimangono solo due bellissime ali variopinte e i corpi che, disposti frontalmente, sono avvolti in ampi panneggi. Una lieve irregolarità si nota nella loro disposizione: più addossato al nimbo della Vergine, l’angelo di destra si trova leggermente più in basso rispetto a quello di sinistra. Teneri e morbidi sono i toni della gamma cromatica impiegata dal pittore, evidenti tanto nei volti, animati da un sottile gioco di chiari, quanto nelle vesti. In particolare, in quelle degli angeli, che sono le meno danneggiate e le più leggibili, è ancora possibile apprezzare le lumeggiature del panneggio, mentre più compatta appare la stesura dei blu e dei rossi nel manto e nella tunica rispettivamente della Madre e del Figlio. Nella figura della Vergine il modulo allungato si unisce ad una marcata schematizzazione dei tratti del volto, in cui il disegno di contorno è in più punti rilevato da corpose sottolineature di colore scuro, evidenti soprattutto in corrispondenza delle palpebre, del naso, della bocca e anche sotto il mento. L’andamento di queste sottolineature è ripetuto da sottili lumeggiature rese con linee di colore bianco che, con uno svolgimento calligrafico, percorrono tutto il viso della Vergine, assecondando sulle gote le pennellate dei due pomelli rossi. Le spesse sottolineature di contorno che danno risalto ad alcuni particolari anatomici del volto della Vergine sono impiegate, sebbene in maniera meno pronunciata, anche per definire i tratti del viso del Bambino e le increspature delle ciocche dei suoi capelli. Quella che vediamo oggi è in realtà solo la porzione maggiore superstite di una tavola che in origine doveva essere di proporzioni piuttosto ragguardevoli e che un successivo taglio avrebbe ridotto alle attuali dimensioni. Il dipinto, di forma rettangolare, misura attualmente m 1.50 in altezza e m 1 in larghezza; tuttavia la superficie pittorica, che è stata parzialmente asportata per adattare la tavola alla forma centinata della nicchia che la incornicia, occupa solo una parte del supporto, circa mq 1.01.
Incerte sono le origini della chiesa di San Silvestro al Quirinale, la cui fondazione deve essere collocata al più tardi nel XII secolo, essendo l’edificio menzionato per la prima volta nel 1192, col titolo de Biberatica, nel Liber Censuum di Cencio Camerario (Hülsen 1927, 465). L’assetto tardo-cinquecentesco della chiesa, riedificata nel 1524 (Armellini-Cecchelli 1942, 1448) e poi ampliata nel 1585 con l’aggiunta della Cappella Bandini (Iezzi 1975, 33-34), fu irrimediabilmente alterato alla fine del XIX secolo, quando i lavori di allargamento e abbassamento di via XXIV maggio (18731877), livellata con l’ultimo tratto di via Nazionale, portarono alla demolizione della facciata e all’eliminazione delle prime due cappelle (Iezzi 1975, 16; Guide rionali. Trevi 1985, 22-24). A causa del forte dislivello così creatosi rispetto alla quota stradale, si accede oggi alla chiesa dal braccio destro del transetto al quale immette una scalinata interna (il portale attuale ha dunque una funzione puramente ornamentale). Delle quattro cappelle superstiti, la prima che si incontra sulla sinistra volgendo le spalle all’area presbiteriale (la seconda a destra se si segue la numerazione a partire dall’ingresso originario) è dedicata alla Vergine ed è sede SAN SILVESTRO AL QUIRINALE 125
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dell’icona della “Madonna della Catena” da cui l’intero ambiente ha tratto il nome. Scarse sono le notizie storiche che possediamo su questa tavola e in particolare poco documentate risultano le sue vicende più antiche, risalendo solo al 1650 la prima testimonianza ad essa riferibile: si tratta di un documento manoscritto (Relatione della SS.ma Imagine della Madonna della Purità, collocata nella Chiesa di S. Silvestro di Monte Cavallo de PP. Teatini in Roma, 1650 ca., AAV) grazie al quale siamo in grado di delineare gli spostamenti e i rimaneggiamenti subiti dal dipinto a partire dal 1555, anno che segna l’arrivo nella chiesa dei Teatini. A questa data l’icona si trovava in una cappelletta ad essa dedicata, presumibilmente da identificare con quella attuale, dalla quale venne rimossa entro il 1581 per far posto ad un dipinto con l’Assunta, realizzato in occasione del restauro del sacello. Spostata nella casa dei religiosi, la tavola vi rimase fino al 1640, quando venne riportata nella chiesa ma posta sopra la porta della sacrestia. In questi anni la devozione per questa antica immagine, alimentata dalle numerose grazie concesse ai fedeli, si accrebbe notevolmente, cosicché i padri decisero di ricollocare il dipinto nella cappella: la nuova soluzione, messa in atto nel maggio 1646, previde l’esecuzione ex novo di 126 SAN SILVESTRO AL QUIRINALE
una pala d’altare, che la critica ha attribuito a Giacinto Gimignani (Fischer Pace 1974; Ead. 2004, 214), e l’inserimento dell’icona in una nicchia al suo interno, secondo un espediente che rientra in pieno nella tradizione dei quadri tabernacolo. A questo intervento si lega molto presumibilmente la decurtazione della tavola e la perdita di una parte della superficie dipinta, asportata per adattare il dipinto alla forma centinata della nicchia. Un confronto tra l’attuale assetto dell’icona e il disegno preparatorio dell’opera di Gimignani (pubblicato in Fischer Pace 2004, tav. LXXV) induce inoltre ad ipotizzare che la soluzione adottata dal pittore pistoiese si avvicinasse molto all’invenzione rubensiana per la chiesa della Vallicella, prevedendo forse la presenza di una pala-cortina mobile a copertura dell’imago medievale (Leggio 2010, 37-39). La preziosa testimonianza offerta dal documento seicentesco, congiuntamente alle notizie che ci fornisce Bombelli, che nel 1792 inserì l’icona nella raccolta delle immagini mariane coronate dal Capitolo Vaticano (Bombelli 1792, 72-74), consente inoltre di chiarire come e quando l’attuale denominazione della tavola, “Madonna delle Catene” o “della Catena”, si sia consolidata nella tradizione. Essa si deve all’episodio – verificatosi presumibilmente tra il 1646 e il 1650 – di un giovane uscito di senno che fu tenuto in ceppi per due anni ed infine miracolosamente guarito dalla sacra immagine, presso la quale venne lasciata come ex voto la catena che lo aveva avvinto. Tuttavia è solo nel testo di Bombelli che la Madonna di San Silvestro compare per la prima volta sotto il titolo di “Madonna delle Catene”, associando l’episodio del giovane ossesso al versetto del profeta Nahum «Ora infrangerò il suo giogo che ti opprime, spezzerò le tue catene» (Nahum, 1, 13). Il miracolo seicentesco, dunque, opportunamente giustificato dal passo biblico, avrebbe favorito l’emergere e il consolidarsi, tra il 1650 e il 1792, della nuova denominazione, che in un primo momento, in virtù del richiamo ai vincula dell’Antico Testamento, avrebbe adottato il sostantivo plurale “catene” e non il singolare “catena”. In questo modo si spiega anche l’incongruenza che si riscontra tra la denominazione del dipinto e il soggetto in esso raffigurato, una Virgo lactans o Galaktotrophousa. La scelta iconografica risulta insolita per il contesto cronologico e geografico in cui il dipinto si colloca: è infatti solo a partire dal XIV secolo che si attesta la grande diffusione in Occidente di questo tema (Cassigoli 2009), sulle cui origini, divise tra possibili matrici italiane, bizantine e copte, il dibattito rimane ancora sostanzialmente aperto (Lazarev 1938, 26-65; van Moorsel 1970, 281-290; Cutler 1987, 335-350; Langener 1996; Dodd 2003, 33-39; Rebaudo 2004, 181-209). Se si restringe il campo alla sola produzione pittorica su tavola di ambito laziale, non sono comunque molti gli esempi duecenteschi che è possibile riferire alla tipologia della lactans (da segnalare la Madonna della Cantina presso il Museo Diocesano di Gaeta e la Madonna del Perpetuo Soccorso nella chiesa di Santa Maria dell’Auricola ad Amaseno). In origine, prima della grave decurtazione della parte inferiore, la tavola doveva presumibilmente contenere secondo Garrison (Garrison 1949, 49) una Madonna a figura intera. Rimarrebbe comunque da chiarire se la Vergine vi fosse rappresentata in piedi o in trono, come suggerirebbe il confronto con dipinti di analogo soggetto delle stesso periodo, in particolare alcune Madonne allattanti di origine abruzzese (Lucherini 2002, 682-687). Si deve a Toesca il merito di aver citato per la prima volta nel 1924 l’opera in una trattazione generale di carattere storico-artistico (Toesca 1927 [1965], 1009), con il suggerimento di ascriverla al XIII secolo («sembra del Dugento»). La datazione proposta sin da questa prima segnalazione risulterà poi quella predominante nella successiva bibliografia – purtroppo molto povera – sul dipinto, ma con oscillazioni anche di alcuni decenni. Tuttavia, mentre sono rimaste sostanzialmente isolate le ipotesi di Garrison e Mortari (Garrison 1949, 49; Opere d’arte in Sabina 1957, 17; Garrison 1960-1962, 382), che collocano l’opera nel terzo quarto del Duecento sulla base di un confronto con la Madonna della parrocchiale di Cossito, maggiore seguito ha invece trovato il
del mento definita da un breve segno nero. Uscendo dall’ambito strettamente romano, per le proporzioni e la tipologia dei visi possono ancora essere chiamati a confronto con la Virgo lactans di San Silvestro le tre figure dei santi Thomas Becket (o forse san Martino vescovo, Parlato-Romano 1992 [2001], 321), Benedetto e Leonardo nell’affresco della cripta di Santa Maria del Reggimento a Casamari (Iacobini 1991, 296). Per il pannello, erroneamente datato all’XI secolo al momento della sua prima segnalazione (Farina-Fornari 1978, 59), è stato successivamente suggerito un inquadramento nel contesto delle esperienze del cantiere anagnino (Gandolfo 1988, 298), posticipandone quindi l’esecuzione entro la prima metà del Duecento, come confermerebbero anche alcune affinità con gli affreschi di Sant’Egidio a Filacciano (ParlatoRomano 1992 [2001], 321) ugualmente riconducibili al linguaggio della cripta anagnina. I rapporti indicati inducono dunque a ritenere l’icona di San Silvestro un’opera romana databile nel secondo quarto del XIII secolo.
Interventi conservativi e restauri
1942-1943: Garrison segnala un rovinoso restauro non autorizzato eseguito dai religiosi della chiesa, durante il quale ampie porzioni della superficie pittorica sarebbero state pesantemente ridipinte. L’intervento non trova tuttavia alcun riscontro documentario e lo stesso Garrison non fornisce una fonte per questa notizia. 1973: il dipinto è restaurato da Gianluigi Colalucci sotto la direzione di Luisa Mortari. La data è quella che compare sulla perizia di spesa e sulla scheda di restauro conservate presso la Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici del Lazio, ma le foto che documentano lo svolgimento dell’intervento si riferiscono al 1976. Applicazione di traverse scorrevoli metalliche in sostituzione delle due traverse lignee originarie sul tergo del dipinto, formato dall’assemblaggio di tre tavole distinte. Consolidamento del supporto mediante sverzature, reso necessario dalla presenza di numerose spaccature nel legno. Pulitura, stuccatura e consolidamento del colore, poiché la pellicola pittorica, in procinto di staccarsi, risultava per di più ricoperta da uno spesso strato di ridipinture e di sudicio.
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riferimento alla prima metà del secolo (Hermanin 1945, 273; Iacobini 1991, 295-297; Tartuferi 2004, 33-34). La necessità di uno studio più approfondito dell’icona, che per lungo tempo è stata dimenticata dalla storiografia, emerge solo all’inizio degli anni Novanta, quando per la prima volta Iacobini ne propone un nuovo inquadramento storico-critico, datando l’opera agli anni TrentaQuaranta del XIII secolo e suggerendo una possibile influenza di soluzioni formali di matrice bizantina tardocomnena (Iacobini 1991, 295-297). Ben individuabile appare il legame indicato dallo studioso con brani del ciclo silvestrino dell’oratorio dei Santi Quattro Coronati (¤ 30f), in particolare con la figura femminile incoronata della scena con san Silvestro che resuscita il toro selvatico: la forma delle labbra, il tratto rosso che sottolinea le palpebre e le lumeggiature che procedono per sottili segni bianchi appaiono infatti come cifre esecutive comuni con la Virgo lactans del Quirinale. Assai vicine a quelle della tavola romana sono anche le ombre azzurre stese su campiture di colore porpora che ricorrono nel manto dell’imperatore nella scena del Sogno di Costantino, mentre un analogo disegno nella ricaduta dei panneggi accomuna i due angeli ai lati della Madonna e la figura di san Paolo nella medesima scena del ciclo silvestrino. Nonostante la differenza di tecnica, caratteri fisionomici analoghi ricorrono anche nella più antica Madonna col Bambino dell’affresco absidale della cappella della Vergine in San Bartolomeo all’Isola (¤ 4): sono simili il tratto rosso che demarca le palpebre, i due pomelli rossi e la sporgenza
Documentazione visiva
Bombelli 1792, 72; fotografia del 1936, Fototeca Nazionale; fotografie relative al restauro del 1973, Fototeca della Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici del Lazio; Iacobini 1991 (foto Abbrescia e Santinelli, Roma).
Fonti e descrizioni
Relatione della SS.ma Imagine della Madonna della Purità, collocata nella Chiesa di S. Silvestro di Monte Cavallo de PP. Teatini in Roma, AAV; Stato degli obblighi di messa della Casa di S. Silvestro, AAV; Memorie della chiesa di S. Silvestro a Montecavallo. Cappella terza, Madonna della Catena, APRCM (i due testi, entrambi inediti, sono trascritti in Leggio 2010); Bombelli 1792, 72-74.
Bibliografia
Toesca 1927 [1965], 1009; Hermanin 1945, 273; Garrison 1949, 49; Mortari, in Opere d’arte in Sabina 1957, 17; Garrison 19601962, 382; Fischer Pace 1974; Guide rionali. Trevi 1985, 30; Iacobini 1991, 295-297; Pace 1996, 497-498; Ciofetta 1999, 28; Tomei 1999b, 133; Lucherini 2002, 682-687; Fischer Pace 2004, 214; Tartuferi 2004, 33-34; Leggio 2010. Silvia Leggio
SAN SILVESTRO AL QUIRINALE 127
25. LA DECORAZIONE DEL PORTICO DI SAN SABA Secondo quarto del XIII secolo
A sud dell’arcata murata, a destra del portale d’ingresso alla basilica di San Saba, una breve porzione di muro – arretrato di circa trenta centimetri rispetto al piano di facciata – presenta, nella parte alta, una decorazione a finti mattoni, delimitati da una doppia filettatura bianca su fondo ocra [1].
Note critiche
Il muro su cui appare la decorazione a finti mattoni e che oggi corrisponde a quello terminale della navatella meridionale, apparteneva, in origine, a una costruzione che fu forse addossata nel corso del IX secolo al lato sud-ovest del preesistente oratorio (CBCR 1976, IV, 58-60, 63-67); il fregio con motivi vegetali bicromi rossi e neri, al di sotto dell’archivolto ancora parzialmente visibile, appartiene probabilmente a questo periodo altomedievale. Quando nel XII secolo l’attuale basilica sostituì l’oratorio, questo venne inglobato nel nuovo edificio (la parete con pietre a vista che vi si sovrappone, e che costituisce la parte sud-ovest della facciata, è post-medievale, CBCR 1976, IV, 63). Le caratteristiche del finto mattonato (Autenrieth 1991, 385-386; Romano 2005b, 117-118) – che nasconde la sottostante cortina muraria, simulandone un’altra – rimandano a esempi databili al secondo quarto del secolo: simili, infatti, sono i paramenti murari illusivi che si trovano in più ambienti della cattedrale ad Anagni (consacrata nel 1250), in particolare nella cappella del Salvatore, in una sala del convento delle Clarisse di San Sebastiano ad Alatri (Romano 2005b, 117-118) e nel vano al primo piano della Torre di Innocenzo III nel Palazzo Vaticano (¤ 32a), dove, però, il doppio profilo dei mattoni è rosso e non bianco.
Bibliografia
Testini 1961, 52; CBCR 1976, IV, 63; La Bella 2003, 125-127. Irene Quadri
128 SAN SABA
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26. LA DECORAZIONE DELLA SALA CAPITOLARE E DEL VESTIBOLO ALL’ABBAZIA DELLE TRE FONTANE Secondo quarto del XIII secolo
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Le volte della sala capitolare all’abbazia delle Tre Fontane sono coperte da una decorazione con stelle a otto punte bianche su fondo ocra. Accenni di decorazione pittorica sono anche negli sguanci delle finestre che si aprono sul chiostro [1]. Lo stesso tipo di ornamentazione a stelle riveste le volte del vestibolo che collega il chiostro al portico che si apre verso la campagna, sul lato orientale del complesso abbaziale. Qui, anche le quattro pareti sono dipinte con un paramento murario illusivo [2]: i finti mattoni, delimitati da una doppia filettatura bianca, sono eseguiti su un fondo ocra.
Note critiche
Gli apparati decorativi della sala capitolare e del vestibolo, quest’ultimo massicciamente ritoccato (Bertelli 1972b, 10),
sono forse collocabili al secondo quarto del secolo. La tipologia del finto mattonato (Autenrieth 1991, 385-386; Romano 2005b, 117-118) – il doppio profilo dei mattoni, la caratterizzazione cromatica – così come la sua ragion d’essere, dissimulare completamente la tessitura muraria reale, infatti, si ritrovano nei paramenti murari dipinti nel salone della residenza cardinalizia di San Clemente (¤ 31b), databili alla metà del XIII secolo, nella cattedrale di Anagni (consacrata nel 1250), nel portico della basilica di San Saba (¤ 25), anch’esso attribuibile al secondo quarto del secolo e nel coro delle monache nel San Pietro in Vineis, sempre ad Anagni (1256). Le stelle a otto punte, invece, si presentano in una redazione almeno in parte diversa rispetto agli altri esempi conosciuti: né quelle della volta della cappella di San Silvestro ai Santi Quattro Coronati (¤ 30f), né quelle all’interno di medaglioni della volta dell’oratorio di Onorio III alla Platonia (¤ 15), pur presentando la stessa forma e organizzazione degli elementi che le compongono, hanno, come alla Tre Fontane, l’estremità delle punte segnata da tre trattini orizzontali.
Interventi conservativi e restauri
1971: è nel corso degli interventi di restauro condotti dallo stesso abate don Domenico che viene alla luce la decorazione delle volte della sala capitolare (Bertelli 1972b, 10).
Bibliografia
Bertelli 1972b, 10; Mihályi 1991, 180, nota 13; Pogliani, in Atlante I (¤ 12). Irene Quadri
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ABBAZIA DELLE TRE FONTANE / ATLANTE I, 12 129
27. I VELARIA NEL CHIOSTRO DI SAN PAOLO FUORI LE MURA
28. LA DECORAZIONE PITTORICA IN UN EDIFICIO IN PIAZZA LOVATELLI
Secondo quarto del XIII secolo
Metà del XIII secolo
All’estremità del braccio nord del chiostro di San Paolo fuori le mura una rottura nell’intonaco moderno lascia oggi vedere la muratura in mattoni del muro medievale, e i frammenti di una decorazione a velaria a colori giallo, arancio e ocra su fondo bianco, originariamente applicata ad una sorta di nicchia poi parzialmente colmata in data imprecisabile. In basso si vede un motivo a giglio nero rovesciato, mentre più in alto si distinguono le due zampe e la coda di un animale in atto di saltare. L’altro frammento, più in alto, situato sulla parte concava della muratura, mostra anch’esso un motivo gigliato e rovesciato, ma di colore ocra.
La decorazione pittorica conservata al primo piano del palazzo di piazza Lovatelli n. 36 è venuta alla luce nel 2000 nel corso di importanti lavori realizzati dall’Amministrazione Comunale, che hanno compreso il restauro del suddetto edificio e del palazzo contiguo (ora sede della Sovraintendenza ai Beni Culturali di Roma Capitale), già appartenuti dai primi decenni del XVII secolo al vicino monastero di Sant’Ambrogio alla Massima (Mayeul de Dreuille 1996, 56; Marconi, 1999, 32-45). Gli affreschi sono collocati su una fascia ad intonaco di modesto spessore, alta circa 1 metro e non priva di lacune, su tre lati di un ambiente compreso all’interno di un’unità immobiliare di edilizia civile databile al XIII secolo, le cui strutture sono state inglobate e riutilizzate nell’ambito dell’edificio attuale, risultato di una ricostruzione pressoché totale avvenuta tra Cinquecento e Seicento. Più in particolare la decorazione è emersa durante l’intervento di consolidamento della volta seicentesca edificata a copertura del piano terreno, in corrispondenza della zona di riempimento della volta stessa che è stata costruita ammorsando la muratura nelle precedenti strutture medioevali. Il tema non risulta unitario e si differenzia nell’ambito delle tre pareti. La parete ovest, posta in corrispondenza di un piccolo cortile interno sul quale affaccia l’ambiente, presenta sul lato destro un motivo a losanghe, delimitate da linee intrecciate ai vertici, i cui fondi alternano il colore ocra ed il rosso bruno con al centro un fiore bianco ad otto petali inscritto in un cerchio. Alla base, immediatamente al di sopra del taglio della muratura medievale per l’inserimento della volta seicentesca, si nota una brevissima fascia continua di colore rosso. Sui lati sud e nord si alternano figure umane ed animali; sulla parete sud si susseguono il disegno di una gabbia che racchiude un volatile di colore nero (probabilmente un merlo), al cui interno è un vaso per l’acqua e un contenitore per il mangime; la figura di un giovane con capigliatura corta e riccia, ripreso di profilo, abbigliato con una corta tunica stretta in vita, che con la mano destra accarezza un cane, mentre con la sinistra sembra indicare una figura ormai perduta di cui si conservano solo due elementi di forma vagamente tentacolare; segue, dopo una consistente lacuna dell’intonaco, un secondo personaggio, rivolto verso destra, di cui rimane solo la parte inferiore, abbigliato anch’esso con una corta tunica legata in vita. Sul fondo bianco sono distribuiti lungo l’intera parete, come riempimento, fiori rossi a sei petali. La parete nord mostra, iniziando da sinistra, la figura di un cacciatore nell’atto di scoccare una freccia, un albero fiorito, una donna con i capelli raccolti in due lunghe trecce, vestita con una lunga veste coperta da una tunica che tiene sollevata con una mano, mentre con l’altra sembra distribuire del mangime. Seguono due animali fantastici di diverso colore, privi delle teste che sopravanzavano la fascia di intonaco conservata, con i colli intrecciati, corpi e zampe di uccelli e code spiraliformi; a
Note critiche
Il chiostro di San Paolo, diversamente dalla basilica, non sembra aver molto sofferto del grande incendio del 1823. Questi sopravvissuti centimetri di decorazione pittorica medievale furono probabilmente riscoperti tra 1905 e 1907, in occasione dei lavori per la demolizione delle volte del chiostro, diretti da Guglielmo Calderini (Int. cons.). Il muro su cui si trovano faceva parte di un vecchio ambiente del convento distrutto nel Duecento per la costruzione del chiostro, e in cui era stata affrescata, nell’XI secolo, la Cena (Dos Santos, in Corpus IV ¤ 20) trovata anch’essa da Calderini qualche metro al di sopra del velarium (ACS, AA.BB.AA., III versamento, II parte [1898-1907], b. 728, Relazione Calderini, 123). I due dipinti non hanno tuttavia nulla in comune e appartengono a periodi differenti. Il velarium richiama chiaramente altri esempi duecenteschi romani (cosidetto oratorio di Onorio III ¤ 15; Calendario ai Santi Quattro Coronati ¤ 30e; Santi Giovanni e Paolo ¤ 34c; Stanza di Innocenzo III nel Palazzo Vaticano ¤ 32b; Rotonda ai Santi Cosma e Damiano ¤ 44b) e si deve dunque datare in relazione alla costruzione del chiostro. La realizzazione di questo è attestata dall’iscrizione che corre sul fregio dei bracci ovest, sud e est. In essa il cardinal Pietro Capuano appare quale iniziatore del progetto, e l’abate Giovanni Caetani di Ardea (†1235 ca.), come colui che lo portò a buon fine: «(...) Hoc opus arte sua quem roma cardo beavit | natus de capua petrus olim primitiavit. | ardea quem genuit quibus abbas vixit in annis | cetera disposuit bene provida dextra iohannis» (Fedele 1921, 270). Giovannoni (1908, 264-267) ha sottolineato come il braccio nord – quello in cui si trova il velarium – sia il frutto dell’ultima fase dei lavori, dovuta verosimilmente alla bottega dei Vassalletto che avevano concluso nel 1227 l’opera al chiostro di San Giovanni in Laterano (Claussen 1987, 132-138). La datazione alla fine degli anni Venti o agli anni Trenta del secolo si accorda con i dati cronologici sopra esposti e si può applicare dunque anche al velarium. I resti del muro e dei dipinti non consentono tuttavia di precisare se la decorazione ornasse una semplice nicchia o una superficie più grande; né si può capire se nella parte più alta, perduta, ci fosse una più complessa figurazione. Si può pensare ad uno spazio particolare con una funzione precisa, tuttavia imprecisabile allo stato attuale delle conoscenze.
destra di questi è un volatile con lunghe zampe e lungo collo (sul margine superiore dell’intonaco si intravede il disegno del becco) che fronteggia un quadrupede di colore grigio con il pelo irsuto, poggiato sulle zampe posteriori. Sul fondo sono dipinti volatili con il petto bianco (piche o gazze) la cui presenza ben si ricollega ai due personaggi del cacciatore e della donna, ma che, ritrovandosi anche sulla estremità destra della fascia pittorica, evidenziano la funzione di elemento riempitivo del fondo, analogamente a quanto accade sulla parete opposta.
Note critiche
La decorazione pittorica appartiene indubbiamente ad un edificio abitativo. La lettura delle frammentarie strutture murarie medioevali superstiti, effettuata nel corso dell’intervento di restauro dell’edificio attuale, ha permesso di ricostruire l’esistenza di un’unità immobiliare di almeno tre piani (compreso quello terreno), caratterizzata alla base da una muratura con cortina in laterizio, al di sopra della quale prosegue una muratura con cortina a tufelli, secondo una tecnica costruttiva comunemente in uso nel XIII secolo. Un’idea della sua consistenza, e del rapporto con altri edifici che in origine dovevano costituire il lato occidentale della piazza, può desumersi in via indicativa dal disegno del luogo riportato nella Pianta di Roma di Etienne Du Pérac del 1577 in cui si notano più costruzioni allineate (Frutaz 1962, tav. 249). L’edificio apparteneva, comunque, al tessuto edilizio già esteso nel XII secolo e accresciuto ulteriormente nel corso del Duecento, che caratterizzava questa parte del rione Sant’Angelo, compresa tra il Castrum sorto nell’area della Crypta Balbi (citato nei documenti dal 1192 – Schiaparelli 1902, 345-349), le rovine del Portico di Ottavia e del contiguo portico di Filippo e la chiesa di Sant’Angelo in Pescheria (Manacorda 2001, 51-58). Un’area che risulta, tra l’altro, strettamente connessa con il cuore commerciale della città per la vicinanza al mercato cittadino, collocato alle pendici del Campidoglio, e al mercato del pesce presso l’omonima chiesa di Sant’Angelo, e in cui avevano residenza famiglie nobiliari, ma anche importanti rappresentanti dei ceti emergenti di bovattieri e commercianti. Risulta difficile, allo stato attuale delle ricerche, definire il committente del nostro edificio che era collocato probabilmente non lontano da beni di proprietà della famiglia Malabranca – che, imparentata con gli Orsini, tra l’altro, dà i natali a Latino Malabranca nominato cardinale dal papa Niccolò III nel 1278 – e della famiglia dei Galgani (Marchetti Longhi 1919, 507; Hubert 1990, 288, 296). La parete ovest con la sua partizione geometrica trova più facili e immediati confronti con analoghe decorazioni del XIII secolo rinvenute in edifici abitativi o anche religiosi di Roma e del Lazio, il cui intento era fondamentalmente la riproduzione di una ‘tappezzeria dipinta’ in ambienti di complessi architettonici di
Interventi conservativi e restauri
1905-1907: probabile riscoperta dei frammenti in occasione dei lavori di demolizione delle volte e della messa in luce della muratura originaria del chiostro (dir. G. Calderini) (ACS, AA.BB. AA., III versamento, II parte [1898-1907], b. 728).
Bibliografia Inedito.
Karina Queijo 130 SAN PAOLO FUORI LE MURA / ATLANTE I, 8
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PALAZZO LOVATELLI / ATLANTE II, 49 131
29. IL MOSAICO CON LA VERGINE E IL BAMBINO NELLA NICCHIA DEL SACELLO DI SAN ZENONE A SANTA PRASSEDE Secondo terzo del XIII secolo
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un certo rilievo. Per citare solo i riferimenti più diretti, si ricorda la decorazione del Palazzo detto di Bonifacio VIII ad Anagni (Caniglia Mola 1990, 31-56), che mostra la medesima suddivisione della parete in losanghe a colori alternati, con vertici intrecciati, riferita al pieno XIII secolo, probabilmente agli interventi successivi alla cessione del complesso da parte di papa Gregorio IX (1227-1241), alla cui famiglia si deve l’edificazione (Monciatti 2005a, 99-100). Qui si conserva anche un’alta zoccolatura che copre la parte bassa della parete, la cui presenza negli affreschi del nostro edificio viene suggerita dalla fascia continua in colore rosso conservata al di sotto delle losanghe. In ambiente romano appare diretto il confronto con un frammento della decorazione della metà del XIII secolo dell’ex complesso di San Basilio ai Pantani che ripete quasi esattamente il medesimo partito decorativo in forme semplificate (¤ 20). La lettura delle pitture conservate sugli altri due lati dell’ambiente risulta più complessa: le figure sono caratterizzate da un disegno rapido ed essenziale delineato da forti pennellate nere, senza la definizione di un piano di posa che le collochi in uno spazio circoscritto; prevalgono, inoltre, in generale i toni dell’ocra e del rosso-bruno oltre al grigio ed al rosa dei fiori dell’albero. Queste caratteristiche rinviano ad alcune pitture conservate in Campidoglio nel Palazzo Senatorio, costituite da una frammentaria illustrazione dei Mesi datata intorno alla metà del XIII secolo (¤ 36). Uno stile altrettanto rapido e sintetico, tanto da aver fatto ipotizzare la derivazione da un codice miniato, si ritrova anche nei dipinti di soggetto profano, ad illustrazione della presa della città di Ansedonia da parte di CarloMagno, nella torre di accesso al complesso delle Tre Fontane, riferibili ai primi decenni del XIII secolo (¤ 6). Rispetto a questi però le silhouettes delle figure appaiono molto più goticizzate e ispirate a un gusto francesizzante. Appare inoltre evidente, attraverso la lettura dei soggetti rappresentati, l’apparente mancanza di un preciso progetto unitario: ciò si rileva ancor più sulla parete nord, sulla quale la decorazione è presente senza soluzioni di continuità. Si assiste, infatti, quasi ad una giustapposizione di temi iconografici largamente diffusi nella decorazione parietale e nella decorazione miniata tra XII e XIII secolo. Per la gabbia con il volatile, rappresentata con estremo realismo per la precisione con cui vengono disegnati al suo interno i contenitori, è doveroso il riferimento al tema iconografico della “cavea cum ave inclusa” che si afferma sin dal periodo paleocristiano (interpretato come
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metafora dell’anima chiusa nella gabbia del corpo) (Mihályi 1999a, 891-900), ma che trova diffusione anche in pieno Medioevo ad esempio nei mosaici absidali di San Clemente (Croisier, in Corpus IV ¤ 32) e di Santa Maria in Trastevere (Croisier, in Corpus IV ¤ 55) e, successivamente, negli affreschi enciclopedici del complesso delle Tre Fontane (Mihályi 1991). Analogamente il personaggio femminile, che allude ad una scena domestica, trova ancora una volta un confronto nel medesimo mosaico di San Clemente (Riccioni 2006, 49-50). Il disegno dei due animali affrontati, ritratti sempre sulla parete nord, appare come un plausibile riferimento alla favola esopica de Il lupo e la gru (della quale un’analoga rappresentazione si ritrova nella decorazione pittorica tardoduecentesca del palazzo dei Priori a Perugia: Riess 1981, 48-49); proprio questo riferimento potrebbe, ipoteticamente, offrire spunto per un collegamento ad altra favola esopica per il personaggio che accarezza il cane rappresentato sulla parete opposta. Infine il tema del cacciatore e, più in generale, della caccia può trovare spazio plausibile all’interno di un edificio residenziale, mentre si distacca completamente dal resto della decorazione il disegno dei due animali mostruosi dai colli intrecciati e dalle code spiraliformi che rientrano nel repertorio delle figure fantastiche ampiamente diffuse nei Bestiari e nell’apparato decorativo dei codici miniati (Muratova 2002, 487). Allo stato attuale degli studi, tuttavia, la mancanza pressoché totale di testimonianze di decorazioni parietali pertinenti a complessi abitativi privati della Roma del Duecento, rende difficile una lettura esaustiva dell’opera. Questa certamente trae ispirazione da fonti, contesti e riferimenti diversi, assemblati in un insieme cui non sembra estraneo anche un intento di tipo didascalicomoralistico – se si considera il significato intrinseco dei singoli temi – incentrato, almeno in parte, sulla contrapposizione tra male e bene. Non può tuttavia sfuggire l’appartenenza dell’edificio ad una famiglia di un certo prestigio, che forse si stava affermando in quegli anni nell’ambito della vita sociale ed economica della città, mostrando la chiara volontà di distinguersi anche per la decorazione degli interni della sua residenza.
Bibliografia Inedito.
Rossella Motta
Il sacello di San Zenone a Santa Prassede, decorato dai mosaici di papa Pasquale I (817-824) ha un altare sovrastato da una nicchia pure ornata di un mosaico, però duecentesco. Rappresenta una Vergine con il Bambino assisa in un trono gemmato senza schienale, e affiancata dalle sante Prassede e Pudenziana. La Vergine ha la testa e il busto ammantati dal maphorion azzurro, da cui spunta qualche lembo della tunica rossa sottostante; il volto è frontale. Anche il Bambino è rappresentato frontale, con le braccia tese, la destra benedicente e un rotulo nell’altra mano; ha una tunica rosso arancio stretta alla vita da un nastro verdazzurro. A destra, santa Pudenziana (Iscr. 3) tende la mano destra verso il gruppo centrale e tiene una corona nella sinistra; ha una tunica grigioverde e un manto reso a file di tessere alternate rosse e blu. A sinistra santa Prassede, fino al Seicento anch’essa identificata da un’iscrizione (Iscr. 4); ha tunica azzurra coperta da un manto rosso-arancio, e come la compagna ha una corona nella sinistra e tende l’altra mano verso la Vergine. Il sommo della nicchia ha un motivo a conchiglie che ricorda una camera fulgens.
Iscrizioni
Iscrizioni identificative, disposte all’interno dell’area illustrata, accanto alle figure, lettere scure su fondo dorato. Scrittura maiuscola squadrata. 1 - Ai lati del capo della Vergine, allineata su una riga orizzontale, secondo un andamento rettilineo regolare. Intera.
M(»th)r | | Q(eo)à 2 - Nel rotulo sorretto da Gesù bambino, allineata su tre righe orizzontali, secondo un andamento rettilineo irregolare. Intera.
Ego / sum / lux 3 - A destra di santa Pudenziana, lungo il margine della nicchia, allineata su una riga verticale, secondo un andamento rettilineo irregolare. Intera.
S<an>/c<t>/a / P/u/d/e/n/t/i/a/n/a 4 - Sopra il capo di santa Prassede, a sinistra del corpo della santa, lungo il margine della nicchia, allineata su una riga verticale, secondo un andamento rettilineo irregolare. Mutila per la caduta di tessere musive.
S(an)c(t)a | | Õ/÷æ/xê/é/î/[s] (S. Ric.)
Note critiche
Il mosaico della Vergine con il Bambino nel sacello di San Zenone ha attirato la costante attenzione degli storici e visitatori della basilica perché la si credeva immagine miracolosa. La leggenda, molte volte attestata, racconta che Pasquale I, che aveva una speciale devozione per il sacello, apprese un giorno la morte del nipote, e andò a San Zenone per dire una messa per la salvezza della sua anima. Pasquale allora ebbe la visione dell’anima del nipote il quale, via via che il papa celebrava il sacrificio
eucaristico, a poco a poco si liberava dal Purgatorio; alla quinta messa, la Vergine del mosaico prese per mano l’anima del defunto e la condusse in cielo. A seguito di ciò, il papa concesse all’altare un privilegio: cinque messe recitate all’altare potevano liberare l’anima di un defunto dal Purgatorio (Panciroli 1600, 702; Davanzati 1725, 228). Si spiega così perché il sacello di San Zenone fosse noto con il nome di “Sancta Maria libera nos a poenis inferni”. È difficile dire a quando risalga questa leggenda, ma se essa esisteva già nel Duecento si dovrà pensare che la Vergine a mosaico non sia la prima immagine di questo tipo ad essere esistita nel sacello: non si sa se nell’identico luogo, e se con identica iconografia. La possibilità che l’immagine duecentesca sia una ‘copia’ di un’immagine carolingia preesistente è stata già evocata da Brenk (1972-1974, 220), Klass (1972, 116), Asmussen (1986, 81) e Pace (1997 [2000], 120). Un argomento in questa direzione sarebbe la posizione della Vergine, che presenta il Bambino rigorosamente frontale: è un tipo iconografico esistente già, ad esempio, nel IX secolo (abside di Santa Maria in Domnica, Matthiae 1965 [1987], 164) e in seguito sempre utilizzato, come all’inizio del XII nel sacello di Santa Pudenziana (Croisier, in Corpus IV ¤ 30), dove compaiono anche le due sante Prassede e Pudenziana ai lati della Vergine (Klass 1972, 114-116). Il mosaico non è puramente giustapposto al contesto musivo carolingio del sacello, e invece dialoga strettamente con esso. Al di sopra della nicchia appare infatti una scena letta in genere come una Deesis: la Vergine e il Battista, e – al posto che avrebbe dovuto occupare il Cristo – una finestra. Da Asmussen (1986) in poi, più volte si è proposto che il Cristo non sia assente da questa Deesis, ma sia simboleggiato dalla luce che entra dalla finestra. Il tema del Cristo/Luce torna anche, sulla stessa parete, sia nella scena della Trasfigurazione, con il Cristo che irraggia luce, che nella nicchia, dove l’iscrizione sul rotulo del Bambino è EGO SUM LUX. Se ne conclude che se il mosaico duecentesco non ha recuperato l’iconografia di un’opera precedente, ha comunque creato un’immagine perfettamente coerente con il resto del programma. Il mosaico della nicchia fu già ritenuto più tardo degli altri mosaici dal Von Rumohr (1827 [1920], 156-157), e fu poi de Rossi (1899) a datarlo al XIII secolo. De Rossi ne legava la realizzazione all’arrivo nel sacello della Colonna della Flagellazione, che Giovanni Colonna, legato papale e cardinale di Santa Prassede, avrebbe portato a Roma da Costantinopoli e donato nel 1223 alla basilica. Più di recente, Wollesen (1979) e Pace (1997 [2000]) hanno datato il mosaico alla seconda metà del secolo. L’isolamento dell’opera nel paesaggio artistico romano è sottolineato da Pace: nonostante superficiali somiglianze con l’icona musiva della Vergine a San Paolo fuori le mura (¤ 9), il mosaico di San Zenone è privo degli stilemi bizantinizzanti di provenienza veneziana e ostiense (volti dalle ombre marcate e a contorni sinuosi) ma anche delle tendenze alla monumentalizzazione del volume che marcano l’ultimo quarto del secolo (Pace 1997 [2000], 119). Qualche somiglianza si rileva con il mosaico Capocci (¤ 42), per i piccoli occhi della Vergine, simili a quelli di Giacomo Capocci, e per la gamma cromatica con i toni arancio e le stoffe variegate rese con file di tessere a colori alternati. Altri confronti sembrano però possibili con i mosaici dell’atrio di San Marco a Venezia, nella loro prima fase che Demus (1984, 209) data agli anni Trenta. I volti, specie quello della Vergine, arrotondato, sereno, regolare, con occhi piccoli, naso piuttosto largo alle narici, ricordano quelli del Dio Padre nel mosaico della Torre di Babele nell’atrio veneziano, mentre le SANTA PRASSEDE / ATLANTE I, 28 133
proporzioni dei corpi non arrivano ancora alla marcata monumentalità che contrassegna le figure della seconda cupola di Giuseppe, già negli anni 1255-60 (Demus 1984, 209). Le tessere blu e rosse nel contorno dei volti, gli abiti multicolori come quello del Bambino (a tessere rosse, arancio e oro; la cintura a tessere bianche, azzurre, verdi e dorate; il manto di santa Pudenziana straordinario, a file di tessere rosse e blu) pure ricordano la ricchezza cromatica della cupola veneziana. Anche il gesto del Cristo/Luce, con le braccia protese ai fianchi, appare secondo Pace (1997 [2000], 122) nelle scene della Creazione di “redazione Cotton”, e quindi nella prima cupola dell’atrio di San Marco: impossibile dire se sia stato ripreso da un’immagine precedente, forse esistita nella cappella nella sua fase carolingia, o se sia ex novo duecentesco. Dal punto di vista tecnico, invece, il mosaico romano non è all’altezza di quelli veneziani: le tessere sono tagliate e disposte in modo meno regolare; i volti del Cristo e delle sante sono eseguiti in modo meno armonioso e, in particolare quello di Pudenziana, con rozzezze che fanno ancora pensare alle vergini folli del gruppo centrale di Santa Maria in Trastevere (¤ 7a). Le tessere chiare sulle sopracciglia e sul contorno degli zigomi sono affini ai rialzi bianchi sui volti della cappella di San Silvestro ai Santi Quattro Coronati (¤ 30f). Tutti questi elementi fanno credere che il mosaico della nicchia di San Zenone potrebbe esser l’opera di un artista al corrente di quanto si era fatto nell’atrio di San Marco nel corso degli anni Trenta del Duecento, ma ancora legato alle abitudini stilistiche locali della prima metà del secolo. 2
Interventi conservativi e restauri
1650: il vescovo di «Centoville di Pollonia» dona le corone alla Vergine e al Bambino (Davanzati 1725, 228-229). XVIII secolo: l’iscrizione SCA PRAXEDIS, ancora visibile al disegnatore di Ciampini, viene rimaneggiata in SCA PR. Nel 1830, poi nel 1891: interventi in San Zenone, si suppone che venga toccato anche il mosaico (Brevi cenni sulla basilica di S. Prassede 1898, 52). 1945: distacco del bendaggio di protezione antiaerea, pulitura e consolidamento ad opera del prof. Anton Maria Zamponi (SBAP, cartella 278, Relazione sui lavori di sbendaggio dei mosaici nella cappella di S. Zeno, 4 juin 1945). 1987: restauro ad opera di Carlo Giantomassi e Donatella Zari (relazione depositata presso la SBAP) (Pace 1997 [2000], 106).
Documentazione visiva
Alfondo Ciacconio, disegno acquerellato (1590 ca.), BAV, Vat. lat. 5407, f. 18r; WRL 8928 (acquerello e inchiostro), 8935 (disegno preparatorio a penna per WRL 8928); disegno acquerellato (XVII secolo), BAM, F. 221, inf. 4, p. 47; Lucius da Traú, disegno, inciso e pubblicato in Ciampini 1699, tav. IL; incisione in Fontana 1838 [1855], II, tav. XVIII; incisione in Giacomo Fontana 1870, tav. X; incisione in Garrucci 1877, tav. CCXXVIII; incisione in Rohault de Fleury 1878, II, tav. LXXXXIV; cromolitografia in de Rossi 1899, tav. XXVIIa.
Fonti e descrizioni
Panciroli 1600, 702; Visitatio Ecclesie Sancta Prassede, die XXII augusti 1624, ASV, Misc., Arm. VII, 111, f. 339; Mancini ante 1630 [1956-1957], 60; Benedetto Mellini (ante 1667), BAV, Vat. lat. 11905, 336; Ciampini 1699, 151; Piazza 1703, 502; Davanzati 1725, 227-228; Bianchini (1740-1746), BVR, T9, t. 28, ff. 1, 8.
Bibliografia
Von Rumohr 1827 [1920], 156-157; Platner 1838, III-2, 251-252; Nibby 1839 [1971], 637; Melchiorri 1840, 252; Barbet de Jouy 1857, 69-70; Bleser 1866, 332; Fontana 1870, 10-11; Notizie della basilica di S. Prassede 1872, 26; Garrucci 1877, 114; Rohault de Fleury 1878, II, 61; Stevenson, in Mostra della città di Roma 1884, 203; Baldoria 1891, 262; Brevi cenni sulla basilica di S. Prassede 1898, 26-27; de Rossi 1899; Marucchi 1902, 331; van Marle 1921, 77; van Marle 1923, 93; Van Berchem-Clouzot 1924, 239; Venturi 1926, 42-43; Lavagnino 1936, 396-397; Apollonj Ghetti 1961, 75; Waetzoldt 1964, 73; Matthiae 1967, 385, 418; Oakeshott 1967, 207208, 243-244; Klass 1972, 35-39, 112-117; Marinelli s.d. [1972], 64-65; Brenk 1972-1974, 220; Buchowiecki 1974, 616; Glasberg 1974, 151; Petrassi 1975, 237-240; Wilpert-Schumacher 1976, 335; Wollesen 1979, 26-27; Asmussen 1986, 81; Chastel 1993, 68-69; Osborne-Claridge 1996, 292-295; Thunø 1996, 20-22; Pace 1997 [2000]; Minasi 2004, 49; Pennesi, in Atlante I (¤ 28, 295, 297). Karina Queijo
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30. IL COMPLESSO DEI SANTI QUATTRO CORONATI
30a. L’AULA ‘GOTICA’ Quinto decennio del XIII secolo
Nel 1116 Pasquale II ricostruì la basilica dei Santi Quattro Coronati: la navata centrale dell’edificio leonino fu trasformata in una chiesa a tre navate e la parte finale di essa fu modificata in un secondo atrio. Le due ex navi laterali e gli annessi furono inglobati rispettivamente in un monastero benedettino e nel palazzo cardinalizio, affacciato sull’antica via papale. Questa struttura raggiunse un notevole sviluppo nel corso del XIII secolo, particolarmente ad opera del cardinale di Santa Maria in Trastevere Stefano Conti, nipote di Innocenzo III e, nel 1256-1257, anche di Ottaviano degli Ubaldini, cardinale di Santa Maria in Via Lata (Levi 1890, 173 nota 2; Id. 1891, 285; Paravicini Bagliani 1972, 295 nota 30; Maleczek 1983, 475-478; Sohn 1997, 43-44; Barelli 1998, 97, 107 note 6 e 7; Romano 2007, 630). Stefano Conti, in seguito alla partenza di Innocenzo IV per la Francia, fu nominato vicarius urbis della città di Roma dal 1245 al 1251; il prelato, uditore del tribunale della curia sin dal pontificato di Onorio III e giurista di riferimento per Sinibaldo Fieschi, è documentato nella residenza dei Santi Quattro dall’aprile del 1244 (ASV, Reg. vat. 21, f. 10r; Barelli-Falconi 2000, 283). La sua figura e il ruolo svolto all’interno della curia risultano determinanti per le vicende edilizie e decorative del palazzo: committente delle trasformazioni architettoniche della residenza, come documenta la lapide situata nella cappella di San Silvestro, e probabile ispiratore dei dipinti che ne decorano gli ambienti. La logica distributiva delle sale situate al pian terreno e al piano superiore, i cicli pittorici affrescati nella Stanza del Calendario, nella cappella di San Silvestro, negli ambienti sovrastanti, rendono la residenza vicariale un documento fondamentale per la conoscenza della cultura architettonica e pittorica dell’Urbe verso la metà del secolo. L’organizzazione degli spazi, con la distribuzione delle funzioni di rappresentanza nella Torre Maggiore, con la Stanza del Calendario, la cappella palatina, l’Aula ‘Gotica’ [1], il loggiato a pentafore, e gli spazi destinati ai servizi, alloggiati nella Torre Minore, rivela molte analogie con il Palazzo di Innocenzo IV, costituendone un importante precedente (Monciatti 2005a, 98-102). La Torre Maggiore presenta un paramento in mattoni e tufelli con anelli porta stendardi nella parte superiore; l’originaria copertura a terrazza fu sostituita alla fine del XVI secolo da un tetto a spiovente. Sul lato settentrionale si ergono due speroni e la muratura è arretrata in corrispondenza di un piccolo loggiato, non più esistente, cui si accedeva dall’Aula situata al primo piano. A livello terreno erano la Stanza del Calendario, la cappella di San Silvestro, comunicante, tramite due portavoce, con l’ambiente sovrastante. Sull’angolo nord occidentale della Torre Maggiore fu edificata un’altra torre, di dimensioni ridotte, e sul lato orientale la Torre Minore. Quest’ultima era costituita al livello terreno dal presbiterio della cappella di San Silvestro, al piano superiore da un piccolo vano comunicante con l’Aula ‘Gotica’ tramite una porta a sesto acuto e dotato di una scala che conduceva ai due livelli superiori e alla copertura. Sulla ghiera della porta del piccolo
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ambiente situato all’ultimo piano è visibile un frammento della decorazione originaria, a finta cortina (Barelli 1998, 98-107; BarelliFalconi 2000, 281-282, 287-288; Filippi Moretti 2006, 394-395). La residenza dei Santi Quattro rivestiva un particolare rilievo nell’assetto urbano, in profonda relazione con il Laterano, come documentano la posizione topografica, sulla via delle processioni papali; la titolarità della cappella a San Silvestro, in analogia con l’oratorio lateranense; lo straordinario apparato decorativo; l’utilizzazione del palazzo da parte dei senatori Enrico di Castiglia, Carlo d’Angiò (1265) e successivamente, nel 1285, del cardinale di San Nicola in Carcere, Benedetto Caetani, e dal 1295 del cardinale diacono di Santa Maria in Cosmedin, Francesco Caetani. Ancora nel 1433, il 31 maggio, il banchetto che seguì l’incoronazione imperiale del re tedesco Sigismondo fu allestito ai Santi Quattro (Draghi 1999b, 121). Andreina Draghi
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La sala è situata al primo piano del palazzo cardinalizio ed è disposta ortogonalmente alla cappella di San Silvestro. Un grandioso portale a sesto acuto, in conci di peperino e marmo, immette nell’ambiente dalla Sala delle Pentafore. Un altro ingresso si apre al termine della parete ovest verso nord, mettendo in comunicazione l’Aula con una scala cui si accedeva dal cortile esterno contiguo alla Stanza del Calendario (Barelli 2009a, 82). Le due aperture avevano funzioni e punti focali diversi: la prima, permettendo la veduta d’insieme dell’intero ambiente con la prospettiva di Salomone, dipinto al centro della parete settentrionale, ne rendeva immediatamente percepibile la probabile funzione di sala di giustizia, destinata forse a un tribunale ecclesiastico; l’altra, con una visione generale dimezzata, concentrava l’attenzione sui dipinti raffiguranti il Sole e la Luna, che simboleggiano il Cristo e l’Ecclesia. L’Aula è costituita da due campate divise da un’arcata ogivale in conci di peperino terminante con mensole; è coperta da due volte a crociera in calcestruzzo, con peducci in pietra; ha una lunghezza di 17.30
metri, una larghezza di poco più di 9 metri (9.20) e un’altezza di 11.50 metri. Era collegata agli altri ambienti del palazzo da porte a sesto acuto, rinvenute durante i restauri e originariamente dipinte, come lasciano supporre le tracce di colore sulla pietra (campata meridionale, parete ovest); tre nicchie, anch’esse dipinte, sono situate lungo le pareti occidentale e orientale. L’illuminazione naturale era assicurata da cinque oculi e da diverse finestre, emerse durante i restauri, di misure e ampiezze differenti, decorate negli intradossi e nella parte superiore (Matera 2006, 363-390; Filippi Moretti 2006, 391-405). La decorazione si snoda lungo le pareti delle due campate e si svolge orizzontalmente all’interno di ognuna di esse, delimitata lateralmente da vivacissime bordure di motivi fitomorfi e racchiusa entro quattro bande monocromatiche, rosse e azzurre, ornate da un motivo a perlinatura. Ogni parete è segnata a circa metà da una grande trabeazione dipinta, costituita da mensole disposte assonometricamente, decorate con pietre preziose e sormontate SANTI QUATTRO CORONATI 137
da arcature con piccole nicchie entro le quali è dipinta una grande varietà di uccelli; motivi a ventaglio affiancati da coppie di gazze completano la decorazione [8, 14, 20, 42]. Nella campata meridionale la lettura dei dipinti segue un percorso antiorario. Iniziando dal basso, entro archi inflessi e formati da delfini con le code intrecciate, sono raffigurati i dodici mesi dell’anno con le occupazioni agricole che li connotano, corredati dai tituli, vergati nelle fasce di esergo. Tra le arcature appaiono eroti con morbidi drappi sulle spalle, speculari alle piccole figure femminili tra le arcature dell’altra campata: gli eroti sembrano avere talvolta una connotazione negativa, vicina a quella dei Vizi, laddove le figure femminili hanno il capo velato e potrebbero avere connotazione positiva, prossima a quella delle Virtù. Nel registro inferiore della parete meridionale, in una serie oggi frammentaria, sono invece raffigurati i Vizi. Al di sopra della trabeazione si dispongono le figure delle Arti, di cui restano la Grammatica, la Geometria, la Musica, l’Aritmetica/Computo, l’Astronomia. Nell’imposta della volta, su capitelli dipinti, sono quattro Telamoni e le Stagioni con i Venti; seguono un Paesaggio marino e, parzialmente perduti, i Segni Zodiacali con l’Acquario, il Capricorno, i Pesci, il Toro e lo Scorpione; infine le Costellazioni, di cui sono pervenute le immagini di Andromeda e Perseo. Nella campata settentrionale, alla stessa altezza dei Mesi e analogamente entro archi inflessi formati da code di delfini intrecciate, ma di minori dimensioni, trovano luogo le Virtù e le Beatitudini, raffigurate in abiti militari ma non armate, recanti sulle spalle le figure dell’Antico e del Nuovo Testamento distintesi nel loro esercizio; ai loro piedi, i vizi antitetici all’immagine raffigurata e il personaggio storico correlato. Al centro della parete settentrionale è rappresentato Salomone, accompagnato dalle figure veterotestamentarie e dai rappresentanti dell’Ecclesia. Nel registro superiore, partendo da ovest, sono le immagini di Mitra tauroctono, di due figure allegoriche, del Sole e della Luna [24, 26, 30]. Un ricchissimo apparato di tituli e di iscrizioni correda le rappresentazioni, contribuendo in modo risolutivo a chiarire il programma della decorazione e la funzione della sala.
CAMPATA MERIDIONALE 1. VOLTA Gran parte della decorazione non è pervenuta: l’andamento delle lesioni riscontrate nella volta e risanate durante il restauro (Filippi Moretti 2006, 403) rendono ipotizzabile come causa un evento sismico (Draghi 1999b, 123). Mancano la parte centrale e cospicue sezioni dei costoloni; tuttavia i frammenti pervenuti consentono di ricostruirne la composizione [1]. - Andromeda e Perseo (Iscr. 1, 2) In un cielo stellato è rappresentata Andromeda, come una giovane donna nuda di cui è pervenuta solo la metà inferiore del corpo; alla sinistra è la figura frammentaria di Perseo. L’affresco è dipinto nella sezione nord occidentale della volta in relazione con l’Inverno: Andromeda, dea della vegetazione rappresenta il riposo invernale del seme custodito nella terra. - L’Acquario, il Capricorno, i Pesci (Iscr. 3, 4) Il dipinto è affrescato nella sezione nord occidentale della volta, al di sopra dell’allegoria dell’Inverno. Un giovane leggermente chino è raffigurato nell’atto di versare dell’acqua: è il Fluvius Aquarii, il fiume che concludeva il suo percorso incontrando la ‘Bocca del Pesce’. Indossa una veste corta che lascia scoperte le gambe e un ampio drappo sulle spalle che si snoda lungo il cielo stellato. Il Capricorno e i Pesci appaiono ai lati, largamente frammentari. - Il Toro (Iscr. 5, 6) L’animale, di cui non è pervenuta la testa, è affrescato in un cielo cosparso di stelle ed è situato nella sezione sud occidentale della volta, al di sopra della personificazione della Primavera [2]. - Lo Scorpione (Iscr. 7) È pervenuta la parte posteriore del corpo con le quattro zampe, la coda poderosa con le chele che trattengono una stella; è campito nella parte nord orientale della volta, al di sopra della stagione dell’Autunno. - Il Paesaggio marino (Iscr. 8) Al di sopra dell’allegoria dell’Inverno è affrescato un mare popolato da molteplici esseri: una figuretta nuda e alata che
cavalca un pesce e suona uno strumento musicale; una sirena, con coda munita di piedi, nella mano destra una canna su cui è infilzata una lepre, e nella sinistra un grande pesce; un’altra sirena, ugualmente monocaudata e con piedi, che impugna una fiocina; due uccelli; un bimbino nudo che trascina un animale formato da due teste di tartaruga e da un guscio cavo, entro il quale nuotano alcuni pesciolini. - Paesaggio e scene marine (Iscr. 9, 10) Al di sopra della personificazione della Primavera nuotano alcuni pesci e un vitello marino alato; entro una barca, trainata da una coppia di cigni, sono raffigurati tre uomini: remano, e uno di loro lancia contemporaneamente una fiocina a due fionde [2]. Al di sopra dell’allegoria dell’Autunno sono rappresentati una figuretta che trattiene un pesce; un ittocentauro che impugna una clava e con la sinistra afferra la coda di un leone dalla folta criniera; tre volatili, di cui due frammentari. - L’Inverno (Iscr. 11, 12) L’allegoria è presentata come un uomo anziano, canuto, il capo coperto per il freddo. Indossa un mantello foderato con una pelliccia, una veste ornata con pietre preziose; nella mano destra impugna un bastone, nella sinistra un cestino. Nella parte superiore sono i tre Venti che, secondo lo schema isidoriano, ripreso da Onorio Augustodunense e Vincenzo di Beauvais, caratterizzano la stagione: Septentrio, munito di poderose corna, a destra Circium, a sinistra Aquilonis; dalle gote gonfie e rosse escono fiotti di aria [1, 3]. Nell’immagine è visibile un ripensamento nel disegno preparatorio (Matera 2006, 372). Al di sotto dell’Inverno, nel raccordo tra la volta e le pareti, è affrescato su un capitello dipinto un telamone: indossa una veste corta che lascia scoperte le ginocchia, nelle braccia reca un drappo che forma una sorta di arabesco. - Primavera (Iscr. 13) Due alberi fioriti racchiudono ai lati la composizione; un giovane indossa una tunica corta, fermata da una cinta e un ampio mantello rosso; i capelli sono trattenuti da un cerchietto nero decorato da motivi circolari rossi e bianchi. Nella destra reca un ramoscello fiorito, nella sinistra una cesta colma di fiorellini bianchi. Negli
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Eurum. Il telamone situato nel raccordo tra la volta e le pareti è rappresentato come un giovane abbigliato con una veste corta, un ampio mantello e una cuffia da cui esce una massa vigorosa di capelli [39]. 2. PARETE OCCIDENTALE La lettura procede in senso antiorario. In basso i Mesi da Gennaio ad Aprile; in alto la Grammatica e la Geometria [8]. Le immagini della Grammatica, di Giano nel mese di Gennaio, di Febbraio, e della figura femminile nel mese di Marzo, appartengono ad una redazione pittorica di poco posteriore (Int. cons.). Le Arti sono raffigurate come giovani donne dall’incedere danzante; accanto, assiso su un trono tempestato di gemme è raffigurato il poeta, lo scienziato che più di ogni altro si è distinto nell’esercizio dell’arte e che, pertanto, la personifica. Rispetto alla codificazione formulata da Isidoro la disposizione delle Arti nel loro insieme è diversa e mancano la Retorica e la Logica (Dialettica). Tuttavia, se si prendono in considerazione anche le lacune, si può ipotizzare che fosse rappresentata una serie di sette Arti Liberali: Grammatica (con Retorica), Logica (in lacuna), Geometria, Musica, Aritmetica (assimilata al Computo), Astronomia, Medicina o Architettura (in lacuna). Oppure una serie maggiore: sulla parte orientale potevano essere affrescate tre o quattro personificazioni e sulla meridionale la Musica/Armonia e l’Aritmetica/Computo (Draghi 2006, 50). - La Grammatica (Iscr. 16) Su un seggio ornato con pietre preziose è assisa una figura maschile canuta, lo sguardo rivolto verso la volta (Prisciano, Donato?). L’immagine è dipinta in una scala minore rispetto alle altre; indossa la tunica, un mantello ampiamente panneggiato e nella mano destra sembra tenere un calamo; indica un volume posato sul leggio. Accanto è il dipinto frammentario di un trono
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spazi triangolari di risulta sono affrescati i tre Venti: Favonius al centro, con le orecchie appuntite; alla sua destra Africum e, a sinistra, Corum [4, 16]. Nella zona sottostante, su un capitello dipinto è campito un telamone: indossa una corta veste e nelle braccia trattiene un drappo [38]. Come per la raffigurazione dell’Inverno e dell’Estate, la presentazione della stagione è frontale e la canna nasale è dipinta esattamente sullo spigolo del pennacchio. L’immagine, rispetto alle altre, presenta uno stato di conservazione maggiormente compromesso; presumibilmente l’intonaco pittorico è stato danneggiato dalle infiltrazioni di acque meteoriche (Matera 2006, 363, 374). - Estate (Iscr. 14) Un giovane contadino avanza con incedere sicuro, indossa una veste di colore rosso fermata in vita da una cinta intrecciata di colore bianco; il capo è coperto da un petaso fermato da un laccio; nella mano destra reca gli strumenti necessari per la lavorazione dei campi, nella sinistra una fascina di grano inforcata in un bastone. Lateralmente è dipinto un alberello flessuoso, carico di frutti. Della raffigurazione dei tre Venti (Auster, Euroaustrum, Austroafricum), a causa della caduta dell’intonaco, è pervenuta soltanto una parte dell’ala di Auster. Nella zona sottostante, su un capitello dipinto, è raffigurato un telamone nell’atto di incedere; indossa una corta veste rossa e nelle braccia, flesse verso il capo, trattiene un drappo, l’espressione del viso è sofferta [5, 7]. - Autunno (Iscr. 15) È campito come una figura maschile anziana e canuta nei capelli e nella barba. Indossa pantaloni che giungono fino ai polpacci e una veste corta; sulla spalla sinistra ha uno scialle per attutire il peso del raccolto; il capo è coperto da un petaso fermato con un laccio. Nella mano destra reca un cestino di vimini intrecciati, con la sinistra sorregge sulla spalla un bastone a due punte cui è legato il raccolto [6]. Nella parte superiore del pennacchio sono rappresentati i tre venti che soffiano: al centro Subsolanus, a destra Vulturnum e a sinistra
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e di una figura ampiamente panneggiata; dal terreno affiorano alcune esili piantine. L’esecuzione del dipinto appartiene a una fase leggermente posteriore, successiva alla rimozione della cappa di un camino, originariamente affrescata sui tre lati (Int. cons.; cfr. più avanti Gennaio). - La Geometria (Iscr. 17-19) La scena è bipartita da un albero fiorito. Una giovane donna con una tunica, un mantello e con il capo coperto, reca nella mano destra un compasso, nella sinistra un cartiglio con iscrizione. A sinistra è una figura maschile (Euclide?), assisa su un trono; indossa una tunica e un mantello, i capelli e la barba sono brizzolati. Con la mano destra indica la Geometria, nella sinistra reca un cartiglio con iscrizione; il terreno è cosparso di esili piantine [8, 9]. - Gennaio (Iscr. 20) La scena è racchiusa entro un’arcatura inflessa, formata da code di delfini intrecciate, di maggiori dimensioni rispetto alle altre che seguono. Il Mese è presentato come Giano trifronte: è assiso su un seggio; indossa una tunica e un mantello ornato lungo il collo e sugli omeri con pietre preziose. Il capo è coperto da un petaso; nella mano sinistra reca un fuso. Lateralmente un servitore cuoce il maiale entro una pentola scaldata al fuoco e appesa tramite una catena ad un’asta; un altro giovane offre del cibo e del vino a Gennaio; i salumi stagionano su un’asta, insidiati da un topo. Alla destra del Mese è affrescato un albero con tre rami sostenenti ciascuno una chioma sferica completamente fiorita nonostante la stagione invernale. Ad un ramo è appesa una fiaschetta [10]. I brani della Grammatica, di Giano, del mese di Febbraio e della figura femminile di Marzo sono il frutto di un restauro, attuato probabilmente a metà del sesto decennio del secolo (Int. cons.): sulla scorta delle tracce di un camino ritrovato sulla parete (Matera 2006, 366), è stato proposto che la decorazione si svolgesse originariamente con Giano
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su un lato della cappa, e superiormente parte della Grammatica, Febbraio sul fronte; la figura femminile del mese di Marzo sull’altro lato della cappa. Con la rimozione del camino, lo spazio pittorico, forzosamente diminuito, non permetteva la presenza di un’arcatura da destinare a Febbraio che risulta campito all’esterno, nella cesura tra i due Mesi (Barelli 2009a, 86). Si noti l’espressione maligna dell’erote con il ventre gonfio e la coppa di fiori in mano, situato nell’arcatura tra i mesi di Gennaio e Febbraio/Marzo. - Febbraio (Iscr. 21) È personificato come un uomo leggermente chino, nell’atto di potare un albero in prossimità della base: con la mano sinistra impugna il ramo, con la destra si appresta al taglio; indossa una tunica corta, un manto, il capo è coperto con un petaso [10]. - Marzo (Iscr. 22, 23) Il Mese è rappresentato come uno Spinario. Sulla sinistra è un giovane seduto su una panca, indossa una tunica corta che lascia scoperto il torso; il capo è reclinato con un’espressione di grande sofferenza. Tende la gamba sinistra verso una figura femminile genuflessa, rappresentata nell’atto di estrarre con la mano destra la spina conficcata nel piede. È abbigliata con una veste ornata con pietre preziose e perle disposte lungo il bordo inferiore e sul giro del collo; il capo è coperto con uno scialle. Alle sue spalle sono campite la figura frammentaria di un giovane e di un albero [11, 12]. - Aprile (Iscr. 24, 25) La scena è racchiusa entro due alberi fioriti flessi verso l’interno. In primo piano è un giovane pastore indossante una tunica, un
mantello, il capo è coperto con un petaso. Nella mano destra impugna il vincastro per condurre il gregge, affrescato nella parte inferiore e pervenuto largamente frammentario; una gabbia con un uccellino di colore scuro è appesa sull’albero. In posizione leggermente arretrata è un altro giovane: reca una botticella e uno strumento serrato nel gomito, è abbigliato con una tunica corta, un manto foderato di pelliccia, uno scialle sulla spalla, un petaso come copricapo [13]. 3. PARETE MERIDIONALE L’apertura della grande finestra che mutila gli affreschi risale al XVII secolo (Draghi 2006, 30). La piccola finestra rettangolare situata tra i mesi di Luglio e Agosto è stata rinvenuta durante il restauro e presenta resti di decorazione: una coppa al centro, lateralmente una colomba, e nell’imbotte una decorazione a girali floreali chiari su fondo giallo ocra [14]. Nella zona inferiore della parete, al centro, si riscontrano le tracce dell’originaria decorazione a tarsie marmoree; all’angolo con la parete orientale sono una lesena scanalata dipinta, i frammenti della bordura che inquadrava il portale di comunicazione con la Sala delle Pentafore, e lo sbocco dei due imbuti portavoce comunicanti con la cappella di San Silvestro. La porta che comunica con la Sala delle Pentafore, al di sopra della quale è il Leone che assale un cervo [34], ha girali floreali con grappoli su fondo ocra nell’imbotte, e all’esterno una fascia con motivi geometrici. - Musica (Iscr. 26-28) Una giovane donna, il capo coperto, la veste fermata da una
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cintura e increspata nel movimento, tende il braccio destro nell’atto di suonare con un dito il battaglio delle campane; nella mano sinistra reca un cartiglio. Nella parte destra della scena sono campiti un adolescente che suona l’organo e un ragazzo che aziona il mantice; a sinistra una figura frammentaria, assisa su un trono tempestato di gemme, reca sulle ginocchia uno strumento musicale (Tubalcain?); dal terreno affiorano alcune piantine. Segue, nella lettura, un cratere, anch’esso frammentario, che secondo lo schema compositivo replicato sulle pareti dell’intera aula, è sempre affrescato in corrispondenza delle aperture, con le varianti di coppe di diverse dimensioni [14]. - Aritmetica/Computo (Iscr. 29) La scena è frammentaria. Una figura è assisa su un trono ornato con gemme, il braccio destro alzato nel gesto del computo, con l’indice in evidenza; reca sulle ginocchia un cartiglio (Pitagora, Boezio?). Alla sua destra, seduto su uno scranno, è un discepolo intento a contare; sul terreno sono campite esili piantine [14]. - Maggio (Iscr. 30, 31) Due alberi fioriti e colmi di frutti delimitano la composizione. In primo piano un cavallo di colore bianco incede con l’andatura del trotto su un terreno cosparso di germogli; è montato da un cavaliere che indossa una veste di colore verde, un mantello con cappuccio, il capo è ornato con una ghirlanda di fiori e nella mano destra, coperta con un guanto, reca un bouquet di fiori. Sul lato destro è dipinto un ciliegio: un ragazzo, in cima all’albero, coglie i frutti e li depone nella cesta vicina; un altro giovane si arrampica sul tronco [15]. - Giugno (Iscr. 32, 33) Un giovane con copricapo è chino nell’atto di mietere il grano con un falcetto; la mietitura avviene solo per metà dell’altezza della spiga, in modo da utilizzare la parte rimanente per il foraggio del bestiame o come combustibile. In primo piano un uomo maturo, con la barba e i capelli grigi, sistema le spighe; in posizione arretrata un altro giovane, inginocchiato su un covone, le lega.
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L’erote tra Giugno e Luglio ha in mano una borsa, forse allusiva all’avarizia [14]. - Luglio (Iscr. 34, 35) La composizione è frammentaria nella parte superiore. Un albero, di cui è pervenuto soltanto il tronco, bipartiva la scena. Il Mese è connotato dal lavoro della trebbiatura e un grande covone circolare, dorato dai raggi del sole, costituisce il centro compositivo. In primo piano due giovani, il busto piegato nello sforzo, radunano, sollevano con il forcone il grano e impugnano il correggiato per batterlo e permettere la fuoriuscita dei chicchi dalle spighe. Un uomo maturo, con la barba e i capelli grigi, sembra dirigere le operazioni: reca con sé gli attrezzi necessari, il braccio sinistro è proteso e la mano aperta [14, 18]. - Agosto (Iscr. 36, 37) Una figura maschile indossante una tunica e un mantello, la barba e i radi capelli bianchi, è assisa su una sorta di cattedra. Alla sua destra un giovane, raffigurato di profilo, gli offre una coppa di uva. Al centro, sullo sfondo, è dipinto un albero di fichi e due bimbi nudi, in parte coperti da una leggera veste, sono intenti a raccogliere i frutti. L’erote attiguo è raffigurato con in mano una fiaccola e una borsa [17]. - Vizi La serie è raffigurata nel registro sottostante le personificazioni dei Mesi. La perdita degli affreschi dipinti alla stessa altezza, sulle altre pareti, non consente di definire la successione dei soggetti iconografici. Lo schema compositivo è di derivazione classica (Draghi 1999b,129): giovani nudi sorreggono sulle spalle festoni di fiori in un intreccio continuo; ai loro piedi sono uccelli di varie specie. La Lussuria è morsa al sesso da un serpente/drago; e, nella
parte superiore, coppie di arpie, sirene e uccelli sono affrontati ai lati di vasi colmi di fiori. - Leone che azzanna un cerbiatto La decorazione è situata sopra la porta di comunicazione con la Sala delle Pentafore. Entro una lunetta costituita da una bordura di motivi floreali è rappresentato un leone dalla folta criniera, gli occhi azzurri e gli artigli sfoderati nell’atto di sbranare un cervo [34]. Nell’imbotte della porta sono campiti tralci vegetali con grappoli su fondo ocra e, all’esterno, è una fascia ornamentale con motivi geometrici. 4. PARETE ORIENTALE Nella zona inferiore della parete si aprono una porta a sesto acuto in conci di peperino e una piccola nicchia, ancora con frammenti dell’originaria decorazione pittorica. - Astronomia (Iscr. 38) È raffigurata nell’atto di incedere su un terreno decorato con esili piantine; indossa una veste azzurra, un manto rosso, nella mano sinistra – le dita flesse ad uncino – reca un cartiglio. Accanto, con la stessa postura, è un giovanissimo discepolo che, presumibilmente, sosteneva il planisfero; all’estrema sinistra, assisa su un trono ornato con gemme, una figura di cui rimane solo la parte inferiore (Tolomeo?) [20]. - Settembre (Iscr. 39, 40) È raffigurata la cerchiatura delle botti: due giovani, in primo piano, con il mazzuolo e un attrezzo dotato di un lungo manico sono intenti a far aderire le doghe della botte le une alle altre e a cerchiarle. In secondo piano un ragazzo solleva il cerchio con l’intenzione di porgerlo ai compagni; sul fondo è campito un albero con tre rami colmi di frutti [21].
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scettro, con la destra mostra all’osservatore il muso dell’animale [23]. 5. ARCO DI DIVISIONE TRA LE DUE CAMPATE Della decorazione che rivestiva la grande arcata sono pervenuti, nell’estradosso, le tracce del fregio floreale; nella parte superiore dell’intradosso, i frammenti di una decorazione a meandro e, inferiormente, l’immagine di un fanciullo, la veste corta, lo sguardo rivolto verso l’alto [40]. CAMPATA SETTENTRIONALE 1. VOLTA L’intera decorazione è pressoché perduta: mancano la zona centrale e gran parte dei pennacchi; sono frammentari i quattro telamoni e le bordure ornamentali che delimitavano la decorazione. Sul pennacchio nord occidentale è rimasta la parte inferiore, con un giovane telamone stante su un capitello, i capelli mossi, la mano destra alzata nell’atto di sostenere la volta; indossa una veste corta e il drappo, posato sulle spalle, ricade lungo i fianchi [37]. Bordure di motivi floreali, frammentarie, decoravano il raccordo tra la volta e le pareti; nella parte superiore doveva essere una sorta di capitello, così come nel pennacchio sud orientale. Di quello sud occidentale resta parte della bordura floreale, e il telamone acefalo e in cattivo stato di conservazione, con la veste rossa corta e le gambe scoperte. Sul pennacchio sud orientale i fregi floreali sono frammentari, il capitello è profilato per tutta l’estensione con un motivo a perlinatura; al di sopra si vedono le gambe nude di una figura per il resto scomparsa. In basso è il telamone stante in punta di piedi su un capitello, i muscoli dei polpacci in evidenza, il capo piegato indietro, i capelli capovolti, la veste corta realizzata con stesure cromatiche bianche e scure fortemente contrastate [36]. 21
Infine, sul pennacchio nord orientale sopravvivono frammenti dei fregi ornamentali e della base del sostegno, e in basso il telamone stante sul capitello, nell’atto di sostenere la volta, la veste rossa, il viso molto caratterizzato. 2. PARETE OCCIDENTALE Gran parte della decorazione di questa parete è perduta e gli affreschi esistenti sono largamente frammentari. Nel registro superiore è il Mitra tauroctono; in quello inferiore, le Virtù: l’Ortodossia/Fede, la Pazienza, l’Umiltà [24]. Come tutte le altre sulle altre pareti, hanno aspetto guerresco – con l’usbergo, la tunica, un mantello fermato al di sotto del collo da una fibbia, sul capo il camaglio e un cappuccio/elmo – e recano sulle spalle le figure dell’Antico, del Nuovo Testamento e dei Santi distintisi nel loro esercizio. Nella mano sostengono un cartiglio con un’iscrizione. Sono concepite sullo schema dell’antitesi: ai loro piedi infatti, secondo lo schema della calcatio, sono dipinte due piccole figure genuflesse, una delle quali mostra allo sguardo dell’osservatore un cartiglio, e l’altra rappresenta il personaggio negativo, scelto ad indicare il vizio. Nella fascia di esergo sono vergate le iscrizioni relative alla scena soprastante, che contribuiscono ad identificarla e che sono composte da due termini: il primo una denominazione che illustra il vizio antitetico alla virtù rappresentata, il secondo che indica il personaggio storico o la religione emblematici del relativo vizio. Nello spazio di risulta tra le arcature, su un fondo ornato con un tralcio continuo, sono campite piccole figure femminili con il capo velato, tema replicato sulle tre pareti della campata, forse di connotazione positiva e attiguo al significato delle Virtù. Nella parte alta, la parete è interrotta da un oculo che conserva parzialmente il fregio floreale che ne decorava la faccia interna; nella zona inferiore della parete si aprono una grande finestra con sedili, una nicchia e una porta di accesso verso le scale.
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- Ottobre (Iscr. 41, 42) Il mese è caratterizzato da due scene: la vendemmia e la pigiatura dell’uva. Tralci di vite si annodano ai rami di un albero campito sul fondo, al centro della composizione; un giovane contadino – la schiena flessa e lo sguardo malinconico – si appresta a reciderne i grappoli con il coltello e a deporli nella cesta sottostante. Un ragazzo reca sulle spalle un’altra cesta di uva per consegnarla al pigiatore che si aiuta nell’operazione con una canna; le gambe sono affondate in cumuli di uva bianca, rossa e verde; la veste è corta e senza maniche, sul capo indossa una cuffia annodata sotto il mento da cui fuoriescono vigorosissime tre ciocche di capelli [19, 22]. - Novembre (Iscr. 43, 44) Nella scena, largamente frammentaria e racchiusa entro due alberi flessi verso l’interno, sono rappresentate l’aratura e la semina. In primo piano un contadino indossa una veste pesante e un petaso; impugna l’aratro e con un lungo bastone stimola i buoi; una bisaccia è appesa ad un ramo. Anche il giovane seminatore indossa una veste pesante, un mantello e un copricapo: i semi sono contenuti all’interno di un panno sostenuto con la mano sinistra. Si noti che l’erote situato tra Novembre e Dicembre impugna minacciosamente un coltello [20]. - Dicembre (Iscr. 45, 46) Il Mese, largamente frammentario, è connotato dalla macellazione del maiale. L’animale è immobilizzato da un giovane contadino che, inginocchiato sul suo ventre, impugna nella mano destra il coltello. Sul fondo della scena il corpo del maiale è appeso su un traliccio di pali, affinché possa essere squartato più agevolmente. Il Mese è presentato come un giovane uomo assiso su un seggio; indossa una veste di colore rosso e un manto chiaro fermato con una fibbia all’altezza del collo; nella mano sinistra impugna uno
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La finestra ha l’imbotte e la base dell’apertura decorate rispettivamente da un fregio fitomorfo e grappoli su fondo ocra, da un fregio su fondo chiaro e da un motivo a finto marmo. La decorazione «non è ultimata nelle sue finiture (...) è mancante per tutta la lunghezza (...) sono inoltre assenti le lumeggiature bianche presenti sulla fascia rossa di tutte le altre aperture (...) possiamo avanzare l’ipotesi che ad affresco quasi ultimato qualcosa interruppe i lavori» (Matera 2006, 380). Nella nicchia è l’Omicidio di Abele, dove Caino, con un’arma impugnata nelle mani, insegue Abele, raffigurato con le ginocchia flesse e la mano destra alzata. - Mitra tauroctono In asse con il soprastante oculo, un cratere colmo di grappoli d’uva bipartisce la composizione. La parte sinistra è perduta; sulla destra è raffigurato Mitra nell’atto di uccidere il toro che – le zampe flesse, la bocca aperta nel dolore – crolla sotto i colpi infertigli con il coltello. Il dio indossa i calzoni fermati da una cintura, il torso è nudo, il capo è coperto con un berretto frigio, sulle spalle ha un ampio drappo svolazzante, fermato alle estremità da un nodo. Il terreno è cosparso di esili piantine [24, 41]. Il gruppo costituito dal dio e dal toro si ricollega alla tipologia dell’eroe in lotta con l’animale, di antica origine orientale, e nello specifico, si ricollega alla Nike che abbatte il toro, tuttavia con alcune diversità nella posizione delle braccia e delle gambe (Sfameni Gasparro 1978, 349-384). - L’Ortodossia/Fede (Iscr. 47) Della scena, quasi completamente perduta, sopravvive parte di una figura genuflessa, indossante una veste bianca e con un braccio alzato che, presumibilmente e in analogia con le altre raffigurazioni, dispiegava un cartiglio [24].
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- La Pazienza (Iscr 48-51) Sostiene sulle spalle, a cavalcioni, Giobbe; nella mano sinistra dispiega un cartiglio (Ps 37(36), 27). Ai suoi piedi sono affrescate due piccole figure genuflesse: un giovane uomo di profilo, con corona e spada, e una fanciulla con un cartiglio vergato (Es 15, 9-10) [24]. - L’Umiltà (Iscr. 52-54) Sostiene sulle spalle, a cavalcioni, il re David, raffigurato con la corona, canuto nella barba e nei capelli. Reca nella mano destra un cartiglio con iscrizione (Lc 14, 11), mentre la mano sinistra è posata sulla gamba di David, quasi a sostenerlo. Inferiormente è una figura femminile genuflessa; la parte destra della composizione è perduta, come l’iscrizione vergata nella fascia d’esergo; presumibilmente la decorazione era riferita al vizio antitetico, la Superbia [24]. 3. PARETE SETTENTRIONALE Sulla parete prosegue la serie delle Virtù, ma la distribuzione dei soggetti tiene conto di ulteriori esigenze. Nel registro superiore due figure allegoriche ai lati di un cratere; in quello inferiore, la figura centrale di Salomone, ai cui lati sono due piccole finestre ad arco a sesto ribassato, rinvenute durante i restauri ed affrescate negli intradossi e nella parte superiore dove, all’interno di arcature inflesse formate da code di delfini intrecciate, sono rappresentati rispettivamente due uccelli ai lati di un vaso colmo di fiori [43], e la figura frammentaria di un pavone con la coda aperta. A sinistra infine la Sobrietà e la Concordia, e a destra la Generosità e la Vera Religione [26].
- Due figure allegoriche Due figure maschili sono disposte ai lati di un cratere frammentario probabilmente in origine colmo di fiori e frutti; sono sedute su un terreno cosparso di piccole piante; indossano sul torso nudo un manto rosso fermato da una fibbia, le gambe parzialmente coperte da una veste chiara, screziata di celeste; nelle mani recano una cornucopia e una cesta colma di fiori e frutta; la barba e i lunghi capelli, dove pervenuti, sono canuti. Le due immagini, da porre in relazione con Salomone, possono essere identificate con la Fecondità e la Fertilità (Sancti Brunonis Astensis, in PL CLXIV, c. 932 D) [26-28]. - La Sobrietà (Iscr. 55-59) Sostiene sulla spalla destra Daniele; nella mano sinistra reca un cartiglio vergato con un’iscrizione (Dt 10, 18); inferiormente, in antitesi, sono raffigurate le immagini della Lussuria e del personaggio storico che la esemplifica, Maometto, rappresentati rispettivamente come una fanciulla che, il braccio sollevato, dispiega un cartiglio (Is 22, 13) e come un giovane uomo, le braccia aperte nel gesto tipico della disperazione (Frugoni 2010, 34) [26, 29]. - La Concordia (Iscr. 60-63) Paolo è assiso sulla spalla sinistra della Virtù, la cui mano destra reca un cartiglio con iscrizione (Rom 12, 18). Nella parte inferiore, frammentaria, sono ritratte due figure genuflesse maschili nell’atto di abbracciarsi: la Discordia e, presumibilmente, Ario [26, 29a]. - Salomone/la Giustizia (Iscr. 64) La scena è frammentaria a causa dell’apertura, nel XVII secolo, della grande finestra. Salomone indossa l’abbigliamento militare della tradizione romana, usato frequentemente per la raffigurazione dei sovrani (Herklotz 2000, 132-133); sul capo una corona ornata 31
da un diadema di valenza probabilmente cristologica come rilevato nel BAV, Vat. lat. 4315, f. 6v («Salomone con la diadema rotonda di Gesù»; Font. e descr.), il braccio destro piegato, con l’indice della mano rivolto verso l’alto, nel segno del “potere che ordina” (Frugoni 2010, 27) [25]. - La Liberalità (Iscr. 65-69) Sostiene, assiso sulla spalla sinistra, san Lorenzo; nella mano destra reca un cartiglio vergato (II Cor 9, 6). Nella parte inferiore, parzialmente frammentarie, sono le personificazioni dell’Avarizia e di Giuda: due piccole figure genuflesse – le teste avvicinate – una delle quali ostende un cartiglio con iscrizione (Orazio, Satire I, 1,40) [26]. - La Vera Religione (Iscr. 70-74) Sostiene, assiso sulla spalla destra, un vescovo indossante la mitra, da identificare come Martino, vescovo di Tours, o più probabilmente come Agostino, autore del De Vera Religione. Nella sinistra dispiega un cartiglio vergato (I, Gc, 1, 27) e nella parte inferiore, parzialmente frammentarie, le personificazioni dell’Ipocrisia e del Fariseo: una fanciulla che solleva con la mano sinistra un cartiglio con iscrizione (Lc 18, 12) e un uomo genuflesso con manto [26]. 4. PARETE ORIENTALE Nel registro superiore sono affrescati il Sole e la Luna, in quello inferiore la Carità, il Timor di Dio, l’Amor Celeste, la Giusta Emulazione. Alla sommità della parete un oculo, la cui decorazione floreale è oggi frammentaria. La serie delle Virtù è interrotta al centro da una finestra, decorata nell’imbotte a girali chiari su fondo ocra, e nella parte superiore da due uccelli affrontati ai lati di una coppa di fiori, il tutto coronato da un’arcatura inflessa formata da code di delfini intrecciati [30]. Nella parte inferiore della parete si aprono, da sinistra verso destra, una porta ad arco acuto in conci di peperino, una nicchia, e una grande finestra con
30
156 SANTI QUATTRO CORONATI
un solo sedile, decorata nell’imbotte da un frammentario fregio floreale con grappoli su fondo ocra. - Il Sole e la Luna Un grande cratere costituisce il fulcro della scena: è colmo di frutta e fiori contenuti entro un drappo, i cui lembi ricadono simmetricamente lungo i bordi [33]. Ai lati sono le immagini del Sole e della Luna, in piedi, su un carro trainato rispettivamente da una coppia di cavalli e di mucche, entrambi rossi e grigi. Le personificazioni indossano una veste bianca e rosso-grigia; le spalle sono coperte da un mantello mosso, fermato sotto il collo; il capo è coronato; nella mano sostengono uno stelo simile a un giglio. Il Sole impugna le redini bianche dei due cavalli; il terreno è cosparso di esili piante [32, 35]. - La Carità (Iscr. 75-79) Reca assiso sulla spalla destra Pietro; nella mano destra dispiega un cartiglio vergato (I Rom 13, 8). Inferiormente sono l’Odio e Nerone personificati come una fanciulla e un re che – il capo coronato e le lunghe orecchie asinine – mostra un cartiglio il cui testo è tratto dai Proverbia Wipponis (PL CXLII, c.1261 D), libro composto da Wippo, cappellano dell’imperatore Corrado II (1024-1039), per il figlio Enrico III [30]. L’opera è organizzata secondo la contrapposizione tra le Virtù e i Vizi, e in antitesi alla Carità è presentato l’Odio, come nel dipinto dell’Aula (Noviello 2006; Draghi 2006, 295). - Timore di Dio (Iscr. 80-84) Sostiene assiso sulla spalla destra Girolamo; nella mano sinistra dispiega un cartiglio frammentario, con iscrizione. Inferiormente sono la Vanagloria e Alessandro Magno, quest’ultimo pervenuto parzialmente: entrambi sono genuflessi e la fanciulla mostra un cartiglio vergato (I Tm 5, 25) [30]. - Amor Celeste (Iscr. 85-88) Sostiene sulla spalla destra Francesco; nella mano sinistra dispiega un cartiglio il cui testo è tratto dai Proverbia Wipponis (PL CXLII, SANTI QUATTRO CORONATI 157
c.1263 A). È affrontato il tema della vita umana del secolo, dove il corpo è prigione dell’anima, e di quella presso Dio: nell’opera del cappellano Wippo all’Amor Patriae Coelestis è contrapposto l’Amor praesentis saeculi. Inferiormente è affrescata una figura dal capo coronato e le braccia spalancate nel gesto tipico della disperazione (Frugoni 2010, 34): Giuliano l’Apostata [31]. La composizione è frammentaria e l’iscrizione vergata nella fascia di esergo non è centrata rispetto alla scena e manca del primo termine lessicale relativo al Vizio. Probabilmente l’affresco fu mutilato in seguito ad un piccolo ampliamento della finestra, forse realizzato in concomitanza con l’altro restauro ‘antico’ (Draghi 2006, 298; Int. cons.). - La Giusta Emulazione (Iscr. 89-93) Sostiene sulla spalla sinistra Domenico, nella mano destra dispiega un cartiglio vergato (II Cor 11, 2); inferiormente sono campite una fanciulla recante un cartiglio con iscrizione (Gal 4, 17) e una figura dal capo coronato, entrambe genuflesse. È l’unica scena del ciclo in cui non è rispettato lo schema adottato per l’intera campata: il Vizio (Emulazione perversa) è indicato a destra e il suo rappresentante, Simon Mago, a sinistra [31]. Andreina Draghi
Iscrizioni CAMPATA MERIDIONALE 1. VOLTA
verticale a sinistra della personificazione di Andromeda. Lettere bianche su fondo rosso.
[And]/÷ô/òe/da Possibile in teoria anche la restituizione [An]/[d]÷ô/òe/da. Della denominazione della costellazione boreale, qui riferita alla personificazione, rimane visibile solo la parte finale. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 32. 2 - Prima fascia iscritta della crociera. Iscrizione dipinta che corre in orizzontale dal lato sinistro verso il lato destro della volta, con partenza dal pennacchio di N-O. Lettere bianche su fondo rossoarancio.
[---i?]æciunt st ¦ elle · sic · a+[---] Poiché l’iscrizione è frammentaria ed evanida, è possibile ipotizzare soltanto la restituzione di una forma verbale uscente in -cio, quale ad es. facio o forse iacio (per iaceo), che sembrerebbe accordarsi con il lemma successivo stelle. Segue una forma avverbiale e un gruppo di due lettere prima della lacuna (AC- o AQ-). Il testo potrebbe dunque costituire allusione descrittiva alla posizione delle stelle nel firmamento (“... giacciono le stelle...”). Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 33. Lo zodiaco:
Le costellazioni:
Acquario
Andromeda e Perseo
3 - Denominazione del segno zodiacale. Iscrizione dipinta, posta in orizzontale, in alto alla sinistra della raffigurazione del segno. Lettere di colore bianco su fondo verde e azzurro.
1 - Denominazione della costellazione. Iscrizione dipinta, posta in
Aquarius Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 34. 4 - Seconda fascia iscritta della crociera. Iscrizione dipinta che corre orizzontalmente con direzione da sinistra a destra del pennacchio di N-O, posta ad un livello inferiore rispetto alla precedente. Lettere bianche su fondo rosso.
[---? hie]òs daós teò£õ¤o÷a ++çus ¦ [--- (ca. 3-4)]+us ëulgô÷ê ++øõñêndent ast[ra ---] Lacunosa ed evanida, l’iscrizione presenta alcuni problemi interpretativi. Innanzitutto non è certa la presenza di una lacuna a sinistra, ma appare sicuro il supplemento [hi]ems, relativo alla denominazione della stagione, del quale si intravede in frattura parte della lettera M; ugualmente sicuri appaiono il lemma participiale dans e il successivo tempora, di cui il carattere della lettera P, appare simile piuttosto ad una R (o ad una B). Prima del giro verso la parte destra del pennacchio segue il suffisso -bus, preceduto da due o più caratteri (se ipotizziamo la presenza di nessi), che potrebbero forse rappresentare una commistione tra caratteri epigrafici veri e propri e una sorta di precedente sinopia del testo, non coincidente con le lettere visibili (tracce di asta retta, arco convesso, ulteriore asta retta). Potremmo proporre il supplemento Phoebus, che quale epiteto originario di Apollo venne spesso utilizzato sin dall’età classica in espressioni poetiche per indicare il Sole. Il che favorirebbe una lettura ambivalente, anche di tipo “spirituale”, del Sole che illumina e riscalda, contrapposto alla frigida hiems. Inoltre, tempora Phoebus, costituirebbe dal punto di vista metrico un dattilo perfetto e può riscontrarsi più volte negli autori classici, anche in versi di argomento inerente (es. Manil., Astron., V, 725), come pure in autori medievali (es. Wandalbertus di Prüm, De duodecim mensium nominibus, signis, aerisque qualitatibus, in PL CXXI, c. 627). Ma non si può escludere neppure la restituzione semplificata temporalibus, mediante l’unione di tempora con ciò che segue, immaginando un senso connesso alla meteorologia della stagione fredda. Nella parte destra della fascia, dopo una lacuna e la terminazione di un sostantivo o avverbio in -ius, -mus, -nus (es. celus?, citius?, ecc.), appaiono certi i termini fulgore e splendent, quest’ultimo preceduto da labili tracce di due caratteri, non facilmente interpretabili (resplendent?, et splendent?). Per il lemma finale si può proporre l’integrazione as[tra], magari seguita da un ulteriore sostantivo, come ad es. poli. Avremmo quindi anche qui la possibilità di evidenziare un significato ambivalente, sotto il profilo spirituale e cosmologico; da una parte l’allusione allo splendore delle stelle nel firmamento e dall’altra l’identificazione dei corpi celesti con i santi che regnano immutabili insieme a Cristo (cfr. anche Draghi 2006, p. 240). Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 35. Toro 5 - Denominazione del segno zodiacale. Iscrizione dipinta, posta in orizzontale, ai lati della raffigurazione del Toro. Lettere bianche su fondo verde.
Tæ[u] ¦ [rus] Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 39. 6 - Seconda fascia iscritta della crociera. Iscrizione dipinta che corre orizzontalmente con direzione da sinistra a destra del pennacchio di S-O, allo stesso livello della precedente. Lettere bianche su fondo rosso.
[---]øtrans quamliçet horam ·¦ rectus et absô[lutus? ---]
32
158 SANTI QUATTRO CORONATI
33
Possiamo presupporre in lacuna la presenza di un lemma completo (la denominazione della primavera?) e della forma verbale participiale relativa al rimanente suffisso -strans, variamente restituibile, che per altro assume una perfetta prima posizione nell’ambito di un eventuale esametro dattilico. Non si può pertanto precisare ulteriormente il senso cui ricondurre la successiva locuzione quamlibet horam, la cui forma avverbiale conserverebbe forse il senso classico di “quanto si voglia” mentre il sostantivo potrebbe alludere tanto all’ora del giorno quanto ad un significato trascendente. I termini successivi rectus (anch’esso in perfetta posizione metrica) e, molto probabilmente, abso[lutus], sembrano ricondurre rispettivamente alla sfera elevata della qualità individuale nelle opere (e quindi anche all’operare del cristiano in seno all’ortodossia), e alla perfezione assoluta sine ulla condicione (e dunque alla conseguente absolutio dei peccati?). Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 40. Scorpione 7 - Seconda fascia iscritta della crociera. Iscrizione dipinta che corre orizzontalmente con direzione da sinistra a destra del pennacchio di N-E, posta in orizzontale allo stesso livello della precedente. Lettere bianche su fondo rosso.
[---] òichi testis ¦ æ[s]ùraq(ue) signoruò [---] Iscrizione mutila e molto consunta, interpretazione problematica. Dopo la lacuna iniziale l’espressione michi testis riconduce a forme analoghe presenti in fonti patristiche e medievali (cfr. il biblico testis enim mihi est Deus, di Rm 1, 9). Segue, nel giro del SANTI QUATTRO CORONATI 159
10 - Terza fascia iscritta della crociera. Iscrizione dipinta, che corre orizzontalmente con direzione da sinistra a destra del pennacchio di N-E, allo stesso livello della precedente. Lettere bianche su fondo marrone bruno.
[Aut]úmpnus tempora ditat +? ¦ aõtus pôma gerens promú[---] Iscrizione molto consunta ed evanida. Per motivi di spazio non è certa la presenza di una lacuna iniziale, esclusa la parte relativa alla denominazione della stagione. Forse la forma verbale ditat, che sottintende un significato di arricchimento, era seguita da un ulteriore segno (interpunzione?, abbreviazione per una congiunzione?), mentre dopo il giro del pennacchio si ha probabilmente una allusione alla produzione (promu[nt] o promu[ntur]) dei frutti (poma), con il loro sporgere dai rami. Sembra pertanto si possa ricavare un riferimento alla funzione benefica dell’Autunno, che aptus, cioè “gratus” (se la lettura è corretta; si preferisce a artus), adorna l’intera frazione dell’anno con l’offerta dei poma tipici di quella stagione fruttifera. Dove i poma costituiscono una metafora dei buoni frutti. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 45. 2. PENNACCHI Le Stagioni: 34
pennacchio, un gruppo di lettere, di cui rimangono labilissime tracce di una prima A mentre si può ipotizzare l’integrazione di una S nel secondo. Avremmo così astraque, interpretando il segno successivo di Q, con segno complementare intersecato da asta obliqua, quale abbreviazione per l’enclitica que (opportuna anche una sua eventuale posizione metrica); meno certa, invece, sarebbe l’interpretazione del segno come abbreviazione di un pronome relativo (ad es. quorum o simili). Il successivo signorum, la cui posizione ben si accorda con una lettura metrica, era seguito da ulteriore testo in lacuna. I due vocaboli astra e signorum sembrano alludere nel primo caso al cielo, secondo un uso esteso del termine, diffuso nel periodo medievale, o anche ai corpi celesti in senso stretto, e nel secondo, ai segni dello zodiaco, raffigurati nel programma iconografico della volta. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 44. Paesaggio marino: 8 - Terza fascia iscritta della crociera. Iscrizione dipinta che corre orizzontalmente con direzione da sinistra a destra del pennacchio di N-O, ad un livello ancora inferiore rispetto alle prime due. Lettere bianche su fondo marrone bruno.
[---?]++ducit magóa s++++a · [---?] ¦ óôçîñîø +++++éô õoros ; glacie [---] Testo lacunoso ed evanido, interpretazione assai problematica. Anche in questo caso, insieme alla caduta di alcune lettere, si riscontra la presenza di labili tracce di sinopia fuorvianti per la lettura in quanto illeggibili e non perfettamente sovrapposte al testo definitivo. I primi due caratteri epigrafici visibili, forse una R e una E, se non appartenenti ad un lemma che precedeva in lacuna, potrebbero ricollegarsi al successivo -ducit, originando una forma verbale composta di duco (allusione forse ad un concetto di ritorno?). L’aggettivo successivo, probabilmente magna, dovrebbe riferirsi al sostantivo femminile che segue, composto forse da sei lettere, di cui rimangono una S iniziale e una A finale. Seguiva un segno di interpunzione (punto disposto al centro del rigo) e forse una nuova lacuna, perché non è possibile determinare la presenza di eventuale altro testo. Dopo il giro del pennacchio si può ancora 160 SANTI QUATTRO CORONATI
distinguere il quasi evanido nobilis, che si accorderebbe a livello semantico con l’aggettivo espresso precedentemente, meno con quanto segue. Successivamente si intravede una sequenza di segni non più interpretabili, in parte riconducibili all’iscrizione originaria, in parte ad una sorta di sinopia preesistente, per un totale di circa 4-5 caratteri epigrafici, composti da aste rette e da qualche segno intersecantesi con esse. Si può ipotizzare la presenza di una lettera V prima del suffisso finale -do, preceduta forse da una L e da un ulteriore carattere dalla forma oncialeggiante. Se tale ipotesi di lettura fosse confermata, potremmo restituire la forma verbale includo (nel senso equivalente di astringere; ma non è da escludersi anche occludo), evidentemente coniugata in prima persona, che potrebbe accordarsi con la locuzione successiva, poros glacie, allusiva del glaciale freddo invernale, che fa chiudere i pori della pelle e, in senso esteso, della terra (cfr. ad es. Honor. Augustod., in PL CLXXII, cc. 67-68). Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 36.
Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 37. 12 - Denominazione della personificazione della stagione (secondo tipo). Iscrizione dipinta, disposte in verticale alla destra della personificazione dell’Inverno. Lettere bianche su fondo azzurro.
Hi/e/mø Se Hiems costituisce la dizione canonica, Algor è la personificazione del freddo. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 38. Primavera 13 - Denominazione della personificazione della stagione. Iscrizione dipinta, posta in verticale su tre righe, alla destra della personificazione della Primavera. Lettere bianche su fondo azzurro.
V/e/r Denominazione canonica della personificazione della stagione. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 42.
Inverno
Estate
11 - Denominazione della personificazione della stagione (primo tipo). Iscrizione dipinta, disposta in verticale alla sinistra della personificazione dell’Inverno. Lettere bianche su fondo azzurro.
14 - Denominazione della personificazione della stagione. Iscrizione dipinta, disposta in verticale ai lati della personificazione. Lettere bianche su fondo verde.
Al/ì/o/÷
E/s ¦ t/us Da notare l’uso della forma poetica di aestus in luogo della canonica aestas. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 43. Autunno 15 - Denominazione della personificazione della stagione. Iscrizione dipinta, posta in verticale alla sinistra della personificazione dell’Autunno. Lettere bianche su fondo azzurro.
A/u/t/u/mp/n/u/s
9 - Terza fascia iscritta della crociera. Iscrizione dipinta che corre orizzontalmente con direzione da sinistra a destra del pennacchio di S-O, allo stesso livello della precedente. Lettere bianche su fondo marrone bruno.
Denominazione canonica della stagione. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 46.
[---] ê÷çis donando colo÷es ¦ spinis claudun[t ---]
Arti Liberali:
Anche per questo testo, probabilmente lacunoso all’inizio e in chiusura, si può ipotizzare la presenza della denominazione della stagione primaverile, analogamente a quanto verificato per la posizione nella terza fascia della crociera della denominazione dell’Autunno, sempre che tale lemma non sia stato posto nella fascia centrale (vedi qui n. 6), come nel caso dell’Inverno. Erbis (per herbis; meno probabilmente [t]erris) allude probabilmente alla vegetazione che diviene rigogliosa nella stagione primaverile. Difficile ipotizzare il soggetto plurale della successiva forma verbale claudunt, arricchita dal caso obliquo di spinis, che suggestivamente potrebbe apparire anche allusivo alla corona di spine e in teoria agli avvenimenti collegati al ciclo della Pasqua. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 41.
La Grammatica
3. PARETE OCCIDENTALE
16 - Iscrizione esplicativa dell’ars corrispondente, dipinta all’interno del libro aperto posto su un leggio e indicato dalla personificazione della Grammatica. Lettere di colore nero su fondo di giallo.
a b è / é /[e f] ¦ [g h i]/ ð [l] ò / [n o p q?] /[r s t?]
35
Testo lacunoso e lettere alquanto evanide. Si è potuta appurare la presenza di una serie alfabetica, non completa, di cui risulta sicura solo la lettura di alcune lettere. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 23. SANTI QUATTRO CORONATI 161
La Geometria 17 - Denominazione dell’ars corrispondente. Iscrizione dipinta, posta sopra la personificazione della Geometria. Lettere bianche, su fondo blu.
[Geo]/[me]/ù÷[i]a L’iscrizione è quasi interamente perduta. Si intravedono solamente, sulla medesima riga di scrittura, labili tracce di un’asta retta e di un tratto curvo pertinenti forse al gruppo TR- iniziale e di una lettera A. La disposizione del testo su più righe è ipotizzabile ma non facilmente accertabile; possibili sia le restituzioni [Geo/me]/tr[i]a che [Geome]/tr[i]a. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 24. 18 - Iscrizione esplicativa dell’ars corrispondente. Iscrizione dipinta posta in orizzontale nel primo cartiglio, retto dalla figura maschile (Euclide?). Lettere di colore nero su fiondo bianco.
[---]++÷e spatia / [---]óìuit geom^e^(tria) Testo molto evanido. Rimane poco più della metà destra del cartiglio, composto da due righe iscritte. I lemmi superstiti di destra alludono al concetto dello spazio geometrico. Il gruppo di lettere iniziale può forse restituirsi in -+rre e ricondurre a forme verbali all’infinito (da ferre e derivati) o forse al vocabolo terre. Della forma verbale alla seconda riga si può proporre la restituzione in [disti]óìuit, seguita dalla denominazione dell’ars in questione, abbreviata per troncamento, per mancanza di spazio. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 25. 19 - Iscrizione esplicativa dell’ars corrispondente. Iscrizione dipinta, posta nel secondo cartiglio, retto dalla personificazione della Geometria. Lettere di colore nero e rosso a linee orizzontali alternate.
Õ÷incî/pium· me(n)/sure · pu(n)/tus · vo/èæù Il punto quale principio generale di ogni misura e quindi alla base dell’intera disciplina (cfr. ad es. Isid. Hispal., Etym., XIII: «Principia unius artis punctus est, cuius nulla pars est», in PL LXXXII, c. 162 C). In teoria alle rr. 4-5 per motivi sintattici è possibile restituire anche il corrispondente passivo vocatur, dove la terminazione poteva essere espressa con un segno di abbreviazione. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 26. Il Calendario: Gennaio 20 - Motto esplicativo del mese. Iscrizione dipinta posta a guisa di didascalia sotto la raffigurazione della scena corrispondente. L’iscrizione occupa una posizione decentrata rispetto all’andamento della partizione architettonica soprastante a causa di un rifacimento successivo di parte del programma pittorico della parete affrescata, che ha riguardato parzialmente il mese di Gennaio, il mese di Febbraio e parte del mese di Marzo. Lettere bianche su fascia rossa.
Ienuæ÷ius vinumq(ue) cibaria quê÷o La forma alternativa volgarizzata di Ienuarius per Ianuarius, già ampiamente attestata sin dalla tarda antichità e riscontrabile anche nei nomi corrispondenti di persona è probabilmente frutto di un rifacimento successivo, che forse ha comportato una riduzione del testo originario. Il senso del motto rimane apparentemente 162 SANTI QUATTRO CORONATI
lo stesso e va rapportato all’approvvigionamento e al consumo del vino e del cibo. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 1. Febbraio 21 - Motto esplicativo del mese. Iscrizione dipinta posta a guisa di didascalia sotto la raffigurazione della scena corrispondente. L’iscrizione occupa una posizione centrata al disotto della personificazione del mese, ma allo stesso tempo decentrata rispetto all’andamento della partizione architettonica della intera campitura, che, per i motivi già citati, racchiude le raffigurazioni dei due mesi di Gennaio e Febbraio, pur essendo stata originariamente concepita per ospitare la scena relativa al solo mese di Gennaio. Lettere bianche su fascia rossa.
Ëêç÷(u)arius; In questo caso, l’iscrizione è costituita dal solo lemma relativo all’idionimo del mese e manca dunque del consueto motto di esergo, a causa dell’esiguità dello spazio disponibile rimasto dopo il rifacimento dell’intera scena. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 2. Marzo 22 - Denominazione del mese. Iscrizione dipinta posta in orizzontale nel campo della scena corrispondente. Lettere bianche su fondo blu.
Mar ¦ t ¦ i ¦ uø Alcune lettere sono distanziate tra loro per non sovrapporsi alla raffigurazione (rami di albero). Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 3. 23 - Motto esplicativo del mese. Iscrizione dipinta posta a guisa di didascalia sotto la raffigurazione della scena corrispondente. Il testo del motto, alquanto breve, appare centrato al di sotto della raffigurazione dello Spinarius, ma non nel contesto generale della campitura, per i motivi legati al rifacimento sopradescritto. Lettere bianche su fascia rossa.
Mens íêçet ob sõinas Mens per mensis, qualora non rappresenti forma alternativa, può costituire errore del pictor per omissione della desinenza o di un eventuale segno abbreviativo. La forma verbale allude in senso lato alla sofferenza causata dalle spine, complemento diretto alla raffigurazione presentata, la reminiscenza classica dello Spinarius, secondo un cliché figurativo tipico dei calendari medievali (cfr. Draghi 2006, 116-120). Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 4. Aprile 24 - Denominazione del mese. Iscrizione dipinta posta in orizzontale nel campo della scena corrispondente. Lettere bianche su fondo blu.
Aprilis· Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 5. 25 - Motto esplicativo del mese. Iscrizione dipinta posta a guisa di didascalia sotto la raffigurazione della scena corrispondente. Il testo appare ben centrato nella fascia di esergo. Lettere bianche su fascia rossa.
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XXX 163
Del cartiglio originale, dalla forma stretta e allungata, rimangono solo la parte iniziale e quella terminale. La parte finale dell’iscrizione, termina con un elemento floreale costituito da due racemi a forma di volute uniti al centro da una sorta di palmetta. Possibile l’integrazione [c]anit, riguardante l’attività del canto, seguito probabilmente da oda(s), per indicare le preghiere e i canti sacri (meno probabile la forma al congiuntivo odat). Si può ipotizzare, invece, per l’inizio della seconda riga, l’integrazione di una forma derivata da reboo, quale reboat o reboant, allusiva al suono prodotto dagli strumenti musicali, mentre per la parte finale, in cui si intravedono forse i resti di una lettera E, la presenza di sostantivo/aggettivo femminile o di una forma verbale all’infinito. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 28. 28 - Iscrizione esplicativa dell’ars corrispondente. Iscrizione dipinta, posta in orizzontale nel secondo cartiglio retto dalla personificazione della Musica. Lettere originariamente nere e rosse a righe alternate.
Musica / e(st) mot(us) / vocum / scie(n)tia / modula(n)/di Definizione della musica quale motus vocum, e scientia modulandi, secondo le descrizioni riportate nelle opere degli autori più antichi e di quelli medievali (cfr., fra i vari, Aug. Hippon., De Musica: «... musicam, qua scientia modulandi est», in PL XXXII, c. 1088). Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 29.
a significati connessi con il volgersi delle stagioni e con le loro attività correlate, ma piuttosto a vicende inerenti le passioni umane (la Fierezza, forse la Superbia?). Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 8. Giugno 32 - Denominazione del mese. Iscrizione dipinta, posta in orizzontale nel campo della scena figurata corrispondente. Lettere bianche su fondo blu.
Iunius Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 9. 33 - Motto esplicativo del mese. Iscrizione dipinta, posta a guisa di didascalia sotto la raffigurazione della scena corrispondente, in posizione centrata. Lettere bianche su fascia rossa.
++[---]o fructus segetesq(ue) [---]++
29 - Iscrizione esplicativa dell’ars corrispondente. Iscrizione dipinta, posta nel cartiglio retto da una figura in trono (Pitagora o Boezio?). Lettere di colore rosso e nero alternati.
Presso il margine sinistro si intravedono labili resti di due caratteri, di cui l’ultimo potrebbe essere forse una R. A destra invece, si percepiscono appena labili tracce non interpretabili. I termini fructus e segetes, nel rimandare ai prodotti della terra, ai campi seminati e alle messi, anche alla luce di quanto espresso nella raffigurazione, che rappresenta proprio i due momenti della mietitura del grano e della sua legatura in fascine, sottintendono un significato escatologico di origine scritturistica (cfr. Lv 19, 9; Mc 4, 26; Draghi 2006, 145). Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 10.
Num[erus? ---] / un[---]
Luglio
Si può ipotizzare alla r. 1 la presenza del sostantivo relativo al numerus matematico oppure ad una forma verbale allusiva all’attività della numerazione, il computo. Alla r. 2 si può invece supporre la presenza di un sostantivo corrispondente al numero primario unus, o ad un termine affine al concetto di unità. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 30.
34 - Denominazione del mese. Iscrizione dipinta, posta in orizzontale nel campo della scena figurata. Se l’interpretazione dei labilissimi resti è corretta, le lettere sono distanziate tra loro per non sovrapporsi alla raffigurazione (presenza del correggiato per la battitura). Lettere bianche su fondo blu.
Ornatús peèúdúm ëlos arçor(um) daóù michi ludum;
Il Calendario:
[I]ú[li] ¦ [us]
Agosto
Allusione allo stato di grazia e diletto procurato dalla visione degli elementi di una florida stagione: il risveglio della natura, con la fioritura delle piante e delle specie arboree, l’ornamento (cioè l’abito?) delle pecore (cfr. anche Draghi 2006, 120-121). Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 6. [CN].
Maggio
Restano alcune labili tracce della prima U di Iulius e la restituzione, ipotetica, tiene conto dell’articolazione spaziale (la desinenza è distanziata e quindi posta dopo la raffigurazione del correggiato). Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 11.
36 - Denominazione del mese corrispondente. Iscrizione dipinta, posta in orizzontale nel campo della scena figurata. La scansione delle lettere si innesta nell’ornato figurativo, al fine di non sovrapporsi alla scena (capo della figura barbata). Lettere bianche su fondo blu.
35 - Motto esplicativo del mese. Iscrizione dipinta, posta a guisa di didascalia sotto la raffigurazione della scena corrispondente, in posizione centrata. Lettere bianche su fascia rossa.
Augus ¦ t(us)
Aritmetica/Computo
37
4. PARETE MERIDIONALE
30 - Denominazione del mese. Iscrizione dipinta posta nel campo della scena figurata corrispondente. Le lettere sono disposte in verticale su quattro righe al fine di non interferire con la raffigurazione del mese, rappresentato quale elegante cavaliere. Lettere di colore bianco su fondo blu.
Arti Liberali:
Mæ/d/î/us
Musica
Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 7.
26 - Denominazione dell’ars corrispondente. Iscrizione dipinta, posta sopra la relativa personificazione. Lettere bianche su fondo azzurro e verde.
31 - Motto esplicativo del mese. Iscrizione dipinta posta a guisa di didascalia sotto la raffigurazione della scena corrispondente. Il testo, nonostante la notevole lacunosità, appare ben centrato sotto la scena figurata. Lettere bianche su fascia rossa.
Mu/øîèa Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 27. 27 - Iscrizione esplicativa dell’ars corrispondente. Iscrizione dipinta, posta su due righe orizzontali nel primo cartiglio retto da una figura in trono. Lettere di colore rosso su fondo bianco.
Music[a--- c?]anit oda(s) / re+[---]+ 164 SANTI QUATTRO CORONATI
[---?] ùumere vo+[---]+ pl[---] Testo assai frammentario. Della lettera T iniziale, si intravede solo la parte terminale dell’asta orizzontale; dopo il gruppo VO si intravede un’asta retta e dopo la lacuna, prima della lettera P, ancora un’asta retta. La forma verbale tumere, con i suoi significati di rigonfiare, agitare, ribollire, ecc., nonché la forma incoativa tumescere, non sembrano apparentemente riconducibili
omne lego +[--- c. 8]ø granum peramenum; Prima della lacuna centrale si intravede chiaramente un’asta retta, ma non è possibile specificare se si tratti di I, L, o altro carattere; alla fine i resti di una S. Poiché la scena raffigura la trebbiatura del grano con la separazione della pula la forma verbale lego potrebbe essere qui utilizzata con il significato di “raccogliere”, equivalente di “colligere”. Il termine peramenum può essere ricondotto direttamente alla sfera spirituale, con la doppia valenza degli amoena -orum, i luoghi, le contrade amene, ridenti, e quindi, in senso traslato, del Paradiso, secondo l’uso del vocabolo risalente già all’età tardoantica. Anche in questo caso il significato simbolico ed escatologico del termine va in parallelo con la raffigurazione, dove è evidente il riferimento scritturistico (cfr. Draghi 2006, 146-147). Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 12.
38
Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 13. 37 - Motto esplicativo del mese. Iscrizione dipinta, posta a guisa di didascalia sotto la raffigurazione della scena corrispondente, in posizione centrata, anche se il primo lemma è posto fuori della partizione architettonica di riferimento. Lettere bianche su fascia rossa.
cerno bonas ficus uvarum gra+[--- c. 7-8] Prima della lacuna finale si intravedono resti di una lettera, tra cui un’asta retta, di difficile restituzione. In sintonia con la raffigurazione, che presenta la raccolta dei fichi e una scena di libagione, l’offerta dell’uva, l’apparato epigrafico descrive il quadro pittorico con due gruppi di vocaboli separati. La forma verbale cerno, che potrebbe alludere al significato di separare, ma anche distinguere, riconoscere o semplicemente constatare, SANTI QUATTRO CORONATI 165
riferita ai fichi buoni sottende una più celata dimensione spirituale: i ficus bonas sono infatti le buone persone, come attestato nella letteratura medievale (a partire da luogo di Ger 24, 2-3). Per la parte successiva si può proporre di integrare la lettera lacunosa come una T, per restituire gratus (forse con il significato di grato d’animo?); oppure, nel caso si tratti di una N, grana, cioè i grappoli, in stretto riferimento a uvarum. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 14. 5. PARETE ORIENTALE
Octu ¦ ber Da notare la variante vocalica in Octuber per October. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 17. 42 - Motto esplicativo del mese. Iscrizione dipinta, posta a guisa di didascalia sotto la raffigurazione della scena corrispondente, in posizione centrata. Lettere bianche su fascia rossa.
Arentes hiemi pressi dant musta racemi;
38 - Iscrizione esplicativa dell’ars corrispondente. Iscrizione dipinta, posta in orizzontale nel cartiglio retto nella mano sinistra dalla personificazione dell’Astronomia. Lettere di colori nero e rosso a righe alternate.
In accordo con quanto rappresentato nella scena, che raffigura le operazioni della raccolta e della pigiatura dell’uva, troviamo nell’iscrizione i vocaboli corrispondenti: musta per il mosto e racemi per i grappoli, insieme alla forma verbale indicante la spremitura, la pressura. Si potrebbe dunque tradurre “secchi d’inverno i racemi pressati danno il mosto”, con evidente richiamo escatologico al concetto della “vigna di Cristo”. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 18.
[s]cien/ùia pla/[n]êtaru(m) / (êù) cete/ rorum / as{s}tro/ru(m)
Novembre
Dell’intera scena figurata rimane praticamente quasi il solo cartiglio, incompleto, con la definizione dell’Astronomia quale scienza dei pianeti e degli altri corpi celesti. Da notare la singolare geminazione della lettera S, dovuta forse a errore del pictor o ad un artificio adottato per un errato calcolo dello spazio. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 31.
43 - Denominazione del mese corrispondente. Iscrizione dipinta, posta in orizzontale nel campo della scena figurata. Anche in questo caso la scritta si interrompe per armonizzarsi con il contesto pittorico (testa del contadino seminatore). Lettere bianche su fondo blu.
Arti Liberali: Astronomia
Il Calendario:
[No]ûe(m) ¦ ber
Settembre
Caduta la prima parte del lemma, si intravede appena il tratto superiore dell’asta obliqua di destra della lettera V. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 19.
39 - Denominazione del mese corrispondente. Iscrizione dipinta posta in orizzontale nel campo della scena figurata. Anche in questo caso la scansione delle lettere si armonizza con l’ornato pittorico, per non sovrapporsi alla scena (rami di albero). Lettere bianche su fondo blu.
44 - Motto esplicativo del mese. Iscrizione dipinta posta a guisa di didascalia sotto la raffigurazione della scena corrispondente, in posizione centrata. Lettere bianche su fascia rossa.
Septem ¦ be ¦ r Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 15. 40 - Motto esplicativo del mese. Iscrizione dipinta posta a guisa di didascalia sotto la raffigurazione della scena corrispondente, in posizione centrata. Lettere bianche su fascia rossa.
Rimas vasorum tollo fundator eorum; La scena raffigura la cerchiatura delle botti e la lavorazione delle stesse, effettuata da personaggi che percuotono il legno con martelli. Il sostantivo vas indica la botte e la rima può essere sia la fenditura che la scanalatura (e dunque la forma del cerchio). Quindi è possibile un’interpretazione legata sia alla riparazione/ cerchiatura delle botti che alla costruzione/riparazione delle stesse, con allusione, nella figura del fundator, alla funzione creatrice e riparatrice di Dio (cfr. anche Draghi 2006, 171). Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 16. Ottobre 41 - Denominazione del mese corrispondente. Iscrizione dipinta posta in orizzontale nel campo della scena figurata. Anche in questo caso la scansione delle lettere si armonizza con l’ornato pittorico, per non sovrapporsi alla scena (ramo di albero). Lettere bianche su fondo blu. 166 SANTI QUATTRO CORONATI
[--- c. 15-16]+o sperando deo patre solo; Difficile da definire esattamente l’entità della parte perduta a inizio riga, anche alla luce della breve lacunosità del testo contiguo, relativo al motto del mese di Dicembre. La forma verbale sperando con il senso della attesa e dell’aspettativa positiva, può qui alludere, data la raffigurazione della scena di aratura e semina con l’aratro, alla speranza in un buon raccolto, con la consueta valenza spirituale (cfr. la parabola del seminatore di Mt 13), anche in relazione con un positivo superamento delle avversità meteorologiche tipiche della stagione invernale. Solum, può essere interpretato quale aggettivo concordato con deo patre, uno e solo, oppure costituire corruzione dell’avverbio solum; meno probabile, secondo il significato proposto, un riferimento al suolo. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 20. Dicembre 45 - Denominazione del mese corrispondente. Iscrizione dipinta, posta in orizzontale nel campo della scena figurata. Anche in questo caso la scritta si interrompe per armonizzarsi con il contesto pittorico (raffigurazione del maiale). Lettere bianche su fondo blu.
D[ec]êm ¦ ber Della prima parte del lemma si intravedono circa la metà della lettera D iniziale e labilissime tracce della seconda E. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 21.
39
XXX 167
la parte inferiore dell’iscrizione, incompleta ed evanida. Manca il corrispondente lemma di destra, il secondo elemento dell’antitesi vizio/virtù, qui scelto quale esponente negativo dell’idolatria. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 47.
53 - Nel campo, denominazione del personaggio biblico. Iscrizione dipinta, posta in verticale, su più righe, alla sinistra della raffigurazione del re David. Lettere bianche su fondo verde.
La Pazienza
Testo molto evanido. Da notare alla r. 5 la sostituzione della dentale in Davit, per David, per errore del pictor, o per riflesso di una abitudine diffusa (forse anche indizio di un influsso linguistico d’oltralpe?). Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 53.
48 - Nel campo, denominazione del profeta. Iscrizione dipinta, posta in verticale, su più righe, alla destra della raffigurazione di Giobbe, a sua volta disposto sopra la personificazione della Pazienza. Lettere bianche su fondo blu.
Ï/[o]ç
D/a/v/i/t rê[x]
54 - Nel cartiglio retto nella mano destra dalla personificazione dell’Umiltà. Iscrizione dipinta, lettere a righe alternate orizzontali di colore nero e rosso.
Testo mutilo e quasi del tutto evanido. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 48.
Qui se / hu^m^ilîa(t) / exalta/bitur
49 - Nel campo, denominazione della personificazione. Iscrizione dipinta, posta in verticale, su più righe, alla sinistra della raffigurazione di Giobbe, lateralmente alla personificazione della Pazienza. Lettere bianche su fondo blu.
Citazione di tradizione neotestamentaria, ampiamente ripresa dagli autori medievali, tratta da Lc 14, 11, 2: «quia omnis, qui se exaltat, humiliabitur: et qui se humiliat, exaltabitur», con l’omologa ripetizione in Lc 18, 14 (e, con termini invertiti, in Mt, 23, 12, 2). Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 54
Õ/a/ti/e/n/tia La lettera P iniziale è appena riconoscibile, dal tracciato molto labile e quasi del tutto evanido. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 49. 50 - Nel primo cartiglio, retto dalla fanciulla accovacciata alla destra della Pazienza. Iscrizione dipinta, lettere a righe alternate orizzontali di colore nero e rosso.
Õêrse/öúar / èon/õ(re)hen/éam 40
46 - Motto esplicativo del mese. Iscrizione dipinta posta a guisa di didascalia sotto la raffigurazione della scena corrispondente, in posizione centrata. Lettere bianche su fascia rossa.
· carnes porcine dant maxima dona coq[uine?] Nella scena raffigurata compare l’uccisione del maiale e i maxima dona costituirebbero tutti quei prodotti che si ottengono dalla macellazione del suino. Il lemma mutilo in finale di riga, forse una Q, autorizzerebbe l’integrazione coquine, che ben si accorderebbe col senso generale del motto, conferendogli anche un suono metrico-ritmico. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 22. CAMPATA SETTENTRIONALE 1. PARETE OCCIDENTALE L’Ortodossia/Fede 47 - Nella fascia di esergo. Iscrizione dipinta, lettere bianche su fondo rosso.
Îéolaù÷[ia] ¦ [---] Rimane soltanto una piccola porzione della fascia di esergo, con 168 SANTI QUATTRO CORONATI
L’iscrizione è in parte evanida e lacunosa a sinistra. Citazione di Exod 15, 9: «Dixit inimicus: persequar et comprehendam», e delle collegate varianti del salmo 17, 38 (odierno salmo 18), Ps (G), 17, 38: «Persequar inimicos meos et comprehendam illos», e Ps (H), 17, 38: «Persequar inimicos meos et adprehendam». Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 50.
2. PARETE SETTENTRIONALE La Sobrietà 55 - Nel campo, denominazione del profeta. Iscrizione dipinta, posta in verticale, su più righe, alla destra della raffigurazione del profeta Daniele. Lettere bianche su fondo blu.
[D]/æni/el Denominazione del profeta, di cui è completamente caduta la consonante iniziale e restano scarse tracce della vocale iniziale alla r. 2. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 55. 56 - Nel campo, denominazione della personificazione. Iscrizione dipinta, posta in verticale, su più righe, alla sinistra della personificazione della Sobrietà. Lettere di colore bianco su fondo blu.
51 - Nel secondo cartiglio, retto nella mano sinistra dalla personificazione della Pazienza. Iscrizione dipinta, lettere a righe alternate orizzontali di colore nero e rosso.
S/o/bri/e/ta/s/
Declin^a^ / a malo / (et) fac / bonu(m)
57 - Nel primo cartiglio, tenuto da una figura accovacciata alla destra della personificazione della Sobrietà. Iscrizione dipinta, lettere a righe alternate orizzontali di colore nero e rosso.
Citazione dei salmi Ps 36, 27 (odierno salmo 37): «declina a malo et fac bonum» e del collegato omologo Ps 33, 15 (odierno salmo 34), ripreso poi anche nei proverbi medievali: «declina a malo, et in bono te exerce» (cfr. Walther 1982-1986, VII, 548, n. 148). Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 51. L’Umiltà 52 - Nel campo, denominazione della personificazione. Iscrizione dipinta, posta in verticale, su più righe, alla destra della personificazione dell’Umiltà, che tiene David sulle spalle. Lettere bianche su fondo verde.
U/òî/l/i/tas Testo molto evanido. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 52.
Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 56.
Èôò/meda/mus / et bi/ba/mus
Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 58. 59 - Nella fascia di esergo. Iscrizione dipinta, lettere bianche su fondo rosso.
Luýú÷îæ · ¦ Òæomet Iscrizione lacunosa e evanida. Dapprima la denominazione del vizio antitetico della Sobrietas, poi di un suo esponente. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 59. La Concordia 60 - Nel campo, denominazione del santo. Iscrizione dipinta, posta in verticale, su più righe, alla destra della raffigurazione di san Paolo, che sormonta la personificazione della Concordia. Lettere di colore bianco su fondo blu.
Õaul(us) Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 60. 61 - Nel campo, denominazione della personificazione. Iscrizione dipinta posta in verticale, su più righe, alla destra della raffigurazione della Concordia, che tiene sulle spalle la figura di san Paolo. Lettere di colore bianco su fondo blu.
C/o/n/cor/d/i/a Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 61. 62 - Nel cartiglio tenuto con la destra dalla personificazione della Concordia. Iscrizione dipinta, lettere a righe alternate orizzontali di colore nero e rosso.
Cu(m) / ôòó^i^/çus / pæce(m / habe/æ^(n)ù^ Iscrizione molto evanida. Citazione abbreviata di Rom 12, 18: «Si fieri potest, quod ex vobis est, cum omnibus hominibus pacem habentes». È possibile che alle rr. 2-3, in virtù della riduzione del testo, si sia optato per l’inserimento dell’onnicomprensivo omnibus in luogo del sostantivo hominibus, mentre, nella parte finale, sembra non si sia fatto ricorso alla flessione originaria habentes, ma alla forma generica ed esortativa habeant (o anche semplicemente habeat). Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 62. 63 - Nella fascia di esergo. Iscrizione dipinta, lettere bianche su fondo rosso.
Disco÷éiæ ¦ A++[---]
58 - Nel secondo cartiglio, tenuto dalla personificazione della Sobrietà. Iscrizione dipinta, lettere a righe alternate orizzontali di colore nero e rosso.
Iscrizioni molto corrose, di cui solo la prima interamente leggibile. Della seconda è possibile leggere agevolmente soltanto la prima lettera del sostantivo, A-, mancante della terminazione superiore, seguita da un’asta retta e da labili tracce di un successivo carattere, non più riconoscibile. Ipotizzando per il primo carattere la restituzione in R potremmo azzardare la lettura A÷î[us], che ci riconduce al promotore di una delle più importanti eresie cristiane dell’antichità. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 63. David.
Victú(m) / et / veø/titu/m
La Giustizia
Citazione veterotestamentaria, anch’essa abbreviata, di Deut 10, 18: «Amat peregrinum et dat ei victum atque vestitum» (cfr. anche I Tim 6, 8).
64 - Nel campo, denominazione della personificazione. Iscrizione dipinta posta in verticale, su più righe, ai lati della testa di Salomone. Lettere di colore bianco su fondo blu.
Citazione veterotestamentaria abbreviata di Is 22, 13: «comedamus et bibamus cras enim moriemur», ripresa anche in I Cor 15, 32: «manducemus, et bibamus, cras enim moriemur». Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 57.
SANTI QUATTRO CORONATI 169
S/a/ño ¦ ò/o/n Lettere molto evanide. L’intera raffigurazione è fortemente lacunosa. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 64. La Liberalità 65 - Nel campo, denominazione del santo. Iscrizione dipinta, posta in verticale, su più righe, alla destra della raffigurazione di san Lorenzo che sormonta la Largitas. Lettere di colore bianco su fondo blu.
Ñ/æ/[u]/ren/t/i(us) Si intravedono, inizialmente, solo la parte inferiore della lettera L e la metà destra della A. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 65. 66 - Nel campo, denominazione della personificazione. Iscrizione dipinta, posta in verticale, su più righe, alla sinistra della personificazione della Liberalità, che sorregge la figura del santo. Lettere di bianche su fondo blu.
L/a/r/gi/t/a/s Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 66. 67 - Nel primo cartiglio, tenuto nella destra dalla personificazione della Largitas. Iscrizione dipinta, lettere a righe alternate orizzontali di colore nero e rosso.
Qui / par/ce se/mina^t^ / par/ce £e¤t / òete/[t?] Iscrizione ben conservata, anche se il cartiglio è parzialmente lacunoso nella parte sinistra (rr. 6-8). Alla r. 6 da notare la confusione di S per E nella congiunzione et, dovuta forse ad un errore nella copia; la dentale della forma verbale alla fine del testo poteva essere stata omessa (mancherebbe però il consueto segno abbreviativo) oppure originariamente disposta alla riga successiva in posizione isolata. Citazione di II Cor 9, 6: «Hoc autem dico: Qui parce seminat, parce et metet». Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 67. 68 - Nel secondo cartiglio, tenuto da una figura accovacciata alla sinistra della personificazione. Iscrizione dipinta, lettere a righe alternate orizzontali di colore nero e rosso.
Ne / sit / te di/tior / al/ter Citazione dalla satira oraziana I, 1, 40: «... dum ne sit te ditior alter» («... purché non ci sia un altro più ricco di te»). Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 68. 69 - Nella fascia di esergo. Iscrizione dipinta, lettere bianche su fondo rosso.
[A]va÷îù[i]æ ¦ Iudas Il lemma avaritia, mancante della prima A, dell’ultima I e con i restanti caratteri assai consunti, era seguito forse da segni di interpunzione. Il secondo lemma, reca il nome di Giuda, stante a designare per estensione anche l’etnico (e la religione) degli Ebrei. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 69. La Vera Religione 70 - Nel campo, denominazione della figura superiore. Iscrizione 170 SANTI QUATTRO CORONATI
dipinta, posta in verticale, su più righe, alla sinistra della raffigurazione del personaggio sorretto dalla personificazione della Vera Religione. Lettere bianche su fondo blu.
[---]+/[---]ùi/n(us) Il tema della vera religio, che trova corrispondenza diretta con il titolo dell’opera De vera religione di sant’Agostino, imporrebbe la restituzione in [Au]/[gu]/[s]ùi/n(us), che però pone alcuni problemi dal punto di vista epigrafico, perché assai estesa. Dovremmo presupporre, infatti, un’ordinatio del testo su quattro righe (invece di tre), occupate ciascuna da almeno due caratteri epigrafici. Per altro, tale proposta di integrazione non sembra accordarsi con la labile traccia del carattere superstite posto sopra la T della r. 2, interpretabile forse come parte di una A. Anche se la proposta di integrarvi il nome di sant’Agostino rimane tuttora la più accreditata, non si può escludere del tutto la possibilità di restituire ulteriori idionimi di più breve estensione, quale, ad es., [M]æ/[r]ùi/n(us). Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 70. 71 - Nel campo, denominazione della personificazione. Iscrizione dipinta, posta in verticale, su più righe, alla destra della raffigurazione dalla personificazione della Vera Religione, che sorregge la figura di cui alla iscrizione precedente. Lettere bianche su fondo blu. 41
V/e/ra/ re/l/i/gi/o 3. PARETE ORIENTALE
Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 71. 72 - Nel primo cartiglio, retto da una figura accovacciata alla destra della personificazione. Iscrizione dipinta, lettere a righe alternate orizzontali di colore nero e rosso.
Ie/iuno / bis / in / saba/to / decima Citazione abbreviata della parabola neotestamentaria del pubblicano, da Lc 18, 12: «Ieiuno bis in sabbato: decimas do omnium, quae possideo» (cfr. anche Mt 23, 23). Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 72.
La Carità 75 - Nel campo, denominazione del santo. Iscrizione dipinta, posta in verticale, su più righe, alla destra della raffigurazione di Pietro. Lettere bianche su fondo blu.
P/e/t/r(us) Iscrizione in parte consunta, ma leggibile. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 75.
73 - Nel secondo cartiglio, retto da una figura accovacciata alla sinistra della personificazione. Iscrizione dipinta, lettere a righe alternate orizzontali di colore nero e rosso.
76 - Nel campo, denominazione della personificazione. Iscrizione dipinta, posta in verticale, su più righe, alla sinistra della raffigurazione di Pietro, in corrispondenza della personificazione della Carità. Lettere bianche su fondo verde.
Reli/gio / mun/da (et) / inma(culata)
Ka/r/i/t/as
Citazione tratta dalla lettera di Giacomo: Gc 1, 27: «Religio munda, et immaculata apud Deum et Patrem, haec est: Visitare pupillos, et viduas in tribulatione eorum, et immaculatum se custodire ab hoc saeculo». Anche in questo caso è stato sufficiente riportare una citazione abbreviata del versetto biblico, presupponendo la conoscenza dell’intero passo. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 73.
Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 76.
74 - Nella fascia di esergo. Iscrizione dipinta, lettere bianche su fondo rosso.
Þõoc÷isis ¦ Far[is]eus · Il termine hypocrisis può essere agevolmente ricondotto al passo di Lc 12, 1: «Adtendite a fermento Pharisaeorum, quod est hypocrisis» («guardatevi dal lievito dei farisei, che è l’ipocrisia»; cfr. anche Mt 23, 28 e I Tm 4, 2), e per estensione, può assumere il significato di chi è ab ypocrisis iniquitate alienus, cioè chi permane nella fede cattolica. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 74.
78 - Nel secondo cartiglio, retto da una figurina sdraiata alla sinistra della personificazione della Carità. Iscrizione dipinta, lettere a righe orizzontali alternate di colore nero e rosso.
Qua/liter / hu(n)c / q(ui)s / amat / is q(ui) c(on)/tra/rius / extat Riproduzione fedele di uno dei versi del presbitero Wippo: «Odium: Qualiter hunc quis amet, sibi qui contrarius exstat?» (in PL CXLII, c. 1261), dove il testo differirebbe unicamente per l’uso del presente in luogo del congiuntivo nella forma verbale e per la presenza di is al posto di sibi. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 78. 79 - Nella fascia di esergo. Iscrizione dipinta, lettere bianche su fondo rosso.
[O]dium · ¦ Nero ·
77 - Nel primo cartiglio, retto nella destra dalla personificazione della Carità. Iscrizione dipinta, lettere a righe alternate orizzontali di colore nero e rosso.
L’antitesi Charitas/Odium è riportata anche nella sopracitata sentenza del presbitero Wippo. Fra i personaggi opzionabili per il secondo lemma, si è scelta la figura dell’imperatore romano Nerone, paradigma dell’odio per il genere umano, secondo le fonti cristiane. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 79.
Legem / quam / vives / si frat^(r)e^(m) / diligis / inples
Timore di Dio
Si tratta di una contaminazione di più citazioni neotestamentarie, fra le quali I Rom 13, 8: «qui enim diligit proximum, legem implevit», I Jo 4, 21: «ut qui diligit deum diligat et fratrem suum», I Jo 2, 10: «qui diligit fratrem suum in lumine manet ...», insieme ad altri luoghi giovannei di analogo significato. Inoltre, analogamente al cartiglio successivo, si può riscontrare l’influsso dei celebri distici tratti dal libello dei proverbia Wiponis (XI sec.), alcuni dei quali costituiscono, come nel nostro caso, antitesi tra vizi e virtù: «Charitas: Verus amor fratris brevis est impletio legis» (in PL CXLII, c. 1261), dove si allude ugualmente al compimento della legge mediante la carità e l’amore verso il prossimo. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 77.
80 - Nel campo, denominazione del santo. Iscrizione dipinta, posta in verticale, su più righe, alla sinistra della personificazione che sorregge san Girolamo. Lettere bianche su fondo verde.
Ie/r/o/nim(us) Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 80. 81 - Nel campo, denominazione della personificazione. Iscrizione dipinta, posta in verticale, su più righe, alla destra della personificazione che sorregge san Girolamo. Lettere bianche su fondo verde. SANTI QUATTRO CORONATI 171
Timor / d(omi)ni. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 81. 82 - Nel primo cartiglio, retto da una figura accovacciata alla destra della personificazione del Timore di Dio. Iscrizione dipinta, lettere a righe alternate orizzontali di colore nero e rosso.
Te / bona / fac/toru(m) / mani/festa / fama / tuoru(m) Forse il testo costituisce una contaminazione di più fonti, ma il senso della sentenza può essere spiegato nella prospettiva antitetica tra il Timor Domini e la Inanis Gloria, ricollegandosi a quanto riportato nella linea di esergo. Se il motto costituisce riferimento alla figura di Girolamo la frase potrebbe alludere alla fama delle sue buone opere. A suffragio di tale interpretazione potrebbe intervenire un passo paolino, che recita: «similiter et facta bona manifesta sunt et quae aliter se habent abscondi non possunt» (I Tim 5, 25). Nei proverbia Wipponis, si ha: «Timor Dei: Opta celari bona quaeque soles operari», sentenza accompagnata, come nella nostra iscrizione di esergo, alla vanagloria: «Inanis Gloria: Fac, propter famam, quaecunque potes bona coram hominibus» (in PL CXLII, c.1261). Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 82. 83 - Nel secondo cartiglio, retto dalla personificazione del Timore di Dio. Iscrizione dipinta, lettere a righe alternate orizzontali di colore nero e rosso.
87 - Nel secondo cartiglio, retto nella sinistra della personificazione dell’Amore Celeste. Iscrizione dipinta, lettere a righe alternate orizzontali di colore nero e rosso.
Si car/cer ta/lis de(us) / o tua m^a^(n)/tio qua/lis Altra citazione dalle celebri sentenze del presbitero Wippo: «Amor patriae coelestis: Si carcer talis, Deus, o tua mantio qualis», contrapposto all’Amor praesentis saeculi (in PL CXLII, c. 1263), che sembra alludere, con la disposizione chiastica contrapposta dei termini carcer e mantio, e rafforzata da talis e qualis, alla vita umana del secolo, con la sua dimensione corporea (dove il corpo è prigione dell’anima) e a quella ultraterrena (dove mantio sta per mansio, con il significato metonimico di residenza, anche come mansio perpetua). Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 87. 88 - Nella fascia di esergo. Iscrizione dipinta, lettere bianche su fondo rosso.
Risulta mancante il primo dei due termini dell’antinomia, che doveva originariamente essere posto in posizione decentrata rispetto allo schema originario, a causa della presenza di una finestra. Mancanti sono pure le prime due lettere di Iulianus, per caduta della pellicola pittorica, essendo invece rimasta integra la fascia dipinta in rosso. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 88. La Giusta Emulazione
Il testo è molto lacunoso e non facilmente interpretabile. Alla r. 1 la presunta E finale può essere unita in nesso ad altre lettere (es. I, D). Alla r. 2 il primo carattere è probabilmente una E in nesso con un’ulteriore lettera. L’esiguità del testo a disposizione, non consente di reperire l’eventuale fonte di riferimento. Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 83.
89 - Nel campo, denominazione del santo. Iscrizione dipinta, disposta parte in orizzontale e parte in verticale ai lati della raffigurazione di san Domenico. Lettere bianche su fondo blu.
84 - Nella fascia di esergo. Iscrizione dipinta, lettere bianche su fondo rosso.
90 - Nel campo, denominazione della personificazione. Iscrizione dipinta, posta in verticale alla destra della personificazione della Giusta Emulazione. Lettere bianche su fondo blu.
A paradigma della vanagloria è assurta la figura di Alessandro Magno. Cfr. anche il precetto in Gal 5, 26: «non efficiamur inanis gloriae cupidi invicem provocantes invicem invidentes». Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 84. L’Amor Celeste 85 - Nel campo, denominazione della personificazione. Iscrizione dipinta, posta in verticale, su più righe, alla sinistra della raffigurazione di san Francesco. Lettere bianche su fondo blu.
A/m/o/r/ celeø/t/is Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 85. 86 - Nel campo, denominazione del santo. Iscrizione dipinta, posta in verticale, su più righe, alla destra della raffigurazione di san Francesco. Lettere bianche su fondo blu.
F/ra/n/ci/ø/[c(us)] Manca la terminazione della denominazione del santo, poiché tutta la scena risulta mutilata in seguito all’ampliamento di una vicina finestra (cfr. Draghi 2006, 298). Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 86. 172 SANTI QUATTRO CORONATI
93 - Nella fascia di esergo. Iscrizione dipinta, lettere bianche su fondo rosso.
Simon mag(us) ¦ Emulatio perversa Il riferimento a Simon Mago, che offrì del denaro a Pietro per ricevere i doni dello Spirito Santo, completa il senso del programma decorativo. L’emulatio perversa è quella che conduce alla simoniaca heresis, alla corruzione e all’avarizia di quei prelati emuli di Simon Mago, cui fa da contraltare la figura di san Domenico (cfr. Draghi 2006, 299). Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 93.
[---?] ¦ [Iu]lian(us) apostata…
INVŠÊ+[---]/+ SPE[---]/LAV[---] /quê[---]
Inanis gl(ori)a. ¦ Alexander
non bene: sed excludere vos volunt, ut illos aemulemini» («Costoro mostrano un interesse acceso per voi, ma non per fini retti; ma vi vogliono staccare da noi, affinché rivolgiate il vostro interesse per loro»). Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 92.
Domi ¦ n/ic(us) Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 89.
Emula/t/î/o s(an)c(t)a Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 90. 91 - Nel primo cartiglio, retto nella destra dalla personificazione della Giusta Emulazione. Iscrizione dipinta, lettere a righe orizzontali alternate di colore nero e rosso.
Emu/ñor / vos / dei emu/latio/ne Sono stati riscontrati in questo cartiglio, resti di sinopie, se non di veri e propri rifacimenti del testo, soprattutto alle r. 2 (tracce di una lettera E tra la L e la O), e alle r. 3 (una originaria N al posto della lettera V). La citazione, assai abbreviata, è paolina, ed è tratta da II Cor 11, 2: «Aemulor enim vos Dei aemulatione...» («Io sento per voi una specie di gelosia divina, avendovi fidanzato ad uno sposo, per presentarvi quale vergine pura a Cristo»). Cfr. Noviello 2006, CD-ROM, n. 91. 92 - Nel secondo cartiglio, retto da una fanciulla accovacciata alla sinistra della personificazione. Iscrizione dipinta, lettere a righe alternate orizzontali di colore nero e rosso.
Emu/lan/tur / vos / non / bene Ulteriore citazione paolina, tratta da Gal 4, 17: «Aemulantur vos
(C.N.)
Note critiche
Gli affreschi scoperti nell’Aula nel 1996 si inseriscono nel panorama della pittura romana di metà secolo come una rivelazione, testimoniando da un lato l’importanza e il ruolo delle residenze cardinalizie come luoghi da cui diffondere potentissimi messaggi politici e teologici; consentendo da un altro, per le loro valenze stilistiche, di rivedere il giudizio sulla pittura romana di metà secolo, formulato spesso scegliendo come testimoni i dipinti della cappella di San Silvestro (¤ 30f) le cui pesanti ridipinture compromettono invece il giudizio stilitico. La complessità del tema dispiegato sulle pareti dell’Aula – una summa enciclopedica – unita all’abilità tecnica e alle molte componenti culturali dei pittori attivi negli ambienti del palazzo cardinalizio e, non ultimo, all’ottimo stato di conservazione degli affreschi pervenuti, fanno del ciclo dell’Aula un punto cardine della cultura artistica romana della metà del Duecento. Alla base della stesura del programma è la tradizione esegetica di Onorio Augustodunense, Ruperto di Deutz, Bruno di Segni: lo attestano le corrispondenze rintracciate rispettivamente con il Gemma Animae di Onorio (PL CLXXII) con il De Trinitate et ejus operibus di Ruperto (PL CLXVII), con il Sententiarum di Bruno di Segni (PL CLXV). Le attinenze sono tali da risultare patente quale possa essere stata l’importanza di testi come questi per la stesura dei murali dell’Aula, un ambiente destinato presumibilmente all’amministrazione della giustizia: così lasciano supporre, da un lato, la presenza di Salomone, dipinto al centro della parete settentrionale; dall’altro, l’intera carriera di Stefano Conti, uditore del tribunale della curia e giurista di riferimento per Gregorio IX e Innocenzo IV (Draghi 1999b, 119). L’alzato architettonico, costituito dalle pareti dell’Aula, dalla volta e dai raccordi con essa, si dispone come una composizione circolare che richiama i diagrammi cosmologici quali il Sacramentario di Fulda (X sec.: GNSB, Theol. 231, f. 250r), il Chronicon Zwifaltense (XII sec.: SWL, Cod. Hist. 415, f. 17v), il Martirologio di Suabia (XII sec.: SWL, Kapiteloffiziumsbuch, Cod. Hist. 2° 415, f. 17v). Il ciclo dei Mesi rappresenta una fase del percorso spirituale, il cui termine ultimo è, in una prospettiva salvifica, il riavvicinamento a Dio. L’inizio dell’anno coincide con la manifestazione della Trinità e Gennaio dal triplice volto rappresenta l’avvio del percorso spirituale. La raffigurazione del banchetto allude alla mensa della Divina Scrittura; il cibo che Gennaio chiede è il nutrimento spirituale delle Scritture e il vino la bevanda della comprensione della legge divina (Draghi 2004a, 51-55); con Marzo è introdotto il tempo del peccato e della penitenza (Draghi 2004b, 24-29), Aprile e Maggio sottendono l’avvento di una nuova vita; nella vendemmia del mese di Ottobre è il riferimento alla vigna del Bene cui sono chiamate a lavorare
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tutte le età della vita, adombrate nell’uva verde, bianca e rossa che il contadino si appresta a pigiare; le aspettative riposte nella semina (Novembre) riflettono l’abbandono totale a Dio (Draghi 2006, 40-41, 172-174). Gennaio, che nella mano reca il fuso delle Moire – assimilazione a Giano, custode della porta con le Moire, custodi dell’aldilà – è il governatore dell’ordine temporale del cosmo; Dicembre, in posizione frontale, in attitudine imperiale sottolineata dallo scettro impugnato, è il December Annus rappresentato a conclusione del ciclo agricolo. Gli uccelli potrebbero indicare la contemplazione delle cose celesti attraverso cui l’uomo può elevarsi al cielo (Andberg 1965, 200): sono situati al di sopra delle attività agricole dei Mesi e al di sotto delle Arti, ‘tramite necessario’ alla conquista della scienza divina, mezzo per liberarsi dalla Babilonia dell’ignoranza, per giungere alla Gerusalemme della Sapienza (Honorii Augustodunensis, De Animae Exilio Et Patria Aias de Artibus, in Pez 1721, cc. 227-234). Nel Paesaggio marino può essere rappresentato il finis terrae secondo il modello classico in cui il cerchio delle acque indicava i confini del mondo; successivamente animali come le sirene furono raffigurati a segnare i limiti della terra come, ad esempio, nel mosaico dalla chiesa del Salvatore a Torino (oggi ai Civici Musei d’Arte Antica), o nei capitelli della facciata del duomo di Modena. Nella volta è illustrato il ciclo cosmico con i suoi cambiamenti, le variazioni metereologiche, il movimento delle costellazioni, l’avvicendamento delle stagioni, il succedersi dei mesi, nella prospettiva della certezza dell’inalterabilità e dell’eternità del cosmo, riflesso dell’ordine superiore dell’armonia divina. Nella campata successiva è l’immagine della Chiesa che fonda se stessa sull’esempio offerto dalle opere realizzate in vita dai suoi fedeli e sostenitori e ribadisce la superiorità del Sacerdozio sul Regno: il tema è introdotto dalla raffigurazione dell’Omicidio di Abele all’interno della nicchia sulla parete occidentale. Il programma affronta la natura limitata dell’uomo in uno spazio e in un tempo governati dall’ordine divino, la difficoltà del percorso e la funzione insostituibile dell’Ecclesia nell’indirizzarlo e governarlo. Nel registro superiore Mitra, garante dell’accordo, dei vincoli, delle alleanze, è rappresentato sulla parete occidentale nell’iconografia del tauricida: in ambito romano, come attestato da Porfirio nel De Antro Nympharum, è considerato come dio dell’inizio (Volkommer 1992, 584-585; Colombo 1982, 308-330) e l’uccisione del toro è sempre considerata come momento di fondazione o meglio di rifondazione del mondo. Il carattere eterno dell’effusione del sangue sottolinea la perpetuità degli effetti benefici derivati dal sacrificio; ancora in Porfirio, il toro viene identificato con la luna, e Mitra con il sole: «(...) il toro è la luna da cui ha ricevuto una grande forza dal momento che è nato sotto il suo segno» (Volkommer 1992, 585). Significativamente, nella parete orientale sono affrescati il Sole e la Luna, da intendersi come simbolo del Cristo e dell’Ecclesia e, in quella settentrionale, le due figure allegoriche, da identificare probabilmente come Fertilità e Abbondanza. Gli affreschi del registro superiore superano i temi del registro inferiore e li assorbono nell’assunto della rifondazione del mondo, di una vita ordinata e feconda nell’armonia della nuova Legge. Le citazioni dalle Scritture rimandano a un testo e a un tempo “eterno” per eccellenza, come è eterno l’ordine stabilito dalla creazione: il succedersi dei Mesi, l’avvicendarsi delle Stagioni, il movimento degli astri. In questo tempo eterno si inserisce un tempo narrativo – le attività agricole svolte dall’uomo durante i mesi – e un tempo storico, rappresentato da Giobbe, David, Daniele, Paolo, Martino, Pietro, Girolamo, Francesco, Domenico e dalle citazioni dei personaggi negativi, esclusi dal piano di salvezza: Maometto, Giuda, Nerone, Alessandro Magno, Giuliano l’Apostata. La presenza dei santi Francesco e Domenico, dipinti sulla parete orientale, costituisce un sicuro termine di datazione: san Francesco fu canonizzato il 16 luglio 1228 e san Domenico nel 1234. Le peculiarità stilistiche degli affreschi dell’Aula, come i caratteri paleografici delle iscrizioni, ne confermano l’esecuzione nell’arco 174 SANTI QUATTRO CORONATI
temporale compatibile con questo termine post quem, e da fissarsi verosimilmente nel corso degli anni Quaranta, presso la data del 1246 che reca la lapide di consacrazione della cappella di San Silvestro. Al sesto decennio del Duecento va invece ricondotta l’esecuzione di quella parte di affreschi oggetto di un ‘restauro antico’ (Int. cons.), da confrontare stilisticamente con il Redentore tra gli Apostoli della vicina chiesa dei Santi Giovanni e Paolo (¤ 34c) specie per le analogie individuate nella trattazione della barba, nel modo di comporre le mani, nei panneggi delle vesti, nei caratteri paleografici delle iscrizioni. Altri confronti possono istituirsi tra la figura della Geometria e la “Madonna della Catena”, nella chiesa di San Silvestro al Quirinale (¤ 24), segnatamente nella redazione delle mani e nella veste degli Angeli. Nella formulazione compositiva dei Mesi coesistono due modelli figurativi: uno con la presentazione frontale del Mese – immagine quasi sacrale – accanto al quale è raffigurata l’occupazione agricola che lo distingue (Gennaio, Agosto, Dicembre); altre volte invece si tratta di una scena corale, pervasa da un intenso ritmo narrativo, propriamente gotico, come nel mese di Luglio – dove l’intera famiglia è al lavoro – o nel mese di Ottobre. Non è frequente in Italia la rappresentazione del Marzo come Spinario a due figure, tema elaborato dall’arte bizantina e derivante dalla scultura ellenistica di Pan che toglie la spina dai piedi di un satiro (Draghi 2004b, 24-29); raro è anche l’Aprile ugualmente a due figure; è precoce la rappresentazione di uno strumento musicale quale l’organo. La tradizione classica e quella paleocristiana svolgono un ruolo determinante, attestato dal motivo degli archi inflessi formati dalle coppie di delfini con le code intrecciate che è usato nella Domus Transitoria, negli affreschi di XI secolo della basilica inferiore di San Clemente (Romano, in Corpus IV ¤ 21), e successivamente al Sancta Sanctorum (¤ 60); il cerchio della botte sollevato dal ragazzo nel mese di Settembre è attestato nella base dei Decennali nel Foro e nel mosaico con Aion nel Museo Archeologico di Damasco (Musso 2000, 376, 379). Gli eroti sono raffigurati secondo lo schema di Apollo Liceo, con un drappo variamente composto sulle spalle, come nei mosaici di Santa Costanza; la catena dei Vizi, con i drappi colmi di fiori, o il Leone che azzanna un cerbiatto, replicano le fronti dei sarcofagi romani. Il sistema decorativo della trabeazione ha le sue radici nel mondo classico e paleocristiano ed è ben noto al medioevo romano (a San Crisogono, San Martino ai Monti, San Giovanni a Porta Latina; si vedano le schede nel Corpus IV ¤ 8, ¤ 60, ¤ 61) e torna nel Duecento a San Saba (¤ 66) (Toubert 1970, 99154; Rebold Benton 1993, 129-145; Romano 1995b, 39; Bellosi 1998, 194-197; Andaloro-Romano 2000b, 114-116). Classico è anche il tema della calcatio (Herklotz 2000, 114-116), cui si richiama Prudenzio nella Psycomachia, testo di riferimento per la rappresentazione delle antitesi tra le Virtù e i Vizi nell’Aula; nel pieno medioevo fu usata da Callisto II che, nella camera pro secretis consiliis del Palazzo Lateranense (Croisier, in Corpus IV ¤ 45) si fece ritrarre frontalmente, nell’atto di calpestare l’antipapa scelto dall’imperatore, «una soluzione ispirata all’iconografia imperiale della calcatio colli, utilizzata nelle emissioni monetarie fino alla metà del V secolo» (Gandolfo 2007b, 320). Persino la raffigurazione della vite, che si intreccia con i rami dell’albero nel mese di Ottobre, documenta la sopravvivenza di una coltura adottata nel mondo romano, la “vite maritata” (Draghi 2006, 173). Il tema delle Virtù che recano sulle spalle figure vetero e neotestamentarie è presente nell’Aula con due modelli rappresentativi: l’uno con l’immagine a cavalcioni su entrambe le spalle; l’altro con il santo assiso su una sola spalla. Il primo ha una derivazione classica, attestata sia dai versi di Ovidio nei Fasti (l. 4, vv. 37-38) che dai rilievi dell’Arco di Costantino raffiguranti la Liberalitas di Marco Aurelio (Draghi 2006, 67) e sarà ripreso anche nella cattedrale di Chartres, nella vetrata della facciata meridionale del transetto; il secondo è documentato a Roma negli affreschi del X secolo di Santa Maria in Pallara, nel registro intermedio dell’abside, dove i profeti sostengono su una sola spalla gli apostoli (Marchiori 2009, 229, 344). La personificazione
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della Virtù associata al testimone che la rappresenta compare nell’Apocalisse di Bamberga (XI secolo) e nel reliquiario della cattedrale di Troyes (XIII secolo) dove le Virtù, situate entro arcature, calpestano i Vizi. Gran parte dei dipinti dell’Aula sono riferibili all’équipe del Terzo Maestro di Anagni (su Anagni, Boskovits 1979, 6-8, 2728; Gandolfo 1988, 296-297; Toesca 1902 [1994], 12, 35-50; Bianchi 2003): intendendo con questo le maestranze che tra il terzo e il quinto decennio del Duecento operano nella cappella di San Gregorio al Sacro Speco di Subiaco e nella cripta del duomo di Anagni: dunque in cantieri la cui committenza è papale o molto vicina a questa cerchia, tale da giustificare una cultura così complessa e internazionale, che attinge al mondo bizantino e tardo antico; che denota la conoscenza di fonti d’oltralpe, che rielabora, facendole proprie, le dipendenze mutuate dall’Italia meridionale, e propone un linguaggio che, in considerazione della molteplicità e della qualità degli elementi che lo caratterizzano, non è corretto chiamare romano, ma lo è se si considera che questi artisti hanno operato in modo molto esteso nei grandi cantieri dell’Urbe. La correlazione fra i tre cicli acquista maggior valore se si considera che la cappella di San Gregorio (1228) fu voluta da Ugolino Conti, papa Gregorio IX; e che Anagni era il luogo di origine della famiglia Conti e una delle sedi preferite dalla corte pontificia nella prima metà del Duecento; non a caso marcate affinità esistono anche fra gli apparati decorativi dell’Aula, specie i fregi negli strombi delle grandi finestre con sedili, e quelli del Palazzo Vaticano, in particolare con i racemi della Torre di Innocenzo III (¤ 32b). Le analogie con i cicli di Subiaco e Anagni sono strettissime, sia nell’adozione di elementi quali le lesene scanalate con capitelli dipinti, o la scelta di realizzare in bicromia gli elementi architettonici, ornati da motivi foliari; sia nella tecnica
di realizzazione dei panneggi con velature sovrammesse di colore che determinano le pieghe delle vesti e si giustappongono a campiture cromatiche chiare. I buoi dipinti nell’affresco con il Sole e la Luna discendono dagli animali del Ritorno dell’Arca ad Azotum ad Anagni; i volti, costruiti con stesure di colore modulate, hanno la stessa forza espressiva (si veda il discepolo dell’Aritmetica/Computo e, ad Anagni, la volta con Storie dell’Arca a Bet Semes e a Cariat-Jearim; il contadino anziano nel mese di Giugno e il Giobbe sublacense; i panneggi dell’Astronomia e quelli del san Giovanni di Subiaco; anche i santi Pietro e Paolo hanno l’immediatezza delle figure sublacensi e, ad Anagni, delle figure di Santi affrescati nei pannelli. Rispetto agli esempi citati gli affreschi romani però presentano importanti novità: una sicurezza prospettica rilevante; la ricerca di proporre più piani di profondità; un senso dello spazio ed un’ariosità sconosciuti ad Anagni. È uno spazio dilatato, aperto, all’interno del quale le figure si dispongono in modo equilibrato, con relazioni ben definite. Nasce un nuovo senso della narrazione, un nuovo naturalismo, molto diverso dalle immagini compresse che popolano le volte anagnine. La loro cultura è molto stratificata: la tradizione classica ed una profonda influenza di Giunta Pisano si uniscono, particolarmente nella realizzazione delle vesti delle Arti e delle Figure Allegoriche, ad influenze meridionali, quali quelle riscontrate nelle miniature del Liber Astrologiae di Georgius Zothorus Zaparus Fendulus (BNF, ms. lat. 7330, ff. 1, 16: si veda l’Introduzione in questo volume) e anche ad una vaga intonazione antelamica, segnatamente nella raffigurazione di alcuni Mesi. L’internazionalità del linguaggio è confermata dai testi di alcune iscrizioni, desunte dai Proverbia del presbitero Wippo (1027-1028), cappellano dell’imperatore Corrado II. Nei Mesi sono comunque ben chiare le differenze stilistiche, anche all’interno della stessa scena, tra un artista molto raffinato, SANTI QUATTRO CORONATI 175
dotato di una straordinaria forza espressiva, costruita attraverso il colore (Mano A) e i discepoli (Mani B e C) che ne ripropongono in modi diversi e talora più incerti, la concezione stilistica e la resa tecnica. Trattandosi di un grande cantiere, la finalità era uniformare la rappresentazione e le differenze tecniche e stilistiche in un unico linguaggio: in tal senso va considerato l’uso delle sagome, frequentemente utilizzate nei dipinti dell’Aula (Matera 2006, 373). Il Terzo Maestro è un pittore formidabile per la forza espressiva delle immagini, impastate nel colore, per l’immediatezza e la sintesi con cui costruisce un racconto corale nel quale le notazioni descrittive sono perfettamente riassorbite. Gli affreschi dell’Aula romana costituirono un modello di profonda riflessione per i pittori della generazione successiva, operosi nei cantieri del Sancta Sanctorum e nella basilica di San Francesco ad Assisi. Alcuni brani del Sancta Sanctorum sono affini ai dipinti del Celio, come il soldato nel Martirio di san Paolo, o il simbolo di Matteo, che devono confrontarsi al Novembre dell’Aula; affini sono anche i particolari del sistema decorativo, come i già citati delfini dalle code intrecciate. Le analogie culturali con i dipinti di Torriti ad Assisi, particolarmente con la Vergine della volta clipeata e con il Creatore, testimoniano come il linguaggio del pittore si fosse formato sulla conoscenza del ciclo dei Santi Quattro, che svolse una funzione di modello esemplare, paradigmatico, cui si richiamarono anche i maestri della scuola romana attivi ad Assisi.
Interventi conservativi
Metà del XIII secolo: a questa data è da ricondurre il restauro antico, che concerne le immagini di Gennaio trifronte, di Febbraio, della figura femminile nel mese di Marzo, di parte della trabeazione e, superiormente della Grammatica. Questi dipinti si differenziano dagli altri per tecnica, materia e realizzazione stilistica facendo parte di un’unica grande ‘giornata’ che si sovrappone, sui due lati, all’intonaco originario e «coincidendo per estensione esattamente alla modifica avvenuta nella muratura in laterizi sottostante, che presenta buche pontatie dissimili per posizione dalle altre della medesima parete (...). Anche la grande mensola e le parti decorative di questa porzione di affresco sono realizzate in maniera del tutto dissimile dalla restante parete (...) totalmente assente è l’uso del sesto, presente diffusamente sulla restante superficie» (Matera 2006, 379-380). Appartengono a questa redazione anche i caratteri epigrafici delle iscrizioni, differenziati paleograficamente dagli altri tituli (Noviello 2006, 358). La motivazione di questa antica riproposizione è da ricercare nell’eliminazione di un camino situato sulla parete (Matera 2006, 366), la cui cappa era affrescata sui tre lati e superiormente con le immagini sopra indicate e la cui rimozione ha comportato il rifacimento (Barelli 2009a, 86). Allo stesso periodo sono da ricondurre un leggero ampliamento della finestra posta nella parete orientale della campata settentrionale; la ripresa pittorica di parte della veste dell’Amor Celeste (Draghi 2006, 298); la «ricostruzione della campitura in terra di Siena sulla quale poggia il personaggio» (Matera 2006, 380). XIV secolo (1349?): probabile crollo di parte delle decorazioni a causa di un evento sismico (Draghi 1999b, 123). L’ipotesi è suffragata dallo stato di conservazione dei dipinti; dal rinvenimento al di sotto del pavimento e durante il rifacimento del solaio dell’Aula, di un gran numero di frammentini non scialbati, incastrati nel tavolato. A seguito del terremoto furono tamponate le finestre situate a sud est, ovest, la nicchia sulla parete ovest e l’oculo nord, dove sono stati ritrovati altri frammenti non scialbati (Matera 2006, 369, 388). XVI secolo (?): gli oculi sono chiusi in esterno con una fodera e l’intera superficie della sala viene scialbata, probabilmente a seguito della peste; nell’incisione del 1619 di Giovannoli gli oculi e le aperture poste sul lato settentrionale risultano chiusi dall’esterno (Matera 2006, 369). XVII secolo (?): «ai lati delle lesioni createsi nelle pareti vengono
realizzati dei tagli dritti nell’intonaco del dipinto per facilitare la risarcitura delle medesime. La ripresa delle lesioni, effettuata più volte in tempi diversi, avviene successivamente alla scialbatura, che non compare né sulla muratura sottostante le vecchie rimozioni, né sugli zoccoli gialli inseriti evidentemente in seguito» (Matera 2006, 370). Smantellamento dei dipinti situati al di sotto dei peducci. 1902: data e firma sulla parete meridionale relativa ad un intervento (Matera 2006, 378) 23 maggio 1969: posa in opera di vetrini sulla parete ovest della campata settentrionale (Matera 2006, 365). 1996-2006: intervento di Francesca Matera con la direzione dei lavori di Andreina Draghi per il restauro dell’intonaco e della superficie affrescata; di Giuseppina Filippi per i consolidamenti strutturali delle capriate del tetto, delle volte, del solaio. I test di descialbo programmati sin dal 1989 sono stati eseguiti nel 1996; successivamente è stato effettuato il descialbo, a bisturi, previa puntellatura e preconsolidamento delle parti decoese. Sono stati stamponati dall’interno gli oculi dell’Aula e le finestre rinvenute; sono state scoperte le nicchie situate nella parte inferiore delle pareti e le porte di comunicazione con gli altri ambienti (Matera 2006, 363-365). L’intonaco, in uno strato unico, è costituito da calce e ‘pozzolanella’; il trasferimento della composizione da uno schema cartaceo è deducibile dalla presenza di una «divisione di massima delle superfici, in nero sulla volta della campata settentrionale; in morellone sulla volta di quella meridionale; in rosso su tutte le pareti (...). L’esatta corrispondenza delle stesure di intonaco su ambedue le campate lascia ipotizzare la costruzione di un unico ponteggio (...) [e che] (...) i pittori si spostassero da una parte all’altra della campata per non interrompere il lavoro» (Matera 2006, 370). Il ciclo fu realizzato dall’alto verso il basso, dal centro della volta verso le vele e frammenti di affreschi sono stati rinvenuti anche nelle prese di aria situate nelle volte. Per la trasposizione sulle pareti del disegno preparatorio sono stati utilizzati il sesto, il sistema della battitura dei fili con due differenti modalità, la grata, l’incisione sull’intonaco fresco (Matera 2006, 372). I dipinti sono stati realizzati a fresco con rifiniture a calce e a secco. Conservano l’azzurrite, stesa su campiture grigio scure; nei registri inferiori è stato utilizzato il blu di lapislazzuli; nella fase finale sono stati realizzati, dagli stessi artisti, alcuni ‘ritocchi’, visibili nelle fasce rosse di divisione dei registri e in alcuni copricapi.
30b. I FRAMMENTI DI AFFRESCHI NELLA SALA ADIACENTE L’AULA ‘GOTICA’ Quinto decennio del XIII secolo
I frammenti pittorici sopravvissuti, solo menzionati da Barelli (1998, 102-103), testimoniano la vasta decorazione che ornava l’ambiente addossato alla parete occidentale dell’Aula e che, probabilmente, fu edificato in una fase leggermente successiva, come attesta l’occlusione dell’oculo. Attualmente i dipinti sono situati nel sottotetto e durante l’intervento condotto sulle coperture nel 1998 sono stati anch’essi restaurati (Matera 2006, 366). Documentano una decorazione architettonica della parete, costituita da colonne con basi, posanti – sembrerebbe – su mensole raccordate da una fascia monocromatica verde delimitata da bande di coloro rosso e bianco. Si leggono inoltre una sorta di motivi gigliati su fondo ocra, un uccello dal piumaggio azzurro, campiture monocromatiche bianche e azzurre nelle imbotti di una specchiatura rettangolare. Nella parte superiore sono visibili basamenti verdi delle colonne e parte di esse [1, 2].
Interventi conservativi
1998-2000: intervento della SBAP-Roma, restauro di Francesca Matera, direzione dei lavori di Giuseppina Filippi.
Bibliografia
Barelli 1998, 102-103; Matera 2006, 366.
Documentazione visiva
SSPSAE e PM-Roma 2011. Andreina Draghi
1
Documentazione visiva
Campagne fotografiche della SSPSAE e PM-Roma 2010 e della SBAP-Roma 2004-2006.
Fonti e descrizioni
Memoriale de mirabilibus et indulgentiis quae in Urbe Romana existunt (XIV sec.), in Valentini-Zucchetti 1953, IV, 78; Mancini ante 1630 [1956-1957], 274: «(...) In SS. Quattro, alla cappella fatta fare dal Card.le Stefano Armandi, vi sono pitture sotto Innocenzo IV, e quelle della tribuna sotto Pasquale II, fatte da un tal Pavolino, riguardevoli l’una e l’altra pittura per gli habiti e molte cose di quei tempi, dove fra l’altre si vedeva Salomone con la diadema rotonda di Gesù cone si vede in Gedeone della libraria di quella casa».
Bibliografia
Draghi 1999a, 442-444; Draghi 1999b, 115-159; Matera 1999, 160-166; Draghi 2004a, 43-58; Draghi 2004b, 19-38; Brancone 2004, 82; Draghi 2006, 17-351; Filippo Moretti 2006, 391-405; Gandolfo 2006, 11-16; Matera 2006, 363-390; Noviello 2006, 353-362 (e CD Rom); Draghi 2007, 47-51; Barelli 2009a, 80-90. Andreina Draghi 2
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30c. I FRAMMENTI DI AFFRESCHI NEL SOTTOTETTO DELLA TORRE MINORE
30d. LA SALA DELLE PENTAFORE
Quinto decennio del XIII secolo
Quinto decennio del XIII secolo
La decorazione, largamente frammentaria, rivestiva il timpano di un altro ambiente del palazzo cardinalizio, situato nella Torre Minore, allo stato attuale un sottotetto. Bande cromatiche ocra, rosso e verde, arricchite da un motivo a perlinatura e a piramide, delimitavano il campo dell’ornamentazione costituita su un lato da flessuosissimi girali chiari su fondo ocra; accanto è un partito decorativo a rotae, da identificare presumibilmente come decorazione di una veste, analoga per tipologia a quella indossata da Costantino nella cappella di San Silvestro. Sull’altro lato la decorazione è delimitata da un fregio a motivi fitomorfi, contenuto entro bande monocromatiche rosse con motivi a perlinatura. All’interno è campito un fregio floreale e un frammento di difficile lettura, forse un’altra figura [1-3]. L’eleganza e la scioltezza dei motivi decorativi e l’affinità indicata con la cappella di San Silvestro rendono plausibile un riferimento alle stesse maestranze
operose nei diversi ambienti del palazzo, e, segnatamente al Maestro Ornatista cui fa pensare la flessuosità e la ricercatezza dei partiti ornamentali.
Interventi conservativi
2009: intervento della SSPSAE e PM-Roma, pulitura e consolidamento del frammento ad opera di Francesca Matera, direzione dei lavori di Andreina Draghi.
Bibliografia
Barelli 1998, 103. Andreina Draghi
1
Il maestoso ambiente, in comunicazione con l’Aula (¤ 30a), prende il nome dal loggiato a pentafore rinvenuto durante i restauri condotti tra il 1998 e il 2000 (Filippi Moretti 2002, 483490; Ead. 2006, 394). Le ghiere degli archi sono affrescate con un motivo a finti mattoncini rossi; nelle imbotti si snodava un tralcio fitomorfo pervenuto in modo frammentario [1]. Nella zona inferiore della parete orientale il paramento murario presenta una decorazione a mattoni color ocra.
1
Interventi conservativi
1998-2000: intervento della SBAP, restauro di Francesca Matera, direzione dei lavori di Giuseppina Filippi.
Bibliografia
Filippi Moretti 2002, 483-490; Filippi Moretti 2006, 394; Draghi 2006, 32; Barelli 2009, 33-34. Andreina Draghi
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SANTI QUATTRO CORONATI 179
30e. IL CALENDARIO NELLA SALA ANTISTANTE LA CAPPELLA DI SAN SILVESTRO
nominativo. La prima edizione del testo, utilizzata come base per la presente revisione, si deve al Klauser (1935), al cui studio si rimanda principalmente per le considerazioni generali e per le implicazioni di tipo agiografico e liturgico, sostanzialmente ancora valide. Successivamente non sono state effettuate nuove edizioni critiche delle iscrizioni. Si può segnalare, fra le novità più rilevanti, lo scioglimento di abbreviazioni a suo tempo tralasciate dal primo editore, come nel caso della sequenza che ha portato all’identificazione, presso la data del 24 aprile, del necrologio di Riccardus, padre del cardinale Stefano, da parte del Dykmans (1978). I recenti restauri della Sala del Calendario (2007-2008), pur non avendo restituito nuovi settori del tessuto pittorico, hanno tuttavia consentito l’integrazione e la correzione di alcune parti del testo epigrafico. Purtroppo il deterioramento dei dipinti non permette un agevole controllo autoptico e oggi alcune delle letture effettuate dal Klauser non possono più essere verificate. Per di più, il sistema di trascrizione dei segni epigrafici utilizzato ai tempi della prima edizione pone non pochi problemi interpretativi. La presente revisione testuale tiene pertanto conto sia di quanto edito nella precedente versione del Klauser, sia di quanto verificato personalmente in sede autoptica, in occasione dell’ultimo restauro dei dipinti, che di quanto emerso dal confronto con le poche immagini storiche disponibili.
1246-1254
I dipinti si svolgono sulle tre pareti dell’ambiente di accesso al palazzo cardinalizio, oggi monastero agostiniano, situato sul lato destro del secondo cortile. Il ciclo, molto frammentario, ha inizio dalla parete meridionale, ove sono rappresentati i Mesi da Gennaio ad Aprile; prosegue ad ovest con la sequenza maggioagosto e si conclude sul lato settentrionale. All’interno di arcate sorrette da pilastri a candelabre si disponevano monumentali figure virili, rispettivamente una per ogni Mese, raffigurate nell’atto di mostrare all’osservatore il rotulo, sorretto con le mani, con l’indicazione dei giorni. Indossavano tuniche bianche ornate con guarnizioni ed un mantello decorato sugli omeri e fermato al petto. Il codice svolto copriva gran parte del corpo, lasciando alla vista solo la parte superiore del torso con il volto e forse i piedi. Delle dodici immagini che decoravano le pareti dell’ambiente sono pervenute soltanto le due raffigurazioni acefale dei Mesi di Gennaio e Febbraio [1, 2]. Il campo del rotulo è delimitato nella parte inferiore da una fascia decorativa di colore rosso; il testo è vergato in capitale libraria con i caratteri delle iscrizioni in colore rosso e nero. È suddiviso in quattro colonne relative al numero delle epatte (gli undici giorni intercalari aggiunti all’anno lunare per equipararlo al solare), alle lettere dei cicli settimanali (dalla A alla G), al giorno contato secondo l’uso romano, al nome del santo e della festività liturgica. Ogni mese era formato da circa trentuno-trentaquattro righe di testo; le prime due contenevano rispettivamente le indicazioni caratteristiche del mese (a) e il nome del mese seguito dai numerali relativi ai giorni e alle lune (b), con la terza iniziava il calendario (Klauser 1935, 18). La decorazione era completata da un motivo a velaria che si svolgeva nella zona inferiore e del quale è pervenuto un frammento situato sul lato settentrionale [4]; al di sotto dei Mesi di Novembre e Dicembre sono visibili tracce di colore giallo e marrone, per le quali è stata ipotizzata una decorazione a crustae marmoree (ibid.). Lo stato conservativo dei dipinti non è omogeneo: Gennaio, Febbraio e Aprile sono in gran parte leggibili, Luglio non è pervenuto; gli altri Mesi appaiono molto deteriorati. Andreina Draghi
Iscrizioni
Ciascun Mese del Calendario, all’interno della propria specchiatura, è incorniciato da una spessa linea arancione. Sottili linee rosse, orizzontali e verticali, suddividono lo spazio in colonne e righe. Le colonne suddividono i campi epigrafici relativi ai numeri aurei (epatte), alle lettere domenicali, ai giorni del mese e del campo epigrafico principale, quello destinato al santorale vero e proprio, di maggiori dimensioni, comprendente l’indicazione dei nomi dei santi e delle feste fisse. Le righe, oltre a scandire la sequenza dei giorni del mese, fungono anche da linea di guida per il pictor. In un solo caso la linea rossa verticale appare raddoppiata, nella zona di confine tra le colonne relative alle lettere domenicali e quelle recanti i giorni del mese. La scrittura è di tipo capitale, con inserzione di lettere onciali e un discreto numero di segni abbreviativi. I caratteri, a seconda delle esigenze testuali, appaiono ora affollati, ora ben distanziati e centrati, e per questo motivo variano leggermente nel modulo, in altezza e larghezza. L’interpunzione è espressa principalmente con punti posti al centro o sul piede del rigo, raramente con riccioli e abbellimenti. Le prime due righe (a, b), pervenute assai mutile e solo per i mesi di Gennaio e Febbraio, precedono la scansione del mese vero e 180 SANTI QUATTRO CORONATI
1
proprio e hanno una diversa impaginazione rispetto al testo che segue. La prima riga (a) conteneva, secondo una tradizione che risale ai calendari romani antichi (ma che ha origini assai più remote) e abbondantemente attestata anche nei manoscritti tra IX e XIV secolo, un motto riferito alle caratteristiche del mese, con particolare riferimento ai suoi dies aegyptiaci, i giorni nefasti. Essa occupava in larghezza l’intero campo epigrafico del Mese, con i caratteri tracciati in colore nero. La seconda riga (b), conteneva, sempre secondo la tradizione, l’indicazione del numero dei giorni e delle lune di ciascun mese, ed era invece tracciata in colore rosso. Essa occupava in larghezza circa i due terzi del campo epigrafico, una porzione grosso modo corrispondente allo spazio utilizzato, nella parte sottostante, dall’intera colonna del santorale e da una metà circa della colonna relativa ai giorni del mese. In questo Calendario non vi era invece spazio per ulteriori indicazioni quali il numero delle ore del giorno e della notte, i segni zodiacali o alcuni motti supplementari, di solito posti sia in testa che in coda alla seriazione. I numeri aurei sono tracciati in nero, come pure le lettere domenicali, con l’eccezione della sola lettera A di inizio sequenza, che è in rosso. I caratteri epigrafici relativi ai giorni del mese, espressi secondo il sistema calendariale romano antico, sono ancora tracciati in rosso; quando il testo è assai esteso, esso esorbita anche dalla colonna corrispondente e sconfina in quella del santorale. I nomi dei santi, i loro epiteti e gli ulteriori elementi testuali correlati, sono tracciati sia col rosso che con il nero e di solito sono espressi in genitivo; i caratteri epigrafici relativi alle feste fisse sono sempre dipinti in rosso ed espressi in caso
Ianuarius [1] a) [Ianus prima dies et sept]ima f[in]e tenetu÷ b) [Ian]úa÷îú(s) · í(abet) éîês XXXI · lun(as) · XXX 1 [III] //Æ // Њ(a)ñŠ(endas) · Îæó(uarii) // circu(m)cisio é(omi)óî Î(hsus?) s(ancti) Basilii · ø(an)è(te) Ma^r^ùîn(e) 2 // // Ç // IIII Non(as) // · s(ancti) · Thelespô÷[i] õ(a)õ(e) · [(et)]· m^(a)÷^(tyris) · 3 [XI] // È // IÎÎ // · s(ancti) · Anthêr[i p(a)p(e) (et) m^(a)r^(tyris)] 4 // É // IÎ // 5 [XIX] // [E] // Nonas // 6 [VIII] // Ë // [V]ÎÎÎ [Id(us)] // [epiph]æ(nia) d(omi)ni · n(ost)÷î [---?] 7 // [G] // VIÎ // 8 [XVI] // [A] // [V]Î // 9 [V] // [B] // V // 10 // È // IIIÎ // · s(ancti) Pauli P÷imi · erêmite · 11 [XIII] // D // ÎÎI // s(ancti) · (H)igi(n)i p(a)p(e) · (et) m(a)r(tyris) s(an)c(ti) · Gregorii? Óaÿanìeni · 12 ÎÎ // E // IÎ // 13 // F // Idus · // oct(ava) epiph(ania)e · (êù) ø(ancti) Îlariî êõ[i(scopi)] · 14 X // G // XIX KŠ(a)ñŠ(endas) // Ë[eb]÷(uarii) s(ancti) Felî[ci]ø in Õ[i(n)]èîø 15 // A // XÛÎII // · s(ancti) Mauri · abbatis · 16 [XVIII] // B // XVII // s(ancti) M^a^r^celli · p(a)p(e) · (et) · m^(a)r^(tyris) · 17 [VII] // C // XV[I] // s(ancti) · Antonii abb(at)is · s(ancti) Wilîel[m]i Bituri(censis) ¦ a^^r^chiepi(scopi) 18 // D // XV // s(an)c(ta)e Prisce virg(inis) · (et) m^(a)r^(tyris) · 19 [XV] // E // ÝÎÎIÎ · [s(ancti)?] // Marii · Ma^r^t^he ·Audîëax · (et) AŠb^bacu(s) 20 [IIII] // Ë // XIII // s(ancti) Sebastiani · (et) Ëabiani · m^(a)r^(tyrum) 21 / [G] // [X]ÎÎ // ø(an)è(t)ê Æìó^êù^ îø · ûî÷ìîó(îø) [(et) m^(a)r^(tyris)] 22 [XII] // [A] // [XI] // [---] 23 [I] // [B] // [X] // [---] 24 // [C] // [VIIII] // [---] 25 [IX] // [D] // [VIII] // [---] 26 // [E] // [VII] // [---] 27 [XVII] // [F] // [VI] // [---] 28 [VI] // [G] // [V] // [---] 29 // [A] // [IIII] // [---] 30 [XIIII] // [B] // [III] // [---] 31 [III] // [C] // [II] // [---]
a): il Klauser, pur ravvisando la possibile presenza di un verso indicante le caratteristiche del mese, non integra il motto relativo ai dies aegyptiaci e riporta in apparato solo un’ipotetica lettura del gruppo SIVR, posto a metà circa del rigo. L’integrazione, invece, è certa, sulla scia delle fonti manoscritte e letterarie, tra le quali l’incipit del c.d. Martirologio di Beda (PL CXXXVIII, c. 1293 ss.), in cui il testo è identico al nostro, o il Computus Vulgaris dello pesudo Beda (cfr. la sezione De diebus Aegyptiacis, in PL XC, cc. 955-956), dove si riscontra la variante timetur in luogo di tenetur, senza che cambi sostanzialmente il significato del verso (cfr. ancora PL CXXXIX, c. 1203). Ma sono attestate altre varianti di questo stesso motto, come ad es. quella che porta nel finale il lemma minatur per tenetur o quella terminante con a fine tenetur (cfr., ad es., Puigvert I Planagumà [1990-1991], 44, con citazione di ulteriori versioni, anche molto diverse, dei vari motti). b): il Klauser stranamente sembra aver visto proprio l’unica porzione del testo attualmente mancante: JAN[VARIVS ecc.], ma qui potrebbe aver riportato erroneamente il testo visibile al r. 1, relativo alle calende di gennaio. 1-31 gennaio: Klauser omette i numeri aurei per questo mese e trascrive solo le lettere domenicali relative ai giorni 3 e 6 e 13-20 gennaio oltre a differenti letture dei giorni della settimana. 1 gennaio: il nesso iniziale KL per KALENDAS, di modulo maggiore, esorbita sul rigo superiore (cfr. anche i mesi successivi). Klauser: CIRCUMCISIO ET MARTINE MAR. (con citazione in apparato per san Basilio). I caratteri delle prime due I di circu(m)cisio sono inscritti all’interno delle C. Dopo DNI resti di un carattere forse per I(HSVS). 2 gennaio: Klauser: [B], [NON.], S. [THE] LESP[HORI PP. ET MR.. 3 gennaio: Klauser: ANTHER[OS]. 4 gennaio: Klauser: [D]. 5 gennaio: Klauser: NONAS; 6 gennaio: Klauser: [VIII ID.] e [EPIPHANIA DOMI]NI NOSTRI, ma per motivi di spazio è impossibile integrare per esteso epiphania (cfr. 13 gennaio); forse alla fine seguiva la formula IHS XPI. 7 gennaio: Klauser: VI[I]. 8 gennaio: Klauser: [VI]. 9 gennaio: Klauser: [V]. 10 gennaio: Klauser: [C IIII]. Prima I di Primi è soprascritta. 11 gennaio: Klauser: dopo S. HIGII PP. ET MR., pone una lacuna mentre in apparato aggiunge la dubbia lettura ...SCOR....INI...L, ipotizzando la presenza di Gregorio di Nazianzo o del Nisseno. Oggi è possibile restituire il toponimico Nazangeni (o Nazanceni), relativo a san Gregorio, di cui però non si rinviene il nome; infatti, prima del toponimico è possibile leggere solo l’abbreviazione per sanctus e un’ulteriore sequenza di tre lettere, apparentemente in nesso, di difficile interpretazione. 13 gennaio: Klauser: [ID.] e [OC]T[AVA EPIPHANIE ET] S. HILARII PP, ma non sono presenti l’aspirazione in Hilarii né l’abbreviazione PP; 14 gennaio: Klauser: XIX KAL. FEB. S. FELICIS [NOLA]NI...., anche se [NOLA]NI è ritenuto incerto; ma ora è restituibile il toponimo in Pincis, relativo a san Felice di Nola. 15 gennaio: Klauser: X[VIII]. 17 gennaio: Klauser: X[VI] S ANTONII ABB. S. SVLPICII BITURIC. ARCHIEPI; qui in luogo di san Sulpicio si legge chiaramente il nome di san Guglielmo, sempre di Bourges, canonizzato nel 1218, cui il Klauser fa riferimento in apparato per la data del 10 gennaio, come accennato nei martirologi storici per quel giorno. Per motivi di spazio il titolo di arcivescovo è spostato alla riga successiva. 19 gennaio: Klauser: XII[II] S; poi ABBACV[M]; ma la S di sanctus non compare nella colonna del santorale. 21 gennaio: Klauser: omette il rigo. Februarius [2] a) Quæ÷ta suçit ò[orte(m) p]÷(e)èêdit [t]ê÷ùîa sô÷ùê(m) b) Feb÷(uarius) í(abe)ù · diês · XÝ[V]IIÎ · lun(as) · XXÎ[X] 1 // D // Њ(a)ñŠ(endas) · Fe(b)r(uarii) · // s(ancte) Çrigide · vir(ginis) · (et) Ignatîi ê[pi(scopi)] (et) m^(a)r^(tyris) 2 XÎ // E // IIII · Non(as) · // pú÷îëîcatio · ç(eate) · vi[r(ginis)] +[-]+ 3 ÝIX // F // III // s(ancti) Ç[l]asii ê[p]î(scopi) · (et) m^(a)r^(tyris) · SANTI QUATTRO CORONATI 181
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4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14
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VIII // Ì // ÎÎ // s(ancti) Ì[i]ñbertî · (con)fes(s)or(is) · // A // Nonas // s(an)è(t)ê AìæùŠíŠe· vî÷gînis · (et) m^(a)r^(tyris) · XÛI // B // VIII <I>d(us) // Û // C // VII // s(ancti) · Hugonis · Li(n)colniens(is) · epi(scopi) (et) (con)ë(essoris) // D // VI // XIII // E // V // ÎÎ // Ë // ÎIII // ø(an)è(ta)ê Scolastî[ce] virg(inis) · // G // IIÎ // X // A // ÎÎ // // Ç // Iduø // [---?] XVIII // C // XVI · Њ ( a)ñŠ ( endas) // [Mar(tii) s(ancti)] [Valen]ùini · p(res)b(yte)ri · (et) m^(a)r^(tyris) VÎI // D // XV // [---?] // E // XIIII // [---?] ÝÛ // F // XIII // [IIII] // [G] // ÝÎÎ // [---]
19 20 21 22 23 24 25 26 27 28
// [A] // [XI] // [---] [XII] // [B] // [X] // [---] [I] // [C] // [VIIII] // [---] // [D] // [VIII] // [---] [IX] // [E] // [VII] // [---] // [F] // [VI] // [---] [XVII] // [G] // [V] // [---] [VI] // [A] // [IIII] // [---] // [B] // [III] // [---] [XIIII] // [C] // [II] // [---]
a): Klauser: JVATA SVNT..... L’incipit di Beda ha in questo caso “Ast Februi quarta est, procedit tertia fini” (PL CXXXVIII, c. 1294), la cui parte finale muta talvolta in “praecedit tertiam finem” (cfr. Comp. Vulg. dello pesudo Beda, De diebus Aegyptiacis, PL XC, cc. 955-956); altre versioni di questo motto riportano tertia in luogo di tertiam (es. in PL CXXXIX, c. 1204), Februari SANTI QUATTRO CORONATI 183
in luogo di Februi, oppure omettono est (cfr. PL CXXXIX, cc. 1265-1266); ulteriori versioni appaiono invece identiche al nostro motto anche relativamente al primo emistichio: ad es. «quarta subit mortem, prosternit septima fortem», con le varianti subiit pro subit, tercia pro septima, sortem pro fortem, ecc. (cfr. ad es. Puigvert I Planagumà [1990-1991], 44). Il motto di Febbraio ci appare dunque come una contaminazione di due diverse tradizioni. b): il numerale finale è espresso nella forma XXIX (in luogo di XXVIIII), in analogia con quelle più spesso utilizzate nel testo epigrafico. Klauser: [FEB]RVARIVS HABET DIES XXVIII [LVNAS XXVIIII]. 1 febbraio: nesso KL per KALENDAS, incompleto, di modulo maggiore come per altri mesi (cfr. Gennaio). Klauser: [KAL.] FEB. S. BRIGIDE [ET S. IGNATII MAR.]; la lettura ê[pi(scopi)] non è sicura ma assai probabile. 2 febbraio: caratteri non distinguibili: forse nesso di più lettere per Mariae. Klauser: PVRIFICATIO [S. MARIE]. 3 febbraio: Klauser: [S. BL]ASII EPI. ET MR. 4 febbraio: Klauser: [GILB] ERT[I] STEPER. [EPI. ET CONF.]; ma ora dopo il nome è possibile leggere solo (con)fes(s)or(is) per esteso. 5 febbraio: Klauser: S. e VIRG.. 6 febbraio: Klauser: VIII ID.; ma la prima I di IDVS, probabilmente assimilata, per un errore nel computo, con l’ultima unità di VIII, è mancante. 7 febbraio: Klauser: [V] e LINCOLNIEN; 13 febbraio: si intravedono alcune labilissime tracce di colore rosso; 14 febbraio: Klauser: XVII[I]; [MAR.] S. VALENTINI PRI. ET MR.; 18 febbraio: Klauser: omette il rigo. Martius a) [------] b) [Martius habet dies XXXI lun(as) XXX] 1 [III] // [D] // [KŠ(a)lŠ(endas) Mar(tii)] // [---] 2 // [E] // [VI Non(as)] // [---] 3 [XI] // [F] // [V] // [---] 4 // [G] // [IIII] // [---] 5 [XIX] // [A] // [III] // [---?] 6 [VIII] // [B] // [II] // [---?] 7 // [C] // [Nonas] // [---] · s(ancte) Pe[r]õê[t(ue) (et) Feli]è(i)t^a^tis 8 [XVI] // [D] // [VIII Id(us)] // [---]+? 9 [V] // [E] // [VII] // [---]VAL[---] · +L++ 10 // [F] // [VI] // [---?] 11 [XIII] // [G] // [V] // [---?] 12 [II] // [A] // [IIII] // [--- Gr]êgô[rii] p(a)õ(e) · 13 // [B] // [III] // [---?] 14 [X] // [C] // [II] // [---?] 15 // [D] // [Idus] // [--- s(ancti) Lo]ngini m^(a)r^(tyris) 16 [XVIII] // [E] // [XVII KŠ(a)lŠ(endas) Apr(ilis)] // [---?] 17 [VII] // [F] // [XVI] // [---?] 18 // [G] // [XV] // [---?] 19 [XV] // [A] // [XIIII] // [---?] 20 [IIII] // [B] // [XIII] // [---?] 21 // [C] // [XII] // [--- s(ancti)] Çê[n]edicti abba^t^is 22 [XII] // [D] // [XI] // [---?] 23 [I] // [E] // [X] // [---?] 24 // [F] // [VIIII] // [---?] 25 [IX] // [G] // [VIII] // [---? annunciat]îô bê(ate) Ò(arie) · vir[g(inis)] 26 // [A] // [VII] // [---?] 27 [XVII] // [B] // [VI] // [---?] 28 [VI] // [C] // [V] // [---?] 29 // [D] // [IIII] // [---?] 30 [XIIII] // [E] // [III] // [---?] 31 [III] // [F] // [II] // [---?] 7 marzo: la restituzione proposta non è l’unica possibile poiché i nomi di Perpetua e Felicita, la cui presenza è da considerarsi sicura, potevano essere espressi in altro modo, ad es. con l’utilizzo di differenti tipi di nessi. Non sembra accettabile la restituzione per esteso del Klauser S. PE[R]PET[VAE ET FE]LICITATIS. 184 SANTI QUATTRO CORONATI
9 marzo: restituzione incerta; Klauser: non restituisce e ipotizza, sulla scia dei martirologi storici, la presenza della festa dei 40 martiri armeni di Sebaste, uccisi nel 320 d.C. durante la persecuzione di Licinio Valerio. Sarebbe assai suggestivo riconoscere nei caratteri superstiti la presenza di quell’imperatore e restituire un testo del tipo: XXXX m^(a)r^(tyrum) Val[eri(i)] · Lîè(inii); ma ulteriori restituzioni sono possibili. 12 marzo: Klauser: [S GR] EG[ORII] PP. 15 marzo: Klauser: [S] LONGINI MR.; ma il primo editore non dovrebbe aver visto la parte iniziale del nome, dato lo stato lacunoso del lacerto pittorico. 21 marzo: Klauser: [S.] BENEDICTI ABBATIS. 25 marzo: Klauser: VIRG. In realtà allo stato attuale sono possibili sia le restituzioni vir[g(inis)] che vir(ginis). 26-28 marzo: è possibile che il campo epigrafico relativo agli ultimi tre giorni del mese, oggi perduti, fosse almeno in parte attraversato da una linea curva dipinta, di cui si intravede l’inizio in corrispondenza del giorno 25. Aprilis [3] a) [------] b) [Aprilis habet dies XXX luna(s) XXIX] 1 // [G] // [KŠ(a)lŠ(endas) Apr(ilis)] // [---] 2 [XI] // [A] // [IIII Non(as)] // [---] 3 // [B] // [III] // [---] 4 [XIX] // [C] // [II] // [---] 5 [VIII] // [D] // [Nonas] // [---] 6 [XVI] // [E] // [VIII Id(us)] // [s(an)c(t)i Xysti?] p(a)pe · (êù) ò^(a)r^(tyris) · 7 V // F // VII // 8 // G // VI // 9 XIII // A // V // 10 [II] // B // IIII // 11 // C // III // ø(an)c(t)i · Leonis · p(a)p(e) · 12 X // D // II // s(an)c(t)i · Iulii · p(a)p(e) · 13 // E // Idus // 14 XVIII // F // XVIII · KŠ(a)lŠ(endas) // Maii s(an)c(t)i Tiburtii · (et) Valeriani · 15 VII // G // XVII // 16 // A // XVI // 17 XV // B // XV // s(an)c(t)î ·Aniceti · p(a)p(e) · (et) m^(a)r^(tyris) · 18 IIII // C // XIIII // 19 // D // XIII // 20 XIÎ // Ê // XII // 21 I // F // XI // 22 // G // X // s(an)c(t)i · Sot^^hŠeri£s¤ p(a)pe · (et) m(artyris) Gaii · p(a)pe · (et) m(artyris) · Agapiti 23 ÛII[II] // Æ // VIIII // s(an)c(t)i · Georgii · mart(y)ri(s){i} 24 // B // VIII // s(an)c(t)i · Be<ne>dicti p(a)p(e) · II · (obiit) R(iccardus) · comes · pat(er) S(tephani) +++ 25 XVII // È // VII // s(an)c(t)i · Marci · ev^a^ng(eliste) (et) letanie · maioris · 26 ÛÎ // D // VI // s(ancti) Cleti · p(a)pe · (et) m(artyris) Marcelñini · p(a)pe (et) m(artyris) 27 // E // Û // s(ancti) Anastasi · p(a)p(e) · 28 ÝÎÎÎI // Ë // [IIII] // s(ancti) Vitalis · martiris 29 [III] // [G] // [III] // 30 // [A] // [II] // [---] 6 aprile: Klauser: manca. La restituzione di san Sisto è abbastanza probabile, sulla scia dei martirologi storici. 11 aprile: papa Leone I Magno è venerato anche il 28 giugno in questo stesso calendario, come già notato dal Klauser. Il medesimo autore nota per questa data il mancato riferimento a san Stanislao di Cracovia (10301079), canonizzato nel 1253 da Innocenzo IV ad Assisi, poi patrono della Polonia, che costituirebbe per lui un terminus ante quem (come nel caso di santa Clara), per la datazione del calendario. 14 aprile: manca qui il nome di Massimo, di solito festeggiato insieme a Tiburzio e Valeriano. 17 aprile: Klauser: [X]V. 22 aprile: Klauser: SOTHERIS. 23 aprile: sull’intonaco: MARTRII, forse
inversione del pictor per MARTIRI (scil. Martyris); 24 aprile: Klauser: SCI BE<NE>DICTI PP. ... mentre in apparato aggiunge, per la parte seguente: .Ø.R. COMES.PAP. (PAT?) SRM. L’attuale interpretazione si deve al Dykmans (1978, 633) che restituì o(biit) R(iccardus) comes pat(er) S(tephani cardinalis), ripresa anche dal Sohn (1997, 17). Lo scioglimento cardinalis tuttavia non appare sicuro, in quanto dei tre caratteri che seguono dopo la S di Stephanus (o Stefanus), il secondo potrebbe essere una C, una E onciale o una O. Forse potremmo restituire Sùêë(ani). 26 aprile: Klauser: V[I]; inoltre omette m(artyris). 28 aprile: Klauser: S. [VITALIS M]ARTIRIS. Maius a) [------] b) [Maius habet dies XXXI lun(as) XXX] 1 [XI] // [B] // [KŠ(a)lŠ(endas) Maii] // [---] 2 // [C] // [VI Non(as)] // [---] 3 [XIX] // [D] // [V] // [---] 4 [VIII] // [E] // [IIII] // [---] 5 // [F] // [III] // [---] 6 [XVI // [G] // [II] // [---] 7 [V] // [A] // [Nonas] // [---?] 8 // [B] // [VIII Id(us)] // [dedica]ùîô · s(an)c(t)i · Michaelis · 9 [XIII] // [C] // [VII] // 10 [II] // [D] // [VI] // [s(an)c(t)o^r^(um)] Gordiani (et) Epimachi · m^(a)r^(tyrum) · 11 // [E] // [V] // 12 [X] // F // ÎÎII // s(an)è(t)ô^÷^(um) [Ne]÷(ei) (êù) Acíîllei atq(ue) · Pa(n)cratii · 13 // [G] // [III] // 14 ÝÛ[III] // [A] // [II] // [s(an)c(t)i Boni]fæù[ii] ò^(a)r^(tyris · (et) Victoris 15 V[II] // [B] // [Idus] // 16 // C // ÝVII Њ(a)ñŠ(endas) // Îún(ii) 17 [XV] // É // XVI // [---] 18 [IIII] // E // XV // [---] 19 // [F] // [XII]Î[I] // [s(a)n(cta)e Pudenti]æne virginis · 20 [XI]Î // Ì // [XI]ÎÎ // [---?] 21 [I] // Æ // ÝÎ[I] // [---?] 22 // [B] // Ý[I] // [---?] 23 [IX] // [C] // [X] // [---?] 24 // [D] // [I]Ý // [---?] 25 [XVII] // [E] // [V]ÎÎ[I] // [s(ancti) Urba?]n[i p(a)p(e)? ---] et m^(a)r^(tyris) 26 [VI] // [F] // [V]ÎÎ // [---?] 27 // [G] // [V]Î // [---?] 28 [XIIII] // [A] // [V] // [---] 29 [III] // [B] // [IIII] // [---] 30 // [C] // [III] // [---] 31 [XI] // [D] // [II] // [---] 8 maggio: Klauser: DED SCI MICHAELIS. In teoria è possibile integrare con i termini dedicatio, revelatio e apparitio. 10 maggio: data l’esiguità dello spazio in lacuna potrebbe essere valido anche il supplemento s(ancti) o s(an)ct)i riferito al primo dei due santi, come restituito in Klauser. 12 maggio: Klauser: SCOR ACHILLEI ATQ PANCRA[TII]; ma l’integrazione [Ne]÷(ei) (êù), esclusa dal Klauser, è assai probabile; si intravedono appena la R di Nereus e un segno interpretabile come nota tironiana per ET. 14 maggio: Klauser: riporta interamente sia la lettera domenicale A che il giorno del calendario II. Si preferisce per motivi di spazio il supplemento SCI in luogo di SCOR in analogia con il Klauser, ma il supplemento non è del tutto sicuro. Klauser: [SCI BONI] FACII MR ET VICTORIS. 16 maggio: Klauser: XVII KL. IVN. L’integrazione IVN è assai probabile, sebbene il testo sia quasi del tutto evanido. 17 maggio: Klauser: XVI. Nella colonna relativa al santorale si intravedono labili tracce di colore. 18 maggio: Klauser: XV. Anche qui labili tracce di colore nella colonna relativa al
santorale. 19 maggio: Klauser: [XIIII SCE PVDENTIA]NE VIRGINIS. 20 maggio: Klauser: [XII]. 21-27 maggio: in alcuni di questi giorni sembrano intravedersi labilissime tracce di colore. 22 maggio: Klauser: [XI]; 24-27 maggio: Klauser: integra tutti i numerali in 24 maggio: [VIIII] . 25 maggio: Klauser: [S VRBA] N[I PP.], la restituzione è considerata sicura dal primo editore, ma l’unica lettera a suo tempo interpretata non è più visibile. Il Klauser afferma in apparato di aver letto sullo stesso rigo anche ET MR., non riferibile, però, a papa Urbano. Iunius a) [------] b) [Iunius habet dies XXX luna(s) XXIX] 1 // [E] // [KŠ(a)lŠ(endas) Iun(ii)] // [---] 2 [XIX] // [F] // [IIII Non(as)] // [---] 3 [VIII] // [G] // [III] // [---] 4 [XVI] // [A] // [II] // [---] 5 [V] // [B] // [Nonas] // [---] 6 // [C] // [VIII Id(us)] // [---] 7 ÝÎÎÎ // É // [VII] // [---] 8 II // E // VI // [s(an)c(t)i] Guilielmi · Eboracens(is) [---?] 9 // F // V // [s(an)c(t)o]÷(um) Primi · (et) Feliciani [m^(a)r^(^ tyrum) ---?] 10 X // G // IIII // 11 // A // IIÎ // [s(an)c(t)i] Barnabe · ap(osto)li [---?] 12 ÝVIII // B // II // [s(an)c(t)o]÷(um) Basilidis · Cirini · Nabo÷îø [---?] 13 ÛÎÎ // C // Idus // [s(an)c(t)i] Antonii · co(n)f(essoris) · de o÷dine fr(atruum) ò[in(orum)] 14 // D // ÝVIII Њ(a)[lŠ(endas)] // [I]úlii · 15 Ý[V] // E // ÝÛII // [s(an)c(t)]or(um) Viti · (et) Modesti · m^(a)[r^^(tyrum) ---?] 16 [I]ÎÎÎ // [F] // XVÎ // 17 // £G¤ // XV // 18 XII // A // XÎIÎI // [s(an)c(t)]or(um) · Marcelliani · (et) Ma÷[ci m^(a)r^^(tyrum) ---?] 19 [I] // Ç // ÝÎÎI // [s(an)c(t)]or(um) Gervasii · (et) Õ(÷ô)ùaø[ii m^(a)r^^(tyrum) ---?] 20 // È // X[II] // [s(ancti) Si]ñverii· p(a)pe · (et) ò^(a)r^(^ tyris) --- ?] 21 ÎÝ // D // Ý[I] // 22 // Ê // [X] // [s(ancti)i?] Pauñ[i]ni · epi(scopi) [---?] 23 [XVI]Î // [F] // [IX] // [vi]£ì¤(ilia) ø(an)c(t)i [I]oh(ann)is · b[aptiste ---?] 24 Û[I] // [G] // [VIII] // [na]ùivîùæø · ø(an)è(t)î [Ioh(ann)is baptiste] 25 // [A] // [VII] // 26 [XIIII] // [B] // [VI] // [s(an)c(t)orum I]ôí(ann)is · (et) Õæú[li ---?] 27 [III] // [C] // [V] // 28 // [D] // [IIII] // [s(an)c(t)i L]êonis õ(a)õ(e) [---?] 29 [XI] // [E] // [III] // [s(an)c(t)or(um) a]õ(osto)lo^÷^(um) Õêù[ri et Pauli] 30 // [F] // [II] // [---]+R+[---]++[---] 7 giugno: manca la trascrizione di questa riga nel Klauser, ma si vedono parte del numero aureo e della lettera domenicale. 8 giugno: si preferisce, per ragioni di spazio, il supplemento SCI. in luogo di S., come in Klauser, che erroneamente riporta anche GVLIELMI. 9 giugno: Klauser: [SCOR.]; il supplemento m^(a)r^^(tyrum) è probabile ma non certo. 10 giugno: Klauser: [X]. 11 giugno: Klauser: [S.], ma si preferisce integrare [s(an)c(t)i] piuttosto che [s(ancti)]. 12 giugno: Klauser: [XVIII]; poi [SCOR.]. 13 giugno: Klauser: [VII], poi [S.]. Anche in questo caso si preferisce, per ragioni di spazio, il supplemento [s(an)c(t)i] piuttosto che [s(ancti)]; ancora Klauser: CONF. E [MIN.]. 15 giugno: Klauser: [XV E]; poi ancora [S]COR. 16 giugno: Klauser: [IIII F]. 17 giugno: la forma di questa lettera domenicale ricorda piuttosto quella di una S, e appare integrata in Klauser. 18 giugno: SANTI QUATTRO CORONATI 185
29 30 31
4
Klauser: [XII A]. 19 giugno: Klauser: [A]. Di PROTASII restano soltanto una piccola porzione del segno abbreviativo per PRO, l’asta orizzontale della T e la parte superiore della S. 20 giugno: Klauser: [C] XII e [S. SIL]VERII PP ET [MR.]. 21 giugno: Klauser: [VIII]. 22 giugno: Klauser: [E] X [S]COR PAVLINI EPI. [ET MILLE CCCLXXX MR]; la lettura iniziale [S]COR. non è sicura anche sulla base del riscontro con le fotografie storiche, che dimostrano come lo stato della lacuna dell’intonaco fosse all’epoca simile a quello attuale. Ugualmente, il supplemento finale non è certo, anche per motivi di spazio. Si potrebbe forse integrare s(an)c(t)i Paul[i]ni epi(scopi) (et) conf(essoris). 23 giugno: Klauser: [XVI] F [VIIII]; appare dubbia anche la lettura VIG., per i motivi suesposti. Anche la lettera G di vigilia, sebbene quasi tutta in lacuna, sembra essere del tipo simile ad una S. 24-31 giugno: Klauser omette i supplementi per numeri aurei, lettere domenicali, e date calendariali. 24 giugno: Klauser: NATIVITAS. SCI. I[OHIS BAPTISTE], ma si veda supra. 26 giugno: il testo è molto lacunoso ma leggibile. Klauser: SCOR. IOHIS ET PAV[LI]. 28 giugno: Klauser: [S. L]EONIS PP. [ET VIG. SCOR. PETRI ET PAVLI], ma il supplemento non è del tutto sicuro, per motivi di spazio. Poteva anche figurare il solo lemma VIGILIA. 29 giugno: il supplemento non è del tutto sicuro, ma assai probabile. 30 giugno: scarsi resti di lettere non facilmente interpretabili: il terzo carattere da sinistra, dopo la lettera R, può essere una C, una E onciale, o una O. Klauser afferma che non è possibile una lettura del testo, ma propone [S. PAVLI]. Iulius Il testo risultava completamente perduto già a i tempi del Klauser. Augustus a) [------] 186 SANTI QUATTRO CORONATI
b) 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28
[Augustus habet dies XXXI luna(s) XXX] [VIII] // [C] // [KŠ(a)lŠ(endas) Aug(usti)] // [---] [XVI] // [D] // [IIII Non(as)] // [---] [V] // [E] // [III] // [---] // [F] // [II] // [---] [XIII] // [G] // [Nonas] // [---] [II] // [A] // [VIII Id(us)] // [---] // [B] // [VII] // [---] [X] // [C] // [VI] // [---] // [D] // [V] // s(ancti) · Rô[mani? M^(a)r^^(tyris) ---] [XVIII] // [E] // [IIII] // s(ancti) Læu÷êntii lêûî[te] ++ [---?] [VII] // [F] // [III] // s(ancti) Tibú÷ùii (êù) Susæóne [---?] // [G] // [II] // [XV] // [A] // [Idu]ø // s(an)c(t)i Þpolitî (et) socioru(m) · ei(us) [IIII] // [B] // [XIX KŠ(a)]lŠ(endas) // Øêõù(embris) ø(ancti) Eusêç[i]î p(res)b(yte)ri (et) c(on)f(essoris) · vig(ilie) · s(ancte) · M(arie) · v(irginis) · // [C] // [XVIII] // [a]ssuò^(p)ù^îô beatissime · vi(r)g(inis) · Marie · [XII] // [D] // [XVII] // [---?] [I] // [E] // [XVI] // [-]+É?++S[---]+Æ[--]×[---] // [F] // [XV] // s(anct-) [---] // [IX] // [G] // [XIIII] // [---]++[---]+++ [---]++[---]+[---] // [A] // [XIII] // [s(ancti)] Iu^lŠ[ii ---]+[---] [XVII] // [B] // [XII] // [---] [VI] // [C] // [XI] // ++[---]+[---] // [D] // [X] // [---?] [XIIII] // [E] // [IX // [-]++[---] [III] // [F] // [VIII] // [s(an)c(t)]î [B]arthôlôò[ei a]õ(osto)ñî [---?] // [G] // [VII] // [---]+ÍÊ[---] [XI] // [A] // [VI] // [---?] [XIX] // [B] // [V] // [-]++++[---]+[---]+[--]Ì++[--]+[---?]
// [C] // [IIII] // [-]+[--]++[--]+[--]+[---]+[--]+[---] [VIII] // [D] // [III] // [---?] // [E] // [II] // [---?]
1-31 agosto: mancano completamente i numeri aurei, le lettere domenicali e le datazioni calendariali (una sola lettera al 13 agosto). 9 agosto: la lettura del carattere successivo alla lettera R non è sicura; potrebbe trattarsi di O ma anche di E onciale. Il Klauser propose S. R[OMANI MR. ET VIG. S LAVRENTI], sulla scia dei martirologi storici. Inoltre, la festa della vigilia di san Lorenzo potrebbe essere resa con il solo lemma vigilia. 10 agosto: è possibile che resti dei caratteri appena visibili a fine rigo, omessi nella trascrizione del Klauser (che restituisce solo S. LAVRENTII LEV[ITE]), possano interpretarsi con (êù) ò^(a) [r^^(tyris)]. 12 agosto: il Klauser notava la mancanza della festa di santa Chiara di Assisi, canonizzata nel 1255, possibile terminus ante quem per la datazione del calendario (l’intero rigo sembra infatti anepigrafe). 14 agosto: Klauser: [VXIIII KL.] SEPT.; poi PRBI e omissione di (et) c(on)f(essoris). 15 agosto: Klauser: [A] SSUMPTIO e VIRG. 17 agosto: la proposta di integrazione del Klauser [OCTAVA] S. [L]A[VRENTII] è suggestiva, ma non sicura, stando a quanto resta dei caratteri epigrafici. Si intravedono infatti tracce di lettere D, quindi di aste verticali, forse pertinenti a due caratteri, seguite da una S, una lacuna di tre lettere, tracce di una successiva lettera (forse una T) e quindi di una A; poi segue lo spazio per ancora due lettere e una R, prima della lacuna finale. 18-19 agosto: nella sua trascrizione il Klauser pone correttamente sotto queste date le memorie di Agapito e Giulio, sulla scia delle fonti antiche. Tuttavia, la lettura S. [AGA]P[ITI] M[R.] non è da ritenersi sicura per quanto riscontrabile sulla parete alla data del 18 agosto, dove rimane solo una lettera S iniziale; potrebbe invece essere compatibile con quanto resta al giorno successivo. Analogamente, la lettura [S.] IVL[II] appare incompatibile con quanto riscontrabile per la data del 19 agosto, dove si vedono labilissime tracce di caratteri epigrafici (al centro il gruppo PI, PL, o PT), ma invece possibile per il rigo successivo (20 agosto); ciò induce a pensare ad un errore per sfalsamento delle righe nella successione proposta del Klauser (che ha operato una sorta di correzione del testo) ma forse anche nella scansione dello stesso calendario (che avrebbe così posticipato di un giorno le menzioni dei relativi santi). 20 agosto: a suffragio di quanto appena ipotizzato, qui il Klauser pone una riga vuota, dove invece oggi si può integrare [s(ancti)] Iu^lŠ[ii ---]+[---]. 21-24 agosto: Klauser pone una serie di punti considerando il testo interamente perduto. 21 agosto: in nota il Klauser aggiunge di aver visto una lettera C che forse, analogamente a quanto detto sopra, può essere riferita al giorno successivo. 22 agosto: ciò che resta della prima lettera visibile, in rosso, può essere intrepretato come una C o una O. In quest’ultimo caso sarebbe suggestivo integrare, come già notato dal Klauser in nota, per le feste di quel giorno: o[ctava assum(p)tionis b(eatissimae) vi(r)g(inis) M(arie)]. 24 agosto: solo labilissime tracce di caratteri non identificabili. 25 agosto: Klauser: [S. B]ARTHOLOM[AEI APLI.]. Anche la menzione di san Bartolomeo sembra spostata di un giorno rispetto ai martirologi (cioè dal 24 al 25 agosto) e costituirebbe forse un’ulteriore prova a suffragio dello sfalsamento della sequenza. 26 agosto: il Klauser legge solo una lettera E e propone in nota il supplemento [S. ZEPH]E[RINI PP.]. Effettivamente si legge bene in sinopia il gruppo HE, preceduto però dai resti di una lettera che potrebbe essere sia parte di una P che parte di T. In quest’ultimo caso si potrebbe integrare anche s(an)c(t)i Eleu]ùíê[rii epi(scopi) ---], con riferimento a Eleuterio di Auxerre, sulla base di quanto attestato dai martirologi storici (cfr., invece, la proposta del Klauser per il 9 ottobre). September Del mese di settembre rimane un lacerto di intonaco, assai deteriorato, relativo ai giorni 9-19. Il testo risultava quasi
completamente perduto già ai tempi del Klauser. Rimangono visibili labili tracce di colore rosso, pertinenti ad alcune lettere, relative soprattutto ai giorni 9-10, 12-13, 14-15, ora non più interpretabili, e alle linee di separazione delle righe e delle colonne. October a) [------] b) [October habet dies XXXI luna(s) XXX] 1 [XVI] // [A] // [KŠ(a)lŠ(endas) Oct(obris)] // [---] 2 [V] // [B] // [VI Non(as)] // [---] 3 [XIII] // [C] // [V] // [---?] 4 [II] // [D] // ÎÎ[II] // [---?] 5 // [E] // [II]Î // [---?] 6 [X] // [F] // [II] // [---?] 7 // [G] // [Non]æø // s(an)[c(t)o]÷(um) +[---] Øe÷ìîî (et) B[acchi --- (et) Ap]úñei 8 [XVIII] // Æ // [V]III [Id(us)] // ø(an)[c(t)e] ×[epa]÷æte vi(r)g(inis)] (êù) ò^(a)[r^^(tyris) ---?] 9 [VI]Î // B // V[II] // [---]+++[---]++[-]+[--]ÙIØ Õ++ 10 ++ // [C] // VI // [s(an)c(t)i Cerb]onii [epi(scopi) (et) (con)f(essoris) ---?] 11 [XV] // [D] // V // [---?] 12 [IIII] // [E] // [I]ÎÎÎ // [---?] 13 // Ë // III // [---] ++[---]+?[---?] 14 [XII] // Ì // ÎI // [---]++[---]+++[---?] 15 [I] // Æ // Iduø // [---?] 16 // Ç // XV[II] // Њ(a)ñŠ(endas) Nove(m)ç[ris ---]+[---?] 17 ÛÎÎÎÎ // È // Ý[VI] // [---?] 18 // D // X[V] // [---? S(an)ct)i)] Luc[e eva]ngêñîøùê [---?] 19 [XVII] // [E] // [XIIII] // [---] 20 [VI] // [F] // [XIII] // [---] 21 // [G] // [XII] // [---?] 22 [XIII] // [A] // [XI] // [---] 23 [III] // [B] // [X] // [---] 24 // [C] // [IX] // [---] 25 [XI] // [D] // [VIII] // [---] 26 [XIX] // [E] // [VII] // [---] 27 // [F] // [VI] // [---] 28 [VIII] // [G] // [V] // [---] 29 // [A] // [IIII] // [---] 30 [XVI] // [B] // [III] // [---] 31 [V] // [C] // [II] // [---] Il mese di ottobre si presenta alquanto deteriorato e pertanto la lettura del testo risulta assai problematica. La parte superstite inizia con il giorno 3, sebbene non sia certo che vi fosse del testo iscritto. Il Klauser non riporta i numeri aurei per questo mese. 4 ottobre: Klauser: [IIII]. Non è sicuro che vi fosse del testo su questa riga. Il primo editore suppone di sì, facendo notare che qui andrebbe inserita la festa di san Francesco d’Assisi, canonizzato nel 1228, che doveva essere certamente riportata nel calendario, analogamente a quella di sant’Antonio da Padova del 13 giugno. 5 ottobre: Klauser: [III]. Si intravedono labili tracce di colore rosso. 6 ottobre: Klauser: II | (lettura o integrazione?). Anche per questo giorno è difficile determinare se vi fosse testo iscritto nella colonna del santorale. Forse appaiono labili tracce di colore rosso al centro del rigo (il Klauser non asserisce alcunché in merito). 7 ottobre: Klauser: [NONAS], ma si intravedono labili tracce della A e della S finale. La parte che segue appare di assai difficile interpretazione. Klauser propone la lettura: SCO[R.] SERGII ET B[ACCHI ET AP]VLEI [MR.]; in realtà dopo il s(an)[c(t)o]÷(um) iniziale (rimangono una S sopralineata, tracce di una seconda lettera e resti di una R sopralineata), vi è una breve lacuna (quattro lettere?), quindi si intuiscono appena le lettere S, R, G di Sergio; poi la congiunzione espressa col simbolo derivato dalla nota tironiana, seguita da un folto gruppo di lettere. È possibile, dunque, la presenza di ulteriori nomi di santi, forse quello di Giulia prima di Sergio e Bacco, e forse quello di Marcello prima di Apuleio, SANTI QUATTRO CORONATI 187
variamente abbreviati e con più lettere in nesso, per motivi di spazio. 8 ottobre: altro testo di difficile interpretazione. Il Klauser, in apparato, afferma di aver visto una T sotto il lemma Sergio e allude alla possibile presenza di santa Reparata. In effetti l’ipotesi sembra ben adattarsi a quanto resta delle lettere superstiti. Oggi si intravedono labili tracce della S iniziale, forse parte del gruppo SCE, della R iniziale e del gruppo RA di Reparata, oltre ai resti della congiunzione e dell’abbreviazione per ò^(a)[r^(^ tyr)]. 9 ottobre: altra lettura problematica. Klauser: [SCOR. DIONYSII RVSTICI] ET E[LEVTHERII MR.] oppure anche [ELEV]TE[RII] (in apparato). Si intravedono, soprattutto nel secondo emistichio, tracce di caratteri non identificabili. Alla fine si legge piuttosto TIS P++, meno probabilmente LIS P++. Per Eleuterio cfr. anche quanto detto per la data del 26 agosto. 10 ottobre: la casella relativa al numero aureo dovrebbe comparire vuota, eppure si rinvengono in essa tracce di colore (errore del pictor?). Per il santorale si riporta la lettura del Klauser che vide il gruppo ONII, oggi non più verificabile. 11 ottobre: difficile determinare se vi fosse del testo o meno nella parte relativa al santorale. 12 ottobre: Klauser: [IIII]. Anche in questo caso non è sicuro se vi fosse del testo nella riga del santorale. 13 ottobre: il Klauser indica con dei puntini la presenza di testo illeggibile. Oggi si intravede soltanto un carattere di tipo onciale seguito da una linea retta, al centro, e forse un altro carattere epigrafico alla fine (S?). Il primo è forse il segno di abbreviazione per CON di (èôó)ë(essoris), che andrebbe bene per la restituzione, sulla scia di quanto citato in apparato dallo stesso Klauser in: [s(ancti) Cassii epi(iscopi) (et)] (con) f(essoris); ma i dubbi permangono. 14 ottobre: Klauser: [SCI.] C[ALISTI] seguito da lacuna. Tale lettura non è sicura, anche se la memoria callistiana è la più probabile fra quelle dei santi del giorno. Si vedono solo labili tracce di lettere al centro e alla fine del rigo. 15 ottobre: Klauser: [A]. Anche in questo caso è difficile determinare se vi fosse testo o meno nella colonna del santorale. 16 ottobre: Klauser: [B]; poi XV[IIII] in luogo di XV[II], omissione di L in KL e NOVEM[BRIS] per NOVE(M)B[RIS]. 17 ottobre: Klauser: X[VIII] in luogo di X[VI]. Anche in questo caso è difficile determinare se vi fosse testo o meno nel santorale. 18 ottobre: Klauser: X[VII] in luogo di X[V]. Oggi non si legge più il nome di Luca, la cui presenza è sicura. 19-20 ottobre: il Klauser non riporta questi righi, ma vi si scorgono labilissime tracce di colore rosso. 21 ottobre: anche per questo rigo, ugualmente omesso dal Klauser e di cui rimane un esiguo lembo nella zona in basso a destra dell’affresco, non è possibile arguire se vi fosse del testo epigrafico. November a) [------] b) [November habet dies XXX luna(s) XXIX] 1 // D // Њ(a)ñŠ(endas) Nov(embris) // Festivi^t^as · o(mn)ium · s[anctorum] 2 ÝÎÎÎ // Ê // ÎIÎI Non(as) // Û+[---] 3 ÎÎ // Ë // III // s(an)c(t)i Hilarii ++[---] 4 // [G] // Î[I] // ø(an)è(t)ô÷(um) · Vitaliø (êù) [Agricole m^(a)r^^(tyrum) ---] 5 [X] // Æ // Nonas // ø(an)è(t)î Felicis p(res)b(yte)ri [---?] 6 // [B] // ÛÎÎÎ IŠdŠ(us) // s(an)c(t)i Ñ[e]onæréi conf(esso)r(is) [---?] 7 [XV]ÎÎÎ // [C] // [VI]Î // [---]+[---]+++[---?] 8 [VII] // [D] // Û[I] // [s(an)c(t)or(um) quatuor] coroó[a]ùô[r]uò 9 // [E] // Û // [--- dedicatio] çæ[s]îñice Sañû^æ^ùôri(s) 10 ÝÛ // [F] // IIII // [---]++++ vi(r)g(inis) 11 [IIII] // [G] // III // s(an)è(t)î Ma÷tîni epi(scopi) [(et) s(an)c(t)i Menn]e ò^æ^r^(tyris) 12 // [A] // ÎÎ // ø(an)[c(t)]î Ò[ar]ù[i]ni · [p(a)p(e) (et) m^(a)r^(^ tyris) ---?] 13 [XII] // Ç // Îd[u]ø // [---]+T+[---] 14 Î // È // ÝÛÎÎÎ // Њ(a)ñŠ(endas) Éê[c(embris) s(an)c(t)i L]æú[rentii Dub]ñi(n)ên(sis) · a÷èhiêp(iscopi) · 15 // [D] // ÝVII // [---]Ô+SÓ+[---]ø epi(scopi) [---?] 188 SANTI QUATTRO CORONATI
16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30
[IX] // [E] // XVI // [---?] // [F] // XÛ // [---?] [X]ÛÎ[I] // [G] // [X]IIIÎ // éedicaùî[o basilice s(an)c(t)or(um)] Õêù÷î (êù) Pauli · VI // A // ÝIÎI // s(an)è(t)î Ponù[iani p(a)p(e) et m^(a)r^^(tyris) (et)] Êlþsabeth · // B // X[II] // [---?] XIII[I] // C // XI // s(an)è(t)î Ìêñas[ii p(a)p(e) (et)] èon[f(essoris)] Î[I]Î // D // X // ø(an)[c(ta)e Cecilie] vîrg(inis) · +++ [---] ò^(a)r^^(tyris) // E // VIIII // s(an)c(t)i [Cle]mentiø p(a)õ(e) · (êù) ò^(a)÷^(^ tyris) · (et) ø(ancte) Ëê[l]îc(ita)tis ò^(a)[r^^(tyris)] [XI] // F // VIII // ø(an)c(t)i È[rysog]ôóî mær(tyris) · [XIX] // [G] // VIÎ // [s(an)c(ta)e] Caterine virg(inis) // Æ // VI // s(an)è(t)î [Pet]÷[i]? Æñê(xandrini) [(et) s(ancti)] Siricii epi(scopi) · (êù) ò^(a)÷^(tyris) VIII // Ç // V // [---?] // C // IIII // [---?] [X]VI // É // III // [s(an)c(t)i Sat]u÷ninî mar(tyris) · vigilia Û // Ê // II // ø(an)[c(t)i Andr]êê æp(osto)li ·
1 novembre: Klauser: [KA]L. NOVE. 2 novembre: rigo quasi illeggibile. Il Klauser non restituisce testo avvertendo in apparato della possibile presenza della commemoratio omnium defunctorum. Tuttavia ora si legge appena una lettera V iniziale, che non sembra preceduta dall’epiteto di sanctus, su cui non si può arguire molto (in teoria potrebbe costituire allusione alla festa di san Vittorino di Petovio, vescovo e martire, del 303 d.C.). 3 novembre: Klauser: [F] e SCI. HILARII, senza ulteriore testo. I due caratteri che seguono non sono più distinguibili. Potevano seguire, per Ilario di Viterbo, gli epiteti diac(oni) (et) ò^(a)r^^(tyris); oppure, nel caso di una congiunzione, (et) Valentini ò^(a)r^^(tyrum). 4 novembre: Klauser: [II] e SCI. in luogo di SCOR. Sembra intravedersi un labile segno rosso della nota tironiana per ET, che avvalorerebbe la proposta di integrazione del Klauser per i due martiri bolognesi. 5 novembre: Klauser: [A], poi PR[B.] in luogo di PBRI. È possibile che il testo si concludesse con la menzione del solo presbitero di Terracina, magari seguita da [(et) m^(a)r^^(tyris)]; tuttavia Felice nella passio di san Cesario è associato al culto con sant’Eusebio monaco, e con quest’ultimo è attestato nei martirologi storici. 6 novembre: Klauser: [VIII]. Si tratta di Leonardo abate di Noblac, in Francia (VI sec.). 7 novembre: Klauser: [XVIII C VII]; il testo, ormai pressoché illeggibile, occupava circa i due terzi del rigo. Si intravedono soltanto i segni di una abbreviazione sopralineata all’inizio (forse per SCOR, piuttosto che S o SCI./SCE., data la posizione) e alcune labili tracce di ulteriori caratteri. In apparato Klauser ricorda per questa data la memoria del vescovo e martire di Perugia Herculanius II. 8 novembre: Klauser: [VI]; [SCOR. QVATVOR] CORONA[TORVM]. 9 novembre: Klauser: [V] e, inoltre [... DEDICATIO BASI]LICE SALVATOR[IS]; ma ora si intravedono i resti del gruppo BA- iniziale; il gruppo VA di Salvatoris, di cui rimangono scarse tracce, occupava lo spazio di un solo carattere epigrafico e doveva pertanto essere reso con un nesso; il gruppo finale ORI è dipinto sulla cornice arancione; la S finale poteva essere resa con abbreviazione, se non caduta. Come riportato in apparato dal Klauser, prima della dedicazione c’è spazio per un’ulteriore attestazione, probabilmente quella di san Teodoro. Si potrebbe allora proporre di integrare all’inizio [s(an)c(t)i Theodori m^(a)r^^(tyris) dedicatio etc.]. 10 novembre: Klauser: [XV]. Lettura assai incerta della parte finale; si potrebbe ipotizzare [Ni]ó^õ^í^ê^ vi(r)g(inis), con nesso NP e HE, accettando eventualmente la proposta di lettura del Klauser: [SCOR TRIPHI RESPICII ET NI]N[PHE] VI[RG.]. 11 novembre: Klauser: SCI MARTINI EPI [ET SCI. MENN]E MAR. I caratteri superstiti alla fine del rigo non sono facilmente interpretabili, ma la proposta di restituzione del Klauser è plausibile. 12 novembre: Klauser: [II].
La proposta del Klauser [SCI. MARTIN]I [PP. ET MR.] sembra ora ulteriormente confermata dalla lettura di nuovi caratteri epigrafici. 13 novembre: Klauser: [B] ID[VS]. Nel santorale restano tracce di tre caratteri epigrafici, di cui il primo potrebbe essere forse una L. 14 novembre: Klauser [I C] X[VIII KL.]; poi N. ARCHIE[PI] alla fine. 15 novembre: Klauser: .................. MR. ...........S EPI. In apparato l’editore riporta, sulla scia dei martirologi, la possibilità di integrare [SCI. EVGENII] MR. [ET SCI FELICI]S EPI. Pur essendo assai plausibile la presenza di San Felice e dello spazio sufficiente per almeno due attestazioni, i caratteri superstiti e il tipo di impaginazione non consentono di confermare tale ipotesi di restituzione. All’inizio si legge O, poi un carattere interpretabile quale I o L, una S e probabilmente una N. Non è neppure certo che la carica episcopale posta verso la fine del rigo debba essere direttamente riferita, come nel Klauser, allo stesso Felice. 16 novembre: Klauser: [VIIII]. 18 novembre: Klauser: [XVII G X]IIII. La restituzione del Klauser sulla dedicatio delle basiliche apostoliche sembra oggi ulteriormente confermata dalla presenza di alcuni caratteri epigrafici relativi al nome di Pietro. 19 novembre: Klauser: [VI]. 20 novembre: Klauser: [XII]. 22 novembre: Klauser: [III]. Poi [SCE CECILIE] VIRG. ET MR, ma il supplemento potrebbe essere più esteso, perché in teoria, dopo VIRG e prima del MR. finale avremmo lo spazio per un’ulteriore attestazione. Al centro, si potrebbero restituire forse i tre caratteri quasi del tutto indistinguibili con [(et)] ò^(a)r^^(tyris), oppure ipotizzare l’inizio di un secondo nome. Da escludere, invece, che il lemma finale m^(a)r^^(tyr) possa essere riferito al rigo sottostante e attribuito a santa Felicita, poiché nel rigo sottostante sono già presenti i resti di una abbreviazione sopralineata. 23 novembre: l’attestazione di santa Felicita è da considerarsi sicura, sebbene la parte finale del nome, non interamente intelligibile, possa essere restituita in modi diversi, a seconda del sistema di nessi utilizzati (ad es. Ëê[l]îci^tæ ^ t^ i^ s). 24 novembre: Klauser: SCI C[RYSOGO]NI MAR. 25 novembre: Klauser: [XVIIII] in luogo di [XIX]. La lettura Caterine si deve al Klauser (oggi si intravedono solo i resti di due lettere centrali, non più interpretabili). 26 novembre: Klauser: SCI [PETRI] AL. [MAR ET SCI] SIRICII EPI ET CONF., ma la restituzione non è certa, perché probabilmente troppo estesa. Anche la presenza di Pietro non è del tutto sicura. È possibile, inoltre, integrare pure al(exandrini) e[t]; non c’è invece spazio per l’epiteto ò^(a)÷^(tyris) di Pietro, né per l’epiteto di sanctus nella forma s(an)c(t)i per Siricio, per la cui presenza dobbiamo confidare sulla lettura del Klauser. In fine rigo il primo editore pone CONF. in luogo di ò^(a)÷^(tyris). 30 novembre: si accoglie la proposta di integrazione del Klauser, essendo certa la festa dell’apostolo Andrea, anche se rimane poco testo. December a [------] b [December habet dies XXXI luna(s) XXX] 1 // [F] // [KŠ(a)lŠ(endas) Dec(embris)] // [---] 2 [XIII] // [G] // Î[III] // [---] 3 ÎÎ // Æ // ÎÎ[I] // [---] 4 X // Ç // ÎÎ // [---] 5 // C // Nô[nas] // [---] 6 ÝÛ[III] // È // V[III Id(us)] // [---] 7 VII // E // V[II] // [---] 8 // F // V[I] // [---] 9 XV // G // V // [---] 10 IIII // A // III[I] // [---] 11 // B // III // s(an)è(t)î Dam[a]øi · p(a)õe · (et) (con)ë(essoris) · 12 ÝII // C // II // 13 [I] // D // Idus // s(an)c(ta)e Lucie virg(inis) (et) m^(a)r^^(tyris) · 14 // E // XIX // KŠ(a)lŠ(endas) Ianuarii · 15 [IX] // F // XVIII // 16 // G // XVII // 17 XÛII // A // XVI // s(an)c(t)i · Ignatii · p(a)p(e) · (et) m^(a)r^^(tyris) ·
18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31
Û[I] // B // XV // // C // XIIII // XIII[I] // D // XIIÎ // vigilia · III // E // XIÎ // s(an)c(t)i Thome ap(osto)li · // Ë // ÝÎ // XI // G // X // XIX // A // VIIII // viìilia · // B // VIII // óativitas d(omi)n(i) n(ost)÷i Îh(s)u(s) X[pi(sti)] ÛÎÎÎ // È // ÛÎI // s(an)c(t)i Stepíani protíôm^(a)÷^^(tyris) · // D // ÛÎ // [s(an)c(t)]î Iohan^n^is · apôstoli (et) evæ[ngeliste] [XVI] // Ê // Û // ø(an)è(t)ô÷(um) · in^n^ocenùiu(m) V // F // ÎÎÎÎ // ø(an)è(t)î · Tíômê epi(scopi) · (et) ò^(a)r^(tyris) · // Ì // III // s(an)c(t)i · Ø+[---]+[---] XIÎ[I] // A // II // ø(an)è(t)î Øîl[ve]øù÷[i] epi(scopi) (et) c(on)f(essoris)
1-3 dicembre: Klauser omette interamente questi righi. 4 dicembre: Klauser: [B II]. 5 dicembre: Klauser [C] N[ONAS]. È possibile sia l’integrazione Nô[n(as)] che Nô[nas], ammettendo, nel secondo caso, che la scrittura esorbiti dalla colonna corrispondente, come avviene in altri casi. 6 dicembre: Klauser: [XVIII D]. In teoria qui è plausibile anche anche l’integrazione per esteso [Idus], ammettendo come per il precedente Nonas la possibilità di uno sconfinamento dalla colonna corrispondente. 11 dicembre: Klauser: DAM[AS]I. 12 dicembre: Klauser: [X]II. 15 dicembre: Klauser: [VIIII]. 17 dicembre: Klauser: [XVII]. Si tratta in realtà di Ignazio di Antiochia, erroneamente definito “papa”. 18 dicembre: Klauser: [VI]. 19 dicembre: Klauser: XIV. 20 dicembre: Klauser: XII[II]. 23 dicembre: Klauser: [XI]. 24 dicembre: Klauser: IX. 26 dicembre: Klauser: [VIII]. 27 dicembre: Klauser: V[I] e poi EV[ANGELISTE]. 28 dicembre: Klauser: INNOCENTVM. 29 dicembre: Klauser: [IIII]. Il primo editore precisa che il Tommaso in questione è Thomas Becket di Canterbury, canonizzato nel 1172. 30 dicembre: Klauser: omette il rigo. Si potrebbe forse proporre San Sabino di Spoleto e integrare s(an)c(t)i ·Øæ[bini epi(scopi)], sulla scorta dei martirologi storici. (C.N.)
Note critiche
L’assetto architettonico dell’ambiente, situato nell’originaria navata laterale destra della basilica di Leone IV, risale all’intervento del XIII secolo, quando furono tamponate le arcate della basilica leonina e, all’interno, furono edificate le due pareti sui lati orientale ed occidentale. Nel Duecento era l’ambiente di ingresso alla residenza cardinalizia, considerato sacrestia (Klauser 1935, 40; Sohn 1997, 14, nota 31) o sala dei paramenti (Dykmans 1983, 468). All’esterno, nel sottarco, è visibile una decorazione a girali floreali su fondo chiaro. Il ciclo dipinto sulle tre pareti dell’ambiente testimonia una consuetudine rappresentativa che ha le sue origini nella tradizione classica, come documenta l’esemplare tardo antico, di III secolo, conservato sotto la basilica di Santa Maria Maggiore, rinvenuto nel 1966 (Magi 1972) e, nell’ambito dei manoscritti, il Cronografo del 354 (BAV, Barb. lat. 2154). Verso la metà del XIII secolo il modello compositivo del calendario risulta piuttosto diffuso a Roma ed è documentato dai dipinti non più esistenti della chiesa di Santa Maria de Aventino (¤ 35); dagli affreschi nella torre di San Saba (¤ 37); dai dipinti perduti, ma in origine affrescati sulle pareti esterne del dormitorio dei monaci nell’Abbazia delle Tre Fontane (Bertelli 1970b). L’assetto compositivo di queste decorazioni presenta caratteri comuni: il motivo delle candelabre a suddivisione dei riquadri è utilizzato sia a Santa Maria de Aventino che ai Santi Quattro Coronati; le figure virili che dispiegano verso l’osservatore il rotulo del mese erano campite anche nell’Abbazia delle Tre Fontane, come documenta il disegno di Séroux d’Agincourt (BAV, Vat. lat. 9847, f. 18r), con la differenza che la pergamena SANTI QUATTRO CORONATI 189
si svolgeva in senso orizzontale e che le immagini erano contenute entro architetture trilobate (Maddalo 2007a; Romano 2007, 632). È stato anche sottolineato come la struttura compositiva dei calendari presenti analogie con i modelli librari (Brancone 2004, 82, 97) quasi a «richiamare i calendari anteposti al testo di messali e breviari nei codici manoscritti» (Maddalo 2007a, 587), particolarmente negli esempi di Santa Maria de Aventino e dei Santi Quattro Coronati. La frammentarietà dei dipinti del Celio rende incerta l’identificazione delle monumentali figure virili: potrebbero rappresentare le personificazioni dei Mesi, di santi o di figure veterotestamentarie, in analogia con il Calendario di Bominaco (Lucherini 2000, 163-188). Bertelli (1970b, 53) aveva ipotizzato che nella parte mediana delle pareti fossero rappresentate le attività agricole proprie dei Mesi. La riflessione scaturiva dall’avere visto, alla fine degli anni Settanta, un frammento al di sotto del mese di Dicembre, identificato come un contadino che uccide un maiale. Quest’ipotesi non è stata condivisa da Maddalo, in considerazione del sistema delle aperture dell’ambiente, che non lasciava spazio alla rappresentazione dei lavori propri dei Mesi (Maddalo 2007a, 591, 596 nota 59). È inoltre curioso che Muñoz (1914, 132), al quale si deve il rinvenimento e il restauro del ciclo pittorico, non menzioni questo affresco frammentario, pur soffermandosi sul mese di Dicembre e pubblicandone la fotografia. Le fonti del Calendario, per l’indicazione delle festività liturgiche, sono state individuate nel Santorale romano, negli Ordines del Laterano e di San Pietro, databili alla fine del XII secolo, e ne è stata rilevata la coincidenza con il Sacramentario di Anagni e, in modo meno serrato, con il Calendario di Bominaco (Maddalo 2007a, 591). Nella citazione dei santi particolare rilievo è dato ai vescovi romani: all’11, 12, 17 aprile sono ricordati i papi Leone (440-461), Giulio I (337-352), Aniceto (155-166); al giorno 22 sono indicati Sotero (166-175), Gaio (283-296) e Agapito I (535-536); al 24 Benedetto II (684-685); Cleto (79-90/92) e Marcellino (296-304) al 26; al 27 Anastasio I (399-401) (Sohn 1997, 16, nota 38; Draghi 1999b, 117; Maddalo 2007a, 591). Sono inoltre celebrati nel Mese di Gennaio i martiri romani Prisca (18), Sebastiano (20) e Agnese (21). Esigua è la presenza di santi non romani: Paolino da Nola (22 giugno), Ilario da Viterbo (3 novembre), Vitale e forse Agricola da Bologna (4 novembre), Felice da Terracina (5 novembre); Felice di Nola (14 gennaio). Ignazio di Antiochia è ricordato due volte: il 1 febbraio e il 17 dicembre, dove è erroneamente indicato come papa (Klauser 1935, 32, 38; Maddalo 2007a, 592). L’accoglienza del calendario liturgico franco ha apportato numerose aggiunte al testo dei Santi Quattro, quali le ricorrenze della Circoncisione (1 gennaio), della Purificazione (2 febbraio), dell’Assunzione (15 agosto); anche la celebrazione di Marco al 25 aprile appartiene al completamento delle festività apostoliche operato dalla liturgia franca (Klauser 1935, 20, 24, 29, 35-36). Al 24 aprile, accanto al nome del pontefice Benedetto II, è attestata la memoria di Riccardo Conti, duca di Sora, fratello di Innocenzo III e padre del cardinale Stefano, che è il probabile committente ed ispiratore della decorazione che riveste gli ambienti del livello terreno e del primo piano del palazzo (Dykmans 1978, 633; Id. 1983, 468). Il sostegno di Riccardo alla politica espansionistica nel Lazio del pontefice Innocenzo III fu determinante, come altrettanto risoluto ed efficace fu sia l’aiuto offerto al consolidarsi del potere pontificio nella città di Roma contro le ambizioni baronali e la volontà di indipendenza del Comune, sia il soccorso prestato contro le aspirazioni imperiali rappresentate da Federico II che nel 1221, all’indomani dell’incoronazione (22 novembre 1220), conquistò Sora. La citazione del nome Riccardo – morto il 24 aprile 1224 – si configura come un omaggio perpetuo del figlio alla memoria del padre, e, in sintonia con la valenza ideologica dell’intero programma pittorico dei Santi Quattro, volto alla celebrazione dell’Ecclesia, riconferma il contributo parentale all’affermazione del primato della Santa Sede. 190 SANTI QUATTRO CORONATI
L’inserzione nel Calendario di Elisabetta d’Ungheria, canonizzata il 17 novembre 1235, costituisce un sicuro termine post quem per l’esecuzione dei dipinti che furono verosimilmente realizzati tra il 1246 – data indicata dalla lapide incastonata nella parete meridionale della cappella di San Silvestro (¤ 30f) – e il 1254, anno della morte di Stefano Conti. Nei dipinti della cappella di San Silvestro però, indipendentemente dalle ridipinture ‘antiche’, la stesura è più rigida (Bertelli 1970b, 53) e diversi sono anche i caratteri paleografici delle iscrizioni, profondamente divergenti dalle epigrafi del Calendario che, invece, sono affini a quelle campite nell’Aula ‘Gotica’ sovrastante (¤ 30a) (Draghi 2004b, 31; Noviello 2006, 357). Il Calendario documenta profonde assonanze con i dipinti dell’Aula, ad esempio nell’esecuzione delle candelabre, realizzate con una cromia screziata e rialzata da lumeggiature, come nelle vesti del mese di Agosto (¤ 30a); nei manti delle figure virili, le cui ombre sono ottenute con giustapposizioni cromatiche, secondo una modalità esecutiva propria delle immagini di alcune Virtù dell’Aula, come la Sobrietà e la Carità; sono pertanto ascrivibili alle medesime maestranze che intervengono nella decorazione dell’Aula, all’équipe del Secondo e Terzo Maestro di Anagni. Questa raffigurazione del tempo, cui è conferito un particolare rilievo alla tradizione storica della Chiesa romana, si unisce concettualmente ai dipinti della cappella di San Silvestro e agli affreschi dell’Aula sovrastante, costituendo un progetto unitario ed una irrefutabile dichiarazione di intenti, al fine di celebrare la storia dell’Ecclesia e di legittimarne l’operato nel governo temporale e nell’amministrazione della giustizia.
30f. LA DECORAZIONE DELLA CAPPELLA DI SAN SILVESTRO 1246-1254
Alla cappella, ricavata nella originaria navata laterale destra della basilica leonina, si accede attualmente tramite la porta situata nella parete orientale della Stanza del Calendario, rinvenuta da Antonio Muñoz durante il restauro che interessò l’intero complesso (Muñoz 1914, 103). L’interno, a pianta rettangolare, è coperto da una volta a botte [1, 2]; l’arco di accesso alla zona presbiteriale costituiva originariamente l’arcata di comunicazione tra i bracci occidentale e settentrionale del quadriportico della basilica leonina (Muñoz 1913b, 208; Barelli 2009a, 70). L’ambiente è illuminato da una monofora aperta sulla parete meridionale, su cui si aprono anche i due imbuti portavoce, rinvenuti da Muñoz
Interventi conservativi e restauri
1632: gli affreschi vengono scialbati, in concomitanza con i lavori che interessarono anche il primo cortile della chiesa. Come riferisce Pompeo Ugonio, fu «imbiancato il parlatorio delle monache orfane, nel quale erano varie pitture, et in particolare un calendario de 12 mesi, dei quali si fa da Santa Chiesa speciale festa, e perché v’era il nome di San Francesco si vede che esso calendario era antico di quasi 300 anni» (BAV, Barb. lat. 1993, f. 219v; Muñoz 1914, 130-132; Maddalo 2007a, 595, nota 20). 1913: Antonio Muñoz rinviene i dipinti durante i restauri condotti nel complesso e ai quali si deve gran parte dell’aspetto attuale del monumento (Muñoz 1914, 130-133). 1968: nuovi restauri della Soprintendenza ai Monumenti di Roma e del Lazio. 2007-2008: restauro della Soprintendenza BSAE-Lazio, restauratrice Francesca Matera, direzione dei lavori di Andreina Draghi.
(1914, 146-147), che pongono in comunicazione la cappella con l’Aula sovrastante. Sulla parete settentrionale, all’angolo con l’orientale, al di sotto dell’intonaco duecentesco, è visibile un frammento della decorazione preesistente, costituito da una stesura cromatica rossa. La volta è ornata con motivi stellari e croci: le stelle a otto punte sono di colore verde con un bottone centrale rosso; del medesimo colore sono le croci lobate. Al centro della volta sono incastonate cinque coppe di maiolica smaltata disposte a croce; allo stato attuale non si conoscono altri esempi della loro utilizzazione per la decorazione di ambienti interni. I dipinti duecenteschi si svolgono sui tre lati della cappella e illustrano le Storie di Costantino e Silvestro. Il racconto è scandito in riquadri delimitati ai lati da fregi floreali contenuti entro una doppia stesura di colori – ocra e vinaccia – bipartita da un motivo a perlinatura. Nella parte superiore, di raccordo con la volta, lungo i lati settentrionale e orientale è una bordura di variopinti girali di acanto, demarcata da bande monocromatiche ocra e vinaccia; sul lato meridionale sono rappresentati motivi fitomorfi entro clipei raccordati fra loro da piccoli elementi circolari e decorazioni floreali negli spazi di risulta. Nella parte inferiore delle pareti è riproposto lo stesso assetto compositivo: entro clipei di colore ocra ornati da un pearl pattern, sono affrescate le mezze figure dei profeti nell’atto di ostendere un cartiglio, originariamente vergato con un’iscrizione. I medaglioni sono raccordati da motivi circolari di minori dimensioni e negli spazi di risulta sono campiti elementi gigliati. REGISTRO SUPERIORE DELLA CONTROFACCIATA
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Giudizio Finale. Al centro della composizione, assiso su un trono, è raffigurato Cristo giudice; nella mano sinistra sostiene
Documentazione visiva
Archivio Storico della PSAE-Roma; Campagne fotografiche SBSAE-Lazio-SSPASE e PM-Roma.
Fonti e descrizioni
Pompeo Ugonio, BAV, Barb. lat. 1993, f. 219 v.
Bibliografia
Muñoz 1914, 130-132; Klauser 1935, 50, 11-40; Hermanin 1945, 279; Apollonj Ghetti 1964, 79-87; Bertelli 1970b, 53; Dykmans 1978, 633; Toubert 1979, 782 nota 67; Dykmans 1983, 468; Mane 1983, 40; Pace 1986a, 425-426; Gandolfo 1988, 302; Iacobini 1991, 276; Sohn 1997, 14-20; Barberini 1989, 53-54; Puigvert i Planagumà 1990-1991, 41-52; Parlato-Romano 1992 [2001], 129; Brancone 2004, 82, 97, 102 nota 84, 103 note 89 e 91; Draghi 2004b, 31; Romano 2004a, 76; Noviello 2006, 353-362 e CD Rom; Maddalo 2007a, 586-593; Romano 2007, 629; Barelli 2009a, 67-69. Andreina Draghi
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che disperate – i lunghi capelli sciolti, le mani serrate lungo le vesti, i bimbi in braccio o dinnanzi a loro – lo supplicano di recedere dall’eccidio [6-7]. In Séroux alcune figure femminili sono a capo coperto, ma non in Eclissi (f. 27) e nel dipinto. - Costantino sogna i santi Pietro e Paolo che lo esortano a visitare il papa Silvestro. L’imperatore sontuosamente vestito giace sul letto, il capo coronato è posato su un cuscino dai preziosi ricami, il volto e le braccia mostrano i segni della lebbra, l’espressione del viso è spossata. Gli appaiono in sogno i santi Pietro e Paolo, inviati da Gesù Cristo in riconoscenza della pietà dimostrata nel desistere dall’eccidio dei fanciulli. Gli apostoli lo esortano a visitare papa Silvestro, riparato sul monte Soratte a causa delle sue persecuzioni. Indossano un mantello ampiamente panneggiato, la mano sinistra di Paolo, velata, mostra il Libro al fedele. Sul fondo della scena si dispongono bene allineate, a chiudere completamente la composizione, articolate architetture palaziali a più piani marcati da cornici classiche disposte alla stessa altezza. Un fregio ad ovoli delimita inferiormente il riquadro [8]. La rappresentazione del sovrano malato, disteso sul letto, presenta uno stretto riferimento iconografico con il Sogno di Costantino del trittico di Stavelot (XIII secolo, PML) ove sono raffigurati in sei scene gli episodi della vita di Costantino e dell’Invenzione della Croce. In Séroux le figure posano sulla linea di base della composizione, non sono raffigurate le gambe del letto ed è assente la decorazione ad ovoli del bordo inferiore; in Eclissi (f. 28) e nell’affresco i piedi del servitore sono raffigurati più in alto e quelli di Paolo sulla cornice.
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la Croce gemmata, la destra e il costato, parzialmente scoperto, mostrano le piaghe del supplizio ricordato dagli strumenti della passione: la Lancia, i Chiodi, la Spugna, la Corona di spine [5]. Ai lati del trono sono rappresentati la Vergine, san Giovanni Battista avvolto in un mantello bordato lungo gli orli e lo scollo, e, assiso su due panche, il collegio dei dodici apostoli. Nella parte superiore sono campiti due angeli nell’atto di suonare la tromba e avvolgere il rotulo del cielo, rappresentato con la luna, le stelle e il sole nero, in accordo con Apocalisse (6, 12-14) [2-4]. Le fonti per la rappresentazione del Giudizio Finale sono il Vangelo secondo Matteo (Mt 24, 27-36), l’Apocalisse di san Giovanni e la I Lettera di san Paolo ai Corinzi (1 Cor 15, 5054); nella cappella è tuttavia dipinta una versione parziale del Giudizio Finale rispetto all’iconografia usuale con la resurrezione dei morti, la pesatura delle anime e la separazione tra gli eletti e i dannati. L’affresco documenta l’assimilazione del Cristo giudice della Seconda Venuta, raffigurato con la Croce, simbolo del Figlio dell’Uomo, con il Cristo crocefisso e resuscitato della Prima. Il Redentore con il fianco destro scoperto, nell’atto di ostendere la piaga o con gli strumenti della passione, è rappresentato, intorno alla metà del X secolo, nel Salterio di Aethelstan (LBL, Cott. Galba A. XVIII cc. 21r, 2v), nell’avorio di XI secolo conservato a Cambridge (Pembroke College) e successivamente nel portale meridionale dell’abbazia di SaintPierre a Beaulieu-sur-Dordogne, nel Quercy (1130-1140); dal XII secolo la rappresentazione iniziò ad essere codificata (Christe 1995, 792). L’immagine di Cristo che sostiene la croce come uno scettro è documentata nel Lezionario di Bernulfo del 1030 circa (URHC, ms. 1503, c. 41v) e nell’Apocalisse di Bamberga (XI secolo, SBBa, ms. 140, f. 53r). In Séroux d’Agincourt (1841, VI, tav. CI) la figura dell’angelo di destra rispetto a chi guarda presenta i piedi disposti parallelamente e coperti quasi completamente dal panneggio della veste. In Eclissi (ÖNB, Cod. s.n. 3311, f. 35) e nel dipinto le estremità sono molto distanziate e raffigurate nell’attitudine del volo; tuttavia nell’immagine seicentesca il piede è librato nell’aria, nell’affresco invece è palesemente posato sull’aureola del terzo apostolo, a partire dal Battista. La base del trono è raffigurata in Eclissi e nel dipinto; assente in Séroux; in quest’ultimo il Battista è raffigurato, stante, all’interno della cornice; in Eclissi e nel dipinto i piedi e la veste strabordano. Nell’affresco il volto del Battista presenta lineamenti molto accentuati e il manto non è bordato sullo scollo e lungo i bordi né in Séroux né in Eclissi. In Séroux la spugna è assente. L’ampio panneggio del quarto apostolo, rappresentato alle spalle della Vergine, si differenzia sia dall’immagine di Eclissi che da quella di Séroux. I germogli che connotano il terreno, ai due lati della rappresentazione, compaiono in Eclissi ma in Séroux sono raffigurati soltanto all’estrema sinistra della scena. 192 SANTI QUATTRO CORONATI
REGISTRO INFERIORE DELLA CONTROFACCIATA - Costantino incontra le madri dei fanciulli. L’imperatore, colto dalla lebbra, è raffigurato frontalmente su un trono ornato di gemme. Il capo è coronato, indossa le vesti regali e il manto è fermato da una fibbia all’altezza della spalla destra. Ha chiesto consigli per la guarigione ai pontifices capitolii, alle sue spalle entro un’architettura con loggia. Lo hanno esortato ad immergersi in una piscina situata sul Campidoglio, colma del sangue di fanciulli; Costantino incontra le madri delle vittime
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- I messi imperiali intraprendono il viaggio. I tre messi, per ordine dell’imperatore, intraprendono il viaggio verso il monte Soratte ove è riparato papa Silvestro, con l’obiettivo di persuaderlo a rientrare a Roma. Indossano una tunica e la clamide è fermata all’altezza della spalla destra con una fibbia; i volti sono rispettivamente connotati dalla barba, da baffi appena accennati, dalla pelle glabra. Montano tre cavalli che sfilano in un paesaggio punteggiato da delicate piantine affioranti dal terreno e da due vigorose palme; impugnano le redini con la mano sinistra [9]. Alla rappresentazione dell’episodio, narrato soltanto negli Actus, sono dedicati due riquadri che chiudono rispettivamente la composizione sul lato occidentale e la aprono sul lato settentrionale. In Séroux (1841, VI, tav. CI) non sono raffigurati i fiori sul terreno ed è assente la bipartizione della base della scena, indicata in Eclissi (f. 29) e nel dipinto. PARETE SETTENTRIONALE - I messi imperiali salgono sul monte Soratte da papa Silvestro (Iscr. 1). I tre messi scalano il monte Soratte: sono raffigurati in una successione molto serrata, quasi inseriti l’uno nell’altro. Indossano una tunica e il mantello è fermato con una fibbia all’altezza della spalla destra; gli speroni rifulgono nel brullo paesaggio montano, caratterizzato soltanto da due alberi. Papa Silvestro, con il pallio, esce ad accoglierli, accompagnato da due chierici [10]. In Séroux (1841, VI, tav. CI) il papa Silvestro non sembra barbato; il panneggio del secondo e del terzo messo imperiale è diverso rispetto al foglio di Eclissi (f. 29) e al dipinto. - Il papa Silvestro mostra all’imperatore le effigi dei santi Pietro e Paolo. Il pontefice indossa la tunica, la dalmatica e il pallio; la mano destra ha l’anulare e il mignolo flessi, nel gesto del comando, derivato dalla tradizione classica, con cui l’imperatore impartiva un ordine (Frugoni 2010, 68-69). Con la sinistra sostiene le icone dei santi Pietro e Paolo – centro della composizione – ostese verso Costantino e l’osservatore. Il sovrano indossa la corona e gli abiti regali; è ormai credente e riconosce i ritratti come le immagini apparsegli in sogno; è genuflesso di fronte ad esse e al pontefice, le mani sono giunte. Al di sopra e in asse con le icone è raffigurata, appesa a un gancio, una lanterna per l’illuminazione. Alle spalle dei due protagonisti sono raffigurati due diaconi e due dignitari imperiali: i primi condividono le parole del pontefice; al contrario uno dei cortigiani ha le braccia incrociate, in segno di disaccordo (Frugoni, 2010, 25). Il fondale della composizione è costituito da architetture a più piani con marcapiani e cornici ad ovoli, coperture a cupola e a spioventi [11]. L’episodio è descritto sia negli Actus che nel Constitutum: dopo il riconoscimento dei due apostoli il sovrano compie la professione di fede ed è benedetto da Silvestro che gli prescrive un percorso di purificazione con una settimana di digiuno ed opere di penitenza e di misericordia (Canella 2006, 10). In Séroux i piedi delle figure posano sul pavimento; in Eclissi (f. 30) e nell’affresco strabordano sulla cornice ad ovoli. - Battesimo di Costantino. Silvestro pone la mano destra sul capo di Costantino, rappresentato al centro della scena, immerso nella piscina del palazzo lateranense che è raffigurato alle sue spalle. Il pontefice è accompagnato da quattro chierici, uno dei quali sostiene con la mano sinistra il simbolo del sacerdotium, la croce astile. Dei tre dignitari che assistono all’evento, uno sostiene la corona, l’altro la dalmatica imperiale [12]. L’episodio è descritto sia negli Actus che nel Constitutum. Nel primo testo è narrato come dal giorno del battesimo e per i sette successivi il sovrano emanasse dieci editti favorevoli al cristianesimo e alla Chiesa. Nel Constitutum il sovrano, immerso nella piscina, è toccato da una mano che scende dal cielo e, uscito dal fonte, è unto con il crisma e segnato con la croce sulla fronte (Constitutum Constantini 9, in Fuhrmann 1968, 132-133). In Séroux sono raffigurate dietro papa Silvestro soltanto tre figure, in Eclissi (f. 31) e nel dipinto quattro; manca la croce SANTI QUATTRO CORONATI 193
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astile alle spalle del pontefice; il fonte battesimale ha una forma diversa e differente è il basamento, costituito da un piede quadrangolare. Le architetture rappresentate in Séroux sono sei e non sette. - Donazione di Costantino (Iscr. 2). Il sovrano, vestito con gli abiti regali e senza corona, esce a piedi dalla città e genuflettendosi offre al pontefice gli attributi imperiali, il phrygium (che successivamente diverrà la tiara) e il sinichio, sostenuto da un dignitario. Con la mano sinistra impugna le redini di un cavallo bianco che, montato da un cavaliere, si appresta a varcare la porta dell’Urbe: le briglie recano i chiodi della crocifissione di Cristo; le monumentali architetture sono serrate a formare un nucleo compositivo compatto. Quattro dignitari assistono alla scena dalle mura, il quinto sostiene la corona imperiale, rinunciando alla quale il sovrano dichiara di astenersi dal governo dell’impero romano d’occidente. Papa Silvestro è assiso sul trono, indossa la mitra le cui infule scendono sulle spalle, con la sinistra riceve il phrygium – punto focale della composizione – e con la destra
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benedice il sovrano; un chierico innalza la croce astile, pendant compositivo del sinichio sorretto dal dignitario [13]. La scena, narrata nel Constitutum, sostituisce la Quarta legge promulgata da Costantino dopo il battesimo e descritta negli Actus (Canella 2006, 97). Il significato simbolico della mitra quale signum pontificii e della tiara quale signum imperii era stato codificato da Innocenzo III: la prima, che nelle due punte era metafora dell’Antico e del Nuovo Testamento, era adottata durante le cerimonie liturgiche; la seconda durante le cavalcate del possesso (Sohn 1997, 34; Marcone 2007, 916; Paravicini Bagliani 1998, 68). La presenza dei chiodi della Crocifissione, raffigurati nelle briglie del cavallo, costituisce un riferimento all’appendice narrativa degli Actus, il De inventione Sanctae Crucis in cui è narrato il ritrovamento della Croce. Sul luogo del suo rinvenimento è costruita la basilica del Santo Sepolcro; parte della reliquia della Croce è lasciata a Gerusalemme, parte inviata dalla regina Elena a Costantino insieme ai chiodi della Crocifissione che furono inseriti nelle briglie, come profetizzato da Zaccaria (14, 20: «In SANTI QUATTRO CORONATI 195
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quel tempo anche sopra i sonagli dei cavalli si troverà scritto ‘Sacro al Signore’») (Canella 2006, 67). In Séroux (1841, VI, tav. CI) mancano le infule della mitra; si leggono al massimo quattro architetture, di contro alle sei di Eclissi (f. 32) e del dipinto; le finestre non sono tutte rappresentate; il sinichio non ha il coronamento; in Eclissi le redini con i chiodi della passione hanno una diversa configurazione; i fiori, assenti in Séroux, avevano una diversa conformazione. - Officium Stratoris (Iscr. 3). Costantino, abbigliato con le vesti regali e la corona, è raffigurato nell’atto di condurre a piedi, verso la porta della città, il bianco cavallo papale, tenendolo per le briglie. Alla sua sinistra un dignitario impugna un gladio il cui pendant compositivo è la croce processionale sostenuta da un chierico che, montando un cavallo baio, precede il corteo. Silvestro indossa il phrygium ricevuto dall’imperatore, la dalmatica ed il pallio, con la destra benedice il sovrano. Alle sue spalle si snoda il corteo: un
dignitario sostiene il sinichio, a righe gialle e rosse, che si raccorda con gli altri simboli del potere, il gladio e la croce. Seguono su cavalli bai tre vescovi, le mani aperte nel segno di consenso [17]. Il rituale, illustrato nel Constitutum (Constitutum Constantini 16, in Fuhrmann 1968, 257-260), era prescritto la prima volta che l’imperatore incontrava il pontefice e durante l’incoronazione imperiale, quando il sovrano, tenendo per le briglie il cavallo imperiale, aiutava il papa a montare l’animale sorreggendogli la staffa; il sinichio era utilizzato durante la cavalcata che lo conduceva dal Vaticano in Laterano (Gandolfo, 2007b, 324). In Séroux sono ben delineate le code e le parti posteriori dei tre cavalli; in Eclissi (f. 33) e nell’affresco sono raffigurati soltanto due animali; in Séroux la veste di papa Silvestro è decorata lungo il bordo; la figura all’interno della porta urbica è stante e non assisa su un cavallo. In Eclissi il terreno è cosparso di ciuffi di erba e non di fiori. 12
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PARETE MERIDIONALE - La Disputa e il Miracolo del toro (Iscr. 4). Il filosofo Cratone e il praefectorius vir Zenofilo sono raffigurati assisi su seggi al centro della scena, garanti dell’imparzialità dell’altercatio. Secondo il racconto degli Actus, il papa Silvestro, dopo avere infirmato undici rappresentanti della religione giudaica, confuta l’ultimo, Zambri, il quale, per dimostrare l’onnipotenza divina, ne aveva sussurrato il nome, impronunciabile, nell’orecchio di un toro rimasto fulminato. Al prodigio Silvestro replica con l’argomentazione che la grandezza di Dio non si manifesta soltanto nella morte, ma anche nel riportare in vita gli esseri viventi: un miracolo consente al pontefice di resuscitare l’animale e di affermare trionfalmente il primato della fede cristiana, con la conseguente conversione della regina Elena e dei testimoni raffigurati sulla destra della scena [14]. Nel dipinto è rappresentata la scena finale del contraddittorio tra Giudei e Cristiani, descritto negli Actus. La parte sinistra dell’affresco non è pervenuta, ma è rappresentata sia in Eclissi (f. 24) che in Séroux (1841, VI, tav. CI). Silvestro è raffigurato stante, con la tiara; la mano destra nel gesto della benedizione, la sinistra aperta; alle sue spalle sono tre vescovi e due dignitari. In Séroux non è decorato il basamento dei seggi su cui sono assisi Cratone e Zenofilo; non vi sono i fiori sul terreno come in Eclissi; non compare il braccio destro di Elena, steso, con la mano aperta. - Invenzione della Vera Croce (Iscr. 5). La regina Elena, accompagnata da quattro ancelle, intima a Giuda di scavare il monte, che compositivamente occupa gran parte della scena, alla ricerca della vera Croce. Il sacro legno viene rinvenuto ed
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L’immagine risultava frammentaria già nel 1637: nella copia del dipinto eseguita da Eclissi (f. 26) si leggevano, all’estrema sinistra, parte della muratura della città di Roma e, in alto a destra, due alberi. La stessa composizione è incisa da Carattoni in Séroux.
individuato attraverso il miracolo della resurrezione di un giovane; tre figure maschili chiudono il dipinto [16]. Il tema, non trattato nel Constitutum, fa riferimento all’appendice narrativa degli Actus, il De inventione sanctae Crucis, che narra il rinvenimento della Croce da parte della regina Elena, la quale, convertitasi al cristianesimo dopo la disputa fra Silvestro ed i rappresentanti del giudaismo, intraprende un viaggio in Terra Santa (BAV, Vat. lat. 1194, ff. 142v-143v; Canella 2006, 64). La lacuna nella parte inferiore del dipinto è registrata da Eclissi (f. 25); non risulta nel testo di Séroux dove la composizione è completa ma le vesti dei personaggi non sono decorate nella parte inferiore. Inoltre la prima figura a sinistra ha i capelli corti; la donna dietro Elena appare coronata e con una veste diversa; il giovane indossa un manto che parte dal retro del collo e giunge sin oltre le ginocchia, assente invece in Eclissi e nel dipinto. - Il papa Silvestro libera il popolo romano dal drago. Silvestro indossa la tiara donatagli da Costantino, la testa lievemente reclinata a sinistra. Alle sue spalle un chierico, accompagnato da altri quattro confratelli, solleva la croce processionale. La composizione, di cui è pervenuta solo la parte superiore, si completa a sinistra con la raffigurazione della città di Roma [15]. La scena, descritta negli Actus, chiude sulla parete meridionale le Storie di Costantino e Silvestro. Seguendo le indicazioni di Pietro e Paolo, apparsigli in sogno, il pontefice si appresta a sigillare sino al giorno del giudizio le fauci di un drago che, da dopo la conversione di Costantino, mieteva vittime nella città di Roma, non essendo più nutrito dalle vestali. Secondo la versione degli Actus l’avvenimento si svolse in una grotta nel Foro Romano, ma non sotto il Campidoglio (Maddalo 2008, 487).
FREGIO CON I PROFETI Il fregio con i Profeti, affrescato nel registro inferiore della cappella, è pervenuto in uno stato di conservazione molto frammentario: sono perdute gran parte delle immagini e quasi tutte le iscrizioni vergate sui cartigli (Iscr. 6-25). La lettura e la ricostruzione della sequenza deve essere integrata con i documenti esistenti, in particolare con il codice di Vienna, redatto da Antonio Eclissi. Quest’ultimo registra 21 immagini, alcune delle quali risultavano frammentarie già nel 1637 e ne indica la disposizione sulle pareti dell’oratorio, anche per quelle non pervenute (f. 2). I clipei furono successivamente scialbati e nel 1841 Séroux ne pubblicò sei (Gioele, Ezechia, Amos, Naum, Ezechiele, Isaia; Séroux d’Agincourt 1841, VI, 172, tav. CI); in seguito Muñoz ne riscoprì 18 e ipotizzò che in origine fossero 22 (Muñoz 1913b, 207; Id. 1914, 117). La restituzione geometrica del fregio, realizzata negli anni Cinquanta del Novecento, presenta 26 medaglioni. Zahlten (1994, 23-30) indica un numero vicino a 30, calcolando le tre immagini perdute per la realizzazione dell’apertura effettuata nel XVI secolo, ed avanza una proposta per le figure mancanti. Secondo il codice di Eclissi sulla parete occidentale, in relazione con il Giudizio Finale, erano raffigurati Isacco, Abramo, David e Salomone che rimarcavano con la loro presenza la relazione tra la sfera spirituale e temporale [2]. Seguivano sulla settentrionale i clipei con i profeti maggiori, Isaia, Geremia, Ezechiele, Daniele
e i minori, Osea, Gioele, Amos, Giona, Michea, Naum, Sofonia [20]. Nella pianta della cappella (f. 2) [18] non è indicato Abacuc, tuttavia la sua immagine (f. 21) è inserita tra Naum (f. 20) e Sofonia (f. 22); presumibilmente si tratta di un’omissione, anche perché il pittore non registra come esistente sulla parete orientale alcuna immagine. Sul lato meridionale [19], partendo dall’ingresso, era affrescato un profeta il cui nome risultava perduto nel 1637, ma che tuttavia è identificabile come Giacobbe per l’iscrizione vergata sul cartiglio, oggi evanida, relativa al primato del potere religioso, prerogativa della tribù di Giuda: «Non sarà tolto lo scettro di Giuda né il bastone del comando dai suoi discendenti finché venga Colui al quale appartiene e a cui i popoli dovranno obbedire» (Gn 49,10). Seguivano Samuele, Ezechia e un’altra immagine, dal capo coronato, di cui Eclissi leggeva solo le lettere superstiti del nome: AS (¤ Noviello 206). I profeti erano rappresentati con un’aureola che iniziava all’altezza delle spalle; il capo era lievemente girato verso destra o sinistra; le spalle coperte da un mantello aperto sul torso o completamente chiuso (Salomone). Mostravano un cartiglio con l’iscrizione; David, Daniele e Osea erano raffigurati frontalmente; David, Salomone e un altro profeta indossavano la corona; Abramo, Isacco e Giacobbe la tiara con le infule. Lo stato di conservazione in cui sono pervenuti è disomogeneo: sono acefale le immagini di Abramo, Isacco, David, Salomone ed evanide le iscrizioni sui cartigli. Sulla parete settentrionale sono perdute le figure di Isaia, Geremia, Osea, Gioele; acefali Ezechiele, Daniele, Naum; leggibile anche se frammentario Amos; in discreto stato Giona [24], Michea, Sofonia e, sul lato meridionale, Samuele; di Ezechia e dell’immagine coronata sono pervenuti solo i volti. Andreina Draghi
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SANTI QUATTRO CORONATI 199
b - Lastra di destra:
((crux)) Ite(m) est in altari de reliquiis / s(an)c(t)orum Papie et Mauri m(artyrum) s(ancti) Silv(est)ri p(a)p(e) (et) (con)f(essoris) / s(ancti) Lini p(a)p(e) (et) (con)f(essoris) · s(ancti) Alexii (con)f(essoris) · Lucie s(ancte) virg(inis) / (et) mar(tyris) s(ancte) Praxedis virg(inis) · s(ancte) Pude(n)tian^e^ / virg(inis) · s(ancte) · Dorothee vi(r)g(inis) · (et) m(artyris) · s(ancte) · Exup(er)antie vi(r)g(inis) / ((crux)) om(n)ib(us) Xr(ist)i fid(e)lib(us) ad ista(m) capella(m) veni/entib(us) in dicta sexta feria vel septe(m) / dieb(us) sequentib(us) · un(um) ann(um) (et) XL · dies de in/iuncta sibi penitentia relaxantur Iscrizione dedicatoria dell’oratorio di San Silvestro posta da Rainaldo dei Conti di Jenne, vescovo di Ostia, il venerdì precedente la Domenica delle Palme nell’anno 1246, durante la quarta indizione, nel quarto anno di pontificato di papa Innocenzo IV (1243-1254). La data tradizionalmente accettata è quella canonica del 30 marzo del 1246, ma recentemente il Sohn (1997, 10 nota 15) ha proposto di spostarla al 22 marzo del 1247, basando il computo su un diverso stile di datazione, lo stile dell’Annunciazione, ottenuto seguendo il calculus florentinus, in uso a quei tempi presso la curia romana. Nella lapide viene menzionato, oltre al dedicante, Rainaldo, già canonico del duomo di Anagni, quindi cardinale della chiesa di Sant’Eustachio e cardinale-vescovo di Ostia e Velletri, camerario ecclesiastico e futuro papa Alessandro IV (1254-1261), anche l’artefice dell’opera, Stefano Conti, nipote di Innocenzo III (1198-1216), cardinale diacono di Sant’Adriano al Foro Romano, poi cardinale di Santa Maria in Trastevere, arciprete di San Pietro, vicarius urbis di Roma dal 1245 al 1251. Si tratta dunque di una committenza legata a una famiglia della massima importanza nell’amministrazione dello Stato della Chiesa, assai prossima all’entourage papale, che intende porre in relazione la cappella (e tutto il complesso dei Santi Quattro) con il vicino Palazzo Lateranense, come è dimostrato dalla data scelta per la dedicazione, posta durante il ciclo delle celebrazioni della settimana santa, dal cospicuo apparato di reliquie traslate per l’occasione, comprendenti i resti di papi (Sisto, Bonifacio, Silvestro e Lino), di santi e martiri (Gennaro, Tiburzio, Teodoro, Ippolito, Mario e Marta, i Tre Fanciulli, Nereo e Achilleo, Papia e Mauro, Alessio, Lucia, Prassede, Pudenziana, Dorotea ed Essuperanzia); nonché dalla speciale indulgenza concessa ai fedeli che avessero frequentato la cappella nel giorno della consacrazione oppure nella settimana successiva sino al Venerdì Santo (Forcella 1869-1884, VIII, 390 nn. 718 e 719; Muñoz 1914, 103; Buchowiecki 1974, 701; Draghi 2006, 17-18).
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Iscrizioni
a - Epigrafi dedicatorie della cappella di San Silvestro. Due lastre marmoree con iscrizioni incise in caratteri gotici, murate nella parete meridionale dell’aula. a - Lastra di sinistra:
Ad laud(em) d(e)i o(mn)ip(otent)is (et) honor(em) b(eat)i Silv(est)ri / p(a)p(e) (et) (con)f(essoris) · dedicata e(st) hec capella p(er) d(omi)n(u)m / Rainald(um) Ostiens(em) ep(iscopu)m · ad p(re)ces d(omi)ni / Steph(an)i · t(i)t(uli) · s(an)cte M(ari)e · T(ra)nstib(er)im p(res)b(yter)i card(inalis) · / q(ui) capellam (et) domos edificari fecit. / ((crux)) In n(omin)e d(omi)ni am(en) · anno d(omi)ni M·CC·/XLVI · indictio(n)e IIII · feria VI ante ·/ palmas · t(em)p(or)e d(omi)ni Innoce(n)tii qua/rti ·p(a)p(e) ·anno IIII. Hee su(n)t reli/quie s(an)c(t)orum · de ligno crucis ·/ s(an)c(t)i Bonifatii · p(a)p(e) · (et) m(arti)r(ys) · s(an)c(t)i Ianu/arii qui fuit subd(iaconus) Sixti · p(a)p(e) · m(arty)ris / s(an)c(t)i Tiburtii m(arty)r(is) · s(an)c(t)i Theodori m(arty)r(is) / s(an)c(t)i Ypoliti m(arty)r(is) · s(an)ctorum Marii (et) Ma/rthe m(arty)r(um) · s(an)c(t)orum trium puerorum / m(arty)r(um) s(an)c(t)orum Nerei et Archilei m(arty)r(um) 200 SANTI QUATTRO CORONATI
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3 - Officium Stratoris. Nella fascia di esergo (lettere bianche e nere su fondo rosso).
Servus ¦ s(anctus) Silûeøù[er] ¦ [---?] Non attestata in Eclissi e Séroux; Wilpert 1916, IV, tav. CCLXIX. 4 - La disputa e il Miracolo del toro. Nella fascia di esergo.
[---?]TRS ¦ [---?]VCVS ¦ [---? Iu]dices
b - Iscrizioni dipinte delle scene figurate. Le iscrizioni, di tipo esplicativo, erano originariamente dipinte sulle linee di esergo delle scene figurate e sono oggi quasi completamente perdute o per lo più illeggibili. Per la trascrizione si fa riferimento alle letture fornite dall’Eclissi, in cui il corredo epigrafico compare già ampiamente rimaneggiato, e alla visione dei disegni acquerellati del Wilpert, dove il testo risulta ancor più mutilo.
Eclissi, f. 24. Non attestata in Séroux e in Wilpert. La restituzione Iudices, relativa alle figure di Cratone e Zenofilo non desta particolari problemi, mentre il testo che precede risulta di difficile interpretazione. Il gruppo TRS potrebbe forse alludere ai tres episcopi presenti nella scena, dietro alla figura di Silvestro.
1 - I messi imperiali salgono sul monte Soratte da papa Silvestro. Nella fascia di esergo (lettere bianche su fondo rosso).
[---? in]ventio s(an)c(ta)e c÷uèîø ·
[---]++++ s(anctus) Silv[ester].
Eclissi, f. 25. Non attestata in Séroux. Cfr. Wilpert 1916, IV, tav. CCLXIX.
Non attestata in Eclissi e Séroux; Wilpert 1916, IV, tav. CCLXIX. 2 - Donazione di Costantino. Nella fascia di esergo (lettere bianche e nere su fondo rosso).
S(anctus) Silvê[ster] ¦ + Èôóøùæ^ó^tinus · ¦ Èæõîùôñîú(m) · Non attestata in Eclissi e Séroux; Wilpert 1916, IV, tav. CCLXIX
5 - L’invenzione della Vera Croce. Nella fascia di esergo (lettere bianche e nere su fondo rosso).
c - Lunette con i Profeti. Nel campo delle lunette, ai lati del volto del personaggio, vi erano le iscrizioni indicanti la denominazione del profeta. Nei cartigli sottostanti figurava invece una citazione biblica. Come per le scene figurate, anche per le lunette il corredo epigrafico è pressoché interamente perduto; per questa ragione, al fine di comprendere il fregio nella sua interezza, si è scelto di riportare i testi visti dall’Eclissi nel 1637.
PARETE OCCIDENTALE 6 - Isacco (f. 4). 6a - Nel campo, ai lati del volto:
Isa ¦ ac 6b - Nel cartiglio:
In semine tuo be(ne)dice(n)t(ur) / o(mn)es g(en)t(e)s Cfr. Wilpert (1916, IV tav. CCLXVIII), in cui il testo è quasi illeggibile. Citazione di Gn 22, 18. 7 - Abramo (f. 3). 7a - Nel campo, ai lati del volto:
Abra ¦ am 7b - Nel cartiglio:
Tres vidit et unum / adoravit Cfr. Wilpert (1916, IV, tav. CCLXVIII), in cui il testo è quasi del tutto illeggibile. Allusione all’episodio di Gn 18, 1-14, dell’incontro di Abramo con Dio, prefigurazione veterotestamentaria del mistero della Trinità, più volte citato dai Padri della Chiesa (ad es. Aug. Hipp., Contra Maxim., II, 26, 7). 8 - David (f. 9). 8a - Nel campo, ai lati del volto:
SANTI QUATTRO CORONATI 201
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Da ¦ vid
PARETE SETTENTRIONALE
8b - Nel cartiglio:
10 - Isaia (f. 11).
De fructu ventris / tui ponam sup(er) sedem mea(m)
10a - Nel campo, ai lati del volto:
In Wilpert (1916, IV, tav. CCLXVIII), il testo risulta perduto. Citazione di Ps 131, 11, con la variante mea(m) per tuam.
Ysa ¦ ias·
9 - Salomone (f. 10).
10b - Nel cartiglio:
11b - Nel cartiglio:
Citazione di Ez 1, 1.
pri(us)q(uam) te formarem in utero / novi te (et) p(ro)p^h^e^t^am i(n) gentibu(s) dedi te
13 - Daniele (f. 14).
Citazione abbreviata di Ger 1, 5: «Priusquam te formarem in utero, novi te et, antequam exires de vulva, sanctificavi te et prophetam gentibus dedi te».
Egredietur virga de ra/dice Yesse ·
12a - Nel campo, ai lati del volto:
Salo ¦ mon·
Cfr. Séroux 1841, VI, 172, tav. CI.16. Citazione di Is 11, 1, con la variante radice per stirpe.
Ezechi ¦ el
Diligite iustitiam / qui iudicatis terram· In Wilpert (1916, IV, tav. CCLXVIII), il testo risulta perduto. Incipit del Liber Sapientiae (Sap 1, 1). 202 SANTI QUATTRO CORONATI
11 - Geremia (f. 12). 11a - Nel campo, ai lati del volto:
Iere ¦ mias
Da^n^i ¦ el· 13b - Nel cartiglio:
12 - Ezechiele (f. 13).
9a - Nel campo, ai lati del volto:
9b - Nel cartiglio:
13a - Nel campo, ai lati del volto:
-----L’iscrizione del cartiglio risultava perduta già nel 1637. 14 - Osea (f. 15).
12b - Nel cartiglio:
ap(er)ti sunt ca^e^li et vidi vi/siones dei· Cfr. Séroux 1841, VI, 172, tav. CI.16; cfr. Wilpert 1916, IV, tav. CCLXIX, dove il testo è assai rimaneggiato.
14a - Nel campo, ai lati del volto:
Ose ¦ as 14b - Nel cartiglio: SANTI QUATTRO CORONATI 203
------
20 - Abacuc (f. 21).
L’iscrizione del cartiglio risultava perduta già nel 1637.
20a - Nel campo, ai lati del volto:
15 - Gioele (f. 16).
Aba ¦ chuc ·
15a - Nel campo, ai lati del volto:
20b - Nel cartiglio:
Io ¦ hel·
------
15b - Nel cartiglio:
L’iscrizione del cartiglio risultava perduta già nel 1637.
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21 - Sofonia (f. 22).
L’iscrizione del cartiglio risultava perduta già nel 1637. Eclissi documenta una lesione trasversale che parte dalla lettera O del nome e giunge al lato opposto. Cfr. Séroux 1841, VI, 172, tav. CI.16.
21a - Nel campo, ai lati del volto:
16 - Amos (f. 17). 16a - Nel campo, ai lati del volto:
Am ¦ os·
Sopho ¦ nias · 21b - Nel cartiglio:
-----L’iscrizione del cartiglio risultava perduta già nel 1637 (¤ Draghi 199).
16b - Sul cartiglio:
------
PARETE MERIDIONALE 22 - Giacobbe (f. 5).
L’iscrizione del cartiglio risultava perduta già nel 1637. Cfr. Séroux 1841, VI, 172, tav. CI.16
22a - Nel campo, ai lati del volto:
17 - Giona (f. 18).
[la] ¦ [cob]
17a - Nel campo, ai lati del volto:
L’iscrizione del campo risultava perduta già nel 1637, ma l’identificazione con Giacobbe è resa possibile dall’analisi della citazione del cartiglio, allusiva al primato religioso della tribù di Giuda (cfr. Draghi supra).
Io ¦ nas· 17b - Nel cartiglio: -----L’iscrizione del cartiglio risultava perduta già nel 1637. Cfr. Wilpert 1916, IV, tav. CCLXIX.
22b - Nel cartiglio:
non auferet(ur) sceptrum / de Iuda et dux de f(emore eius) Citazione di Gn 49,10.
18 - Michea (f. 19).
23 - Samuele (f. 6).
18a - Nel campo, ai lati del volto:
23a - Nel campo, ai lati del volto:
Miche ¦ as ·
Samu ¦ el ·
18b - Nel cartiglio:
23b - Nel cartiglio:
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L’iscrizione del cartiglio risultava perduta già nel 1637. Cfr. Wilpert 1916, IV, tav. CCLXIX.
L’iscrizione del cartiglio risultava perduta già nel 1637.
19 - Naum (f. 20).
24 - Ezechia (f. 7).
19a - Nel campo, ai lati del volto:
24a - Nel campo, ai lati del volto:
Na ¦ um ·
Ezechi ¦ as ·
19b - Nel cartiglio:
24b - Nel cartiglio:
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L’iscrizione del cartiglio risultava perduta già nel 1637. Cfr. Séroux 1841, VI, 172, tav. CI.16.
L’iscrizione del cartiglio risultava perduta già nel 1637. Cfr. Séroux 1841, VI, 172, tav. CI.16.
204 SANTI QUATTRO CORONATI
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SANTI QUATTRO CORONATI 205
25 - Senza nome (f. 8). 25a - Nel campo, ai lati del volto:
[---] ¦ as Si potrebbe forse ricercare il nome del personaggio nel novero dei rimanenti profeti, fra i quali, ad es., Malachia, Zaccaria o Abdias; oppure, data la presenza della corona, risulterebbe assai suggestiva l’identificazione con la figura veterotestamentaria del re Giosia (es: 2 Re 23, ecc.), così integrabile: [Iosi] // as. 25b - Nel cartiglio:
-----L’iscrizione del cartiglio risultava perduta già nel 1637. (C.N.)
Note critiche
Le fonti letterarie di riferimento per il ciclo pittorico sono gli Actus Sylvestri e il Constitutum Constantini. Il primo testo fu elaborato alla fine del V secolo e il documento iniziale della sua diffusione a Roma è costituito dalla Decretalis de recipiendis et non recipiendis libris, attribuita a papa Gelasio (492-496) (Canella 2006, 35); alla metà del XIII secolo l’opera confluì nella Legenda Aurea di Jacopo da Varazze. Presenta corrispondenze e parallelismi con testi di origine mediorientale quali la Dottrina di Addai (fine V-inizi VI secolo), gli Atti di Giuda Ciriaco (IV secolo), gli Atti di Pietro (II secolo) (ibid., 259-260). Il De Inventione Sanctae Crucis, che narra il ritrovamento della Vera Croce, costituisce un’appendice narrativa dell’opera che ebbe circolazione autonoma; è ritenuta dagli studi parte originaria degli Actus, estranea alla versione latina del testo e integrata con la tradizione di Giuda Ciriaco (Canella 2006, 64-65). La finalità degli Actus era obliare il battesimo ariano di Costantino, impartito nel 337, poco prima della morte, dal vescovo ariano Eusebio di Nicomedia e documentato da Girolamo nel Chronicon, redatto nel 380 circa. L’amministrazione del battesimo ortodosso si configurava come una ‘correzione della memoria’ ed era funzionale alla riabilitazione dell’imperatore il cui filoarianesimo imponeva una presa di posizione da parte della Chiesa in lotta contro l’eresia ariana, e al rafforzamento del primato apostolico romano contro Bisanzio (Marcone 2007, 915). Nel Constitutum, elaborato verso la metà dell’VIII secolo, è ripresa la narrazione esposta negli Actus sino al battesimo ortodosso dell’imperatore ad opera di Silvestro e alla professione di fede di Costantino che riconosce il primato del vicario di Cristo. Gli studi hanno rilevato come l’origine di entrambi i testi sia romana e come la Donazione sia stata elaborata presso la cancelleria papale (Maddalo 2008, 481, 492, 9). L’autorità del Constitutum fu oggetto di una prima sconfessione da parte di Ottone III (983-1002) (Maddalo 2008, 481; Marcone 2007, 925), ma fu sostenuta da Innocenzo III e ritenuta fondamento della politica pontificia per tutto il XIII secolo, fino alla definitiva dimostrazione di falsità da parte di Cusano (1433), Lorenzo Valla (1440) e Reginald Peacock (1449). Il De Inventione fu elaborato con la finalità di dare un’identità cristiana a Gerusalemme sottraendola all’orbita ebraica; il ritrovamento della Croce e la conversione di Giuda Ciriaco sancivano l’errore della prospettiva giudaica. La lapide situata nella parete meridionale della cappella, che ricorda come l’oratorio e le domos contigue fossero state edificate da Stefano Conti, risulta essere, allo stato attuale, il documento principale per circoscrivere la datazione dei dipinti. L’oratorio fu consacrato dal vescovo di Ostia e di Velletri Rainaldo di Jenne, futuro Alessandro IV (1254-1261), assecondando il 206 SANTI QUATTRO CORONATI
desiderio del cardinale di Santa Maria in Trastevere, il venerdì precedente la Domenica delle Palme del 1246 che, secondo il calculus florentinus, in uso presso la curia romana, corrispondeva al 22 marzo 1247 (Sohn 1997, 10 nota 15). Un’indulgenza di un anno e quaranta giorni veniva offerta ai fedeli che vi si fossero recati il giorno stesso della consacrazione o, ogni anno, nella settimana che corre dal venerdì precedente la Domenica delle Palme sino al Venerdì Santo. La rilevanza del corredo di reliquie (i papi Lucio [253-254], Bonifacio I [418-422] e Lino [66-76]; i martiri Gennaro, Tiburzio, Teodoro, Ippolito, Mario, Marta, i Tre Fanciulli, Nereo, Achilleo, Papia, Mauro, Alessio, Lucia, Prassede, Pudenziana, Dorotea, Essuperanzia), notevole per un oratorio privato, unita all’entità dell’indulgenza concessa a chi l’avesse visitata nel periodo stabilito, hanno fatto ipotizzare che l’ambiente avesse una destinazione non solo privata (Sohn 1997, 20-22; Draghi 1999b, 116; Ead. 2006, 17); la considerazione non è del tutto condivisa da Maddalo (2007a, 593). Sin dal saggio di Toesca del 1902 i dipinti sono stati riferiti per tecnica esecutiva e cultura all’équipe di pittori autrice di parte degli affreschi della cripta del duomo di Anagni, da Toesca chiamato con la sigla di Maestro Ornatista alias Secondo Maestro (1902, 176-177). I contributi successivi, con sfumature diverse, ne hanno confermato l’ambito culturale, precisandone i caratteri (Matthiae 1966, 142; Demus 1968 [1969], 125-126; Boskovits 1979, 10, 31 nota 26; Mitchell 1980, 29-31; Tomei 1984b, 162; Pace 1986a, 425-426; Gandolfo 1988, 300-303; Iacobini 1991, 276-287; Parlato-Romano 1992, 148; Draghi 1999b, 153; Bianchi 2003, 53; Draghi 2004b, 30-38; Monciatti 2005a, 80-81, 105-107; Maddalo 2008, 490-491). L’ambiguità stilistica degli affreschi ha generato considerazioni diverse: per Boskovits appartengono ad una fase matura, ‘stanca’, del Maestro Ornatista, per Gandolfo i dipinti derivano dalla bottega del Maestro Ornatista, per Iacobini sono ad esso successivi di due generazioni, per Bianchi appartengono ad «una fase più stanca della stessa corrente pittorica» (Bianchi 2003, 53). Il riferimento stilistico più diretto, particolarmente per il Giudizio Finale, è certamente il cantiere musivo di San Paolo fuori le mura, crocevia fondamentale per la diffusione nell’Urbe della cultura veneziana. La presenza di più artisti attivi nell’oratorio era stata però già individuata da Matthiae (1966a [1988], 140): lo studioso segnalava la divergenza stilistica tra le figure del Giudizio, profondamente informate ai modi del cantiere paolino nella trattazione dei volti con i lobi frontali accentuati, e le immagini della Disputa e del Miracolo del Toro, realizzate con un’esecuzione più morbida, affine alla “Madonna della Catena” di San Silvestro al Quirinale (¤ 24). Le relazioni con i mosaici di Monreale, citati estesamente nelle architetture e nelle posture delle figure, sono state poste in evidenza da Mitchell (1980, 30-31) che rilevava nei dipinti dell’oratorio una cultura comune agli affreschi di Santa Maria Nova (¤ 33), considerazione condivisa da Tomei (1984b, 162) con l’inclusione anche del Redentore e apostoli ai Santi Giovanni e Paolo (¤ 34c). Mitchell sottolineava anche il carattere inedito per Roma del fregio con i Profeti, a clipei intrecciati, e nel rilevarne la discendenza dal fregio con angeli situato nella parte superiore della parete nel duomo di Monreale, notava come il motivo fosse però usato in altri contesti decorativi romani, come nei mosaici della facciata di Santa Maria in Trastevere (¤ 7). Altri nessi, con sfumature e posizioni differenti, sono stati istituiti con gli affreschi della chiesa cimiteriale di San Nicola a Filettino (Liverani 1968, 50; Andberg, 1969, 130-131, 136138; Tomei 1984b, 162; Gandolfo 1988, 295, 301; Bianchi 2003, 53). La riflessione sull’estraneità all’ambiente romano del motivo decorativo ‘tralcio continuo e fregio intrecciato’ è stata ripresa da Monciatti (2005a, 107) che sottolinea per entrambi gli elementi il carattere di apparizione repentina, come un «innesto avulso (...) per genesi e tradizione»; inoltre il fregio a racemi richiama quelli della cosiddetta Torre di Innocenzo III al Palazzo Vaticano (¤ 32b), nel salone di San Clemente (¤ 31b), nella chiesa dei Santi Giovanni e Paolo (¤ 34c). Per il fregio con i Profeti, sia pure con alcune
divergenze, il precedente romano è costituito dalla serie di Santa Croce in Gerusalemme (Zahlten 1994, 30) e dai medaglioni della fase IX secolo in Santa Maria in Cosmedin. La stanchezza e la scarsa qualità, dominanti nei dipinti di San Silvestro e sempre rilevate negli studi (Boskovits 1979, 10; Bianchi 2003, 53), non sono dissociabili dalle condizioni di conservazione del ciclo, estremamente tormentate (Int. cons.) e tali da condizionarne la valutazione stilistica (Liverani 1968, 50 nota 7): le numerose ripassature e ridipinture, alcune fasi delle quali sono evidenti se si analizza la sequenza delle copie seicentesche e ottocentesche (si vedano le osservazioni nelle schede analitiche), hanno certamente sottratto molto alla godibilità dei dipinti. Gli affreschi d’altronde ebbero probabilmente fin dall’inizio un carattere didascalico, e furono composti mediante un intenso uso di sagome, applicate sulla superficie con inclinazioni diverse (Nimmo-Olivetti 1985-1986): questa pratica, anche se mascherata nel risultato pittorico finale, certamente contribuisce a conferire all’opera ripetitività e monotonia. Il ciclo fu indubbiamente parte del grande programma ideologico e decorativo lanciato ai Santi Quattro da Stefano Conti e affidato a un folto gruppo di pittori; le differenze stilistiche fra i suoi vari nuclei sono anche differenze tecniche, come risulta dalle recenti analisi realizzate durante i restauri. I dipinti di San Silvestro, ad esempio, non sono realizzati a pontate, come nell’Aula (¤ 30a), ma in piccole porzioni, in pratica in giornate; hanno l’arriccio, come non è nell’Aula; e il sesto è stato utilizzato esclusivamente per la realizzazione dei clipei e del cielo stellato e non per la suddivisione degli spazi. Diverse sono anche le scelte cromatiche e le modalità di stesura del colore: nell’oratorio, come base per i verdi e gli azzurri è stata utilizzata una campitura in nero di vite; nell’Aula la stesura di base per i verdi è giallo ocra, per gli azzurri è grigio chiara (Matera 1999, 163; Ead. 2006, 384-386). Molto importante però proprio ai fini della cronologia del ciclo di San Silvestro è il confronto fra il Sogno di Costantino – dove la realizzazione delle vesti, particolarmente dei panneggi di san Paolo è connotata da profonde ombre e da un’esecuzione rigida delle pieghe disposte simmetricamente – e la figura della Grammatica nella parete occidentale dell’Aula, a sua volta intimamente correlata, insieme a parte del mese di Gennaio, Febbraio e Marzo, ai murali della chiesa dei Santi Giovanni e Paolo (¤ 34c). Se questa parte dell’Aula è il frutto di un restauro antico, da datare alla metà circa del sesto decennio in concomitanza con l’affresco dei Santi Giovanni e Paolo, le analogie stilistiche con il ciclo di San Silvestro potrebbero far ipotizzare un leggero slittamento della datazione dei dipinti dell’oratorio rispetto al tradizionale aggancio cronologico offerto dalla data della lapide (1246-47), spingendone così la data verso un momento più prossimo alla morte di Stefano Conti (1254). L’eventuale slittamento cronologico non muta tuttavia il messaggio ideologico e politico del ciclo dell’oratorio, ritenuto una risposta al programma federiciano per la Porta di Capua (Gandolfo 2007b, 324). L’indubitabile significato degli affreschi dedicati a Costantino e a Silvestro – i cui episodi sono attestati a Roma nei dipinti frammentari di San Martino ai Monti alla fine dell’VIII secolo (Andaloro 2002c; Pogliani, in Atlante I ¤ 26; Maddalo 2008, 482), poi tra XI e XII secolo a San Crisogono (Romano, in Corpus IV ¤ 8f), all’Immacolata di Ceri (Zchomelidse 1996), a San Silvestro a Tivoli, e nel perduto fregio del portico lateranense (Croisier, in Corpus IV ¤ 62), e a Pisa nell’architrave del Museo Nazionale di San Matteo – è di ribadire il primato del Sacerdozio sul Regno, avendo come obiettivo polemico Federico II, reo di non avere riconosciuto la sovranità temporale e spirituale del vicario di Cristo, il papa Gregorio IX (1227-1241) e successivamente Innocenzo IV (1243-1254). Nel 1236 Gregorio IX, di fronte alla minaccia del sovrano di stabilire la capitale dell’impero a Roma, aveva appunto richiamato la Donazione di Costantino per dar forza alla legittimità del potere territoriale della Chiesa; tre anni dopo, nel 1239, alle accuse di Federico II che non lo riconosceva come vicario di Cristo e successore di Pietro, Gregorio aveva replicato con la violentissima invettiva Ascendit de mari bestia, in cui il sovrano era definito come l’Anticristo, il
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draco magnus (Capitani 2002, 171). La risposta imperiale era stata la cattura dei prelati imbarcati per partecipare al sinodo indetto dal pontefice (1241); le devastazioni dei territori del patrimonium, l’occupazione dell’abbazia di Grottaferrata, l’accerchiamento di Roma, l’esecuzione del vescovo Marcellino, in un crescendo culminante che vide la destituzione dell’imperatore, decisa da Innocenzo IV nel concilio di Lione, motivata con il rifiuto di promuovere la Crociata e con la colpa eretica della disobbedienza (Paravicini Bagliani 2004, 436). Il ciclo di Costantino e Silvestro, il più esteso tra quelli noti a Roma, fu dunque eseguito durante gli anni conclusivi e più aspri del conflitto tra papato e impero, o subito dopo; ed è indissociabile dagli altri nuclei del programma dei Santi Quattro, tutti intesi a celebrare l’Ecclesia e i suoi eroi anche recenti, Thomas Becket su tutti, campione della resistenza del potere ecclesiastico rispetto a quello temporale.
Interventi conservativi
1570: iscrizione sull’ingresso aperto nella parete meridionale della cappella (STATVARIORVM ET LAPICIDARVM CORPVS ANNO CD · D · LXX), comunicante con il primo cortile e inteso a rendere la cappella indipendente dal monastero. L’apertura dell’ingresso comportò la demolizione di parte dell’intonaco affrescato. 1577: l’oratorio è acquistato dall’Università dei Marmorari con la finalità di possedere un ambiente dove riunirsi (Kolega 1992, 514). 1597: «miglioramenti all’oratorio e alla sagrestia» non meglio identificabili (Libri del Camerlengo, AMANL, Registro 112, c. 1v; Draghi 2004b, 32). 1686: l’imbiancatore Antonio Zeriati interviene all’interno e all’esterno della cappella curando la coloritura della facciata, del SANTI QUATTRO CORONATI 207
portale in travertino e dell’interno (AMANL, Conti di artisti, b. 12, 522; Draghi 2004b, 32). 1727: il pittore Cristoforo Cagnardi modifica l’assetto decorativo dell’oratorio: la volta è suddivisa secondo un sistema di riquadrature ornate con teste di angeli; al centro, entro una cornice centinata, lo Spirito Santo. Operazioni di ritocco e ridipintura («Per avere rischiarito, e poi stuccato tutto quello che era scrostato, e con crepature e bugne e poi ritoccato e ricompagnato col simil al antico», AMANL, Conti di artisti, indoratori, verniciatori e pittori, VII, 528, Conto de lavori fatti ad uso di pittura da Christofano Cagniardi à tutte sue spese e fattura nell’Oratorio SS. Quattro Coronati ordinati dal Sig. Carlo Stefanoni provveditore dell’adunanza dell’Arte de’ Scarpellini di Roma nello scorso anno 1727 (Draghi 2004b, 32). 1793: costruzione di un tramezzo in muratura parallelo alla parete occidentale a seguito di una lite tra l’Arciconfraternita dei Marmorari ed il monastero agostiniano. (AMANL, vol. 77, Libro della sagra Visita in tempo di Mons. Benedetto Passionei, ff. 118v, 120v: «Essendosi dalle Monache di SS. Quattro inoltrati diversi abusi sopra il Nostro Oratorio, colà esistente, levate dalle Porte le sue serrature, fatto uno stanzino per commodo del loro straordinario Confessore (...) rilassare à nostro benefitio il presente stanzino, ed il tramezzo che à tale effetto converrà fare, debba essere fatto à tutte spese del monastero»). 1892, 19 gennaio: il prefetto della Provincia di Roma Brunelli informa Filippo Vitis, primo console dell’Arciconfraternita dei Santi Quattro Coronati del desiderio del ministro della Pubblica Istruzione di realizzare nell’oratorio alcuni tasselli di descialbo al fine di restituire alla cappella l’originaria unità (AMANL, Corrispondenze e memorie, b. 15, fasc. 626). 1908-1913: restauri di Luigi Bartolucci, sotto la direzione di Antonio Muñoz. Descialbo della decorazione della volta e rimozione della tela settecentesca con angeli sostenenti corone, con rinvenimento della partitura ornamentale a stelle e croci e, al centro, delle cinque coppe di maiolica smaltata. Il descialbo è esteso al di sopra delle Storie costantiniane con il rinvenimento della stesura di colore rosso, del motivo a greca bianco, del fregio a girali di acanto e di un’ulteriore decorazione a greca, in ottimo stato di conservazione; rinvenimento del registro inferiore con 18 profeti, «alcuni interamente conservati, altri tagliati a metà, altri ancora appena riconoscibili (...) in origine dovevano essere 22 (...) il nome (...) in due figure sussiste ancora: Ionas-Micheas (...)» (Muñoz 1913b, 207-208; Id. 1914, 117). Eseguita anche la demolizione del tramezzo, le cui tracce sono ancora visibili nel pavimento. 1915: Eugenio Cisterna con la direzione dei lavori di Antonio Muñoz. «Occorre fermare l’intonaco della volta che minaccia di cadere, riprendere parti della decorazione che vanno perdute, accompagnare i fondi con tinte neutre (...). Rifare le cornici (...). Riprendere la decorazione dell’antica finestra aperta nei restauri e infine ravvivare il tutto con apposita tempera (...) tutto per una superficie di mq 38» (Bellanca 2003, 73, 328-329).
1950: Arnolfo Angelo Crucianelli, riproposizione geometrica delle linee compositive del ciclo. 1984: Carla D’Angelo, Anna Marcone, Lidia Rissotto, riadesione e coesione della pellicola pittorica. 1997: restauro della SBAP-Roma: intervento sulla parete occidentale di Francesca Matera, con la direzione di Andreina Draghi. Messa in luce nella zona inferiore, tra il secondo e il terzo discepolo alla destra del Cristo, della sinopia realizzata a carboncino direttamente sull’arriccio e tracce di doratura sull’aureola del Cristo. 2006-2007: restauro della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Lazio: intervento sulle pareti settentrionale, orientale e meridionale di Francesca Matera, con la direzione di Andreina Draghi.
Documentazione visiva
Antonio Eclissi, acquerelli (1637), ÖNB, Cod. s. n. 3311; incisioni di Gerolamo Carattoni, in Séroux d’Agincourt 1841, VI, tav. CI; Wilpert 1916, IV, tavv. 268, 269.
Fonti e descrizioni
Mariano da Firenze 1518 [1931], 168; Libri del Camerlengo, AMANL, Registro 112 (1597), c. 1v.; Mammolo 1628, 16; Mancini ante 1630 [1956-1957], 274; Libro della sagra Visita in tempo di Mons. Benedetto Passionei, (1793), AMANL, vol. 77, ff. 118v, 120v; AMANL, Corrispondenze e memorie, (1892), b. n. 15, fasc. 626.
30g. IL FREGIO NEL SOTTARCO DEL PORTICO Quinto-sesto decennio del XIII secolo
Si tratta di un fregio vegetale su fondo bianco a semplici fiori rossi e blu, con steli giallo ocra terminati da un motivo a tre foglie rosse e blu alternate, situato in uno dei sottarchi del portico della chiesa.
Note critiche
Le colonne oggi incassate nel muro nord del portico erano originariamente parte del colonnato che in età carolingia separava la navata centrale della chiesa da quella settentrionale, all’epoca sormontate da un architrave e non dagli archi oggi visibili, che datano della ricostruzione di Pasquale II (1099-1118) dopo l’incendio causato dall’incursione di Roberto il Guiscardo (Barelli 2006, 7; CBCR 1976, IV, 18). La chiesa pascaliana essendo alla fine più piccola della precedente, le arcature si ritrovarono all’esterno del nuovo edificio, nella zona del cortile interno. Questa complessa situazione architettonica spiega perché Apollonj Ghetti (1964) o Barberini (1989) abbiano datato il fregio al IX secolo, immaginandolo forse all’interno della chiesa carolingia. Il motivo è però affine a vari altri della Roma duecentesca. Vicino per stile e per luogo, ma un po’ più sviluppato e su fondo ocra, è quello della cappella di San Silvestro, situato sulla parete del Battesimo di Costantino. Pure più complesso, ma su fondo bianco,
è il fregio sotto il Martirio di san Giovanni ad Anagni (Un universo di simboli 2001, fig. 11); il fondo bianco è presente anche nel frammento della Torre di Innocenzo III in Vaticano (¤ 32b), e, un po’ prima, nel cosiddetto oratorio di Onorio III (¤ 15), dove però i motivi vegetali non sono simili. La decorazione del portico deve dunque anch’essa appartenere alla grande campagna pittorica del complesso dei Santi Quattro Coronati.
Interventi conservativi e restauri
Secolo XIII: poco dopo la realizzazione della decorazione pittorica, gli archi vengono murati per creare ambienti supplementari nel palazzo (Barelli 2009b, 39). Fine secolo XX: le lunette vengono smurate e il frammento viene riscoperto (Barelli 2009b, 39).
Bibliografia
Apollonj Ghetti 1964, 30; Guide rionali. Celio I 1983, 48; Barberini 1989, 27; Barelli-Falconi 2000, 285 nota 19; Barelli 2009b, 39. Karina Queijo
Bibliografia
Séroux d’Agincourt, 1841, V, 172; Séroux d’Agincourt 1841, VI, 181-182; Adinolfi, 1881 [1981], 329, nota 3; Toesca 1902, 176177; Toesca 1902 [1994], 179; Muñoz 1913b, 205-211; Muñoz 1914, 103-121; Wilpert 1916, II, 1008-1016; Armellini-Cecchelli 1942, 609-610; Hermanin 1945, 276-279; Apollonj Ghetti, 1964, 89-94; Matthiae 1966a [1988], 135-144; Demus 1968, 125-126; Liverani 1968, 50; Andberg 1969, 130-131, 136-138; Boskovits 1979, 10, 31, note 23 e 26; Toubert 1979, 782, nota 67; Mitchell 1980, 29-32; Tomei et al. 1984, 160-167; Pace 1986b, 425-426; Gandolfo 1988, 300-303; Barberini 1989, 55-57; Iacobini 1991, 276-287; Kolega 1992, 508; Parlato-Romano 1992, 148; Zahlten 1994, 21-30; Christe 1995, 795, 797; Simi Varanelli 1996, 88; Sohn 1997, 8-47; Draghi 1999b, 115-118; Matera 1999, 163-166; Bellanca 2003, 73, 328-329; Brancone 2004, 89, 97, 101 nota 70; Draghi 2004b, 30-38; Monciatti 2005a, 27 nota 137, 80-81, 105107; Matera 2006, 384-390; Gandolfo 2007b, 323-324; Romano 2007, 629; Maddalo 2008, 481-494; Barelli 2009a, 70-79. Andreina Draghi
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30h. IL PERDUTO AFFRESCO CON LA CROCIFISSIONE NELLA BASILICA 1248
Uno degli acquerelli di Antonio Eclissi nel codice s. n. 3311, oggi alla biblioteca Nazionale di Vienna, è l’unica testimonianza di una Crocifissione realizzata nel 1248 (Iscr. 3) nella chiesa dei Santi Quattro Coronati. Il disegno di Séroux d’Agincourt è copia da Eclissi. Il Cristo è affisso su una croce a forma di “Y”, con un semplice perizonium e i piedi trafitti da un unico chiodo. Un angelo toglie la corona di spine dalla testa del Cristo e la sostituisce con una corona ornata di perle; a sinistra, Longino, con tunica corta da soldato e mantello foderato di pelliccia, trafigge il costato del Cristo, e a destra Stephaton, di schiena e con la testa rivolta all’osservatore, tiene in una mano l’asta con la spugna e con l’altro il vaso con l’aceto. Agli estremi del riquadro, Dismas e Gestas, anch’essi con perizonia e con le braccia legate a croci di formato latino. La scena si staglia su un fondo a campi cromatici e geometrici, rosa su verde in alto, giallo in basso; è incorniciata da una fascia a greca bianca su rosso. Al di sotto della Crocifissione, in un campo a fasce bianche e rosse alternate, appare l’iscrizione dedicatoria, scritta a lettere bianche e nere (Iscr. 1, 2, 3); esattamente sotto il Cristo, in un piccolo riquadro rettangolare, si vedono Divitia e il suo sposo, l’una di fronte all’altro, in ginocchio e con le mani giunte.
Iscrizioni
Iscrizioni perdute, già allineate su quattro righe orizzontali, secondo un andamento rettilineo. Il disegno riporta lettere bianche e nere su fondo rosso e bianco. La scrittura è disegnata imitando una maiuscola gotica. Trascrizioni dal disegno di Antonio Eclissi, ÖNB, s.n. 3311, f. 36r. 1 - Quattro iscrizioni identificative, sulla prima riga: Dimas; Longinus; Stephaton; Getas 2 - Iscrizione esegetica, su tre righe non successive né contigue.
Inparibus meritis tria pe//<n>dunt corpora ramis // Dimas et Gestas in medio divina potesta<s> 3 - Iscrizione dedicatoria, già allineata su due righe non successive né contigue, con la porzione di testo contenente il nome della donatrice scritto sotto due figure in ginocchio.
A<nno> D(omini) MCCXLVIII // Divitia hoc opus fieri fecit (S. Ric.)
Note critiche
Nonostante l’Eclissi avverta che la Crocifissione si trovava all’interno della chiesa, Séroux d’Agincourt la situa nella cappella di San Silvestro, forse perché il resto del codice di Eclissi – unica fonte per Séroux, che non vedeva più l’affresco – contiene le copie delle Storie di Silvestro e Costantino. Il codice di Eclissi era passato del tutto inosservato fino alla pubblicazione nel catalogo dei manoscritti della Bilioteca Nazionale di Vienna (Mazal-Unterkircher 1967, 55); tuttavia già nel 1913 il Muñoz, che pure non conosceva l’acquerello, aveva potuto individuare la corretta ubicazione del dipinto tramite un’interpolazione seicentesca di una fonte quattrocentesca, l’Ufficio della Vergine. Il passaggio interpolato consisteva in una preghiera: 210 SANTI QUATTRO CORONATI
«Imparibus meritis tria pendent corpora ramis / Dimas et Festas in medio Divina potestas. / Alta petit Dimas infelix tartara Festas / Dum ego securus periculum sum transiturus / Vulneribus quinis erue me Christe ruinis / Vulnera quina Dei sunt medicina mei / Sunt medicina mei pia Crux de Passio Dei / Dicantur isti versus in facie inimici et numquam poterit nocere dicent». Una parte di questo testo appare nell’iscrizione sotto la Crocifissione (Iscr. 2): lo nota anche il citato commento seicentesco nell’Ufficio, ricordando che la Crocifissione si trovava «(...) in aede Sanctorum Quatuor ingredientibus ad latus dextrum (...)» e non nella cappella di San Silvestro come diceva Séroux. Più che sul piedritto dell’arco trionfale (Zahlten 1994, 38), il dipinto doveva trovarsi sulla controfacciata, a destra dell’ingresso, più o meno come la quasi contemporanea tomba Fieschi a San Lorenzo fuori le mura (¤ 41). La preghiera in questione è di cronologia molto antica ma non ben precisabile (Enslin 1945, 16) ed è nota in alcune varianti. Nel XII secolo viene inclusa in un manoscritto delle Homeliae in Leviticum di Origene, con la conclusione «Hos versus dicas ne furto te tua perdas» (In principio: Incipit index of latin texts, online), quale protezione contro i furti. Le prime parole della preghiera nell’iscrizione dell’affresco sono da intendere quale semplice designazione della Crocifissione soprastante, ma non è da escludere nemmeno una più generale intenzione apotropaica in favore dei committenti dell’opera. L’iscrizione ha conservato anche il nome della committente, Divitia: si tratta della terza committenza femminile attestata nella chiesa, dopo i dipinti visti da Mancini vicino alla Crocifissione e donati da una Donna Maria (Mancini ante 1630 [1956-1957]), e dopo la decorazione absidale donata nel XII secolo da Tuttabuona (Draghi, in Corpus IV ¤ 31). Divitia era molto probabilmente la moglie di Giacomo di Foligno, che nel testamento del 1253 chiede di essere sepolto ai Santi Quattro Coronati e designa la moglie Divitia e la figlia Anastasia quali suoi eredi (Barelli 2006, 51 nota 65). Giacomo destina lasciti anche ai monaci dei Santi Quattro, menzionando il priore, e il Magister Berardus, cappellano di Stefano Conti, testimoniando così gli stretti legami che univano la famiglia al sito dei Santi Quattro e alla cerchia di Stefano Conti. Nel pannello pittorico le persone rappresentate sono dunque Divitia e molto probabilmente Giacomo, pur non esplicitamente citato: privati che contribuiscono alla decorazione del complesso che conosce grandissimo sviluppo grazie al cardinal Conti. Lo schema compositivo e iconografico della Crocifissione richiama quello dell’altra Crocifissione di Sant’Urbano alla Caffarella (XI secolo, molto ridipinta nel XVII; Zahlten 1994, 40-42), specie per la presenza dei due donatori ai piedi della Croce e di Longino e Stephaton (alla Caffarella denominato Calpurnius), i quali appaiono anche nella cappella di Teodoto a Santa Maria Antiqua (VIII secolo) o nei manoscritti ottoniani come l’Evangelario di Enrico II, sempre con Stephaton rappresentato di schiena; i ladroni legati al braccio più corto della croce sono nel Beatus di Gerona (975 ca.), nel codice di Egberto (980 ca.), e nella Bibbia di Farfa (XI secolo) (per questi casi si veda brevemente Schiller 1968, figg. 389, 393, 391) Le particolarità iconografiche del pannello dei Santi Quattro sono la mancanza della Vergine e di san Giovanni, la croce a forma di “Y” – che, attestata in Germania già nel XII secolo, appare qui a Roma per la prima volta e si diffonderà poi in Italia nel corso del Duecento (Zahlten 1994, 42) – e l’angelo che sostituisce la corona del Cristo. Il motivo del Crocifisso incoronato è frequente nell’oreficeria francese del XII secolo e limosina del XIII (Thoby 1959, 156), ma quello della sostituzione della corona è più raro: il
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SANTI QUATTRO CORONATI 211
Pace (1972, 159) ne richiama un esempio di poco più tardo (1263) all’Eremo di Sant’Onofrio al Morrone (Sulmona). Nell’acquerello è difficile capire se gli occhi del Cristo sono aperti o chiusi, ma la posizione della testa farebbe piuttosto pensare a un Christus patiens. Per quanto si può capire, lo stile del dipinto sembra affine a quello delle opere romane di metà secolo, che spesso presentano sfondi a fasce di tinte unite. Il manto di Longino, con la sua fodera di pelliccia, ricorda quello dei due personaggi assisi – Cratone e Zenofilo – nella scena con san Silvestro che resuscita il toro nella cappella di San Silvestro: anche un labile indizio per immaginare l’esecuzione del pannello da parte di un pittore della bottega attiva nella cappella.
Documentazione visiva
Antonio Eclissi, disegno acquerellato, ÖNB, s. n. 3311, f. 36r; Jean Baptiste Séroux d’Agincourt, disegno a matita (1780-1790), BAV, Vat. lat. 9843, ff. 27, 28; Jean Baptiste Séroux d’Agincourt,
disegno a matita (1780-1790) BAV, Vat. lat. 9849, f. 52v; Séroux d’Agincourt 1826-1829, V, tav. CI.
Fonti e descrizioni
Ufficio della Vergine (XV secolo) BAV, Chigi D. IV n. 54, ff. IIIII; Mancini ante 1630 [1956-1957], I, 67.
Bibliografia
Séroux d’Agincourt 1826-1829, II, 291; Séroux d’Agincourt 1826-1829, III, 238; Adinolfi 1881 [1981], 331; Muñoz 1913b, 209-210; Muñoz 1914, 5, 68-69; Apollonj Ghetti 1964, 42; MazalUnterkircher 1967, 55; Pace 1972, 159, 162 note 33-34; CBCR 1976, IV, 4; Herklotz 1992, 39 nota 22; Zahlten 1994, 21-23, 35-42; Draghi 1999b, 149 nota 61; Monciatti 2005a, 83 nota 102; Barelli 2006, 51 nota 65; Draghi 2006, 78, 105-106 nota 187; Barelli 2009b, 45. Karina Queijo
30i. I RESTI DELLA DECORAZIONE AFFRESCATA SULLA CONTROFACCIATA DELLA BASILICA Quinto-sesto decennio del XIII secolo
Della decorazione medievale della controfacciata dei Santi Quattro Coronati (v. Crocifissione, ¤ 30h) resta oggi solo una parte della parete a sinistra dell’ingresso e di quella meridionale adiacente. Le ridipinture seicentesche non coincidono del tutto con le parti medievali, così che non è facile valutare con precisione l’aspetto e gli attributi dei personaggi rappresentati. Partendo dal contrafforte accanto all’ingresso, si vede una figura in piedi su fondo verde scuro: dalla vita in su la superficie pittorica è seicentesca; nella parte medievale si vede che indossa una casula rossa e un pallio sopra una dalmatica a medaglioni con uccelli, e con bordure gemmate; sotto ancora, una tunica bianca. Si vede la parte inferiore di un pastorale che lo indica quale vescovo, e le ridipinture gli attribuiscono una tiara. Ai suoi piedi, contro un campo a fondo blu, due piccoli personaggi piegano a terra il ginocchio: quello di sinistra ha l’abito bianco dei Cistercensi, quello di destra invece, tonsurato, ha quello marrone dei Benedettini; sotto di lui l’iscrizione «Mag(ister) Rainaldus» (Iscr. 1). Ancora più in basso, un pannello rosso che simula un finto marmo, con al centro un disco verdazzurro. Lo spessore del contrafforte ha un fregio vegetale che nella parte bassa si trasforma in una fascia semplicemente azzurra. La vera e propria parete di controfacciata è divisa in due registri. In alto, a sinistra di una finestrina, una figura assisa in un trono gemmato munito di poggiapiedi, con calzature ornate di perle. La veste è rosata, con bordi ornati: lo stesso motivo torna anche nel brano visibile all’altezza del petto, risultato oggi poco comprensibile delle manipolazioni conservative. I danni della superficie pittorica medievale impediscono di capire cosa facesse l’altra piccola figura visibile a sinistra, la cui testa è seicentesca e di cui si vede – forse – la mano aperta che spicca contro la figura assisa. Al di là della finestra il pittore seicentesco ha visto e ricostituito due figure assise, che in realtà erano tre, sedute strette l’una accanto all’altra, la prima in tunica rosa chiaro, casula rosa scuro e pallio, la seconda in tunica rosa e manto verde, l’ultima in tunica gialla e manto ocra [2]. I resti delle maniche dicono che i tre avevano le mani levate. L’elemento beige che attraversa verticalmente la superficie pittorica poteva essere la 212 SANTI QUATTRO CORONATI
colonnetta di un’architettura che accoglieva i personaggi (stalli, o sedili?), i cui frammenti si vedono forse accanto ai piedi della figura con la casula, vicino alla cornice della finestra. Al di là della colonnetta una figura in piedi – probabilmente un vescovo – con tunica bianca e dalmatica verde chiaro con medaglioni a figure d’uccelli, casula rossa e pallio. Il confessionale impedisce di comprendere con esattezza cosa ci sia nel registro inferiore. Sulla controfacciata è visibile un riquadro con architetture, e un soldato armato che brandisce la spada verso la destra [3]: Muñoz (1914, 73) vedeva ancora un secondo soldato e altre figure sulla destra. Sulla parete laterale il registro inferiore è nascosto, mentre al di sopra del confessionale si vede una scena frammentaria con una barca in un mare pieno di pesci e molluschi [4]; nella barca, una figura con veste violetta, pallio, e mano levata, e quel che resta di una seconda figura vestita di verde forse in atto di remare. Sul contrafforte, una figura stante con tunica bianca, manto rosso, manipolo (?) sul braccio sinistro, e pastorale. Al disotto si vede ancora qualche resto di un pannello a falso marmo.
Iscrizioni
1 - Iscrizione identificativa, disposta alla base del riquadro, sotto una figura di monaco, all’interno di una fascia rettangolare, allineata in orizzontale secondo un andamento rettilineo irregolare. Lettere bianche su fondo rosso. Intera. Scrittura maiuscola gotica.
Mag(ister) Rainald(us) (S. Ric.)
Note critiche
L’ultimo restauro ha eliminato i ritocchi sullo strato pittorico medievale, e ha reso evidente che i dipinti sono duecenteschi, e non trecenteschi come aveva pensato Muñoz all’atto della
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scoperta (Muñoz 1914, 72). Malgrado i danni e la presenza di vaste porzioni di intonaco rifatto e dipinto a integrazione di quello medievale, l’analisi stilistica oggi mostra con sufficiente chiarezza quali siano i possibili nessi della maniera di questo pittore, o di questa bottega. La posizione dei personaggi assisi ricorda certamente quella degli apostoli del Giudizio Universale dell’attigua cappella di San Silvestro (¤ 30f); il sistema dei panneggi appare però qui meno secco e grafico. Nelle due figure di monaci, panneggi e volti rinviano piuttosto all’ambito del Terzo Maestro di Anagni, cosa non sorprendente visto il ruolo fondamentale che questo maestro e i suoi aiuti giocano nel complesso dei Santi Quattro; ma non con le ‘punte’ più plastiche del ciclo dell’Aula, e invece forse ancora affini a quelle del Terzo Maestro della cripta anagnina (Gandolfo 1988, 302). H. Toubert (1979, 782-783) aveva però indicato anche affinità con il manoscritto (BNF, ms. lat. 8114) eseguito per Ottaviano Ubaldini dalla bottega del Maestro della Bibbia di Corradino, databile secondo la Toubert attorno alla data di elezione di Ubaldini al cardinalato di Santa Maria in Via Lata (1244). L’ipotesi di una paternità diretta degli affreschi appare però improbabile, laddove quella di una cultura visuale, di origine verosimilmente meridionale, comune sia al Maestro della Bibbia di Corradino che al pittore dei Santi Quattro sembra più convincente. Per Monciatti (2005a, 76 nota 69, 82 nota 101) e Romano (2007, 629-630) l’Ubaldini potrebbe anche essere il committente della controfacciata. Ottaviano era venuto a Roma nel 1247 a prestar man forte a Stefano Conti e agli tre cardinali reggenti di Roma, e si era insediato nella residenza dei Santi
Quattro dopo la morte di Stefano Conti (1254). Ma gli affreschi non mostrano alcun esplicito riferimento alla committenza di Ottaviano: mostrano invece i due piccoli monaci inchinati ai piedi del vescovo in un atteggiamento simile a quello di Onorio III nella Crocifissione del Laterano (¤ 13). L’iscrizione «Mag. Rainald.» sotto il benedettino allude con tutta verosimiglianza all’identità del personaggio; Muñoz (1914, 73), Mahn (1937, 254) e Apollonj Ghetti (1964, 57) la consideravano la firma dell’artista, ma la spiegazione più verosimile è che si tratti di uno dei committenti del dipinto, l’altro essendo il monaco bianco che in origine aveva anch’esso un’iscrizione, oggi perduta e illeggibile già ai tempi di Muñoz (1914, 73). Il pannello su cui spiccano i due monaci è d’altronde simile a quello di Divitia e di suo marito, nella Crocifissione da loro fatta eseguire sulla stessa parete, dall’altra parte dell’ingresso (¤ 30h). Gandolfo proponeva di identificare questo magister Rainaldus con Rainaldo di Jenne, il seniore dei quattro cardinali reggenti Roma in assenza di Innocenzo IV, cardinal vescovo di Ostia e futuro Alessandro IV (1254). Rainaldo aveva in effetti avuto il titolo di magister (Paravicini Bagliani 1972, 45; Manselli 2000, 393) ed era certo in rapporto con i Santi Quattro almeno per la consacrazione della cappella di San Silvestro nel 1246 (¤ 30f), ma non è mai stato monaco, e non si capisce perché si sarebbe fatto così rappresentare. Un altro magister Raynaldus è menzionato nella familia di Rainaldo di Jenne nel 1234 (Paravicini Bagliani 1972, I, 58), e altri ancora sono citati nelle carte dell’abbazia di Sassovivo (Petronio Nicolaj 1974) da cui i Santi Quattro dipendevano sin SANTI QUATTRO CORONATI 213
Interventi conservativi e restauri
XVII secolo (?): viene rifatta la parte superiore degli affreschi (Barelli 2009b, 45). XVII secolo: scialbo degli affreschi (Barelli 2009b, 44). 1908-1910: messa in luce degli affreschi di controfacciata da parte di Luigi Bartolucci, durante i restauri diretti da Muñoz (ACS, AA.BB.AA., I Divisione 1909-1924, b. 1476). 1989-1999: intervento sulla controfacciata nel quadro dei lavori diretti da Andreina Draghi, Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici di Roma, in tutto il complesso dei Santi Quattro (Draghi 1999b, 115).
Bibliografia
Carletti s.d., 28; Muñoz 1914, 72; van Marle 1923, 436; Mahn 1937, 253-257; Di Cerdena 1950, 23; Apollonj Ghetti 1964, 57; Manzi 1967, 53; Manzi 1968, 98-99; Toubert 1979, 782-783; Guide rionali. Celio I 1983, 52; Gandolfo 1988, 302; Barberini 1989, 34; Romano 1995b, 91 nota 111; Barelli 1998, 113; Monciatti 2005a, 76 nota 69, 82-83 note 101-102; Draghi 2006, 78, 106 nota 188; Romano 2007, 630. Karina Queijo
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dal 1138. L’identità del magister Raynaldus dipinto resta quindi per ora non precisabile. Data appunto la dipendenza da Sassovivo, la presenza di un benedettino nell’affresco si spiega facilmente ai Santi Quattro. La presenza del cistercense è più problematica. Il Mahn (1937, 243-246), che credeva il dipinto trecentesco, la spiegava con il passaggio di Sassovivo ai Cistercensi dell’abbazia del Subasio nel 1332: la circostanza tuttavia non vale per il Duecento, e la questione deve quindi restare aperta. Lo stato di conservazione dei dipinti impedisce di capire con certezza se il programma iconografico fosse imperniato sulla questione del conflitto tra Papato e Impero, così come quello della cappella di San Silvestro. Alcuni elementi però permettono almeno di ipotizzarlo. Serena Romano si chiedeva già se la scena con il soldato [3], in genere letta come un Massacro degli Innocenti a partire da Muñoz (1914, 72), non fosse invece un Martirio di san Thomas Becket, frequente nel Duecento italiano e includente figure di soldati in cotte medievali, come ad esempio ai Santi Giovanni e Paolo a Spoleto (Romano c.s. [a]): la scelta del personaggio sarebbe ovviamente ben coerente con le tematiche del conflitto. In questa stessa direzione, ci si può chiedere se la scena con la barca [4] (integrata nel Seicento con le figure di Giovanni, di Pietro e di Paolo) non sia – meglio che una sorta di Navicella (Muñoz 1914, 73; Romano 2007, 630) – l’illustrazione del viaggio in barca che Thomas Becket compie per fuggire il re Enrico II e l’Inghilterra, o il suo viaggio di ritorno, così come lo 214 SANTI QUATTRO CORONATI
rappresenta attorno al 1230-1240 il f. 4v del codice 6 della Paul Getty Library (Index of Christian art, online), e che si riferisce al racconto delle diverse Vitae di Becket (p. es. Guernes de PontSainte-Maxence 1172-1174 [1922], 71). Lo stato di conservazione delle figure del registro superiore impedisce di comprendere se si trattasse del re che dà l’ordine di uccidere Becket (la figura in trono col piccolo personaggio), una scena rappresentata verso il 1260 nel Palazzo Vescovile di Treviso (oggi al Museo Diocesano: Bettini 1967, 26, 28, 30). Le figure sedute dei Santi Quattro [2] potrebbero in questo caso essere i prelati che assistono alla scena; essendo soltanto tre, non possono essere i Padri della Chiesa (Romano 2007). Restano non identificabili anche i tre personaggi stanti dei riquadri nel registro superiore; per il Mahn (1937, 253) il primo vescovo sul contrafforte è san Gregorio; per Muñoz (1914, 72) invece è sant’Agostino. Lo stesso Thomas Becket, arcivescovo di Canterbury, potrebbe essere uno di loro. Le incertezze restano molte, ma è possibile pensare che il programma iconografico avesse davvero specifici e concreti riferimenti al conflitto tra papato e autorità temporale. Esso affiancava quindi gli altri nuclei pittorici del complesso dei Santi Quattro, specialmente la cappella di San Silvestro con il suo ciclo a tema politico. La decorazione della controfacciata si distingue però per essere il risultato di committenze definibili come ‘private’ nel caso di Divitia (¤ 30h), in quello di Dona Maria oggi perduto (Mancini ante 1630 [1956-1957], I, 67), e forse anche in quello del Raynaldus e del suo compagno monaco bianco.
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SANTI QUATTRO CORONATI 215
31. LE DECORAZIONI AFFRESCATE DELLA RESIDENZA DI SAN CLEMENTE Quinto-sesto decennio del XIII secolo
31a. SALETTA NELLA TORRE
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Si tratta di una decorazione molto frammentaria, scoperta in una piccola sala all’ultimo piano della torre della residenza di San Clemente. I dipinti sopravvissuti si trovano ai lati delle finestre, sulle pareti ovest ed est dell’ambiente. Nella prima, a sinistra della finestra si vede la figura di un cervo raffigurato di profilo [1], con lunghe corna e dorso macchiettato; a destra invece appare la cerbiatta [2], anch’essa con pelo a piccole macchie. Il campo pittorico, geometrizzato in forma triangolare, ha fondo blu intenso, ed è incorniciato da un alto bordo a fasce ocra e rosso, bordate di bianco; oltre questa bordatura, e dopo un’ulteriore fascia su fondo bianco e a motivi a ‘semicrocette’ rosse e nere, si svolge un fregio a motivi vegetalizzati, sorta di fogliame organizzato a ritmo ternario e a gruppi cuoriformi. I due animali si stagliano contro il fondo blu ma debordano dai confini geometrici con effetto liberamente naturalistico. Sulla parete opposta, in peggior stato di conservazione, a sinistra un leone del tipo antico ‘avanzante’ [3], e a
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destra ciò che resta di un fantastico grifo [4] con gran becco biancorossastro e mento peloso. Il sistema delle campiture e i colori dello sfondo e delle bordature sono uguali a quelli della parete opposta. 5
Note critiche
La residenza di San Clemente, titolo cardinalizio, accoglieva nel XIII secolo il clero regolare della chiesa. Durante tutto il secolo San Clemente restò priva del cardinale titolare: l’ultimo cessò nel 1198, e fu solo nel 1295 che la chiesa – importantissima nella vita liturgica, devozionale, processionale della città – fu assegnata a un nipote di Bonifacio VIII, il cardinale Giacomo Caetani Tomassini. Durante il Duecento venne invece data in commenda al cardinale di Santa Maria in Cosmedin, una pratica economicamente molto vantaggiosa per il cardinale reggente. Dal 1216 al 1250 il cardinale di Santa Maria in Cosmedin e
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216 SAN CLEMENTE / ATLANTE I, 14
commendatario di San Clemente fu Raniero Capocci, cistercense; ci fu poi vacanza del titolo fino al 1261, quando divenne cardinale Giacomo Savelli, poi papa Onorio IV (Eubel 1913). Il corpo di fabbrica in cui è situato l’ambiente affrescato fu realizzato nei decenni della commenda di Raniero Capocci (Barclay Lloyd 1989), ma è difficile sapere se si sia trattato di un’iniziativa dei chierici della chiesa, o – più verosimilmente – della committenza dello stesso Capocci, che si occupava molto di San Clemente, e che ispirò forse la bolla di Innocenzo IV, data poco dopo la morte di Capocci nel 1250 al fine di regolamentare la vita del clero di San Clemente, fissando la ripartizione delle rendite in 10 parti, una per la manutenzione della chiesa, sei ai chierici, tre al cardinal commendatario (Oliger 1940; Barclay Lloyd 1989). Ricordiamo che è nel Palazzo di San Clemente che entra Giunta Pisano, nel 1239, accompagnato da un famulus, dal figlio chierico Leopardo, e dagli altri testimoni all’atto arbitrato dal Capocci (Verani 1958). Non è possibile, ad oggi, definire la funzione dell’ambiente dipinto; si tratta comunque di una piccola stanza, non necessariamente destinata alla vita comune del clero, e si può immaginarla anche parte di una sorta di appartamento residenziale. Si è ipotizzato (Monciatti 2005a, 72) che la menzione del documento redatto il 19 febbraio 1254, «Romae in hospitio Ottoboni apud ecclesiam S.Clementis» (Paravicini Bagliani 1972, 372) designi precisamente la residenza di San Clemente, e il fatto che il cardinale Ottobono Fieschi ne avesse preso possesso, ciò che è certo possibile – ancorché non accertato – trattandosi degli anni di vacanza del titolo di Santa Maria in Cosmedin cui spettava la commenda di San Clemente.
La decorazione pittorica della stanza nella torre si situa in una zona intermedia fra tematica profana e soggetto di tradizione religiosa. La disposizione simmetrica degli animali affrontati, pur suggerita ovviamente dalla situazione reale delle pareti con finestre, evoca subito i temi paleocristiani dei cervi che si abbeverano alla fonte; il leone e il grifone sono inoltre i protagonisti del celebre Salmo 90, da cui discende la materia iconografica della cattedra pontificia del Laterano e della basilica di Assisi (Gandolfo 1983a). Come tante altre volte in questo scorcio di Medioevo, l’impressione è che l’apertura verso il mondo naturale si faccia entro piste guidate, e che l’invenzione pittorica si manifesti in modo progressivamente più libero ma all’interno di categorie assodate. Questi dipinti provano ancora una volta la coerenza del mestiere e il secolare expertise delle botteghe romane di affresco, e però costituiscono anche un caso di qualità e libertà molto alte. L’ispirazione all’antico è esplicita soprattutto nella scelta del ‘tipo’ del leone avanzante [3, 6]; il grifo sfiora i registri del grottesco e del favolistico; cervo e cerbiatta sono animali ‘veri’, dipinti con amore e interesse per le qualità del pelame e per le differenze morfologiche e cromatiche tra il maschio e la femmina, quest’ultima ritratta a colori più spenti, morbidamente accovacciata e con il collo inarcato. Il sistema delle pennellate mostra ancora bene la tendenza allo schematismo [5] – la rete dei tratti bianchi sul muso e sulla pancia del cervo – ma se lo si analizza da vicino si vede che il pittore procede a mano libera, magistralmente sicuro e abituato a gestire le sue figure senza bisogno di schemi o, almeno in apparenza, di disegni preparatori. Quelle che sembrano pennellate geometrizzate poi sottintendono SAN CLEMENTE / ATLANTE I, 14 217
anche un’osservazione attenta allo spazio e alla luce: uno dei rami delle corna del cervo, per esempio, è ritratto più lontano [1], con colori più spenti, dunque visto come ‘in prospettiva’ dietro l’altro più vicino; le strisce bianche sul collo e il ventre sono logiche in rapporto al cadere della luce dalla finestra. Un simile indice di variatio è anche nel repertorio ornamentale. I fregi vegetali abbondano nei dipinti murali romani duecenteschi, ma nessuno è uguale ad un altro, ancorché gli esempi conservati compongano alla fine una sequenza leggibile anche in termini di svolgimento cronologico: dai pattern più rigidi dei dipinti di Santa Maria Nova e dei Santi Giovanni e Paolo (¤ 34c), a quelli monumentali della Rotonda ai Santi Cosma e Damiano (¤ 44b), a quelli più tardi di Sant’Agnese, Santa Passera e San Saba (¤ 49, 50, 66), si disegna uno svolgimento in cui i motivi della stanzetta di San Clemente non possono situarsi in posizione troppo attardata, e costituiscono un caso speciale a causa dei colori morbidi e ombrosi, rialzati di bianco come sempre in questo genere di fregi. Il fondo
31b. SALONE
lavorato a campiture geometriche appare in monumenti databili attorno alla metà del secolo o subito dopo: il Calendario di Santa Maria de Aventino (¤ 35), i perduti dipinti di San Lorenzo in Lucina (¤ 38), gli affreschi di controfacciata in San Lorenzo fuori le mura (¤ 40), il monumento Fieschi (¤ 41), nonché il “coro delle monache” al San Pietro in Vineis di Anagni, circa 1256 (Romano 1997) fino agli affreschi di Bominaco, 1263 (Lucherini 2000). L’affinità, ma anche una relativa distanza, dal repertorio animalistico dispiegato nell’Aula ai Santi Quattro (¤ 30a) convince forse ad allontanarsi di qualche anno, e a preferire per questi affreschi una cronologia alla metà o al sesto decennio del secolo, forse – ma è ipotesi avventurosa – per committenza Fieschi.
dipinta, costante nella Roma medievale e particolarmente acuta durante l’inoltrato Duecento.
Bibliografia
Barclay Lloyd 1989, 193; Barclay Lloyd 1996, 167; Romano 2004a, 67-70; Monciatti 2005a, 72.
Bibliografia
Romano 2004a; Monciatti 2005a, 72; Romano 2007, 630-32; Brancone 2010, 80-82.
Serena Romano
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Si tratta di frammenti pittorici reperiti nel grande ambiente situato al secondo piano del corpo di fabbrica denominato “Ala B” nello studio di Barclay Lloyd (1989), oggi nel sottotetto poiché l’ambiente è stato rimaneggiato. I resti sono sulla parete timpanata di fondo e sulla parete destra [1]: si tratta ad evidenza di uno strato coerente e unitario più antico, successivamente integrato e dipinto sulle tamponature dei piccoli oculi. La parete è rivestita di un motivo a finti mattoni in color giallo ocra; il finto muro è interrotto da una fascia a racemi di disegno alquanto semplice, con tralci grigioazzurri, efflorescenze gigliate rosse, e frequenti rialzi in bianco di calce dei profili [3]. Al di sopra di questo fregio inizia un’ulteriore fascia a racemi, di più grandi dimensioni, dipinta con i colori dell’ocra gialla e dell’ocra bruna su fondo bianco [4]; sulla parete timpanata questa fascia sale a coronare la parete triangolare. Sulla parete di fondo si vede infine un altro motivo, questa volta di finta architettura: una colonna bianca scanalata con semplice capitello, campita sul rosso [2]. Le già menzionate tamponature si trovano sul timpano: vi sono dipinti stemmi Caetani.
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Note critiche
Il salone doveva essere l’ambiente di rappresentanza della residenza; come tale continuò ad essere usato per lungo tempo, comunque almeno fino a quando il cardinale Giacomo Caetani Tomassini (1295-1300), nipote di Bonifacio VIII, fece sovrapporre i propri stemmi Caetani sull’affresco della parete di fondo, facendone tamponare a questo fine gli oculi. Gli stemmi valgono evidentemente come terminus ante quem per i dipinti del salone, che comunque appartengono con tutta evidenza ad un periodo e a repertori ben noti nella Roma di metà secolo. Il finto muro a mattoni, oltre ad essere soluzione protettiva e ornamentale diffusa un po’ in tutta l’Europa gotica (Autenrieth 1991), è motivo molto comune anche nel Lazio e a Roma: ricordiamo la cattedrale di Anagni, nel secondo quarto del secolo, il San Pietro in Vineis sempre ad Anagni (Romano 1997), a Roma il portico di San Saba (¤ 25), la Torre di Innocenzo III al Palazzo Vaticano (¤ 32), il vestibolo presso il chiostro alle Tre Fontane (¤ 26). Sono sistemi decorativi tutti compresi tra gli anni Trenta e i Cinquanta all’incirca; non databili ad annum sono ovviamente i fregi, cui questa stessa cronologia conviene benissimo. Molto semplice e schematica appare la redazione della colonna. Giustamente Monciatti (2005a, 72) ritiene che l’affresco poteva fingere una sorta di loggia, secondo la vocazione all’illusività dell’architettura
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32. IL PALAZZO APOSTOLICO VATICANO
Quel poco che sussiste della decorazione medievale del Palazzo Vaticano si concentra nell’area della Torre detta “di Innocenzo III”, che dal XV secolo ospita la cappella affrescata dal Beato Angelico sotto Niccolò V, e nelle sale a essa adiacenti. A partire dalla metà del XII secolo si registra una progressiva tendenza da parte dei papi a privilegiare la residenza presso la basilica di San Pietro in alternativa alla tradizionale sede del Patriarchio Lateranense. La zona interessata ad accogliere la nuova dimora fu quella collinare a nord di San Pietro, che la lettura incrociata dei dati documentari e archeologici permette di ricostruire nelle varie fasi. A prescindere dai primi insediamenti nella zona a sud della basilica, il primo papa al quale è rapportabile l’avvio delle strutture che qui si prendono in considerazione è Eugenio III (1145-1153) che secondo il Liber Pontificalis «fecit unum palatium apud sanctum Petrum» (LP II, 387). Anche Celestino III (11911198) dimorò spesso, secondo la medesima fonte (ibid., 451), nel Palazzo di San Pietro: ma è con Innocenzo III (1198-1216) che lo sviluppo dell’edificio sembra subire una forte accelerazione: «apud sanctum Petrum palacium dignum haberet, fecit ibi fieri domos istas de novo: capellaniam, cameram et capellam; panettariam, butilleriam, coquinam et marescalciam; domos cancellarii, camerarii et helemosinarii; aulam autem confirmari praecepit, ac refici longiam, totumque palacium claudi muris, et super portas erigi turres» (Gesta Innocentii, in Ehrle-Egger 1935, 33-34). La maggioranza degli studiosi è incline a riconoscere nel brano la parte sostanziale del nucleo duecentesco del Palazzo, quella ancora oggi identificabile nella Torre innocenziana, nell’antica Aula Tertia (corrispondente alla seconda parte dell’odierna Sala Ducale) e nella Marescalchia sotto l’attuale Sala Regia. Va però tenuto presente che, per quel che riguarda la data di costruzione della Torre, il rinvenimento, durante i restauri negli anni 1947-1951 (MV, ALRP, prot. 3347, 2), di una tegola con il bollo di Innocenzo II (all’epoca erroneamente interpretata come d’Innocenzo III e utilizzata come argomento a favore dell’erezione del corpo di fabbrica sotto questo papa) permette solo di datare con sicurezza agli anni successivi a questo pontificato (1130-1143) la costruzione dell’edificio (Cornini-De Strobel 2001, 27-40). Al pontificato di Niccolò III (1277-1280), invece, è generalmente assegnata sul lato sud del complesso la costruzione dell’Aula Secunda e dell’Aula Prima (rispettivamente corrispondenti alla prima parte dell’attuale Sala Ducale e all’odierna Sala Regia) nonché della primitiva Cappella Parva e, sul lato est, l’innalzamento dell’intera ala che andò a inglobare la Torre innocenziana. È proprio in essa, tuttavia, che sono venuti alla luce – al primo piano e nell’ammezzato soprastante – i più antichi lacerti pittorici riferibili alla fase duecentesca. Senza tentare l’identificazione del papa cui spetti il merito dell’effettivo innalzamento dell’edificio, è ipotizzabile che la trasformazione di questo a fini residenziali possa risalire, come testimoniato dalla presenza di un esteso apparato decorativo, agli anni del pontificato di Innocenzo IV (1243-1254), del quale il biografo Niccolò da Calvi ricorda, in un brano della Vita Innocentii IV, che «apud Sanctum Petrum palatium, cameras et turrim pulcherrimas hedificari, et vineas ibi emi fecit» (Pagnotti 1898, 111; Ehrle-Egger 1935, 35-36). Ulteriori precisazioni vengono fornite dal Necrologio del pontefice, in cui è ancor meglio specificato il carattere aulico della fabbrica: «Obiit dominus Innocentius pp. IV, qui construxit palatium nobile iuxta alias domos papales» (Egidi 1908, I, 290). I due brani, come si vede, sembrano indicare la costruzione ad opera di Innocenzo IV 220 PALAZZO APOSTOLICO VATICANO / ATLANTE I, 2
di strutture definite «pulcherrimas» e, pertanto, verosimilmente decorate e sontuose. I frammenti decorativi, distribuiti ai diversi livelli della Torre, si trovano a partire dal primo piano, nel piccolo vano di servizio adiacente alla prima Sala dei Paramenti (¤ 32a): qui, una decorazione a finti bugnati delimitati da una doppia filettatura rossa fa la sua comparsa sulla parete orientale della stanza, ripetendosi con intenzionale inversione cromatica sulla superficie della parete opposta. Sul lato meridionale del medesimo ambiente sussistono invece porzioni degli sguanci di un probabile accesso all’antica Aula Tertia, ornati con un motivo a racemi da cui si sviluppano cespi di gigli stilizzati in forme allungate (MV, ALRP, prot. 2713, 1948; Biagetti 1945-1948, 34). Uno zoccolo affrescato a finti velari drappeggiati è il motivo caratteristico dell’ammezzato soprastante (¤ 32b), detto Sala di Innocenzo III o anche della Cicogna, i cui dettagli ornamentali, non del tutto uniformi nel loro svolgersi lungo le pareti, hanno indotto gli studiosi a ipotizzarne distinte fasi esecutive e cronologiche (Redig De Campos 1967, 22-25; Carta 1983, 458-459; Steinke 1984, 58; Monciatti 2005a, 103-108). Un esame ravvicinato delle superfici pittoriche ha però permesso di accertare la sostanziale contemporaneità dell’insieme (Cornini-De Strobel 2001, 29-30). L’analisi circostanziata della decorazione affrescata non può in ogni caso prescindere da un’attenta lettura della struttura architettonica della Torre, così da chiarirne la funzione in rapporto allo sviluppo del Palazzo e dell’area circostante. Come può desumersi dalla presenza di finestre munite di sedili sui lati est, nord e ovest dell’ammezzato, l’edificio doveva inizialmente affacciarsi su spazi aperti (tesi, questa, confermata dall’esistenza di feritoie nei corrispondenti lati del primo piano). Solo invece sul lato sud della struttura, al primo come al secondo piano, tracce riconoscibili di antiche porte – poi tamponate – con apertura verso la Sala Ducale, dimostrano come la Torre comunicasse in origine con un’altra costruzione (quella cui Redig De Campos attribuiva la funzione di ‘casermetta’). Poiché la quota pavimentale dell’ammezzato corrisponde all’imposta della volta dell’adiacente Sala Ducale, sembra ragionevole presumere che questa fosse divisa in antico in almeno due piani (Alfieri-Pagliara 2001, 15-26). Tali considerazioni permettono d’avanzare l’ipotesi che l’edificio in questione, quand’anche costruito in origine per finalità difensive, venisse destinato ben presto a funzioni residenziali. Ciò è confermato dall’impronta aulica e unitaria della decorazione nella Sala d’Innocenzo III: la sostanziale contemporaneità dei velari con il resto dell’apparato pittorico rende infatti improbabile che questo fosse stato pensato in rapporto a obiettivi di carattere esclusivamente militare. La stessa tipologia decorativa delle tre nicchie ricavate su due lati del vano fin dal momento della costruzione (ibid., 22-23), sembra concepita per la custodia di suppellettili sacre. La presenza di ‘pissidi’ auree dipinte sul fondo di due di esse orienta del resto verso una destinazione della sala quale spazio privato per la liturgia o la preghiera. La raffigurazione di volatili sui sedili delle finestre, a loro volta assimilabili all’iconografia dell’airone o della fenice, sottolinea ulteriormente la componente simbolica degli affreschi, allusiva alle valenze teologiche del Cristo. Integrano la decorazione i fregi a palmette e a gigli degli strombi delle finestre e delle porte, diversificati nel colore del fondo e nella struttura del racemo. L’analisi stilistica e cronologica degli affreschi permette di stabilire un confronto con alcuni esempi di pittura laziale della metà circa del XIII secolo, sia ad Anagni, nel San Pietro in Vineis e nella
cattedrale, che a Roma, specialmente ai Santi Quattro Coronati (¤ 30). L’esistenza di un frammento decorativo riproducente il motivo dei velari con il giglio (¤ 62g), trovato in corrispondenza della tamponatura della finestra con sedile della parete est, dimostra che l’ambiente era ancora in uso dopo l’accecamento. La chiusura del vano dovette avvenire in conseguenza dell’innalzamento alle sue spalle del corpo di fabbrica comprendente al primo piano le due Sale dei Paramenti e al secondo quelle dei Chiaroscuri e degli Svizzeri. La nuova ala venne così ad addossarsi alla Torre sul lato orientale e in parte su quello settentrionale, oscurandone la visuale verso la città. La maggior parte della critica è incline a situare la costruzione di questo nuovo edificio negli anni del pontificato di Niccolò III, quando «Anno domini MCCLXXVIII sanctissimus pater dominus Nicolaus papa III fieri fecit palatia et aulam maiora et capellam. Et alias domos antiquas amplificavit pontificatus sui anno primo» (Forcella 1869, I, 25, nota 2). Ulteriori frammenti di epoca medievale furono rinvenuti nella cappella Niccolina durante i lavori del 1947-51, in occasione di un intervento di consolidamento «alla zona bassa della parete nord fra le due porte» dove fu tolto «l’affresco (poi ricollocato)» relativo all’intervento dell’Angelico: «e sotto a questo fu trovato un vano affrescato con motivo a drappeggio, vano corrispondente a una finestra-vedetta come quelle del piano sottostante» (MV, ALRP, 1947-1951, prot. 3347, 3; Redig De Campos 1951-52, 403). Il brano pittorico rinvenuto (¤ 62f) si presentava come un velario ad ampie pieghe lumeggiate in verde su fondo chiaro, delimitato in alto da una bordura color ocra a ovuli e rombi alternati e appeso ad una parete decorata con racemi gialli su fondo scuro. Se l’interpretazione dei restauratori fosse esatta, la decorazione del vano in corrispondenza della finestra dovrebbe necessariamente seguire la tamponatura di quest’ultima e risalire con ogni probabilità alla fase attribuita a Niccolò III. Il nuovo nucleo comprendeva, come si è detto, le due Sale dei Paramenti al primo piano e, a quello superiore, la Sala Vecchia degli Svizzeri e la Sala dei Chiaroscuri. Inoltre si addossavano alla parete occidentale della seconda Sala dei Paramenti, (e in parte alla stessa Torre innocenziana) le due Salette della Falda e del Cubicolo di Niccolò V, che secondo Redig De Campos appartenevano alla medesima fase costruttiva. Nel corso del 2009 tuttavia, a seguito dei lavori di sostituzione delle tappezzerie che ricoprivano le pareti della Sala della Falda, è stato possibile riesaminare le annotazioni di sopravvivenze medievali che i restauratori del 1948 avevano documentato in un disegno acquerellato, annesso alla relazione di restauro (MV, ALRP, prot. 2803/55; cfr. relazione Piacentini-Morresi, MV, ALRP, prot. 1542). In quest’occasione si è potuto analizzare con più attenzione il lacerto di affresco (¤ 32c) corrispondente a un finto drappo, fissato lungo i bordi con un disegno centrale a racemi su fondo ocra, che si estende su ambedue gli stipiti di un vano-porta adiacente alla parete del Cubicolo e comunicante con la seconda Sala dei Paramenti, detta anche del Pappagallo inferiore o del Concistoro Segreto (parete est Sala della Falda). Tale decorazione presenta qualche analogia con quella degli sguanci della porta verso la Sala Ducale nell’ambiente di servizio al primo piano. Le nuove indagini nella Sala della Falda hanno portato a chiarire alcuni aspetti nella successione cronologica delle fasi costruttive e pittoriche. Infatti, l’osservazione ravvicinata della zona dipinta in rosso dello stipite di destra ha portato a stabilire che la pittura risvolta sul muro divisorio tra la seconda Sala dei Paramenti e le salette e prosegue sotto quello, ad esso ortogonale, che separa la Falda dal Cubicolo di Niccolò V. Quest’ultimo, a sua volta, non è inserito strutturalmente in quello della seconda Sala dei Paramenti, ma vi si appoggia soltanto. Se ne può dedurre che l’affresco della porta debba essere precedente alla costruzione del muro divisorio tra le due salette – cosa che è confermata dall’analisi formale del dipinto (¤ 32c) – e, di conseguenza, ai fregi che le decorano, generalmente attribuiti
dalla critica a Niccolò III. Ciò porta a ipotizzare un momento cronologico distinto, in cui la zona della Falda e del Cubicolo di Niccolò V possa essere stata un unico ambiente già collegato con la seconda Sala dei Paramenti, la cui costruzione potrebbe a questo punto anche predatare gli anni del pontificato di papa Orsini. Bisogna inoltre tenere presente che con la loro edificazione le due Sale dei Paramenti andarono ad accecare, come si è più volte accennato, parte della Torre d’Innocenzo III. Ne consegue una nuova cronologia, comprensiva di un’ulteriore fase duecentesca, che trova un possibile riscontro nella documentazione di restauro allegata a una relazione del 1940 relativa a due fregi affrescati sovrapposti, attribuiti da Redig De Campos rispettivamente al XIII e XV secolo, in opera nell’intercapedine al di sopra della Sala Vecchia degli Svizzeri e di quella dei Chiaroscuri. Infatti, nella sua relazione d’intervento sulle pitture di quest’ultimo ambiente, il restauratore Enrico Gessi segnalava che «al di sopra dei due fregi descritti vi è qua e là un sottile strato d’intonaco, grezzo, con le tracce di una fascia color terra rossa, dove al centro, appena accennato, vi gira un chiaro tortiglione. Il tutto appena visibile e dipinto a tempera» (MV, ALRP, prot. 1957, maggio 1942). Questa notizia, stranamente taciuta da Redig De Campos, permette di ipotizzare l’esistenza di due distinte fasi decorative, riferibili con ogni probabilità entrambe al XIII secolo. A convalida della distinzione fra le due fasi va notato che l’intervento più antico, stando al restauratore, fu eseguito a tempera, mentre il più recente, raffigurante un motivo a colombe entro nicchie (¤ 62d), fu lavorato a buon fresco. Quest’ultima decorazione, se ricostruita nella sua interezza, andrebbe a ricoprire completamente quella precedente. Difatti pochi frammenti dello ‘strato d’intonaco grezzo’ sono ancora visibili in corrispondenza dei punti in cui si è tolta la pittura dell’intervento successivo. Peraltro i lacerti superstiti non corrispondono a quelli riportati dal restauratore nella sua relazione, evidentemente caduti nel tempo. Indipendentemente poi dalla possibile identificazione del fregio delle colombe con il lavoro svolto da uno «Iacobus pictor» ricordato come attivo «in palatio Sancti Petri» nel pagamento del 7 settembre 1285, lo stile di queste ultime pitture si avvicina maggiormente a quello degli anni successivi a Niccolò III, probabilmente coincidenti con la data indicata dal documento, sotto Onorio IV. Alla stessa epoca potrebbero inoltre datarsi i frammenti venuti alla luce nella seconda Sala dei Paramenti (¤ 62e) durante i lavori al pavimento dell’ambiente soprastante (1924), oggi non più visibili, ma a suo tempo accuratamente descritti in un disegno e in un acquerello del restauratore Fammilume (disegno in Biagetti 1926-27, 245, fig. 6). Anche in questo caso si tratta di due fregi sovrapposti, il più antico dei quali sembra essere costituito dall’intreccio di quattro racemi terminanti in fiori a campanula che si fronteggiano a coppie e delimitato da due fasce. Nel disegno è inoltre segnata la presenza di un piccolo lacerto di affresco raffigurante una fascia verticale, che si diparte da quella duecentesca, all’interno della quale sono inserite due rosette. Sempre alla medesima fase sembrerebbero infine risalire i due fregi distaccati della Saletta della Falda e del Cubicolo: il primo, oggi in quindici frammenti, composto di due fasce di girali cuoriformi (¤ 62a), il secondo (¤ 62b) costituito da due strati sovrapposti, uno duecentesco e l’altro che presenta le armi di Bonifacio IX (1389-1404). La parte duecentesca presenta un motivo con grifi, inseriti in cerchi fitomorfi color ocra, e intervallati con un motivo cuoriforme raddoppiato. Tale motivo ornamentale, di derivazione bizantino-orientale, fu assimilato attraverso la circolazione di manufatti tessili, come dimostra il parato di manifattura siciliana della seconda metà del secolo XIII, donato da Bonifacio VIII (1294-1303) alla cattedrale di Anagni e facente già parte, secondo l’inventario del 1295, del tesoro papale. Riveste nell’iconografia cristiana un forte valore concettuale, associabile al simbolo cristologico della Resurrezione. Dato il ricorrere del partito nei paramenti di committenza pontificia, l’uso programmatico dello stesso a partire almeno dai tempi di Leone III (795-816) può PALAZZO APOSTOLICO VATICANO / ATLANTE I, 2 221
essere interpretato come allusivo della dignità del pontefice quale nuovo Imperatore. Uno dei frammenti (¤ 62b) rende possibile l’identificazione del modulo ornamentale sottostante, formato da coppie di girali concentrici intrecciate, dipinte alternativamente di rosso e di azzurro. L’effetto sortito dalla parziale sovrapposizione degli orbicoli di diverso colore, oltre a riproporre motivi diffusi nella decorazione di tessuti ornamentali (e a simulare quindi la presenza di stoffe appese alla superficie delle pareti) trova confronto nei prodotti della miniatura e dell’oreficeria coeve, quali ad esempio gli smalti policromi di Limoges (Tommaselli 2008, 146-158). Infine, come nel Cubicolo di Niccolò V, anche nella Sala Vecchia degli Svizzeri (¤ 62c) e in quella dei Chiaroscuri (¤ 62d) sussistono due fregi sovrapposti: uno di epoca duecentesca, l’altro generalmente attribuito alla metà del XV secolo, e come si è detto nella Sala dei Chiaroscuri è attestata anche la presenza di un terzo, più antico strato pittorico. Il fregio superiore della Sala Vecchia degli Svizzeri è spartito orizzontalmente in due sezioni da fasce colorate e da un filo di perle; in alto corre un motivo
32b. LA STANZA D’INNOCENZO III O DELLA CICOGNA ALL’AMMEZZATO DELLA TORRE D’INNOCENZO III
a ghirlande mentre in basso si distendono festoni punteggiati di gigli e fiori colorati, nelle cui anse trovano rifugio volatili naturalisticamente rappresentati. Nella Sala dei Chiaroscuri, la fascia più recente duecentesca è invece composta da una sequenza di archetti poggianti su mensole, con l’intradosso dipinto a cassettoni e raccordati da una cornice tripartita a ovoli – motivo di derivazione classica più volte rintracciabile nella tradizione medioevale romana. All’interno di ogni archetto si stagliano contro il fondo azzurro colombe bianche ad ali spiegate, mentre altre sono ritratte frontalmente sui pennacchi alla sommità degli archi. Al di sotto rari frammenti, rivelati da cadute dell’intonaco quattrocentesco, consentono di ricostruire un partito decorativo formato da specchiature sormontate da timpani alternati a nicchie conchigliate e scandito da paraste con capitelli. La decorazione di quest’ultimo ambiente assume quindi una valenza monumentale di tipo prevalentemente architettonico, in opposizione all’ispirazione naturalistica dominante nell’aula precedente. Guido Cornini e Anna Maria De Strobel
PRIMA FASE Quinto-settimo decennio del XIII secolo
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32a. LA STANZA AL PRIMO PIANO DELLA TORRE D’INNOCENZO III
Sulla parete orientale del vano di servizio al primo piano della Torre d’Innocenzo III è un apparato decorativo a finti mattoni definiti da una doppia bordura rossa e disegnati su fondo chiaro. Sul muro opposto il motivo si ripete uguale, ma a colori invertiti. Gli sguanci dell’apertura sul lato meridionale presentano una fascia decorativa con motivi vegetali: i racemi, che terminano con tre inflorescenze gigliacee, sono di colore verde scuro e spiccano su un fondo giallo, a sua volta compreso entro una cornice oggi di un colore nerastro, probabile risultato dell’alterazione del pigmento originario [1]. Note critiche, interventi conservativi e bibliografia ¤ 32c.
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Negli sguanci di tutte le aperture in parte ostruite successivamente sono ancora visibili i resti di una decorazione a racemi terminanti alternativamente con motivi a palmette e motivi gigliacei, declinati in diverse variazioni di colore: quelli della porta e della finestra con sedile nella parete orientale si stagliano su un fondo di una tinta ormai virata verso il nero, hanno volute ocra e azzurre con lumeggiature bianche e le foglie e le inflorescenze sono rosse e azzurre; il fregio è racchiuso da una doppia cornice color mattone e ocra, divisa nel mezzo da una fila di perline bianche [4]. Lo sguancio della finestra con sedile nella parete ovest, invece, presenta due altre varianti: la prima, con racemi azzurri, foglie e fiori azzurri e rosa, appare su un fondo ocra compreso tra una doppia cornice color mattone e azzurro [2], la seconda, racemi, fiori e foglie color ocra bordati di rosso, è su un fondo bianco [3], anch’esso compreso entro una doppia cornice color mattone e azzurro. Quest’ultimo tipo di fregio decora anche lo strombo della feritoia della parete nord. Sulla parte inferiore delle pareti sono velaria diversamente caratterizzati; se ne distinguono tre tipi: il primo con rosette puntinate nere è sulla parete nord, sulla porzione di parete orientale che comincia all’angolo con la nord, e sulla parete ovest [2]. Il settore di muro orientale compreso tra l’apertura e la finestra-vedetta presenta invece un velarium con motivi geometrici di color marrone: rombi, cerchi e fasce contenenti motivi a zig zag [5]. Quello che decora la porzione di muro orientale che termina all’angolo con la parete sud e una parte della parete ovest, infine, è costellato di gigli neri. In alcuni punti della parete occidentale e della parete orientale il velum conserva ancora la bordatura superiore simulante un ricamo dorato [2]. In una delle due nicchiette che si aprono nella parete est e in quella nella parete nord, sono affrescate due pissidi [5]. Sulle fronti dei sedili delle pareti nord ed est restano tracce pittoriche: anche qui, forse, era raffigurato un uccello acquatico come quello, oggi acefalo, che decora la fronte del sedile della parete occidentale [2, 6]. Sul profilo interno del sedile della parete nord, infine, è un motivo a dentelli rossi e neri.
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salone di San Clemente, però, l’apparato a finti mattoni definiti da doppia filettatura è simile a quello che copre le pareti della stanza al primo piano della Torre [1]. Un paramento murario illusivo (Autenrieth 1991, 385-386; Romano 2005b, 117-118) eseguito nello stesso modo, è pure visibile nella cattedrale di Anagni (consacrata nel 1250), in particolare nella cappella del Salvatore, nel coro delle monache nel San Pietro in Vineis sempre ad Anagni (1256), in un ambiente del convento delle Clarisse di San Sebastiano ad Alatri (Romano 2005b, 117-118) e nel portico della basilica di San Saba (¤ 25). Alla pittura del quinto-sesto decennio del secolo rimandano anche i velaria della Stanza di Innocenzo III: ancora una volta nessun altro esemplare conosciuto coincide in maniera perfettamente identica con quelli che qui si studiano, ma l’utilizzo del motivo del giglio, una certa rigidità del drappeggio e la presenza di manierismi, quali la terminazione a doppia punta del velum [2, 5], li rendono confrontabili a quelli che coprono lo zoccolo delle pareti dell’ambiente antistante la cappella di San Silvestro (¤ 30e), o quelli che decorano l’emiciclo della Rotonda ai Santi Cosma e Damiano (¤ 44b), o ancora i velaria dell’affresco con Cristo e gli Apostoli ai Santi Giovanni e Paolo (¤ 34c).
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32c. LA STANZA DELLA FALDA
Il frammento negli stipiti di una porta nella Sala della Falda (si veda l’Introduzione, p. 221), potrebbe invece essere di qualche anno più tardo: il motivo vegetale è più sciolto e la struttura, più minuta e nervosa [7], si allontana dai già citati prototipi e modelli bizantineggianti. Diventa così plausibile immaginare che nel corso dei decenni centrali del secolo dovettero avere luogo varie campagne decorative e non solo quella attribuita a Innocenzo IV durante la quale si eseguirono probabilmente gli affreschi della Torre di Innocenzo III (Steinke 1984, 49-66; Cornini-De Strobel 2001, 28-34; Monciatti 2005a, 103-108).
Interventi conservativi e restauri Nei piedritti del vano-porta della parete orientale della Stanza della Falda sono visibili i resti di un finto drappo ocra, appeso agli angoli [7]: i bordi sono percorsi da una banda scura ondulata, dalla quale si dipartono gigli stilizzati; nel centro, è un racemo chiaro con volute e inflorescenze gigliacee.
Note critiche
Degli apparati ornamentali medio-duecenteschi del Palazzo Vaticano ci sono pervenuti alcuni nuclei che già possono dare un’idea di quella che doveva essere una ben più vasta decorazione, estesa presumibilmente all’insieme degli spazi residenziali di metà secolo. Quanto rimane non permette di capire se si trattasse esclusivamente di motivi ornamentali o, come appare presumibile, se questi fossero talvolta combinati ad altro tipo di figurazioni, iconiche o narrative, o come è stato ipotizzato ad altri apparati e rivestimenti ad esempio tessili (Monciatti 2005a, 166-168). L’entità delle perdite di quella che doveva sicuramente essere un’impresa pittorica grandiosa, degna del luogo al quale era destinata, appare ancora più flagrante se si considerano la ricchezza e la vastità dell’ornamentazione del complesso dei Santi Quattro Coronati (¤ 30), all’incirca contemporaneo alla prima fase del Palazzo Vaticano qui attestata. Nonostante il loro carattere ornamentale, che impone prudenza e non permette un’assegnazione a un periodo cronologico troppo stretto, i frammenti che ancora possediamo sono stilisticamente coerenti con la cultura artistica di Roma e delle zone a essa legate, nel quinto-settimo decennio del secolo. Il tipo di fregi vegetali negli ambienti nella Torre di Innocenzo III [1, 3, 4] – il
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pattern, o la combinazione di pattern, segue un ritmo paratattico, ripetendosi sempre uguale e crea strutture ‘chiuse’ o ‘semichiuse’ – attinge a un repertorio dalla lunga tradizione e che ha le sue origini nei fregi di cultura bizantino-monrealese, diffusisi poi in buona parte dell’Europa e in diverse tecniche artistiche; la loro ‘romanità’, tuttavia, si coglie nella particolare caratterizzazione cromatica – il blu, il color mattone e l’ocra – da ricondurre all’utilizzo delle terre. Numerosi sono gli esempi attribuibili agli anni Quaranta-Cinquanta in cui fregi così strutturati – se non organizzati in soluzioni esattamente sovrapponibili, comunque simili – s’imperniano come in quelli nella Torre di Innocenzo III attorno al motivo, presente durante tutto il Duecento, della foglia gigliata, chiusa o aperta, sola o combinata ad altre inflorescenze (spesso palmette): basti pensare alle pitture eseguite dal Secondo e dal Terzo Maestro d’Anagni nella cripta del duomo anagnino, a quelle riconducibili all’atelier del Terzo Maestro nell’Aula ‘Gotica’ ai Santi Quattro Coronati (¤ 30a), o, sempre ai Santi Quattro Coronati, a quelle della cappella di San Silvestro (¤ 30f). Per la tipologia delle foglie – chiuse su se stesse – per la maniera di ‘illuminarle’ tramite delle lumeggiature bianche e per la sintassi serrata dell’intero schema decorativo va anche menzionata la fascia ornamentale che sovrasta i velaria nella Rotonda ai Santi Cosma e Damiano (¤ 44b). Meno convincente, invece, ci pare il paragone proposto da Monciatti (2005a, 103) con i fregi nel salone della residenza cardinalizia di San Clemente (¤ 31b): rispetto agli esempi vaticani, diverso è il trattamento degli elementi vegetali – mancano quasi completamente i tocchi bianchi – così come la resa complessiva del motivo che a San Clemente è condotto in modo molto più sciolto. Nello stesso
1947-1951: durante gli interventi di conservazione che in questo periodo interessano la cappella Niccolina si scoprono le strutture duecentesche della torre di Innocenzo III e la decorazione di alcuni suoi ambienti (MV, ALRP, prot. 3347; Redig de Campos 1947-49, 388-390; Id. 1951-1952, 403-404; Id. 1955, 32-33; Id. 1958, 323; Monciatti 2005a, 291-292). Nella Stanza di Innocenzo III si intonacano «le zone rabberciate coi mattoni in periodi diversi» (Redig de Campos 1951-1952, 404) e si consolidano i velaria degli zoccoli, «sostituiti nelle zone mancanti, da un intonaco di egual spessore, di color avorio chiaro; le fasce e gli altri elementi ornamentali sono stati proseguiti con toni leggermente più sbiaditi per dare maggiore coesione all’insieme» (Redig de Campos 1951-1952, 404). Nel vano al primo piano della Torre duecentesca si consolida la decorazione a finti mattoni e quella nello sguincio dell’apertura della parete sud (Redig de Campos 1951-1952, 404). Settembre 1947-marzo 1949: nel corso delle indagini nell’ala est del Palazzo si rinviene la decorazione nei piedritti del vano-porta della parete orientale della Stanza della Falda (MV, ALRP, prot. 2803). Giugno 2009: è in occasione dei lavori di sostituzione delle tappezzerie che ricoprono le pareti della Stanza della Falda che si effettua un nuovo sopralluogo (MV, ALRP, relazione PiacentiniMorresi, prot. 1542 e cfr. Introduzione, p. 221).
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Bibliografia
Forcella 1868-84, I, 1869, 25, nota 2; Pagnotti 1898; Egidi 1908; Cecchelli 1928, 68; Redig de Campos 1947-1949, 388-390; Strong 1948, 59; Redig de Campos 1951-1952, 403-404; Redig de Campos 1955, 32-33; Redig de Campos 1958; Redig de Campos 1959, 369-370; Redig de Campos 1967, 30, 22-25; Volbach 1979, 26; D’Onofrio 1983, 555-556; Carta 1983, 457-459; Carta 1989; Tomei 1990, 133; Mancinelli 1992b, 35; Voci 1992, 111; CorniniDe Strobel 1996, 29-30; Radke 1996, 95; Cornini-De Strobel 2001, 27-34; Monciatti 2005a, 103-108, 161, 289-294; Leardi, in Atlante I (¤ 2); Brancone 2010, 34-37. Irene Quadri
PALAZZO APOSTOLICO VATICANO / ATLANTE I, 2 225
33. IL PANNELLO DELLA MADONNA COL BAMBINO E SANTI DAL CHIOSTRO DI SANTA MARIA NOVA Metà del XIII secolo
1
Una inedita fotografia rintracciata negli archivi della Soprintendenza speciale per i beni archeologici di Roma – oggi ospitata nell’ex convento di Santa Maria Nova – documenta il ritrovamento nel braccio nord-ovest del chiostro di un affresco con la Madonna che allatta il Bambino e alcune figure di santi. Come ricorda la didascalia della foto, la «pittura parietale – fu – rinvenuta a fianco dell’abside della chiesa nel ricostruire le volte al primo piano del portico». La scoperta avvenne quindi nel corso dei lavori che Giacomo Boni, «direttore dell’Ufficio degli Scavi del Palatino e Foro Romano» (Lugano 1922), promosse nel 1900 per riportare alla luce le strutture originarie del chiostro del convento di Santa Maria Nova (Prandi 1937, 198). Nelle condizioni attuali il pannello – staccato e musealizzato nella sacrestia della chiesa – presenta la Madonna seduta su un trono gemmato e senza schienale, con il Bambino benedicente, che nella mano sinistra stringe un rotulo. Alla loro destra tre figure di santi, conservati solo dalla vita in su e quasi completamente privi del volto, convergono verso il centro della composizione. Sulla base dei loro attributi soltanto due di essi sono identificabili con certezza: Paolo , il più vicino alla Vergine, che stringe in mano la spada; e Bartolomeo, accanto a questi, con in pugno un coltellaccio. Più difficile invece è il riconoscimento del terzo personaggio, individuato ora come il Battista (benché la fisionomia giovanile sembrerebbe non coincidere con il tipo consueto), ora come sant’Andrea (sebbene non sembri avere la consueta capigliatura scarmigliata e bianca), ma che, sulla base dell’attributo della croce astile potrebbe essere identificato anche con altri santi, tra i quali per esempio Lorenzo. Accanto a quest’ultimo santo, una cornice vegetale con foglie e gigli, delimitata lateralmente da bande perlinate gialle e rosse, chiude l’estremità sinistra della composizione, che dobbiamo presumere continuasse simmetricamente anche sul lato opposto. Qui si scorge soltanto il fianco e il braccio destro della figura più vicina alla Vergine, identificabile con molta probabilità in san Pietro, che come di consueto doveva affiancare la divinità in posizione speculare a quella di Paolo. Se ai m. 3.80 di lunghezza del frammento conservato si aggiungesse la parte mancante, che per simmetria dobbiamo presumere avesse più o meno le stesse dimensioni della sezione opposta, otterremmo un pannello di oltre sei metri, il cui aspetto non sarebbe troppo diverso da quello al termine della navata sinistra nella chiesa dei Santi Giovanni e Paolo al Celio (¤ 34c). Molto singolare, nel caso della pittura in Santa Maria Nova, è invece la sua collocazione 226 SANTA MARIA NOVA / ATLANTE II, 25
all’esterno della chiesa, in un punto di passaggio prossimo al chiostro.
Note critiche
Il lungo pannello, che doveva probabilmente prevedere sei figure di santi rivolte verso il gruppo centrale della Vergine in trono col Bambino benedicente in braccio, è caratterizzato da una sostanziale ripetitività nella disposizione dei personaggi, distinti soltanto dal vario colore delle vesti, da un’articolazione legnosa degli arti e da gesti brevi e reiterati. I panneggi hanno contorni marcati e pieghe schematizzate che trovano nelle loro ricadute punti di assoluta identità in alcune figure dell’oratorio di San Silvestro, presso la chiesa dei Santi Quattro Coronati, datato 1246 (¤ 30f). Qui, gli apostoli che assistono al Giudizio Finale in controfacciata condividono con le pitture di Santa Maria Nova sia la monotona cadenza della composizione, sia la costruzione interna delle figure, bloccate nel rigido drappeggio degli abiti. Verso una sostanziale prossimità stilistica tra i due complessi, realizzati evidentemente in un breve giro di anni, orienta anche il lacerto di cornice che chiude a sinistra il pannello di Santa Maria Nova, dove coppie di bianchi gigli tripetali si alternano a foglie verde pallido, con cinque lobi e contorni profilati in bianco. Il cromatismo acceso e la stesura piatta del colore che emergono come tratti distintivi del fregio sono caratteri che, oltre all’esempio dei Santi Quattro Coronati, non tornano con il medesimo disegno in nessun altro monumento di Roma. Anche l’esempio più vicino, costituito da alcune cornici nelle volticelle della cripta della cattedrale di Anagni, opera della bottega del cosiddetto Secondo Maestro (o Maestro Ornatista), è animato da una sensibilità cromatica e lineare per molti versi differente, che sembra anticipare già soluzioni della seconda metà del secolo, da Santa Passera (¤ 50) alla “quarta navata” di San Saba (¤ 66). Per tutte queste ragioni, quanti si sono occupati degli affreschi in Santa Maria Nova hanno spesso proposto di riconoscerne l’autore in uno dei pittori attivi nell’oratorio di San Silvestro (van Marle 1921, 182; Wilpert 1916, II, 1142). La perdita dei volti delle figure, fatta eccezione per la fortunata sopravvivenza del viso del Bambino e parte di quello della Vergine, non aiuta a dirimere definitivamente la questione. I nasi lunghi terminanti a uncino rimandano ancora a soluzioni di origine comnena, allo stesso modo delle bocche piccole con le labbra ondulate, che pure ricorrono molto simili ai Santi Quattro Coronati. Rispetto a quest’ultimo complesso però
nel pannello della Vergine e Santi di Santa Maria Nova si fa strada una maggiore abilità tecnico-esecutiva, che inaugura un nuovo metodo di realizzazione dell’affresco: abbandonato il tradizionale sistema della pontata, infatti, le singole figure sono realizzate su porzioni di intonaco stese in tempi diversi, i cui punti di sutura sono ancora visibili nello spazio azzurro tra una figura e l’altra (Mora-Philippot 1977, 154). Ciò sembrerebbe indicare una possibile seriorità del pannello nella chiesa del Foro rispetto alle pitture dell’oratorio, eseguite nel 1246. Inoltre, il confronto con il Cristo in trono e santi in San Giovanni e Paolo al Celio (¤ 34c), datato 1256, costituisce per i nostri affreschi un punto di riferimento importante, ma che, per una maggiore movimentazione dei panneggi e un minore irrigidimento dei corpi, vale piuttosto come probabile termine ante quem per la loro realizzazione, databile di conseguenza proprio verso la metà del secolo. Di grande interesse, infine, è l’iconografia del gruppo centrale della Vergine e del Bambino, unico tra tutti i personaggi del pannello ad essersi conservato per intero. Consueto in ambito romano è il trono gemmato e senza schienale, molto simile per esempio a quelli sui quali siede Cristo nella cripta della cattedrale di Anagni, nello stesso oratorio di San Silvestro o nel pannello al termine dell’antica navata laterale sinistra in San Giovanni e Paolo, già preso in considerazione per i dati di stile. Più rara, invece, è la posizione della mano sinistra della Vergine, che anziché sostenere dal basso il figlio, ne abbraccia la spalla, derogando leggermente dal consueto schema di presentazione dell’Odigitria, seguito per il resto piuttosto fedelmente. Del tutto eccezionale nel panorama romano è infine l’abbigliamento del Bambino, il quale indossa una fascia, che continua sulle spalle formando una coppia di larghe bretelle, e un’insolita vesticciola bianca trasparente, che al di sotto della tunichetta rossa lascia intravedere i polsi e le ginocchia nude. I due capi di vestiario, insieme ad una posizione dinoccolata e quasi scomposta del Bambino, costituiscono i tratti distintivi del tipo iconografico bizantino della Kikkotissa, formulato probabilmente nel XII secolo a Cipro ma assai diffuso anche
nell’Italia meridionale. Dalla Sicilia e dalla Puglia, dove se ne contano ancora diversi esemplari, questa iconografia dovette raggiungere il Centro Italia, e il Lazio in particolare, dove, a Velletri e Viterbo, si conservano due tavole che ne riproducono fedelmente lo schema compositivo (Santa Maria Mannino 1983). A Roma, invece, il tipo – nato in ambito orientale per esaltare la natura umana di Cristo (Mouriki 1991, 169) – sembra perdere la propria coerenza interna. Nell’impossibilità di conoscere l’identità di tutti i santi ai lati della Madre col Figlio, non possiamo in alcun modo sapere se questa strana concessione alla moda non fosse per caso un espediente per ribadire, anche visivamente, la natura umana di Cristo. Se così fosse ne risulterebbe esaltato il suo ruolo di Redentore, nonché quello della Madre quale offerente all’Umanità del suo Salvatore e degli astanti quali testimoni e assertori dell’incarnazione. Allo stato attuale, tuttavia, non rimane che riconoscere negli insoliti innesti iconografici il tentativo di aggiornare il più tradizionale tipo dell’Odigitria, con la Vergine e il Bambino in trono, ben più popolare e amato dai romani.
Documentazione visiva
Fotografie (1900 circa, prima dello stacco), Soprintendenza alle Antichità Palatino e Foro Romano: foto E 365; SBAAS-Roma, fotografia 132405; GFN, fotografie E 32046, 32047; fotografie Alinari 27838 (particolare dei volti della Madonna e del Bambino); foto Sansaini (particolare del fregio gigliato).
Bibliografia
Wilpert 1916, II, 1142, 1204; Wilpert 1916, II, tav. 232, 1; Van Marle 1921, 182; Prandi 1937, 198; Matthiae 1966a [1988], 143, fig. 139; Buchowiecki 1974, 57; Mora-Philippot 1977, 154; Mitchell 1980, 29; Marques 1987, 99; Mouriki 1991, 169, 174, fig. 32; Parlato-Romano 1992 [2001], 143-144. Walter Angelelli
2
SANTA MARIA NOVA / ATLANTE II, 25 227
34. LA DECORAZIONE PITTORICA AI SANTI GIOVANNI E PAOLO
34b. I FRAMMENTI NELL’AMBIENTE AL SECONDO PIANO DEL CONVENTO Secondo quarto del secolo XIII
34a. I FRAMMENTI NEL PORTICO Prima metà del secolo XIII
1
Il frammento del fregio architettonico dipinto sulla sommità della parete del portico della basilica celimontana (servito alla ricostruzione eseguita nel restauro diretto da Adriano Prandi) presenta una fascia orizzontale principale di colore giallo ocra, su cui corre un girale vegetale con foglie di colore azzurro scuro con lumeggiature bianche. Tale fascia è delimitata in alto da una finta modanatura con ovuli risaltanti su un fondo scuro, che suggerisce l’ombreggiatura di questa parte dell’elemento architettonico e il risalto della fascia superiore, di cui rimane una modesta traccia di colore rosso, cromaticamente allusiva al porfido. Nella parte inferiore corre una fascia rossa sotto cui ne è un’altra di colore azzurro scuro, su cui campeggia una stretta e lunga cornice ornata con il motivo dei “castelletti” racchiudente una campitura scura scandita da dischi gialli.
Più leggibile è il frammento del fregio superiore, tanto da essere servito per la sua ricostruzione pittorica in occasione del restauro diretto da Prandi, che ne propose una datazione contemporanea all’affresco del Cristo e gli Apostoli all’interno della basilica (¤ 34c): le foglie che si dipartono dai girali, pur nell’obbligato andamento orizzontale, ricordano nel disegno quelle nel fregio o nei pennacchi, ma sono proponibili altri confronti con ornati vegetali su fondo giallo eseguiti fino alla prima metà del Duecento circa: quello frammentario di Santa Maria Domine Rose (¤ 43), dell’inizio del secolo, quelli nei cicli della cripta del duomo di Anagni, nell’Aula ai Santi Quattro Coronati (¤ 30a) e nella Rotonda ai santi Cosma e Damiano (¤ 44c).
Interventi conservativi e restauri
1950-1952: restauro diretto da Adriano Prandi.
Note critiche
Il portico della basilica celimontana, ripristinato dal cardinale Giovanni di Sutri dopo la distruzione di quello originario paleocristiano, fu oggetto di nuove attenzioni da parte di Cencio Camerario, titolare della basilica dall’anno 1200, prima che questi fosse eletto al soglio pontificio nel 1216. Il cardinale fece costruire la soprastante ‘galleria’ del portico, la cui realizzazione comportò il rafforzamento della struttura muraria della parte inferiore della facciata con l’aggiunta di una cortina muraria per sostegno delle travi che ne modificò il disegno del IV secolo. La parete di fondo del portico, perfezionata con la stilatura dei giunti tra i filari di mattoni, fu caratterizzata dal portale cosmatesco, affiancato e sovrastato da tre nicchie probabilmente destinate ad accogliere sculture. In questa fase probabilmente non erano previste decorazioni pittoriche. Successivamente, nel corso del Duecento, vennero dipinti direttamente sul paramento laterizio quattro stemmi ecclesiastici purtroppo non riconoscibili. Nella nicchia a sinistra del portale rimane poco del frammento di una figura che, in occasione del restauro del portico nel 1950-52, era maggiormente leggibile: nella foto pubblicata da Prandi si nota una testa virile con l’aureola ornata da una fila di perline e metà del busto caratterizzato da una tunica di foggia militare. L’ipotesi dello stesso Prandi di interpretare tale frammento come appartenente all’originaria rappresentazione di uno dei due santi titolari della basilica è a nostro avviso plausibile. 228 SANTI GIOVANNI E PAOLO
1
Documentazione visiva
Rappresentazione grafica (scala 1:10) dello Schema del nuovo soffitto del portico, confrontato col rilievo del frammento di fregio rinvenuto nella parete di fondo (in Prandi 1953, 215, fig. 188).
Bibliografia
Prandi 1953, 72-73, 182, 215-216, 602, figg. 92, 93, 188.
2
Il frammento decorativo (cm 344 x 530 ca.) è ubicato al secondo piano del convento dei Santi Giovanni e Paolo sulla parete che, oggi delimitante uno stretto corridoio, costituiva originariamente il lato nord di un’ampia sala del palazzo annesso alla basilica, ampliato agli inizi del secolo XIII dal cardinale Cencio Camerario. La parete opposta della sala, perduta nelle trasformazioni settecentesche, inglobava il lato nord del campanile, come indicano, fra l’altro, alcuni modesti frammenti rinvenuti da Prandi (1953, 299) sotto la ghiera di un’arcata dello stesso. La parte superstite della ricca decorazione, eseguita ad affresco, presenta cornici quadrilobate e mistilinee con schema cruciforme, intrecciate fra loro, disegnate in rosso su fondo bianco e ornate con piccole volute. All’interno sono grandi fiori costituiti da una parte centrale gialla con otto carnosi petali disegnati in rosso, in quelle quadrilobate, e con quattro petali alternati a stami, in quelle cruciformi. Le campiture azzurre delle cornici sono disposte su due diagonali incrociate, nei cui angoli sono inserite le campiture rosso-brune. A sinistra è una cornice trilobata di colore rosso nei cui pennacchi sono motivi floreali: all’interno sono raffigurati degli elementi architettonici riconosciuti come un altare (Prandi) o come la rappresentazione di una città (Monciatti 2005a); i diversi
elementi costituiscono un’unica struttura riconoscibile come un’edicola architettonica. La decorazione era chiusa in alto dalla rappresentazione in scorcio di una trabeazione e di mensole, entrambe modanate e ornate con ovuli e gemme.
Note critiche
Il frammento pittorico conservato nel convento dei Santi Giovanni e Paolo venne scoperto durante i lavori di restauro curati da Adriano Prandi, che ne propose una datazione al «Trecento maturo»: ipotesi, questa, che di recente è stata opportunamente rivista. Secondo la nuova lettura proposta da Monciatti (2005a) le mensole prive di volute ricorderebbero le trabeazioni dipinte in precedenti cicli pittorici, per esempio quello in San Giovanni a Porta Latina della fine del XII secolo (Viscontini, in Corpus IV ¤ 61). I fiori, con la precisa disposizione radiale dei petali, permetterebbero il confronto con la decorazione della parete sud della ‘Sala delle oche’ nel Palazzo di Gregorio IX ad Anagni. Ancora più preciso, per la forma delle cornici quadrate e lobate intrecciate fra loro, il confronto con la volta del cosiddetto oratorio SANTI GIOVANNI E PAOLO 229
di Onorio III (¤ 15). Questi argomenti hanno indotto a datare la decorazione celimontana in relazione ai lavori promossi da Cencio Camerario, all’inizio o entro il secondo decennio del Duecento (Monciatti 2005a; Bracone 2010). Questi utili confronti, tuttavia, potrebbero testimoniare i logici collegamenti con i repertori tradizionali utilizzati dalle botteghe romane, poiché il motivo della cornice trilobata suggerisce invece una cronologia della decorazione del palazzo celimontano più addentrata nel secolo, quando anche l’affresco absidale della chiesa di San Basilio ai Pantani (¤ 20), fra il 1230 e il 1240, sembra attestarne l’uso da parte delle botteghe romane. La trabeazione e le mensole ai Santi Giovanni e Paolo, peraltro, ricordano nella forma e nell’ornato – modanature, gemme, ovuli – quelle nell’Aula ai Santi Quattro Coronati (¤ 30a): somiglianza che diviene ancora più stringente osservando le tracce di azzurro al di sotto della mensola, che potrebbero suggerire anche per il frammento celimontano un analogo trattamento dell’effetto di ombreggiatura nella rappresentazione dell’elemento architettonico ispirato alla pittura antica (un esempio è nella trabeazione dell’Aula ‘Isiaca’ sul Palatino). Si consideri inoltre la forma curvilinea della lacuna sottostante la mensola che potrebbe corrispondere al disegno e ai colori perduti di una voluta vegetale
come quelle osservabili nell’Aula ai Santi Quattro. Il soggetto dell’edicola architettonica all’interno della cornice trilobata potrebbe interpretarsi come l’aggiornamento gotico di un motivo classico, ancora più stringente considerando il probabile rapporto con la decorazione ai Santi Quattro Coronati, ricca di spunti tratti dalle antichità romane. Una datazione al secondo quarto del secolo non esclude l’ipotesi di collegare la decorazione della sala a una iniziativa del cardinale Riccardo Annibaldi, la cui indicazione «in palatio nostro» in riferimento alla residenza celimontana, in un documento del marzo 1256 (¤ 34c), potrebbe sottintenderne l’uso nel corso della prima metà degli anni Cinquanta.
Interventi conservativi e restauri
1950-1952: restauro diretto da Adriano Prandi.
Documentazione visiva
Acquerello di A. Bertuzzo (Prandi 1953, 299, fig. 271).
Bibliografia
Prandi 1953, 299-300, 613, figg. 271-273; Monciatti 2005a, 86; Brancone 2010, 54.
34c. L’AFFRESCO DEL SALVATORE CON GLI APOSTOLI NELLA NAVATA SINISTRA DELLA BASILICA 1256
L’affresco è ubicato sulla parete di fondo della navata sinistra della basilica. Le figure sono inserite all’interno di un’architettura dipinta costituita da sette arcate separate da colonne di breccia con capitelli ornati da elementi vegetali, di cui quella centrale, più ampia, è caratterizzata da un timpano. I pennacchi fra gli archi sono decorati da motivi a greca e racemi. Al di sopra corre un alto fregio con fiorami inquadrati da cornici vegetali polilobate; lo delimitano due fasce caratterizzate da filari di perle. Al centro è raffigurato il Salvatore, il quale, assiso su un trono gemmato con due cuscini, benedice e mostra il libro aperto con il versetto dal Vangelo di Giovanni (8, 12) (Iscr. 3). Ai lati sono sei apostoli in tunica e pallio, quasi tutti raffigurati frontalmente con il busto leggermente ruotato e facilmente riconoscibili grazie agli attributi connotativi e alle iscrizioni: da sinistra è Giacomo Maggiore, con barba bianca e libro chiuso nella mano sinistra, la destra aperta verso l’osservatore che rimanda alla figura di Cristo. Segue Giovanni Evangelista, privo di barba e di altri attributi, ma con entrambe le mani protese verso Cristo: l’unico ad avere una posizione più dinamica verso il Salvatore di cui era il discepolo più amato. Seguono Paolo con spada e libro e Pietro con capelli e barba bianchi, chiavi e libro chiuso, e mano protesa verso l’esterno; quindi Andrea, riconoscibile dall’iscrizione sull’acquerello seicentesco di Antonio Eclissi. L’ultimo apostolo a destra è connotato dal rotulo chiuso e dal gesto della mano aperta: per lui è stata proposta l’identificazione con Tommaso (Bruzio, c. 195r) e con Giacomo Minore, in rapporto al Maggiore sull’altra estremità (Wilpert 1916; Matthiae 1996a [1988]). Al di sotto delle arcate e dei personaggi sono due registri, modificati dagli interventi successivi sulla muratura: il primo, dove correva l’antica iscrizione, copriva la larghezza dell’intera parete e fu poi interrotto dall’ampliamento della porta sottostante; il registro inferiore è caratterizzato dal velario ornato da sottili fasce verticali e linee orizzontali, di cui il pittore si è premurato di raffigurare illusivamente gli anelli che lo sostengono. 230 SANTI GIOVANNI E PAOLO
Iscrizioni
1 - Due iscrizioni identificative, disposte nella fascia rettangolare alla base della raffigurazione in asse con le figure, allineate su una riga orizzontale non segnata, secondo un andamento irregolare. Lettere bianche su fondo rosso. Intere. Scrittura maiuscola gotica.
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1a - S(anctus) Iacobus 1b - S(anctus) Ioh(anne)s 2 - Due iscrizioni identificative, già disposte nella fascia rettangolare alla base della raffigurazione, allineate su una riga orizzontale. Perdute, la prima è tramandata mutila del principio, mentre la seconda manca dell’intero nome del santo. 2a - [S(anctus) An]dreas 2b - S(anctus) [- - -] Trascrizioni dal disegno acquerellato di Antonio Eclissi, WRL 9200. 3 - Iscrizione esegetica, disposta all’interno dell’area illustrata, nel libro sorretto da Cristo, allineata su tre righe orizzontali segnate per pagina, secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere rosse su fondo bianco. Intera. Fonte: Gv 8, 12.
Ego / sum / lux // mu/£n¤di/ q^ui se<quitur> Integrazione secondo il disegno acquerellato di Antonio Eclissi, WRL 9200. p.2.r.2. M da noi corretto in N. 4 - Iscrizione esegetica?, disposta sotto il registro con figure di
3
SANTI GIOVANNI E PAOLO 231
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232 SANTI GIOVANNI E PAOLO
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santi, allineata su quattro righe orizzontali segnate, secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere scure su fondo bianco. Lacunosa e poco leggibile per la caduta del pigmento pittorico. Scrittura maiuscola gotica.
[- - -] M [- - -] / [- - -] Petri et Pa^uli [- - -] / [- - -] POL [- - -] / [- - - - -] (S. Ric.)
Note critiche
Nel 1995-96 e nel 2003 l’affresco è stato oggetto di restauri e di studio da parte della Soprintendenza di Roma, con la direzione di Alia Englen (che ringraziamo anche come curatrice del secondo volume dedicato alle chiese del Celio, di prossima pubblicazione e di cui questa scheda costituisce un’anticipazione relativamente all’affresco in esame). Nel 1887, contestualmente agli scavi della domus dei martiri Giovanni e Paolo, il padre passionista Germano di San Stanislao rinvenne l’affresco con il Cristo e gli apostoli sotto uno strato di scialbo. Padre Germano (1894, 400-404) così descrisse la scoperta: «quel muro, che era il fondo della nave destra [a sinistra guardando l’altare maggiore] della basilica, fu per buona sorte occultato dietro nuove costruzioni ed imbiancato; laonde e la pittura poté conservarvisi, ed io potei con lieve fatica ripulirla raschiando l’intonaco soprappostovi». L’affresco era in condizioni discrete tenendo conto degli interventi succedutisi nel tempo in quella parte dell’edificio. La «parte bassa del disegno», racconta il passionista, presentava «festoni ed arabeschi di arte assai negletta», probabilmente eseguiti, come vedremo in seguito, alla fine del Seicento. Tale decorazione ‘moderna’ copriva il velario nel registro inferiore dell’affresco, che sappiamo essere stato rinvenuto in un secondo tempo da un altro studioso passionista: padre Lamberto Budde. Questi così annotava nel febbraio del 1912: «intrando nell’andito (oggi piccola sacrestia dietro l’altare della navata sinistra del SS.mo Sacramento) della nostra basilica, trovai sotto la pittura ivi scoperta ed illustrata dal R. P. Germano di S.to Stanislao Passionista nella sua “Casa Celimontana”, pittura del sec. XII, l’intonaco moderno in parte caduto. Raschiando con precauzione vidi dipinto sul muro le pieghe di un tappeto o drapperia nei medemi colori delle figure di sopra. Noto a questo proposito che il Bruzio parla di queste figure e dice che ingrandendo la porta si erano mutilate le iscrizioni; restava solo IS + anno Dni M. CC. LV.» (Fonti e descr.). Dopo il padre Germano e il padre Budde fu Wilpert (1916) il primo a esaminare più approfonditamente l’affresco e, sulla scorta di Bruzio, a riferirne la datazione al 1255, confrontando l’opera con la pittura prodotta a Roma durante il papato di Onorio III (1216-1227); al mosaico di San Paolo fece riferimento poi il Matthiae (1966a [1988]) indicando tuttavia la mediazione di quel modello operata dalla bottega attiva nell’oratorio di San Silvestro ai Santi Quattro Coronati. Il confronto fra le figure celimontane e le parti superstiti del mosaico di San Paolo (¤ 8) rivela affinità nella resa grafica dei tratti somatici, dalle linee assai marcate (occhi, rughe) e dalle barbe e capigliature segnate a larghi tratti vicini e concentrici. Il riferimento al mosaico della basilica paolina e agli episodi romani che ne dipendono è stato ribadito a proposito dell’affresco in Santi Giovanni e Paolo dagli studiosi successivi (Gandolfo 1988; Pace 1991). Si è poi fatto riferimento alla cripta del duomo di Anagni, in particolare agli esiti della bottega del Maestro delle Traslazioni e di quelle del Maestro Ornatista e del Terzo Maestro, dunque all’Aula e alla cappella di San Silvestro ai Santi Quattro Coronati a Roma (¤ 30a e 30f). Con le imprese decorative di quest’ultima chiesa, la bottega attiva ai Santi Giovanni e Paolo condivide alcuni aspetti del vocabolario espressivo e decorativo. A confronto con le pitture dei Santi Quattro Coronati, l’affresco della basilica celimontana presenta appunto somiglianze nella 234 SANTI GIOVANNI E PAOLO
composizione e nel repertorio decorativo. Certo, l’uso di archi a tutto sesto per incorniciare il Cristo e gli apostoli è motivo che, data l’ubicazione sulla parete di fondo della navata, potrebbe non essere casuale, come a suggerire una struttura aperta verso l’esterno, e inoltre la solennità del soggetto rende sensato il confronto con il mosaico di Santa Maria Nova e con le composizioni dei sarcofagi paleocristiani. Eppure si può notare qualche affinità con l’impaginazione delle figure della campata settentrionale dell’Aula (¤ 30a), in particolare quelle della parete orientale, e anche con gli affreschi nell’abside della chiesa di San Basilio ai Pantani (¤ 20). Le similitudini aumentano focalizzando le decorazioni delle arcate, caratterizzate da una fascia rossa con la greca e da sottili girali vegetali nei pennacchi; la fascia orizzontale che si congiunge alla trabeazione presenta filari di perle: si tratta di motivi ornamentali certamente assai diffusi ma che ripartiscono anche le diverse sezioni nell’Aula (¤ 30a). Il soprastante fregio a motivi floreali e cornici vegetali ricorda quelli dell’oratorio di San Silvestro (¤ 30f) e, soprattutto, della parete occidentale nella campata settentrionale dell’Aula. La relazione fra l’affresco in Santi Giovanni e Paolo e la decorazione ai Santi Quattro Coronati è divenuta ancora più stretta – d’accordo con Draghi – per alcune affinità tra i santi e il Cristo nella basilica celimontana e lo stile più grafico e rigido del Giano trifronte, del Mese di Febbraio, della figura femminile nel Mese di Marzo e della personificazione della Grammatica (in particolare tra la donna nel Mese di Marzo e san Giovanni Evangelista e tra la figura di Gennaio e quella di san Pietro) (vedi foto a pp. 142-143). A questi confronti formali vanno inoltre aggiunti quelli paleografici delle iscrizioni. È oltremodo interessante il fatto che le menzionate figure dell’Aula costituiscano il risultato di un intervento di ‘restauro’ resosi necessario poco dopo il completamento decorativo, perché ciò ha indotto a far leva sulla datazione documentata al 1255 dell’affresco in Santi Giovanni e Paolo quale termine ante quem per l’ultimazione dell’Aula. L’osservazione e la rappresentazione estremamente disinvolte dei dati realistici e naturali delle figure e delle scene nelle decorazioni ai Santi Quattro Coronati permane anche nell’affresco celimontano, pur caratterizzato dalla maggiore graficità delle figure. Già prima delle nuove scoperte nell’Aula ai Santi Quattro era stata notata per gli affreschi nell’oratorio di San Silvestro in relazione a quello ai Santi Giovanni e Paolo la ricchezza di dettagli nella descrizione pittorica delle architetture e dei suoi materiali costitutivi (Iacobini 1991). Nell’affresco celimontano è proprio la rappresentazione della breccia delle colonne a rivelare l’apertura mentale della bottega ivi operante, pronta a cogliere la varietà delle forme offerte dalla materia: da quelle geometriche a quelle curvilinee e vagamente zoomorfe o fitomorfe, fino a quella addirittura antropomorfa nella colonna fra il san Giovanni Evangelista e il san Paolo, ove, nella parte inferiore, si nota appunto il sorprendente dettaglio di un volto disegnato dalla naturale conformazione della breccia. Il particolare non può essere considerato un inserto antiquario tanto sarebbe improbabile la sua collocazione, ancora più strana se confrontata con le precise riprese classicheggianti nell’Aula ai Santi Quattro Coronati. Esso va dunque ragionevolmente inteso per quello che è, la rappresentazione di un capriccio della natura, evidentemente osservato dal vivo dal/i pittore/i e riproposto con compiacimento artistico proprio nella sua qualità di bizzarro fenomeno naturale. Nella bottega attiva ai Santi Giovanni e Paolo, pur nel rispetto di rigidi modelli figurativi e canoni espressivi, sembra proprio che si fosse speculato su questi aspetti della realtà naturale, anticipando quanto poi scritto e tradotto in immagini in epoca rinascimentale. L’affresco sovrasta la porta ubicata al centro della parete di fondo della navata sinistra, esistente già in precedenza e i cui rifacimenti moderni hanno poi interessato l’immagine duecentesca. Questa porta immetteva sulla scala fatta erigere da papa Simmaco (499514) e dalle indagini svolte si è potuto reinterpretare il riferimento del Liber Pontificalis a questo elemento della basilica celimontana
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(«Ad beatum Iohannem et Paulum fecit grados post absidam»). La scala, infatti, «post absidam», vi girava intorno, permettendo così, come una sorta di deambulatorio, il collegamento fra le due navate. Permetteva altresì, come riconosciuto dalle fonti moderne, l’accesso al Clivo di Scauri e da qui al complesso dei Santi Andrea e Gregorio al Celio e anche al santuario sottostante la stessa basilica dei Santi Giovanni e Paolo, che potrebbe avere svolto le sue funzioni fino agli inizi del XIII secolo (Curzi 1999, 607-616). Si trattava di una struttura che permetteva soprattutto di dare seguito al percorso devozionale interno alla basilica, il cui fulcro era il «locus martyri» posto al centro della navata (Germano di San Stanislao 1894, 452; Prandi 1953, 125). La realizzazione dell’affresco sul fondo della navata, osservabile da un livello pavimentale più basso di quello attuale, potrebbe essere stata parte di un’integrazione duecentesca dell’antico programma figurativo interno alla basilica, che vedeva sulle pareti della navata episodi del Vecchio Testamento e sulla parete dell’abside le immagini dei santi titolari, quella di san Saturnino ed episodi relativi ai martiri Scillitani, questi ultimi forse del IX secolo (Germano di San Stanislao 1894, 297-305, 445-447, 472; CBCR 1976, IV, 95) o di una sua riorganizzazione. A questa fase fu pertinente anche la decorazione del portico (¤ 34a) e probabilmente anche quella nel convento (¤ 34b). Ortolani (1925) e Prandi (1953) avevano notato la contemporaneità tra l’opera e la dedicazione di un altare nel 1256, secondo un’iscrizione citata dal Martinelli e ripresa da Forcella (1877, X, 6). Possiamo oggi ipotizzare che l’indicata iscrizione fosse proprio quella che correva in origine sotto le figure dell’affresco celimontano. Il Bruzio (c. 195v) poteva ancora distinguerne quattro linee sotto i santi raffigurati a sinistra, e anche il Martinelli (1653) vi prestò attenzione. Quest’ultimo affermava di avere attinto a testimonianze ancora esistenti e anche «ex Codicibus manuscriptis» per la redazione del suo volume Roma ex ethnica sacra, ove riportò l’iscrizione per esteso: «ANNO D. M. CC. LVI. IND. XIV. PONTIFIC. 236 SANTI GIOVANNI E PAOLO
D. ALEXANDRI IV. PAPAE ANNO II. Consecratum est hoc Altare in die Palmarum ad honorem Dei omnipotentis, Petri, et Pauli, et aliorum Apostolorum per ipsum Papam, qui annis singulis ad hanc ecclesiam accedentibus in Assumptionis B. Mariae die, et usque ad 15. sequentes, duodecim annos de vera indulgentia concessit». Al momento dell’ampliamento della porta alla fine del Cinquecento, il testo, dunque, già sicuramente poco leggibile, doveva essere stato trascritto per intero prima della sua parziale distruzione e la trascrizione fu in seguito utilizzata da Martinelli. L’acquerello di Antonio Eclissi nella raccolta di Cassiano del Pozzo (WRL 9200), realizzato fra il 1630 e il 1644, nell’omettere la rappresentazione delle fasce inferiori con l’iscrizione e i velari, conferma tale situazione di deterioramento e di trasformazione della parte inferiore della parete. Tutto l’insieme – fregio, architettura e figure, iscrizione e velari – fu scialbato probabilmente alla fine del Seicento, nell’ambito dei lavori promossi dal cardinale Philip Howard, quando la presenza dei Domenicani nella chiesa e nel convento dei Santi Giovanni e Paolo comportò una revisione della decorazione: l’altare antistante la parete con l’affresco fu infatti intitolato alla Madonna del Rosario, con la conseguente copertura delle figure duecentesche di Cristo e degli apostoli, non più funzionali ad accompagnare quella specifica devozione. Ciò potrebbe essere confermato dal documentato volume del Rondinini sulla basilica celimontana, pubblicato nel 1707, che, precedente l’ancora più radicale intervento del cardinale Paulucci (1718), tace dell’affresco che evidentemente non era più visibile. Fu Howard probabilmente a far eseguire nella parte inferiore della parete la decorazione pittorica di festoni e arabeschi (a sua volta occultata dall’altare settecentesco fatto erigere dal Paulucci, che portò alla creazione di un andito utilizzato come piccola sacrestia), criticata dal Germano e rimossa successivamente dal Budde nel 1912. Se osserviamo quanto rimane dell’iscrizione e lo confrontiamo con l’indicazione di Martinelli e con quella di Bruzio – utilizzata da Budde e Wilpert per datare l’affresco – notiamo alcune coincidenze: a sinistra, nella parte iniziale della prima riga, si nota ancora la «M» della datazione, coincidente infatti con l’annotazione di Bruzio e con l’avvio della trascrizione in Martinelli. Nella seconda riga, in corrispondenza dell’apostolo Giacomo, si può ancora leggere «PETRI ET PAULI» (Iscr. 4), parole confrontabili con la trascrizione di Martinelli. Non è possibile avere idea della complessiva impaginazione del testo, ma tenendo conto della sezione in cui cadono le parole riconosciute nella seconda riga e delle possibili accentuazioni delle spaziature fra lettere e parole, possiamo ritenere che il testo fosse commisurato allo spazio disponibile occupante la larghezza dell’intera parete. L’iscrizione resa nota da Martinelli non rimase ignota allo stesso Bruzio (c. 190v), a Rondinini e poi a Forcella. Bruzio, tuttavia, pur al cospetto di un’iscrizione dipinta assai deteriorata su cui lesse la data probabilmente mancante dell’ultima cifra, recepì da Martinelli, più attento a collazionare iscrizioni nel loro esclusivo valore documentario, un’indicazione decontestualizzata rispetto all’immagine. Fatta eccezione per Ortolani e Prandi, non venne mai stabilito alcun tipo di collegamento tra l’affresco e l’iscrizione del 1256 (a scheda già chiusa abbiamo potuto consultare Mondini [2010c, 77-78] che giunge ad analoga conclusione sulla base dell’annotazione di Francesco Torrigio all’Historia delle Stationi di Ugonio). L’opera rimanda dunque al pontificato di Alessandro IV, nel secondo anno del suo pontificato, il 1256, e all’interno di un edificio che, insieme all’annesso convento e dimora cardinalizia, faceva parte del sistema logistico e difensivo della sede papale del Laterano, come San Clemente e i Santi Quattro Coronati (Krautheimer 1981, 396-398). Doveva essere di particolare rilievo l’ubicazione dell’affresco all’interno di un percorso processionale interno alla basilica, sovrastante l’altare o in corrispondenza di esso, ubicato a sua volta dinanzi alla porta che immetteva sulla scala di Simmaco od ortogonalmente sulla parete verso il clivo.
L’altare fu dedicato dallo stesso Alessandro IV («per ipsum Papam») in onore a Dio, ai santi Pietro e Paolo e agli altri apostoli e inevitabilmente la commissione dell’affresco potrebbe acquistare una matrice papale. Tali combinate iniziative erano peraltro contemporanee a un utilizzo del palazzo dei Santi Giovanni e Paolo da parte del pontefice e della sua ristretta cerchia. Alla fine del marzo 1256 – «in palatio nostro apud ecclesiam Sanctorum Johannis et Pauli» – vi troviamo infatti attivo il cardinale di Sant’Angelo in Pescheria, Riccardo Annibaldi (Bourel de La Roncière et al. 1902, 385-387), imparentato con Alessandro IV. Il possibile ruolo del pontefice nella committenza spiega la presenza degli apostoli Pietro e Paolo ai lati del Cristo Salvatore; anche il riferimento dell’iscrizione alle indulgenze in occasione dell’Assunzione di Maria esprime l’ufficialità dell’immagine rinviando alla cerimonia che in quel giorno vedeva il trasporto dell’immagine Acheropita del Salvatore dal Laterano a Santa Maria Maggiore, per ‘ricongiungere’ Madre e Figlio (Parlato 2000, 74-88). La consacrazione dell’altare l’8 aprile 1256, Domenica delle Palme, diviene anch’essa simbolica: è infatti il giorno in cui si celebra l’ingresso trionfante di Cristo e degli apostoli in Gerusalemme. Una ricorrenza sicuramente scelta non a caso, in virtù del celebrato ruolo del pontefice quale vicario e immagine visibile di Cristo sulla terra (Paravicini Bagliani 1998, 43-59). In un contesto ufficiale come quello della basilica dei Santi Giovanni e Paolo e del suo annesso palazzo pontificio e cardinalizio, la realizzazione dell’affresco potrebbe avere espresso, poco dopo il rientro di Alessandro IV nell’Urbe e attraverso la combinazione di immagini pittoriche e liturgia, la centralità romana del potere papale. Il pontefice aveva necessità di ribadire tale concetto nel conflitto contro Manfredi e nella ricerca di un sovrano di Sicilia più rispettoso del pontefice, senza escludere che l’universalità del messaggio, nella turbolenta e altalenante situazione cittadina, avrebbe potuto essere utile nel ribadire al potere comunale le prerogative temporali e spirituali del papato e della curia.
Interventi conservativi e restauri
1575 ca.: sulla stessa parete dell’affresco, al termine della navata sinistra della basilica, ampliamento della porta comunicante con la scala di Simmaco da parte del cardinale Pelleve (Bruzio, c. 195v). 1668-1689: probabile scialbatura dell’affresco conseguente alla realizzazione dell’altare dedicato alla Madonna del Rosario e chiusura del vano della porta (Rondinini 1707, 159; Germano di San Stanislao 1894, 453). 1718: lavori di rifacimento della basilica commissionati dal cardinale Paulucci con costruzione della cappella dell’Assunta dinanzi alla parete dell’affresco (Ortolani 1925, 17-18). 1887: contestualmente agli scavi della domus dei Santi Giovanni e Paolo, scoperta dell’affresco da parte di padre Germano (Germano di San Stanislao 1894, 401). 1912: ritrovamento dei velari e probabilmente della fascia con i resti dell’iscrizione da parte di padre Lamberto Budde (Ss. Giovanni e Paolo al Celio, APP, Fondo Antico, b. Basilica, n. 3, Cartella Appunti Fr. Lamberto Budde, 49, annotazione XLV). 1995-96: restauro dell’affresco a cura della Soprintendenza per i Beni Storici e Artistici di Roma e del Lazio (ditta Tecnicon con la direzione di Alia Englen). 2003: restauro dell’affresco a cura della Soprintendenza per i Beni Storici e Artistici di Roma e del Lazio (ditta Pitzalis con la direzione di Alia Englen).
Documentazione visiva
Antonio Eclissi, Cristo in trono con sei Apostoli, acquerello, (16301644), WRL 9200; anonimo, Cristo in trono con sei Apostoli; San Giovanni Evangelista, incisioni, (1887-1894), in Germano di San Stanislao, 1894, 402, 405, figg. 60-61; P. Lamberto Budde, Schizzo del velario, penna, (1912) in Ss. Giovanni e Paolo al Celio, APP, Fondo Antico, b. Basilica, n. 3, Cartella Appunti Fr. Lamberto Budde, 49, annotazione XLV; Wilpert 1916, IV, 270.
Fonti e descrizioni
Martinelli 1653, 129; postille di Francesco Maria Torrigio a Pompeo Ugonio, Historia delle Stationi di Roma, BAV, Stampati, Barberini V.VX.8-Riserva, Roma 1588, f. 30r e BAV, Vat. lat. 13128, schedario Santi Pesarini, f. 387r-v: «Quella porta (...) sopra questa porta di dentro vi sono alcune pitture antiche di Cristo e degli Apostoli con lettere molto guaste così. Anno Domini 1256 indict. XIIII Apostolorum Petri et Pauli etc. et aliorum et S. Apostoli [nella trascrizione di Santi Pesarini] et sociorum eius martyrum Christi ab ipso domino (Alessandro IV) etc. a supradicta die usque etc. et annis singulis etc.»; Antonio Bruzio, Theatrum Romae Urbis, BAV, Vat. lat. 11872, tomo VIII, Regio Montis seu etiam Campitelli. Romae. Tomo I, lib. 4. cap. XIIII, cc. 195r-v: «Laeva navis, ad quam est congressus per gradus quos a Scauri clivo erexit Simmachus Papa, teste Anastasio, ut supra diximus, super ianuam in summo picturas ostentat antiquissimas, nimirum in medio Servatorem sedentem cui codex apertus in sinistra manu haec praefert inscripta: Ego sum lux mundi, qui sequitur me non ambulat in tenebris. Stant a destris imagines sanctorum Pauli, Ioannis et Iacobi; a sinistris vero sanctorum Petri, Andreae et, ut credo, sanctus Thomae, cum nominis literae obliteratae sint, quae tamen leguntur sub aliis imaginibus. Ad latus dextrum, sub dictorum apostolorum picturis, cernuntur quatuor lineae uncialium literarum, quae antea per rectam lineam totam percurrebant frontem, sed ampliata ianua hac a cardinale Sexonensi, elisae sunt dictae literae, quarum tantum in prima linea hae remanserunt, videlicet + Anno Domini M. CC. LV., e quibus apparet has Christi et Sanctorum Apostolorum effigies esse quadringentescas. In medio stat ara beato Ioanni Colombino sacrata, cuius imago in tabula Servatorem visum adorantis, cui orbis in manu. In loculamento quod brevi intervallo ab hac ara disiungitur, antiquissimas pariter videas licet effigies Domini Nostri Iesu Christi in gloria exhibiti, cui beatissima Virgo a dextris assidet. In inferiori ordine repraesentantur duae aliae imagines sanctorum Ioannis et Pauli, qui videntur libros illis offerentibus similes. Est et alia imago viri in genua provoluti et hinc inde ad latera sanctorum Apostolorum Petri et Pauli effigies»; Ss. Giovanni e Paolo al Celio, APP, Fondo Antico, b. Basilica, n. 3, Cartella Appunti Fr. Lamberto Budde, 49, annotazione XLV.
Bibliografia
Germano di San Stanislao 1894, 401; Wilpert 1916, II, 648-649, 958, 1118, 1121, 1134, 1205; Ortolani 1925, 15, 41; Toesca 1927 [1965], 1007; Prandi 1953, 182, 600; Prandi 1957, 95; Waetzoldt 1964, 35; Matthiae 1966a [1988], 142-143; Gandolfo 1988, 301; Pace 1986, 426; Iacobini 1991, 288; Parlato-Romano 1992 [2001], 164; Osborne-Claridge 1996, 98-99; Angelelli 1998, 22-24; Draghi 2004b, 28-29; Monciatti 2005a, 105-106; Draghi 2006, 88, 113, 115-116, 119; Mondini 2010c, 77-78. Sofia Barchiesi e Daniele Ferrara
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35. IL PERDUTO CALENDARIO DI SANTA MARIA DE AVENTINO Quinto decennio-metà del XIII secolo
Del Calendario che ornava il portico della domus dell’ordine Templare a Roma – l’antico monastero benedettino di Santa Maria de Aventino, conosciuta anche col nome di Santa Maria del Priorato – scomparso nel XVIII secolo quando, con il rifacimento del Piranesi si demolirono completamente le strutture medievali del convento, sopravvivono le copie eseguite nel XVII secolo da Antonio Eclissi per Cassiano dal Pozzo (WRL 9217 e 9219). Si tratta di due pareti lunettate, ognuna includente un semestre. Nella prima, i sei settori con il testo del Calendario sono coronati da una lunetta divisa in due registri, con al centro un’imponente figura di santo diacono che, in posizione assiale, divide a metà il primo registro e parte del secondo [1]. Nel registro superiore a sinistra del diacono, un uomo, seguito da un servo che tiene le briglie di un cavallo, è forse inginocchiato con le mani giunte in atto di preghiera. A destra, un vescovo con mitra e pastorale sta forse guarendo o resuscitando una donna che giace ai suoi piedi – come pare indicare il frammento d’iscrizione con la parola miracula nella cornice che divide il primo ordine dal secondo – al cospetto di un servo che assiste e accenna verso la donna. Il registro inferiore contiene le raffigurazioni dei Mesi: a Gennaio un uomo si scalda davanti al fuoco; a Febbraio si procede con la potatura; Marzo è rappresentato dal consueto spinario; ad Aprile i pastori portano le capre al pascolo; a Maggio i cavalieri cacciano con il falcone e a Giugno si falcia il grano. Se le prime tre raffigurazioni si susseguono senza elementi divisori, i mesi di Aprile, Maggio e Giugno sono separati da cornici verdi sulle quali spicca una decorazione a candelabre chiare. Del secondo semestre già nel Seicento restava ben poco [2]: i primi sedici giorni del mese di Luglio, a cui corrisponde l’attività della trebbiatura del grano, e una piccola parte della lunetta soprastante che, a differenza del primo semestre, sembra presentare una decorazione ornamentale invece che scene narrative.
Iscrizioni
Le trascrizioni sono state effettuate dal disegno acquerellato di Antonio Eclissi, WRL 9219, e confrontate con le edizioni di Guerard 1893, Jounel 1977 e Ilari 1998. In apparato si indicano solo le varianti al testo; non si segnalano le trascrizioni dei dittonghi (mai impiegati nel disegno dell’Eclissi), le abbreviazioni non sciolte o sciolte senza le parentesi tonde; Jounel 1977 riporta solamente i nomi dei santi e delle celebrazioni religiose segnate nel Calendario. Gennaio
Ian(uarius) h(abe)t d(ies) XXXI L(una) XXVIIII / A K(alendas) Ian(uarii) Circu(m)cisio / B IIII Non(as) / XI C III Non(as) Antheros p(a)p(ae) m(arti)r(is) / D II Non(as) / XVIIII E Non(as) [[Epiphania D(omi)ni]] / VIII F VIII Id(us) Epiphania D(omi)ni / G VII Id(us) S(ancti) Ysidori ep(iscop)i / XVI A VI Id(us) S(ancti) Timothei m(arti)r(is) Severini / ep(iscop)i / B V Id(us) / C IIII Id(us) S(ancti) Pauli I eremite / XIII D III Id(us) S(ancti) Hygini p(a)p(ae) / II E II Id(us) S(ancti) Ioan(n)is p(a)p(ae) / F Id(ibus) Oc(tava) E(pi)ph(an)ie Iuliani et Basilisse / v(i)r(ginis) / X G XVIIII K(alendas) S(ancti) Felicis p(res)b(ite)r(i) / A XVIII K(alendas) S(anctus) Mauri abb(atis) et Secu(n)dine vir(ginis) / XVIII B XVII K(alendas) S(ancti) Marcelli p(a)p(ae) et m(arti)r(is) / VII C XVI K(alendas) S(anct)i Antoni abbatis / D XV K(alendas) ─ et Prisce / XV E XIIII K(alendas) / IIII F XIII K(alendas) S(ancti) Fabiani 238 SANTA MARIA DE AVENTINO
et Sebastiani m(arti)r(is) / G XII K(alendas) S(anctae) Agnetis vi(riginis) et m(arti)r(is) / I B X K(alendas) S(anctae) Emere(n) tiane vi(riginis) et m(arti)r(is) / C VIIII K(alendas) / VIIII F VIII K(alendas) Conversio S(ancti) Pauli etc. / E VII K(alendas) S(ancti) Paule / XVII F VI K(alendas) S(ancti) Vitaliani p(a)p(ae) / G V K(alendas) / A IIII K(alendas) / XXII B III K(alendas) / III C II K(alendas) S(anctorum) Cyri et Ioh(anni)s m(arti)r(um) r.6. XVIII per XVII, Guerard 1893, 155. Febbraio
Febr(uarius) h(abe)t d(ies) XXVIII L(una) XXVII / D K(alendas) Febr(uarii) / E IIII N(onas) Purificatio s(anctae) Marie / F III N(onas) S(ancti) Blasii ep(iscop)i m(arti)r(is) / G II N(onas) [[S(ancti)]] / A Non(as) S(anctae) Agathe vir(ginis) et m(arti)ris / XVI B VIII Id(us) / V C VII Id(us) S(ancti) Pelagii p(a)p(ae) et s(ancti) Theodori / D VI Id(us) S(ancti) Paulini P(a)p(ae) / XIII E V Id(us) S(ancti) Savini Canosini ep(iscop)i / I F IIII Id(us) S(anctae) Scolastice vi(r)g(inis) / G III Id(us) / X A II Id(us) / B Id(ibus) / XVIII C XVI K(alendas) s(ancti) Vale(ntini) m(arti)r(is) / VII D XV K(alendas) S(anctorum) Faustini et Iovite m(arti)r(um) / E XIIII K(alendas) S(ancti) Iuliani ma(rti)r(is) / XV F XIII K(alendas) / IIII G XII K(alendas) / A XI K(alendas) / XII B X K(alendas) / I C VIIII K(alendas) s(ancti) Siricii p(a)p/ae) et m(arti)i(s) / D VIII K(alendas) Cathedra s(anct) i Petri / XIIII E VII K(alendas) vig(ilia) s(ancti) Mathie / F VI K(alendas) s(ancti) Mathie ap(osto)li / G V K(alendas) / II A IIII K(alendas) / B III K(alendas) / XXIII C II K(alendas)
Id(us) T XVII / II B IIII Id(us) Donis / C III Id(us) Leonis p(a) p(ae) / X D II Id(us) XIIII / E Id(ibus) / XVIII F XVIIII K(alendas) Tiburtii et Valeriani / VII G XVII K(alendas) / A XVI K(alendas) Aniceti p(a)p(ae) mar(tiris) / XV B XV K(alendas) T XIX / IIII C XIIII K(alendas) T VIII / D XIII K(alendas) Leonis p(a)p(ae) VIIII / XII E XII K(alendas) Victoris p(a)p(ae) et m(arti)r(is) / I F XI K(alendas) / G X K(alendas) Agapiti p(a)p(ae) / VIIII A VIIII K(alendas) Georgii et Alberti / B VIII K(alendas) Liberii p(a) p(ae) et Benedicti p(a)p(ae) / XVII C VII K(alendas) Marci ev(an) g(elistae) et let(aniae) maior(es) / VI D VI K(alendas) Anacleti p(a) p(ae) et m(arti)r(is) Marcellini p(a)p(ae) / E V K(alendas) [[Vitalis m]]/ XIIII F IIII K(alendas) Vitalis m(arti)r(is) / II G III K(alendas) / A II K(alendas) r.1. XXVIII per XXVIIII, Guerard 1893, 158; Ilari 1998, 44. r.15. Tiburti per Tiburtii, Guerard 1893, 159; Jounel 1977, 415 | Martirum a fine testo, Ilari 1998, 45. r.26. Letania maior per Letaniae maiores, Jounel 1977, 415. Maggio
Mai(us) h(abe)t d(ies) XXXI L(una) XXX / B K(alendas) Mai(i) Philippi et Iacobi / C VI N(onas) / D V N(onas) Inve(n)tio s(anctae) (Crucis) Alexa(n)d(ri) Ev(en)tii / et Th(eoduli) etc. / E IIII N(onas) / F III N(onas) / G II N(onas) Ioha(n)is a(n)te Porta(m) Latina(m) / A N(onas) / B VIII Id(us) Michaelis archa(n)geli / XXII E VII
Id(us) / D VI Id(us) Gordiani et Epimachi m(arti)r(um) / E V Id(us) S(ancti) Antimi p(a)p(ae) et m(arti)r(um) / F IIII Id(us) Pancratii Nerei et Achillei m(arti)r(um) / G III Id(us) / XVII A II Id(us) Bonifatii m(arti)r(i) / VI B Id(us) / C XVII K(alendas) Iun(ii) / D XVI K(alendas) / E XV K(alendas) / F XIIII K(alendas) S(anctae) Pudentiane / XII G XIII K(alendas) / I A XII K(alendas) / B XI K(alendas) / XIIII C X K(alendas) / D VIIII K(alendas) / XVII E VIII K(alendas) S(ancti) Urbani p(a)p(ae) et m(arti)r(is) / VI F VII K(alendas) / G VI K(alendas) Iohan(n)is I p(a)p(ae) et m(arti)r(is) / XIIII A V K(alendas) Depositio Iohan(n)is p(a)p(ae) I / III B IIII K(alendas) / C III K(alendas) Felicis p(a)p(ae) et m(arti)r(is) / XI D II K(alendas) Petronille v(i)rg(inis) r.3/4. Inventionis per Inventio sancti e Theodori per Theoduli, Ilari 1998, 45. r.14. Pancratii, Nerei et Achillei assenti in Guerard 1893, 159. r.30. Reportatio per depositio, Guérard 1893, 160; Jounel 1977, 415 | omissione del numerale romano I, Guerard 1893, 160; Jounel 1977, 415 | apostoli per papae, e omissione del numerale romano I, Ilari 1998, 45. Giugno
Iun(ius) h(abe)t d(ies) XXX L(una) XXVIIII / E K(alendas) Iun(ii) Nicomedis m(arti)r(is) / F N(onas) Marcell(ini) et Petri et Erasmi m(arti)r(um) / G III N(onas) / A II N(onas) / B N(onis) / C VIII
r.7. XVI omesso in Guerard 1893, 156. r.11. Carnotini per Canosini, Guerard 1893, 156; Jounel 1977, 414. r.25. apostoli omesso in Guerard 1893, 157; Jounel 1977, 414; Ilari 1998, 44. Marzo
Mar(tius) h(abe)t d(ies) XXXI L(una) XXX / D K(alendas) Mar(tii) / E IV N(onas) / V N(onas) / G IIII N(onas) / XXIII A III N(onas) / VIII B II N(onas) / C Non(as) Perpetue et Felicitat(i)s / XVI D VIII Id(us) / V E VII Id(us) S(an)c(t)or(um) XL mar(tirum) / F VI Id(us) / XIII G V Id(us) / II A IIII Id(us) S(ancti) G(re)g(orii) p(a)p(ae) / B III Id(us) / X C II Id(us) / D Id(ibus) Zacharie p(a)p(ae) / XVII E XVII K(alendas) / XXI F XVI K(alendas) / G XV K(alendas) / XV A XIIII K(alendas) / IIII B XIII K(alendas) / VI C XII K(alendas) S(ancti) Benedicti abb(atis) T XVI / XII D XI K(alendas) / I E X K(alendas) / F VIIII K(alendas) / XIIII G VIII K(alendas) An(n)u(n) tiatio s(anctae) Marie / A VII K(alendas) / XVII B VI K(alendas) Resurrectio D(omi)ni T X / D IIII K(alendas) T XVIII / XIIII E III K(alendas) / III F II K(alendas) T VII r.25. Annunciatio per Annuntiatio, Guerard 1893, 158; Jounel 1977, 414. r.27. Ihesu Christi per T X, Ilari 1998, 44. Aprile
Ap(ri)l(is) h(abe)t d(ies) XXX L(una) XXVIIII / G K(alendas) Ap(ri)l(is) / XIII A IIII N(onas) Xisti p(a)p(ae) IIII / B III N(onas) / XVIIII C II N(onas) T XII / D N(onas) T I / XVII E VIII Id(us) / V F VII Id(us) Celestini p(a)p(ae) T / G VI Id(us) / XIII A V
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SANTA MARIA DE AVENTINO 239
Id(us) / XIII D VII Id(us) / II E VI Id(us) / F V Id(us) P<rimi> et Feliciani / X G IIII Id(us) / A III Id(us) Barnabe ap(osto)li / XVIII B II Id(us) Basilidis et Tripodis / VIII C Id(ibus) / D XVIII K(alendas) Iul(ii) / XV E XVII K(alendas) Viti et Modesti m(arti)r(is) IIII F XVI K(alendas) Donati ep(iscop)i et m(arti)r(i) / G XV K(alendas) Nicandri et Marciani / XII A XIIII K(alendas) Marcelliani et Marce / B XIII K(alendas) Gervasi et P(ro)tasi / C XII K(alendas) Silveri p(a)p(ae) et m(arti)r(is) / VIIII D XI K(alendas) Mill(e) CCCLXXX m(arti)r(is) / E X K(alendas) [[+10?+]] / XVII F VIIII K(alendas) Vi(gilia) s(ancti) Iohan(n)is Bapti(stae) / VI G VIII K(alendas) N(ativitatis) s(ancti) Iohan(n)is Bapti(stae) / A VII K(alendas) [[+18?+] / XXIII B VI K(alendas) Sa(nc)tor(um) Ioh(an)nis et Pauli / XIII C V K(alendas) [[+16?+]] / D IIII K(alendas) Leonis p(a) p(ae) et vi(gilia) s(ancti) Petri / XI E III K(alendas) s(ancti) Petri / F II K(alendas) S(ancti) Pauli / G r.19. Marcellini et Mauri per Marcelliani et Marce, Guerard 1893, 161 | Marci per Marce, Jounel 1977, 416 | Marciae per Marce Ilari 1998, 46. Luglio
Iul(ius) h(abe)t d(ies) XXXI L(una) / XVIIII G K(alendas) Iul(ii) Oct(ava) s(ancti) Io<hannis> / VIII A VI N(onas) RGR / B V N(onas) / XVI C IIII Nonas / V D III Non(as) / E II Non(as) Oct<ava> ap(osto)lor(um) / XIII F Nonas [[+5+]] / II G VIIII Idus / A VIII Idus / X B VI Id(us) Rufine et Se[cunde] / C V Id(us) Pii p(a)p(ae) [- - -] / XV D IIII Id(us) Nabor[- - -] / VII E III Id(us) [- - -] / F II Id(us) [- - -] / G [- - -] / IIII A [- - -] / - - - - - VIII D [- - -] / V E [- - -] / F [- - -] / XIII G [- - -] / II A [- - -] / B [- - -] / C [- - -] / - - - - - (S. Ric.)
Note critiche
Il Calendario di Santa Maria de Aventino appartiene al piccolo gruppo di Calendari dipinti romani che sembrano trasporre all’ambito monumentale tipologie rappresentative più abituali al campo librario, e in particolare a quello dei manoscritti liturgici. La contaminazione con l’ambito librario è evidente nella maniera di rendere l’impianto epigrafico e l’impostazione strettamente codificata dei Calendari miniati, come ben dimostra il testo – rosso o nero secondo le rubriche dell’impaginazione – incasellato in una griglia ben organizzata, in cui trovano posto, per ogni giorno del mese, i numeri dell’epatta, le lettere ebdomadali, la data e la ricorrenza liturgica. Si tratta di una prerogativa dell’arte duecentesca romana – al di fuori di Roma, il solo altro esempio conosciuto è il Calendario di San Pellegrino a Bominaco, che ha strette connessioni con l’ambito artistico romano (Lucherini 2000) – che spinge effettivamente a riflettere sui possibili legami con i Calendari dipinti di epoca tardoantica che proprio a Roma trovano una preziosa testimonianza in quello della fine del III secolo, venuto alla luce negli anni Sessanta del Novecento sui resti di un edificio ormai inglobato nelle fondamenta della basilica di Santa Maria Maggiore (Magi 1972, 41; Maddalo 2007a, 583, 587; Ead. 2007b, 302): anche qui, per ogni Mese sono raffigurati il computo dei giorni e le attività campestri che vi si svolgono, organizzati tra loro, tuttavia, in un rapporto diverso rispetto a quanto avveniva nel Calendario dell’Aventino (al riquadro con i giorni del Mese se ne alterna uno, più ampio, con le rappresentazioni delle attività agricole). Questa stessa caratteristica si ritrova nei Calendari – diversamente impostati rispetto a quello che qui si studia – dell’ambiente antistante la cappella di San Silvestro ai Santi Quattro Coronati e in quello, oggi scomparso, ma conosciuto grazie alle copie del Séroux d’Agincourt (BAV, Vat. lat. 9847, f. 18r), affrescato sulla parete 240 SANTA MARIA DE AVENTINO
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esterna del dormitorio dell’abbazia delle Tre Fontane: il primo, medioduecentesco (¤ 30e), il secondo verosimilmente compiuto al tempo dell’abate Martino (1283- 1306) durante l’ultimo decennio del XIII secolo o nei primi anni del successivo, (Bertelli 1970b, 53-57) e quindi non compreso nei limiti cronologici del nostro volume. Secondo quanto riferisce il Torrigio in glossa a una delle edizioni delle Stazioni dell’Ugonio ora alla Vaticana (BAV, Stampati, Stamp. Barb.V.XV.8.Riserva), il Calendario dei Santi Quattro doveva anche presentare alcune scene agiografiche dall’impianto compositivo molto simile a quelle del primo registro della lunetta di Santa Maria de Aventino (Ilari 1998, 31 [1]): pare infatti che al di sopra di un ciclo dei Mesi, fossero raffigurati i miracoli di un santo abate – che il Torrigio individua in san Benedetto – al centro dei quali spiccava la figura stante di san Lorenzo, identificabile grazie alla graticola. Giacomo Grimaldi, che visitò il priorato templare sull’Aventino nel 1619 (Grimaldi 1619 [1972], 98), riteneva che il santo diacono cui si accosta la figura probabilmente in atto di inchinarsi fosse il medesimo che poi, raffigurato in qualità di vescovo, compie il miracolo sulla donna stesa a terra davanti a lui. Ha però ragione Gaetano Curzi a pensare che a nessun santo «sarebbe possibile riferire un’iconografia talmente proteiforme da giustificarne la rappresentazione contestuale in abiti diaconali e vescovili» (Curzi 2002, 78); in ogni caso nessuno di quelli menzionati nel calendario sottostante sembra adattarsi a questo tipo di iconografia. Ma
anche se si considerano il santo vescovo e il santo diacono due personaggi distinti, nessun racconto agiografico relativo ai vescovi che appaiono nel primo semestre del calendario sembra coincidere con gli avvenimenti dipinti nella lunetta. Non meno complessa si rivela l’identificazione del santo diacono che, per le sue dimensioni, non solo costituisce il punto focale dell’affresco, ma funge anche da collegamento tra la parte narrativa della raffigurazione e il calendario propriamente detto (Maddalo 2007a, 587): se esso è quasi sicuramente da ricercare nei santi celebrati durante la prima metà dell’anno, l’assenza di attributi determinanti non permette di andare oltre con l’ipotesi di riconoscimento. La proposta di Curzi di individuarvi Cesario di Terracina (Curzi 2002, 78; Id. 2003, 211212) – solitamente raffigurato come un giovane diacono munito di barba e il cui culto nella chiesa del monastero aventinense risale probabilmente all’epoca della sua fondazione, come dimostra l’altare reliquiario del X secolo che custodisce alcune sue reliquie – è contraddetta dalla ricorrenza della festività di tale santo al 1° novembre, ovvero al secondo e non al primo semestre del calendario romano ed essendo perso il mese di Novembre non si sa se san Cesario fosse menzionato del tutto; infine, poiché la celebrazione al 21 aprile ricordata dallo studioso (Curzi 2002, 78; Id. 2003, 212) è documentata esclusivamente nel Martirologio Geronimiano, forse in ricordo della fondazione di un luogo di culto dedicato al santo laziale sul Monte Palatino, appare improbabile questa potesse essere attestata anche nel Calendario dipinto (il testo, così com’è arrivato fino a noi, non presenta nessuna ricorrenza per il 21 aprile). Se le attività raffigurate nei Lavori dei Mesi del Calendario aventinense sono le stesse – a eccezione di Gennaio e Maggio – che caratterizzano i primi sette Mesi del ciclo dell’Aula ai Santi Quattro Coronati (¤ 30a) la maniera di renderle è talmente diversa che il confronto tra i due si ferma alla sola concordanza tematica. A differenza di quanto avviene nell’Aula ai Santi Quattro, dove ciò che rende unico il ciclo dei Mesi è il gran numero di figure usate per le dodici raffigurazioni, il Calendario aventinense presenta un solo protagonista per Mese, secondo il consueto schema compositivo che a Roma ritroviamo nel ciclo della torre abbaziale di San Saba (¤ 37), dove però sopravvivono solo alcuni Mesi del secondo semestre. Il fatto che per raffigurare il mese di Aprile si sia scelta l’attività dell’allevamento delle pecore – che si ritrova solo in cinque rappresentazioni monumentali del XII e del XIII secolo tra Francia e Italia, ma è frequentemente illustrata nei manoscritti dell’epoca (Mane 1983, 231) – ripropone il già evocato problema del rapporto tra Calendari monumentali e modelli librari. Nel Calendario aventinense l’adozione della prassi, ormai obsoleta per l’epoca in questione, di celebrare la Pasqua come festa fissa al 27 di marzo, potrebbe forse effettivamente fornire qualche indizio per la datazione dell’affresco (Curzi 2002, 79; Id. 2003, 214), dato che tra l’XI e il XIV secolo la Pasqua cade il 27 marzo esclusivamente nel 1239 e nel 1250 (Curzi 2002,
79; Id. 2003, 214). A favore di quest’ultima cronologia parlano innanzitutto le già rilevate affinità con il Calendario nell’atrio antistante la cappella di San Silvestro ai Santi Quattro Coronati (¤ 30e) che coinvolgono anche l’aspetto formale, come dimostra il confronto tra la decorazione a candelabre che separa alcuni riquadri dei Mesi nel Calendario di Santa Maria [1] e quella che incornicia i riquadri di testo del Calendario dei Santi Quattro. E la confermano anche i risultati dell’ipotesi ricostitutiva del portico che accoglieva i dipinti: per questo, infatti, che doveva probabilmente ispirarsi alla struttura dell’ambulacro del chiostro lateranense eretto tra 1216 e 1230, è stata proposta una cronologia tra il quarto e il quinto decennio del XIII secolo (Pistilli 2003, 171). La costruzione del portico e la sua decorazione s’inserivano probabilmente nella più ampia campagna di ristrutturazione della corte antistante la domus, avvenuta proprio a quest’epoca (Pistilli 2003, 171-172), forse per volere di quel Frater Petrus, il cui nome appare scolpito insieme all’anno di compimento – il 1244 – sulla vera da pozzo che in origine doveva trovarsi al centro della corte e che il rifacimento piranesiano ha poi collocato all’interno della chiesa (Peroni-Riccioni 2000; Riccioni 2003).
Documentazione visiva
Antonio Eclissi, disegni acquerellati (1630-1644 ca.), WRL 9217 e 9219 e disegni preparatori, WRL 9054 e 9055.
Fonti e descrizioni
Constantini Gajetani Calendarium ecclesiasticum ex ruinoso muro monasteriis S. Mariae in monte Aventino, in Varia de veterum Kalendariis a Cajetano Marinio collecta (secc. XVI, XVII, XVIII), BAV, Vat. lat. 9135, ff. 358r-362r; Grimaldi 1619 [1972], 98; annotazioni di Luca Holstenio che rimandano al calendario di Santa Maria de Aventino, in Baronio 1630, BAV, Stamp. Barber.B.IX.17, 172, 179, 196, 198, 201, 203, 204, 260, 294; AASS, Maii, VI, 1688, 709.
Bibliografia
Enrico Stevenson, Vat. lat. 10577, f. 60r; Müntz 1881, 41-42; Guerard 1893; Muñoz 1914, 133; Toesca 1927 [1965], 1006, nota 37; Montini 1955a; Ferrari 1957, 206; Waetzoldt 1964, 48; Magi 1972, 41; Jounel 1977, 21-22, 413-416; Romano 1978, 22; Mane 1983; Gallavotti-Montini 1984, 15-17; Bramato 1991, 179180; Iacobini 1991, 276; Osborne-Claridge 1996, 194-199; Ilari 1998; Curzi 2002, 76-79; Curzi 2003, 204-214; D’Onofrio 2005, 68; Monciatti 2005a, 81, 85; Maddalo 2007a, 583-587; Maddalo 2007b, 302; Montini s.d., 11-13. Irene Quadri
SANTA MARIA DE AVENTINO 241
36. I FRAMMENTI DEI LAVORI DEI MESI (?) NEL PALAZZO SENATORIO 1250-1260
Al secondo piano del Palazzo Senatorio, in un ambiente oggi adiacente all’archivio e ricavato – a un’epoca imprecisata – dalla tramezzatura di un locale più grande, frammenti pittorici sono visibili in incassature che si aprono su tre pareti dell’ambiente attuale. Sulla parete a destra dell’attuale ingresso è visibile quella che sembra la parte superiore di un arbusto con piccole inflorescenze rosa [2], culminante in un motivo di forma sferica, difficilmente interpretabile a causa dello stato di conservazione. Vi sono, poi, due lacerti con un motivo a lobo: il primo racchiude una sfera con racemi fioriti rossi e verdi [5], il secondo ha una forma di color marrone di cui non è possibile capire il senso [4]. Gli ultimi due frammenti superstiti sono sulla parete d’ingresso e sulla parete di fronte all’ingresso; nel primo, un personaggio intento ad affondare un bastone in qualcosa di difficilmente definibile – potrebbe trattarsi del suolo, così come di un particolare prodotto agricolo forse raccolto in un grande tino – è affiancato da un’altra figura (di cui sono oggi unicamente riconoscibili le sagome della testa e di un braccio) che, provvisto di un attrezzo di cui si intravede ora solo il manico, compie un’azione simile [3]. Nel secondo, è una figura maschile munita di cappello che con una mano regge il lembo del mantello colmo di sementi [1]. Le raffigurazioni dovevano essere circoscritte da una cornice di forma romboidale verde e ocra, ancora parzialmente riconoscibile nelle due scene riportate alla luce.
Note critiche
La scarsità dei resti pittorici – oggi completamente avulsi dal contesto pittorico e architettonico cui appartenevano e irrimediabilmente snaturati – così come il pessimo stato di conservazione non consentono di restituire l’aspetto originario del ciclo, né l’organizzazione globale della composizione e la sua articolazione nello spazio che li accoglieva. La collocazione degli affreschi in alto sulla parete, lungo l’imposta del soffitto, ricorda quella del ciclo dei Mesi affrescato in una delle sale nella torre abbaziale di San Saba (¤ 37): è possibile che, come nel caso del monastero sull’Aventino, un motivo a velaria completasse la decorazione. Analogamente a San Saba, è possibile che il tema della decorazione fosse quello dei Lavori dei Mesi, presumibilmente inseriti in una struttura decorativa piuttosto elaborata, come testimoniano i due riquadri con motivi a lobo. Se l’attività della semina è generalmente connessa al mese di Novembre, come dimostra, per quel che concerne l’ambito romano, il ciclo dei Mesi dell’Aula ai Santi Quattro Coronati (¤ 30a), dove il seminatore è raffigurato in maniera quasi identica a questo del Palazzo Senatorio, più difficile è capire quale mestiere stiano svolgendo i protagonisti della seconda scena e quindi a quale Mese questo si riferisca. A un primo colpo d’occhio, la figura centrale con un bastone si avvicina a quella che nel mese di Ottobre dell’Aula pigia l’uva (Monciatti 2005a, 85-86): tuttavia, il personaggio non è raffigurato scalzo, come quest’attività richiederebbe e, inoltre, l’azione del secondo protagonista stenterebbe a trovare una giustificazione tra i vari compiti che concorrono allo svolgimento di questo lavoro agricolo. Si potrebbe allora forse pensare alla rappresentazione della raccolta del grano appena falciato – i due agricoltori sarebbero ritratti mentre infilzano le messi su delle forche di cui non restano ormai che i manici – spesso associata al mese di Giugno, come si vede, ancora una volta, ai Santi Quattro Coronati. Ma nemmeno quest’interpretazione convince completamente: il terreno non pare presentare il colore biondo delle spighe di grano delle quali 242 PALAZZO SENATORIO / ATLANTE II, 30
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37. IL CICLO DEI MESI E LE RAFFIGURAZIONI ALLEGORICHE NELLA TORRE ABBAZIALE DI SAN SABA Sesto decennio del XIII secolo
In uno degli ambienti al primo piano della torre abbaziale di San Saba si conservano ancora, anche se in condizioni assai deplorevoli, estesi lacerti di un ciclo dei Mesi e di alcune raffigurazioni allegoriche. Quasi tutti completamente mutili della parte superiore, distrutta quando venne mozzata la torre all’inizio del secolo scorso (ACS, AA.BB.AA., I Div., 1908-1924, b. 1476: San Saba, restauri; Lestocquoy 1929, 342-345; Hermanin 1943), i frammenti mostrano medaglioni dalla doppia cornice rossoverde, disposti lungo l’imposta dell’attuale soffitto, al di sopra di velaria a righe verticali rosse, verdi, bianche e ocra e di una fascia ornamentale con racemi fioriti su fondo bianco. Il ciclo dei Mesi – di cui non sopravvivono ormai che gli ultimi cinque Mesi dell’anno – comincia oggi all’estremità meridionale della parete A [2] con la raffigurazione del mese di Agosto: si riconoscono un cestino contenente dell’uva (s’intravede ancora un grappolo), il fusto di quella che con ogni probabilità era una pianta di vite e i piedi del presunto vendemmiatore [1]. La serie continua poi sulla parete B [2, 3] con il mese di Settembre, rappresentato tramite la pigiatura dell’uva: al centro del medaglione, un grande tino pieno di grappoli pestati da una figura di cui si vedono solo le gambe [4]; sulla sinistra sono visibili il busto e le gambe di un secondo personaggio. Al mese di Ottobre corrispondeva probabilmente l’attività della cerchiatura delle botti, come pare indicare il grande barile posto in orizzontale e il personaggio
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dovrebbe essere ricoperto. Se, invece, le due figure sono raffigurate mentre lavorano un particolare prodotto agricolo, si potrebbe pensare a delle olive – s’intravedono ancora dei piccoli pallini verdi e marroni – la cui raccolta, tuttavia, non è documentata in nessun altro esempio, né in Francia, né in Italia (Mane 1983, 209-210). La frammentarietà e il critico stato di conservazione degli affreschi impediscono una definizione certa della scena. Anche per quel che attiene la questione stilistica, paiono essere le pitture dell’Aula ai Santi Quattro Coronati (¤ 30a) a costituire il termine di paragone più congeniale. Basta accostare il seminatore del Palazzo Senatorio [1] al mese di Novembre nel ciclo del Mesi ai Santi Quattro Coronati, per rendersi conto che le affinità vanno ben oltre il già rilevato aspetto iconografico: nonostante, infatti, la fisionomia del primo sia oggi quasi a uno stadio larvale, le fattezze complessive sono ancora in parte individuabili e bastano a mostrare l’efficacia del confronto. Simile in entrambi i casi è la forma rotonda del viso che appare paffuto e ‘pieno’; quest’impressione è rafforzata dal mento sfuggente, il cui taglio si dispone piuttosto in alto, e – soprattutto per quanto concerne il personaggio degli affreschi capitolini – dalla mascella forte. La bocca piccola, il naso corto e dritto che culmina in un’ampia arcata sopraccigliare, l’orecchio ‘a goccia’ posizionato un po’ troppo in basso, sono caratteristiche comuni alle due figure. Anche l’ordito di lumeggiature rosse e verdi che ai Santi Quattro connota plasticamente i volti, doveva essere condotto in maniera analoga e andava a segnare le stesse zone – la loro circonferenza, il dorso del naso, le guance – come testimoniano le tracce ancora visibili sul viso del seminatore del Campidoglio. Il panneggio dello scollo del mantello e della veste di quest’ultimo – sicuramente tra le parti meglio conservate – è reso tramite la scomposizione della superficie in linee più o meno marcate combinate a rialzi bianchi, come accade nel Settembre dell’Aula. Il profilo regolare del protagonista del secondo riquadro del Palazzo Senatorio [3], invece, per quanto sbiadito, si avvicina a quello del personaggio che nel Giugno dell’Aula è ritratto mentre – accovacciato su un covone – lega un fascio di spighe. La sfera con fiori rossi e verdi che s’incunea nella cavità dell’elemento a lobo nel riquadro sulla parete a destra dell’ingresso [5], infine, ricorda i globi che in 244 PALAZZO SENATORIO / ATLANTE II, 30
diverse scene dei Lavori dei Mesi dell’Aula ‘Gotica’ formano la chioma degli alberi, come quello, per esempio, che affianca la personificazione del mese di Gennaio. Viene addirittura da chiedersi se lo strano fusto che, nell’incassatura a fianco [2], termina con una ‘palla’, non sia un frammento di un albero che era rappresentato proprio in questo modo. Le condizioni degli affreschi capitolini impongono prudenza nel tirare conclusioni: è quindi azzardato interpretare le affinità stilistiche con quelli dell’Aula ai Santi Quattro Coronati come la prova che si tratti di prodotti della stessa bottega; la palese parentela stilistica però fa pensare che gli affreschi del Palazzo Senatorio non siano troppo lontani nel tempo da quelli dell’Aula. Le poche informazioni che possediamo sulla storia medievale del Palazzo Senatorio sembrano ben coniugarsi con quest’ipotesi di datazione: la decorazione della sala in questione coinciderebbe infatti, con la fase finale di quei lavori di ristrutturazione che è stato ipotizzato si siano svolti intorno alla metà del Duecento, sulla base di quanto riportato in un documento del 1257 che, per la prima volta, distingue tra un palatium vetus e un palatium novum (Romano 1995a, 41-42, 51). Tali interventi sono forse da ricondurre al bolognese Brancaleone degli Andalò, senatore di Roma dal 1252 al 1255 e poi di nuovo, ma in modo molto precario, tra la fine del 1257 e la metà del 1258: anche l’esecuzione del probabile ciclo dei Mesi potrebbe giustificarsi e assumere pieno significato se letta alla luce della personalità di Brancaleone, bolognese e settentrionale, e iniziatore di una svolta politica grazie alla quale i rappresentanti delle Arti cominciarono a partecipare ai Consigli cittadini. Il programma pittorico, con le sue diverse occupazioni e attività, ben poteva adattarsi, così, a un ambiente che era forse destinato ad accogliere queste adunanze, alle quali ormai partecipavano anche i membri delle Corporazioni delle Arti e dei Mestieri.
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Bibliografia
Pietrangeli 1960, 5; Romano 1992, 47-48; Romano 1995a, 52; Monciatti 2005a, 85-86; Romano 2007, 633. Irene Quadri
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SAN SABA 245
che l’affianca. Di Novembre sopravvive solo parte del corpo di due grossi bovini, in origine probabilmente raffigurati attaccati a un aratro: questo Mese, infatti, è spesso connotato dai lavori dell’aratura e della semina. Conclude la parete B il mese di Dicembre che mette in scena la canonica attività della macellazione del maiale: un personaggio munito di grembiule si appresta a eviscerare – è ancora ben riconoscibile il coltello – un maiale appeso per le zampe posteriori. Gli affreschi proseguivano sulla parete C [2], dove però la superficie pittorica è particolarmente compromessa: dei velaria non vi è più traccia, mentre è ancora ben distinguibile la banda decorativa bianca con racemi che li sovrastava; al posto dei medaglioni che caratterizzano i Lavori dei Mesi e le raffigurazioni allegoriche, le scene – oggi completamente abrase – erano qui racchiuse in una doppia cornice rossa e bianca, ancora individuabile. Una cornice identica – di cui si conserva unicamente l’angolo inferiore destro con un motivo vegetale – si ritrova all’estremità orientale della parete D [2]. Questa accoglie poi, per tutta la sua lunghezza, le tre raffigurazioni allegoriche, i cui medaglioni sono a loro volta complessivamente compresi entro una cornice rossa [5]. Nel primo, una figura femminile di schiena e col capo coperto – l’unica non acefala di tutta la serie – è in procinto di scoccare una freccia: l’arco, rivolto verso destra, è teso e la testa è leggermente inclinata a sinistra, secondo la tipica postura dei tiratori coll’arco. Nel medaglione centrale, una figura maschile siede su un sedile circolare, le mani posate sulle ginocchia lasciate scoperte dall’abito, i piedi nudi poggiati su un suppedaneum verde. Nell’ultimo medaglione è un’altra figura femminile – questa volta rappresentata frontalmente – coll’arco puntato verso destra: essa, però, a differenza di quella del primo medaglione, è stata ritratta nel momento successivo l’aver scoccato il dardo, come dimostra la corda a riposo e il braccio destro ancora levato al di sopra della testa.
La parete E [2] non conserva che parte della decorazione a velaria e un’esigua porzione della fascia ornamentale a girali fioriti su sfondo bianco, ormai molto sbiadite.
Note critiche
Nel panorama lacunoso e frammentario dei Lavori dei Mesi romani, il ciclo di San Saba, insieme ai Mesi dell’Aula ai Santi Quattro Coronati (¤ 30a), è quello che fornisce più indizi. Le rilevate tangenze (Maddalo 2007a, 587) con i Mesi della Fontana Maggiore di Perugia coinvolgono effettivamente sia l’aspetto iconografico – ad ogni Mese corrisponde la stessa attività, ad eccezione di Agosto che nel ciclo romano mette in scena la vendemmia e in quello umbro, invece, la raccolta dei fichi – che quello compositivo, come dimostra l’episodio con la macellazione del maiale, rappresentato in entrambi i casi esattamente nello stesso modo: l’individuazione di un modello comune di origine meridionale-federiciana, tuttavia, richiede prudenza. Alla formazione dell’iconografia dei Lavori dei Mesi, infatti, hanno partecipano fattori diversi e variegati. Ai Lavori dei Mesi ampio spazio era accordato nella secolare tradizione delle enciclopedie medievali, nonché in numerosi poemi in latino – si pensi al Carmina de Mensibus di Bonvesin de la Riva – o in volgare, come la composizione duecentesca Il mare amoroso (Castelli 2007, 43-44); un impatto, inoltre, può anche averlo avuto la multiforme realtà delle pratiche agricole delle svariate regioni. In questo complesso intreccio di dati, di relazioni e di rimandi, individuare un filone iconografico che si rifaccia a precisi prototipi e al quale si possano meccanicamente ricondurre episodi affini, non è impresa facile; in quanto tema non strettamente religioso, questo dei Lavori dei Mesi poteva anche lasciare più margini di iniziativa all’invenzione artistica. 4
Ne è una dimostrazione il fatto che il ciclo dei Mesi di San Saba metta in scena le stesse attività dell’Aula – in entrambi troviamo l’attività della cerchiatura delle botti, un hapax per quanto riguarda i Lavori dei Mesi affrescati italiani, frequente invece in quelli scolpiti (Mane 1983, 181) – ma le assegni a Mesi diversi: a San Saba connota il mese di Ottobre, nell’Aula ‘Gotica’ sta a raffigurare il mese di Settembre; le attività della vendemmia e della pigiatura dell’uva che a San Saba corrispondono rispettivamente ai mesi di Agosto e Settembre, ai Santi Quattro spettano al mese di Ottobre. La mancanza di un ciclo dei Mesi sicuramente riconducibile al Meridione federiciano non consente un riscontro effettivo; quegli episodi per cui sono stati spesso messi in evidenza contatti con la cultura della corte di Federico II, come i Lavori dei Mesi legati al Calendario di San Pellegrino a Bominaco, databili al 1263 (Baschet 1991, 85), non solo non presentano affinità con quelli di San Saba, ma se ne discostano piuttosto vistosamente (tra i due cicli vi è correlazione unicamente per il mese di Novembre che in entrambi mette in scena l’attività della semina). L’intonazione già pienamente gotica e la spiccata connotazione ‘realistica’ che caratterizzano sia le scenette agricole dei Mesi di San Saba che quelle della Fontana Maggiore, così come la formazione meridionale di Nicola Pisano che eseguì queste ultime (Maddalo 2007a, 587), infine, non ci paiono indizi sufficienti al riconoscimento di un eventuale modello comune e meridionale. Alla cultura di Federico II, piuttosto, potrebbero rimandare le misteriose raffigurazioni allegoriche, così straordinariamente antichizzanti. Finora poco considerate – pur essendone ancora intuibile la qualità, nonostante le disastrose condizioni di conservazione – esse sorprendono per l’originalità, sia iconografica che compositiva, come dimostra l’eccezionalità della figura rappresentata di spalle, e restano, almeno per il momento,
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246 SAN SABA
senza confronti che possano aiutarci nell’individuazione del soggetto. Qualche contatto potrebbe istituirsi con uno dei rari testimoni federiciani sopravvissuti, il Liber Astrologiae di Georgius Fendulus (Parigi, BNF, Ms. lat. 7330), commissionato da Federico II ed eseguito durante il secondo quarto del XIII secolo (Gousset-Verdet, 1989). Sia il personaggio nel medaglione centrale di San Saba che le figure che nel codice miniato personificano i vari pianeti, siedono su un alto trono senza dossale: simile, poi, è la postura, con le gambe leggermente divaricate, scoperte fino al ginocchio. Le donne-arciere, invece, ricordano le figure femminili che popolano la prima parte del manoscritto, dedicata alle costellazioni che, per ogni segno zodiacale, corrispondono a ciascun decano: le prime, così come le seconde, infatti, presentano silhouettes sottili e allungate, messe in valore da abiti lunghi – serrati in vita da una cintura – che cadono morbidi, ‘aprendosi’ in fondo; come la donna-arciere di destra, alcune portano sulle spalle un mantello di colore diverso rispetto all’abito (si vedano, per esempio, le figure ai ff. 14-15 del manoscritto, in Gousset-Verdet 1989, 27-29). Con questi paragoni si vuole rendere evidente un’affinità che è prima di tutto tipologica: essi confermano il carattere profano del programma di San Saba e definiscono un bacino iconografico – quello della cosmologia – che ben si combinerebbe, in termini di coerenza del programma, con il ciclo dei Mesi. Elemento-chiave per la comprensione delle rappresentazioni di San Saba sta sicuramente nel significato da attribuire alla sottile differenziazione delle pose e all’articolata sequenza delle azioni delle due donne-arciere che, rendendo efficacemente l’idea di un processo in divenire, farebbero in effetti pensare all’allegoria del Tempo (Maddalo 2007a, 585). Come si spieghi e come si legittimi un tale programma in un ambiente monastico, è un aspetto del problema che per ora, SAN SABA 247
purtroppo, ci sfugge. Quasi nulla, infatti, sappiamo della storia dell’abbazia cluniacense di San Saba durante il secolo XIII; ma soprattutto non possediamo alcuna informazione utile relativa alla struttura della torre-campanile e alla funzione delle sale che ne erano state ricavate. Il solo indizio che potrebbe essere riconnesso a uno di questi ambienti è una lapide, oggi conservata al Campidoglio, che presenta la seguente iscrizione: TURRIS SANCTI SABAE CAMELLARIA (Tomassetti 1904; Gnoli 1939, 47; Amadei 1943, 169-170). L’indeterminatezza del significato da attribuire al termine camellaria non permette un’interpretazione certa della destinazione del luogo: l’ipotesi più plausibile è che questo derivi da cameraria e quindi da camera (D’Onofrio 1973, 50) e non, come è stato spesso sostenuto, da cancelleria (Gnoli 1939, 47; Amadei 1943, 168). Ora, se durante il Medioevo la parola camera non si trova per forza utilizzata in relazione a un ambiente specifico (Brancone 2010, 109-124), essa può assumere, soprattutto in ambito curiale, un’accezione particolare, designando la camera del tesoro, come dimostra il termine camerarius (Brancone 2010, 110). Si delineerebbe così l’ipotesi della presenza all’interno della torre di San Saba di un ambiente adibito forse alla custodia delle ricchezze del convento e alla gestione delle finanze, al quale il carattere profano del ciclo in questione si adeguerebbe perfettamente: sappiamo, infatti, che nei complessi abitativi del Duecento era nelle sale delle torri – spesso le uniche a essere munite di volte e quindi a offrire una certa sicurezza – che si conservavano oggetti e documenti preziosi (Brancone 2010, 38). I dipinti di San Saba condividono il sostrato stilistico con quelli dell’Aula ‘Gotica’ (¤ 30a), ma sembrano appartenere a una fase leggermente posteriore, in cui si avvista un superamento di quel ‘manierismo grafico’ che caratterizza le pitture dei Santi Quattro. Si confrontino per esempio le gambe dei pigiatori d’uva di entrambi i cicli: se anche a San Saba l’anatomia della gamba è marcata tramite un raffinato gioco di chiaroscuri [4], questi non si cristallizzano
più come nell’Aula, in quei grafismi che segnano la rotula del ginocchio con un cerchietto o il muscolo del polpaccio con un tratto netto e marcato. Anche il drappeggio dell’orlo della veste della donna-arciere di destra [5], pur presentando un’increspatura molto simile a quella dell’abito del discepolo seduto a fianco della personificazione dell’Aritmetica nei dipinti dell’Aula ‘Gotica’, è reso in maniera più sommaria e sciolta. Pare dunque ragionevole pensare a una collocazione degli affreschi della torre di San Saba al sesto decennio del secolo: in ogni caso, il 1265 – anno in cui l’abbazia di San Saba, spogliata di tutti i suoi beni, appare tra gli immobili dati come garanzia del prestito concesso dalla Chiesa romana a Carlo D’Angiò a sostegno della sua lotta contro Manfredi di Svevia (DupréTheseider 1952, 129) – costituisce un inequivocabile terminus ante quem.
38. LA PERDUTA DECORAZIONE DI SAN LORENZO IN LUCINA Metà del XIII secolo
Le decorazioni medievali di San Lorenzo in Lucina sono state tutte distrutte nel Seicento, durante i lavori di restauro alla chiesa (Bertoldi 1994, 41-42). Quella del catino absidale, probabilmente del tempo di Anacleto II (1130-1138), è documentata dalla descrizione di Ugonio (1588) e dall’acquerello di Eclissi (1630-1644) (Romano, in Corpus IV ¤ 50; secondo Mondini 2010a sarebbe duecentesca);
nel cilindro, invece, soltanto Ugonio attesta scene della vita di san Lorenzo. Due acquerelli di Eclissi (WRL 9203 e 9204), tuttavia privi di indicazioni, potrebbero ben corrispondere alla sua descrizione. Altri due acquerelli di Eclissi (WRL 8934 e WRL 9199) presentano caratteristiche simili, e potrebbero ugualmente riferirsi a opere duecentesche in San Lorenzo in Lucina.
Interventi conservativi e restauri
38a. LE STORIE DI SAN LORENZO NELL’EMICICLO ABSIDALE
Fonti e descrizioni
Gli acquerelli WRL 9203 e 9204 raffigurano due scene della vita di san Lorenzo. La prima [1] mostra il santo che distribuisce ai poveri il tesoro della Chiesa: il santo, tonsurato, ha le braccia levate in un gesto da orante e ha una borsa nella mano sinistra. Ha una dalmatica rossa a motivi gigliati, con bordi gemmati alle maniche e allo scollo, e un’altra fascia gemmata è sul davanti dell’abito. Sulla sinistra, dietro un personaggio seduto in terra, la folla tende le braccia verso il santo. La seconda scena [2] è quella del martirio di san Lorenzo, con il santo nudo sulla graticola, le mani levate nel gesto d’invocazione, mentre due aguzzini lo tengono fermo con i forconi. Ambedue le scene hanno fondo a due fasce colorate, la più alta color malva, la bassa gialla, e sono ambedue incorniciate da una fascia chiara a rosette rosse e malva alternate, con un bordino a greche bianche su fondo rosso. Negli
1908: ritrovamento degli affreschi (Fonti e descr.).
ACS, AA.BB.AA., I Div., 1908-1924, b. 1476: San Saba, restauri.
Bibliografia
von der Gabelentz 1907, 235; Hermanin 1943; Testini 1961, 43; Liverani 1967; Bertelli 1970b, 57-58; Romano 1978, 23; Mane 1983; Gandolfo 1988, 349; La Bella 2003, 152, nota 249; Monciatti 2005a, 85; Barclay Lloyd 2006, 167; Romano 2006a, 69, 76; Romano 2007, 632-633; Maddalo 2007a, 583-587. Irene Quadri
acquerelli si vede bene che nel Seicento la parte inferiore delle scene era già rovinata, con la figura del secondo aguzzino quasi completamente perduta.
Note critiche
Fu per primo Bianchini, nel Settecento, a tentare una localizzazione delle due scene, a suo avviso in San Lorenzo fuori le mura (Bianchini [1740-1746], BVR, T9, t. 28, f. 181): ipotesi non percorribile, poiché quanto è noto della decorazione pittorica del portico sud di San Lorenzo (Romano, in Corpus IV ¤ 24) come di quella del portico occidentale (Romano 1992, 9-35) non si accorda con la testimonianza dei due acquerelli. Il Morey invece pensava che Eclissi avesse visto i dipinti nell’altra grande chiesa laurenziana di
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248 SAN SABA
SAN LORENZO IN LUCINA / ATLANTE II, 3 249
Roma, San Lorenzo in Lucina. Infatti Ugonio scrive: «Dietro è la Tribuna [di San Lorenzo in Lucina] con antiche imagini dipinta. (...) Poco più sotto attorno, è descritta la vita & historia del glorioso Martire S. Lorenzo. Vi si veggono anco i vestigij del Presbiterio antico, con la sedia di marmo dove venendo il Papa alla Statione soleva risiedere» (Ugonio 1588, 187v). Egli vedeva dunque le scene nel cilindro absidale, vicino alla cattedra che oggi esiste ancora ma è nascosta dal coro ligneo (Grossi-Gondi 1913, 61-62). Pur se priva di argomenti inoppugnabili, l’ipotesi è interessante. Gli acquerelli costituiscono – fra tutti quelli di Eclissi dedicati a temi laurenziani – un piccolo gruppo omogeneo, con lo stesso sfondo malva e giallo, le cornici a rosette, l’assenza di quinte architettoniche, e con personaggi che riempiono completamente lo spazio a disposizione, la testa contro il bordo superiore del riquadro. È improbabile che si trattasse di un ciclo limitato a queste due scene; se davvero si trattava però dello spazio del cilindro absidale, non dovevano essercene molte di più. Garantivano, verosimilmente, un’eco visiva all’iscrizione sullo schienale della cattedra, che ricordava le reliquie del santo, la graticola e il sangue, conservate nella chiesa (Grossi-Gondi 1913, 56). I due episodi sono tra i più conosciuti della leggenda di san Lorenzo. Il martirio è naturalmente la scena emblematica, molto popolare nell’iconografia romana: appare a Sant’Urbano alla Caffarella nell’XI secolo (Pennesi, in Atlante I ¤ 11), nel portico di Santa Cecilia in Trastevere all’inizio del XII secolo (Dos Santos, in Corpus IV ¤ 33), a San Lorenzo fuori le mura, sia in controfacciata (¤ 40) che nel portico occidentale (Romano 1992, 9-35), e nel Sancta Sanctorum (¤ 60) (Romano 2000b, 157-159). Negli acquerelli lo schema compositivo resta simile agli altri, ma la scena è molto semplice, con i soli san Lorenzo e i due carnefici, e senza l’imperatore. L’episodio del san Lorenzo che distribuisce ai poveri i tesori della Chiesa è meno comune, e a Roma si conosce in realtà soltanto nel Duecento, nella basilica fuori le mura, sia sulla controfacciata che nel portico occidentale. La cronologia duecentesca già altre volte avanzata (Romano,
in Corpus IV ¤ 50) implica un’esecuzione sfasata rispetto alla decorazione del catino absidale (per Mondini 2010a, 301-302, anche l’abside sarebbe duecentesca, ma le bordure e gli elementi decorativi di questo acquerello sono del tutto diversi dagli altri, invece omogenei tra loro). Si può ora restringere la cronologia delle scene laurenziane attorno alla metà del secolo. I fondi malva e gialli in particolare si ritrovano frequentemente in opere romane medioduecentesche, ad esempio il Calendario di Santa Maria de Aventino (¤ 35) e il già citato ciclo di controfacciata in San Lorenzo fuori le mura (¤ 40), mentre le fasce a rosette erano nell’affresco della tomba Fieschi (¤ 41). Il piccolo ciclo laurenziano di San Lorenzo in Lucina era dunque – se la localizzazione e la cronologia sono giuste – all’incirca contemporaneo a quello, più esteso, della controfacciata di San Lorenzo fuori le mura: quale delle due basiliche abbia dato inizio alla riproposizione delle iconografie laurenziane, è oggi difficile dire.
38b. LA LUNETTA CON LA VERGINE E IL BAMBINO TRA SANTO STEFANO (?), SAN LORENZO (?) E UNA DONATRICE
Interventi conservativi e restauri
Metà XVII secolo: completa ristrutturazione della chiesa di San Lorenzo in Lucina. Distruzione della decorazione del cilindro absidale.
Documentazione visiva
Antonio Eclissi, disegni acquerellati (1630-1644), WRL 9203, 9204.
Fonti e descrizioni
Ugonio 1588, 187v; Bianchini [1740-1746], BVR, T9, t. 28, f. 181.
Bibliografia
Morey 1915, 10; Osborne-Claridge 1996, 342-343; Romano, in Corpus IV (¤ 50); Mondini 2010a, 303.
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L’acquerello di Eclissi WRL 8934 [1] mostra una lunetta con una Vergine col Bambino e due santi. È divisa in due registri, malva in alto, giallo in basso, separati da una fascia color ocra scuro a rosette alternate rosse e malva, che borda anche tutto il contorno della lunetta. La Vergine è aureolata, testa e spalle coperte da un velo bianco e semplice abito rosato. Regge il Bambino su un braccio e lo indica con la mano destra; il Bambino benedice, ed è vestito con una camiciola bianca, una tunica gialla e manto pure giallo posato su una spalla. Sulla destra un santo tonsurato, con dalmatica rosa con decorazioni gemmate e un libro chiuso nella mano, e sulla sinistra un altro santo esattamente simmetrico ma con la mano levata: si tratta certamente dei due diaconi Lorenzo e Stefano, con la casula sacerdotale al di sopra della dalmatica. All’estrema sinistra una piccola figura di donna velata, con un ginocchio a terra e le mani giunte. La parte inferiore del dipinto era già perduta quando l’acquerello fu eseguito.
Note critiche
La proposta di Waetzoldt (1964) di localizzare la lunetta ai Santi Giovanni e Paolo, come l’affresco con Cristo e gli apostoli (¤ 34c), è stata scartata da Claridge e Osborne (1996), che considerano non convincente l’analisi ‘stilistica’ attuata da Waetzoldt sugli acquerelli e non sugli originali. Le proporzioni monumentali dei personaggi, i fondi a fasce malva e gialle con il bordo a rosette, permettono invece di accostare la lunetta agli altri dipinti perduti e testimoniati in San Lorenzo in Lucina (¤ 38a); inoltre, le fasce ornamentali della dalmatica dei due santi sono le stesse dell’abito di san Lorenzo dell’acquerello precedente (WRL 9203), e non sono note in nessun’altra opera del Duecento romano. La possibilità che l’acquerello WRL 8934 riproduca un dipinto ubicato in San Lorenzo in Lucina è dunque
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250 SAN LORENZO IN LUCINA / ATLANTE II, 3
assai forte; la lunetta documentata da Eclissi potrebbe essere la stessa «imagine antica della B. V. con S. Stefano et S. Lorenzo a’lati et il Sm. Bambino Giesù nel seno» scoperta in San Lorenzo in Lucina il 24 luglio 1651 sopra la porta che dall’antica sacrestia conduceva al coro (ASR, Memorie della casa di S. Lorenzo in Lucina 1639-1651, f. 242v). Il dipinto fu staccato, ma se ne sono perdute le tracce. La lunetta con la Vergine sembra duecentesca. La figurina della donatrice inginocchiata fornisce un indizio cronologico non secondario perché il gesto delle mani giunte, che origina da quello della commendatio feudale, comincia ad apparire nelle opere romane a partire dal primo Duecento come gesto di devozione e preghiera: in Adinolfo e Giovanni Caetani a San Paolo (¤ 8), nel Gregorio IX sulla facciata di San Pietro (¤ 19), nel dipinto della tomba Fieschi (¤ 41) (Ladner 1961, 252). Questo dato, insieme ad altri dettagli, come le proporzioni dei personaggi, i fondi a fasce malva e gialle e il bordo a rosette, fanno inclinare ad una cronologia verso la metà del secolo.
Fonti e descrizioni
ASR, Chierici Regolari Minori, vol. 1556, Memorie della casa di S. Lorenzo in Lucina di Roma (1639-1651), ff. 242v-243r; Bianchini [1740-1746], BVR, T9, t. 28, f. 7.
Documentazione visiva
Antonio Eclissi, disegno acquerellato (1651?), WRL 8934.
Bibliografia
Waetzoldt 1964, 35; Osborne-Claridge 1996, 330. SAN LORENZO IN LUCINA / ATLANTE II, 3 251
38c. IL CRISTO CON I SIMBOLI DEGLI EVANGELISTI
39. IL MEDAGLIONE CON CAVALIERI NEL PAVIMENTO DI SAN LORENZO FUORI LE MURA Entro il 1254
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L’acquerello di Eclissi WRL 9199 è l’unica testimonianza di un pannello rettangolare con il busto di Cristo in un medaglione e i simboli degli evangelisti. Il Cristo è biondo, l’aureola crucisignata e gemmata, ha veste gialla e manto rosso ornato di perle, benedice alla greca e ha un libro con rilegatura gemmata nell’altra mano. Il medaglione è bordato da una fascia a rosette con bottone alternativamente blu e rosso, un’altra fascia con greca bianca su fondo rosso, poi una ghirlanda vegetale ornata di perle, e infine di nuovo fasce a greca e a rosette. Al di là del medaglione, in alto a sinistra l’Aquila, in basso il Toro; in basso a destra il Leone e in alto l’Angelo, tutti con libro a rilegatura gemmata. Il fondo dietro al Cristo ha un campo centrale color malva, mentre i simboli degli Evangelisti sono su fondo giallo, sbordando tuttavia anche sulla parte malva: i due campi sono separati da una fascia a rosette. Il pannello è incorniciato da un bordo a greca e da un altro con un nastro avvolto.
dei fondi giallo e malva è in effetti la stessa. Si tratterebbe così di un’ulteriore tappa dell’importante campagna decorativa effettuata nella chiesa attorno alla metà del secolo. Il motivo del Cristo in medaglione con i quattro simboli degli evangelisti si trova anche sulla volta dell’Arco di Carlomagno (¤ 6), e più tardi sull’intradosso della nicchia nella Rotonda ai Santi Cosma e Damiano (¤ 44c): in ambedue i casi il Cristo non è praticamente più visibile. Le somiglianze maggiori sembrano essere quelle con il dipinto dei Santi Cosma e Damiano, specie per la posizione dei simboli con la testa rivolta al centro del riquadro. Lo schema si adatta bene ad un sottarco: Mondini pensava alla volta a botte davanti all’abside, ma si potrebbe pensare anche ad uno spazio più piccolo, una nicchia, non si sa dove situata nella chiesa medievale.
Documentazione visiva Note critiche
Come nel caso della lunetta precedente, Claridge e Osborne (1996) avevano considerato non convincente l’analisi ‘stilistica’ degli acquerelli di Waetzoldt (1964), il quale aveva proposto di situare il pannello ai Santi Giovanni e Paolo. Più di recente Daniela Mondini (2010a) ha proposto l’ubicazione a San Lorenzo in Lucina, sulla base della somiglianza delle cornici decorative con quelle delle scene della vita di san Lorenzo; anche l’alternanza
252 SAN LORENZO IN LUCINA / ATLANTE II, 3
Antonio Eclissi, disegno acquerellato (1630-1644), WRL 9199.
Bibliografia
Waetzoldt 1964, 35; Osborne-Claridge 1996, 340-341; Mondini 2010a, 303. Karina Queijo
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Il pannello si trova nel pavimento della navata centrale; quadrato, cm 295x273, è fatto di pietre dure verde scuro, rosse e bianche. È diviso in cinque campi da bordure a intrecci, uno al centro e quattro triangoli di risulta, nei quali appaiono quattro coppie di mostri affrontati in leggere varianti: in alto a sinistra due basilischi attorno a una coppa, in alto a destra due grifi con le teste divergenti, in basso a sinistra altri due grifi affrontati simmetricamente e in basso a destra un leone che attacca un basilisco, con un altro basilisco a terra ai suoi piedi. In mezzo del campo centrale un’iscrizione ricorda il restauro del pavimento dopo il bombardamento del 1943 [2]; in effetti mentre i quattro triangoli sono stati ricostituiti tra 1945 e 1950, il campo centrale originale è stato irrimediabilmente perduto. Ne conosciamo però l’aspetto grazie ad alcune fotografie d’anteguerra (Doc. vis.) dove si vedono due cavalieri affrontati, su cavalli bardati a festa e con una zampa levata [1]. I cavalieri hanno l’elmo, una bandiera nella destra e uno scudo nella sinistra: così, solo lo scudo del cavaliere di destra è girato verso l’osservatore. Vi si vedevano simboli araldici con due leoni rampanti bianchi separati da una
fascia chiara su fondo verde scuro (Gualdi, BAV, Vat. lat. 8253, I, f. 226r; Pesarini, BAV, Vat. lat. 13129, f. 393r.), lo stesso simbolo che tornava anche sulle bandiere e sulle gualdrappe dei cavalli.
Note critiche
Con quello di Santa Maria Maggiore (¤ 2), il pannello di San Lorenzo fuori le mura è il solo figurativo in un pavimento cosmatesco romano: ambedue mostrano cavalieri a cavallo, e usano il pavimento di chiese importanti come teatro di visibilità per i membri guerrieri della nobiltà romana. L’assenza di un’iscrizione (che tuttavia doveva essere esistita, come a Santa Maria Maggiore) rende delicata la datazione del pannello. La data del 1254, apposta sulla cattedra della basilica, si riferisce verosimilmente all’intervento promosso da Innocenzo IV nel coro della chiesa (Niccolò da Calvi, in Pagnotti 1898, 111) a integrazione dei grandi lavori fatti eseguire da Onorio III e interrotti prima che l’arredo liturgico presbiteriale fosse completo (Mondini 2010b, 348). È difficile dire se a quel SAN LORENZO FUORI LE MURA / ATLANTE I, 6 253
momento il pavimento fosse già finito, o se anch’esso sia stato completato sotto Innocenzo IV grazie al finanziamento di coloro che si fecero rappresentare nel pannello. La datazione di questo è stata spesso riferita al pontificato di Onorio III (Mâle 1942, 221; Hermanin 1945, 81; Matthiae 1966b, 76; Parsi 1970, 10; Marinelli s.d. [1972], 65), ma sulla base della falsa convinzione che Onorio fosse un membro della famiglia Savelli, e che le armi araldiche del pannello fossero le sue. Si sa ora che Onorio non era un Savelli (Tillmann 1975, 391-393), e peraltro nemmeno le armi del pannello sono Savelli (Mondini 1995, 18 nota 31). L’identità dei committenti deve quindi restare per ora sconosciuta. Una datazione più tarda, alla metà del secolo, è stata proposta da Dorothy Glass (1980, 23 nota 7, 101-102). Di fatto, l’unica certezza è attualmente che il pannello può avvalersi di due termini post e ante quem, rispettivamente nei pontificati di Onorio III e di Innocenzo IV. La cronologia al secondo quarto del secolo può essere corroborata dal confronto fra i basilischi del pannello e quelli del fregio musivo del portico della cattedrale di Terracina (Mondini 2010b, 389).
Interventi conservativi e restauri
XVII secolo: rifacimenti del pavimento (Glass 1980, 101). 19 luglio 1943: una bomba cade precisamente sulla chiesa, e distrugge il pannello. 1946-1950: i triangoli del pannello vengono ricostituiti, mentre la parte centrale è perduta.
Documentazione visiva
Acquerello (XVII secolo), coll. priv., New York (pubblicato in Osborne-Claridge 1998, 291-292); Ciampini 1690, tav. XXXI.1;
40. LE PERDUTE STORIE DI SAN LORENZO SULLA CONTROFACCIATA DI SAN LORENZO FUORI LE MURA
incisione di Johann Michael Knapp (1823), pubblicata in Bunsen et al. 1872, tav. XII; incisione, in Rossini 1843, tav. IV; incisione in Letarouilly 1853, III, tavv. CCLXIX, CCLXXI; incisione in de Champagny 1870, II (Fototeca della Biblioteca Hertziana, U. Fi. Cl 137e); fotografie (ante 1900), MV; Brogi, fotografie (ante 1900); aquerello, Sopr. Mon. Laz. 6788 (Fototeca della Biblioteca Hertziana 138564); fotografie, Sopr. Mon. Laz. 6786, 8533, 8534 (Fototeca Hertziana 138566, 138565, 138567); Anderson, fotografia (1929), n. 28874.
Quinto-sesto decennio del XIII secolo
Fonti e descrizioni
Amayden 1586-1656 [1979], 36; Baglione 1639 [1990], 154-155; Ciampini 1690, 82; Gualdi (s.d.), BAV, Vat. lat. 8253, f. 226r.
Bibliografia
Francesco Cancellieri (1821), BAV, Vat. lat. 9172, f. 55r; Foresi da Morrovalle 1861, 88; Gori 1862, 30; Pellegrini 1869, 174; Stevenson, in Mostra della città di Roma 1884, 186-187; Santi Pesarini (inizio XX secolo), BAV, Vat. lat. 13129, f. 393r; Da Bra 1924, 53-54; Toesca 1927 [1965], 1116; Da Bra 1929, 40; Bessone Aurelj 1935, 172; Mâle 1942, 221; Muñoz 1944, 30-31; Hermanin 1945, 81, 377; Da Bra 1952, 86-87, 237; Hutton 1952, 28; Matthiae 1952, 275-276; Faldi Guglielmi 1966, 170, 181; Matthiae 1966a [1988], 147; Matthiae 1966b, 20-21, 76; Matthiae 1967, 389; Marinelli s.d. [1972], 65; Glass 1980, 101-102; Claussen 1987, 140-141; Ciranna 1994-1995, 193-194; Mondini 1995, 18 nota 31; Pace 1998, 177; Serra 2000, 110; Martina 2001, 19; Ciranna 2006, 221; Mondini 2010b, 388-390. Karina Queijo
1
I due frammenti ancora oggi visibili – il busto di Decio [5] e il san Giustino davanti all’altare [4] – sulla controfacciata di San Lorenzo, a sinistra dell’ingresso principale, sono i soli resti del ciclo della vita di san Lorenzo distrutto dai bombardamenti del luglio 1943. Le foto di prima della distruzione (Doc. vis.) mostrano che i dipinti erano stati pesantemente ripassati nell’Ottocento (Int. cons.); gli acquerelli di Eclissi attestano però che i restauri ottocenteschi avevano rispettato l’iconografia precedente – con modificazioni di dettaglio – e che altri restauri erano stati apportati probabilmente nel Cinquecento o nel Seicento. Si trattava di dieci scene su tre registri, distese sulla parete di controfacciata e sul pilastro che fa angolo con questa [1, 2]. Erano separate da cornici a fasce rosse, sulle quali al tempo di Eclissi si potevano ancora leggere i tituli (Iscr.); le scene si stagliavano su un fondo a due campi cromatici, giallo in basso e rosa violaceo in alto, quest’ultimo bordato da una fascia verde e da una cornice a greca bianca su rosso. In alto, un fregio a motivi vegetali era presente sulla parete, ma non sul contrafforte. Nel primo riquadro del registro superiore, due scene separate da due arcate rette da colonnette: a sinistra, san Lorenzo, in ginocchio davanti a un bacile lava i piedi di un cristiano seduto davanti a lui; dietro al santo un gruppo di astanti con le mani levate in direzione del personaggio assiso, anch’egli con la mano levata. Le fotografie mostrano che san Lorenzo aveva la mano destra sul ginocchio di questo personaggio, ma l’acquerello di Eclissi indica che nel
2
254 SAN LORENZO FUORI LE MURA / ATLANTE I, 6
2
SAN LORENZO FUORI LE MURA / ATLANTE I, 6 255
Seicento la mano non era già più visibile. Anche la forma del bacile era diversa, più ‘medievale’ nella foto che nell’acquerello, dove ha un aspetto un po’ rinascimentale dovuto molto probabilmente alle ridipinture forse cinquecentesche. Sotto la seconda arcata, santa Ciriaca inginocchiata davanti san Lorenzo, che le copre la testa con lo stesso panno usato per asciugare i piedi nella scena precedente: così il santo guarisce la vedova dai suoi mal di testa. Dietro Ciriaca una donna astante, in piedi. Nel secondo pannello, si vede san Lorenzo che distribuisce ai poveri i tesori della Chiesa: il santo è in piedi con una borsa in mano e distribuisce monete ad un gruppo di persone, tra le quali, ai piedi del santo, un lebbroso, e uno storpio che sembra volare a mezz’aria e che, nel Seicento, aveva in mano un bastone. Sul contrafforte, la Guarigione del cieco Lucillo: san Lorenzo, un libro in mano, benedice Lucillo in piedi davanti a lui. In Eclissi, il cieco ha un’ampia veste fino alle caviglie, corta barba e occhi senza pupille in segno di cecità. Dall’Ottocento, invece, è imberbe e ha una corta tunica stretta in vita. Nel registro mediano: un lungo pannello con la Fustigazione di san Lorenzo, in cui la scena è scandita da quinte architettoniche. A sinistra, sotto un baldacchino, Decio e Valeriano (con lunghi capelli) ordinano la tortura del santo disteso su tavole di legno e bastonato dal carnefice. Le ferite (non visibili in Eclissi) sono asciugate dall’angelo che appare in alto; un altra figura in piedi davanti al santo sembra anche in atto di asciugargli il viso, ma il panno che ha in mano non compare in Eclissi. In primo piano, con un ginocchio a terra, un altro personaggio cui Eclissi attribuisce una mitra, non ritenuta dalle ridipinture ottocentesche. In piedi sulla destra un soldato in piedi, verosimilmente Romano. Nello scomparto a destra invece si vede il Battesimo di Romano, rappresentato in piedi davanti a Lorenzo, in atto di domandargli il battesimo per il quale gli tende un vaso d’acqua: un altro vaso – il medesimo, in un momento successivo – è in mano a Lorenzo. In Eclissi Romano era completamente nudo, ma l’Ottocento lo ha rivestito di un perizoma bianco. Sul contrafforte c’era poi la Decapitazione di san Romano, decollato da un soldato con spada brandita. Nel registro inferiore la prima scena riprendeva lo schema compositivo della Fustigazione, nonché la sua ambientazione architettonica. Decio – di cui sopravvive il frammento del busto – e Valeriano a sinistra sotto il baldacchino accennavano verso san Lorenzo disteso sulla graticola e tenuto fermo da tre aguzzini con forconi che dovevano esistere nell’originale anche se non sono testimoniati né in Eclissi né nelle foto; al tempo di Eclissi la parte inferiore del pannello era quasi illeggibile, e le lacune furono integrate durante i restauri ottocenteschi. Sulla fascia sinistra di incorniciatura c’era la dedica dell’opera (Iscr. 7) [6]. Nel riquadro successivo Ippolito e Giustino trasportano il corpo di san Lorenzo in una sorta di sudario. La scena si svolge sul luogo del martirio, con la graticola e le fiamme ancora accese, e con lo stesso edificio longitudinale, con finestre sul lato lungo e una finestra quadriloba a forma di croce sulla facciata principale. Infine sul contrafforte era la Messa di Giustino, inquadrata sotto un ciborio ad archi a tutto sesto e colonnette. Giustino, vestito con ricchi abiti liturgici – il frammento è sopravvissuto – dice la messa per Lorenzo davanti ad un altare dove sono poggiati calice e ostia; dietro di lui, Ippolito.
Et s{c}an(ctam) Q(ui)riacen a^ malo ca^pitis lib(er)avit
Note critiche
Trascrizione in base al disegno acquerellato di Antonio Eclissi, WRL 9001; BAV, Barb. lat. 4403, f. 35. 3 - Lorenzo guarisce Lucillo. Iscrizione esegetica.
Qua(n)do Lucillum illuminatu(m) fu/it Trascrizione in base al disegno acquerellato di Antonio Eclissi, WRL 9003; BAV, Barb. lat. 4403, f. 37. 4 - Martirio di san Lorenzo. Iscrizione esegetica.
Qua(n)do fuit posit(us) i(n) ca^tasta lignea s<anctus> Laurenti<us> exhibitis sibi cu(n)ctis g(e)n(er)ib(us) torm(en)tor(um) Trascrizione in base al disegno acquerellato di Antonio Eclissi, WRL 9004; BAV, Barb. lat. 4403, f. 38v-39r. 5 - Lorenzo battezza Romano. Iscrizione esegetica.
Qua^(n)do baptisavit beat(um) Romanu(m) Trascrizione in base al disegno acquerellato di Antonio Eclissi, WRL 9006; BAV, Barb. lat. 4403, f. 40r. 6 - Decapitazione di Romano. Iscrizione esegetica.
Q(ua)n(do) beat(us) Romanu<s> decollatus / f/u/i/t Trascrizione in base al disegno acquerellato di Antonio Eclissi, WRL 9005; BAV, Barb. lat. 4403, f. 41. 7 - Martirio di san Lorenzo. Iscrizione dedicatoria, sul margine sinistro in alto, in una fascia rettangolare, allineata su 14 righe orizzontali corte.
Hoc / op(us) / fec/it / fie/ri / d(omi)n(u)s / Ma/the/us / s(an)c(t)i / Alb(er)ti / p(ro) a(n)i(m)a / sua Trascrizione in base al disegno acquerellato di Antonio Eclissi, WRL 9007; BAV, Barb. lat. 4403, ff. 42v-43r. 8 - Ippolito e Giustino trasportano il corpo di san Lorenzo. Iscrizione esegetica?]
Qua(ndo) ++[- - -] +++ [- - -] Trascrizione in base al disegno acquerellato di Antonio Eclissi, WRL 9007; BAV, Barb. lat. 4403, ff. 42v-43r.
4
9 - Seppellimento di san Lorenzo. Iscrizione esegetica.
Iscrizioni
[- - -]+ crate(m) p(er) s(an)c(tu)m Ipolitu(m) et [·2?·] +++ [- - - ?]
Le iscrizioni, tutte perdute, quando non specificato diversamente, erano collocate in una fascia rettangolare alla base della raffigurazione, allineate in orizzontale.
Trascrizione in base al disegno acquerellato di Antonio Eclissi, WRL 9008; BAV, Barb. lat. 4403, f. 44.
1 - Lavanda dei piedi. Iscrizione esegetica.
10 - San Giustino officia la Messa. Iscrizione esegetica.
Qua^(n)do beatu(s) Lauren(tius) pedes lavit Chr(ist)ianis
Q(ua)n(do) s<anctus> [Justi]n(us) dix(it) missa(m) +[- - -]
Trascrizione in base al disegno acquerellato di Antonio Eclissi, WRL 9000; BAV, Barb. lat. 4403, f. 34.
Trascrizione in base al disegno acquerellato di Antonio Eclissi, WRL 9009; BAV, Barb. lat. 4403, f. 45.
2 - Lorenzo guarisce santa Ciriaca. Iscrizione esegetica. 256 SAN LORENZO FUORI LE MURA / ATLANTE I, 6
3
(S. Ric.)
Se prima dell’inizio del Novecento si legava il ciclo della controfacciata a quello del portico ovest (Mellini [ante 1667], BAV, Vat. lat. 11905, f. 291v; Pellegrini 1869, 175; Da Bra 1924, 64), in seguito si è preferito stabilire nessi con la decorazione pittorica della tomba Fieschi (¤ 41), pensando al medesimo artista, alla medesima bottega (Wilpert 1916, II, 960; Matthiae 1966a [1988], 172) o al medesimo committente (Romano 2004b, 283); studi approfonditi sono certo stati ostacolati dalla perdita dell’opera, oggi documentata solo dalle foto e dagli acquerelli, nonché dai due frammenti in pessime condizioni. L’ipotesi che si tratti dello stesso pittore della tomba Fieschi appare non facilmente verificabile. Alcune consonanze sono evidenti, in particolare le proporzioni molto allungate dei corpi con piccole teste. Bisogna considerare però che le foto, sia dell’affresco Fieschi che del ciclo di controfacciata, testimoniano lo stato dei dipinti con le ridipinture ottocentesche, il che può trarre in inganno. Il ciclo, inoltre, appare di forme più semplici e rigide, specie nei panneggi; soprattutto il pannello con la Vergine Fieschi, invece, forse a causa dell’esistenza di un modello iconico e riprodotto, fa intravedere uno stile più bizantineggiante, e dal tratto più complesso. Nel ciclo, doveva essere molto sensibile il nesso con i modi dei Santi Quattro Coronati, dove, nella scena delle donne che proteggono i loro bambini, l’uomo disperato ricorda lo storpio dell’Elemosina di san Lorenzo, sia nel volto che nell’anatomia un po’ disarticolata; nelle figure assise di Cratone e Zenofilo della Resurrezione del Toro nella cappella di San Silvestro (¤ 30f) o nel Longino della Crocifissione di controfacciata, sempre ai Santi Quattro (¤ 30h), i personaggi mostrano abiti con fodere di pelliccia molto simili a quelle del Romano nella Decapitazione. Infine, nella foto, la vasca in cui san Lorenzo lava i piedi dei cristiani è una versione più piccola di quella del Battesimo di Costantino alla cappella di San Silvestro (¤ 30f): come si è già detto, la versione di Eclissi potrebbe riflettere un diverso stato di ridipintura cinque-seicentesca. Il nesso con i Santi Quattro fa riflettere sulla committenza dei dipinti di San Lorenzo. Il Matteo di Sant’Alberto citato nell’iscrizione trascritta da Eclissi [6] era probabilmente Matteo, figlio di Pietro di Sant’Alberto, garante nel 1262 di una divisione di beni tra Trasmondo Conti e Stefano “Furioso” Conti (Contelori 1650, 10-11; Thumser 1995, 189). Personaggi in ginocchio appaiono di frequente nell’iconografia del Martirio di Lorenzo, sia nella scena della Battitura che in quella della Graticola; tuttavia si potrebbe anche supporre che nel personaggio che appare con un ginocchio a terra nella scena della Fustigazione, più in atto di pregare che di torturare il santo, sia ritratto il committente. La ragione dell’offerta del ciclo alla basilica laurenziana è sconosciuta, forse imputabile solo alla devozione per il santo. È chiaro comunque che dopo il ribaltamento dell’asse dell’edificio nel corso del progetto onoriano, venendosi a trovare il vecchio ciclo con Storie di san Lorenzo nel portico meridionale in posizione un po’ più decentrata (Romano, in Corpus IV ¤ 24), il nuovo ciclo in controfacciata potrebbe aver avuto lo scopo di rappresentare il santo in un luogo più rapidamente visibile, immediatamente presso il nuovo ingresso principale della chiesa. Sapendo così poco del ciclo del portico sud, non si può capire se ci sia stato un trasporto iconografico verso quello di controfacciata, che comunque ad esempio non riprendeva la scena del portico sud, in cui Lorenzo indica i poveri quale “tesoro” della Chiesa. In controfacciata si insisteva sulle guarigioni miracolose e sulle conversioni, dunque si offriva un modello comportamentale al fedele che entrava in chiesa nel mentre che si ricordava il committente, Matteo di Sant’Alberto, e si invitava implicitamente a pregare per la salvezza della sua anima come Giustino fa nella sua messa per san Lorenzo.
Interventi conservativi e restauri
XVI secolo (?): ridipinture (?). 1862-1865: ridipinture in occasione dei restauri diretti da V. Vespignani, probabilmente in contemporanea a quelle della tomba Fieschi (Die mittelalterlichen Grabmäler 1994, II, 62). SAN LORENZO FUORI LE MURA / ATLANTE I, 6 257
19 luglio 1943: il bombardamento distrugge quasi completamente i dipinti. 1943-50: sotto la direzione di Alberto Terenzio, Antonio Maria Zamponi stacca e poi rimette in situ i due frammenti sopravvissuti al bombardamento (SPAB, cartella 8, Conto dei lavori eseguiti dal Prof. A.M. Zamponi per il restauro degli affreschi medievali della basilica di S.Lorenzo fuori le mura a Roma, 1845).
Documentazione visiva
Antonio Eclissi, disegni acquerellati (1639), BAV Barb. lat. 4403, ff. 5, 34-45; Antonio Eclissi, disegni acquerellati (1639 ca.), WRL 8951, 9000-9009; Jean Baptiste Séroux d’Agincourt, disegno a penna (1780-1790), BAV, Vat. lat. 9843, f. 22r-22v; Séroux d’Agincourt 1826-1829, V, tav. XCIX.9-11; Fontana 1838 [1855], I, tav. VIII; Anderson, fotografie (1890 ca.), nn. 6213, 6214.
Fonti e descrizioni
Baglione 1639 [1990], 154; Benedetto Mellini (ante 1667), BAV, Vat. lat. 11905, f. 291v; Montfaucon 1702, 117.
Bibliografia
Séroux d’Agincourt 1826-1829, II, 290; Séroux d’Agincourt 1826-1829, III, 236; Platner et al. 1838, III-2, 322; Gori 1855, 5; Foresi da Morrovalle 1861, 92; Gori 1862, 23; Crowe-Cavalcaselle 1864, 78; Pellegrini 1869, 175; Forcella 1878, XII, 512; Giusti s.d. [1901-1943], 8; Wilpert 1916, II, 952-960; Da Bra 1929, 11, 31; Muñoz 1944, 35-36; Hermanin 1945, 294-295; Salmi 1955, 4243; Waetzoldt 1964, 46-47; Faldi Guglielmi 1966, 181; Matthiae 1966a [1988], 172; Wollesen 1981, 51; Basile et al. 1988, 221 nota 30; Osborne-Claridge 1996, 172-187; Romano 2000b, 157-159, 164, 172; Serra 2000, 110; Romano 2004b, 283; Bordi, in Atlante I (¤ 6); Acconci 2007, 88, 101. Karina Queijo
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258 SAN LORENZO FUORI LE MURA / ATLANTE I, 6
41. LA PERDUTA DECORAZIONE DELLA TOMBA DI GUGLIELMO FIESCHI IN SAN LORENZO FUORI LE MURA 1256 ca.
Il dipinto che ornava la tomba del cardinale Guglielmo Fieschi si conta tra le perdite delle bombe che colpirono San Lorenzo fuori le mura nel luglio 1943. I restauri del 1945-1950 rimisero nel luogo originario – sulla parete di controfacciata – il sarcofago antico e il baldacchino che lo copre, ornato di medaglioni con stelle nel soffitto, ma il dipinto murale non poté essere salvato. L’opera era già molto danneggiata nel XVIII secolo, e alcune foto anteriori alla distruzione [2] testimoniano di larghe ridipinture ottocentesche (Int. cons.): gli acquerelli di Eclissi testimoniano però che l’iconografia era stata rispettata [3]. Il dipinto occupava la porzione di parete risparmiata dal baldacchino, con due colonne dipinte a mo’ di sostegno del tetto. Si vedeva il Cristo in un trono gemmato con poggiapiedi, il gesto di benedizione alla greca e con un libro chiuso nella sinistra; in basso a destra Innocenzo IV in abiti pontificali, con un ginocchio a terra e le mani giunte, presentato da san Lorenzo in piedi, con dalmatica bianca a disegni geometrici. All’estrema sinistra, con la lancia, sant’Ippolito. Tutti i personaggi erano identificati dal nome inscritto nella fascia inferiore dell’affresco (Iscr. 1-7). Alla destra del Cristo, il cardinal Fieschi inginocchiato, con la mitra e le mani giunte, presentato da santo Stefano; seguiva sant’Eustachio con la spada, e ambedue i santi tendevano la mano verso il Cristo. Il fondo della composizione era rosso scuro nella parte alta, e giallo ocra in basso, con una cornice a semicrocette bianche e rosse, mentre la parte inferiore del bordo aveva solo le scritte. La cromolitografia di Salvatore Zeri [1] e le fotografie degli anni Novanta del XIX secolo mostrano ancora, al di sotto dell’epitaffio, il fregio a steli azzurri e foglie rosse e blu su fondo giallo ocra. Sulla faccia del contrafforte addossato alla tomba c’era poi un riquadro con la Vergine e il Bambino su un trono senza schienale [1, 4]; la Vergine in manto rosso e il Bambino in tunica chiara
con fascia rossa incrociata sul petto; la destra benedicente e un rotulo nell’altra mano. Il bordo decorativo del riquadro era uguale a quello del riquadro di fondo.
Iscrizioni
Dipinto con Cristo benedicente e santi Sette iscrizioni identificative, già nella fascia rettangolare, in basso, sotto i personaggi, allineate su una riga orizzontale, tranne le didascalie di Innocenzo III e Guglielmo, allineate su tre righe orizzontali. Perdute. Trascrizioni dal disegno acquerellato di Antonio Eclissi, WRL 8979; BAV, Barb. lat. 4403, ff. 46v-47r. 1 - S(anctus) Ipolitus Ippolitus per Ipolitus da Bra 1924, 63.
2 - S(anctus) Laure<n>tiu(s) 3 - Innocentiu(s) / papa IIII 4 - Ih(esu)s Chr(istu)s 5 - D(omi)n(u)s / Gullielm(us) papa / nepos diacon(us) r.2. papae per papa da Bra 1924, 63; Muñoz 1944, 33. 6 - S(anctus) Stefanu(s) 7 - S(anctus) Eustathius Eustach. per Eustathius da Bra 1924, 63. Madonna con il bambino 8 - Iscrizione identificativa, già disposta ai lati del capo della Vergine, perduta. Tramandata dal disegno in Didron-Hurel 1862, 332.
M(ater) | | [Dei] 9 - Iscrizione esegetica, già disposta sul rotulo sorretto da Gesù bambino, allineata su tre righe segnate. Perduta, tramandata dal disegno in Didron-Hurel 1862, 332.
Ego / sum / lux (S. Ric.)
Note critiche
1
Sia l’iscrizione sull’affresco, che l’epitaffio inscritto sul coperchio del sarcofago – HIC REQVIESCIT CORPVS DOMMINI GVILELMI SANCTI EVSTATHII DIACONI CARDINALIS NEPOTIS QVONDAM FELICIS RECORDATIONIS D(OMI)NI INNOCENTII | PAPE QVARTI EX PROGENIE COMITVM LAVANIE ORTI CVIVS ANIMA REQVIESCAT IN PACE – e quello sulla lastra incassata nella parete – + SISTE GRADV(M) CLAMA QVI P(ER)LEGIS HOC EPIGRAMA SAN LORENZO FUORI LE MURA / ATLANTE I, 6 259
Vespignani (Die mittelalterlichen Grabmäler 1994, 62). 19 luglio 1943: le bombe distruggono i dipinti.
Documentazione visiva
Antonio Eclissi, disegni acquerellati (1630-1640), BAV, Barb. lat. 4403, ff. 46v-47r; Antonio Eclissi, disegni acquerellati (16301640), WRL 8979; Jean Baptiste Séroux d’Agincourt, disegni a matita e a inchiostro (1780-1790), BAV, Vat. lat. 9843, ff. 50v-51v; Johann Anton Ramboux (†1866), disegni acquerellati, DKK, Inv. 179, neg. 174/5080; Séroux d’Agincourt 1826-1829, V, tavv. CVI.1, CVI.4; Edouard Didron, incisione in Didron-Hurel 1862, 332; Alinari, fotografia (1890 ca.) n. 5872; Salvatore Zeri, cromolitografia (fine XIX secolo), BIASA, Racc. Lanc., Roma, vol. 45, ff. 9r, 10r; fotografia, ICCD D 1782, 7696; Anderson, fotografia (1890 ca.) n. 2203.
Fonti e descrizioni
Baglione 1639 [1990], 153-154; Benedetto Mellini (ante 1667), BAV, Vat. lat. 11905, f. 291; Bianchini (1740-1746), BVR, T9, t. 28, f. 47; Marangoni 1747, 211; Enrico Stevenson (XIX secolo), BAV, Vat. lat. 10577, f. 57v.
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GVILIELMV(M) PLORA QVE(M) SVBTRAXIT BREVIS HORA | NOBIS P(ER) FVNVS DE CARDINIBVS FVIT VNVS PRVDENS VERIDICVS CONSTANS ET FIRMVS AMICVS | VERE CATHOLICVS IVSTVS PIVS ADQVE PVDICVS CANDIDIOR CISNO PATRVVS QVARTVS FVIT INNO | CENTIVS ILLIVS MORES IMITANS NEC ALIVS ROME NEAPOLI QVOS IMPROBA MORS PHARISEAT | REGIA SANCTA POLI IVNGIT EOSQVE BEAT LAVANIE DE PROGENIE COMITVM FVIT ISTE | REX VENIE DES IN REQVIE SEDEM SIBI CHR(IST)E ANNI SVNT NATI D(OMI)NI SVPER ASTRA REGENTIS | QVINQVAGINTA DATI ET SEX CVM MILLE DVCENTIS (Mondini 2010b, 502-503) – attestano che la tomba è quella di Guglielmo Fieschi, morto nel 1256. Era nato verso il 1215 dalla famiglia dei conti di Lavagna presso Genova. Protetto dallo zio Sinibaldo, papa Innocenzo IV, era stato creato cardinale di Sant’Eustachio nel 1244, e dal 1252 legato in Toscana al fine di concludere la pace tra Firenze, Siena, Pistoia e Pisa; nel 1254 è anche legato nel Regno di Sicilia. Gli stretti legami sempre mantenuti con lo zio (Kiesewetter 1997) spiegano la presenza di Innocenzo IV nel dipinto; quella di sant’Eustachio è ovviamente un omaggio al santo del suo titolo cardinalizio, mentre gli altri sono legati alla storia di san Lorenzo. La tomba fu posta in San Lorenzo certo per i legami della famiglia con questo santo, cui era dedicata la cattedrale di Genova; d’altronde lo stesso Innocenzo IV era intervenuto in favore della basilica laurenziana di Roma, facendone realizzare l’arredo liturgico presbiteriale (Mondini 2010b, 502). Visto tuttavia che Guglielmo morì solo due anni dopo lo zio, ancora relativamente giovane – aveva quarant’anni – non è certo se la scelta del luogo sia stata sua, o piuttosto di un altro membro della famiglia, come farebbe pensare il tono molto elogiativo dell’epitaffio: Ladner (1961, 252-253) pensava a Ottobono, cugino di Guglielmo, nipote di Innocenzo, e papa Adriano V nel 1276. In origine le armi Fieschi apparivano sul timpano del baldacchino, «tre fascie in sbarre azzurre in campo bianco fatte de musaico» (Gualdi, BAV, Vat. lat. 8253, I, f. 224r). Herklotz (1985, 161-162) sottolinea il fatto che si tratti del primo caso romano di monumento funebre con le armi del defunto; la presenza di Innocenzo accanto a Guglielmo, tutti e due presentati al Cristo dai santi, dà comunque alla tomba un valore di commemorazione funebre familiare. Una possibile speciale devozione dei Fieschi per il Cristo Salvatore è ipotizzata da Gardner, che rileva come nella Roma del medio Duecento il Cristo in trono si trovi soprattutto in Giudizi
260 SAN LORENZO FUORI LE MURA / ATLANTE I, 6
Universali, come quello della facciata di San Pietro (¤ 19) o della cappella di San Silvestro ai Santi Quattro (¤ 30f), e non in Giudizi individuali: Innocenzo IV fece in effetti costruire la chiesa dedicata al Salvatore a Lavagna, e Ottobono, nel testamento, chiese di essere sepolto a Lavagna, o nel San Salvatore, o nel San Lorenzo (Gardner 1992, 66; Id. 2000a, 312). Frequente nei contesti funerari è l’immagine della Vergine, che tradizionalmente intercede per il defunto presso il Cristo. La si trova già nella tomba di Alfano a Santa Maria in Cosmedin (Croisier, in Corpus IV ¤ 40b) e ancor più nei monumenti funebri di fine Duecento (Gardner 1992, 82-85). Il fatto che l’immagine sia situata nel riquadro laterale l’assimila quasi ad un’icona. L’iscrizione sul rotulo del Bambino (Iscr. 9) – documentata nell’incisione di Didron-Hurel (1862) [4], quindi attestata prima dei restauri ottocenteschi – e l’abito del Bambino con la fascia incrociata sul petto richiamano ambedue il mosaico della nicchia del sacello di San Zenone a Santa Prassede (¤ 29), creduta immagine miracolosa in grado di liberare le anime del Purgatorio: un aspetto che si adatterebbe bene al contesto funerario. I dipinti del monumento Fieschi mostrano la tendenza all’allungamento dei corpi, che caratterizza anche il ciclo laurenziano di controfacciata (¤ 40), committenza di Matteo di Sant’Alberto. L’idea di Matthiae (1966a [1988], 172), che attribuiva i due complessi pittorici al medesimo artista, non sembra tuttavia percorribile, poiché le pieghe complicate della veste del Cristo Giudice e del Bambino, quelle morbide delle maniche della Vergine e del Cristo, la silhouette arrotondata del Cristo e del Bambino, non sembrano attestate nelle foto dei perduti dipinti di controfacciata; qualche confronto convincente per le pieghe si può invece istituire con le figure del mosaico Capocci (¤ 42), strettamente contemporaneo alla tomba Fieschi. Altri nessi sono stati indicati con i dipinti dei Santi Quattro Coronati (Ladner 1961, 253 nota 19; Mondini 2010b, 506), anche se sembrano meglio adattarsi proprio a quelle parti che secondo Andreina Draghi sono il frutto del restauro della metà degli anni Cinquanta (per esempio il Gennaio: ¤ 30a) più che a quelli rigidi della cappella di San Silvestro. Le ridipinture sui volti consigliano prudenza, ma le proporzioni arrotondate e regolari dei volti della Vergine e del Bambino si accostano a quelle del mosaico Capocci e anche dei dipinti della nicchia alla Rotonda dei Santi Cosma e Damiano (¤ 44c). Nell’impossibilità di analizzare in modo approfondito l’opera ormai perduta, il terminus post quem offerto dalla data di morte del Fieschi appare comunque del tutto coerente con il panorama romano del sesto decennio del secolo.
Bibliografia
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Interventi conservativi e restauri
XVIII secolo: non è più visibile la figura di Innocenzo IV (Bianchini, BVR, T9, t. 28). 1862-1865: ridipinture in occasione dei restauri diretti da V.
Séroux d’Agincourt 1826-1829, III, 242; Platner et al. 1838, III2, 322; Gori 1855, 5; Foresi da Morrovalle 1861, 91; DidronHurel 1862, 332-333 nota 1; Gori 1862, 25; Bleser 1866, 175; Pellegrini 1869, 175; Forcella 1878, XII, 510; Rohault de Fleury 1878, II, 28; Crowe-Cavalcaselle 1886, 132-133; Strzygowski 1888, 201; Angeli 1904, 223; Wilpert 1916, II, 960, 1025-1027, 12031204; van Marle 1921, 196-197; Cantarelli 1923, 155; van Marle 1923, 435; Da Bra 1924, 47, 63; Toesca 1927 [1965], 1008; Da Bra 1929, 28-29; Muñoz 1944, 33-34; Hermanin 1945, 294-295, 297-298; Hutton 1950, 21-22; Da Bra 1952, 94, 140, 237-238; Ladner 1961, 252-253; Waetzoldt 1964, 46-47; Merz 1965, 48-49; Faldi Guglielmi 1966, 180-181; Matthiae 1966a [1988], 171-172; Matthiae 1966b, 21, 76, 92; Gardner 1970, 228-229; Ladner 1970, 112-116; Bauch 1971, 250; Herklotz 1985, 161-162; D’Achille 1991, 155; Gardner 1992, 65-67; Die mittelalterlichen Grabmäler 1994, 60, 62-63; Osborne-Claridge 1996, 188-189; D’Achille 2000, 20, 96; Gandolfo 2000, 188-189; Gardner 2000a, 309; Serra 2000, 110; Martina 2001, 18; Gandolfo 2004, 41-42; Romano 2004b, 282, 286; Bordi, in Atlante I (¤ 6); Ciranna 2006, 222; Mondini 2010b, 503-507. Karina Queijo
SAN LORENZO FUORI LE MURA / ATLANTE I, 6 261
42. IL MOSAICO DEL TABERNACOLO CAPOCCI DI SANTA MARIA MAGGIORE (VICO NEL LAZIO, COLLEGIATA DI SAN MICHELE ARCANGELO) 1256
L’aspetto del tabernacolo donato nel 1256 da Giacomo di Giovanni Capocci e da sua moglie Vinia alla chiesa di Santa Maria Maggiore è noto da un’incisione pubblicata nel volume di de Angelis (1621) e da disegni acquerellati di John Talman, dell’inizio del XVIII secolo. Prima della demolizione attuata nel Settecento (Int. cons.) il monumento aveva sei colonne, che sostenevano una struttura cubica con gables e colonnette tortili, ornata di mosaici cosmateschi e aperta da una fenestella balconata sul lato verso l’ingresso della chiesa. Tra le colonne basse si trovava l’altare noto a partire dal Cinquecento come altare “delle Reliquie” (Biasiotti 1918, 255); a mezza altezza, il pannello musivo, sotto il quale appariva l’iscrizione commemorativa incisa nel marmo: «Iacobvs ioannis capoccii, et vinia vxor eivs fecervnt fieri hoc opvs pro redemptione animarvm svarvm, anno domini m. cc. lvi» (de Angelis 1621, 86). Nel pannello oggi a Vico nel Lazio (Int. cons.) [2] appare Giacomo Capocci, con un mantello rosso arancio bordato di pelliccia, e con un copricapo. Vinia ha la testa velata e ha un abito con mantello rosso arancio, ornato di un bordo simile a quello del marito. La Vergine, su un trono senza schienale, ha un mantello azzurro su una tunica del medesimo rosso arancio, visibile all’altezza dei piedi; il Bambino ha anche lui un manto dello stesso rosso arancio con puntini dorati, su tunica bianca, e tende le mani verso l’offerta dei Capocci. All’estrema sinistra, dietro la Vergine, un angelo con manto blu-verde e le mani levate, che sembra dar le spalle alla scena e dirigersi oltre il pannello. Il pannello, che misura cm 164.5x75.5 (bordo decorativo compreso), ha perduto molte tessere ed è stato integrato a tempera.
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Iscrizioni
1 - Iscrizione identificativa, disposta all’interno dell’area illustrata, attorno al capo della Vergine, allineata su una riga orizzontale, secondo un andamento rettilineo e regolare. Lettere scure su fondo dorato. Mutila per la caduta di alcune tessere musive.
M(ht»)r | | Qeo[à] (S. Ric.)
Note critiche
Giacomo di Giovanni Capocci era nato negli ultimi decenni del XII secolo nella famiglia che aveva già dato parecchi uomini alla vita politica ed ecclesiastica della città. Lui stesso aveva esercitato l’ufficio di Romanorum proconsul nel 1254 (Paravicini Bagliani 1975a). Suo figlio Pietro, lanciato in una brillante carriera ecclesiastica, sarebbe stato arciprete di Santa Maria Maggiore verso il 1245: la notizia ha tradizione persistente ma non è accertata (Paravicini Bagliani 1975b). In ogni caso, egli ebbe certamente stretti legami con la basilica liberiana, dato che vi fece costruire la cappella di famiglia (cappella di Santa Barbara, distrutta nel 1608 per la costruzione della cappella Paolina; Paravicini Bagliani 1975b), nella quale fu sepolto (†1259), con un epitaffio che ricordava i numerosi doni da lui fatti alla basilica (Forcella 1877, XI, 10). Il tabernacolo offerto alla basilica da suo padre deve dunque essere considerato una delle tappe della politica familiare nei confronti della chiesa di Santa Maria. Situato sul lato nord della navata centrale, non lontano dall’altar maggiore, l’altare e il tabernacolo Capocci costituivano il nucleo liturgico più importante nella basilica, dopo quello dell’altar 262 SANTA MARIA MAGGIORE / ATLANTE I, 6
1
maggiore riservato al papa; l’altare delle Reliquie, anzi, era forse proprio quello usato per le cerimonie celebrate in assenza del pontefice (Claussen 2000b, 237). La struttura del tabernacoloreliquiario era già stata usata circa cinquant’anni prima nel tabernacolo donato da Celestino III all’oratorio di Giovanni VII a San Pietro, per accogliere la Veronica (Wolf 1990, 223; Claussen 2000b, 234); anch’esso aveva un pannello musivo con la Madonna col Bambino e due donatori inginocchiati (Savattieri 2000, con datazione alla fine del XIII secolo). Nel pannello Capocci, tuttavia, alcuni elementi appaiono peculiari: il pannello oggi a Vico è l’unico frammento musivo conservato, ma la posizione dell’angelo, girato verso il bordo della composizione, lo fa immaginare in rapporto con un’altra immagine o con un’altra scena, forse sul lato del tabernacolo verso l’altar maggiore. Di questa non esiste tuttavia alcuna memoria né testimonianza grafica. Degna di nota è anche la posizione della Vergine, di profilo come nelle Adorazioni dei Magi, ad esempio nel sarcofago di Isacco, di V secolo, a San Vitale a Ravenna (La Basilica di San Vitale 1997, I, 105), o nei mosaici di Giovanni VII nel già citato oratorio a San Pietro. L’allusione visuale al parallelismo con i Re Magi attribuisce dignità ulteriore ai coniugi Capocci, ma può anche esser stata pensata in rapporto alla vicina cappella del Presepe, luogo privilegiato dei pellegrinaggi a Santa Maria Maggiore nel Duecento (Clausen 2000b, 237; De Blaauw 1994, I, 400-401). Nel XV secolo nel tabernacolo sono attestate numerose reliquie mariane: forse vi erano state trasferite dall’altar maggiore già all’atto della realizzazione del tabernacolo Capocci (De Blaauw 1994, I, 400). Qualche anno più tardi, la costruzione di un secondo tabernacolo, simile al Capocci e situato esattamente di fronte ad esso, destinato ad accogliere l’icona Salus Populi Romani, ribadirà il culto mariano in questo luogo preciso della basilica. Cosmatesche sono la struttura e la decorazione architettonica del monumento, e di fattura cosmatesca è probabilmente anche il pannello di Vico (Cecchelli s.d. [1956], 307; Matthiae 1967, 387; Gandolfo 1988, 305; Tomei 1991a, 325). Le tessere musive
sono piuttosto grandi, dal bordo irregolare, quindi disposte in modo alquanto grossolano, specie nei volti; talvolta la tendenza alla sommarietà arriva a usare un’unica tessera per rappresentare i pilastri del modellino o i raggi della croce nell’aureola del Cristo. L’affinità con le opere romane di metà secolo è però abbastanza evidente. La veste della Vergine richiama le pieghe di quella del Bambino nel perduto affresco Fieschi del 1256 (¤ 41), ed echeggia quelle delle vergini D2 e D3 della facciata di Santa Maria in Trastevere (¤ 7). Il tradizionale gioco di ombre e di luci, reso con filari di tessere rosse o azzurre nei contorni dei volti nel pannello Capocci, si sta affrancando dalle strettoie dei modelli del primo terzo del secolo, come nella Vergine musiva di San Paolo (¤ 9) o nelle vergini S2 e S1 della facciata di Santa Maria in Trastevere (¤ 7a); e il modulo del volto di Giacomo, di fattura più accurata degli altri, mostra l’acquisizione delle esperienze degli affreschi dei Santi Quattro, specie della cappella di San Silvestro (¤ 30f). I volti della Vergine e dell’angelo riecheggiano le formule arrotondate della Vergine di San Zenone (¤ 29) ma annunciano già quelle poi usate nei mosaici del Sancta Sanctorum (¤ 60).
Interventi conservativi e restauri
Febbraio 1746: smantellamento del tabernacolo Capocci in occasione dei lavori di Ferdinando Fuga. I frammenti del tabernacolo sono dispersi tra Santa Maria Maggiore, Vico nel Lazio e l’Inghilterra (Gardner 1970). Il pannello musivo viene portato alla collegiata di San Michele Arcangelo di Vico nel Lazio da Pietro Paolo Nardini, conclavista dell’arciprete di Santa Maria Maggiore, il cardinale Girolamo Colonna (1708-1763) (Capelli 1922, 215), e riutilizzato come antependio d’altare nella cappella del Crocifisso. È probabile che il donatore sia stato lo stesso cardinal Colonna, visto che il territorio di Vico nel Lazio apparteneva ai Colonna fin dal XV secolo (Capelli 1922, 72). SANTA MARIA MAGGIORE / ATLANTE I, 6 263
43. IL FREGIO A RACEMI DI SANTA MARIA DOMINE ROSE Metà del XIII secolo
Il frammento di intonaco dipinto presenta una semplice decorazione composta da un tralcio fiorito di colore scuro su un fondo ocra, bordato di una cornice composta di due nastri di colore verde e rosso sul quale in alto appare l’iscrizione dipinta di bianco a lettere capitali.
Iscrizioni Iscrizione identificativa, disposta all’interno della fascia superiore, allineata su una riga orizzontale secondo un andamento rettilineo irregolare. Lettere bianche su fondo rosso. Intera. Scrittura maiuscola squadrata.
S(anctus) Laurentiu[s]. (S. Ric.)
Note critiche
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Documentazione visiva
De Angelis 1621, 87; John Talman (1677-1726), disegno a penna acquerellato, LSA, Drawings, I, f. 97; disegno acquerellato, LWAL, Randall Davies collection Cn. 4. II. 24; Letarouilly 1853, III, tav. CCCIX.
Il lacerto è conservato sul muro di fondo della navata sinistra della chiesa di Santa Maria Domine Rose, situata un tempo all’interno del cortile del Conservatorio di Santa Caterina e nei cui ambienti ha oggi sede il Museo Nazionale Romano Crypta Balbi. Questa porzione di muratura dell’antico edificio religioso, demolito e interrato nel 1580, si era conservata per l’intera sua altezza perché inglobata nelle strutture del nuovo monastero. Nel 1943-1944, tuttavia, nel corso del parziale smantellamento dell’intero complesso monastico, gli elevati superstiti dell’antica chiesa furono distrutti. Gli scavi
nell’area presbiteriale dell’edificio religioso, ancora oggi in gran parte interrato, attuati a partire dal 1983, hanno condotto, infine, al parziale recupero dei resti della parete di fondo della struttura, costituita da muratura in laterizio, databile tra XII e XIII secolo. Riguardo la posizione storica, particolarmente convincente si mostra la somiglianza, da un punto di vista stilistico, con il fregio presente nel ciclo di affreschi della nicchia nella Rotonda ai Santi Cosma e Damiano (¤ 44c), databili fra il sesto-settimo decennio del XIII secolo, dove, insieme alle analogie morfologiche dei singoli elementi vegetali, oltretutto caratterizzati da una simile colorazione, si riscontra il medesimo modo, piuttosto elementare e semplificato, di riprodurre i girali del motivo fitomorfo. Il decoro a racemi della chiesa al Foro Romano, a sua volta, è stato avvicinato agli ornati ricorrenti negli affreschi attribuiti al Secondo e Terzo Maestro della cripta della cattedrale di Anagni e, infine, in alcuni fra quelli presenti nel ciclo dell’Aula nel complesso monastico dei Santi Quattro Coronati a Roma (¤ 30a). In base alle testimonianze artistiche richiamate al confronto e ai dati archeologici sul sito, sembrerebbe agevole, dunque, inserire il frammento superstite della decorazione medievale della chiesa di Santa Maria Domine Rose, intorno ai decenni centrali del XIII secolo.
Bibliografia
Crypta Balbi 2000, 21-37; Manacorda 2001, 55-94. Fabio Betti
Fonti e descrizioni
Giovanni Rucellai (1459), in Marcotti 1881, 569; de Angelis 1621, 71, 86; Capocci (1624), in BAV, Vat. lat. 7934, ff. 60v-61r; Mancini ante 1630 [1956-1957], 66; Baglione 1639 [1990], 186, 187 n.133; Benedetto Mellini (ante 1667), BAV, Vat. lat. 11905, f. 233v; Antonio Bruzio, Theatrum Romanae Urbis, VI, f. 89v
Bibliografia
Rohault de Fleury 1893, 15; Iozzi 1904, 5; Lethaby 1904 [1949], 205-206; Oliger 1911, 250-251; Biasiotti 1918, 255-258; Strong 1918; Fedele 1919, 340; van Marle 1921, 226, nota 1; Capelli 1922, 215-216; van Marle 1923, 500-501; Hermanin 1945, 74, 377; Cecchelli s.d. [1956], 307; Matthiae 1966a [1988], 147; Buchowiecki 1967, 240; Matthiae 1967, 387; Rossi BellincampiRossi Caruso 1967, 113-117; Gardner 1970, 224-230; CBCR 1971, III, 32 nota 3; Glasberg 1974, 178; Gandolfo 1988, 305; Righetti Tosti-Croce 1988, 161; Wolf 1990, 223; Tomei 1991a, 323-325; De Blaauw 1994, I, 398; Romano 1995b, 98; Paolini Sperduti 1996, 121; Pace 1997 [2000], 116; O’Foghludha 1998, 199; Pace 1998, 180; Savio 1999, I, 1039-1040; Tomei 1999a, 328-329; Claussen 2000b, 234-237; Kessler-Zacharias 2000, 138; Romano 2004b, 282; Menna, in Atlante I (¤ 27, 270, 273). Karina Queijo 4
1
264 SANTA MARIA MAGGIORE / ATLANTE I, 27
SANTA MARIA DOMINE ROSE / ATLANTE II, 47 265
44. I DIPINTI AI SANTI COSMA E DAMIANO
figg. 178, 189) e quella della vela sud orientale della campata meridionale dell’Aula (¤ 30a). Il fregio a tralci cuoriformi della finestra nord occidentale trova, invece, un confronto tipologico nella cornice sinistra della vela sud orientale nella campata settentrionale dell’Aula romana, anche se l’andamento dei tralci e gli accostamenti cromatici fondo-fiori-tralci mostrano più forti affinità con la decorazione della parete meridionale della campata meridionale, sopra le arcate ogivali che inquadrano i Mesi. Nonostante il diverso pattern ornamentale, i due fregi dei Santi Cosma e Damiano non sembrano troppo distanti, dal punto di vista tecnico-esecutivo e per la scelta della tavolozza dei colori, dal fregio dipinto nell’ampia cornice posta al di sopra del velario conservato nella vicina Rotonda e datato al quinto-sesto decennio del XIII secolo (¤ 44b). La decorazione delle due finestre absidali, è l’unica circoscritta testimonianza di un intervento duecentesco, giunto fino a noi, realizzato all’interno della Basilica. La sua presenza attesta,
Quinto-sesto decennio del XIII secolo
44a. LE DECORAZIONI DELLE FINESTRE ABSIDALI DELLA BASILICA
tuttavia, che la campagna decorativa estensiva di cui furono oggetto le pareti della Rotonda, suo monumentale atrio, debba essere inserita all’interno di un più vasto intervento pittorico che investì l’intero complesso dei Santi Cosma e Damiano tra il quinto e il settimo decennio del XIII secolo, andato probabilmente perduto a causa dei radicali restauri del XVII secolo.
Interventi di restauro
1912: consolidamento e stuccatura dei bordi dei due dipinti murali.
Bibliografia
Tucci 2001, 291-293. Giulia Bordi
44b. I VELARIA NELL’EMICICLO DELLA ROTONDA
L’emiciclo destro della Rotonda, tradizionalmente chiamato “Tempio di Romolo”, conserva ancora i resti della decorazione che in origine correva lungo tutte le pareti dell’edificio. A fianco dell’accesso che immette alla basilica sono visibili i resti di un alto velario – attraversato orizzontalmente da gruppi di tre linee e punteggiato da piccoli fiori a quattro petali e gigli stilizzati di colore nero – coronato da una fascia con motivi vegetali [1, 2]. Questa, compresa entro una cornice rossa e verde percorsa nel mezzo da una fila di perline bianche, presenta una serie d’inflorescenze azzurre e rosa che s’inseriscono in campi cuoriformi, disposti in successione in un senso e nell’altro: quelli capovolti hanno un fondo verde scuro, mentre gli altri alternativamente, rosso e bianco. L’orlo superiore del velario ha una bordura con gemme rosse e verdi. La parete sulla quale il velario simula di essere appeso è marrone con racemi fioriti color ocra [3]. Altri due frammenti della decorazione a velario si trovano a destra della finestra, sotto la seconda e la terza arcata.
2
1
Nelle due finestre dell’abside della basilica dei Santi Cosma e Damiano si conserva negli intradossi degli archi una decorazione dipinta con motivi ornamentali fitomorfi. Le finestre sono tamponate sul fronte interno dell’emiciclo absidale, mentre sono accessibili dall’ambiente posto alle spalle dell’abside, l’odierna sacrestia, dove svolgono la funzione di armadi a ripiani. Nell’arco della finestra nord occidentale, all’interno di un’ampia cornice a tre bande rossa, turchese e ocra, le prime due separate da una perlinatura bianca, si sviluppa una decorazione, su fondo rosso scuro, a tralci verdi cuoriformi con cespi triadici composti da un fiore blu gigliato e due foglie trilobate e da due sottilissimi steli che terminano in boccioli bianchi. I tralci sono legati tra di loro e creano un fregio continuo ritmato dall’inserimento sui lati di tralci più piccoli, sempre cuoriformi, con cespo unico composto da un fiore rosso gigliato. Nell’arco della finestra nord orientale, all’interno di un’ampia cornice analoga a quella della prima finestra, si sviluppa un festone fiorito su fondo rosso scuro scandito da file di petali trilobati cerulei.
Note critiche
I due archi dipinti tornarono alla luce nel 1912 durante alcuni lavori effettuati dalla Soprintendenza ai Monumenti nella sacrestia della chiesa, ma sono rimasti inediti fino alla segnalazione datane in anni recenti da Pier Luigi Tucci, che ne ha proposto una datazione al Duecento (Tucci 2001, 291-293). Della decorazione delle due finestre oggi si conserva solo il sottarco, tuttavia in una relazione del 17 gennaio del 1912 Giorgio Bernardini, ispettore della Soprintendenza, dice di aver visto, in uno dei due intradossi «un pezzo di colonna a tortiglione che deve continuare nel tratto del vano attualmente tagliato dal pavimento e scendere al di sotto di questo» (Archivio SBAAL, Archivio corrente, b. 121). Di questa finta colonna oggi non resta traccia, l’informazione è comunque utile per ricostruire l’aspetto decorativo originario delle due 266 SANTI COSMA E DAMIANO / ATLANTE II, 23-24
finestre che presentavano nel sottarco una decorazione a fregio fitomorfo retta, sulle paretine laterali, da due finte colonne tortili. L’abside dei Santi Cosma e Damiano, costruita nella prima metà del IV secolo, in base agli studi di Tucci, che hanno finalmente chiarito l’assetto paleocristiano e medievale dell’emiciclo, era caratterizzata da due grandi finestre, da una coppia di finestre più piccole (in cui sono stati ritrovati i due dipinti) e da una porta laterale, aperta sul lato nord. Le due grandi finestre, probabilmente nel XII secolo, a causa del rialzamento del piano di calpestio dell’edificio di circa un metro, furono trasformate in porte che mettevano in comunicazione la chiesa con l’aula retrostante (Tucci 2001, 283-293). Le due porte, a differenza delle due finestre, sono oggi interamente chiuse da una tamponatura, realizzata probabilmente nel corso degli interventi del XVII secolo, iniziati da Clemente VIII (1592-1605) e portati a compimento da Urbano VIII (1623-1644). Questi lavori implicarono l’inserimento delle cappelle laterali, il rialzamento di circa sei metri del livello pavimentale e conferirono alla chiesa la veste barocca tuttora visibile (Tucci 2001, 277). L’intradosso delle due aperture, secondo quanto si può vedere ancora in situ, non ricevette una decorazione dipinta, ma mantenne il rivestimento in lastre di marmo del IV secolo (Tucci 2001, 290). Un altro dato rilevante, notato sempre da Tucci, è che le due finestre con i dipinti murali non presentano tracce di infissi, pertanto l’ambiente retrostante l’abside doveva essere uno spazio coperto (Tucci 2001, 293), una sorta di retrosanctos posto in comunicazione con il presbiterio. Il lessico ornamentale dei fregi dipinti nei due sottarchi è affine al repertorio utilizzato dal Terzo Maestro nella cripta del duomo di Anagni (terzo-quinto decennio del XIII secolo) e negli affreschi dell’Aula al monastero dei Santi Quattro Coronati (¤ 30a). Il festone fiorito della finestra nord orientale, la cui monotonia è spezzata dal diverso orientamento dei petali che sembrano quasi mossi dal passaggio del vento, sembra ricalcare le ghirlande dipinte nelle cornici della V e IX volta di Anagni (Bianchi 2003,
Note critiche
Abbiamo ritenuto di non riferire questa parte della decorazione del Tempio di Romolo alla stessa campagna pittorica alla quale appartengono gli affreschi della nicchia (¤ 44c), sulla base dell’evidente discrepanza tra il tipo di apparato ornamentale che questi ultimi utilizzano e quello che qui si studia. Se la coerenza e
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l’unità di un programma pittorico si esprimono anche attraverso l’uniformità dell’impianto decorativo, tale discrepanza, pur non implicando per forza una distanza cronologica marcata – le due imprese sono infatti assegnabili a un giro d’anni piuttosto stretto – sembra parlare in favore di due iniziative distinte. Il grande fregio a velaria cingeva in origine tutto la circonferenza della Rotonda, con un effetto estremamente monumentale. La maniera di rendere il velario, a pieghe spesse e rigide, con gigli e fiori stilizzati, perfino la curiosa maniera di abbellire la punta di ogni piega con una o più ‘code’, sono caratteristiche che si ritrovano anche negli altri esemplari romani all’incirca contemporanei: i velaria che decorano le pareti della Stanza di Innocenzo III al Palazzo Vaticano (¤ 32b), quelli che concludono la parete sulla quale è affrescato il Calendario nell’ambiente antistante la cappella di San Silvestro, ai Santi Quattro Coronati (¤ 30e), quelli dell’affresco con Cristo e gli Apostoli ai Santi Giovanni e Paolo (¤ 34c), o ancora, quelli dipinti nel chiostro di San Paolo fuori le mura, di cui non resta ormai che un misero frammento (¤ 27). Anche la banda ornamentale a campi cuoriformi fa parte del repertorio spesso utilizzato dalle botteghe romane di questo periodo, come dimostra il ciclo dell’Aula ai Santi Quattro Coronati (¤ 30a), dove questo modulo si ritrova declinato in numerose varianti, nessuna delle quali, tuttavia, coincide esattamente con quella qui visibile; rispetto ai fregi dell’Aula, quello della Rotonda è più proporzionato e presenta un andamento più regolare. Il paragone più congeniale si trova in un ciclo di affreschi che non rientra nell’ambito della produzione più strettamente cittadina, ma vi è comunque intimamente legato: le pitture nel coro delle monache di San Pietro in Vineis ad Anagni, databili tra il 1255 e il 1263 (Romano 1997). Qui, il fregio che corre lungo l’imposta del tetto e corona la finta decorazione a mattoni della parete verso la chiesa, è quasi identico a quello del Tempio di Romolo: i cuori – siano essi orientati verso l’alto o verso il basso – hanno la stessa forma e dimensione, sono legati l’uno all’altro per mezzo di un piccolo ‘gancio’ e i racemi si dispongono al loro interno esattamente nello stesso modo. Sulla base di quanto detto finora, quindi, una datazione di questa parte della decorazione del Tempio di Romolo al quinto-sesto decennio del XIII secolo pare essere la più plausibile. È ragionevole supporre che questa non si limitasse ai soli velaria, ma ricoprisse tutta la parete, giungendo almeno fino all’imposta della cupola: se si trattasse di un complemento di carattere narrativo o prettamente ornamentale, è oggi impossibile stabilire con sicurezza. SANTI COSMA E DAMIANO / ATLANTE II, 23-24 267
Va detto tuttavia che il velario occupa un’altezza già considerevole, e che la parete è da parte sua scandita da ampie arcature, che ne segnano anche lo spessore. Al di sopra del velario, lo spazio utilizzabile per ulteriori decorazioni consiste in realtà in settori lunettati, che certo non saranno stati lasciati nudi. Si potrebbe anche immaginare un’integrazione con finte architetture, al cui effetto illusorio partecipassero pure gli elementi reali – le arcate – secondo un dialogo tra vera architettura e architettura dipinta non estranea alla tradizione e al gusto della Roma medievale. Il repertorio di questo fregio con velario non stona, ma neanche coincide perfettamente con i motivi scoperti negli sguanci delle due finestre absidali in basilica (¤ 44a). La concomitanza della data, cui si aggiunge il nucleo della nicchia, per cui si veda più sotto (¤ 44c), fa pensare ad un progetto complesso e su vasta scala; ricondurlo ad una personalità nota è molto difficile. Il cardinale titolare dei Santi Cosma e Damiano fu, dal 1216 al 1254, Egidio de Torres; poi, dal 1262 al 1269, Giordano Pironti da Terracina, ormai in anni forse troppo attardati rispetto a quanto si giudica
dello stile delle pitture. Altri eventuali protagonisti rimangono, per ora, sconosciuti.
Interventi conservativi
1990-2000: restauri condotti dalla Soprintendenza Archeologica di Roma.
Documentazione visiva
Jean Baptiste Séroux d’Agincourt, disegno di un frammento del velario, (1780-1790), BAV, Vat. lat. 9841, f. 24v, pl. XI; Séroux d’Agincourt 1826-1829, V, tav. XI; Enrico Stevenson, BAV, Vat. lat. 10577, f. 40v.
Bibliografia
Nardoni 1881, 2; Tucci 2001, 291; Romano 2004b; Monciatti 2005a, 88, 106. Irene Quadri
44c. IL CICLO NELLA NICCHIA DELLA ROTONDA Sesto-settimo decennio del XIII secolo
La nicchia che si apre nel tratto nord-est del Tempio di Romolo, riportata alla luce nel 1913, è ricoperta da affreschi oggi frammentari [1]. Nella conca absidale è il Cristo in trono affiancato a destra da Maria Salomé e a sinistra da Maria Maddalena [4, 6]. Quest’ultima ritorna nell’episodio raffigurato sul muro di sinistra, dove è dipinto il Convito a casa di Simone il fariseo [3, 7]: seduti al banchetto troviamo, da sinistra verso destra, Simone il fariseo – ormai ridotto a una sagoma – e un personaggio aureolato, forse Pietro (Wilpert 1916, II, 803), che, come indica il gesto interlocutorio della mano, si sta rivolgendo a Gesù; inginocchiata sotto il tavolo, Maria Maddalena è ritratta mentre asciuga coi capelli i piedi di Cristo. Sulla parete destra, le Marie al Sepolcro [2]: un angelo dalle bianche vesti, l’unica figura della scena a essere discretamente conservata, indica alle tre donne – tra le quali scorgiamo di nuovo Maria Salomé, riconoscibile grazie alla cappa color marrone – il sepolcro vuoto. La volta è decorata da cinque medaglioni [1]: è oggi impossibile dire con sicurezza cosa raffigurasse quello centrale, il più grande, poiché in questa zona la superficie pittorica è completamente erosa, ma molto probabilmente si trattava di un busto di Cristo o di un Agnus Dei. I restanti quattro medaglioni contengono i simboli degli evangelisti: sono ancora riconoscibili il Leone, il Bue e l’Angelo; dell’Aquila, invece, resta oggi ben poco. Il ciclo è concluso da una decorazione a velaria, sormontata da una fascia ornamentale con racemi fioriti su fondo ocra [5]; questo stesso fregio decora una piccola cavità al centro dell’abside in basso.
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Note critiche
Il programma iconografico delle pitture della nicchia del Tempio di Romolo sembra riflettere la multifunzionalità del luogo e i diversi significati simbolici che questo spazio assumeva. Se la tematica funeraria, cui palesemente allude la scena delle Marie al Sepolcro, si giustifica facilmente in un edificio che era anche un mausoleo, come testimonia ancora oggi il sarcofago in terracotta al centro della nicchia (Tucci 2004), quella femminile – sono tutte donne le protagoniste del ciclo – è più sfaccettata, legandosi alle diverse pratiche cultuali e liturgiche che caratterizzavano la vita di questa basilica. Come è già stato detto (Romano 2004b), quest’ultima tematica è sicuramente da mettere in relazione all’insistito culto mariano
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che precocemente si sviluppa ai Santi Cosma e Damiano e le cui testimonianze si concentrano soprattutto nella Rotonda e le sue adiacenze (Mangia-Renda 1985-1986). Oltre ai restanti due episodi pittorici duecenteschi, più tardi rispetto a quello che qui studiamo – l’icona con la Vergine e il Bambino (¤ 53) (in origine forse collocata sull’altare menzionato dal Panvinio (Panvinio, BAV, Vat. lat. 6780, f. 45r, in Biasotti-Whitehead 1925, 110) e localizzato da Biasotti e Whitehead nei resti ancora visibili a sinistra dell’ingresso (Biasotti-Whitehead 1925, 114) e l’affresco torritiano con la Madonna in trono tra i santi Cosma e Damiano della tomba a muro a destra della nicchia – sopravvivono altri due affreschi più antichi di soggetto mariano. Una Vergine col Bambino tra i due santi titolari della chiesa – risalente al X secolo – è in un’absidiola dell’ambiente sotterraneo, al quale la nicchia e la sua decorazione sono intimamente legate: l’area a destinazione funeraria della nicchia trovava infatti un ‘prolungamento’ in questo spazio sotterraneo – la cosiddetta cripta – dove si concentravano numerose sepolture e dove, durante il X secolo, erano state deposte le reliquie e le spoglie di diversi martiri (Mangia-Renda 1985-1986, 334-335; Claussen 2002, 374-376). La Madonna tra due santi poi, con ogni probabilità di nuovo Cosma e Damiano, è ancora riconoscibile nei dipinti che, all’esterno, ornavano la prima nicchia a sinistra del portale d’ingresso, oggi ormai ridotti a uno stato talmente larvale da rendere impossibile una cronologia plausibile.
Ma l’intonazione femminile del ciclo della Rotonda sembra anche far riferimento ai rituali che formavano la liturgia stazionale, alla quale la chiesa dei Santi Cosma e Damiano partecipa fin dal VII secolo quando, per volere del pontefice Sergio I, nell’area del Foro si organizzarono importanti processioni per celebrare le festività mariane (Parlato 2000, 72). Durante la processione di Ferragosto, l’usanza di fare tappa ai Santi Cosma e Damiano, affinché le donne romane, proprio nella Rotonda, potessero sfilare sotto l’Acheropita, pur essendo attestata solo a partire dal XV secolo (Marangoni 1747, 123; Wolf 1990, 49, 70-71) era probabilmente in auge da tempo, quasi sicuramente già nel corso del XIII secolo quando si eseguì la decorazione della nicchia. Questa poi, pare legarsi al monumento e alle sue tradizioni anche per un altro aspetto: l’episodio della Maddalena che bagna con le sue lacrime e poi con i capelli asciuga i piedi di Cristo si associa all’atto della lavanda dei piedi, e quindi ai temi connessi all’acqua e ai suoi rituali che sono forse richiamati dalla presenza di un pozzo all’interno della Rotonda. Il «puteus cum magne vaso marmoreo» citato da Panvinio (Panvinio, BAV, Vat. lat. 6780, f. 45) – è verosimilmente da identificarsi con il pozzo che si trova nell’ambiente sotterraneo (Mangia-Renda 1985-1986, 332-333): la sua acqua era famosa per le virtù curative e terapeutiche che le derivavano, secondo la leggenda, dal contatto con reliquie che qui furono gettate (Bordone 1584, 386). Il giorno della festività del fondatore della basilica, papa Felice IV – la cui tomba, nella cripta, 4
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era attigua al pozzo, tanto che nelle fonti questo è menzionato anche col nome di «pozzo di san Felice» – quest’acqua era distribuita ai fedeli che si riunivano nella basilica per celebrare la ricorrenza (Claussen 2002, 374, n. 64). Si riconferma pertanto, il legame tra la cripta e la decorazione della nicchia e si mette ben in evidenza la polivalenza di un importante centro di culto, come era quello dei Santi Cosma e Damiano. Gli affreschi del Tempio di Romolo hanno ricevuto varie datazioni, dalla prima metà del secolo (Gandolfo 1988, 295-296), al settimo decennio (Tomei 1991a, 325; Romano 2004b) e l’attribuzione al Maestro del Sancta Sanctorum coniato da Bellosi (Bellosi 1990, 32; Id. 1998, 81-82). Ma se l’apparato ornamentale si conforma pienamente alle tendenze in auge ormai dal secondo quarto del secolo – il fregio a girali vegetali che corre al di sopra dei velaria è affine a quelli che appaiono negli affreschi del Secondo e del Terzo Maestro ad Anagni e che si ritrova poi nel ciclo dell’Aula ai Santi Quattro Coronati (¤ 30a) a far da sfondo alle scene comprese entro archi inflessi del registro inferiore – le parti narrative stentano a trovare termini di paragone calzanti (Romano 2004b, 283-284). Le figure del Convito a casa del Fariseo [3, 7], un po’ rigide e rattrappite, non hanno la stessa monumentalità, gli stessi volumi che contraddistinguono quelle delle altre parti del ciclo, l’angelo e le donne della Visita al Sepolcro [2], per esempio, per le quali sono stati evocati contatti con la pittura medioduecentesca toscana (Romano 2004b, 284), ammettendo così possibili aperture verso altri ambiti pittorici. Sono però proprio queste figure del Convito a essere le più “romane” e a orientare verso una datazione alla prima metà degli anni Sessanta: il viso già un po’ quadrangolare del san Pietro sembra prefigurare quella resa stereometrica dei volumi che di lì a qualche anno caratterizzerà la pittura romana, come si vede, per esempio, nel san Bernardo degli affreschi della lunetta con la Vergine e il Bambino tra Santi sull’Arco di Carlomagno (¤ 48); questo, poi, si avvicina a quello dell’abside di Santa Passera (¤ 50). Se, come già detto, la consistenza e la vastità dell’impresa pittorica che coinvolgeva l’intera struttura della Rotonda fanno pensare a un committente importante, probabilmente connesso alla storia dell’edificio (¤ 44b), il carattere funerario del ciclo della nicchia, così come la sua già sottolineata finitezza e autonomia rispetto alla decorazione circostante, sembrano parlare in favore
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di un’iniziativa privata – forse di una donna, come pare suggerire l’intonazione femminile del programma – legata a un’occasione particolare.
Interventi conservativi
1990-2000: restauri condotti dalla Soprintendenza Archeologica di Roma.
Documentazione visiva
Antonio Eclissi, disegni acquerellati (XVII secolo), BAV, Barb. lat. 4426, f. 16; Wilpert 1916, IV, tavv. 264-267 [8]; fotografie ICCD (1914).
Bibliografia
Nardoni 1881, 2; Marucchi 1902, 358; Wilpert 1916, II, 802804; van Marle 1923, 423; Biasotti-Whitehead 1925, 115; Toesca 1927 [1965], 1006, nota 37; Lavagnino 1941, 162163; Armellini-Cecchelli 1942, I, 197; Chioccioni 1963, 135; Matthiae 1966a [1988], 58; Buchowiecki 1967, 603; Budriesi 1968, 54; Il “Tempio di Romolo” al Foro Romano 1980, 11; Mangia Renda 1985-1986, 344, 356, 359; Marques 1987, 9698; Gandolfo 1988, 295-296; Bellosi 1990, 32; Mangia Renda 1990, 581; Tomei 1991a, 325; Iamurri 1995, 21; Romano 1995b, 95-98; Bellosi 1998, 81-82; Claussen 2002, 374; Romano 2004; Monciatti 2005a, 106, 177. Irene Quadri
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45. LA CROCE DIPINTA AI SANTI DOMENICO E SISTO Sesto decennio del XIII secolo
Il Cristo, raffigurato patiens, è crocifisso a una croce blu scuro bordata di rosso che si staglia sul fondo dorato del tabellone, ormai molto compromesso: gli occhi, profondamente segnati, sono chiusi, la testa è reclinata sulla spalla destra e il corpo s’inarca leggermente. Dalla piaga sul costato – oggi solo parzialmente visibile – fuoriescono sangue e acqua sotto forma di piccole gocce bianche e rosse. Il bacino è avvolto da un perizoma blu annodato davanti [2]. Al centro della cimasa [1], racchiuso in una mandorla profilata in rosso, appare il Cristo benedicente col Libro aperto, veste arancio e manto rosso porpora; ai lati, due angeli a mezzo busto, quello di sinistra con veste verde e manto rosa, quello di destra, con veste verde e manto marrone. Al di sotto della mandorla, il cartello a lettere bianche su fondo rosso (Iscr. 1). Altri due angeli, questa volta a figura intera, sono situati alle estremità del braccio orizzontale, raffigurati esattamente nella stessa posa di quelli della cimasa e vestiti quasi nello stesso modo: quello di sinistra ha tunica verde e manto marrone [4], quello di destra abito rosa e manto verde [3]. Nei tabelloni troviamo la Vergine e san Giovanni [2]. A destra del
Cristo, la Vergine, con veste rossa e manto blu, si porta la mano sinistra al volto in segno di dolore, mentre con la destra indica il Figlio crocifisso. Il san Giovanni è frutto di un rifacimento probabilmente cinquecentesco che ha letteralmente amputato il pannello medievale, sostituendolo con uno nuovo. La predella è occupata da due coppie di frati e suore domenicani disposti specularmente ai lati dei piedi di Cristo, i frati alla sua destra, le monache alla sua sinistra [2]. La Croce misura cm 206 x 159.
Iscrizioni
1 - Iscrizione identificativa, disposta nella tabella soprastante il crocifisso, allineata su tre righe orizzontali, secondo un andamento rettilineo irregolare. Lettere bianche su fondo rosso. Intera. Scrittura maiuscola gotica.
Ih(esu)s Naza/renus rex / Iudeorum (S. Ric.)
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Note critiche
Il Crocifisso, oggi esposto nell’Aula Capitolare dell’Istituto Angelicum ai Santi Domenico e Sisto, proviene dal monastero femminile di San Sisto Vecchio (fondato nel 1221 dallo stesso san Domenico) dove giunse nel 1575, quando le monache vi si trasferirono dal complesso di San Sisto sull’Appia, che poi prese appunto il nome di San Sisto Vecchio. Pur essendo menzionato nelle fonti relative ai Santi Domenico e Sisto (Suor Maria Domenica Salomonia, Memorie del Monastero dei SS. Domenico e Sisto, 1652-1656, in Berthier 1919-1920, II, 13) e in Zucchi (1938, 354), non è possibile ricostruirne le vicende. In questi testi è spesso ricordato insieme alla veneratissima icona della Vergine Advocata, in un’associazione densa di significato, trattandosi delle due uniche testimonianze artistiche legate alla prima fase della comunità che è la prima comunità femminile romana sottoposta alla Regola domenicana e legata alla personalità dello stesso Fondatore dell’ordine. L’icona mariana, infatti, approdò a San Sisto nel 1221, quando, nell’ambito della riforma dei monasteri femminili voluta da papa Onorio III, il Monasterium Tempuli fu soppresso e parte dei suoi beni – tra cui l’icona – accompagnarono le monache, affidate al nuovo convento di clausura installatosi sull’Appia. Con l’eccezione di Boskovits (1993, 72) che la data agli anni Venti, la Croce è stata unanimemente attribuita alla metà del secolo (Sandberg-Vavalà 1929 [1985], 805; Garrison 1976, 190; Mortari 1984, 13; Romano 1994a, 695; Gardner 1995b, 31), ma con diverse motivazioni; se ne sono proposti confronti con Crocifissi toscani (Sandberg-Vavalà 1929 [1985], 805) e umbri (van Marle 1923, 430), addirittura «lucchesi, pisani, fiorentini e senesi» (Garrison 1976, 190), ovvero la si è unicamente ricondotta all’ambito della pittura romana medioduecentesca (Mortari 1984, 15), secondo due prospettive che, almeno apparentemente, sono inconciliabili. I contatti del Crocifisso romano con la pittura umbra non sono trascurabili come mostra il confronto con il Crocifisso di Petrus in Sant’Antonio a Norcia, datato al 1242 (Boskovits 1993, 72, nota 144), con il quale quello dei Santi Domenico e Sisto condivide il trattamento grafico di stilemi di chiara origine giuntesca; il Cristo romano è più abbandonato e patetico [2], mentre molto affini appaiono l’angelo della Croce di San Sisto [3] e il san Giovanni di quella umbra, entrambi all’estremità sinistra del braccio. D’altra parte, l’orizzonte umbro non basta a dare ragione dell’impasto stilistico del Crocifisso dei Santi Domenico e Sisto; per altri versi, infatti, esso può trovare riscontri negli affreschi della nicchia della Rotonda ai Santi Cosma e Damiano (¤ 44c). Con questi dipinti il Crocifisso condivide innanzitutto la luminosità della materia pittorica, ad esempio, nella maniera di rendere i panneggi delle vesti, scomposti in una complessa trama di ombre e di luci: si veda la tunica di san Pietro nella scena del Convito a casa del Fariseo, analoga a quella dell’angelo nella tabella destra della Croce di San Sisto [4]. Le affinità coinvolgono anche la resa dei personaggi: si accosti il volto della Vergine della Croce [2] con quello della Maddalena nella scena del Convito nel ciclo della Rotonda. Anche le capigliature – ondulate e percorse da grosse linee nere – sono condotte in maniera analoga, basti paragonare l’angelo nella tabella laterale sinistra della Croce [3] e la Maddalena o il Gesù del Convito ai Santi Cosma e Damiano. Simile nelle due opere è anche la tipologia del Cristo [2], come prova l’accostamento con quello nella calotta absidale alla Rotonda. Nel Crocifisso dei Santi Domenico e Sisto, degna di nota è la presenza dei donatori: a differenza di quanto fanno i Francescani che si rappresentano spesso ai piedi della croce, infatti, in ambito domenicano la raffigurazione dei committenti è un fatto piuttosto
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eccezionale (Cannon, 1998, 28-29); rara è pure la presenza del Fondatore dell’Ordine – l’unica attestazione conosciuta è il Crocifisso in San Domenico a Spoleto, datato al 1330, nel quale, la testa aureolata di un domenicano che bacia i piedi di Cristo, è stata identificata con quella di san Domenico – mentre san Francesco appare spesso in prossimità del Cristo in croce (ibid., 29, 41, nota 16). Non deve sorprendere che nella Croce che qui si studia, oltre alle monache, siano ritratti anche dei frati: si trattava forse del priore e del procuratore del monastero che, come in tutte le comunità femminili di clausura, assicuravano il controllo della vita del convento; grazie alla testimonianza di suor Cecilia nei Miracula beati Dominici (Walz 1967) – che era tra le monache dell’appena costituita comunità domenicana di San Sisto – sappiamo, per esempio, che al momento della fondazione, san Domenico nomina priore fra’ Oddone e procuratore fra’ Ruggero che si aggiungevano ad altre quattro presenze maschili stabili, un sacerdote e tre conversi (Spiazzi 1993, 20). I confronti proposti confermano una datazione del Crocifisso dei Santi Domenico e Sisto agli anni Cinquanta del Duecento: essi designano un ambito stilistico di riferimento ampio, che supera quello strettamente romano e include elementi comuni alle culture pittoriche delle regioni circostanti, in questo caso verosimilmente l’Umbria meridionale: un dato che nel caso specifico trova forse anche una giustificazione nella committenza di matrice domenicana. Questa cronologia, d’altronde, ben si accorda con la storia del monastero: dopo una fase di avviamento non sempre facile, è proprio intorno alla metà del secolo che esso raggiunge l’apice del suo sviluppo, fungendo probabilmente anche da punto di riferimento per le numerose nuove comunità femminili di clausura che a quest’epoca vengono fondate a Roma (Spiazzi 1993, 34); il Crocifisso diventa così una testimonianza di questo nuovo periodo di prosperità.
Interventi conservativi
1970-1971: restauro condotto dalla Soprintendenza di Roma
Fonti
Ms. della Madre Suor Maria Domenica Salomonia, Memorie del Monastero dei SS. Domenico e Sisto, 1652-1656, in Berthier 19191920, II.
Bibliografia
Berthier 1919-1920, II, 13; van Marle 1923, 430; Sandberg-Vavalà 1929 [1985]; Zucchi 1938, 354; Campini 1966, 120; Garrison 1976, 190; Mortari 1984; Marques 1987, 98; Gandolfo 1988, 308; Boskovits 1993, 72; Romano 1994a, 695; Gardner 1995b, 31-32; Romano 1997, 111, 805; Cannon 1998, 28-29. Irene Quadri 3
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46. LA CROCIFISSIONE NELLA NAVATA DI SANTA PRASSEDE Sesto-settimo decennio del XIII secolo
L’affresco con la Crocifissione [1] si trova sul pilastro destro della navata più vicino al coro e ne occupa il lato rivolto verso la cappella di San Zenone. Il Cristo – crocifisso a una croce a forma di Y – è raffigurato patiens, gli occhi sono chiusi, la testa abbandonata sulla spalla destra; i fianchi avvolti da un perizoma rosso. A destra, la Vergine – con una veste blu e un manto rosso – appare nell’usuale atteggiamento della Dolente, con la guancia appoggiata alla mano sinistra. Alla sua sinistra, il san Giovanni veste una tunica azzurra e un manto rosso: il capo chino, indica il Cristo con la mano destra. I loro volti sono quasi completamente scomparsi a causa della forte abrasione della superficie pittorica; anche l’angelo che sovrastava la scena è oggi pressoché invisibile: si riconoscono appena la sagoma dell’aureola e quella delle ali. I protagonisti poggiano i piedi su un suolo ocra, mentre la parte superiore del corpo si staglia su un fondo azzurro. L’intera composizione era probabilmente inquadrata da una cornice composta di una banda rossa e di una bianca percorsa da un motivo a denti di sega rosso, come dimostra l’unico frammento ancora visibile all’estremità superiore.
Note critiche
Gli accenni all’affresco con la Crocifissione sono in genere legati alla storia della costruzione della basilica. La cronologia del dipinto, infatti, costituisce un inequivocabile termine ante quem per la datazione dell’intervento di restauro – probabilmente avvenuto all’inizio del XIII secolo, quando la basilica viene affidata ai Vallombrosiani (Caperna 1999, 76) – che vide l’introduzione dei tre archi trasversi e dei pilastri che li sostengono, su uno dei quali, appunto, appare l’affresco (Muñoz 1918, 127; Buchowiecki 1974, 603; Caperna 1999, 76). La cronologia attribuita all’affresco, talvolta limitata a un’imprecisata e vaga assegnazione al XIIIXIV secolo (Muñoz 1918, 127; Buchowiecki 1974, 603, 619) si circoscrive, invece, per alcuni a un ristretto giro di anni intorno alla metà del Duecento (Pace 1997 [2000], 119; Minasi 2004, 50; Pennesi, in Atlante I ¤ 28); francesizzante per Gardner che ne pone l’esecuzione sotto il cardinalato di Ancher de Troyes (12631286; Gardner 1990b, 86). I riscontri stilistici confermano effettivamente una collocazione cronologica tra il sesto e il settimo decennio del secolo: l’utilizzo di colori vivi e brillanti, quali il rosso, il blu e l’azzurro, così come la qualità luministica della pittura nel fitto frastaglio di lumeggiature che scompone le vesti, si ritrovano in opere come la Croce dei Santi Domenico e Sisto (¤ 45), o gli affreschi della nicchia nella Rotonda ai Santi Cosma e Damiano (¤ 44c). Anche nella resa dei personaggi vi è una certa affinità: l’anatomia del Cristo di Santa Prassede presenta quasi le stesse forme di quello dei Santi Domenico e Sisto, mentre nei volti della Vergine e del san
Giovanni, anche se ormai fortemente compromessi, si può ancora riconoscere quell’espressione afflitta – la fronte è corrugata, gli occhi e le sopracciglia sono all’ingiù – che caratterizza i personaggi del Crocifisso nel convento domenicano e la Maddalena nella scena del Convito a casa del Fariseo alla Rotonda. Ma come per i termini di paragone proposti, anche per l’inquadramento stilistico-formale della Crocifissione di Santa Prassede non basta il riferimento al solo panorama pittorico romano: oltre a una familiarità con la Croce di Petrus in Sant’Antonio a Norcia, datata al 1242 e già menzionata in relazione al Crocifisso dei Santi Domenico e Sisto (¤ 45), essa s’avvicina ad altri episodi umbri, come il Crocifisso eseguito nel 1257 da Simeone e Machilone e oggi conservato alla Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini a Roma, coi quali condivide l’evidente matrice giuntesca della tipologia del Cristo. Il legame con la pittura del Centro Italia emerge anche da un dettaglio iconografico degno di nota: la forma a Y della croce, peraltro piuttosto rara, si ritrova, infatti, in alcune Crocifissioni medioduecentesche toscane e umbre, come quella che appare nel dittico conservato all’Accademia di Firenze attribuito alla cerchia di Bonaventura Berlinghieri, o, ancora, quella ad affresco che ornava la chiesa di Santa Maria inter Angelos presso Spoleto, ora al Museo di Worcester (De Francovich 1938, 151; Pace 1972, 159, nota 35). A Roma, essa appariva in un altro affresco pressappoco contemporaneo a quello che qui si studia: la Crocifissione del 1248, oggi scomparsa, dipinta sulla controfacciata dei Santi Quattro Coronati (¤ 30h). Gli evidenti contatti della Crocifissione di Santa Prassede e delle altre opere romane sopra menzionate alle quali questa è stilisticamente e iconograficamente connessa, con la pittura umbra e toscana, mette in evidenza l’esistenza di una temperie artistica ‘sovraregionale’ centroitaliana, verso la quale anche la pittura romana della metà del Duecento si apre e alla formazione della quale molto probabilmente anch’essa partecipa. Le poche notizie riguardanti la basilica di Santa Prassede durante il XIII secolo non forniscono indizi a proposito della committenza e dell’eventuale occasione alla quale potrebbe legarsi l’esecuzione del dipinto, né elementi sui quali poter costruire delle ipotesi. L’ubicazione dell’affresco e la sua tipologia fanno pensare a un’immagine devozionale legata a un’iniziativa privata.
Bibliografia
Muñoz 1918, 127; Parsi 1970, VI, 85; Pace 1972, 159, nota 35; Buchowiecki 1974, 603, 619; Gardner 1990b, 86; Pace 1997 [2000], 119; Caperna 1999, 76; Minasi 2004, 50; Pennesi, in Atlante I (¤ 28). Irene Quadri
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Note critiche
47. LA DECORAZIONE DELLA “TORRE” PRESSO SAN CRISOGONO Sesto-settimo decennio del XIII secolo
Sulle pareti dell’ambiente a sinistra dell’abside, già battistero della basilica inferiore di San Crisogono, si conservano tracce frammentarie di dipinti murali. Sulla parete sud sono ancora leggibili alcuni brani che attestano l’originaria presenza di una decorazione tripartita: in basso, è un alto velario dipinto con ampie pieghe rosso-arancio e motivi decorativi delineati con sottili pennellate brune; al centro una spessa banda a fondo bianco, chiusa in alto e in basso da una cornice verde e rossa, con un fregio a girali di foglie d’acanto con all’interno fiori a otto petali policromi e sottilissimi steli che terminano in riccioli; in alto la parete è occupata da ampi riquadri a fondo ocra con tracce di motivi fitomorfi. Anche le paretine a doppia strombatura delle feritoie presentano una decorazione a girali d’acanto verdi su fondo bianco. La parete meridionale è interrotta al centro da un semipilastro sul quale si conservano labilissime tracce di colore rosso e ocra. Una fotografia pubblicata nel 1924 aiuta a recuperare l’assetto originario della decorazione oggi perduta (Mancini 1923-1924, fig. 4): tre ampie volute a foglie d’acanto, dalle quali partono sottili steli che terminano in piccoli fiori e grappoli d’uva, avvolgono tre stemmi gentilizi a scudo, probabilmente su fondo ocra. Gli stemmi sono inquartati di rosso e di bianco caricati di spade nude disposte: in palo nei due quarti superiori, nel primo e secondo stemma; in diagonale, nel terzo. Questa decorazione continua anche sulla parete ovest, dove nel registro superiore è dipinto un grande vaso ad anfora con corpo sferico poggiante su una base circolare dentellata. Il collo, di cui si vede l’attacco, terminava probabilmente a bocca svasata e da esso uscivano racemi con foglie e fiori, come attestano i due fiori rossi ancora visibili, anche se piuttosto svaniti, ai lati del vaso. Lungo tutta la parete nord, in alto, si leggono a fatica altri lacerti di pittura, meglio conservati nel tratto occidentale. Grazie al confronto con un’altra fotografia del 1924 è possibile ricostruire l’impianto compositivo originario (Mancini 1923-1924, fig. 5): un lungo fregio chiuso in alto e in basso da una cornice a girali ocra, che terminano al centro con foglie trilobate e dai quali partono sottilissimi steli con fiori a tre petali rossi. Il fregio presenta una lunga serie di stemmi a scudo inquartati di rosso e di bianco caricati di due, tre o quattro spade nude, rosse o bianche a seconda del fondo del quarto. Le spade sono disposte a losanga, a croce traversa, in palo, in diagonale, in orizzontale, in un gioco di variazioni continuo. Gli stemmi sono tutti su fondo ocra e separati gli uni dagli altri da bande verticali a fondo bianco decorate in alto e in basso da ampi fiori rossi a cinque petali. Sulla stessa parete, in basso, sono presenti altri brani di intonaco dipinto appartenenti ad una precedente campagna pittorica. Si tratta di una figura stante, della quale si leggono i piedi, e dello zoccolo sottostante, a fondo bianco, decorato con un serpente che combatte contro un altro animale con aculei, del quale si conserva solo la testa. Più avanti, sulla stessa parete, si legge un altro brano dello stesso zoccolo dipinto con il muso di un grosso pesce e un arbusto con foglie verdi e un fiore rosso. Questi brani possono essere datati alla fine dell’XIinizi del XII secolo. Nello zoccolo della parete ovest dell’aula si conservano, sopra allo strato preparatorio della decorazione in opus sectile (V secolo), in una situazione di palinsesto, tracce di altre due decorazioni pittoriche precedenti alla fase duecentesca. Si tratta di una decorazione a finte specchiature marmoree, omogenea a quella dell’emiciclo absidale e databile al terzo quarto dell’XI secolo (Bordi, in Corpus IV ¤ 8a), sulla quale poggia uno strato successivo, del quale si legge il disegno preparatorio. Su un fondo bianco si distingue la parte inferiore della veste e i piedi di una figura, seguita dai panneggi, segnati da bande ocra, di altre due figure. Questa decorazione è di difficile datazione, potrebbe essere contemporanea ai brani presenti sulla parete nord. 280 SAN CRISOGONO
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Il battistero di San Crisogono tornò alla luce durante gli scavi condotti nel 1909 da Orazio Marucchi. L’impianto è stato datato al V secolo, ma riutilizza in parte strutture preesistenti (Cecchelli Trinci 2001, 229-238). Si tratta di un’aula lunga 7 e larga 4 metri messa in comunicazione con la chiesa da un passaggio aperto sul muro est nel 1909 (Marucchi 1911, 19-20). In origine, l’ambiente era più ampio del doppio, non era accessibile dalla basilica, ma vi si entrava da una porta che dava sulla via pubblica, l’odierna via di San Gallicano. Al centro si conserva una vasca circolare (Piccolini 1953, 68-69), occultata per metà dall’innesto del muro trasversale sud, inserito in epoca medievale, che divise in due l’aula, comportò un innalzamento del piano di calpestio e quindi un suo cambiamento d’uso. La risega di fondazione del muro, infatti, è posta a 1.35 metri dal piano del battistero. Sul muro meridionale, ai lati del pilastro, sono presenti quattro feritoie rettangolari a doppia strombatura. Secondo Krautheimer, il muro trasversale fu costruito nel XII secolo per sostenere la nuova basilica eretta da Giovanni da Crema (1123-1129; CBCR 1937, I, tav. XXI). Mesnard e Apollonj Ghetti lo ritengono invece dell’XI secolo, frutto di un intervento strutturale legato ancora alla vecchia basilica (Mesnard 1935, 81; Apollonj Ghetti 1966, 31). Questa datazione è in linea con l’interpretazione degli stemmi araldici proposta da Pasini-Frassoni, secondo cui sarebbero appartenuti alla famiglia di Epifanio di Benevento, dalla quale discendeva Desiderio da Montecassino, diventato poi papa, nel 1087, con il nome di Vittore III (Pasini-Frassoni 1914, 419-422). In base a questa lettura, anche le pitture dovevano essere riferite all’XI secolo. Datazione che è stata definitivamente confutata da Eleonora Mazzocchi, la quale ne ha proposto, a ragione, una posticipazione al XIII secolo (Mazzocchi 2007, 260), cronologia già avanzata da Marucchi nel 1911, ma successivamente abbandonata (Marucchi 1911, 19-20). Secondo Mazzocchi la presenza degli stemmi araldici connota l’aula come un luogo sepolcrale o commemorativo (Mazzocchi 2007, 260). Mancini prima, e Piccolini in seguito, hanno proposto una differente lettura, che però ha avuto poca fortuna nella letteratura successiva: il vano sarebbe rimasto accessibile anche dopo l’interramento della vecchia basilica, divenendo la base di una torre di difesa, come attesta la presenza delle feritoie e del pilastro al centro del muro sud (Mancini 1923-1924, 151, 159; Piccolini 1953, 70-71). Potrebbe trattarsi, infatti, di una delle numerose torri, documentate nelle vedute del XV e XVI secolo, come quella dipinta da Masolino a Castiglione Olona (1435), o tramandate nei disegni del Codex Escurialensis (1495), di Heemskerck (1534-1536) e di Naldini (1557-1564), il cui numero subì un notevole incremento proprio nel XIII secolo, in stretta connessione con l’ascesa della nuova nobiltà cittadina che scelse l’area di Trastevere come luogo di insediamento delle proprie dimore turrite (Krautheimer 1981, 373-374). L’impianto architettonico dell’aula e la decorazione pittorica di tipo aniconico e profano mostrano, infatti, parecchie tangenze con la Stanza di Innocenzo III nella Torre duecentesca del Palazzo Vaticano
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48. LA LUNETTA CON LA VERGINE, IL BAMBINO E SANTI SULL’ARCO DI CARLOMAGNO ALL’ABBAZIA DELLE TRE FONTANE Settimo-ottavo decennio del XIII secolo
L’affresco con la Vergine e il Bambino tra santi sulla parete nord-occidentale del muro che divide in due campate l’Arco di Carlomagno è oggi in condizioni talmente disastrose [1] che se non possedessimo l’acquerello dell’Eclissi che lo riproduce nella sua globalità (BAV, Barb. lat. 4402, f. 35 [2]), l’aspetto originario della composizione ci sfuggirebbe. Nella parte destra della scena sono riconoscibili due santi monaci stanti [3]: uno ha veste chiara e cappa bruna e con un libro tra le mani, mentre l’altro è sicuramente san Bernardo, come inequivocabilmente indica l’abito bianco tipico dell’Ordine cistercense, cui era stata affidata l’abbazia romana dal 1140. Inginocchiato ai piedi di quest’ultimo, nella tradizionale posa dell’offerente, troviamo il monaco donatore dell’opera; dall’altra parte della lunetta, in posizione perfettamente speculare, appariva il secondo donatore, del quale s’intravede ancora la sagoma accanto ad altre due figure stanti, rovinatissime, di cui resta solo qualche traccia della parte inferiore del corpo [1]. Come attesta la copia di Eclissi [2], al centro della lunetta c’era poi la Vergine in trono con il Bambino fra le braccia. Alla loro destra, le due figure quasi scomparse sono identificate nell’acquerello grazie alle iscrizioni come san Paolo e san Benedetto (Iscr. 1). Il primo regge la spada e un libro. Come quella della Vergine e il Bambino, anche la sua veste è rosa, mentre i frammenti ancora sopravvissuti appaiono oggi di tono violaceo, probabile risultato dell’alterazione del pigmento originario. Il secondo è vestito con l’abito scuro dei Benedettini e regge un libro. Un motivo ornamentale di tipo cosmatesco correva lungo l’arco della lunetta, come testimoniano entrambi i frammenti [1, 3]. Su una banda rossa circoscritta da una cornice bianca, si alternano tondi neri – anch’essi segnati da un bordo bianco – ed elementi cruciformi che si stagliano su rombi color ocra.
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(¤ 32b), e inducono a collocarla, tipologicamente, nell’ambito delle residenze urbane romane. I brani di pittura conservati sulle pareti sud, est e nord consentono di ricostruire l’assetto originario decorativo dell’ambiente. Le pareti sud e ovest presentano una decorazione analoga, mentre la settentrionale ha caratteristiche diverse, probabilmente dovute, come vedremo, a una cronologia di poco posteriore. Sia Mesnard che Piccolini vedevano nel terzo registro, al di sopra del velario dipinto e del fregio, grandi dischi dipinti a finto marmo (Mesnard 1935, 109; Piccolini 1953, 69). Le poche tracce conservate non sembrano confermare questa lettura e sorge il sospetto che i due studiosi abbiano confuso il corpo sferico dell’anfora, dipinta sulla parete est, e forse in origine anche sulla parete sud, con una decorazione a finte cruste marmoree. Il terzo registro, scandito dalla presenza delle quattro feritoie inquadrate da cornici rosse e verdi e dipinte a volute fitomorfe al loro interno, era diviso in riquadri di diversa larghezza, abitati da ampi girali d’acanto dai quali partivano fiori e grappoli d’uva, su fondo ocra, secondo un assetto decorativo assai vicino a quello del timpano del sottotetto dell’Aula Consiliare del Palazzo Senatorio (¤ 58). Lo stesso motivo a girali, fiori e grappoli era presente anche sul pilastro centrale, questa volta intorno agli stemmi gentilizi. Sulla parete occidentale, a ridosso dell’angolo con la parete sud e all’interno di una cornice rossa e verde, la decorazione continuava con la grande anfora, dalla quale dovevano partire, con sviluppo verticale, altri racemi con foglie e fiori rossi, non lontana da quella dei vasi dipinti negli spazi di risulta ai lati delle finestre del Sancta Sanctorum (¤ 60). Dal punto di vista formale, per la decorazione delle due pareti, i confronti più immediati possono essere istituiti con i velari dipinti nella Rotonda ai Santi Cosma e Damiano (¤ 44b), con le cornici a girali e fiori dello strombo della finestra (1266) del Salone di Clemente IV, nel Palazzo dei papi di Viterbo (Radke 1984, fig. 2; Monciatti 2005a, fig. 26) e della torre abbaziale di San Saba (¤ 37). Con quest’ultima la cornice dell’ambiente annesso a San Crisogono condivide il fondo bianco e la bicromia verde-nera delle foglie 282 SAN CRISOGONO
d’acanto. Per quanto riguarda la decorazione del pilastro a volute e stemmi, dei quali risulta ancora ignota la famiglia trasteverina di appartenenza, il rimando, già proposto da Mazzocchi, è quello al fregio di uno degli ambienti di Palazzo Saragona-Albertoni (¤ 56) a cui aggiungiamo il confronto con gli stemmi dipinti nella volta della cappella di Santa Barbara ai Santi Quattro Coronati (¤ 64). Per la decorazione delle pareti sud e ovest, pertanto, è possibile proporre una datazione al sesto-settimo decennio del XIII secolo. Per quanto riguarda la decorazione conservata sulla parete nord dell’aula, come già accennato, siamo in presenza di una pittura diversa da quella incontrata sulle pareti appena descritte. L’intonaco è sottilissimo, quasi uno scialbo, dato direttamente sulla muratura; la tavolozza dei colori è ridotta drasticamente ai soli ocra, rosso e nero. Lo stemma araldico di un’unica, ignota, famiglia, la stessa effigiata sul pilastro della parete meridionale, si allarga nelle forme dello scudo e viene proposto, all’interno del fregio, come un elemento decorativo reiterato in una serie di diverse declinazioni. La cornice a girali ocra e piccoli fiori rossi, appare più secca e stilizzata rispetto alla compagna dipinta sulle altre due pareti dell’aula. Questi indizi inducono a proporre una posticipazione di questa decorazione ad anni di poco più tardi rispetto alla precedente. La perdita pressoché totale dell’intonaco dipinto sulla parete, non consente, inoltre, di ricostruire l’estensione originaria della decorazione e di stabilire se quest’ultima fosse stata limitata al solo fregio conservato, o se si estendesse per tutta l’altezza della parete settentrionale.
Iscrizioni Parete orientale 1 - Due iscrizioni identificative, già disposte in una fascia rettangolare alla base della scena, sotto le figure dei santi, allineate su una riga secondo un andamento rettilineo. Perdute. 1a - S<anctus> Benedictus 1b - S<anctus> Paulus
Trascrizioni dal disegno acquerellato di Antonio Eclissi, BAV, Barb. lat. 4402, f. 35r. (S. Ric.)
Note critiche
La storia critica delle pitture con la Vergine e il Bambino tra santi risente almeno in parte della confusione che si è creata intorno ad alcune indicazioni fornite dalle fonti. Se effettivamente, la dichiarata appartenenza del ritratto di Onorio III pubblicato da Séroux d’Agincourt, alle «pitture interne della porta principale dell’abbazia delle Tre Fontane» (Séroux d’Agincourt 1829, 177) sembra proprio riferirsi all’Arco di Carlomagno – anche quando parla dei dipinti con la Leggenda di Ansedonia (¤ 6) egli menziona la «porta principale dell’abbazia» (ibid., 169 e 177) lasciando poco spazio ai dubbi – non pare possibile, com’è già stato dimostrato da Bertelli (Bertelli 1978, 76-77), ipotizzare un legame tra Onorio III e le pitture che qui si studiano (De’ Maffei 1970, 374-375). Nessun papa, infatti, appare nei frammenti che restano, né tanto meno nella copia seicentesca dell’Eclissi che riproduce l’affresco prima che cominciasse a deteriorarsi. A quali dipinti il Séroux d’Agincourt alludesse, non ci è dato sapere, nessuno di quelli che ora si conservano nell’Arco di Carlomagno presenta o presentava figure corrispondenti a quello in questione, facendo ritenere si tratti di un errore (Bertelli 1978, 77; Ladner 1984, 127-128). Inoltre, i pochi elementi ancora leggibili non sembrano compatibili con una datazione al tempo di Onorio III: la distanza che li separa da quelli con la Leggenda di Ansedonia (¤ 6) è molto maggiore, essendo tra l’altro dipinti su uno strato di intonaco ad essi sovrapposto. Il pessimo stato di conservazione dei dipinti rende alquanto difficile l’analisi stilistica; la forte goticità delle silhouettes dei donatori, che si stagliano sinuose sullo sfondo della scena [3], ben si adatta effettivamente alla cronologia proposta da Bertelli alle soglie degli anni Settanta, nonostante i confronti con la miniatura parigina dell’epoca di Luigi IX appaiano forse un po’ fuori misura considerando lo stato quasi larvale dei dipinti romani (Bertelli 1978, 77). Anche la maniera già ‘naturalistica’ di condurre il panneggio, si veda il frammento – l’unico ancora analizzabile – della manica del monaco al fianco di san Bernardo [3], parla in favore di una datazione a quest’altezza cronologica;
Bibliografia
Marucchi 1911, 19-20; Marucchi 1915-1916, 64-65; PasiniFrassoni 1914, 419-422; Mancini 1923-1924, 151-152, 159; Mesnard 1935, 108-111; Piccolini 1953, 68-69; Luciani-Settecasi 1996, 28-30; Mazzocchi 2007, 258-260. Giulia Bordi
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l’impiego del verdaccio, poi, ancora visibile sul volto e le mani di san Bernardo, comincia a diffondersi proprio a quest’epoca: ne sono un esempio gli affreschi con la Crocifissione di Santa Prassede (¤ 46) e quelli, di egual soggetto, nella chiesa di Santa Balbina (¤ 52) la cui cifra stilistica, tuttavia, non è paragonabile con quella delle pitture che qui si studiano. Appare precoce l’utilizzo di apparati decorativi a motivi cosmateschi che a Roma avranno un episodio importante alla fine del decennio nel Sancta Sanctorum (¤ 60). L’identificazione del monaco a fianco di san Bernardo con sant’Anastasio, patrono dell’abbazia romana insieme a san Vincenzo (Bertelli 1978, 77), sembrerebbe la più plausibile: il martire persiano è spesso rappresentato come un monaco con barba e capelli bianchi (Kaftal 1965, 51-52), come il personaggio che compare nell’affresco e nell’acquerello seicentesco. Potrebbe contrastare con questa interpretazione il dettaglio del libro, attributo solitamente riservato a santi i cui scritti sono stati fondamentali per la costituzione della religione cristiana. Difficile fare altre congetture: i santi rappresentati – eccezion fatta per san Benedetto, presenza ben spiegabile in un monastero cistercense – sono tutti connessi alla storia dell’abbazia romana e
49. GLI AFFRESCHI NEL SOTTOTETTO DELLA BASILICA DI SANT’AGNESE FUORI LE MURA
nessun altro santo venerato alle Tre Fontane sembra corrispondere a quello che si vede nelle pitture dell’Arco di Carlomagno. Probabilmente lo stesso personaggio compariva anche nelle pitture del portico della basilica, più tarde: una delle copie dell’Eclissi (BAV, Barb. lat., 4402, f. 43) mostra infatti un monaco – all’epoca già senza testa – vestito esattamente nello stesso modo di quello della lunetta con la Vergine e il Bambino, con una tunica bianca e una cappa bruna.
Settimo-ottavo decennio del XIII secolo
Documentazione visiva
Antonio Eclissi, disegno acquerellato (1630 ca.), BAV, Barb. lat. 4402, f. 35.
Bibliografia
De’ Maffei 1970, 374-375; Bertelli 1978, 77; Tempesta 1995, 203204; Barclay Lloyd 1997, 308; Barclay Lloyd 2006, 27, 230-231; Pogliani, in Atlante I (¤12). Irene Quadri
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Il soffitto ligneo fatto realizzare nel 1606 dal cardinal Sfondrati (Panciroli 1625, 314; CBCR 1937, I, 18) ha risparmiato nell’attuale sottotetto della chiesa ampi frammenti di una decorazione pittorica che si pubblica qui per la prima volta nella sua integralità. I dipinti conservati si trovano sul timpano al di sopra dell’abside, su quello di controfacciata, e sulla parete sinistra della navata, mentre nessuna traccia esiste sulla parete destra che aveva subito molti rifacimenti durante i radicali lavori di sterro e rimaneggiamento promossi dal cardinale Alessandro de’ Medici nel 1600, e poi forse altri interventi ancora, ad esempio dopo il 1870 quando una bomba sfondò il soffitto ligneo della basilica (Ferrua 1969; Magnani Cianetti 2004). Il timpano absidale [1] è occupato al centro da un piccolo oculo, oggi allargato e cementato; la decorazione si svolge tutt’attorno. Il fondo del timpano è bianco, come simulante il vuoto, e attraversato in diagonale da una sorta di gigantesca travatura, dipinta in rosso intenso, che parte da sotto l’oculo e va a innestarsi con un realistico ingrossamento finale nella fascia che borda in alto il timpano, dipinta in ocra intenso e orlata da strani motivi come di sottili fogliette nere con puntini bianchi. L’oculo è circondato da un bordo a fregio geometrico segmentato giallo ocra e rosso mattone, fingente una prospettiva che veristicamente si svolge secondo la curva dell’apertura; gli spessori triangolari e il fondo grigioazzurro sono anch’essi puntinati in bianco [2]. Nella fascia in basso, che corrisponde alla sommità della parete, compare invece una robusta serie di mensoloni con architrave all’antica [15-16], con specchiature in finto porfido, fregi cosmateschi, un motivo
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a rombi con foglia d’oro sulla fronte dell’architrave, e soffitto cassettonato all’antica in scomparti quadrati con rosetta centrale. È dipinta nei toni dell’ocra e del rosso porpora su bianco, con forte scorcio orientato verso destra: vista dal basso doveva avere un effetto prospettico molto imponente. Anche il timpano sopra la parete di controfacciata ha conservato la decorazione, del tutto diversa dall’altra [3]. Il fondo è dipinto in color giallo uovo, bordato da una fascia grigio-verde e da un’altra, più larga, rosso mattone, ambedue orlate di bianco, che seguono il profilo del triangolo e accompagnano la curva dell’oculo. Nei due campi, due pavoni elegantissimi [4, 5], dal corpo blu con tocchi verdi sulla pancia, e ali verdi su cui l’andamento del piumaggio è disegnato in ocra e doveva essere un tempo accompagnato dal bianco di calce; la lunghissima coda [6], usata per occupare lo spazio sempre più stretto del resto del timpano, è fatta di piume ocra, in cui gli ‘occhi’ sono segnati con una sorta di mezzaluna bianca con aggiunta di tocchi blu; altri tratti bianchi segnano gli steli delle piume, e altri blu/grigi movimentano l’andamento del piumaggio. Il collo azzurro dei pavoni, inarcato all’indietro, si conclude in una piccola testa ornata di una piuma pure azzurra; il collo si inarca perché nel becco bianco disegnato di rosso gli animali tendono una specie di nastro, o di cordone a pompons alternativamente bianchi e rossi, concluso da un motivo a campana come nei cordoni delle tende; il nastro si svolge poi al di sotto dell’oculo e si intreccia nel punto più basso, un’idea di ornamentazione di grande finezza e allegria decorativa non altrove attestata nei repertori romani, o affine alla lontana ai delfini intrecciati sui campi narrativi del Sancta Sanctorum (¤ 60). Il coronamento della parete è costituito da un grande fregio [13] orlato di una spessa banda rosso mattone e delimitato all’interno da una striscia bianca decorata da motivi alternati rosso mattone, 286 SANT’AGNESE FUORI LE MURA / ATLANTE I, 5
a tre lobi, sorta di redazione arrotondata delle ‘semicrocette’ ben note nei repertori della pittura murale romana come anche di quella su tavola dell’Italia centrale. Il fregio è di tipo vegetale [8, 9, 10, 11], con motivi a foglie spinose simili all’acanto strette al gambo e sboccianti con andamento simmetrico, alternati ad altri a foglie più piccole e gigliate sparse su gambi attorti e ricurvi, tutte bianche ma nervate all’interno da pennellate blu, verdi o rosse. Questi motivi vegetali sono campiti su fondi dipinti negli stessi colori di terre usati nel resto della decorazione, rosso mattone, verde acqua, azzurro intenso, particolarmente brillanti e ben conservati, e accostati senza troppe preoccupazioni di simmetria tra uno spiovente e l’altro del timpano. I pittori hanno usato una soluzione particolarmente raffinata per passare da un campo all’altro, e da un colore all’altro: i bordi di ogni campo infatti sono accompagnati da motivi fogliati in ocra con nervature più scure e profili a bianco di calce, che si avvolgono e si attorcigliano [9] come fossero di carta leggera, o come se i campi azzurri e verdi costituissero altrettante finestre alternate ai più solidi settori in rosso mattone. La travatura del soffitto mostra di aver subito restauri e modificazioni nel tempo, perché le travi entrano oggi in rottura nella superficie dipinta in una serie di punti, in modo rozzo e lesivo dell’unitarietà del fregio: in altri punti, invece, si vede come il fregio stesso includesse campi quadrangolari bordati dal motivo a tre lobi sopradescritto, una sorta di manicotti [11] che, credo, in origine volevano orlare i fori dei sostegni del tetto, e così infatti li incide Vespignani, prima, evidentemente, dei restauri al tetto (Doc. vis.). Anche lo spessore dell’oculo [10] è decorato da un tralcio vegetale che si avvolge, intervallato da una sorta di phalera; tra le foglie, simili nel disegno a quelle dell’altro fregio, spuntano riconoscibilissime melagrane giallo oro [12] con tocchi più verdastri o più arrossati, in sostanza un festone di frutta e
fiori come quelli ben noti nei bordi dei mosaici palecristiani e medievali, San Clemente, Santa Maria in Trastevere e Santa Maria Nova ad esempio (Corpus IV ¤ 32, ¤ 55, ¤ 58). Più in basso, al di sotto del timpano, si è conservata anche l’alta fascia con il motivo a meandro attestato anche nell’incisione di Vespignani [14] (Doc. vis.), pubblicata e commentata da Bartolini (1858) che conosce la chiesa prima e dopo il restauro di Pio IX nel 1855-57. La definizione di ‘meandro’ è in parte impropria, perché si tratta piuttosto di una sequenza di elementi rossi a forma di croce, intervallati da altri posti in verticale e integrati da ulteriori elementi in diagonale, tutti forniti di indizi prospettici che ne denotano lo spessore, come una sorta di organismo ligneo a robusta ancorché non interamente credibile orditura. Questo medesimo motivo orlava le pareti laterali, e si è conservato, molto danneggiato, sulla parete sinistra: Vespignani e Bartolini attestano però solo i resti sulla parete di controfacciata. Le fotografie della Soprintendenza ai Monumenti, scattate nel 1930 circa, presumibilmente nel corso di lavori di sostegno al tetto, documentano solo i due semi-timpani con i pavoni.
un scalino (?) di qua e di là Santa) Cat(erina) V(ergine) e m(artire) S.Agnese e S.P.(ietro?)», facendo intendere si tratti di dipinti murali (Claussen 2002, 52, nota 4, lo interpreta quale decorazione dell’esterno della chiesa: ma la sequenza dell’intero testo mi sembra faccia pensare piuttosto alla descrizione dell’interno). In ambedue i casi, è certo che l’arco absidale era decorato, ed è ovvio che lo fosse: è al di sopra di questo insieme decorativo già esistente che si innesta l’impresa duecentesca, la quale quindi, almeno in questo punto, è sopravvissuta praticamente per intero, e non implicava
Note critiche
Il dispositivo ornamentale ritrovato nel sottotetto di Sant’Agnese era destinato, almeno nella parte al di sopra dell’abside, a confrontarsi con l’apparato musivo absidale, quindi con la cromia e i riflessi luminosi del fondo oro e delle ascetiche figure che davanti ad esso si stagliano. Il Milesi (BNN, Ms. Brancacciano 1F1) testimonia mosaici anche sull’arco absidale, ma l’Ugonio (Theatrum Urbis Romae, BCAF, f. 966) dice «Di fuor’ la tribuna il muro i(n) faccia è dipinto co(n) l’imagine pur di esso Honorio a destra simile a quello del mos(ai)co. A sinistra similm(en)te sopra
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ulteriori registri, iconici o narrativi. Nulla si sa della controfacciata; invece, le fonti testimoniano molti dipinti negli “interstizi”, dunque negli spazi di risulta tra le arcature delle gallerie, che dovevano contenere le storie delle protagoniste femminili, da Agnese a Costanza a Emerenziana, affrontate forse ad un ciclo di storie apostoliche. Ma è impossibile oggi sapere se si trattasse del restante programma duecentesco, e se quindi dobbiamo pensare di aver perso una parte sostanziosa del programma pittorico cui sono pertinenti i dipinti oggetto di questa scheda (per le fonti e la loro interpretazione: Claussen 2002; Romano 2008a). La basilica era annessa ad un monastero femminile, che aveva la responsabilità della sepoltura della santa e ne curava la tomba. Durante l’alto Medioevo erano forse monache greche (Mabillon 1687 [1724], 81-83; Frutaz 1969, 67); non si sa se il monastero fosse diventato maschile nel X secolo, quando fu riformato da Oddone di Cluny. Lo era alla fine dello stesso secolo quando fu intitolato a sant’Agnese e santa Costanza; dopo un’epoca di decadenza, nel 1112 Pasquale II vi sistema le suore benedettine (Frutaz 1969, 68). Sono queste monache ad essere le protagoniste della grande fase duecentesca della basilica e del monastero, così come l’ha rintracciata Claussen (2002) e come gli affreschi illustrano. Dopo gli anni federiciani infatti, durante i quali pare che il monastero abbia sofferto attacchi e distruzioni (Cecchelli s.d. [1925], 17), la basilica è oggetto di molti lavori, e nel 1256 il papa Alessandro IV celebra la consacrazione di tre nuovi altari, di san Giovanni Battista e san Giovanni Evangelista alla fine delle navate laterali, e di sant’Emerenziana presso il muro di recinzione del coro, lì dove si credeva la santa avesse subito il martirio della lapidazione. L’abbondanza di rivestimenti marmorei e di colonne di porfido è raccontata da tutte le fonti quattro-cinquecentesche (in Claussen 2002, 51-65). La cerimonia di consacrazione fu fastosissima ed è attestata dall’epigrafe oggi affissa alla parete dello scalone. Era il 28 aprile, giorno della festa di san Vitale dalla cui basilica dipendeva 290 SANT’AGNESE FUORI LE MURA / ATLANTE I, 5
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Sant’Agnese, e accanto al papa erano presenti tutti i cardinali ad eccezione di Riccardo Annibaldi: dunque l’ungherese Stefano da Vancsa, cardinal-vescovo prenestino, Eudes di Châteauroux, cardinal-vescovo tuscolano; i due cardinali-preti, Ugo di Saint Cher e Giovanni di Toledo, e i quattro cardinali diaconi, Giovanni Gaetano Orsini futuro Niccolò III, Pietro Capocci, Ottaviano Ubaldini, e Ottobono Fieschi futuro Adriano V. Oltre a due vescovi non identificabili e ad alcuni «religiosi viri honesti», dunque cittadini in vista e di elevata reputazione, c’erano poi le monache al gran completo: l’epigrafe nomina la badessa, Donna Lucia, la priora, Theodora, e infine Domna Jacoba devota moniali sacrista (la lettura dell’epigrafe è di Claussen 2002, 55, che corregge la precedente di Forcella 1877, XI, 350). La densità di personalità curiali, tra cui sono presenti tutti i maggiori protagonisti della politica e anche della cultura duecentesca curiale (Eudes, l’Orsini, l’Ubaldini, il Capocci, il Fieschi) tra cui, appunto, due futuri papi, dice molto sulle connessioni ‘politiche’ della comunità religiosa e sullo status sociale delle monache. Esse non hanno bisogno, notiamo, di presenze maschili intermediarie, quali preti o prepositi; sembrano trattare direttamente, e da pari a pari si potrebbe dire, con i più alti gradi della gerarchia ecclesiastica. Forti, probabilmente, della responsabilità della tomba di Agnese, che dà loro lustro e nobiltà; ricche, si deve pensare, almeno alcune, tra le quali certamente era la devota sacrista Jacoba, che dona il nuovo arredo liturgico della basilica, come attestano le epigrafi sopravvissute o documentate. La menzione di una sacrista in una lapide di consacrazione è a mia conoscenza un unicum: che certo si deve allo status sociale di Jacoba (“domna”) e al suo ingente impegno finanziario per la chiesa. Oltre all’epigrafe di consacrazione infatti, una seconda iscrizione era apposta sulla recinzione presbiteriale, architravata su dieci colonne e cosmatesca: il nome di Jacoba non è conservato, ma l’epiteto devota sacrista fa pensare a lei (...EST ...UT.. DEDIT SANT’AGNESE FUORI LE MURA / ATLANTE I, 5 291
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OP HOC DEVOTA RCSITA [Claussen legge “SACRISTA”] ... SISSA [“ABATISSA”?] CUDG... ERE... OLET ...E ...EG ...TU ... HONORE: Ugonio, Theatrum Urbis Romae, BCAF, f. 1109; Claussen 2002, 58). Una terza è testimoniata da Panvinio (BAV, Vat. lat. 6780, f. 278; Claussen 2002, 61-2): ODERICIUS STEPHANI FECIT HOC OPUS DOMI(NA) JACOBA DEVOTA SACRISTA, situata nel pavimento presbiteriale o, forse meno probabilmente, nel matroneo: ne rimane un frammento murato nella parete dello scalone, ... FECIT HOC / ... TA SACRISTA. Jacoba, insomma, lascia più volte il proprio nome nella chiesa, come aveva fatto più di un secolo prima Alfano in Santa Maria in Cosmedin, anch’egli donatore dell’arredo liturgico (Giovenale 1927). È probabile che questi arredi lussuosi siano stati approntati per la cerimonia di consacrazione: nelle scritte spicca il nome di Odericius Stephani, il marmoraro che nel 1268 firma a Westminster il pavimento cosmatesco con la lunga iscrizione, nel santuario pronto a ricevere le tombe di Edoardo il Confessore e di Enrico III (Wander 1978; Claussen 1987, 172-173; Binski 1995, 97; Westminster Abbey 2002). Se l’iscrizione era stata apposta anche a Sant’Agnese su un pavimento, la coincidenza diviene molto interessante. E non è affatto inverosimile che Richard de Ware, l’abate inglese donatore del pavimento di Westminster, abbia incontrato personalmente Oderisio a Roma, forse proprio a Sant’Agnese, durante il viaggio compiuto nel 1260 per essere confermato nella carica dal papa, e vi abbia avuto l’idea del pavimento-tappeto nel santuario (Romano 2008a). Questa lunga premessa serve a inquadrare l’impresa pittorica della basilica in tempi strettamente connessi a questi eventi così descritti, e a motivarla con le medesime ragioni di decoro e di splendore dell’edificio delle monache. Non sappiamo se Jacoba abbia vissuto a lungo al monastero, e abbia completato la propria opera rendendo possibile anche l’intervento pittorico; è però plausibile che il programma liturgico e decorativo sia stato 292 SANT’AGNESE FUORI LE MURA / ATLANTE I, 5
concepito a partire dalla data cardine del 1256 e si sia svolto poi nel tempo, passando via via a interessare gli ambienti del convento, come attestano le più tarde decorazioni che stanno ancora venendo alla luce mentre questo volume si conclude. I dati desumibili dall’analisi degli affreschi sono in parte chiari, in parte difficili da definire con precisione: cominciamo dai primi. I dipinti vivono di un rapporto complesso con i mosaici poco distanti. I motivi scelti per la parete absidale sembrano contrapporsi in modo deliberato e quasi provocatorio alla cifra stilistica del mosaico altomedievale: quanto in questo le notazioni spaziali sono annullate o ricondotte ad un’espressione graficizzata e bidimensionale, altrettanto audacemente prospettica è la terminazione duecentesca, che nel timpano sembra voler aprire la parete simulando la continuazione delle travature del tetto come ‘a vista’, e poi, subito sotto, allinea l’architrave e i mensoloni aggiungendo all’insieme una notazione anticheggiante e aulica. L’effetto d’insieme della parete doveva risultare un assoluto unicum rispetto a tutto quanto conosciamo della Roma medievale. Sulla parete di controfacciata la scelta dei motivi è stata tutt’altra. I pavoni, il festone di frutta e foglie dell’oculo, sono elementi ben noti nei repertori iconografici dei mosaici paleocristiani e medievali, a Roma e fuori di Roma; è ovvio però che appartengono pienamente al linguaggio figurativo del Duecento romano. La redazione dei motivi vegetali è infatti coerente, anche se non identica, a quella dei molti altri episodi noti nelle chiese romane. La foglia gigliata, che ha ormai lontana origine monrealese, è già in esempi della prima metà del secolo: già ad Anagni (Bianchi 2003), a Santa Maria Nova (¤ 33), ai Santi Quattro (¤ 30), ancora a Santa Passera (¤ 50) e San Saba (¤ 66); le altre efflorescenze richiamano soprattutto, per la libertà e la ricchezza delle variazioni, l’Aula ai Santi Quattro (¤ 30a) – dove è usato in certa misura anche lo stratagemma della foglia avvolta che media il passaggio da un campo all’altro del fregio – ma è evidente che motivi analoghi esistono nei casi citati,
nonché nel grande fregio della Rotonda ai Santi Cosma e Damiano (¤ 44c) e anche nell’affresco del 1256 ai Santi Giovanni e Paolo (¤ 34c). A Sant’Agnese, i motivi hanno completamente perso la rigidità e l’andamento paratattico dei modelli bizantini originari; la ‘scrittura’ a punta di pennello bianco, che orla le foglie e i gambi, ora non appare più un manierismo, ma un modo per alleggerire e movimentare il disegno. La parete ha subito molti danni, ma la superficie pittorica è intoccata da restauri e ridipinture: e averla vista così da vicino ha permesso di studiarne le singole pennellate, i trucchi, le sottili abilità, come nel nastro pieghettato attorno all’oculo absidale – versione movimentata di quelli dell’oratorio a San Sebastiano (¤ 15) e di San Basilio ai Pantani (¤ 20) – in cui si vede come il pennello intriso di colore riquadri prima il perimetro del campo colorato e poi riempia dentro, rapidamente, lasciando anche strisce più chiare, chissà se per evitare campiture noiosamente compatte o per pura nonchalance. La totalità dei motivi appare tracciata a mano libera, senza traccia di troppo rigidi strumenti di ripetizione, calchi, patterns, inutili probabilmente per professionisti del mestiere e dell’esperienza dei pittori romani, e i gruppi di fregi vegetali si svolgono in una sequenza asimmetrica sui due spioventi del timpano. Rispetto ai loro antenati musivi, o anche agli altri affrescati, e oggi quasi perduti, delle navatelle di San Clemente (Corpus IV ¤ 39), i pavoni sono più naturalistici nel movimento del collo e nella zampa [7] realisticamente disegnata, almeno quanto i loro colori sono poi irreali e giocosi. Così, fra tendenza ad uno sciolto naturalismo e uso irreale e fiabesco del colore sono dipinte anche le foglie del grande fregio vegetale; e i contrasti di bianco, azzurro e verde, la libertà del fogliame, richiama in certi punti l’ispirazione anch’essa fiabesca e irrealistica del pittore inglese del transetto settentrionale di Assisi, il quale, certo, usava una diversa tecnica a secco, ma aveva immaginato le superfici dipinte della basilica come un trionfo di cromie impossibili su motivi disegnati in modo perfettamente fedele al vero (Romano 2001a; Ead. 2003b). La cifra di questa bottega sembra essere, in sostanza, l’alternanza tra due diverse ‘chiavi’: la sensibilità inventiva e giocosa, che guida le figure dei pavoni e le fioriture vegetali del timpano, illusiva in modo acuto e leggero specialmente tramite il cromatismo acceso
e brillante; e l’altra illusività, architettonica, quasi metafisica, delle false travature sul fondo vuoto, che si sovrappongono alla classicissima e prospettica fila di mensoloni classici incrostati di porfido. Le finte travature erano finora sconosciute in tutto il vocabolario della Roma medievale, che pure costantemente usa la pittura per suscitare effetti di rilievo e spazio illusivi; richiamano semmai gli elementi sporadicamente prospettici che affiorano tra i motivi vegetali del transetto destro di Assisi, sempre giudicati un po’ sorprendentemente italici in confronto alla cultura anglofrancese della bottega nordica. Il meandro che cinge la basilica sembra una forzatura illusiva del motivo abbastanza simile attestato nell’Aula ai Santi Quattro. I mensoloni della parete absidale invece sono i più somiglianti fratelli di quelli che Cimabue dipinge ad Assisi, nel transetto e nel coro, ad una data che chi scrive ritiene ancorata al pontificato di Niccolò III, 1277-1280 circa (Romano 2001a; Bellosi 1998 per la datazione agli anni di Niccolò IV, 12881292). Non è sbagliato considerare che i mensoloni di Sant’Agnese possano essere un riflesso dell’invenzione cimabuesca assisiate, come quelli, tanto più goffi, della IV navata di San Saba (¤ 66): un caso di importazione di gusto, che comunque fisserebbe la data degli affreschi di Sant’Agnese ai primi anni Ottanta al più presto. Tuttavia, e anche sulla base dei dati più sopra riportati e relativi alla presenza di Oderisio tra la basilica e Westminster, bisognerà mantenere in piedi l’altra possibilità, che non sconverrebbe ai modi del fregio vegetale: se il complesso pittorico di Sant’Agnese dovesse precedere l’impresa del transetto assisiate, Roma, nei suoi più elitari foyers, accanto ad Assisi, e prima di Assisi, sempre più diverrebbe il luogo di elaborazione dei molti elementi che poi, in pochi anni, andranno a confluire nel bacino della formazione di Giotto.
Interventi conservativi
1606: il soffitto ligneo fatto realizzare dal cardinal Emilio Sfondrati occlude il sommo delle pareti e i timpani affrescati. 1930 ca.: lavori al soffitto della SBAP e documentazione fotografica.
Documentazione visiva
Virginio Vespignani, incisione, BIASA, Racc. Lanc., Roma XI, 44, f.43; SBAP, due fotografie 1930ca.
Bibliografia
Bartolini 1858, 122; Romano 1989b, 254; Romano 1992, 43; Romano 2008a. Serena Romano SANT’AGNESE FUORI LE MURA / ATLANTE I, 5 293
50. L’ABSIDE DI SANTA PASSERA Terzo quarto del XIII secolo
Gli affreschi tardoduecenteschi che decorano, ricoprendoli interamente, l’abside e l’arco absidale dell’aula superiore di Santa Passera sono riferibili ad almeno due fasi distinte di esecuzione. Di queste, solo la più antica – che coincide con la decorazione ad affresco della calotta absidale – può essere compresa nella periodizzazione proposta da questo volume. L’affresco raffigura una scena a carattere teofanico [1]. Al centro è la grande figura del Cristo, rappresentato stante con la mano destra benedicente e con un rotulo nella sinistra. I tratti del viso sono illeggibili a causa delle vaste efflorescenze e delle cadute d’intonaco che interessano la superficie pittorica; e anche il resto della figura è ridotto ad una sagoma in cui le parti medievali appaiono oggi di colore rosso. Quattro altri personaggi si dispongono ai lati del Cristo, da cui sono separati per mezzo di due palmette stilizzate, san Paolo alla destra del Redentore e san Pietro alla sinistra, seguiti rispettivamente dai santi Giovanni Battista ed Evangelista. San Pietro, dal viso barbuto e dalla folta capigliatura grigia, è raffigurato con la mano destra aperta e rivolta verso il Cristo in gesto di presentazione, mentre la sinistra – ora quasi completamente scomparsa – stringeva in origine un rotulo chiuso, come si ravvisa nell’acquerello di Eclissi [2] (Doc. vis.). Ha tunica azzurra e manto marrone dei quali è ancora possibile apprezzare, nella porzione superiore, la resa delle pieghe e delle lumeggiature [3]. Il san Giovanni Evangelista è invece giovane ed imberbe ed è rappresentato in posizione del tutto analoga al san Pietro, in atto di sorreggere un calice dorato nella mano destra. Le vesti – una tunica azzurra ed un manto rosso – sono interessate da intense lumeggiature bianche in corrispondenza dei rigonfiamenti del tessuto. Un’analoga scelta di colori è stata operata per gli abiti del san Paolo, il viso e le mani del quale sono però quasi interamente scomparsi: si distinguono difatti a malapena un rotulo nella mano sinistra ed il profilo verticale di una spada nella destra. La figura del Battista è la più compromessa: del volto, attraversato da una grande lacuna, si indovinano unicamente la capigliatura nera e la tonalità dell’incarnato, più scura rispetto a quella degli altri personaggi. La mano destra è interamente scomparsa, così come il clipeo con l’Agnello che il santo teneva nella sinistra (Doc. vis.); degli abiti si possono distinguere unicamente i colori di fondo – rosso per la tunica e marrone chiaro per il manto di pelliccia. Lo sfondo dell’affresco si compone di una fascia inferiore color ocra, sulla quale poggiano i piedi dei personaggi, a cui si sovrappone una doppia fascia – rossa con una greca bianca all’esterno, verde all’interno – che segue il profilo della conca racchiudendo il restante campo di colore blu. Nel profilo interno dell’arco absidale sono due vasi dai quali nascono fregi vegetali a motivo gigliato su fondo nero.
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svolta da tre allieve dell’Istituto Centrale del Restauro (Bianchi et al. 1984-1985), che ha portato a riferire gli affreschi a tempi d’esecuzione diversi. Più recentemente, la datazione avanzata da Matthiae – accolta inizialmente da Francesco Gandolfo (1988) e, con qualche precisazione, anche da Serena Romano (1992) – è stata confutata da Simona Manacorda (1994). Secondo quest’ultima l’affresco della calotta sarebbe da datarsi tra il secondo ed il terzo decennio del Duecento, sotto l’influsso stilistico dei mosaici absidali primoduecenteschi vaticano e ostiense. In realtà, i dati stilistici dell’affresco non concordano con quanto si conosce della cultura pittorica romana della prima metà del
Note critiche
La vicenda critica della decorazione absidale di Santa Passera prende forma in seguito ai lavori di restauro eseguiti nel 1960, nel corso dei quali sono state eliminate le pesanti ridipinture che occultavano buona parte degli affreschi medievali. I termini essenziali della questione sono posti da Guglielmo Matthiae (1966a [1988]) il quale, pur notando una cesura stilistica tra l’affresco della conca absidale e quelli del catino, riferiva l’insieme della decorazione all’ultimo quarto del XIII secolo. La distinzione tra la decorazione della conca e quella dell’emiciclo è stata invece confermata dall’analisi della superficie pittorica, 294 SANTA PASSERA / ATLANTE I, 9
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secolo. Nei volti dei personaggi portuensi non vi è traccia di quella particolare resa degli incarnati – caratterizzata da un articolato sistema di rughe e di ombreggiature – comune invece a molti brani pittorici romani della prima metà del secolo, dal mosaico ostiense (¤ 8) fino all’affresco dei Santi Giovanni e Paolo (¤ 34c), passando per la decorazione della cappella di San Silvestro ai Santi Quattro Coronati (¤ 30f). Nell’affresco di Santa Passera i visi esibiscono un modellato più uniforme, caratterizzato da un trapasso di colori più graduale. Si tratta di una tecnica d’esecuzione ravvisabile anche in alcune testimonianze pittoriche della seconda metà del secolo, come il Convito a casa di Simone della Rotonda presso i Santi Cosma e Damiano (¤ 44c): l’affresco di Santa Passera condivide con questi dipinti l’intento volumetrico ed il sistema di intense lumeggiature bianche, ma appare già più maturo, così da indurre ad una datazione più spostata verso la fine del settimo decennio del secolo o l’inizio di quello successivo. Da questa datazione emerge chiaramente la discrepanza tra lo stile e l’iconografia dell’affresco, decisamente arcaicizzante quest’ultima se confrontata con le soluzioni presentate dalle altre decorazioni absidali duecentesche romane; così che si può in effetti pensare che in occasione dell’intervento si sia deciso di reiterare la composizione di una più antica figurazione esistente nella calotta (Romano 1992), forse contemporanea agli affreschi altomedievali ancora visibili nella chiesa. A ciò si lega la questione della possibile origine di questo schema iconografico, il quale sembra discostarsi da quelli, più comuni nella tradizione romana, in cui singoli motivi iconografici d’estrazione paleocristiana – riconducibili ai ‘tipi’ dei Santi Cosma e Damiano e di Sant’Andrea in Catabarbara – vengono inseriti in contesti rinnovati. Rispetto a questa linea forte dell’immagine teofanica romana, la composizione di Santa Passera pare invece subire la pressione di uno specifico modello iconografico che, anche in considerazione dell’ubicazione geografica della chiesa, vicinissima alla basilica ostiense, si è tentati di ipotizzare potesse essere quello del mosaico absidale pre-onoriano di San Paolo fuori le mura. Non vi sono fonti che possano testimoniare cosa raffigurasse questo mosaico prima dell’intervento duecentesco; è tuttavia probabile che – analogamente a quanto sembra si sia verificato pochi anni prima con l’intervento innocenziano in San Pietro (Iacobini 1997) – all’atto di rinnovare il mosaico si sia deciso di riprendere la partitura iconografica di quello che doveva già esistere nell’abside; le maggiori innovazioni avrebbero interessato quindi la figura del Cristo e quella del papa committente, entrambi raffigurati secondo canoni estranei alla tradizione precedente. L’ipotesi di una derivazione dell’originario affresco absidale di Santa Passera dal mosaico di San Paolo è certo di difficile verifica: delle quattro decorazioni absidali chiamate in causa, due – le primitive Santa Passera e San Paolo – sono solo ipotesi di lavoro basate sulla probabilità che le rispettive originarie composizioni siano state riprese nelle redazioni duecentesche, con variazioni di diversa intensità. Tuttavia, confrontando le due redazioni a noi pervenute, e tenendo conto del fatto che la figura del Cristo, oggetto di modifiche nel mosaico ostiense, è stata invece mantenuta in posizione stante nell’affresco di Santa Passera, le affinità che emergono sembrano interessanti, e si riscontrano sia in aspetti d’insieme – in particolare l’applicazione del medesimo schema iconografico a cinque personaggi – che in altri più specifici, come l’analogia di gesti e posture di singoli personaggi, in particolare dei due alla sinistra del Cristo. Alla luce di queste considerazioni è plausibile pensare che il testo figurativo ripreso nell’affresco duecentesco di Santa Passera costituisse a sua volta una citazione dell’antico mosaico absidale di San Paolo fuori le mura. Se così fosse, il recupero a Santa Passera di una redazione pittorica già in situ, fornirebbe al contempo la reiterazione dei dati essenziali di un modello – quello di San Paolo – sul quale si erano operati nel frattempo importanti cambiamenti.
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Interventi conservativi e restauri
1960: restauro pittorico dell’insieme degli affreschi absidali condotto da A. Crucianelli per conto della Soprintendenza ai Monumenti del Lazio; eliminazione delle ridipinture d’epoca moderna che, nella calotta, occultavano le figure dei santi.
Documentazione visiva
Antonio Eclissi, acquerelli (1630-1644 ca.), WRL 8936, 9197, 9198, 9220; fotografie, che documentano lo stato degli affreschi ancora coperti dalle ridipinture (1954), ICCD.
Bibliografia
Cavazzi 1908, 243-266; Montenovesi 1957, 195-211; Waetzoldt, 1964, 64-65; Matthiae 1966a [1988], 175-176; Cristiani Testi 1982, 103-104; Bianchi et al. 1984; Gandolfo 1988, 322; Romano 1992, 61-65; Manacorda 1994, 35-58; Osborne-Claridge 1996, 268-273; Pennesi, in Atlante I (¤ 9). Ilaria Molteni SANTA PASSERA / ATLANTE I, 9 295
51. LA CROCIFISSIONE DAL CONVENTO DI SANTA BALBINA Terzo quarto del XIII secolo
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L’affresco staccato con la Crocifissione [1] si trova oggi nella cappella dell’Istituto Santa Margherita che occupa i locali dell’ex convento di Santa Balbina. In condizioni particolarmente critiche, si conserva solo la parte superiore della raffigurazione, anch’essa intaccata da vaste lacune. Il Cristo, il volto completamente abraso, doveva essere raffigurato patiens, come indica la posizione della testa abbandonata sulla spalla destra; i fianchi sono avvolti da un panno azzurro. I bracci orizzontali della croce sono rispettivamente sormontati da due angeli in vesti bianche: di quello di sinistra resta solo la sagoma, quello di destra, invece, più leggibile, si rivolge – indicandolo con la mano – verso il Cristo. Delle due figure alla destra del Cristo sussistono unicamente delle porzioni di aureole: della prima – verosimilmente la Vergine – è visibile anche un frammento del capo coperto da un maphorion blu; essa portava probabilmente una veste rossa, ancora riconoscibile nell’unico frammento superstite. A sinistra compare san Giovanni, del quale si conserva una parte del busto: indossa una veste azzurra e un manto color ruggine, e si porta la mano destra al viso in un gesto di dolore [2]. Accanto a lui un altro santo, di cui resta solo il volto [3]: la testa, tonsurata, è parzialmente avviluppata nel cappuccio dell’abito scuro. Il fondo della scena è azzurro; attorno corre un’ampia cornice composta di un fregio decorativo a palmette blu, compreso entro fasce colorate.
Note critiche
La Crocifissione, che decorava la parete di una grande sala al secondo piano dell’ala nord del convento, fu rinvenuta durante gli interventi di restauro condotti tra il 1927 e il 1930 da Antonio Muñoz (Lotti 1972, 16-19; Ferreri 1996, 64). Data l’esiguità delle notizie riguardanti il monastero in epoca medievale – che nel 296 SANTA BALBINA
Duecento era retto dapprima da monaci Benedettini e poi da Guglielmiti (Elm 1962, 96) – è difficile ipotizzare che funzione potesse adempiere questo ambiente, il cui soggetto potrebbe, per esempio, ben adattarsi a un’aula capitolare. I Guglielmiti presero probabilmente possesso del monastero sull’Aventino tra il 1251 e il 1268 (Elm 1962, 96; Faenza 2006, 59), ovvero in un periodo compatibile con la data che ci sembra di poter assegnare all’affresco con la Crocifissione, forse, quindi, una loro committenza. Tuttavia, è impossibile stabilire se il santo raffigurato a fianco di san Giovanni sia effettivamente Guglielmo di Malavalle, fondatore dell’Ordine (Faenza 2006, 63, nota 71), o invece san Francesco, come è stato proposto (Tempesta 2000). L’iconografia del santo tonsurato con il cappuccio potrebbe convenire all’identificazione con san Francesco. Per quanto riguarda Guglielmo di Malavalle, il solo episodio certo per il XIII secolo è quello dell’affresco verosimilmente proveniente dalla sala capitolare del convento di Sant’Agostino a Fabriano e oggi conservato nel Museo Civico della cittadina (Boskovits 1994, 130): il santo appare vestito con l’abito scuro col cappuccio proprio degli Agostiniani e simile a quello che indossa anche il personaggio di Santa Balbina; a differenza di quest’ultimo, però, il santo di Fabriano è rappresentato come un uomo anziano, secondo quella che pare essere, fin dalle prime raffigurazioni, l’unica prassi iconografica costante (Corsi 2004, 101). La Crocifissione di Santa Balbina risulta relativamente isolata nel panorama pittorico duecentesco romano: alcuni indizi stilistici, tuttavia, orientano verso una datazione al terzo quarto del secolo. La resa plastica degli incarnati, innanzitutto, è già avviata verso un naturalismo che preannuncia gli esiti della pittura degli anni Settanta-Ottanta; nella sottile modulazione degli incarnati realizzati con abbondante verdaccio, le pitture
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della Crocifissione si avvicinano a quelle nella calotta absidale di Santa Passera (¤ 50), in particolare nelle figure dei due san Giovanni [2], e affine appare anche il modo di segnare il naso e una parte del contorno dei volti con un tratto rosso anziché nero, che torna sia nella Crocifissione, che nell’abside di Santa Passera. Qualche contatto si coglie anche tra la Crocifissione e i dipinti che andarono a decorare le nicchie della basilica attigua, in particolare con quelli dello strato medioduecentesco della terza nicchia a sinistra (¤ 21). Alcune affinità sono anche riscontrabili con la Crocifissione di Santa Prassede (¤ 46): come in quella di Santa Balbina, l’anatomia
del Cristo [1] mostra ancora una tendenza alla riduzione grafica, per esempio, nella maniera di marcare i muscoli delle braccia, o nella serie di ‘trattini’ orizzontali coi quali è reso il costato; in entrambi i casi, tuttavia, l’utilizzo del chiaroscuro, seppur limitato esclusivamente a certe zone, rivela la volontà di conferire al corpo un certo volume. Analoga, poi, è la maniera di condurre il panneggio: nel frammento con la veste del san Giovanni di Santa Balbina, infatti, il colore del tessuto è declinato in diverse sfumature illuminate da frequenti rialzi bianchi, come avviene anche a Santa Prassede. Nei due episodi, infine, simile è pure la gamma cromatica che impiega prevalentemente colori quali il blu, in una tonalità brillante, il rosso-rosa e l’azzurro. Raro nella pittura monumentale, il fregio a palmette rimanda alla pittura su tavola, in particolare alle Croci dipinte, dove è spesso usato a delimitare la croce propriamente detta, come nel Crocifisso di Sant’Alberto (¤ 55), o in quelli, anteriori, di Giunta Pisano oggi conservato al Museo di Santa Maria degli Angeli ad Assisi, e di Petrus in Sant’Antonio a Norcia (1242). Nella maniera di illuminare le palmette con pennellate bianche, il fregio di Santa Balbina si avvicina agli altri fregi romani attribuibili a quest’epoca, come, per esempio, quelli che rispettivamente coprono l’emiciclo della Rotonda e gli intradossi degli archi delle due finestre dell’abside nella basilica dei Santi Cosma e Damiano (¤ 44a e b).
Interventi conservativi
1927-1930: l’affresco fu staccato e ripulito durante la campagna di restauri al complesso di Santa Balbina condotta da Antonio Muñoz.
Bibliografia
Parenti 1935; Lotti 1972, 41-43; Tempesta 2000; Faenza 2006, 58. Irene Quadri
SANTA BALBINA 297
52. LA CROCIFISSIONE NELLA SESTA NICCHIA DELLA PARETE SINISTRA DI SANTA BALBINA Ottavo decennio del XIII secolo
Sulle tre pareti della cappella si conservano, in palinsesto con altri tre strati di intonaco dipinto, frammenti di una decorazione del XIII secolo. Sulla parete sinistra si leggono brani di una Crocifissione su un fondo bianco decorato con stelle a otto punte rosse e stelle a sei punte bianche entro clipei verdi, sulle altre due pareti ampi frammenti del solo fondo. La Crocifissione è posta all’interno di una cornice a tre bande, rossa, bianca con un motivo a trifoglio schiacciato rosso e blu, verde. Del Cristo patiens è conservato il volto all’interno del nimbo crucisignato a doppia banda rossa e nera, parte delle braccia ancorate all’asse orizzontale della croce, il petto e l’attacco estremamente arcuato del bacino. A destra è rimasto il busto di san Giovanni, con il capo reclinato e il libro nella mano sinistra. La figura della Vergine, dipinta a sinistra, è avvolta nel manto rosso, segnato da un fitto gioco di pieghe, e conservata per tutta la sua altezza, ma priva del volto. Il fondo della scena è scandito in alto e in basso da due ampie bande blu e verde.
Note critiche
La presenza di tracce del fondo bianco decorato da stelle sulle tre pareti permette di ipotizzare che la decorazione fosse estesa a tutta la cappella e che probabilmente solo la parete sinistra ospitasse un riquadro figurato. Infatti, sulla parete destra, già in epoca medievale, doveva aprirsi una porta, mentre sulla parete di fondo la decorazione aniconica sembra scendere oltre la quota del pannello. Se così fosse, l’inserimento della Crocifissione determinò un cambiamento di asse rispetto alle decorazioni precedenti della cappella (Bordi, in Corpus IV ¤ 9a). Considerata un’eco della presenza a Roma nel 1272 di Cimabue (Marques 1987, 295; Tomei 1997, 19; Bellosi 1998 [2004], 81-82), la Crocifissione è stata a più riprese messa a confronto con i modi della bottega impegnata dal 1277 al 1280 nella decorazione del Sancta Sanctorum (¤ 60), in virtù dei segni dell’innesto della cultura toscana nell’Urbe, più volte tirati in ballo nella definizione degli artisti impiegati nel grande cantiere orsiniano. Bellosi la inserisce nel corpus delle opere attribuite al Maestro del Sancta Sanctorum, accanto alla Madonna con il Bambino dei Santi Cosma e Damiano, alla Croce dipinta della Walters Gallery e ai dipinti della Rotonda ai Santi Cosma e Damiano. Lo studioso, in particolare, rileva affinità con gli affreschi del Sancta Sanctorum per quanto riguarda il patetismo e la forte espressività del volto di san Giovanni. Gli occhi mesti ‘cascanti’, la ruga a V sulla fronte da cui partono le ciglia anch’esse spioventi, il gioco di segni che delinea i muscoli del viso, le ombre a V sotto gli occhi, la bocca segnata da una linea che disegna agili curve e riecheggia le rotondità del naso trovano un riscontro in molti volti del cantiere orsiniano. Come anche la resa della capigliatura dell’evangelista, analoga a quella delle due figure che sbucano da dietro la collina nel Martirio di san Paolo (Bellosi 1998 [2004], 81-82). Secondo Faenza, invece, l’artista della Crocifissione di Santa Balbina proverrebbe da esperienze diverse da quelle di ambito propriamente cimabuesco e avrebbe operato a Roma nel terzo quarto del XIII secolo. Nella sua pittura si riconoscono molteplici matrici, da quelle tardo comnene mutuate da opere balcaniche, a quelle anagnine del Terzo Maestro, a quelle toscane precimabuesche vicine a Giunta Pisano, al Maestro dei Crocifissi blu e al Maestro di San Francesco (Faenza 2006, 58). La Crocifissione rappresenterebbe, pertanto, la prima tappa decorativa della campagna di abbellimento della chiesa di Santa Balbina seguita all’arrivo dei Guglielmiti, che sostituirono i Benedettini alla guida 298 SANTA BALBINA
del monastero, nel sesto decennio del XIII secolo. La campagna sarebbe stata portata a termine entro gli anni Settanta del XIII secolo, poco prima dell’arrivo a Roma di Cimabue (ibid., 59). Centrale, nella lettura di Faenza, è il ruolo dell’epigrafe del vescovo di Paphos Paolo (1256-1268), oggi posta sul pilastro tra la quarta e la quinta nicchia della parete sinistra di Santa Balbina, che ricorda la consacrazione di un altare a san Nicola, in sua memoria (Rudt de Collenberg 1979, 197-332). La campagna decorativa sarebbe partita proprio dalla sesta nicchia, la più vicina all’area presbiteriale, per continuare lungo la parete sinistra nella quarta nicchia, dove sarebbe stato eretto l’altare di san Nicola, dopo la morte dell’illustre prelato ungherese (Faenza 2006, 59). Secondo la ricostruzione qui proposta, invece, la Crocifissione risulta essere una delle tappe più avanzate nel tempo della decorazione delle cappelle di Santa Balbina (¤ 22 e 23), decorazione vincolata più ai desiderata di una committenza laica, che probabilmente pagava un tributo pecuniario prima ai Benedettini e poi ai Guglielmiti per la creazione di cappelle private nella chiesa, che a una sistematica campagna decorativa pianificata dai frati di san Guglielmo. L’artista che ha realizzato la Crocifissione di Santa Balbina mostra di essere aggiornato sulla pittura toscana del terzo quarto del XIII secolo e sui modi cimabueschi e di partecipare, come attestano gli stilemi impiegati e la tavolozza dai colori squillanti, del linguaggio che da lì a poco troverà la sua massima espressione nel cantiere del Sancta Sanctorum. L’uso insistito del verdaccio da parte dell’artista, che lo impiega nella costruzione dei volti di Giovanni e del Cristo e dei volumi del costato di quest’ultimo, non si limita in questo contesto ad essere la semplice preparazione degli incarnati, ma attraverso il gioco di pennellate sovrapposte crea quegli effetti di “divisionismo” chiaroscurale già indicati dal Bellosi (1998 [2004], 82), emergendo in primo piano nella superficie pittorica con le sue tonalità fredde. Questa modalità rende la Crocifissione più vicina ad una trasposizione su parete di una pittura su tavola che ad un dipinto murale vero e proprio, come invece appare la Crocifissione tra santi staccata, già nel monastero di Santa Balbina, oggi conservata nella vicina casa di cura Santa Margherita (¤ 51).
Interventi conservativi e restauri
1571: scialbatura a calce dei dipinti murali medievali e chiusura delle nicchie per volere del capitolo di San Pietro, a cui la basilica di Santa Balbina era stata affidata dal pontefice Pio IV (15591565; Buchowiecki 1967, 426). 1927: riapertura delle nicchie laterali della basilica e scoperta dei dipinti medievali sotto lo spesso strato di scialbo del 1571, durante i lavori di restauro dell’edificio condotti da Antonio Muñoz tra il 1927 e il 1930 (Bellanca 2003, 122-124). 1970: campagna di restauro della Soprintendenza per i beni architettonici e ambientali di Roma all’interno e all’esterno della chiesa, a cura di Ermete Crisanti. Gli intonaci medievali sono stati fissati con un cospicuo numero di grappe, le lacune stuccate a gesso e a malta e reintegrate con pesanti ridipinture a tratteggio (Albini et al. 1991-1992, 13-14). 1991-1992: indagini diagnostiche sullo stato di conservazione dei dipinti murali condotte dagli allievi del XLIII Corso di restauro, Settore conservazione dei dipinti e dei beni architettonici, anno accademico 1991/1992 dell’ISCR (Albini et al. 1991-1992, 159225, tavv. 13.3-13.4).
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1996: intervento di pulitura, consolidamento e restauro dei dipinti murali realizzati dalla Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici di Roma, a cura della Delphica restauri, sotto la direzione di Andreina Draghi. L’intervento ha comportato la rimozione delle stuccature, delle grappe e delle ridipinture del 1970 e la scoperta di alcune parti di decorazione dipinta ancora nascoste dallo scialbo del 1571 (Archivio Delphica restauri). 2000 ca.: intervento conservativo della Soprintendenza per i
beni artistici e storici di Roma, che ha messo a nudo il paramento murario in laterizio (Flaminio 2002, 485).
Bibliografia
Muñoz 1931, 37-38; Marques 1987, 295; Tomei 1997, 19; Bellosi 1998 [2004], 136-138; Strinati 2004, 20; Faenza 2006, 57-59. Giulia Bordi
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53. LA MADONNA ODIGITRIA DEI SANTI COSMA E DAMIANO 1265-1275
L’immagine della Vergine Odigitria della chiesa dei Santi Cosma e Damiano misura cm 110x72, ma le dimensioni non sono quelle originali: probabilmente per ragioni legate allo stato di conservazione, essa è stata rifilata su tutti i lati. La Madonna in trono sostiene il Bambino sul braccio destro; come previsto dalla tipologia iconografica della Odigitria, volge verso il figlio l’altra mano a indicare in lui la guida per raggiungere la salvezza. La grande figura di Maria è completamente coperta dal pesante manto di colore blu; la veste rossa sottostante è visibile solo all’altezza del ginocchio destro e per un esiguo tratto del braccio sinistro. È quasi interamente perduta la decorazione dorata con bordura di perle dipinte del polsino, come pure l’orlo d’oro che correva lungo il manto; si conservano invece una frangia con pendenti di forma tondeggiante sul braccio sinistro e le decorazioni a croce sullo stesso braccio e sulla fronte. Il collo, il volto e il naso della Vergine sono piuttosto allungati, gli occhi e la bocca piccoli, piegati in un atteggiamento dolente. Il modellato è costruito a partire da una base scura, verde: più densa dove utilizzata a delineare forti ombre – intorno agli occhi, al naso, appena sopra il collo, sotto la curva del mento – questa tonalità livida si accende grazie a lumeggiature bianche e rosse; un grosso pomello rosso si staglia al centro della guancia sinistra. Gli incarnati del Bambino sono eseguiti secondo le stesse modalità di quelli della madre, il collo è però alquanto tozzo e la testa poggia sulle spalle larghe, lasciate in gran parte visibili dall’ampio scollo della veste. Il Cristo della tavola dei Santi Cosma e Damiano è un bambino robusto, che ben riempie gli ampi abiti che indossa, una veste grigio-azzurra visibile solo all’altezza del busto e un manto rosso schiarito, come la veste, da fitte lumeggiature bianche. Folta è la capigliatura bruna, che con ciuffi movimentati incornicia il volto del Bambino, lasciando però scoperta una porzione estesa della fronte. Il trono ligneo senza dorsale è traforato con motivi ad arcatelle e rivestito da un cuscino con motivi geometrici rossi e neri su fondo bianco e un’orlatura di finte perle bianche. Molto danneggiato è il fondo oro, dal quale sono ricavate le aureole della Vergine e del Cristo, evidenziate attraverso un semplice bordo rosso; i tratti rossi ancora visibili all’interno dell’aureola del Bambino attestano che era crucisignata. A causa delle decurtazioni, oltre alla porzione inferiore della figura della Madonna, sono andati in parte perduti la sua aureola e, su entrambi i lati, il trono ligneo con il cuscino. Solo sul lato sinistro è conservata la cornice dipinta, con motivi trilobati rossi e neri su fondo bianco, alla quale si accosta una ulteriore fascia rossa.
Iscrizioni
Iscrizione identificativa, disposta nell’area illustrata, ai lati del capo della Vergine, priva di uno spazio grafico di corredo, allineata su una riga orizzontale, secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere rosse su fondo dorato. Mutila. Scrittura maiuscola.
M(»th)[r] | | Q(eo)à
Note critiche
(S. Ric.)
Tra il 1626 e il 1632 la chiesa dei Santi Cosma e Damiano subisce un radicale restauro architettonico finanziato dal papa Urbano VIII (1623-1644) e dal cardinale Francesco Barberini: il piano pavimentale della basilica costruita da Felice IV (526-530) viene rialzato di circa un terzo, ricavando sotto di esso uno spazio praticabile (Matthiae 1960a, 24; Chioccioni 1963, 121-135). 300 SANTI COSMA E DAMIANO / ATLANTE II, 23-24
Terminati i lavori, nel 1638, nell’abside della chiesa superiore viene eretto un grande altare marmoreo destinato ad accogliere l’immagine della «Madonna della Salute o delle Grazie», che prima della ristrutturazione era già presso il presbiterio della basilica originaria (Matthiae 1960a, 27; Chioccioni 1963, 77, 128; Mangia Renda 1985-1986, 323). Permane comunque qualche incertezza sulle precedenti sistemazioni del dipinto all’interno della basilica. La sua prima posizione fu verosimilmente l’altare maggiore della chiesa primitiva, che era stato in parte rinnovato e riconsacrato durante il pontificato di Adriano IV (1154-1159) (LP II, 396): nel testo di Hager troviamo un grafico ricostruttivo dell’altare e della disposizione dell’icona dietro di esso, su un cavalletto ligneo e leggermente inclinata in avanti attraverso un sistema di aggancio posto nella parte superiore del retro della tavola (1962, fig. 249). Intorno al 1550-1560, e poi nel 1588, essa è però testimoniata in un ambiente posto dietro l’abside (BAV, Vat. lat. 6780, f. 45r; Ugonio 1588, 182); è stato ipotizzato che lo spostamento fosse avvenuto nel XV secolo per via della momentanea sostituzione dell’icona medievale con il dipinto della Madonna con il Bambino attribuito a Gentile Da Fabriano e databile agli anni 1426-1427, che sarà donato alla chiesa di Santa Apollonia a Velletri in concomitanza con i lavori di Urbano VIII (Mangia Renda 1985-1986, 324, nota 16, 352). L’epigrafe collocata sopra la tavola della Vergine nella definitiva sistemazione del 1638 celebra il trasferimento del dipinto dalla vecchia chiesa nella nuova restaurata, e ricorda l’antica tradizione secondo la quale la Vergine sarebbe apparsa a Gregorio Magno (590-604) nelle sembianze dell’icona dei Santi Cosma e Damiano e lo avrebbe rimproverato per aver trascurato di renderle omaggio come era solito fare assiduamente prima dell’elezione pontificale (Ugonio 1588, 182; Felini 1625, 157; Panciroli 1625, 95; Martinelli 1660-1663 [1969], 39-40). Sebbene sia attestata nelle fonti solo a partire dal XVI secolo, questa tradizione potrebbe essere segno della presenza in epoca già molto antica di un’icona della Vergine nella chiesa del Foro, confermata dalla notizia contenuta nel Liber Politicus di Benedetto Canonico che un’icona della Vergine proveniente dalla diaconia dei Santi Cosma e Damiano prendeva parte, insieme ad altre diciassette immagini, alle solenni processioni che si svolgevano il 2 febbraio per la festa della Candelora e il 25 marzo per quella dell’Annunciazione (Valentini-Zucchetti 1946, III, 213-214; Russo 1980-1981, 115; Parlato 2000, 74). Il Liber data in effetti soltanto al 1140-1143, ma i riti del 2 febbraio e del 25 marzo sono attestati fin dal VII secolo (Russo 1980-1981, 100-107), ed è pertanto ragionevole pensare che il trasporto delle icone avvenisse anche nei secoli precedenti il XII. Per ragioni cronologiche l’immagine oggi sull’altare della basilica forense non può essere quella ricordata nel Liber Politicus, dalla quale potrebbe però aver dedotto l’iconografia. Paola Mangia Renda ha ben sottolineato come il tipo della Odigitria dexià – che mostra il Bambino sul braccio destro, e più rara rispetto alla Odigitria con il Bambino sul sinistro – fosse diffuso a Roma almeno dal VII secolo, e l’esistenza di un fondamentale prototipo di questa tipologia, l’icona di epoca pre-iconoclasta ora nella chiesa di Santa Maria Nova ma fino al IX secolo presso Santa Maria Antiqua, in santuari a pochi metri dalla basilica dei Santi Cosma e Damiano (Mangia Renda 1985-1986, 353-355). E se, almeno sulla base delle opere sopravvissute alla generale dispersione della pittura su tavola medievale, la raffigurazione della Vergine come Odigitria fu meno diffusa nella Roma
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SANTI COSMA E DAMIANO / ATLANTE II, 23-24 301
medievale rispetto a quella della Advocata, la variante della dexià vi conta un numero di esemplari – oltre a quella di Santa Maria Nova, le immagini di Sant’Angelo in Pescheria, del Santissimo Nome di Maria, della Collezione Magnani Rocca di Parma, di San Cosimato – piuttosto ragguardevole, e comunque sensibilmente superiore a quello delle Odigitrie con il Bambino sul braccio sinistro. È possibile pertanto affermare che l’icona duecentesca, e forse anche quella più antica, dei Santi Cosma e Damiano sia testimonianza della predilezione romana per il tipo della Odigitria dexià, derivata dall’esistenza di un prototipo autorevole come l’icona di Santa Maria Nova. A Wilpert dobbiamo il primo corretto inquadramento del dipinto nella seconda metà del Duecento, e il collegamento con la pittura toscana, che ne faceva rilevare una sorta di estraneità rispetto alla pittura romana coeva (Wilpert 1916, II, 1141-1143). Più che sulla datazione, che non si sposterà più dalla seconda metà del Duecento benché con slittamenti e puntualizzazioni all’interno del periodo, la critica si è infatti interrogata sull’ambito di appartenenza del dipinto: se sostanzialmente romano, o invece toscano, o bizantino, e con quali tangenze tra le diverse aree. Particolarmente indagata la connessione con la pittura su tavola toscana, talora come influenza su un artista di cultura romana (Garrison 1949, 46; Matthiae 1966a [1988], 225-226), talora come esclusiva matrice dell’opera (Hager 1962, 53, 55, 157-158; Marques 1987, 72, 294). Tra gli studi più recenti, a un ambito essenzialmente romano riconduce il dipinto Paola Mangia Renda, benché con influssi toscani dovuti al soggiorno in città di Cimabue nel 1272 e al confronto tra le due scuole che si andava sviluppando sui ponteggi della basilica di San Francesco ad Assisi. Soprattutto in una assenza di ricerca di realismo nella raffigurazione viene individuata la spia della salda appartenenza alla tradizione figurativa romana della seconda metà del Duecento, non ancora conquistata dalle novità toscane e umbre (Mangia Renda 1985-1986, 356-359). Bellosi lo attribuisce al Maestro che a suo avviso avrebbe realizzato la gran parte dei mosaici e degli affreschi del Sancta Sanctorum in Laterano (1277-1280) e il dipinto con la Crocifissione della sesta nicchia a sinistra della chiesa di Santa Balbina, Maestro per il quale Bellosi individua una formazione laziale ma più che mai legato alla pittura cimabuesca dopo la sua presenza a Roma (Bellosi 1998, 81-81). Recentemente Daniela Parenti ha ricollocato il dipinto nell’alveo della pittura romana, semmai con influssi bizantini o bizantineggianti, del 1265-1275 (Parenti 2004, 54-55); particolari consonanze individua con i dipinti della navata sinistra della chiesa dei Santi Giovanni e Paolo (¤ 34c), con quelli oggi nella sacrestia di Santa Maria Nova (¤ 33) e con il ciclo cristologico di San Sebastiano ad Alatri (Romano 2005b), non senza ritornare alla Toscana con alcuni dei confronti proposti. Una Toscana che però non è ancora quella di Cimabue, o al massimo è quella dei suoi esordi. Nella stessa sede, Strinati definisce la tavola «strettamente toscaneggiante» (Strinati 2004, 19), mentre per Tartuferi toscaneggiante lo è solo «vagamente», e va datata al settimo decennio del Duecento (Tartuferi 2004, 35-37). Sostanzialmente si può concordare con i caratteri del dipinto messi in evidenza da Daniela Parenti: la tradizione della pittura su tavola medievale romana come punto di partenza – della quale appare un segnale rilevante la scelta iconografica della Odigitria dexià – sulla quale si innestano linguaggi molteplici, quello ben noto della pittura di Bisanzio e quello più giovane delle Maestà toscane, che irrompono nella pittura del Duecento a rinnovare l’arte delle icone. L’immagine dei Santi Cosma e Damiano anche in senso letterale parla più di una lingua, tanto che è l’unica tavola della Roma medievale con l’iscrizione in caratteri greci. A Bisanzio, che come noto nel Duecento era ancora più vicina per via della conquista veneziana di Costantinopoli nel 1204, deve l’allungamento delle figure e dei tratti somatici, il trattamento grafico delle vesti, la finezza nell’esecuzione degli incarnati sui quali si accendono i pomelli rossi; alla Toscana, e a Firenze in particolare, la comparsa del trono nella raffigurazione, la sua foggia – ligneo, con traforo ad arcatelle e senza spalliera – l’assenza dei gioielli dipinti ad ornare 302 SANTI COSMA E DAMIANO / ATLANTE II, 23-24
la Vergine, normalmente sempre presenti nelle icone romane dei secoli precedenti, e un accentuato realismo nella raffigurazione, dato non solo dall’incontro delle mani della Madonna e del Bambino, ma in generale da tutta la gestualità e l’impostazione dei due personaggi. Tra i dipinti romani, appare comparabile con la tavola la raffigurazione del Salvatore tra gli apostoli nella navata sinistra della chiesa dei Santi Giovanni e Paolo (¤ 34c) più per la presenza degli stessi stilemi – i nasi allungati, il grafismo a ‘V’ tra le sopracciglia, i pomelli rossi sulle guance, il trattamento dei panneggi – che per la conformità nell’esito finale. Il confronto più stringente in ambito romano, proposto già da Bellosi (1998, 82), è però quello con la Crocifissione della chiesa di Santa Balbina (¤ 52), e in particolare con la figura di san Giovanni, la cui parte superiore del volto è molto vicina a quella della Vergine della tavola, sebbene non sembra ci siano gli elementi per parlare di una identità di mano, né per attribuire necessariamente un ruolo allo sfocato passaggio di Cimabue per Roma. Sul fronte toscano, convince il confronto proposto dalla Mangia Renda (1985-1986, 356) con la Madonna della chiesa di San Fedele a Poppi, attribuita al Maestro della Maddalena e databile intorno all’ottavo decennio del Duecento, che può essere integrato con l’accostamento al dipinto della Vergine con il Bambino di Lastra di Signa (FI), datato tra il 1260 e il 1270, al quale la accomunano soprattutto il trattamento degli occhi e delle sopracciglia e la tipologia dei panneggi. Le tavole di Poppi e Lastra di Signa, tra l’altro, presentano entrambe il Bambino sul braccio destro della Vergine, raffigurazione abbastanza rara in ambito toscano e riferibile alle Maestà con datazione più alta. Sia i confronti romani sia il rapporto con Maestà toscane di cronologia abbastanza precoce inducono accogliere la datazione della Parenti al 1265-1275 – avanzata già da Francesca Pasut sulla base della tipologia del motivo decorativo della cornice (2003, 47) – con una preferenza per il limite superiore del periodo.
54. L’ICONA DI SAN FRANCESCO A SAN FRANCESCO A RIPA Terzo quarto del XIII secolo
L’icona di san Francesco oggi nel “santuario” di San Francesco a Ripa – Francesco vi avrebbe alloggiato durante il soggiorno romano – è una tempera su legno, di cm 123x50. Attualmente è presentata in un gran tabernacolo ligneo del primo Settecento. San Francesco è rappresentato in piedi, i piedi nudi e tunica scura con cappuccio a punta e cordone a quattro nodi alla vita. È tonsurato e ha una corta barba. Nella mano destra ha una croce e nella sinistra un libro aperto (Iscr. 1): mani e piedi sono stigmatizzati. Nella foto Anderson appare, probabile frutto di ridipinture, la ferita sul fianco; oggi non è visibile. Ridipinta è anche l’aureola che sborda sul cappuccio. Il fondo è dorato e incorniciato da una fascia a semicrocette nere (o blu scuro) e rosse.
Iscrizioni
1 - Iscrizione esegetica, disposta all’interno dell’area illustrata, nelle pagine del libro sorretto dal santo, allineata su sei righe nella prima pagina e cinque nella successiva, secondo un andamento rettilineo non regolare. Lettere rosse su fondo bianco. Intera. Scrittura maiuscola gotica. Fonte: Mt 16, 24; Mc 8, 34; Lc 9, 23.
Qui vult / veni/re po/st me / abne/get // seme/tisp(u)m / et tol/lat (crucem) / suam p.2.r.2. Semetispum per semetipsum. (S. Ric.)
Interventi conservativi e restauri
1914: restauro a cura dell’allora Ministero della Pubblica Istruzione, della quale informano le schede OA dell’Istituto Centrale del Catalogo e della Documentazione compilate nel marzo 1941 e nel gennaio 1982. Le schede riferiscono della eliminazione di una pesante cornice moderna e di operazioni di pulitura per liberare la tavola da pesanti ridipinture. 1988: restauro del dipinto del quale dà notizia Daniela Parenti (2004, 54).
Documentazione visiva
Bombelli 1792, I, 119-120; Wilpert 1916, IV, tav.299, 1.
Fonti e descrizioni
Benedetto Canonico, «Liber Politicus», Roma 1140-1143 in Valentini-Zucchetti 1946, III, 210-222, in part. 213-214; Panvinio (1570), BAV, Vat. lat. 6780, f. 45r; Ugonio 1588, 179, 182; Felini 1625, 157; Panciroli 1625, 95; Martinelli 1660-1663, [1969], 3940; Poma 1727, 27-36; Carocci 1729, 41; Bombelli 1792, 119-120.
Bibliografia
Nibby 1839, II, 183, 187; Angeli 1904, 106; Montenovesi 1904, 24; Wilpert 1916, II, 1141-1143; van Marle 1921, 227; Sandberg Vavalà 1934, 48; Garrison 1949, 46; Schorr 1954, 6, 9, 84, 164; Matthiae 1960a, 45; Hager 1962, 53, 55, 157-158; Chioccioni 1963, 75-84; Matthiae 1966a [1988], 225-226; Dejonghe 1967, 127-128; Budriesi 1968, 17-20, 24; Dejonghe 1969, 107; Parsi 1969, III, 16; Mangia Renda 1985-1986, 323-364; Marques 1987, 72, 294; Bellosi 1990, 26, 32, 35; Bellosi 1998, 81-82; Pasut 2003, 47; Parenti 2004, 54-55; Romano 2004b, 276-277, 284; Strinati 2004, 19-20; Tartuferi 2004, 35-37. Daniela Sgherri
Note critiche
La tradizione vuole che l’icona sia stata commissionata da Jacopa de’ Normanni, detta Jacopa de’ Settesoli, vedova di Graziano Frangipane. Nobile romana, amica e seguace di Francesco, lo avrebbe aiutato a trovare alloggio all’ospizio di San Biagio. Quando nel 1229 Gregorio IX donò l’ospizio ai Francescani, Jacopa avrebbe partecipato alla nuova fase costruttiva del monastero, divenuto San Francesco a Ripa (Menichella 1981, 11-15, 21-22). Il primo testimone della presenza dell’icona a San Francesco a Ripa è Fra Mariano da Firenze (1518 [1931], 100), che l’associa ad una leggendaria icona di proprietà di una nobile romana – non specifica trattarsi di Jacopa – sulla quale, secondo Tommaso da Celano (Trattato dei miracoli II, 8-9, in Fonti francescane 1983, 743-744) e san Bonaventura (Leggenda maggiore. Miracoli I, 4, in Fonti francescane 1983, 970), le stigmate sarebbero miracolosamente prima apparse, poi svanite. Della tavola attualmente a San Francesco a Ripa non si conosce l’ubicazione fino al Seicento, quando Luca Wadding vede un’immagine di san Francesco, verosimilmente la nostra, nella sacrestia (Wadding 1625-1654 [1931], 255); tra 1698 e 1708 è spostata nella cella di san Francesco, dove ancora si trova. L’icona fa parte del gruppo di ‘ritratti’ duecenteschi del santo, sei dei quali recano la ‘firma’ di Margaritone d’Arezzo (per le varie copie: Monciatti 2003b): uno di questi è oggi alla Pinacoteca Vaticana, e si trovava nel Seicento nella camera del papa (Monciatti 2003b, 298). Sono tutti a figura intera, in piedi, con tunica scura, stigmate e un libro chiuso nella mano sinistra; talvolta la mano destra è aperta di fronte allo spettatore (tavola della Pinacoteca Vaticana, della Pinacoteca Nazionale di Siena, del convento di Ganghereto e di quello di Sargiano,
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SAN FRANCESCO A RIPA 303
ambedue al Museo Statale d’Arte Medievale e Moderna di Arezzo), mentre in altri casi, come in quello di San Francesco a Ripa, della Pinacoteca Comunale di Castiglion Fiorentino o del Museo Civico di Montepulciano, la destra regge la croce. A San Francesco a Ripa, la combinazione della croce e del libro aperto con versetto inscritto ricorda però le tavole dipinte realizzate per Assisi, come quella del Museo del Tesoro del Sacro Convento (1250-1260: Frugoni 1993, 281), in cui la figura è attorniata da storie. Frugoni (1993, 301) ne deduce che il pannello di Ripa derivi da un prototipo assisiate. Nella tavola romana, come anche in quella del Museo del Tesoro, l’iscrizione invita a seguire il Cristo come aveva fatto Francesco: è lo stesso versetto citato all’inizio della Regula non bullata (ibid.). Il significato della tavola è dunque molto rilevante e chiaro. La tavola di San Francesco a Ripa non è firmata, ma è stata spesso attribuita allo stesso Margaritone (Salmi 1915; Toesca 1927 [1965], 1084; San Francesco a Ripa s.d., 109; Mostra giottesca 1943, 121; Garrison 1949; Pesci s.d. [1959], 66) oppure, data la divergenza stilistica con le opere firmate o attribuite a Margaritone, a un suo seguace (van Marle 1923; Armellini-Cecchelli 1942, II, 821; Guerrieri 1981; Cook 1999, 183; SBAAS scheda OA 2006). Anche la datazione è stata quindi fatta dipendere dalla cronologia delle opere di Margaritone, la cui sola data sicura è il 1262, quando il pittore è documentato ad Arezzo (Antetomaso 1997, 202). I caratteri stilistici della tavola romana, tuttavia, per quel che se ne vede, si distanziano da quelli delle opere più direttamente riferibili a Margaritone. Essa deve essere considerata quale replica del tipo di ritratto di Francesco, che invase l’Italia centrale nel corso del secolo; rispetto a quelle di Margaritone, presenta una diversa e più delicata minuzia di lineamenti; il disegno della bocca, il velo di barba, inducono piuttosto a inquadrarlo più genericamente nella cultura pittorica centro-italiana nel corso del terzo quarto del secolo, cronologia già proposta da Garrison (1949, 51), Guerrieri (1981) o Cook (1995, 86).
Interventi conservativi e restauri generali
XVI secolo?: doratura del fondo e dell’aureola (Wilpert 1916,
II, 1051); il cappuccio appuntito è trasformato in cappuccio arrotondato (Frugoni 1993, 322). Poco prima del 1916: restauro (Wilpert 1916, II, 1051); il cappuccio ridiviene appuntito. 1910-1920: parziale intervento di pulitura nella zona del cappuccio (Guerrieri 1981). Anni Cinquanta: don Celso Cipriani ricorda un restauro curato dal professor Lavagnino (Guerrieri 1981). 1997: SBAAS, restauro di V. Tancini (SBAAS, scheda OA).
55. LA CROCE DIPINTA NEL CONVENTO DI SANT’ALBERTO Ottavo decennio del XIII secolo
Documentazione visiva
Alinari, fotografia (tra 1920 e 1930), n. 28453 (parte superiore); Anderson, fotografia (1920 ca.), n. 20825; Wilpert 1916, IV, Tav. 261; fotografia SBAAS, n. 92656.
Fonti e descrizioni
Mariano da Firenze 1518 [1931], 100; Wadding 1625-1654 [1931], 255; Ludovico da Modena (1637-1722), Cronaca della Riforma e fondazione dei Conventi dal 1519 al 1722, AFR, ms. 99, f. 13.
Bibliografia
Thode 1885 [1934], 89-90; Schnürer 1905, 124; Salmi 1915, 86; Wilpert 1916, II, 1051-1053; San Francesco a Ripa s.d., 86, 109; van Marle 1923, 337; Toesca 1927 [1965], II, 1028 nota 43; ArmelliniCecchelli 1942, II, 821; Mostra giottesca 1943, 121; Hermanin 1945, 283-284; Garrison 1949, 51; Pesci s.d. [1959], 66-70; Hager 1962, 88, 90; Parsi 1969, III, 82; van Os 1974, 119-120; Maria Barbara Guerrieri 1981 (scheda SBAAS); Menichella 1981, 78; Gieben 1983, 638-639; Krüger 1992, 42, 215; Mancinelli 1992a, 160; Frugoni 1993, 301; Cook 1995, 86; Antetomaso 1997, 203204; Kuhn-Forte 1997, 476; SBAAS (2006), OA nr. 12/00148116; Cook 1999, 183-184; Monciatti 2003b, 308. Karina Queijo
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La descrizione che segue è basata esclusivamente sulla documentazione fotografica in bianco e nero realizzata nel 1980 dalla Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici di Roma, poiché i responsabili del convento carmelitano di Sant’Alberto non hanno autorizzato la visita al Crocifisso che è lì conservato. Dalle fotografie, il Crocifisso appare in condizioni non buone [1]: le estremità laterali e la predella sono state amputate e ampie lacune intaccano la superficie pittorica. Il Cristo è raffigurato vivo: gli occhi sono aperti e il corpo segue perfettamente l’asse verticale della croce. Le mani e i piedi sono trafitti da quattro chiodi; un perizoma trasparente avvolge i fianchi. Sul braccio trasversale, al di sopra degli incavi dei gomiti, l’iscrizione in greco, probabilmente “vincitore della morte” (Note crit.). Nella tabella laterale destra sono rappresentate la Vergine e una pia donna, a sinistra san Giovanni e una seconda figura maschile, verosimilmente un altro santo [2]. La Vergine si porta la mano sinistra al petto, mentre la destra è rivolta verso il Figlio crocifisso; l’altra Maria si tiene il volto in un gesto di dolore [1]. Più in basso, ai lati delle gambe del Cristo, appaiono in posizione simmetrica, le due figure dei donatori: a destra un uomo, a sinistra una donna vestita di bianco [3]. Ai piedi di Cristo, la schematica raffigurazione del terreno roccioso del Golgota, sul quale è posato il teschio di Adamo; al culmine del braccio verticale, sopra l’aureola del Cristo, appare, in un piccolo tondo, il busto di una figura con il volto coperto da una sorta di turbante [1]: probabilmente la rappresentazione della Luna (Lavagnino 1941, 160; Strinati, 1982, 20, nota 3). I bordi 306 SANT’ALBERTO
della croce, oggi in gran parte abrasi, sono definiti da una banda scura, orlata da piccole palmette.
Note critiche
Le notizie riguardanti il Crocifisso di Sant’Alberto sono poche e piuttosto vaghe: secondo quanto riferisce il Lavagnino (1941, 159) – il solo a fornire qualche informazione – fino alla fine degli anni Trenta del secolo scorso era custodito nella cappella del padre generale dei Carmelitani, nel convento presso Santa Maria in Traspontina; quando questo edificio venne demolito la Croce fu spostata nel vicino collegio dei novizi di Sant’Alberto. Se fosse sempre stata conservata nel monastero della Traspontina, o, eventualmente, come e da quanto tempo vi fosse approdata, sono interrogativi che già all’epoca del Lavagnino erano senza risposta; eccezion fatta per l’indicazione contenuta nel Liber Pontificalis che riferisce di lavori effettuati nell’VIII secolo da Adriano I, praticamente nulla si sa dell’antica chiesa della Traspontina e del convento ad essa annesso durante il periodo medioevale (Catena 1954, 13-24; Ricci 1998-1999, 47-48). Forse a causa della tipologia arcaicizzante del Cristo raffigurato triumphans, il Crocifisso di Sant’Alberto ha spesso ricevuto cronologie precoci, non oltre la metà del XIII secolo (Brandi 1941; Lavagnino 1941; Matthiae 1966a [1988]); gli interventi più recenti (Strinati 1982; Gandolfo 1988; Tomei 1990; Tomei 1991a; Romano 1995b) lo hanno finalmente assegnato a quello che pare essere il periodo di appartenenza più verosimile, la seconda metà
del XIII secolo. In una linea di sviluppo ideale, infatti, gli episodi pittorici che costituiscono i due estremi di riferimento tra i quali pare situarsi il Crocifisso sono gli affreschi della nicchia nella Rotonda ai Santi Cosma e Damiano (¤ 44c) e quelli nella sacrestia all’abbazia delle Tre Fontane (¤ 63). Ai primi, il Crocifisso si lega in quelle parti di ciclo – Le Marie al Sepolcro – che sono state definite come le più bizantineggianti (¤ 44c; Lavagnino 1941, 162-163; Romano 1995b, 98): la monumentalità e la luminosità dell’angelo assiso sul Sepolcro nel ciclo della Rotonda si ritrovano nelle figure laterali del Crocifisso [2]. Tuttavia, se il bizantinismo degli affreschi della Rotonda è un bizantinismo mediato, quello della Croce raggiunge un grado d’intensità tale – in particolare nel volto di Cristo [1] – che spinge a pensare addirittura ad una diretta derivazione da modelli orientali, secondo Gandolfo (1988, 308) forse frutto di una precisa domanda della committenza. Con i dipinti della Rotonda, poi, il Crocifisso di Sant’Alberto condivide anche la particolare cadenza – goticizzante – nei brani a più personaggi: nelle due coppie che nella Croce sono ai lati del Cristo, il movimento dato dal contrasto tra la compattezza dei corpi e la diversa posizione delle teste ricorda quello del gruppo delle tre Marie ne La Visita al Sepolcro alla Rotonda. È nel trattamento dei volumi che il Crocifisso di Sant’Alberto si stacca anche cronologicamente dagli affreschi della Rotonda (¤ 44c): se la ricerca di una resa plastica delle forme, ottenuta tramite un sottile gioco di modulazione del colore, può trovare una giustificazione nel forte sostrato bizantino (Gandolfo 1988, 308), essa è indizio dell’appartenenza della Croce a un’epoca – verosimilmente gli anni Settanta – in cui comincia a manifestarsi l’orientamento che assumerà la pittura romana negli ultimi due decenni del secolo. L’ipotesi di Strinati di vedervi un’opera giovanile del Torriti (Strinati 1982, 19-20), pur non supportata da riscontri diretti con le opere autografe del pittore (Gandolfo 1988, 308; Tomei 1990, 132), ne è chiara dimostrazione. E lo dimostrano pure i punti di contatto con le pitture della sacrestia all’abbazia delle Tre Fontane (¤ 63), alle quali, oltre che per il forte naturalismo delle forme, la Croce di Sant’Alberto s’avvicina nella fisionomia dei personaggi, come indica il confronto tra il san Giovanni del Crocifisso [2] e la Vergine nella lunetta con la Natività dell’abbazia cistercense. Degna di nota, la raffigurazione piuttosto inconsueta della Luna come una figura bendata che ha forte sapore tardo-antico e richiama quelle, frequenti negli avori e nelle miniature di epoca carolingia e ottoniana, in cui le personificazioni dei due astri partecipano al dolore dei protagonisti della scena, coprendosi il volto con le mani velate. Da quanto s’intravede nella fotografia, al di sopra di questo clipeo potrebbe essercene stato un altro – oggi
quasi completamente scomparso forse a causa dell’amputazione del braccio verticale – che ospitava il Sole come, ancora una volta, in esempi carolingi, quali l’Evangeliario di Lindau (seconda metà del IX secolo). Dalle fotografie in nostro possesso, l’iscrizione in greco non è visibile: Strinati la restituisce con «Vikitns» e «Tou Vanatou» (Strinati 1982, 20 nota 3); più plausibilmente, tuttavia, la seconda parte è da intendere «Tou Tanatou», dal momento che il termine greco per «morte» è Tanatos. È stato proposto di vedere nei due donatori raffigurati ai piedi del Crocifisso due esponenti della Confraternita del Gonfalone (Strinati 1982, 19), la cui divisa – una veste completamente bianca – sarebbe riconoscibile in quella indossata dalla figura di destra; com’è già stato obiettato, però (Gandolfo 1988, 308), se si trattasse effettivamente dell’abito della Confraternita, questo sarebbe provvisto della grande croce rossa posta ad altezza del petto, completamente assente, invece, nella veste del personaggio in questione che, oltretutto, come già detto più sopra, sembra essere una figura femminile. Nessun elemento, infine, autorizza a immaginare una connessione tra il Crocifisso e la chiesa – oggi scomparsa – di Sant’Alberto all’Esquilino che, a partire dal 1267, diventa la sede della Compagnia del Gonfalone (Strinati 1982, 19): l’unico dato certo di cui disponiamo è il legame con il monastero della Traspontina, qualsiasi altra illazione è arbitraria. Raro esemplare romano duecentesco, il Crocifisso di Sant’Alberto è prezioso anche per la tipologia della sua committenza: una coppia di laici.
Interventi conservativi e restauri
Anni Trenta: restauri ad opera della Soprintendenza alle Gallerie e alle Opere d’Arte Medioevali e Moderne del Lazio. 1981: restauri ad opera della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Lazio sotto la direzione di Gianlugi Colalucci.
Documentazione visiva
Fotografie (1980), Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici di Roma.
Bibliografia
Brandi 1941; Lavagnino 1941; Hermanin 1945, 337; Garrison 1949, 190; Campini 1966, 128-129; Matthiae 1966a [1988], 153; Mellini 1969, 368; Strinati 1982; Marques 1987, 18; Gandolfo 1988, 308; Tomei 1990, 132; Tomei 1991a, 331; Romano 1995b, 96-98. Irene Quadri
SANT’ALBERTO 307
56. LA DECORAZIONE A FRESCO IN PALAZZO SARAGONA-ALBERTONI (MUSEO NAZIONALE ROMANO, CRYPTA BALBI) 1260-1285 ca.
56a. IL SALONE A ‘L’ AL PRIMO PIANO La parte più rilevante delle pitture è costituita da un tralcio vitineo a girali, che si sviluppa in senso orizzontale lungo le pareti, composto di foglie oblunghe (pampini), viticci e grappoli. Nello spazio di risulta all’interno dei girali la decorazione viene completata da fioroni a otto petali, ai quali si alternano stemmi araldici. Il tralcio vegetale, che si staglia su fondo biancastro, è di colore rosso scuro con bordi verdi così come le singole foglie e i petali, mentre i grappoli sono colorati di giallo e di verde scuro. Gli scudi araldici, del tipo appuntato, sono due: il primo, campito in giallo chiaro all’interno di una bordura scalinata, presenta al centro tre crescenti, disposti in diagonale, con ai lati due spade; il secondo, più elaborato, è suddiviso in quattro parti (inquartato) e presenta, nel primo e nel quarto riquadro, un motivo a forma di vaio di colore nero su fondo forse d’argento e nel secondo e nel terzo, una stella d’oro con bottone centrale su fondo rosso. Il tralcio vegetale è chiuso lungo i bordi da una fettuccia gialla orlata di nero e al di sotto di questa (non si sono conservati resti della decorazione pittorica superiore) si sviluppano due larghe fasce colorate di rosso separate da una banda chiara. Nel sottarco dell’arco passante che divide il salone in due ambienti è ancora in fase di liberazione dal muro di tamponamento che lo ricopriva una porzione di intonaco dipinto con un motivo a candelabra. Si tratta di una sorta di festone formato da una sequenza continua di forme vegetali riconoscibili genericamente come gigli a tre petali, con il gambo allungato, di colore verde con lumeggiature chiare. Queste sono collegate fra di loro da un elemento circolare a forma di disco, dal quale si staccano, lateralmente, grossi fiori tripetali di colore rosso con nervature verdastre e bianche e, in direzione diagonale, infiorescenze di colore giallo-arancio con gambo allungato e dall’andamento sinuoso, che terminano con un piccolo fiore con corolla a tre petali. L’intera composizione fitomorfa si staglia su un fondo verde scuro imitante una sorta di siepe, che presenta lungo i bordi una serie di piccole foglie disposte in sequenza. La superficie dipinta dell’arco risulta inquadrata da una cornice a due bande colorata di giallo e rosso, separate da un listello chiaro.
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Note critiche
Il complesso delle pitture del salone di Palazzo Saragona appare inseribile nell’ambito della produzione artistica romana e laziale della seconda metà del XIII secolo, nella quale si rintracciano alcune importanti testimonianze di decorazioni dipinte a carattere profano in edifici a destinazione residenziale. La sua funzione, pur nella semplicità dell’impianto, non sembrerebbe riconducibile ad una esigenza esclusivamente decorativa, a quanto ovviamente si può giudicare dai resti pervenuti. La presenza ripetuta e insistita di stemmi araldici all’interno di un ambiente, che per le dimensioni e per il ricco apparato ornamentale fin dalle origini ebbe probabili funzioni di rappresentanza, sembrerebbe suggerire un intento celebrativo, forse da ricollegare a un avvenimento specifico che coinvolse entrambe le famiglie cui sono da riferire gli stemmi presenti nei girali. Per circoscrivere con maggiore precisione il contesto storico di appartenenza delle pitture si mostra particolarmente significativo, sotto il profilo stilistico e morfologico, il confronto istituibile con le decorazioni fitomorfe, anche se molto restaurate, presenti nei sottarchi delle bifore della sala delle udienze del Palazzo papale 308 PALAZZO SARAGONA-ALBERTONI, VIA DELLE BOTTEGHE OSCURE / ATLANTE II, 48
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di Viterbo, risalente al tempo di Clemente IV (1265-1268). Oltre alla sostanziale sovrapponibilità del disegno delle foglie del tralcio, le relazioni si evidenziano soprattutto nella resa ancora stilizzata e linearistica, tendente alla semplificazione, delle forme vegetali (Radke 1984, 27-28). Sotto questo aspetto risulta molto convincente anche l’accostamento con il motivo a girali e rosette dipinto nel sottotetto dell’aula consiliare del Palazzo Senatorio in Campidoglio (¤ 58). Nelle testimonianze citate manca ancora quella interpretazione pienamente aderente al dato naturale con sfumature di toni nei colori, dai contorni lumeggiati, e morbidi passaggi chiaroscurali nelle ombreggiature – che conferiscono profondità prospettica e maggiore verosimiglianza agli elementi fitomorfi – che caratterizza, invece, analoghi ornati a partire, indicativamente, dall’ultimo decennio del XIII secolo. L’associazione degli stemmi araldici alla decorazione dipinta si rintraccia a Roma in questo periodo sempre nel Palazzo Senatorio in Campidoglio (¤ 58). Purtroppo non è stato possibile identificare i due stemmi riprodotti all’interno dei girali che sembrano presentare solo alcune lontane somiglianze con gli emblemi rispettivamente delle famiglie romane dei Crisi, per quanto riguarda l’emblema con il vaio, e dei Cosciari, nel quale sono riprodotti in diagonale tre spade. I proprietari dell’edificio, ai quali va attribuita la trasformazione della struttura, che assume le caratteristiche di un vero e proprio palazzo residenziale proprio nel corso del Duecento (Vendittelli 2010, 9-23), dovevano comunque svolgere un ruolo di primo piano nella vita economica e politica di questo settore della città e disporre di notevoli risorse, se erano in grado di far decorare gli ambienti della loro residenza con pitture paragonabili alle maggiori realizzazioni del genere eseguite all’epoca a Roma. Non è escluso, ma è solo un’ipotesi di lavoro, che essi, viste le evidenti relazioni artistiche individuate fra le decorazioni dell’edificio con alcune delle opere promosse da PALAZZO SARAGONA-ALBERTONI, VIA DELLE BOTTEGHE OSCURE / ATLANTE II, 48 309
Niccolò III, fossero in qualche modo in stretto contatto proprio con gli Orsini, che avevano su questa sezione della città una certa egemonia, controllando, mediante legami con alcune potenti famiglie della zona, parti cospicue dei rioni Arenula e Sant’Angelo (Manacorda 2001, 73-79). Tale genere di considerazioni trova un’ulteriore conferma dall’analisi del festone di fiori dipinto nel sottarco del salone, dove si nota, grazie all’uso di lumeggiature, assenti invece nel tralcio vitineo, una maggiore morbidezza ed eleganza degli elementi floreali. Il decoro sembra trovare anche in questo caso i confronti più convincenti in quelle testimonianze, inseribili cronologicamente fra l’ottavo e il nono decennio del XIII secolo, molto legate allo stile delle imprese del papa Orsini. Si fa riferimento alle decorazioni pittoriche del palatium Novum di Niccolò III in Vaticano (¤ 62) e, inoltre, allo straordinario repertorio ornamentale, di netta impronta antichizzante, rintracciabile negli affreschi del Sancta Sanctorum al Laterano (¤ 60). Il motivo floreale che si staglia su un fondo vegetale verde scuro – una sorta di siepe con i bordi delimitati da una sequenza continua di foglioline stilizzate, che mette in risalto la brillante cromia dei fiori a forma gigliata – si rintraccia molto simile, anche se con alcune varianti, sospeso come una ghirlanda fra fioroni polipetali, nella intercapedine della Sala Vecchia degli Svizzeri del Palazzo Vaticano (¤ 62c). Anche qui dall’elemento centrale si staccano lateralmente alcune infiorescenze, che non si sviluppano però in lunghezza, come nel caso delle pitture del sottarco, ma risultano arricciate e terminanti con fiori quadripetali, boccioli e foglie lanceolate riprodotte con notevole eleganza. Sempre all’interno del Palazzo Vaticano conviene soffermarsi, inoltre, sul fregio del piccolo vano del Cubicolo (¤ 62b), caratterizzato da grifi iscritti entro tondi e girali, nel quale, all’interno di un motivo a forma di cuore, si nota la medesima disposizione dei singoli elementi ornamentali: a fiori a forma di giglio, identici nella forma e nella resa a quelli del Palazzo Saragona, si frappongono, disposte in diagonale, singole infiorescenze con lungo gambo sinuoso, terminanti con corolla di petali a forma di bulbo. Per la forma complessiva del festone floreale si possono richiamare, infine, gli analoghi ornati a candelabra, anche se leggermente più complessi, dipinti sui costoloni della volta del Sancta Sanctorum (¤ 60). Anche in questo caso, i motivi laterali non sono allungati ma risultano arricciati, mentre identici si presentano i bordi, dove sono dipinte in sequenza singole foglioline, che risaltano su un fondo color ocra con bordo rosso.
56b. LA SALA AL SECONDO PIANO Lungo le pareti dell’ambiente si conserva una sottile striscia dipinta recante un motivo a losanghe di colore verde con bordi più chiari, con dischi di colore giallo all’incrocio delle diagonali; al loro interno, alternativamente, sono raffigurati, dipinti di bianco su un fondale rosso acceso, un drago e, verosimilmente, una gru con le ali aperte (si conserva solo una parte del corpo che non consente di riconoscere con precisione la specie dell’animale).
Note critiche
La decorazione pittorica trova possibilità di confronto, soprattutto da un punto di vista tipologico, con le analoghe pitture presenti nella Sala delle “oche” nel Palazzo cosiddetto di Bonifacio VIII ad Anagni, di datazione controversa – con proposte che oscillano dall’età di Gregorio IX (1227-1241), forse la più verosimile (Monciatti 2005a, 39-41), a quella di Bonifacio VIII (Carbonara 1989, 28), quando l’edificio fu acquistato dalla famiglia Caetani (1297) – dove un’intera parete risulta ricoperta di una sorta di rete a maglie larghe, che disegna riquadri colorati di verde, arancio e azzurro su cui si stagliano uccelli di colore bianco in pose araldiche.
57. IL MOSAICO DELLA FACCIATA DI SANTA MARIA IN TRASTEVERE. TERZA FASE: VERGINE D5 Ottavo decennio del XIII secolo
Per la scheda generale sul mosaico, vedere ¤ 7
Note critiche
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L’abitudine di rivestire gli ambienti di dimore di prestigio, religiose o civili, di una decorazione imitante i motivi di una lussuosa foderatura tessile dipinta, caratterizzata in genere da composizioni geometriche contenenti soggetti zoomorfi, è ampiamente attestato a partire proprio dal Duecento e deriva dalla sempre più diffusa presenza nell’arredo delle abitazioni dell’epoca di tessuti e arazzi appesi alle pareti. Riguardo alle raffigurazioni dei singoli animali le relazioni più convincenti sono ancora una volta da ricercare nelle decorazioni del palatium Novum di Niccolò III in Vaticano (¤ 62), dove nei fregi pertinenti al vano del Cubicolo si rintraccia un animale fantastico riprodotto numerose volte in posizione araldica, il grifo, che, pur nella resa maggiormente curata dei dettagli anatomici, mostra alcune precise analogie morfologiche con il drago presente nelle pitture in esame; in entrambe le figure le ali sono realizzate attraverso quattro sottili penne dal profilo allungato, disposte in sequenza decrescente e terminanti a punta. Per l’altro animale, forse una gru, il ventaglio dei possibili riferimenti, si mostra piuttosto esteso. Il tema degli uccelli con le ali spiegate, di solito identificabili con colombe, si trova in questo periodo a Roma per esempio già nel Paesaggio marino della volta dell’Aula nel convento dei Santi Quattro Coronati (¤ 30a), per poi ricomparire, qualche decennio più tardi, nella Sala dei Chiaroscuri del palatium Novum in Vaticano e negli affreschi del Sancta Sanctorum e, più avanti nel tempo, in quelli dell’ala dei Monaci nell’abbazia delle Tre Fontane. Altrettanto può dirsi per un’analoga figurazione presente tra i girali nel mosaico absidale di Santa Maria Maggiore, di Iacopo Torriti, e per quella che si trova nella scena della Creazione del mondo nella basilica superiore di San Francesco ad Assisi (Tomei 1990, 62). Lo stato di conservazione del motivo dipinto nel Palazzo Saragona si mostra piuttosto precario, della figura è leggibile poco più della silhouette, per cui pare azzardato proporre precisi riscontri stilistici, anche se l’intonazione naturalistica della posa dell’animale, non priva di una certa eleganza, trova il riscontro forse più convincente, anche in questo caso, con le pitture del Palazzo Vaticano (¤ 62) e del Sancta Sanctorum (¤ 60).
Bibliografia
Interventi conservativi e restauri (¤ 7) Documentazione visiva (¤ 7)
Vendittelli 2004, 222-241; Vendittelli 2010, 9-23.
310 PALAZZO SARAGONA-ALBERTONI, VIA DELLE BOTTEGHE OSCURE / ATLANTE II, 48
La differenza stilistica e cronologica tra la vergine D5 – all’estrema destra del mosaico – e le due figure che la precedono (D3 e D4) è notata da Oakeshott (1967, 245-246), che tuttavia non argomenta l’osservazione e non ha avuto gran seguito negli studi. Ricordiamo che le figure D3 e D4 sono a nostro avviso il risultato di un primo intervento di restauro, subito dal mosaico non molto tempo dopo la prima realizzazione (¤ 7b). La figura D5 si differenzia però in modo evidente dalle altre: il volto è più rotondo, il naso è a uncino con sopracciglia congiunte a “V”, e la veste, pur decorata con gli stessi motivi delle vergini S1, D3 e D4, è stretta alla vita da una cintura che mette in evidenza il leggero déhanchement del corpo; il manto che ricade sul braccio è marcatamente più elaborato. Gli occhi a mandorla sono ormai piuttosto vicini a quelli delle più tarde figure di sinistra (S5, S4, S3), con le quali però non c’è possibile confronto nelle proporzioni del corpo e nella soluzione della gestualità. La figura offre piste multiple di confronti. La silhouette del corpo è goticizzante, secondo schemi che si ritrovano negli affreschi di poco posteriori alla metà del secolo (ad esempio, i medaglioni allegorici di San Saba, ¤ 37), ma i tratti del volto arieggiano opere anche meridionali e campane (si potrebbe citare la Vergine da Santa Maria in Flumine, oggi a Capodimonte, tuttavia più tarda: Braca 2003, 268, 281). La figura D5 mostra in realtà significative tangenze con i mosaici del Sancta Sanctorum, opera romana della ricostruzione orsiniana. Le si riscontra nel sistema di ricaduta del manto ripiegato sul braccio, ma anche nel volto, che si può accostare a quello della sant’Agnese della cappella lateranense (¤ 60), anch’esso marcato sulle labbra e sugli zigomi da tessere color arancio, una particolarità che non ci sembra di aver rilevato altrove nei mosaici romani duecenteschi, eccetto sulle labbra della Vergine della facciata di San Pietro (¤ 19). Arcaicizzante è tuttavia, nella vergine trasteverina, la resa dei contrasti luminosi del volto per mezzo di file di tessere blu e rosse, usata nelle più antiche figure dello stesso mosaico (¤ 7a) e invece già abbandonata nel mosaico Capocci (¤ 42). Il modello tecnico delle figure vicine può aver avuto un impatto su questa vergine, che forse sostituì un brano già precedentemente restaurato ma di nuovo in cattive condizioni: certo, delle vergini D3 e D4 essa conserva la corona e la lampada accesa, quest’ultima forse un fraintendimento iconografico (¤ 7b). La prossimità stilistica tra questa figura e i mosaici del Sancta Sanctorum induce dunque a datare la vergine di Trastevere in anni vicini: forse il goticismo della silhouette potrebbe anticiparne un po’ la data rispetto al Sancta Sanctorum, facendo così del restauro di Trastevere una tappa della continuità del mestiere musivo in città, tra la facciata di San Pietro e il Sancta Sanctorum, e ben al di là delle più limitate decorazioni cosmatesche.
Fabio Betti
Antonio Eclissi, disegno acquerellato (1630-1640), BAV, Barb. lat. 4404, f. 6; Antonio Eclissi, disegno acquerellato (1630-1640), WRL 9050.
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Fonti e descrizioni (¤ 7)
Necrologio di S. Maria in Trastevere (XIV secolo), LBM, ms. 14801 (in Egidi 1908, 99).
Bibliografia (¤ 7)
Oakeshott 1967, 245-246; Kinney 1975, 303 nota 173; Guide rionali. Trastevere II 1980, 96; Gandolfo 1988, 303; OsborneClaridge 1996, 227; Marchei 1999, 29. Karina Queijo
SANTA MARIA IN TRASTEVERE 311
58. GLI AFFRESCHI DELL’AULA CONSILIARE DEL PALAZZO SENATORIO 1278-1279
La decorazione sopravvive nell’attuale sottotetto del Palazzo Senatorio, sul timpano alla sommità del corpo di fabbrica sinistro dell’edificio [1]. Il campo triangolare del timpano è bordato da fasce rosse e blu orlate di bianco, cui si aggiunge in basso un’ampia banda a fondo scuro, con fregi di tipo vegetale, a foglie rosse e gialle, organizzato secondo ritmi alternati di motivi a efflorescenze gigliate e altri ad andamento cuoriforme, con rosette e orlature bianche. L’interno del timpano, forato da una finestrella quadrangolare, ha fondo giallo interamente percorso da una serie di racemi di foglie d’acanto, ogni racemo con al centro un fiore curiosamente composto da quattro petali azzurri o rossi e una sorta di base quadrata anch’essa blu o rossa, a contrasto, e bottone centrale giallo con margherita bianca [4]. Il pattern dei girali mostra, tendenzialmente, i racemi a più largo diametro in basso, e via via quelli più piccoli verso l’alto, ma senza che ne sia ricercata una forte simmetria, e nemmeno una rigorosa centralizzazione sulla parete. Il bordo laterale della parete è segnato da una fascia a fondo pure giallo, con un racemo più sottile e largo che si avvolge in verticale; lo stesso motivo decora la piattabanda della finestrina. Al di sotto del fregio vegetale, e dopo una banda rossa di intervallo, ha inizio un campo verde bordato da una cornicetta gialla, occupato da tre grandi stemmi dipinti, due Orsini e al centro lo stemma senatoriale a campo rosso con in diagonale le lettere S.P.Q.R. [2]. Oltre questa sorta di pannello araldico, un’altra fascia rossa segna l’intervallo con un ulteriore campo verde, di cui è sopravvissuto solo il bordo superiore. Nella parte sinistra della parete, invece, a partire da poco prima della metà del muro, l’ultimo restauro ha finalmente recuperato quanto Carlo Pietrangeli aveva visto nel
1959 e in seguito nessuno più, a causa delle coperture di sicurezza del piano di calpestio. Sul fondo verde appare infatti una grande figura d’angelo [3], rivolto di profilo verso sinistra, un po’ curvo e con una gamba avanzata. L’angelo ha grandi ali a piume rosse e bianche – queste ultime realizzate con pennellata ricca e spessa, come a segnare un reale piumaggio – veste bianca e sopravveste a sfumature gialle; la lacuna dell’intonaco l’ha privato della testa, così che si intravede appena il bordo dell’aureola, forse piatta e senza pastiglia né raggiatura. Sulla parete destra sopravvivono piccoli resti del fregio a fondo scuro, uguale a quello della parete timpanata, e nella fascia sottostante compaiono altri due stemmi, uno del Senato e uno Orsini, uguali agli altri. La lacunosità dei resti impedisce di comprendere se anche su questa parete il ritmo degli stessi fosse ternario, magari invertito rispetto al primo, con due stemmi senatori e al centro uno Orsini.
Note critiche
Secondo la ricostruzione di Carlo Pietrangeli e di alcuni studi successivi (Pietrangeli 1960; Id. 1967) il Palazzo includeva, al di sopra del piano terra porticato, un’aula dedicata all’amministrazione della giustizia, aperta sulla facciata con una serie di arcate a tutto sesto su colonne di marmo a vari colori e capitelli ionici, di un tipo attestato in vari edifici romani durante la prima metà del Duecento e specialmente attorno alla metà del secolo (Romano 1994b). Al di sopra di questo ambiente, e sullo stesso perimetro, c’era una seconda aula, coperta con tetto a travature lignee e a sua volta aperta sulla facciata da una serie di
arcate a tutto sesto: sembra esser stata usata per le udienze e per le riunioni del Consiglio Generale. È questo secondo ambiente quello cui era pertinente la decorazione pittorica attualmente visibile nel sottotetto. È plausibile che questo insieme di fabbriche, innestate al di sopra delle strutture antiche della Camellaria in cui si installò il rinato Senato Romano nel 1143-44, sia il frutto della radicale trasformazione e dell’ampliamento dell’edificio effettuati nel corso della prima metà del XIII secolo e registrati nel documento che per la prima volta, nel 1257, menziona un palatium Novum (Pietrangeli 1960, 3; per il documento Bartoloni 1948, 213). È tentante legare la parte essenziale di questa fase del palazzo al nome di Brancaleone degli Andalò, conte bolognese attivissimo senatore di Roma dal 1252 al 1256 e di nuovo, ma in modo più contrastato, nel 1257-58 (Cristiani 1961): le forme architettoniche e plastiche delle arcate e dei capitelli del loggiato inferiore si adatterebbero bene a questa cronologia. È dunque da discutere la pertinenza cronologica dei dipinti del sottotetto alle fasi architettoniche qui accennate. Nella decorazione del timpano, la tipologia dei racemi d’acanto con gli strani fiori blu e rossi ha un parallelo piuttosto convincente nei fregi vegetali, molto ridipinti, che decorano l’intradosso delle finestre del palazzo papale di Viterbo, datati da Radke (1984) ai lavori di ampliamento del palazzo promossi da Clemente IV nel 1266: sono anch’essi su fondo giallo, a fiori blu e rossi, e presentano la curiosa soluzione dei quattro petali posti su una specie di base quadrata, un recupero antiquario con colori molto gotici. Un più maturo esempio di questo medesimo pattern sarà poi nella controfacciata di Santa Maria Maggiore, dove i racemi su campo giallo si svolgono inquadrando il medaglione con l’Agnello e conservano abbastanza simile lo schema del fiore a ‘base’ quadrangolare (Wilpert 1916, IV, tav. 270). Il fregio vegetale della fascia bassa appartiene invece alla serie di analoghi motivi largamente attestati nelle chiese di Roma, forse il più vicino, ancorché non identico, quello della Rotonda ai Santi Cosma e Damiano (¤ 44c), nonché, specie per gli elementi fogliati a
chiusura quadrata, quello della cosiddetta Torre di Innocenzo III nel Palazzo Vaticano (¤ 32). Ad anni un po’ più tardi puntano invece gli indizi offerti sia dalla serie di stemmi, sia dalla figura dell’angelo. Gli stemmi Orsini alternati a quelli con S.P.Q.R. hanno fatto pensare ad un’esecuzione nel momento in cui la carica senatoriale era occupata da due membri della medesima famiglia Orsini, il cui momento clou è agli anni del pontificato di Giovanni Gaetano Orsini, Niccolò III (Romano 1994b). Come è ben noto, Giovanni Gaetano, eletto papa nel 1277, tolse ai cittadini stranieri la possibilità di accedere a cariche e magistrature romane (colpendo ovviamente Carlo d’Angiò) e si attribuì la carica di senatore romano, dividendola con il nipote Matteo Rosso. Ciò avveniva nel 1278-79, durando la carica senatoriale un anno; nel ’79 il papa Orsini delegò Pandolfo Savelli e Giovanni Colonna (Pompili Olivieri 1840, 224-225). Tutto questo insieme di questioni ulteriormente si lega al problema della veduta di Roma di Cimabue nell’Ytalia della crociera superiore del San Francesco ad Assisi (Andaloro 1984; Romano 2001a) dove il frontone del Palazzo Senatorio, come d’altronde il lato lungo, è ornato di stemmi Orsini e del Senato, esattamente come negli affreschi di cui stiamo discutendo. Si è quindi considerato che Cimabue, presente a Roma nel 1272 (Battisti 1963) avesse registrato ‘dal vero’ il dettaglio degli stemmi (la cui presenza all’esterno del Palazzo non è stata tuttavia mai verificata), e che la loro presenza nell’Ytalia si spieghi con la committenza orsiniana degli affreschi cimabueschi ad Assisi, quindi datati al 1280 circa (Andaloro 1984; Romano 2001a; per la cronologia degli affreschi assisiati invece al pontificato di Niccolò IV, Bellosi 1998). Tutto il ragionamento naturalmente si fonda sul ‘realismo’ della veduta di Cimabue e, per quanto riguarda l’interno affrescato del Palazzo Senatorio, sul fatto che siano oggi rimasti visibili solo stemmi Orsini e stemmi S.P.Q.R.: se accanto agli stemmi Orsini ne fossero esistiti altri, perduti, l’intera questione sarebbe da riconsiderare. Oggi, dopo il restauro, la figura dell’angelo e gli stemmi sono nuovamente visibili, ed è per la generosità del direttore dei
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Musei Capitolini Claudio Parisi Presicce, e delle dottoresse Maria Dell’Era e Margherita Albertoni, che sono qui presentati gli affreschi ora molto meglio leggibili, tentando un passo avanti nella complicata questione. Non è tuttora chiaro, e forse non potrà esserlo mai, quale fosse l’orditura decorativa della parete, e ancor meno dell’intera sala: la non centratura della figura dell’angelo sulla parete è forse sorprendente, né si può capire quale fosse il contesto iconografico al quale l’angelo apparteneva. Il gesto, e la posizione, fanno pensare ad una posa adorante: si vedano ad esempio, qualche decennio prima, gli angeli nel San Pietro in Valle a Ferentillo, in atto di rendere omaggio ad un perduto Cristo centrale (Kessler 2003; Romano 2003a). Era dunque quasi certamente un pannello a tema religioso – il che non stupisce affatto anche nella sede ‘laica’ del Senato – e forse lo si potrebbe immaginare come un Cristo in trono tra due angeli adoranti. Meno probabile a mio avviso che l’angelo si inchinasse in guisa di porta-stemma verso un ulteriore simbolo araldico. Ma nonostante l’incertezza iconografica, la figura è preziosa ai fini della datazione dell’insieme. I fregi, infatti, sono come si è detto legati ai repertori della metà e terzo quarto del secolo; l’angelo, invece, rispetto ad esempio all’altro bianco angelo della Rotonda ai Santi Cosma e Damiano (¤ 44c), dove il fregio vegetale mostra somiglianze con questo capitolino, è di una pittura che appare molto più sciolta, libera ormai da ogni schematismo e graficizzazione delle pieghe; morbida nella sovrapposizione delle velature bianche, brune e gialle, capaci di accompagnare bene l’anatomia corposa della figura. L’accostamento delle pennellate gialle e ocra sul fondo bianco del tessuto evoca accordi molto ellenizzanti: c’è una forte componente di natura bizantinizzante nei modelli e nelle stesure di questa figura, il cui confronto più pertinente è in un’altra opera certamente orsiniana, cioè gli affreschi del Sancta Sanctorum (¤ 60), sia per la pittura a pennellate forti e compendiose, che per
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alcuni stilemi, quale il panneggio che svolazza ‘a cupoletta’. Non è chiaro se l’aureola dell’angelo, di cui resta oggi solo un frammento di preparazione, fosse piatta, come al Sancta Sanctorum, o a pastiglia raggiata, come già accade ad esempio ad Assisi già alla soglia del 1280. Se gli affreschi capitolini sono davvero da datare al 1278-79, la coincidenza temporale con il Sancta Sanctorum sarà perfetta: si sarà trattato di due diverse botteghe impegnate per lo stesso committente, che chiamava a raccolta tutte le forze disponibili a Roma e nelle città ad essa legate per popolare i molti cantieri aperti. In questo episodio aumentato alla nostra conoscenza, il tassello aggiunto alla geografia stilistica della Roma dell’ultimo quarto del secolo ulteriormente aiuta a comprendere in quale ambiente, e con quali punti di riferimento, si sia svolta la formazione e la prima attività di Jacopo Torriti.
Interventi conservativi
Prima metà del XX secolo: sondaggi e rinvenimento degli affreschi da parte della Soprintendenza Comunale. 2010-11: restauro degli affreschi da parte della Soprintendenza Comunale.
Documentazione visiva
Fotografie all’Archivio Fotografico Comunale (1935 ca.).
Bibliografia
Pietrangeli 1960; Pietrangeli 1964, 192; Romano 1994b; Bellosi 1998, 85; Romano 1998; Monciatti 2005a, 86. Serena Romano PALAZZO SENATORIO / ATLANTE II, 30 315
59. IL CICLO CON STORIE DEI SANTI PIETRO E PAOLO E DI SAN SILVESTRO E COSTANTINO NEL PORTICO DI SAN PIETRO IN VATICANO 1277-1280
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Alla Reverenda Fabbrica di San Pietro sono conservati due frammenti raffiguranti i busti degli apostoli Pietro e Paolo [1, 2] (entrambi misurano cm 39 x 27) provenienti dal ciclo con le Storie di san Pietro e san Paolo e di san Silvestro e Costantino che decorava la fronte del portico dell’antica basilica vaticana (ubicazione che appare perlomeno isolata, per tecnica e formato, in quanto ci è noto della tradizione romana). Dei due affreschi si era persa ogni traccia fino a tempi recenti: nel 1913 Antonio Muñoz li ritrova tra le opere della Collezione Stroganoff (Muñoz 1913a); passati in possesso del Vaticano sono di nuovo ritenuti perduti fintanto che il Wollesen non li individua tra i pezzi non esposti della collezione vaticana (Wollesen 1983, 348; Id. 1998, 71). Sul retro di ognuno dei due riquadri – in epoca non precisata gli affreschi vennero trasferiti su un nuovo supporto e collocati in telai di legno – si trova la seguente iscrizione (sul riquadro col san Paolo cambia, ovviamente, il termine di riferimento): «Imago Haec Divi Petri Eruta fuit Ex Vetustissima Basilica Vaticana Quae anno Dñi MDCVI. Demolita Est. Quam Illmo El Rmo Dno Dno Suo Colmo Benedicto Iustiniano S. R. E. Episcopo Cardinali Sabinensi Ascanius Basilicae Parochus Obtulit Servitutis Ergo Anno Domini MDCXVII» (Muñoz 1913a). I due frammenti corrispondono alle teste di Pietro e Paolo nel Sogno di Costantino (ibid., 177), l’unica scena in cui i due Apostoli appaiono insieme e in posizione perfettamente identica [10]. Gli affreschi sono oggi ancora piuttosto ben leggibili nonostante le ridipinture: san Pietro, i capelli e la barba bianca, indossa un manto giallo [1]; san Paolo, invece, i pochi capelli e la lunga barba castani, porta una veste che oggi appare grigia, coperta da un manto rosso [2]. Le due figure – il volto circondato da ampie 316 PORTICO DI SAN PIETRO IN VATICANO / ATLANTE I, 1
aureole gialle – si stagliavano davanti a un’imponente architettura che faceva da sfondo [10]: ne sono ancora visibili delle tracce grigio-azzurre. Il ciclo, poi, ci è almeno in parte noto grazie alle due serie di documenti contenuti nell’Album del ms. ACSP, A. 64 ter, e negli Instrumenta autentica (BAV, Barb. lat. 2733; d’ora in avanti rispettivamente abbreviati in Album e Barb. lat. 2733) di Giacomo Grimaldi, eseguiti tra il 1608 e il 1609, poco prima che si procedesse con la demolizione della parte anteriore della basilica (Niggl 1971, 39-41). I disegni dell’Album sembrano appartenere a due gruppi non identici, il primo [3, 4] includente disegni con tocchi di colore azzurro e di formato più stretto, gli altri [5-10] monocromi e di formato rettangolare. La differenza potrebbe semplicemente segnalare una diversa mano nell’esecuzione delle copie, poi convogliate nella stessa compilazione, l’Album appunto. Le copie seicentesche riproducono le nove scene ancora visibili a quel tempo (¤ Doc. vis.): la Caduta di Simon Mago, Domine quo vadis? [3], la Crocifissione di Pietro [4], la Decollazione di Paolo [7], la Sepoltura di Pietro [5], i Corpi degli Apostoli vengono gettati nel pozzo [6], i Corpi degli Apostoli sono sepolti in San Sebastiano [8], il Sogno di Costantino [10] e Papa Silvestro mostra le immagini degli Apostoli a Costantino [9]. Di altri due episodi («Erant duae aliae historiae, quarum unam iam fabricatores deiecerant», Barb. lat. 2733, f. 143v) il Grimaldi dà solo una descrizione sommaria, avvertendo che una di esse era già distrutta quando lui scrive. La scena sembra includere contemporaneamente due vicende distinte: l’immagine di Pietro che offre del pane a due cani si riferisce agli Atti apocrifi (Apocrifi
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del Nuovo Testamento 1994, II, 126) in cui Pietro, leggendo nel pensiero di Simon Mago, vede che questi vuole lanciargli contro dei cani e si fa quindi dare un pane benedetto per tenerli a bada. Grimaldi però include nella stessa scena anche il Simon Mago attaccato dai cani, che invece costituisce il seguito della storia, narrato solo nella Legenda Aurea (I, 633): Simone porta a casa del discepolo Marcello un grande cane affinché aggredisca Pietro, ma basta un segno della croce da parte dell’apostolo perché l’animale assalga invece il mago. È oggi impossibile dire se nel rendere conto del ciclo del portico, Grimaldi abbia concentrato in uno solo due episodi che erano rappresentati separatamente, oppure se effettivamente il programma presentasse un’unica scena in cui erano contenuti due momenti diversi della storia. In ogni caso, è evidente che la Disputa tra Pietro e Simon Mago era rappresentata in modo dettagliato e in più di una scena. Del secondo episodio, invece – La morte di Nerone – Grimaldi dice non essere visibile a causa del tabernacolo marmoreo con la statua di Pietro che occupava il centro della fronte del portico (Barb. lat. 2733, f. 143v; Album, f. 10) che, tuttavia, non appare nel disegno con la veduta generale dell’atrio, dove, al suo posto, troviamo un semplice frontone (Barb. lat. 2733, f. 132r; ¤ 19[1]). Il Grimaldi, infine, non menziona esplicitamente una scena con la sepoltura di san Paolo, ma ad essa allude quando, nel commento al disegno con la veduta complessiva dell’atrio, enumerando le scene parla di «sepolturae eorundem» (Barb. lat. 2733, f. 132r): l’utilizzo del plurale e il fatto che la Sepoltura di Pietro sia attestata al foglio 139r fa pensare che fosse rappresentata anche quella di Paolo, forse ormai molto rovinata e quindi oggetto solo di questo
laconico accenno (D’Achiardi 1905, 254-255; Wilpert 1916, I, 407; Hueck 1969-1970, 132; Wollesen 1977, 40).
Note critiche
La descrizione ora fornita si basa sui dati offerti – direttamente o indirettamente – dalle testimonianze seicentesche. Tuttavia, in più dei dodici episodi appena citati originariamente il ciclo vaticano ne contava probabilmente anche altri: sedici, infatti, sono le scene che costituiscono il ciclo affrescato con Storie di san Pietro e Paolo e di san Silvestro e Costantino – eseguito intorno al 1300 – sulla parete nord della navata del San Piero a Grado presso Pisa, ormai unanimemente considerato una replica di quello vaticano (D’Achiardi 1905; Hueck 1969-1970, 132; Wollesen 1977), alla quale s’ispira non solo per la tematica, ma per gli stessi schemi compositivi, ripetuti quasi testualmente. Sulla base di questo legame di filiazione, si è quindi ipotizzato che in origine il ciclo del portico vaticano presentasse esattamente le stesse scene che appaiono sulla parete settentrionale della chiesa pisana. È effettivamente plausibile che, per una questione di compiutezza e coerenza, il programma vaticano prevedesse, come a Pisa, in apertura del ciclo L’incontro dei due Apostoli a Roma e in conclusione Costantino fa costruire la basilica di San Pietro, San Silvestro consacra la basilica di San Pietro e San Silvestro uccide il drago (Hueck, 1969-1970, 132; Wollesen, 1977, 107). In questo modo, il sopracitato tabernacolo con la statua di Pietro sarebbe venuto a posizionarsi proprio davanti alla scena con La morte di Nerone (Wollesen 1977, 106). PORTICO DI SAN PIETRO IN VATICANO / ATLANTE I, 1 317
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Considerata la derivazione degli affreschi della parete nord del San Pietro a Grado da quelli della fronte del portico vaticano, ci si può chiedere, con il Wollesen, se anche le Storie di Pietro tratte dal Nuovo Testamento e dagli Atti degli Apostoli, raffigurate sulla parete sud della basilica pisana, avessero la stessa origine (Wollesen 1983, 346). L’Alfarano riferisce infatti che nel 1574, in occasione dei lavori promossi in vista dell’Anno Santo, papa Gregorio XIII (1572-1585) distrusse l’antica decorazione che all’interno del portico si svolgeva al di sopra delle porte d’ingresso alla basilica, per farne eseguire una nuova (Alfarano 1574 [1914], 153). Non sappiamo cosa rappresentassero questi antichi dipinti, conosciamo, tuttavia, i soggetti di quelli cinquecenteschi: Sant’Andrea che presenta Pietro a Cristo, la Chiamata di Pietro, Cristo che dà le chiavi a Pietro con il Pasces oves meas, la Guarigione dello zoppo e Pietro che guarisce con la sua ombra (ibid., 153), ovvero cinque degli episodi che appaiono anche sul muro meridionale del San Piero a Grado. La possibilità che le Storie apostoliche di cui si scrive s’inserissero in un più ampio programma petrino e fossero completate da altri episodi che si dispiegavano anche all’interno del portico (Wollesen 1983, 346-347; Id. 1998, 151-165), originando così un ciclo ricco e particolareggiato appropriato al luogo che per eccellenza celebrava il Principe degli apostoli, appare verosimile. In relazione al ciclo vaticano sono stati fatti i nomi e le datazioni più diverse: particolarmente confuse sono le informazioni fornite nelle fonti. Il Panvinio (BAV, Vat. lat. 7010, f. 280) e l’Ugonio (Ugonio 1588, 95), seguiti più tardi dal Baglione (Baglione 1639 [1990], 41-42), lo attribuiscono a Martino V (1417-1431), cui però già il Bosio e poi il D’Achiardi danno solo il restauro del portico (Bosio 1632, 183; D’Achiardi 1905, 261). L’assegnazione poco convinta del Grimaldi al pontificato di Gregorio IX – egli dice infatti che le pitture «vel ab eodem Gregorio, vel ab alio antiquiore pontefice factae» è contraddetta poco dopo, quando, parlando dei lavori promossi nel portico da papa Leone IV (847-855), Grimaldi attribuisce a questo pontefice anche la decorazione pittorica («fortasse etiam dictas pinxit historias») (Barb. lat. 2733, ff. 132r, 143v). Il Mancini segue Grimaldi (Mancini ante 1630 [19561957], 61-62). Quanto all’attribuzione, prima del ritrovamento dei frammenti Stroganoff, erano stati avanzati i nomi del Cavallini (Strzygowski 1888, 81, 178; Wilpert 1916, I, 410) e di Cimabue (Venturi 1907, 195). L’ipotesi costruita dalla Hueck – che si basava sulle fotografie dei due frammenti, all’epoca creduti scomparsi per la seconda volta – identificava il pittore del portico vaticano con quello romano che affianca il Maestro Oltremontano nel transetto destro della basilica superiore di Assisi, al quale spetterebbero le figure di san Pietro e san Giovanni: sulla base di quanto riporta il Vasari nella Vita di Margaritone d’Arezzo (Vasari 1550 e 1568 [19671968], II, 91), la studiosa proponeva una cronologia al pontificato 318 PORTICO DI SAN PIETRO IN VATICANO / ATLANTE I, 1
di Urbano IV (1261-1264) per i dipinti del portico vaticano e agli anni 1270-1275 per il transetto assisiate (Hueck 1969-1970, 118; Ead. 1978, 331). Oggi la maggior parte della critica assegna entrambi gli episodi al pontificato di Niccolò III (per il portico vaticano si vedano: Belting 1977, 91; Wollesen 1977, 107-112; Piccininni 1980, 38-39; Wollesen 1983, 345; Belting 1983, 96; Gandolfo 1988, 313, 326, 338-339; Tomei 1989a, 141; Id. 1989b, 73; Id. 1990, 53-54; Id. 1991, 339; Romano 1995b, 63, 64-66; Pace 2000, 313; Romano 2001a, 101; per il transetto assisiate, invece, Andaloro 1984; Romano 2001a; Romano 2001b). Indubbiamente, l’apostolo Pietro proveniente dal portico vaticano [1] e quello nella galleria orientale nel transetto d’Assisi parlano un linguaggio simile, in cui sostanziale è il rimando a modelli antichi e tardo antichi. Il confronto proposto dal Wollesen (1983, 348) tra il san Pietro del portico vaticano e quello nella Resurrezione di Lazzaro della navata di Assisi – databile, però, ai primi anni del pontificato di Niccolò IV – mostra come i frammenti vaticani appartengano a quella cultura pittorica di matrice torritiana che comincia a svilupparsi proprio a quest’epoca: essi, tuttavia, non presentano affinità così stringenti con le opere autografe del pittore, da potersi considerare suoi (Tomei 1989a, 145; Id. 1990, 48-54; Id. 2001b, 250), come invece alcuni sostengono (Boskovits 1971, 37, nota 9; Id. 1981, 9, nota 43; Id. 1997, 8; Id. 2001, 153, nota 20; Bellosi, 1983, 130; Id. 1985, 113; Id. 1998, 91, note 5, 222; AndaloroViscontini 2003, 152). La monumentalità delle figure dei due frammenti vaticani [1, 2] – che contraddistingue anche gli apostoli Pietro e Giovanni della galleria orientale di Assisi – sembra effettivamente parlare in favore di un recupero, consapevolmente ricercato, di modelli e lezioni stilistiche dei primi secoli cristiani (Wollesen 1983, 347348; Gandolfo 1988, 326-327; Tomei 1989a, 145), visibili tanto per cominciare nella stessa San Pietro. Che il passato apostolico costituisse un paradigma assoluto al quale confrontarsi lo dimostrano anche i disegni seicenteschi: numerosi indizi – si veda per esempio la maniera di costruire la scena, organizzata per piani, o la presenza di architetture antichizzanti, addirittura l’attitudine di certe figure, come i soldati a cavallo – lasciano supporre che gli artisti avessero una conoscenza diretta e approfondita dell’arte tardoantica, dalla quale trassero soluzioni come quelle indicate dalla Hueck che confrontava il disegno dell’Album con i Corpi degli apostoli vengono gettati nel pozzo (Album, f. 37 [6]) e un rilievo dell’Arco di Costantino (Hueck 1969-1970, 134-135; Wollesen 1998, 68-71). Tale riferimento ha anche una sua forte ragione programmatica e va letto alla luce della politica di celebrazione del papato messa in atto da papa Orsini, che si esplica attraverso il recupero e la valorizzazione del passato apostolico della città di Roma. Le vicende dei Principi degli apostoli trovavano ampio spazio in altri due cicli: il primo, quello nella cappella del Sancta Sanctorum (¤ 60) è una sicura committenza orsiniana, per il secondo, invece – il ciclo del transetto destro della basilica superiore di Assisi, eseguito da Cimabue e la sua bottega – l’attribuzione al pontificato di Niccolò III, sostenuta da una parte consistente degli studiosi (Andaloro 1984; Romano 2001a; Ead. 2001b), non fa l’unanimità (Bellosi 1998, 147-245, in particolare 162-166, lo colloca ai primi anni del pontificato di Niccolò IV, 1288-1290). Comun denominatore a queste tre decorazioni sono le scene del martirio di Pietro e Paolo e la maniera sorprendentemente ‘realistica’ di rendere la loro ambientazione, soprattutto quella della Crocifissione di Pietro. Nel disegno che riproduce la Crocifissione del portico vaticano [4] e in quella del transetto di Assisi, Pietro crocifisso appare tra i due monumenti che caratterizzavano l’area vaticana, la Meta Romuli a sinistra e il Terebintum Neronis a destra. Altro invece lo scenario della Crocifissione del Sancta Sanctorum (¤ 60) dove, oltre alla Meta Romuli, appaiono Castel Sant’Angelo, il complesso del Campidoglio e quello del Vaticano, secondo una configurazione che in parte ricalca quella dell’Ytalia di Cimabue nella crociera del transetto della basilica superiore di Assisi (Romano-Foletti 2010b, 108-111,
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113-116). L’isolamento iconografico della scena lateranense, più che la spia di un’anteriorità cronologica – per qualcuno (Wollesen 1977, 71) non si spiegherebbe altrimenti la non aderenza allo schema vaticano e assisiate che sembra imporsi immediatamente come modello assoluto e verrà riproposto, per esempio, nel più tardo polittico Stefaneschi – evidenzia probabilmente una diversa accezione programmatica, poiché diversi erano la funzione della cappella e il pubblico che la frequentava (Gardner 1979, 79; Romano 2001a, 123). Nelle tre Crocifissioni, la verosimiglianza e quindi la riconoscibilità del dato topografico trova piena giustificazione se letta alla luce dell’ideologia orsiniana: il riferimento all’epoca apostolica avviene anche attraverso i suoi luoghi-simbolo. Nel caso del ciclo vaticano la presenza della Meta Romuli e del Terebintum Neronis [4] rende visibile il nesso semantico tra il luogo in cui l’apostolo è stato martirizzato e quello su cui è sorta la basilica vaticana (Andaloro 1984, 160-161; Parlato 2001a, 534-540). Questi minuziosi ritratti della città di Roma sembrano essere una novità assoluta, anche perché pare mancare completamente – fino a quel momento – una tradizione iconografica relativa alle scene di martirio dei due apostoli (Belting 1983, 96; Parlato 2001a, 532-533; Romano 2001a, 120-121). È probabile, infatti, che la Crocifissione di Pietro non comparisse nelle Storie petrine che coprivano la parete sinistra della navata della basilica leoniana di San Pietro: come quelle paoline nella navata di San Paolo fuori le mura, esse si basavano sul racconto degli Atti degli Apostoli, dove non si narra la morte dei due (Romano 2001a, 120). La Crocifissione di Pietro, invece, era raffigurata insieme alla Decollazione di Paolo nell’oratorio di Giovanni VII (¤ 1): dai disegni che ci restano, tuttavia, sembra
che nessuna architettura particolare facesse da sfondo alle due scene. Per quanto riguarda l’aspetto compositivo degli altri episodi, se l’analisi, che può basarsi unicamente sui disegni seicenteschi, impone una certa cautela, essi non sembrano effettivamente presentare soluzioni particolarmente innovative (Romano 1995b, 66): le architetture – sia che si tratti di elementi isolati, che di imponenti strutture monolitiche che occupano gran parte dello sfondo [5, 6, 8, 9, 10] – servono unicamente ad ‘arredare’ lo spazio, secondo uno schema che risale ancora alla tradizione romanica; esse non diventano, come si vede, invece per esempio nella scena del Martirio di san Lorenzo al Sancta Sanctorum (¤ 60) – dove gli aguzzini di san Lorenzo agiscono attraverso la loggia aperta del palazzo di Sallustiano – un elemento funzionale allo svolgimento della narrazione. Notevole, in ogni caso, è la posizione dei due soldati che nei Corpi degli Apostoli vengono gettati nel pozzo e nella Decollazione di Paolo sono ritratti di schiena [6, 7], secondo una formula piuttosto sorprendente per l’epoca e che molto probabilmente è da ricondursi ai già menzionati modelli antichi e tardo antichi utilizzati dai pittori del portico vaticano.
Interventi conservativi
1609-1610: demolizione del portico. 1913: Antonio Muñoz ritrova i due frammenti con i busti di san Pietro e san Paolo tra le opere della Collezione Stroganoff. Questi furono poi acquistati dal Museo Petriano, per approdare, infine, alla Reverenda Fabbrica di San Pietro.
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Apostoli vengono gettati nel pozzo), 183 (Corpi degli Apostoli sono sepolti in San Sebastiano).
60. LA CAPPELLA DEL SANCTA SANCTORUM NEL PALAZZO DEL LATERANO. AFFRESCHI E MOSAICI 1278-1280
Fonti e descrizioni
Ugonio 1588, 95; Pompeo Ugonio, Theatrum Urbis Romae (1594), BCAF, Classe I, ms. 161, 1104; Giacomo Grimaldi, BAV, Barb. lat. 2733, ff. 132r, 143v; Onofrio Panvinio, BAV, Cod. Vat. lat. 7010, f. 280; Mancini ante 1630 [1956-1957], 61-62; Bosio 1632, 28, 183; Baglione 1639 [1990], 41-42.
Bibliografia
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Documentazione visiva
Giacomo Grimaldi, disegni acquerellati (1619), BAV, Barb. lat. 2733, ff. 135r-143r e disegni, (XVII secolo), ACSP, A. 64 ter, (Album), ff. 10, 37, 39, 40, 41,43, 44, 46, 48: Caduta di Simon Mago (Barb. lat. 2733, f. 135r e Album f. 41), Domine quo vadis? (Barb. lat. 2733, f. 136r e Album f. 41), Crocifissione di Pietro (Barb. lat. 2733, f. 137r e Album f. 39) Decollazione di Paolo (Barb. lat. 2733, f. 138r e Album f. 44), Sepoltura di Pietro (Barb. lat. 2733, f. 139r e Album f. 43), Corpi degli Apostoli vengono gettati nel pozzo (Barb. lat. 2733, f 140r e Album f. 37), Corpi degli Apostoli sono sepolti in San Sebastiano (Barb. lat. 2733, f. 141r e Album f. 48), Sogno di Costantino (Barb. lat. 2733, f. 142r e Album f. 46) e Papa Silvestro mostra le immagini degli Apostoli a Costantino (Barb. lat. 2733, f. 143r e Album f. 40); ACSP, H.2., Giacomo Grimaldi, Catalogus Sac. Reliquiarum in Basilica, f. 76v (Sogno di Costantino), 77r (Papa Silvestro mostra le immagini degli Apostoli a Costantino); BAM, I. 87 inf., ff. 57v (Sogno di Costantino), 58r (Papa Silvestro mostra le immagini degli Apostoli a Costantino); BAM, A. 178 inf., f. 36v (Corpi degli Apostoli sono sepolti in San Sebastiano); Bosio 1632, 29 (Sepoltura di Pietro), 181 (Corpi degli
Gerardi 1845-1855, 30; Kirsch 1888, 120-121; Strzygowski 1888, 81, 178; D’Achiardi 1905; Aubert 1907; Venturi 1907, 195-106; Muñoz 1913a; Cerrati, in Alfarano 1574 [1914], 16, nota 1; Wilpert 1916, I, 402-411; Muñoz 1921, 83; van Marle 1923, 457, 468-469, 479; Cascioli 1924, 36-37; Toesca 1927 [1965], 1012, nota 38, 1048, nota 48; Schüller-Piroli 1950, 37-49; Waetzoldt 1964, 66-67; Matthiae 1966a [1988], 166-167; Bologna 1969, 82 86, 108-109; Hueck 1969-1970; Boskovits 1971, 36-37; Niggl 1971, 39-41; Bertelli 1972a, 106-108; Sindona 1975, 107-108, 111; Belting 1977, 87-97; Wollesen 1977; Hueck 1978, 331; Gardner 1979, 79-80; Piccininni 1980; Boskovits 1981, 8-9; Poeschke 1981, 137-138; Wollesen 1981, 46-47, 75-77; Frazer 1982, 35; Bellosi 1983, 130-131; Belting 1983; Cadei 1983, 148; Pace 1983, 245; D’Onofrio 1983, 559; Wollesen 1983; Andaloro 1984, 160-161; Bellosi 1985, 113; Todini 1985, 384-385; Leone De Castris 1986a, 197; Marques 1987, 37-42, 257-262; Gandolfo 1988, 313-314, 325-327, 329, 333, 336-338, 340; Tomei 1989a; Tomei 1989b; Tomei 1990, 48-54, 67; Tomei 1991, 338-339; De Blaauw 1994, II, 639; Romano 1995b, 63-66, 72-74; Boskovits 1997, 8; Bellosi 1998, 86, 91, nota 5, 222-224; Paravicini-Bagliani 1998, 31-32; Wollesen 1998, 51-75; Kessler 1999, 269-270; Mondini 2000, 221; Pace 2000, 212-212; Boskovits 2001, 153; Cadei 2001, 199; Parlato 2001a; Romano 2001a; 2001b; Andaloro-Viscontini 2003, 152; Monciatti 2005a, 28, 118, 136, 176, 177, 182; Pogliani, in Atlante I (¤ 1); Wollesen 2007-2008; Zander 2009, 210-211, 218-219; Romano-Foletti 2010b, 108-111. Irene Quadri
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La cappella ha forma quadrangolare ed è divisa in due settori, cui corrispondono sistemi decorativi diversificati. Dall’ingresso – situato sulla parete meridionale – si accede nell’ambiente maggiore, di forma quadrata, aperto verso est sullo spazio che contiene l’altare e ha volta ribassata e sostenuta da colonne porfiree. Le pareti sono coperte di lastre di marmo cipollino fino all’altezza della galleria cosmatesca, che ospita oggi dipinti della fine del Cinquecento; al di sopra della galleria e sulla volta si estende la decorazione pittorica a fresco. Lo spazio ad alcova che contiene l’altare ha invece volta completamente mosaicata, e sono a mosaico anche le lunette situate tra le arcature di sostegno della volta e il limite della parete. 1. GLI AFFRESCHI Le quattro pareti sono caratterizzate dal medesimo sistema decorativo, che si svolge attorno alla finestra monofora archiacuta e occupa la forma a lunettone della porzione muraria affrescata. Al sommo di ogni parete [1, 2, 3, 4], nello spazio che risulta dall’incurvatura dell’arco gotico, due angeli, ognuno con abito di diverso colore e reggenti una croce a lunga asta, volano sul campo blu simulante ovviamente il cielo. La riquadratura in bianco del campo blu lascia vedere, al limite con la finestra, una ulteriore striscia rossa che è in realtà il fondo attribuito all’intera lunetta; in basso sul fondo rosso appaiono due riquadri rettangolari, incorniciati e evidenziati da una cornice a ‘piramidine’ rosse e blu su fondo bianco. Ai due estremi del lunettone, un vaso ansato di color giallo oro [14]: ai lati della base due uccelli neri (merli?) affrontati. Dal vaso nasce un grande racemo vegetale [15] a foglie verdi e gialle e tralci grigio-azzurri, che si avvolge in verticale restringendosi via via che la parete si incurva verso il bordo del riquadro. Questo poi è sovrastato da una grande terminazione decorativa a forma di lunetta, con al centro un motivo di camera fulgens a spicchi rosa e bianchi; attorno, sul fondo verde, un tralcio con fiori a petali rosa screziati di bianco. La lunetta è incorniciata da una fascia color ocra o giallo oro, che si rivela poi esser formata da due lunghe sagome di pesci, probabilmente delfini, il cui muso si posa sul bordo del riquadro sottostante e la cui coda sale curvandosi e arrivando a intrecciarsi con l’altra, formando steli con fiori bianchi (nella parete dei Martiri di Stefano e Lorenzo il motivo è semplificato e i musi degli animali non sono rappresentati). Sui lati due colombe bianche affrontate. La regolarità e ripetitività dei motivi non impedisce variazioni sottili nella forma dei fiori, dei tralci, nella posizione dei merli, delle colombe, e degli angeli in volo. Infine, ogni finestra è incorniciata da una fascia a fondo scuro con fiori a petali bianchi e bottone giallo; gli strombi sono decorati con pannelli rossi imitanti il porfido, e grandi dischi centrali; la piattabanda della finestra occidentale ha un doppio racemo vegetale. Ogni parete è conclusa da una fascia complessa, composta di una doppia banda bianca con al centro una fascia a motivi cosmateschi, e poi da un’altra fascia a motivi mimeticamente imitanti ovoli classici. Sulla parete est i due riquadri compongono la scena unitaria dell’Offerta della cappella da parte di Niccolò III al Cristo [1]. A sinistra [6], la figura monumentale del pontefice Niccolò III semi inginocchiato e di tre quarti, con tunica bianca e casula rossa, con pallio e alta mitra; l’incarnato del volto è roseo, con occhi grigi e capelli già canuti. Il papa regge nelle mani guantate il ‘modellino’ della cappella; alla sua destra san Paolo fa il gesto della presentazione con ambedue le mani, e alla sinistra san Pietro lo aiuta a sostenere la cappella. La scena si svolge su un fondo
blu intenso. Dall’altra parte della finestra la scena prosegue [8]: sullo stesso sfondo blu, una grande figura di Cristo con una veste cangiante azzurro-bruna e un manto bruno siede su un rosso cuscino in un trono monumentale con sedile e poggiapiedi ligneo, ma con schienale absidato di candido marmo decorato alla cosmatesca e con pomoli alle estremità. Da dietro lo schienale partono due figure d’angeli con croce ad asta, l’uno in verde e l’altro in giallo oro. In tutta la parete le aureole dei personaggi sono piatte e dorate, ma quella del Cristo ha la croce inscritta con grossi castoni rossi e motivi perlati, tutti dipinti. Il Cristo ha lunghi capelli bruni lisci, corta barba e baffi, e regge nella mano una croce a lunghissima asta, con al centro un grande motivo rosso alludente a un rubino. Diversamente che nelle altre pareti, nessuna iscrizione accompagna il doppio riquadro. La parete meridionale è dedicata alle storie del martirio di Pietro e Paolo. A sinistra la Crocifissione di Pietro [7], crocifisso a testa in giù sulla croce che taglia a metà la scena – il nome scorre lungo in braccio orizzontale (Iscr. 1) – avendo così da un lato le due figure dei soldati Processo e Martiniano, con un terzo soldato di cui si intravede solo la testa di profilo e lo scudo con decorazione a punta; dall’altro lato della croce, sei Pie Donne, di due delle quali si intravede solo il profilo della testa, di una terza il volto di profilo, mentre fra le tre in primo piano si vede una matrona ammantata di rosso con la mano sulla guancia in segno di dolore, poi il volto di una seconda matrona con capo velato e espressione triste, e infine davanti a tutte una figura con veste verde cangiante e manto bianco, che accenna con la mano verso la scena della Crocifissione. Il paesaggio dietro le figure è costituito – a partire da sinistra – da un colle con vari edifici, poi da un edificio rossastro a piramide tronca, da un altro edificio circolare con al centro una torre quadrata, e infine da un altro agglomerato di edifici di varia altezza dei quali l’inferiore ha una porta a cassettoni anticheggianti, socchiusa. Dall’altra parte della finestra invece il paesaggio agreste della Decapitazione di san Paolo [9], dominato dalla figura centrale dell’aguzzino in posizione di contrapposto, con la spada brandita in alto e nell’altra mano la guaina di un rosso vivissimo; la figura sembra reggersi in equilibrio su una balza tondeggiante, e guardare alla sua sinistra dove da una roccia a più balze spuntano due astanti, il primo con un gran manto rosso e la mano accennante. Alla sua destra invece una figura di soldato armato di tutto punto con corazza, elmo e scudo, e la mano tesa verso l’aguzzino: dietro di lui il paesaggio ospita una monumentale costruzione con facciata di chiesa e due torri. In primo piano il corpo del martire già decapitato, riverso in primo piano ma non del tutto abbandonato, come fosse stato appena colpito; dal collo sprizza l’acqua che forma un ruscello – le Acque Salvie – e fa nascere un arbusto. Il suolo ha vari cespugli, e vi spicca il nome di Paolo (Iscr. 2). La parete ovest è dedicata ai martiri di Stefano e Lorenzo: il primo [10] ha mantenuto una parte della ridipintura post medievale (Int. cons.). Da una porta urbica, il cui battente semiaperto ha lo stesso cassettonato antichizzante di quello nella Crocifissione di san Pietro, esce un gruppo di persone che scagliano grosse pietre sul martire, che sanguina a grosse gocce dalla testa e si inginocchia con le mani giunte e lo sguardo rivolto al cielo dove, da un varco nel cielo bordato di raggi dorati, appare il busto del Cristo che guarda in giù verso il santo e fa il gesto della benedizione. Intorno a Stefano, sul suolo punteggiato di cespugli, altre pietre, e altre tre ancora sembrano volare attorno alla testa e alla figura del martire come fossero state appena lanciate e cadessero a terra, vistosamente insanguinate. Il paesaggio è caratterizzato da una SANCTA SANCTORUM / ATLANTE I, 21 321
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sorta di formazione rocciosa a tre balze su cui spunta un arbusto marziano con efflorescenza a ombrello di colori digradanti. Nel riquadro dall’altra parte della finestra [12], la scena si svolge nel cortile del palazzo imperiale, di cui si vede la parte d’onore con la nicchia absidata e con il motivo a conchiglia, sovrastata da alti edifici e due torri: lì è posto il trono – in tutto simile a quello del Cristo della Presentazione – in cui è assiso l’imperatore Decio (Iscr. 3a), assistito da un soldato di guardia e da un anziano dignitario; l’imperatore fa il gesto di ordinare il martirio, e il dignitario lo trasmette. Il martire Lorenzo (Iscr. 3b) è situato in quello che sembra un cortile, su cui si apre una loggia; è nudo e coperto di ferite sanguinanti, steso sulla graticola che a sua volta è posata diagonalmente su un cassone da cui escono le fiamme, attizzate con un mantice da un personaggio in veste verdina corta e cuffietta bianca sui capelli bruni e riccioluti. Tra gli archi della loggia appaiono altre due figure di aguzzini, di cui il primo ha perso lo strumento che doveva essere dipinto a secco, e che serviva a mantenere il martire sulla graticola; il secondo ha ancora in mano la pala a lunga asta. L’ultima parete, a nord, ospita la scena del Martirio di sant’Agnese e un Miracolo di san Nicola. Nel primo [11], davanti a un mucchio di fascine in fiamme, si vede la figura di Agnese cui il soldato aguzzino sta infilando una spada nel collo. In una specie di alto tabernacolo con nicchione, sulla sinistra, appare l’imperatore
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(anonimo) che ordina il martirio, scortato da un soldato; un angelo piomba dal cielo verso la martire, mentre sulla destra attorno ad un’altissima torre ci sono vari astanti con espressioni di orrore e sgomento. Infine nel riquadro a destra [13] non una storia di martirio, ma il Miracolo di san Nicola e delle tre fanciulle povere: un episodio a due tempi, distribuiti fra l’interno e l’esterno di un edificio turrito e porticato. La storia si legge da destra a sinistra, perché sotto il portico si vede un giaciglio con le tre fanciulle dormienti (Iscr. 4a), e più in alto il giaciglio del padre, invece sveglio e con espressione cupa (Iscr. 4b); dalla finestrina ancora più in alto sporge il busto di san Nicola (Iscr. 4c) che regge una borsa bianca e la getta in direzione dei personaggi sottostanti. Il secondo atto si svolge a sinistra, dove dalla porta aperta in un corpo di fabbrica esce il nobile povero in camiciola corta bianca (Iscr. 4d), accennando la sua gratitudine in direzione di san Nicola (Iscr. 4e) che sembra allontanarsi e rispondere ai ringraziamenti. Un grande albero con le solite efflorescenze a ombrello spunta da dietro la casa. La volta a crociera [5] è divisa in vele da costoloni ornati da un fregio vegetale a fiori gigliati; in ogni vela, un simbolo di un Evangelista con il libro su cui appare l’incipit del relativo vangelo (Iscr. 5-8). Serena Romano
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S(anctus) Pe| |tru(s)
2. I MOSAICI La decorazione musiva [23-29] è ospitata nell’alcova attorno all’altare, e risulta praticamente invisibile se non a chi si trovi direttamente al di sotto di essa, davanti all’altare, dunque al pontefice. Nella volta appare il busto di Cristo in un medaglione sostenuto da quattro angeli. Il medaglione è bordato di verde, bianco, oro e azzurro; il Cristo ha tunica azzurra e manto porpora, ambedue coperti di filettature d’oro; è benedicente e con in mano il libro chiuso con copertura gemmata. Gli angeli – veste azzurra e manto grigio-bianco – sostengono il medaglione con ambedue le braccia, ad ali spiegate. Anche le lunette alla base della volta sono tutte mosaicate, a fondo oro, e bordate da un motivo gemmato: ad ovest, dunque sulla faccia occidentale della parete e supportata dalle colonne porfiree, si vedono lampade accese e sospese (gabatae), mentre nelle altre appaiono busti di santi, tutti accompagnati dal nome iscritto (Iscr. 9-13). A partire dalla lunetta sulla parete nord, si trova san Nicola; sulla parete est, sant’Agnese con la corona, poi Pietro e Paolo separati da una croce a doppio braccio trasverso, e infine san Lorenzo; sulla parete sud, santo Stefano. Karina Queijo
Iscrizioni Parete sud. Crocifissione di san Pietro 1 - Iscrizione identificativa, disposta all’interno dell’area illustrata, ai lati del capo di san Pietro, allineata su una riga orizzontale, secondo un andamento rettilineo irregolare. Lettere bianche su fondo verde. Intera ma soggetta a caduta del pigmento pittorico. Scrittura maiuscola gotica.
Parete sud. Decapitazione di san Paolo 2 - Iscrizione identificativa, disposta all’interno dell’area illustrta, accanto al corpo di san Paolo, allineata su una riga orizzontale, secondo un andamento rettilineo irregolare. Lettere bianche su fondo verde. Mutila e soggetta a caduta del pigmento pittorico. Scrittura maiuscola gotica.
S(anctus) Paul[us] Parete ovest. Martirio di san Lorenzo 3 - Due iscrizioni identificative, disposte all’interno dell’area illustrata, una sopra il capo di Decio, priva di spazio grafico di corredo, allineata su una riga orizzontale, lettere bianche su fondo marrone; l’altra sopra il corpo di Lorenzo, nella base di una struttura architettonica, secondo un andamento rettilineo irregolare; lettere bianche su fondo marrone e ocra. Intere ma soggette a caduta del pigmento pittorico. Scrittura maiuscola gotica. 24
3a - Decius 3b - S(anctus) / Laurenti(us)
4a - Sotto alle fanciulle, allineata su una riga orizzontale, secondo un andamento rettilineo irregolare; lettere bianche su fondo verde.
Parete nord. Miracolo di san Nicola
Õúelñê filie viri
4 - Cinque iscrizioni identificative, disposte all’interno dell’area illustrata, prive di uno spazio grafico di corredo. Intere ma soggette a caduta del pigmento pittorico. Scrittura maiuscola gotica.
4b - A sinistra dell’uomo probo, allineata su due righe orizzontali, secondo un andamento rettilineo irregolare; lettere bianche su fondo verde.
Vi÷ nobil(is) / paup(er) 4c - Sopra il capo di san Nicola, allineata su una riga orizzontale, secondo un andamento rettilineo irregolare; lettere bianche su fondo verde; mutila.
S<anctus> [Nico]laus 4d - Sotto ai piedi dell’uomo probo, allineata su una riga orizzontale, secondo un andamento rettilineo irregolare; lettere bianche su fondo verde.
Vi÷
8 - Vela est. San Matteo. Iscrizione esegetica, nel libro sorretto dall’angelo, allineata su 4 righe per ogni pagina, secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere nere su fondo bianco. Intera ma restaurata (?). Scrittura maiuscola.
Seq(- ?) / sanc(-?) / evan/g(-?) // SDV(- ?) / M M/ateu/m Iscrizioni identificative, nelle lunette, collocate all’interno dell’area illustrata, accanto alle figure dei santi, prive di spazio grafico di corredo. Lettere scure su fondo dorato. Intere. Scrittura maiuscola gotica. 9 - Parete est, lunetta centrale: S(anctus) / Paulus; S(anctus) / Petrus 10 - Parete est, lunetta destra: S(anctus) / Lau/rentius
S(anctus) Ni| |co/la| |us
12 - Parete nord, lunetta: S(anctus) Nico| |laus
Volta. Simboli degli evangelisti sulle quattro vele
13 - Parete sud, lunetta: S(anctus) Ste| |phan(us)
Anno / q(ui)nto / deci/mo in/perii // Tibe/rii ce/saris / procu/rant^e 6 - Vela ovest. San Luca. Iscrizione esegetica, nel libro sorretto dal bove, allineata su cinque righe segnate per ogni pagina, secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere dorate e nere, a righe alterne, su fondo bianco. Intera. Scrittura maiuscola gotica. Fonte: Lc 1, 5.
Fu/it in di/ebus / Herodi(s) / regis // Iude sacer/dos q(u)i/da(m) no(m)i(n)e Zacha^ria 7 - Vela nord. San Giovanni. Iscrizione esegetica, nel libro sorretto dall’aquila, allineata su cinque righe segnate per ogni pagina, 332 SANCTA SANCTORUM / ATLANTE I, 21
In / pr/incipi/o erat / Verbu(m) / et Ver/bum e/rat a/pud De/um et / Deus
4e - Sotto ai piedi del santo, allineata su due righe orizzontali, secondo un andamento rettilineo irregolare; lettere bianche su fondo verde.
5 - Vela sud. San Marco. Iscrizione esegetica, nel libro sorretto dal leone, allineata su cinque righe segnate per ogni pagina, secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere dorate e nere, a righe alterne, su fondo bianco. Intera. Scrittura maiuscola gotica. Fonte: Lc 3,1.
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secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere rosse e nere, a righe alterne, su fondo bianco. Intera. Scrittura maiuscola gotica. Fonte: Gv 1,1.
11 - Parete est, lunetta sinistra: S(an)c(t)a Agnes
(S. Ric.)
Note critiche
La cappella, dedicata a san Lorenzo, si trova nel complesso lateranense ed è documentata con certezza a partire dal terzo quarto dell’VIII secolo (Marangoni 1747; Gardner 1973; Id. 1995; Matena 2004, con la precedente bibliografia); un’allusione ad una cappella dedicata a san Lorenzo è tuttavia già sotto papa Pelagio I (556-561) (Millino 1666, 126). Custodiva preziose reliquie già attestate da Giovanni Diacono tra XI e XII secolo (Descriptio, 13, 358, in Valentini-Zucchetti 1946, 356 ss.), da cui la denominazione di “Sancta Sanctorum” che affiora negli anni Sessanta del Duecento, con Jacopo da Varazze. Tra le reliquie maggiori, enumerate da Tolomeo da Lucca in anni vicinissimi a quelli orsiniani (RIS 1913-1922, XI, c.1181) si annoverano le teste di Pietro e Paolo, il frammento della Croce, la testa di sant’Agnese, il prepuzio del Cristo e i capelli della Vergine (Millino 1666; SANCTA SANCTORUM / ATLANTE I, 21 333
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Soresini 1674; Lauer 1906; Grisar 1907; Volbach 1941; Morello 1991) e soprattutto la celebre tavola acheropita, il ritratto del Cristo che veniva portato in processione già sotto Stefano II (752-757) il quale se ne serviva in funzione apotropaica contro il male annidato nel Foro (LP I, 443); e poi durante la processione dell’Assunta, la notte del 15 agosto, durante la quale incontrava l’icona o le icone mariane, accompagnata dai rappresentanti della cittadinanza (Belting 1990, 313-314; Wolf 1990, 60 ss.; Andaloro 1991; Parlato 2000). La cappella versava forse in cattive condizioni, quando Niccolò III decise di ricostruirla a fundamentis appena eletto papa nel 1277: Tolomeo da Lucca ne è testimone oculare e preciso descrittore («Necnon et sacram basilicam ad Sanctam Sanctorum evidentius ruinosam a solo terrae opere perpetuo intusque ipsam per latera vestita marmore ac in superiori parte testudinis picturis pulcherrimis ornata fundari iussit»: RIS 1913-1922, XI, c.1181). L’iscrizione su uno degli sportelli bronzei fatti installare da Innocenzo III a protezione delle reliquie lo conferma: NICOLAUS PP III HANC BASILICAM A FUNDAMENTIS RENOVAVIT ET ALTARE FIERI FECIT IPSUMQUE ET EADEM BASILICAM CONSECRAVIT. La ricostruzione fu dunque davvero radicale, e il progetto fu completato entro la morte di Niccolò, che fece in tempo a riconsacrare la cappella un 4 giugno, molto probabilmente nell’anno 1280: morì infatti di un colpo apoplettico a Soriano nel Cimino il 22 agosto 1280. Durante i lavori le teste di Pietro e Paolo furono trasferite – con solenne processione – nella basilica lateranense, e poi rimesse nella cappella dal pontefice, con le altre reliquie (testimone ancora Tolomeo da Lucca, RIS 1913-1922, XI, c. 1181), che furono ‘elevate’ dalla precedente posizione nei tre altari dell’antica cappella, e situate all’interno di nicchie protette da grate e inserite nella parete sovrastante lo spazio dell’altare: elevazioni parallele sono quella del tabernacolo Capocci in Santa Maria Maggiore (¤ 42) e naturalmente quella della Sainte-Chapelle di Luigi IX (Gardner 1995a, 31-33), molto apprezzata da Niccolò III. Altre reliquie sono nell’altare, unico rimasto nell’assetto orsiniano. Nulla si sa dell’Acheropita, che tuttavia dovette essere anch’esso spostato durante i lavori. La distinzione tra opera a fresco e opera a mosaico quale adornamento dell’ambiente è more romano: mosaico nell’abside – qui l’alcova rettangolare – contenente l’altare, e affresco nella navata – qui lo spazio quadrangolare dove sedevano i cardinali durante i riti della Settimana Santa. La ‘firma’ del Magister Cosmatus incisa nel marmo dell’arco di ingresso alla cappella, + MAGISTER COSMATUS FECIT HOC OPUS, riporta la paternità del cantiere a una bottega di marmorari romani, quella di Cosma (Claussen 1987, 207-210) secondo lo stretto e abituale 334 SANCTA SANCTORUM / ATLANTE I, 21
rapporto che intercorre lungo tutto il Medioevo tra i marmorari romani e la committenza pontificia (Cadei 1996). Cosma deve essere stato l’affidatario e responsabile del progetto – certamente controllato da presso dalla cerchia pontificia – e del cantiere, in cui dovette gestire maestranze e artisti radunati, si immagina, per l’occasione. Elementi di tipo aggiornatamente gotico intercalati a quelli di gergo cosmatesco (volte ad archi acuti insieme alla galleria a colonnine tortili, segni lapidei di tipo anche cistercense: Righetti Tosti-Croce 1991; Gardner 1973b; Id. 1995a) hanno fatto spesso richiamare somiglianze con l’alzato del transetto assisiate, anch’esso peraltro interessato dall’intervento orsiniano alla fine degli anni Settanta del secolo. I due gruppi di decorazione, quello ad affresco e quello musivo, nascono dunque da un medesimo progetto e sono indivisibili l’uno dall’altro. I maestri tuttavia sono marcatamente differenziati, ancorché possano aver diviso alcuni strumenti di lavoro, come è stato suggerito a proposito di modelli e sagome, comunque di soluzioni compositive per anatomie e panneggi, che sono state individuate nei mosaici come negli affreschi (Andaloro 1995; Zanardi 1995; si veda tuttavia il forte scetticismo di White 1996). L’analisi separata degli uni e degli altri risulta dunque indispensabile. All’atto del restauro e della pubblicazione del 1995, gli affreschi costituirono un’eclatante sorpresa, che venne a movimentare il panorama dell’arte duecentesca romana, ad aprirne e insieme confermarne gli orizzonti. Ridipinti verosimilmente nel corso del secondo decennio del Cinquecento per probabile iniziativa di Raffaele Riario, nipote di Giulio II e cardinal camerlengo (Romano 1995b), poi ancora ripassati nel 1572 e nel 1704 (Int. cons.), fino al restauro erano stati praticamente illeggibili, così che ogni giudizio si esercitava su un testo pittorico ibrido e sfuggente, di cui la parte meno obliterata era la parete meridionale con storie di Pietro e Paolo. Sulle sfumature toscaneggianti di queste si pronunciarono quindi Roberto Longhi (1948) e Luciano Bellosi (1983, 349; Id. 1985, 152; Id. 1990, 21-36), che vi videro la prova, il primo, del possibile diretto intervento di Cimabue, il secondo, dell’influsso determinante che Cimabue avrebbe avuto sulla pittura romana, specialmente a seguito del soggiorno romano documentato nel 1272 (Battisti 1963). La messa in luce di tutte le pareti dipinte ha svelato invece che l’apparato pittorico della cappella è opera di una bottega in cui primeggia il pittore largamente responsabile dell’affresco ideologicamente e simbolicamente dominante, l’Offerta di Niccolò III al Cristo in trono al di sopra dell’altare; e composta da pittori tra loro non identici, alcuni ancora fortemente legati alla maniera di metà secolo (in particolare il Martirio di santo Stefano e in parte quello di sant’Agnese e san Lorenzo), altri più visibilmente
toccati da manierismi un po’ genericamente toscaneggianti o bizantinizzanti; l’impatto dell’ondata bizantinizzante di tipo ‘franco’ o mediterraneo appare forte, anche se non facilmente riconducibile ad una sola e accertata fonte. I pittori mantengono una riconoscibilità marcata, ma sono anche omogeneizzati e fusi, non solo dal generale sistema decorativo che garantisce una lettura assolutamente fluida dell’insieme, ma anche da dettagli minori e sistemi esecutivi, che lasciano immaginare la circolazione di pittori minori e aiuti su tutti i piani del ponteggio, mentre i responsabili di ogni parete eseguivano le parti più importanti dei singoli riquadri. La parete dell’Offerta, cruciale nel quadro dell’intero programma, appare anche la più avanzata e innovatrice: spregiudicata nella messa in scena della figura monumentale del papa – gigantesco, vivente, privo del nimbo quadrato in contrasto a tutta la tradizione – tagliente nel registrare i dettagli di individuazione fisionomica del pontefice [Introduzione, p. 36, fig. 36), la cui ‘realtà’ traspare attraverso la codifica del linguaggio pittorico duecentesco e risulta tanto più deliberata in confronto alle fisionomie più standardizzate degli apostoli. Il Cristo in trono [17] è interpretabile, come è stato proposto (Romano 1995b) quale ‘ritratto’ dell’Acheropita: la tavola dipinta, di VI o VII secolo, la cui figura monumentale, colorata, stagliata sul fondo azzurro, non si sa se fosse ancora visibile e conservata nel Duecento o fosse già perduta nel corso dei maneggiamenti processionali e liturgici, e nei lavaggi sacri (Andaloro 1991; Romano 2000a; Ead. 2002b) ma era stata oggetto di moltissime repliche nel corso del Medioevo, che ne avevano in certa misura conservata la tipologia fisionomica (Volbach 19401941; Angelelli 2000). A lui Niccolò III offre la cappella, che da sempre ne era il reliquiario; il nesso speciale di Niccolò con il Cristo è attestato nelle fonti (Niccolò segue Innocenzo IV Fieschi nel considerarsi “vicarius Christi”; per l’autodefinizione dell’Orsini come “Veronica” si veda Baethgen 1960 e Romano 2001-2002). Lo schema della figura in trono con la croce – qui probabilmente rinvio alla reliquia conservata nella cappella e protagonista dei riti dell’Esaltazione della Croce – e affiancata da angeli, più frequentemente usato per la Vergine (si veda l’oratorio di San Nicola in Laterano e le questioni connesse: Croisier, in Corpus IV ¤ 49; Romano 2001-2002), ha qui una redazione antichizzante in particolare nello schienale marmoreo a semicerchio, poi di grande fortuna nella pittura romana di fine Duecento (si veda ad esempio San Saba, ¤ 66). La preoccupazione ritrattistica, che emerge molto chiara sia nell’effigie di Niccolò sia, nel modo mediato sopra accennato, in quella del Cristo, non è disgiungibile dal contesto culturale della corte pontificia già nel secondo e poi nel terzo quarto del secolo, con gli studi di ottica, di prospettiva, di fisiognomica, di scienze naturali, che la corte papale condivise e/o assorbì da
numerosi canali, tra i quali quello del Sud normanno e federiciano rimane il più plausibile e fecondo (Paravicini Bagliani 1991, con i saggi precedenti; Id. 1994). Il Maestro del Redentore, come si usa chiamarlo, sembra certamente responsabile del Cristo e del sottile angelo a destra, nonché del ritratto di Niccolò; più normalizzate le effigi di Paolo [18] o e Pietro, questo, in particolare, molto vicino [20] al Maestro di San Saba (¤ 66). L’identificazione del Maestro del Redentore con Jacopo Torriti, proposta dal Bellosi (1998, 84) coglie bene l’indirizzo stilistico di questo pittore, ma a parere di chi scrive non arriva a dar ragione delle caratteristiche più arcaiche dello stile di questi brani, che sembrano preparare e formare il Torriti più che rappresentarne uno stadio giovanile. L’intervento di Torriti potrebbe essere invece individuato in brani meno centrali (il simbolo di Matteo nella volta [16], e forse l’angelo in volo con manto rosso al di sopra del Cristo in trono: Romano 1995b) [21] appartenenti così ad una fase in cui il Torriti era ancora relativamente giovane e non dirigeva la bottega ma si formava accanto al Maestro del Redentore, assorbendone l’attenzione alle qualità più auliche della pittura bizantina che emergono chiarissime soprattutto nella sagoma del corpo di Paolo (per cui è stato suggerito un confronto con una figura del ciclo di Sopoćani: Romano 1995b) e nella stessa tecnica pittorica a punta sottile di pennello e a effetti preziosi di toni dorati. Il contatto del Torriti con le cerchie pontificie appare comunque qui bene attestabile, ed è confermato anche da dettagli degli apparati decorativi, specialmente le colombe, che ritorneranno nella Creazione della navata di San Francesco ad Assisi, e anche nelle decorazioni di ambito pure torritiano del Palazzo Vaticano (¤ 62); egli continuerà a muoversi all’interno della committenza pontificia per tutta la sua carriera, tra Assisi, il Laterano, Santa Maria Maggiore, e il monumento a Bonifacio VIII (Tomei 1990). Maestri di qualità notevole, anche se non così alta, sono attivi nelle pareti ovest e nord. Come si è detto, appaiono ancora legati ai sistemi pittorici ben noti a metà secolo, specialmente a quelli della vasta e complessa bottega attiva ai Santi Quattro (¤ 30) e agli altri episodi connessi. Tuttavia il tempo già trascorso ha prodotto considerevoli modificazioni rispetto alla maniera pittorica dell’Ornatista, del Terzo Maestro e dei maestri ad essi legati; il pittore, o i pittori, del Sancta Sanctorum hanno una molto più forte tendenza alla semplificazione plastica delle forme, attuata con pennellate a lunghe strisce, a colori energici e spesso cangianti, che nei personaggi minori servono a rappresentare anatomie semplificate e tese, che accentuano il dinamismo plastico di molte figure dell’Aula ‘Gotica’ e già fanno pensare a episodi assisiati quali, ad esempio, la Costruzione dell’Arca o le Nozze di Cana. Per altri versi, bisogna notare che i pittori sono rispettosi degli schemi compositivi tradizionali – in particolare nel Martirio di san SANCTA SANCTORUM / ATLANTE I, 21 335
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Lorenzo (Romano 2000b) – ma ampliano il repertorio tradizionale mediante forti allusioni antichizzanti: come nel trono di Decio, nella loggia da cui si affacciano gli aguzzini, o, nel Martirio di sant’Agnese, nell’uso di una sagoma degna della statuaria antica per rappresentare la santa martirizzata. Nella parete dei santi Pietro e Paolo, infine, sfumature toscaneggianti, più generici bizantinismi o ellenismi, gusto antiquario e forti appelli alla tradizione iconografica romana arrivano ad uno straordinario momento di sintesi e marcano, più che altrove nella cappella, la vicinanza del ciclo lateranense orsiniano ai fatti pittorici del transetto assisiate. Nella Crocifissione di san Pietro, le sagome dei santi Processo e Martiniano non possono non richiamare quelle di alcuni apostoli della galleria del transetto destro di Assisi: i più anglo-francesi, i più gotici e rémois (Romano 2001a). I volti dei soldati però seguono sistemi di resa fisionomica verosimilmente di origine toscana, non certo cimabuesca di prima mano ma non troppo lontana dai modi del pittore che era a Roma nel 1272. Il gruppo delle Pie Donne invece è di un toscanismo molto più generico, colorato e semplice, certo anteriore al punto di stile del Cimabue maturo, da Assisi in poi. Il volto di Pietro [19], infine, non ha nulla di toscano, e appartiene non solo ad una diversa pontata (Romano 1995a) ma anche ad un’altra mano, prova della disinvolta distribuzione del lavoro in una bottega che certo aveva ricevuto l’ordine di eseguire il lavoro con la maggiore rapidità possibile. I recuperi di modelli risalenti al ciclo della navata di San Paolo fuori le mura sono evidenti nelle scelte compositive del Martirio di san Paolo (gli astanti dietro la collina, da confrontare con l’Uccisione dei Primogeniti di San Paolo: Romano 2002a) e insieme a questi dominano la scena la sagoma antica dell’aguzzino e quella bizantinizzante di Paolo riverso al suolo. L’esecuzione pittorica di questi riquadri, libera e mista come abbiamo visto, non deve far dimenticare che in queste scene, e specialmente in quella petrina, il recupero e la meditazione sugli elementi iconografici della tradizione martiriale romana toccano un vero apice: il paesaggio della Crocifissione di Pietro è inscenato tra il Campidoglio, la Meta, il Castel Sant’Angelo/Meta, e il Palazzo Vaticano, in un riassunto amplissimo e audace del racconto attestato nel Liber Pontificalis e negli Atti Apocrifi, nonché nella tradizione iconografica cittadina, dotata a tutta evidenza di valore di documento storico al pari di quelli testuali. L’affinità di questi elementi con altre versioni dello stesso soggetto (Portico di San Pietro, ¤ 59; transetto di Assisi; si veda anche la questione dell’oratorio di Giovanni VII, ¤ 1: Wollesen 1977; Id. 1981; Romano 2001a; Romano-Foletti 2010b) è stata da tempo messa in luce, insieme con le specificità della redazione del Sancta Sanctorum, in cui si registra una prevedibile accentuazione 336 SANCTA SANCTORUM / ATLANTE I, 21
orsiniana, con la messa in evidenza di edifici e siti romani tutti legati alla persona e alla famiglia del pontefice: il Campidoglio (Niccolò III era senatore di Roma: si veda la scheda ¤ 58), il Castel Sant’Angelo che apparteneva agli Orsini, probabilmente il Palazzo Vaticano che Niccolò fece straordinariamente ampliare (¤ 62; Monciatti 2005a). Il programma pittorico della cappella enumera dunque episodi emblematici della storia della Chiesa attraverso alcuni dei suoi protagonisti-chiave: la coppia degli Apostoli, la coppia dei santi diaconi (Colella 1997), la santa romana per eccellenza Agnese (Romano 2008a, ¤ 49). Il Miracolo di san Nicola è ovvio omaggio al papa committente e regnante; la parete sopra l’altare stringe in un nesso vitale la figura del papa, nel suo ruolo, e nella sua realtà individuale, agli Apostoli pilastri della Chiesa, e al Cristo inverato nell’immagine acheropita simbolo della Resurrezione (Romano 2000a; Ead. 2002b). La romanità del pontefice regnante diventa – nel senso più ampio e universale possibile – la romanità della Chiesa: la coincidenza perfetta della missione provvidenziale affidata a Pietro e ai suoi successori, con il luogo storico dove essa andò a radicarsi, con il paesaggio che ne testimonia il percorso e i protagonisti, con le memorie dell’Antico attraverso le quali il ruolo storico di Roma acquista profondità e unicità e arriva a sdoganare gli antefatti pagani della sua vicenda. È il programma di Niccolò III Orsini, esposto senza ambiguità nella Fundamenta militantis Ecclesiae del 18 luglio 1278, in cui Niccolò estromise gli stranieri, e Carlo d’Angiò in particolare, dal governo cittadino, ed espose con cristallina chiarezza la propria visione della Chiesa Romana e Apostolica, edizione orsiniana dell’universalismo innocenziano e antefatto indubitabile del poco più tardo pontificato di Bonifacio VIII. La griglia scenotecnica e il repertorio decorativo della cappella, con i suoi evidenti recuperi antiquari, sia effettivamente antichi – i modelli sul genere dell’Ara Pacis (Wollesen 1977; Id. 2007-2008), l’esempio del mosaico di Ercolano o della casa dei Grifi (Romano 1995a), il corretto riferimento alle pinakes (Herklotz 1997) – che paleocristiani – i mosaici di Santa Costanza (Piazza, in Corpus I, ¤ 1) – che medievali – gli affreschi della basilica inferiore di San Clemente (Romano, in Corpus IV ¤ 21) – parlano chiaro della capacità sintetica e dell’ampiezza culturale del progetto e dei suoi maestri. Serena Romano Perfettamente coerenti con il programma sono anche i mosaici. La scelta dei santi è la stessa che nei riquadri affrescati, scelti tra quelli le cui reliquie sono conservate nella cappella (ricordate da Marangoni 1747, 39-41), o del santo eponimo del papa Orsini, disposti secondo
gli stessi accoppiamenti che nelle pareti affrescate, Pietro con Paolo, Agnese vicina a san Nicola, san Lorenzo vicino a santo Stefano. Non si sa invece se il perduto pannello musivo raffigurante san Lorenzo – ricordiamo che la denominazione della cappella era San Lorenzo in Palazzo – e situato al di sopra dell’ingresso (Panvinio 1570 [it.], 238-239; Mancini ca. 1625 [1923], 72) appartenesse anch’esso al cantiere duecentesco. Come negli affreschi, anche nei mosaici si attesta fortemente la tendenza al recupero antiquario. I più diretti modelli iconografici per la volta sono infatti in mosaici di epoca paleocristiana: l’oratorio di Santa Croce al Battistero lateranense, di V secolo (Andaloro 1995, 143); la cappella arcivescovile di Ravenna, circa 500, dove il Cristo è sostituito dal crisma (Deichmann 1969, 204); il sacello di San Zenone a Santa Prassede, 817-824 (Wisskirchen 1991). L’antenato è naturalmente lo schema delle Vittorie antiche con imago clipeata. La scelta iconografica arcaicizzante e antichizzante spiega forse il perché delle datazioni in altri tempi proposte per il mosaico. Nonostante che la vita di Niccolò III del Platina (Platina 14741481 [1730], 249) dica già chiaramente che il papa aveva fatto decorare il Sancta Sanctorum di mosaici, Crowe e Cavalcaselle (1869, 46-47) li datarono al IX secolo. Il Grisar invece (1907, 48), osservando che le tessere del volto del Cristo sono più piccole rispetto a quelle delle altre superfici musive, ritenne che questa fosse la sola porzione di mosaico di IX secolo, reimpiegata nel restante mosaico invece duecentesco; la medesima idea del reimpiego del busto nel medaglione è in de Rossi (1899) e Clausse (1893), incerti tra una datazione a Niccolò III o a Onorio III, che aveva certo fatto eseguire lavori nella cappella pre-orsiniana (LP II, 453). Per la datazione sotto Onorio III si pronuncia anche Wilpert (1916, I, 177); un’idea che resiste in Oakeshott (1967) e in Righetti Tosti-Croce (1991), anche dopo la decisa confutazione di Matthiae (1966a [1988], 208). La stretta affinità di affreschi e mosaici è di fatto innegabile. Per le figure degli angeli sono impiegati gli stessi stilemi – pieghe ricadenti a “U” al bordo della veste, lembi a “Ω” ricadenti sul braccio – che cominciano ad affacciarsi nella pittura romana solo dopo la metà del secolo (tomba Fieschi, ¤ 41) e si attestano anche nella figura all’estrema destra del mosaico di facciata di Santa Maria in Trastevere (¤ 57). Un’‘aria di famiglia’ rispetto agli affreschi è anche nei volti: non tanto in quelli degli angeli, che nel mosaico sono piuttosto standardizzati, ma ad esempio nel Martirio di sant’Agnese, dove i personaggi hanno occhi ravvicinati, guance importanti, assenza di rialzi luminosi, una tipologia fisionomica tra l’altro non dissimile a quella di Giacomo Capocci nel mosaico
eponimo (¤ 42). Le ‘norme’ tecniche vigenti nel mosaico siciliano e veneziano sono ormai abbandonate – una tendenza visibile già nel mosaico della Vergine a San Zenone (¤ 29) e nel Capocci (¤ 42) – così che non si usano più le tessere blu per marcare le zone d’ombra, mentre sopravvivono le file di tessere rosse, private però dell’originaria funzione di evidenziazione ‘prospettica’ e luminosa come nel naso dei due angeli a ovest, e mescolate ad altre tessere di colori più vicini a quelli naturali dell’incarnato. Questi elementi annunciano già quanto Torriti realizzerà nelle grandi opere di fine secolo, in particolare a Santa Maria Maggiore (Wollesen 1979, 19). Petrignani (1941, 45), Amodei-Cempanari (1963, 87) e Tomei (1991a, 331) volevano che il busto del Cristo [23] derivasse da quello dell’Acheropita; l’Andaloro invece preferiva pensare ad una derivazione dall’altro busto del Salvatore nell’abside di San Giovanni in Laterano (Andaloro 1995, 143). Sarebbe così possibile immaginare che ambedue le immagini acheropite lateranensi siano state riprese nella decorazione del Sancta Sanctorum, la tavola nell’affresco, il busto musivo nei mosaici; secondo la Andaloro, anche i volti di Pietro e Paolo potrebbero derivare da quelli delle icone che nel Duecento erano conservate nel Sancta Sanctorum e oggi sono al Museo della Biblioteca Vaticana (Andaloro 1995, 143). Nello studio seguito al restauro, la stessa Andaloro aveva suggerito che il disegno dell’intero mosaico si debba ad un unico pictor imaginarius, e che questo artista sia uno dei frescanti attivi nella cappella (Andaloro 1995, 147): un’ipotesi attraente, e ben compatibile con le affinità già riscontrate tra gli affreschi e i mosaici, da limitare semmai con il fatto che le silhouettes dei due angeli a est sono a nostro avviso più massicce di quelli a ovest e possono rivelare l’uso di ulteriori modelli. Analizzando il tessuto delle tessere, si era supposta la presenza di due distinti pictores musivarii (Andaloro 1995, 160): uno, cui si dovrebbero le figure di sant’Agnese [26], di san Nicola [25], e dei quattro angeli (ma abbiamo già segnalato che a nostro avviso le due coppie di angeli a est e a ovest non sono identiche nemmeno nei volti); e un secondo, autore del Cristo, di Paolo [28], di Lorenzo [27], e – ancora a nostro parere – dei due angeli a ovest, dai tratti più distesi e sereni. Meno caratterizzati sono i volti di santo Stefano [29] e di san Pietro [28]. L’attribuzione dei mosaici alla bottega di Cosma, che firma la cappella (de Rossi 1899; Venturi 1907; van Marle 1921, 223; van Marle 1923, 496-497; Matthiae, 1966a [1988], 208; Marinelli s.d. [1972], 65) è negata dall’Andaloro: nonostante alcune effettive somiglianze con, ad esempio, l’angelo del tabernacolo Capocci (¤ 42), è vero che la disposizione delle tessere nelle cornici decorative della cappella – sicuramente opera della bottega cosmatesca – si differenzia molto da quella nei SANCTA SANCTORUM / ATLANTE I, 21 337
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mosaici dell’alcova, lì disposte in modo uniforme e regolare, qui invece distanziate e irregolari. Evidentemente, questa variazione tecnica potrebbe doversi alla differente tipologia dei mosaici, in un caso puramente ornamentali, nell’altro figurativi. I mosaici del Sancta Sanctorum si pongono dunque a un crinale della storia della tecnica musiva, nel momento in cui si rompe con la tradizione iniziata nel primo Duecento ma ancora si esita ad abbordare soluzioni figurative radicalmente innovative. Non c’è però un vuoto o una totale interruzione nell’attività delle botteghe dei mosaicisti romani: dopo la facciata di San Pietro, a quanto si sa ci fu il mosaico Capocci (¤ 42) e, in data molto vicina al Sancta Sanctorum, la vergine all’estrema destra di Santa Maria in Trastevere (¤ 57). L’ambizione antichizzante del Sancta Sanctorum non è talvolta ben servita dal savoir-faire tecnico dei mosaicisti, che quindi si volgono ai modelli e alle soluzioni adottate dai colleghi frescanti, più dolci e duttili; ma sembrano anche avvalersi di procedure tecniche conosciute e recuperate in opere musive cittadine di epoca paleocristiana, per esempio l’utilizzazione di tessere arancio per i volti, come nei mosaici della navata e dell’arco trionfale di Santa Maria Maggiore. Il risultato è in conclusione alquanto ibrido, non facilmente armonizzabile con la grande fioritura musiva che di lì a qualche anno si svilupperà nelle basiliche romane, e per la quale bisogna immaginare ulteriori e più complesse componenti. Karina Queijo
Interventi conservativi e restauri
Secondo decennio del XVI secolo (probabilmente in concomitanza con la reinvenzione delle reliquie da parte di Leone X nel 1518): ridipintura degli affreschi a cura di Raffaele Riario, cardinale camerlengo (Romano 1995b); rifacimento radicale di tutto il sistema decorativo, aggiornamento di abiti, panneggi, e volti con sostanziale rispetto dell’iconografia. Rimane incerto se a questa fase si riferisca la frammentaria iscrizione ancora visibile sul dado della colonnetta tra la parete d’altare e la parete settentrionale: AL DECEM [...] 15 (?) AVAT [...] 1572: non meglio precisabile restauro di Raphael Gavasetus bononiensis, secondo l’iscrizione sul dado della colonnetta tra la parete d’ingresso e quella d’altare: «Raphael Gavasetus bononiensis restauravit 1572». 1625: restauri al mosaico, danneggiato dal fumo, citati da Marangoni (1747, 33). 1704: non meglio precisabile restauro di Ioseph Montanus pisauriensis, secondo l’iscrizione sottostante quella di Gavasetus, «Ioseph Montanus civis pisaurensis anno 1704 iterum restauravit». 1907: ridipintura del mosaico a integrazione delle tessere cadute (Amodei-Cempanari 1963, 87). Probabilmente in questa occasione viene in parte pulita la parete sud. 338 SANCTA SANCTORUM / ATLANTE I, 21
1992-1994: restauro della cappella (mosaici, affreschi, marmi) ad opera di Bruno Zanardi e sotto la direzione di Fabrizio Mancinelli, Direzione dei Musei Vaticani.
Documentazione visiva
Incisione di Angiolo Guiducci, su disegno di Annibale Lancisi, in Marangoni 1747, 92 (lunetta musiva con Pietro e Paolo e Acheropita); de Rossi 1899, tav. XXI (insieme del mosaico). 1988: ICCD, campagna fotografica eseguita in collaborazione tra i Musei Vaticani e il Ministero dei Beni Culturali, diretta da Fabrizio Mancinelli e Serena Romano.
Fonti e descrizioni
Tolomeo da Lucca, RIS XIII, 1179-1181; Platina 1474-1481 [1730], 249-250; Panvinio 1570 [lat.], 170-187; Panvinio 1570 [it.], 238-239; Panciroli 1600 [1625], 145-148; Ciacconio 1630 [1677], c. 217; Severano 1630, 568-374; Rasponi 1656, 361-384; Millino 1666; Soresini 1672; Marangoni 1747; Furietti 1752, 94; Bambi 1775, 13-17.
Bibliografia
Mazzucconi 1840, 34-35; Crowe-Cavalcaselle 1869, 46-47; Adinolfi 1881 [1981], 233-240; Crowe-Cavalcaselle 1886, 155-156; Clausse 1893, 468-469; de Rossi 1899; Grisar 1907, 48-49; Venturi 1907, 189; Lauer 1911, 203; Wilpert 1916, I, 176-180; Dell’Adolorata 1919, 95-97; van Marle 1921, 223-224; van Marle 1923, 496-498; Venturi 1926, 39-40; Toesca 1927 [1965], 1022 nota 40; Petrignani 1941, 45; Armellini-Cecchelli 1942, I, 146-147; Longhi 1948, 43; Bologna 1962, 122; Amodei-Cempanari 1963, 87; Golzio-Zander 1963, 191; Matthiae 1966a [1988], 208-209; Matthiae 1967, 343345; Oakeshott 1967, 295; Bertelli 1969, 46 nota 32; Marinelli s.d. [1972], 65-66; Gardner 1973b, 288, 292-293; Glasberg 1974, 128-129; Petrassi 1975, 237; Wilpert-Schumacher 1976, 22-23; Belting 1977, 142, 165, 210-215; Wollesen 1977, 70-71; Gardner 1979, 79; Wollesen 1979; Wollesen 1981; Wollesen 1983; Bellosi 1985, 172, nota 196; Pace 1986a, 426-428; Marques 1987, 184185; Gandolfo 1988, 305, 327-328; Petersen 1989, 27; Bellosi 1990; Mangia Renda 1990, 578-581; Righetti Tosti-Croce 1991, 112; Tomei 1991a, 327-333; Tomei 1991b, 59-62; Andaloro 1995; Gardner 1995a, 29; Romano 1995b; Cadei 1996; Herklotz 1997; Pace 1997 [2000], 118-119; Bellosi 1998, 67-84; Wollesen 1998, 40; Kessler-Zacharias 2000, 38-63; Romano 2001-2002; Gigliozzi 2003; Poeschke 2003, 156-169; Romano 2006a, 68; Romano 2007, 624, 633; Viscontini, in Atlante I (¤ 21); Wollesen 2007-2008; Triff 2009; Romano-Foletti 2010b. Serena Romano e Karina Queijo
61. LA DECORAZIONE DUECENTESCA IN SAN PAOLO FUORI LE MURA
La fase duecentesca dell’apparato pittorico di San Paolo fuori le mura è tanto celebre negli studi, quanto incerta e controversa nella sua reale estensione. Gli affreschi della navata, perduti dopo l’incendio del 1823 comprese le tre scene, molto probabilmente dall’Antico Testamento, staccate presso l’arco trionfale nel 1831 e di cui si è smarrita la traccia (Kessler 2004, 22-23), dovevano essere il frutto di un numero invalutabile di interventi di restauro e di rabberciamento, oltre che di iniziative più complesse e significative che nel tempo dovevano aver preso in conto, e sensibilmente modificato, la pelle pittorica e il programma iconografico paleocristiani. Nel 1624 la carta della Sacra Congregazione nota che la basilica «tota picturis antiquis et novi testamenti ornatur» (ASV, Sacra Congregazione, b. 2); questo videro i copisti barberiniani, e registrarono clipeo per clipeo e scena per scena nei loro disegni acquerellati (BAV, Barb. lat. 4406 e 4407), preparando i colori dell’acquerellatura con appunti a matita sul disegno stesso, e annotando anche i dubbi che la tormentata superficie pittorica talvolta suggeriva (Waetzoldt 1964; Viscontini, in Corpus I¤ 44). Gli acquerelli seguono la sequenza narrativa, dissolvendo la fisica disposizione delle scene sulla parete e la loro reciproca relazione; per l’aspetto complessivo della navata rimando alla ricostruzione dell’Atlante (Viscontini, in Atlante I¤ 8) e del Corpus I (Viscontini, in Corpus I¤ 44). A questa eccellente e recente sintesi si farà capo anche per l’intricata questione critica, di cui riassumo qui solo i punti indispensabili a giustificare la scelta di presentazione in questo volume. Circa il 1450, Lorenzo Ghiberti scrive nei suoi Commentari: «Fu in Roma uno maestro el quale fu di detta città, fu dottissimo infra tutti gli altri maestri, fece moltissimo lavorio; el suo nome fu Pietro Cavallini ... in santo Pagolo era di musayco la faccia dinançi; dentro nella chiesa tutte le parieti della nave di meço erano dipinte storie del testamento vecchio. Era dipinto el capitolo tutto di sua mano egregiamente fatte» (Ghiberti, ed. von Schlosser 1912, II, 39). Ghiberti sembrerebbe dunque attribuire l’Antico Testamento sulla parete destra della chiesa a Cavallini: tuttavia la frase non è priva di ambiguità, poiché cita “tutte le pareti”, laddove si sa che sulla parete sinistra c’erano storie degli Atti degli Apostoli. Nel tempo, i pareri sembrano divergere dal suo, in particolare quello importante di Giovanni Marangoni (1749; Kessler 2004, 31) che sottolinea la diversità di stile tra i dipinti della navata e i mosaici cavalliniani della facciata; e se la lettera dell’abate Giuseppe di Costanzo del 1816 di nuovo parla di «dipinti vari fatti dall’antico testamento, attribuiti al Cavallini», riferendosi alle scene fino alla “scrostatura” (BAV, Vat. lat. 9672, f. 45r; Tomei 2000, 137), Giovan Battista de Rossi, che aveva visto con i suoi occhi le scene staccate, le dice «non ... dello stile ne dell’età del Cavallini» (BCSR, Cod. 29 E. 1, p. 12: Kessler 2004, 23). Sfugge completamente al giudizio critico tutta la serie delle figure di Apostoli o Santi o Profeti nella fascia alta delle due pareti: in quella meridionale sono identificate sette figure (Viscontini, in Atlante I, p. 106), nessuna in quella settentrionale. L’impianto tipologico e formale può esser stato certamente tardo antico, ma le silhouettes attestate nel Barb. lat. 4406 potrebbero esser state paleocristiane, duecentesche, o quattrocentesche: impossibile precisarlo. Analogamente per i ritratti papali dei medaglioni maggiori si veda Viscontini, in Corpus I (¤ 44), e Atlante I (¤ 8), mentre per quelli duecenteschi al di sopra delle arcate si veda più avanti in questa scheda. A osservare gli acquerelli barberiniani – di fatto la tappa informativa successiva a Ghiberti, dopo due secoli di apparente assoluto silenzio – l’aderenza della serie del Genesi al repertorio
iconografico prototipale per i cicli testamentari di referenza romana è del tutto ovvia. L’accento tardo antico è forte, vicino ai modelli dei codici virgiliani di V secolo (Romano 2002a); all’interno della stessa serie, tuttavia, altre scene sembrano accogliere gli elementi mediobizantini e duecenteschi evidenti nei cicli che rielaborano il materiale basilicale paleocristiano via via nel corso del Medioevo. Le affinità con il più celebre di quelli duecenteschi, la navata di San Francesco ad Assisi (1288-92), sono palesi ad esempio nella Costruzione dell’Arca (4406, f. 34), nelle Storie di Giuseppe (ff. 43-45), e nel Miracolo dei Serpenti (f. 53). Nel Sacrificio di Caino e Abele (f. 31) e nel Giuseppe in prigione (f. 49) Kessler (2004) ha invece evidenziato dettagli iconografici da lui ritenuti quattrocenteschi per confronto con il ciclo testamentario dell’Annunziata di Cori, esso stesso derivato dai prototipi petrini e paolini; ricordo tuttavia che il Giuseppe in prigione, ad esempio, usa sistemi compositivi ben compatibili con la pittura di fine Duecento nel Lazio e in Toscana (Romano 2002, 625). L’esistenza di almeno due fasi in questa parete è in ogni caso attestata da un dato ben noto: dopo le scene di Abramo e i Tre angeli (f. 36) nel registro superiore, e dell’Uccisione dei Primogeniti (f. 54) in quello inferiore, ci sono infatti scene mancanti, tre sopra e una sotto. Nel registro superiore, dopo la lacuna la narrazione riprende con il Sacrificio di Isacco, quindi coerentemente con la sequenza narrativa; mentre in quello inferiore dopo il riquadro mancante il ciclo riprende con sei scene mosaiche, tutte dedicate alle Piaghe, l’ultima delle quali è un’altra Uccisione dei Primogeniti. Lo stile di tutte le scene che succedono alla lacuna, in ambedue i registri, è a evidenza diverso da quelle prima della lacuna, e appare verosimilmente di data paleocristiana. L’ipotesi di un rifacimento sia stilistico che iconografico del ciclo di questa parete è dunque apparsa lecita (Romano 2002a; Kessler 2004). Sulla parete opposta, le storie apostoliche non appaiono toccate dal medesimo trauma conservativo; non sono apparentate al gruppo ‘paleocristiano’, ed è impossibile distinguere chiaramente in esse tra i dati mediobizantini, quelli forse duecenteschi, e altri più tardi che sono il risultato dell’ipotesi di Tronzo (2001) relativa alla controfacciata, e di Pöpper (2004) sulla navata. Alcuni dettagli che avevano fatto scorrere molto inchiostro, cioè la figuretta di J(o)h(anne)s levita nella Predica di Paolo (f. 121), le scritte «(com) pleta est pars eclesie» (f. 111) «(tempo)ribus dom(ini) Ioh(ann)is sextus abbas» (f. 112) rispettivamente nella Chiamata di Timoteo e nella Predica di Paolo, sono stati ricondotti (Pöpper 2004; Kessler 2004) all’intervento di Giovanni di Tor Sanguigna, abate dal 1406 al 1433 e autore della riparazione al tetto: al quale intervento si riferirebbe la scritta «completa est pars ecclesie» (resta invece senza una vera ipotesi l’altra scritta all’interno della Chiamata al f. 111, «Ursus sacer(dos) et monachu(s)»). Non dunque – come in varie ipotesi precedenti (White 1956a; Gardner 1971; Id. 1999; Hetherington 1979; Pace 1991; Tomei 2000; Romano 1989a; Ead. 2002a) – l’abate degli anni Settanta del Duecento (1278-79), quarto abate di questo nome secondo le liste conosciute (Trifone 1909); ma un uomo post-avignonese, attore della riorganizzazione della città papale dopo i lunghi decenni di incuria che le fonti filocolonnesi descrivono così foscamente, e legato alla riforma Osservante. La natura e l’estensione di questo intervento sulle pitture della navata rimane però non definibile. L’analisi stilistica condotta da Pöpper sulla Predica di Paolo del f. 119, tesa a mostrarne i caratteri masacceschi, ribalta le proposte precedenti (Polzer 1971; Maurer 1981; Romano 2002a), che l’avevano considerata un buon esempio dei modelli tardo-antichi fonte SAN PAOLO FUORI LE MURA / ATLANTE I, 8 339
d’ispirazione per Masaccio; ma lascia perplessi, rimanendo la scena assolutamente “più antica” di Masaccio, ad esempio per ciò che attiene alla divisione in due registri, e alla disposizione degli elementi architettonici al di sopra del grande semicerchio. Potrebbe essere che l’intervento quattrocentesco sui dipinti si sia limitato a più leggeri ritocchi e aggiustamenti alle pitture, tramite un’impalcatura che doveva servire per i lavori al tetto, e chi abbia pratica di restauri sa bene quanto possano differire i ponteggi che servono ad architetti e muratori, e quelli usati per il restauro pittorico. Aggiunte devozionali a secco sono plausibili: le due figurette di devoti del f. 110 ne sono esempio, forse persone che avevano contribuito a finanziare la basilica, magari proprio all’epoca di Giovanni VI. Le scene interessate dalle scritte sopra citate furono certamente oggetto di rifacimenti ‘leggeri’: lo si vede nel confronto fra la documentazione barberiniana e i disegni di Séroux d’Agincourt. Rimando per tutta la questione alla scheda di Viscontini, in Corpus I ¤ 44: ma si veda la metamorfosi della Chiamata di Timoteo (f. 111), in cui i ritocchi a secco via via cadono, rendendo qua e là incomprensibile anche il soggetto preciso della scena, dove il curioso pesce volante su scudo rotondo della copia barberiniana diventa, in Séroux, la testa aureolata di un giacente che Paolo tocca con la mano, vicino a un astante (Vat. lat. 9843, f. 4r) e in Alippi sparisce del tutto, sostituita dal solo astante (in Nicolai 1815, tav. II). Aggiungo anche che i copisti barberiniani, pur non fedeli registratori dei dati stilistici delle opere, non erano però indifferenti o ciechi: la distanza tra opere pienamente medievali e dipinti tre-quattrocenteschi si vede benissimo, ad esempio, nelle copie da San Giacomo al Colosseo o dalla facciata dell’Ospedale lateranense (BAV, Barb. lat. 4408), ma le scene di San Paolo in nessun modo sembrano segnalare un timbro compiutamente quattrocentesco. E soprattutto Ghiberti: se a San Paolo la ridipintura quattrocentesca fosse stata un testo pittorico coerente, davvero il frutto dell’opera di un pittore legato
al soggiorno di Masaccio a Roma negli anni Venti, credo che Ghiberti, a Roma pochi anni dopo, l’avrebbe visto e compreso, non confuso con l’opera di Pietro Cavallini. La frattura delle quattro scene nel ciclo vetero testamentario è certa nel Seicento: non sappiamo da quanto tempo. Essa cade all’altezza delle scritte che sulla parete opposta ricordano i lavori ora attribuiti all’abate quattrocentesco. Se il ponteggio dei lavori alla copertura della basilica realizzati da Giovanni VI permise di intervenire anche sulla parete destra, si dovrebbe pensare che l’abate, rifatto il tetto per quel che serviva, abbia fatto ridipingere gli affreschi solo fino al punto coincidente con i lavori al tetto, lasciando vuoti ben quattro riquadri e nonostante avesse avviato un rifacimento iconografico radicale del ciclo, attestato dalla seconda Uccisione dei Primogeniti; indifferente alla ferita che il pasticcio imprimeva alla veste pittorica della basilica, avrebbe per così dire messo nero su bianco l’interruzione, facendo scrivere nell’affresco di aver rifatto solo una “pars ecclesiae”. Sembra più verosimile, forse, che la “pars ecclesiae” interessata dall’intervento di Giovanni VI si sia limitata alla parete destra; e che quanto già tentato negli studi – la distinzione tra una parte paleocristiana e una più tarda, ma ancora medievale – sia una conclusione sulla quale ancora riflettere. Certo, i caratteri compositivi e stilistici che filtrano dalle copie barberiniane delle storie dell’Antico Testamento non sono, fino alla lacuna, né masacceschi né tardo antichi: possono a tratti apparire compatibili con i repertori romani e laziali dell’undicesimo e dodicesimo secolo, altre volte più probabilmente duecenteschi. Isolarne alcuni è, allo stato delle cose, un’avventura molto pericolosa, e non è dunque per abdicare all’obbligo del giudizio storico che lascio senza certa conclusione, e per quanto riguarda questo volume, senza una scheda dedicata, la vicenda degli affreschi della navata, e fermo l’attenzione sulle uniche parti, lacerti sopravvissuti o opere solo documentate, che hanno invece un riferimento cronologico non dubbio.
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e in quella ‘moderna’ insistevano dunque sulla fase dei primordi della Chiesa e sulla fondazione della sua storia, in accordo con tutto il programma politico e ideologico del papa Orsini. Le testimonianze letterarie, il gran numero di documenti grafici relativi alla basilica ostiense (Boccolini 1954; Viscontini, in Atlante ¤ 8) e in particolare il dipinto di Panini recentemente studiato da Julian Gardner (1999), rendono chiara l’ubicazione di questa serie duecentesca nella basilica. Mentre la serie maggiore, di origine
61a. QUATTRO CLIPEI CON RITRATTI PAPALI (MUSEO DELLA BASILICA DI SAN PAOLO)
paleocristiana, correva subito al di sotto dei registri narrativi, i clipei duecenteschi erano situati negli spazi di risulta al di sopra dei capitelli delle colonne. Erano venti su ognuna delle pareti, più otto sulla controfacciata: i primi quattro erano così danneggiati già nel Seicento, che i copisti barberiniani non li riprodussero (Waetzoldt 1964, 63). Mentre la serie maggiore era contenuta in una sorta di pannelli rettangolari a fondo rosso, con cornice dorata, due medaglioni per ogni pannello, con le iscrizioni su
1277-1280
I quattro medaglioni [1, 2, 3, 4] furono staccati dalla parete della basilica dopo l’incendio del 1823, ad opera di Pellegrino Succi, che operò anche il distacco della serie maggiore di clipei, e sono oggi conservati presso il Museo della Basilica. Hanno dimensioni minori rispetto ai clipei maggiori, circa 69 cm di diametro contro i 150 della serie maggiore. L’identificazione del papa ritratto è affidata agli acquerelli barberiniani (BAV, Barb. lat. 4407, ff. 79-119) che documentano l’intera serie. Si tratta del presumibile ritratto del papa Anacleto, di Sisto, di Telesforo, e di Igino: rispettivamente ff. 80, 83, 84, 85. L’identificazione di Anacleto è stata talvolta messa in dubbio, proponendo che possa invece trattarsi di Cornelio (f. 97) che tuttavia differisce dall’affresco nella forma della barba. Sisto, Telesforo e Igino sono rappresentati anziani, Anacleto è più giovane e bruno. I pontefici sono rappresentati frontalmente a mezzo busto, con tunica, manto e pallio, e sono tutti aureolati.
Note critiche
Il primo a testimoniare che Niccolò III Orsini abbia fatto apporre serie di ritratti papali nelle basiliche romane è il suo contemporaneo e testimone oculare Tolomeo da Lucca, che scrive: «Hic Ecclesiam Beati Petri quasi totam renovavit, et numerum Summorum Pontificum fecit describi secundum imagines in Ecclesia Beati Petri in loco eminenti, et Beati Pauli, ac Sancti 340 SAN PAOLO FUORI LE MURA / ATLANTE I, 8
Joannis de Laterano» (Ptolomaei Lucensis Historia Ecclesiastica, RIS 1727, XIII, col. 1180). Lo conferma poi il Marangoni (1751, 1), che scrive «Posterea Nicolaus Papa III, antea Joannes Caietanus Card. Arch. et Abbas huius monasterii... nonnulla huic basilicae addidit ornamenta, inter quae, infra Coronidem, et inter Epistilia, et Capitula Colomnarum utriusque lateris, in totidem areis orbicularis imagines Pontificum in stylobate expressas pingi curavit servata quidem similitudinem vultus, et Coronae Clericalis, non vero vestimenti: nam his addidit pallium Pontificale e collo in pectus pendens, Crucibus distinctum singulorum capiti apposuit et nimbum, seu Circulum, qui sanctis tribui solet». Marangoni sottolinea bene la preoccupazione di Niccolò di mantenere la somiglianza ‘fisionomica’ dei ritratti, si suppone nei confronti della serie maggiore, ma anche di ammodernare gli abiti e di uniformarli, rendendoli dunque più attuali e comprensibili all’osservatore. Niccolò si curò evidentemente di propagandare l’immagine pontificia in tutti i principali santuari cittadini, San Pietro, San Paolo e San Giovanni; ma laddove è impossibile sapere alcunché circa la natura delle serie di ritratti in San Pietro e San Giovanni, è chiaro che a San Paolo egli scelse deliberatamente di ribadire le immagini dei papi più antichi e inoltre di attribuire a queste figure ormai lontane nella storia lo statuto di santità, connesso alla loro carica e al loro ruolo di iniziatori del disegno storico provvidenziale. I ritratti così duplicati nella serie antica
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fondo bianco negli spazi fra i pannelli, la serie duecentesca spiccava su un fondo azzurro che richiamava il cromatismo degli attigui intradossi delle arcature, ornate a racemi in stucco bianco su fondo blu. Azzurro, rosso, bianco e oro erano anche i colori dominanti nel ciclo narrativo, naturalmente insieme ai colori di terre sempre usati dai frescanti romani nel corso del medioevo. I quattro clipei hanno subito traversie terribili nel corso dei secoli, in particolare, è ovvio, lo stacco ottocentesco, che certo ne deve aver fortemente impoverito lo spessore e il colore. Peggiori vicende devono aver toccato almeno i tre ritratti di Sisto, Telesforo e Igino [2, 3, 4] nel corso del Novecento: a confrontare le fotografie pubblicate dal De Bruyne nel 1934 con lo stato di oggi, e anche sulla base di qualche testimonianza orale raccolta da chi scrive all’epoca di Fragmenta Picta (1989a), è evidente come i tre dipinti siano stati sottoposti a trattamenti brutali, che li hanno spellati, toccati con materiali impropri, integrati in assenza di criteri scientifici e filologici, insomma semi distrutti. È quasi un miracolo che il ritratto del supposto Anacleto [1, 5] si conservi ancora così leggibile, evidentemente non toccato dai pessimi interventi che interessarono gli altri tre; probabilmente si trovava già in migliori condizioni, e non si ritenne di manipolarlo inutilmente. Il medaglione conserva ancora parte del fondo azzurro originario; la figura è dipinta nei colori classici della pittura murale romana, in vari toni di ocra dal beige al rosso-bruno; grande uso è fatto del bianco di calce. Fortissima, ancor più in quanto resa maggiormente visibile dai danni della superficie pittorica, è la preparazione verde nel volto e nel collo. L’espressione corrugata degli occhi si accompagna a una massività stereometrica dell’intero volto, che ha mascella forte e arrotondata. La questione critica, radicata nella notizia del Ghiberti che attribuiva le storie dell’Antico Testamento a Pietro Cavallini (cfr. più sopra l’introduzione a questa scheda), ha sempre orientato l’attribuzione di questo dipinto in ambito cavalliniano; ma già nel 1971 Julian Gardner precisava la distanza evidente tra le opere note di Cavallini e lo stile di questo brano magnifico, indicando la possibilità del riferimento ad un pittore più anziano, una sorta di maestro del Cavallini. Tuttavia tutto discorda, in questo affresco, con la tecnica del Cavallini; e tutto coincide, invece, con l’indirizzo torritiano della pittura romana attorno al 1280. I riferimenti in direzione bizantina e balcanica già proposti da chi scrive (1989) si armonizzano perfettamente con i dati che nutrono la cultura del Torriti giovane (si veda il saggio introduttivo a questo volume, 40-41). È di Miklos Boskovits (2001, 152-153) la proposta di una diretta attribuzione a Jacopo Torriti, che nel suo testo sembra divenire addirittura il maestro di Pietro Cavallini; a mio avviso si deve rimanere prudenti, trattandosi, nel caso di San Paolo, di un cantiere certamente popolato da molti pittori. La qualità molto alta, la forma massiccia arrotondata del volto, non discordano però da quanto Torriti farà poi ad Assisi, ad esempio nella Vergine della volta clipeata, e nemmeno con i brani che a lui ho riferito nel Sancta Sanctorum (¤ 60). La complessa questione critica relativa alla fase duecentesca dei cicli narrativi della navata, di cui diamo rapidamente conto nell’introduzione a questa scheda, non rende facile comprendere se effettivamente
ci fu un intervento orsiniano anche sulle scene narrative, di cui anni fa (Romano 2002a) ho messo in rilievo alcune somiglianze compositive e spaziali con le tecniche compositive e narrative delle scene del Sancta Sanctorum: il nesso con l’ambito torritiano mi sembrava anche in quel caso più esplicito che quello con il Cavallini. Gli altri tre clipei sono, come si è detto, difficilmente giudicabili; tuttavia, volendo osare una contestualizzazione, si potrebbe considerare che difficilmente essi potrebbero essere attribuiti alla medesima mano autrice del cosiddetto Anacleto. Tuttavia Sisto, Igino e Telesforo provenivano tutti e tre dalla parete destra; anche Anacleto, a poco distanza dagli altri, che invece erano in sequenza (Viscontini, in Atlante I ¤ 8). L’identificazione con Cornelio porterebbe a situare invece il medaglione sulla controfacciata: non so se la distanza fisica possa far nascere qualche considerazione circa il cambiamento di mano. La pittura dei tre rimanenti clipei, per quel che ne rimane, sembrerebbe più liquida e il segno più grafico, meno massicce le mascelle e la forma del volto, meno austera l’espressione. Qualche parentela con la bottega di ambito torritiano che lavora nella quarta navata di San Saba (¤ 66) non sembrerebbe impossibile: d’altronde, a San Paolo dovettero lavorare i pittori della Roma di quegli anni, “promossi” anche dalla partecipazione al cantiere orsiniano. La prossimità tipologica con i medaglioni con ritratti papali che affiancano il trono nell’abside della basilica superiore di Assisi è stata già proposta da chi scrive (Romano 1989a).
Interventi conservativi
Post 1823: stacco ad opera di Pellegrino Succi. Pesanti interventi di ridipintura in epoca imprecisata, in particolare alla metà circa del XX secolo. 1989: intervento conservativo e di pulitura in occasione della mostra Fragmenta Picta.
Documentazione visiva
BAV, Barb. lat. 4407, ff. 79-119: f. 80 (Anacletus), f. 83 (Sixtus I), f. 84 (Telesphorus), f. 85 (Hyginus), f. 97 (Cornelius); fotografie pubblicate in De Bruyne 1934, 160, 161, 166, 167 figg. 58-61.
Fonti e descrizioni
Ptolomaei Lucensis Historia Ecclesiastica, RIS 1727, XIII, col. 1180; Marangoni 1751, 1.
Bibliografia
De Bruyne 1934, 158-174, 232-239; Ladner 1941, I, 52-53; Watzoldt 1964, 63-64; Gardner 1971; Wollesen 1981, 74; Gandolfo 1988, 313, 329-330; Romano 1989a; Kessler-Zacharias 2000, 165-166; Tomei 2000, 135; Boskovits 2001, 152-153; Massimo 2001, 204, 218-229.
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61b. I DIPINTI SU PIEDRITTI E NAVATA CENTRALE 1285 ca.
I dipinti si trovavano sui piedritti dell’arco trionfale, al di sotto dei mosaici leoniani con i vegliardi apocalittici. Sono ambedue divisi in due livelli, o registri. Nel primo foglio [1] si vede, in piedi su una sorta di piccolo piedistallo con motivi ad arco trilobato, una gigantesca figura di san Paolo con braccia levate e mano destra in gesto benedicente; ai suoi piedi, inginocchiato e con mani giunte, vestito di rosso e con mitra episcopale, indicato dalla scritta sottostante, l’abate Bartolomeo. Al di sotto, una città cinta da alte mura alle quali si affaccia una moltitudine di teste; al centro, fra due torrette, si apre una porta monumentale con timpano e lunetta decorata a pelte come nei bronzi antichi: una figuretta la sostiene socchiudendola. L’altro foglio [2] è analogamente composto, ma al posto di Paolo compare san Pietro in trono con le chiavi e il gesto della benedizione, e non accompagnato da alcuna figura.
Iscrizioni Iscrizione identificativa, già disposta sotto la figura dell’abate Bartolomeo, allineata su due righe orizzontali. Perduta.
Abbas / Bartholomeus Trascrizione da disegno acquerellato, BAV, Barb. lat. 4406, f. 137. (S. Ric.)
Note critiche
I due fogli acquerellati testimoniano uno dei pochissimi dati affidabili della complicata San Paolo pittorica del tardo Duecento. L’abate Bartolomeo divenne abate il 6 marzo 1282, dopo la morte di Matteo, “uomo” di Niccolò III, e dopo che l’elezione di un altro abate, Giacomo, era stata contestata e annullata dal cardinale di Tuscolo Ordonio, da Guillaume de Bray e da Matteo Rosso Orsini (Schuster 1934, 128). Secondo Trifone (1909, 254-255) Bartolomeo resta abate fino al 1297. A lui risale la committenza del ciborio di Arnolfo: il suo nome compare infatti nell’epigrafe dedicatoria apposta sulla faccia verso la navata (ANNO MILLENO CENTU(M) BIS / ET OCTUAGENO QUINTO SUM/ ME DS Q(UO)D HIS ABBAS BARTHOLO/MEUS FECIT OP(US) FIERI SIBI TU DIGNARE MERERI) e fiancheggiata dalla doppia scritta che cita Arnolfo e il ‘suo socio Petro’; più in basso Bartolomeo ribadisce il concetto, e si fa rappresentare in atto di offrire il ciborio a san Paolo. L’immagine dell’abate, insomma, era più volte affissa nel
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punto cruciale della chiesa, cioè al limite tra spazio presbiteriale e navata; in pittura, in rilievo, e con le parole, nell’epigrafe. Al disopra dei pannelli dipinti si stendeva il mosaico donato da Galla Placidia, derivato dal IV libro dell’Apocalisse (la Visione dei 24 Seniores: Bordi, in Corpus I ¤ 44c): il tema escatologico di questo spiega la scelta iconografica dei pannelli sottostanti, che usano il motivo funerario della porta socchiusa, ben noto in epoca tardo antica e protocristiana (per un esempio, Mazzei, in Corpus I ¤ 14) e lo inseriscono in quello della città con mura gemmate, che il pubblico dei mosaici paleocristiani e medievali era uso riconoscere come le due Città apocalittiche, Betlemme e Gerusalemme (ad esempio San Clemente: Croisier, in Corpus IV ¤ 32). Le teste delle molte figure che spuntano dalle mura merlate sono quelle del popolo di Dio: sembrano tutti laici, uomini e donne, poiché i pannelli fronteggiavano i fedeli riuniti nella navata e ad evidenza proponevano loro una prospettiva escatologica protetta e assicurata dal Cristo e dall’Apostolo. L’affinità iconografica è ovviamente con le rappresentazioni del Giudizio Universale. L’armonizzazione con il mosaico è dunque forte e deliberata; Bartolomeo indossa la mitra, ma non il bastone episcopale, dunque non tutte le insegne del potere concesse all’abate ostiense da Innocenzo III (Schuster 1934); ma sul ciborio il bastone compare, portato da un accolito perché l’abate sostiene il modello del ciborio. L’immagine forte dell’abate, e l’insistenza su quella della Città fortificata, potrebbero essere in rapporto con gli eventi del pontificato di Onorio IV, che ordinò una visita – molto più che una visita, un’ispezione ufficiale – da parte di Pellegrino, vescovo di Oviedo, e del vescovo domenicano di Spoleto, Paparone, e fece pressioni sui vescovi di Fermo, Orvieto e Rieti affiché obbligassero i membri delle famiglie aristocratiche laziali a restituire all’abbazia terre da essi illegalmente detenute (Prou 1898, nota 312: 6 dicembre 1285; Trifone 1908; Gardner 1999, 249). La coincidenza di data con la realizzazione del ciborio e dei pannelli di Bartolomeo è in ogni caso suggestiva. Dal punto di vista compositivo, i pannelli devono essere considerati un unicum; sembrano molto difficili eventuali nessi con l’opera di Cavallini.
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Documentazione visiva
BAV, Barb. lat. 4406, ff. 137r-138r.
Bibliografia
Waetzoldt 1964, 64; Gandolfo 1988, 330; Pace 1991, 187; KesslerZacharias 2000, 172. Serena Romano
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62. IL PALAZZO APOSTOLICO VATICANO. LA SECONDA FASE PITTORICA
che col becco tengono un giglio, si alternano a coppie di motivi cuoriformi specularmente disposti nei quali sono inflorescenze di diversi tipi: palmette, gigli, foglie o foglie spinose [2, 3]. Tale fascia è compresa entro una cornicetta bianca con dentelli rossi e neri, e una banda rossa. In uno solo dei frammenti (inv. 42325.18) al di sotto di quest’ultima è ancora in parte visibile il motivo originario: due cerchi intrecciati, colorati rispettivamente di blu e rosso, nei quali volute terminanti in palmette o fiori a campanula definiscono una sorta di medaglione interno [3]. Negli spazi di risulta sono fiori bianchi a quattro petali. In tutti gli altri, invece, sono i resti dell’apparato decorativo più tardo, attribuibile, come indicano gli stemmi, al pontificato di Bonifacio IX [2].
Nono decennio del XIII secolo
Per l’introduzione ¤ 32 Note critiche, interventi conservativi, documentazione visiva e bibliografia ¤ 62g 62a. LA STANZA DELLA FALDA I frammenti della decorazione che correva lungo l’imposta del soffitto nella Stanza della Falda, ritrovati nell’intercapedine tra il soffitto dell’epoca di Gregorio XIII e il pavimento dell’ambiente sovrastante, sono ora conservati nei depositi dei Musei Vaticani (MV, 15 frammenti: inv. 42328.1, cm 60x44; inv. 42328.2, cm 72x58; inv. 42328.3, cm 48x45,5; inv. 42328.4, cm 42x54; inv. 42328.5, cm 40x52; inv. 42328.6, cm 47x80; inv. 42328.7, cm 25x57; inv. 42328.8, cm 68x39; inv. 42328.9, cm 66x73; inv. 42328.10, cm 68x51; inv. 42328.11, cm 38x52; inv. 42328.12, cm 37x91; inv. 42328.13, cm 29,5x52; inv. 42328.14, cm 32x86; inv. 42328.15, cm 38x90). L’apparato ornamentale – motivi cuoriformi legati per la punta si sovrappongono ad altri analoghi tenuti al centro da un bottone, nelle intersezioni dei quali è un complesso intreccio di racemi fioriti – era compreso entro una fascia bianca con motivi a dentelli rossi e neri e una cornice rossa e verde, percorsa nel mezzo da una fila di perline bianche [1].
62c. LA SALA VECCHIA DEGLI SVIZZERI
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62b. IL CUBICOLO DI NICCOLÒ V 1
Anche il fregio che decorava le pareti del Cubicolo di Niccolò V, conservatosi al di sopra della soffittatura lignea quattrocentesca, è stato staccato ed è ora nei depositi dei Musei Vaticani (MV, 19 frammenti: inv. 42325.1, cm 74x52; inv. 42325.2, cm 107x138; inv. 42325.3, cm 86x153; inv. 42325.4, cm 94x50,50; inv. 42325.5, cm 94,5x61; inv. 42325.6, cm 91x71; inv. 42325.7, cm 68,5x50; inv. 42325.8, cm 49x48,5; inv. 42325.9, cm 40x81; inv. 42325.10, cm 83x71; inv. 42325.11, cm 33x77; inv. 42325.12, cm 89x71, inv. 42325.13, cm 90x81; inv. 42325.14, cm 90x71; inv. 42325.15, cm 81x71; inv. 42325.16, cm 76x64,5; inv. 42325.17, cm 111x148; inv. 42325.18, cm 110x119,5; inv. 42325.19, cm 75,5x57). Su un fondo scuro, medaglioni fitomorfi contenenti grifi affrontati
Sulle pareti est, sud e nord, nell’intercapedine tra il soffitto della sala e il pavimento della sovrastante Segreteria di Stato, si conservano resti dell’apparato decorativo cui si sovrappone una decorazione seriore. In alto è un fregio vegetale, di cui resta solo la parte inferiore: nelle volute intrecciate e terminanti in grossi grappoli di frutti rossi trovano posto grosse foglie spinose; a queste si alternano racemi con fiori bianchi legati tra loro a mo’ di ghirlanda [4, 5]. Una banda a fasce sovrapposte ocra, blu e rossa – tra le prime due è una fila di perline bianche – lo divide dal motivo sottostante: su fondo blu, tra festoni con gigli e fiori di diverse sorte che accolgono pappagalli verdi e pavoni ritratti di profilo, sono inseriti elementi tondi e romboidali incastrati l’uno nell’altro e posti verticalmente, alternativamente occupati da volatili bianchi e grandi fiori a quattro petali [4, 5, 6].
62d. LA SALA DEI CHIAROSCURI Della decorazione duecentesca restano lacerti sulle pareti ovest, sud ed est, oggi racchiusi sopra il soffitto ligneo cinquecentesco della sala. Archetti dall’intradosso cassettonato sostenuti da mensole e la cui architrave è ornata da tre bande sovrapposte – le due esterne con motivi a ovoli, quella centrale con motivi simulanti tarsie a rombi e cerchietti – accolgono colombe con le ali spiegate che si stagliano su un fondo blu. Negli spazi di risulta superiori
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è stata ipotizzata la presenza di altri uccelli raffigurati frontali di cui restano oggi solo le zampe e una parte della coda (Monciatti 2005a, 309) [7, 8]. Alcuni frammenti della parete est mostrano ancora una piccola parte dei motivi sottostanti, non nascosti dalla sovrapposta decorazione del XV secolo: si riconoscono porzioni di capitelli e la terminazione superiore di frontoni e arcature alternati – al centro di una delle quali è ancora individuabile una conchiglia – definiti da motivi a ovoli.
62e. LA SECONDA SALA DEI PARAMENTI O DEL CONCISTORO SEGRETO Dell’ornamentazione nell’intercapedine tra il soffitto della Seconda Sala dei Paramenti e il pavimento della soprastante Sala dei Chiaroscuri restano unicamente i disegni (Biagetti 1926-1927, 245, fig. 6) e l’acquerello [9] eseguiti dal restauratore Fammilume prima che la nuova pavimentazione la nascondesse di nuovo (Biagetti 1924-1925, 492). Un fregio fitomorfo – doppi racemi intrecciati da cui si dipartono palmette e fiori rosa su fondo azzurro si alternano a doppie volute intrecciate terminanti con fiori a campanula azzurri su fondo rosso – è compreso entro una doppia cornice rossa e ocra, divisa nel mezzo da una fila di perline bianche ed è coronato da un motivo a ovoli.
62f. LA CAPPELLA NICCOLINA Il velarium staccato e oggi conservato nei depositi dei Musei Vaticani proveniente dalla cappella di Niccolò V (MV, 1 frammento: inv. 42361, cm 78x97), ricopriva il fondo e lo sguincio sinistro di un vano – in origine probabilmente una finestra-vedetta – rinvenuto al di sotto dello strato d’intonaco degli affreschi dell’Angelico, nella parte bassa della parete settentrionale [10]. Presenta un’ampia bordatura color ocra a ovuli e rombi alternati, segnata superiormente e inferiormente da una filettatura rossa. Tra le pieghe del velum, rese con due grosse bande verdi, trovano posto due rosette color ocra. Il drappo simulava di essere appeso a una parete color mattone percorsa da racemi ocra.
62g. LA STANZA D’INNOCENZO III Due altri frammenti staccati raffiguranti velaria sono conservati nei depositi dei Musei Vaticani (MV, due frammenti sullo stesso supporto in masonite, un solo numero d’inventario: 42362, cm 77x74 e 21x31): proveniente dalla Stanza d’Innocenzo III, ricopriva la tamponatura della finestra con sedile della parete orientale [11]. Al di sotto di una bordura color ocra con motivi ovoidali rossi, il velum, percorso nel mezzo da una tripla fascia nera – quella centrale è più spessa – cade in fitte pieghe a V, in alcune delle quali è un giglio stilizzato e gruppi di tre cerchietti.
Note critiche
Eccezion fatta per la decorazione della Seconda Sala dei Paramenti, scoperta nel 1925 (Biagetti 1924-1925, 492), tutti gli affreschi appena descritti vennero alla luce durante gli anni QuarantaCinquanta del secolo scorso: quelli della Sala Vecchia degli Svizzeri e della Sala dei Chiaroscuri furono rinvenuti nell’ottobre del 1940 con i lavori di ristrutturazione della Segreteria di Stato (Redig de Campos 1941-1942), mentre gli altri, nel corso dei vari interventi di restauro eseguiti tra il 1947 e il 1951 (Redig de Campos 1947-1949, 391-393). L’attribuzione dei velaria provenienti dalla cappella Niccolina [10] e dalla Stanza d’Innocenzo III [11] al pontificato di Niccolò III (Cornini-De Strobel 2001, 35; Monciatti 2005a, 105) si basa su considerazioni storico-archeologiche – furono dipinti su tamponature verosimilmente eseguite durante i lavori 350 PALAZZO APOSTOLICO VATICANO / ATLANTE I, 2
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attribuiti a questo papa (si veda l’Introduzione, p. 221). Le loro esigue dimensioni e la ripetitività che caratterizza questo tipo di decorazione durante buona parte del secolo, rendono difficile una collocazione cronologica più puntuale all’interno della seconda metà del XIII secolo. Le decorazioni della Sala della Falda [1], del Cubicolo di Niccolò V [2, 3], della Sala Vecchia degli Svizzeri [4, 6] e della Sala dei Chiaroscuri [7, 8], invece, pescano in un repertorio che ha la sua prima espressione compiuta sotto Niccolò III e in particolare al Sancta Sanctorum (¤ 60). L’inclinazione fortemente antiquaria e antichizzante, così palese negli affreschi della cappella lateranense, qui sembra ulteriormente arricchita: il vocabolario dei fregi è ancora più complesso e maturo. Come si propone anche nell’Introduzione alle schede del Palazzo Vaticano (p. 221), non sembra dunque impossibile pensare che l’esecuzione dei fregi possa essere un po’ più tarda rispetto all’anno della morte di Niccolò III, cui invece l’opinione corrente riferisce l’impresa, sia architettonica che decorativa (Redig de Campos 1941-1942; Id. 1947-1949, 388-393; Id. 1951-1952, 400-403; Id. 1967, 30; Gardner 1973a, 36; Id. 1973b, 288-291; Belting 1977, 217, nota 107; Volbach 1979, 27-33; Carta 1983; D’Onofrio 1983, 556; Steinke 1984, 54-61; Carta 1989; Tomei 1990, 133-134; Id. 1991, 341; Paravicini Bagliani 1998, 78-79; Monciatti 2000g; Id. 2003; Id. 2004; Id. 2005a, 159-182; Tommaselli 2008). Ci pare, infatti, che i motivi prospettici, così come quelli naturalistici, possano ben fare da ponte fra le esperienze del Sancta Sanctorum (¤ 60) e quelle assisiati torritiane: con i fregi che nella navata di Assisi inquadrano le Storie dell’Antico e del Nuovo Testamento e che ricoprono le nervature delle volte, quelli vaticani condividono la verosimiglianza e la varietà dei motivi – animali e vegetali – che li compongono (Carta 1983; Tomei 1989, 134;
Cornini-De Strobel 1996, 30; Monciatti 2005a, 174, 179-180). Gli archetti in prospettiva retti da mensole, così come appaiono nella Sala dei Chiaroscuri [7, 8] – con intradosso cassettonato e ovoli a decorarli – possono essere avvicinati a quelli che nella navata della basilica assisiate incorniciano le scene dei registri più alti; altri esempi affini, ma ormai già appartenenti all’ultimo decennio del Duecento, sono gli archetti in prospettiva nel coro della chiesa di Santa Maria Maggiore a Tivoli e del transetto della basilica di Santa Maria Maggiore a Roma: qui, inoltre, ancora una volta, la raffinatezza dei motivi fitomorfi si avvicina a quella delle pitture del Palazzo Vaticano. Eppure, quel che colpisce della decorazione della Sala dei Chiaroscuri, è la dimensione che assumeva l’impianto a finta architettura: la successione di nicchie alternate a edicole così com’è stata ricostruita da Monciatti (2005a, 307-312) – in maniera plausibile considerata la riconoscibilità dei frammenti ancora visibili – doveva, infatti, occupare buona parte dell’altezza delle pareti, dando vita a un’imponente scenografia classicheggiante che, a quest’epoca, e sulla base del materiale oggi a nostra disposizione, non ha confronti. Fortemente antichizzante, d’altronde, è pure l’apparato ornamentale della Sala Vecchia degli Svizzeri [4, 6], la cui ricchezza di flora e fauna, così come il tema del festone ‘abitato’, rimanda a prototipi tardoantichi e paleocristiani, come i partiti decorativi che spesso caratterizzano la pittura catacombale, o i già citati mosaici delle volte del mausoleo di Costanza (ibid., 170-171). Sul significato simbolico che potrebbe aver avuto il motivo del grifo [2, 3], di origine bizantino-orientale e strettamente connesso all’araldica, si vedano le osservazioni nell’Introduzione (p. 221222); anche per questa figura immaginaria forte è il debito nei confronti dell’arte antica, come dimostra l’affinità recentemente segnalata da Wollesen con un frammento scultoreo proveniente da Campo Marzio (Wollesen 2007-2008, 36). Se il fregio della Sala dei Paramenti [9] presenta una struttura ‘chiusa’ e paratatticamente ordinata ancora legata a modelli della metà del secolo, la tipologia delle inflorescenze e delle foglie rosa – dai petali appuntiti le prime, lunghe e con il profilo spezzettato le seconde – si registra per la prima volta in pitture della fine degli anni Settanta, come, ancora una volta, al Sancta Sanctorum (¤ 60); d’altra parte, anche l’utilizzo del motivo a ovoli quale elemento architettonico illusivo non sembra convenire a una datazione troppo precoce, confermando l’appartenenza di questa decorazione allo stesso giro d’anni in cui furono eseguite anche le altre. Quanto al pagamento datato 7 settembre 1285 in favore di «Jacobo pictori pro picturis quas fecit in palatio» (ASV, Camera apostolica, introitus et exitus I, f. 54r) che buona parte della critica lega agli affreschi appena discussi (Carta 1989; Tomei 1990, 133-134; Monciatti 2005a, 178, 313-316), la genericità dell’informazione impone prudenza, poiché la notizia potrebbe riguardare qualsiasi tipo d’intervento. A convincere gli studiosi è stata ovviamente la presenza del nome Jacobus che ha fatto pensare a Jacopo Torriti, pittore molto vicino alla corte pontificia e presente ad Assisi. L’identificazione ci sembra poggiare su prove davvero troppo esili, ma resta vero che nei dipinti del Palazzo Vaticano si possono chiaramente cogliere i segnali di un gusto che troverà la sua massima espressione nelle opere dell’artista e di cui il mosaico absidale di Santa Maria Maggiore è l’esempio più maturo.
di sopra del soffitto cinquentesco della Sala Vecchia degli Svizzeri e della Sala dei Chiaroscuri (Città del Vaticano, MV, ALRP, Sala Vecchia degli Svizzeri: prot. 2704; Sala dei Chiaroscuri: prot. 1957; Redig de Campos 1941-1942; Id. 1958, 321; Monciatti 2005a, 290-291). 1947-1951: durante gli interventi di conservazione che in questo periodo interessano la cappella Niccolina si scoprono le strutture duecentesche della Torre d’Innocenzo III e la decorazione di alcuni suoi ambienti (Città del Vaticano, MV, ALRP, prot. 3347; Redig de Campos 1947-49, 388-390; Id. 1951-1952, 403-404; Id. 1955, 32-33; Id. 1958, 323; Monciatti 2005a, 291-292): nella Stanza d’Innocenzo III i velaria sulla tamponatura dei vani-vedetta del muro orientale vengono staccati e collocati nei depositi dei Musei Vaticani (MV, inv. 42362). Nella parte bassa della parete settentrionale della stessa cappella Niccolina viene alla luce un ornato a velaria che è staccato e collocato nei depositi dei Musei Vaticani (MV, inv. 42361). Settembre 1947-marzo1949: nel corso delle indagini nell’ala est del palazzo si rinvengono le decorazioni della Stanza della Falda (Città del Vaticano, MV, ALRP, prot. 2803) e del Cubicolo di Niccolò V (Redig de Campos 1947-49, 391-393; Id. 1958, 322; Monciatti 2005a, 291, 293-294). 1968: stacco dei frammenti della Sala della Falda e del Cubicolo di Niccolò V (Città del Vaticano, MV, ALRP, prot. 95/69). 1972-1975: restauro degli stessi diretto da Antonino Aloisi (per i primi: Città del Vaticano, MV, ALRP, prot. 713/77; per i secondi: Città del Vaticano, MV, ALRP, prot. 714/77). Viene asportata una parte dello spessore dell’intonaco sul quale erano stati eseguiti e vengono rimosse le bende protettive del colore; i frammenti vengono puliti e incollati su nuovi supporti (Monciatti 2005a, 293).
Documentazione visiva
Fregio della Sala dei Chiaroscuri: acquerello eseguito dal
Interventi conservativi e restauri
1924: in occasione della rimozione del pavimento della Sala dei Chiaroscuri si scopre la decorazione duecentesca della sottostante Seconda Sala dei Paramenti, conservata al di sopra del soffitto ligneo di Gregorio XIII (Biagetti 1924-1925, 492; Id. 1926-1927, 245, fig. 6). 9 ottobre-23 novembre 1940: durante i lavori di risistemazione della Segreteria di Stato, si rinvengono i resti della decorazione al
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PALAZZO APOSTOLICO VATICANO / ATLANTE I, 2 351
63. LA NATIVITÀ E L’INCORONAZIONE DELLA VERGINE NELLA SACRESTIA DELL’ABBAZIA DELLE TRE FONTANE Nono decennio del XIII secolo
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restauratore Enrico Gessi in occasione del rinvenimento nel 1940, allegato al prot. 1957 (MV, ALRP) [8]. Fregio della Seconda Sala dei Paramenti: acquerello del restauratore Giuseppe Fammilume eseguito in occasione del ritrovamento [9]; MV, ALRP prot. 2803/55); Biagetti 1926-27, 245, fig. 6.
Bibliografia
Biagetti 1924-25, 492; Redig de Campos 1941-1942; Redig de Campos 1947-1949, 391-393; Redig de Campos 1951-1952, 403404; Strong 1948, 58; Redig de Campos 1958; Redig de Campos
352 PALAZZO APOSTOLICO VATICANO / ATLANTE I, 2
1967, 30; Gardner 1973a, 36; Gardner 1973b, 288-291; Westfall 1974, 134-135; Belting 1977, 217, nota 107; Volbach 1979, 29; Wollesen 1981, 42; D’Onofrio 1983, 555-556; Carta 1983; Steinke 1984, 54-61; Marques 1987, 182; Carta 1989; Tomei 1990, 133134; Tomei 1991a, 341; Mancinelli 1992b, 35; Rebold Benton 1993, 137-142; Romano 1995b, 48; Radke 1996, 95; Paravicini Bagliani 1998, 78-79; Monciatti 1998-1999; Monciatti 2000; Monciatti 2001-2002; Gigliozzi 2003, 76; Monciatti 2003a; Monciatti 2005a, 159-182, 289-316; Leardi, in Atlante I (¤ 2); Tommaselli 2008; Brancone 2010, 36. Irene Quadri
Gli affreschi con la Natività [1] e l’Incoronazione della Vergine [2] ricoprono rispettivamente la lunetta ovest ed est dell’attuale sacrestia dell’abbazia delle Tre Fontane. Le due scene, incorniciate da una doppia fascia color ocra, divisa nel mezzo da una filettatura bianca – quella più esterna è decorata da un motivo a onde – si stagliano sul fondo rosso delle lunette, a loro volta comprese entro una cornice a fasce rossa, ocra, verde e bianca. Negli spazi di risulta laterali trovano posto volute di acanto fiorite che si dipartono da un cespo centrale; in quelli superiori due colombe affrontate stanno da una parte e dall’altra di un globo blu [3]. Nella Natività, la grotta – un antro roccioso che accoglie i personaggi – occupa gran parte della scena: al centro, la Vergine, con veste blu e manto rosso, è distesa su un giaciglio bianco; guarda san Giuseppe seduto alla sua destra, verso il quale tende una mano. Quest’ultimo, la veste rossa a rialzi bianchi, si tiene la testa, rivolta verso la Vergine [6]. Il Bambino, avvolto in fasce, sta in una piccola culla di legno a sinistra della Vergine, dietro la quale spuntano il bue e l’asino. Al di fuori della grotta, sulla destra, un pastore – di schiena e con veste color ocra – alza la mano in direzione dell’angelo [5] che, sopra di lui, tiene un cartiglio ormai senza iscrizioni e lo benedice. Lo sfondo è oggi verde, verosimilmente azzurro degradato. Nell’Incoronazione della Vergine, Maria a sinistra e il Cristo a destra, sono seduti su un trono quadrangolare a tarsie
cosmatesche. La Vergine, la testa leggermente inclinata in avanti per ricevere la corona, le mani sollevate e aperte in un gesto di accoglimento, porta una tunica e un manto – che oggi ha quasi completamente perso il colore – blu. Il Cristo, lo sguardo rivolto verso lo spettatore, con la mano destra pone la corona sulla testa della Vergine, con la sinistra regge un libro, anch’esso ormai privo d’iscrizioni. Indossa una tunica che in origine era forse rossa, come dimostrano i pochi frammenti di colore ancora visibili; il manto è blu, come lo sfondo. Gli affreschi, eseguiti con una tecnica mista, a fresco e a secco, versano in condizioni critiche: quando non sono vaste porzioni della superficie pittorica a essere cadute, lasciando affiorare così il disegno preparatorio, è lo strato dei ritocchi a secco a essere andato perso.
Note critiche
Gli affreschi decorano la sacrestia che, forse nel XIX secolo, fu divisa in due tramite l’inserzione di un piano supplementare, rimosso durante gli interventi di restauro eseguiti tra il 1992 e il 1994 (Barclay Lloyd 2006, 157-158); situata a nord-est del capocroce della chiesa, questa grande sala coperta da una volta a crociera costolonata rimpiazzava, secondo alcuni studi, quella primitiva, risalente alla fase d’insediamento dei monaci cistercensi ABBAZIA DELLE TRE FONTANE / ATLANTE I, 12 353
nell’abbazia sull’antica via Laurentina (Romanini 1982, 673, 681; Pistilli 1992, 174-175). Pistilli pensa all’abbaziato di Iacobus (12301244), interpretando l’iscrizione FEC(ERUNT) FIERI H(OC) OPUS ET I ET L che si trova sull’architrave della porta d’entrata come un’allusione all’iniziale del nome dell’abate. L’ipotesi è forse troppo categorica: se davvero si fosse trattato dell’abate, questo sarebbe stato molto probabilmente esplicitamente menzionato come tale. Più possibilista, ma alla fine anche più indeterminata nelle conclusioni, è la Barclay Lloyd (1997, 330, 336; Ead. 2006, 157-159) che interpreta l’iniziale L come quella dell’abate Leonardo (1306-1329), ma pensa poi anche a Martino (1283-1306) e ad un eventuale nesso con la donazione Aldobrandeschi del 1284 che avrebbe fornito il finanziamento per la costruzione della fabbrica (Barclay Lloyd 2006, 166-167). La cronologia della Lloyd è in conclusione genericamente fissata al XIII secolo o all’inizio del XIV. Anche la funzione dell’ambiente è peraltro messa in causa dalla Lloyd, che ritiene possibile si sia trattato non di una sacrestia, ma della cappella privata dell’abate (ibid., 158-159). Anche di questa proposta tuttavia ci sono scarsi margini di dimostrazione. Gli affreschi della sacrestia sono stati collegati all’altro grande esempio romano d’Incoronazione della Vergine e al suo autore: Jacopo Torriti e il mosaico absidale di Santa Maria Maggiore (Bertelli 1969, 34-36; Id. 1972b, 11; Bellosi 1983, 130; Id. 1985, 111-112). Questo legame, tuttavia, è soprattutto iconografico – nei due casi analoga è la posizione dei personaggi e i gesti rispettivi – e non coinvolge l’attribuzione diretta al Torriti e nemmeno la cerchia dei suoi stretti collaboratori (Bertelli 1972b, 11; Menichella 1983, 478-479; Gandolfo 1988, 339; Tomei 1990, 138; Mihályi 1991, 158). Stilisticamente, infatti, gli affreschi dell’abbazia cistercense trovano i loro migliori confronti con opere precedenti, databili tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, e nelle quali il
riferimento al Torriti non è cogente. I girali d’acanto dei dipinti della sacrestia delle Tre Fontane [4], per esempio, sono diversi da quelli, carnosi e avvolti stretti, che nel mosaico absidale di Santa Maria Maggiore sono pure associati all’Incoronazione della Vergine; si avvicinano piuttosto a quelli degli affreschi del Sancta Sanctorum (¤ 60). Anche i girali d’acanto che decoravano il frontone meridionale del dormitorio dell’abbazia – l’affresco è stato strappato ed è ora conservato, insieme a quello orientale che gli faceva pendant e che presenta volatili di diverse specie, nella sala adibita a museo – appaiono più raffinati e prossimi a quelli che ornano la controfacciata della basilica liberiana, dunque relativi a una fase più tarda, collocabile, come gli altri episodi pittorici che decorano o decoravano questa parte orientale dell’edificio, il ciclo dell’Enciclopedia e il Calendario, all’ultimo decennio del XIII secolo o all’inizio di quello successivo (Bertelli 1969; Id. 1970b, 53-57; Mihályi 1991). Dal ciclo della cappella alla Scala Santa, d’altronde, i pittori della sacrestia delle Tre Fontane riprendono l’impianto generale della composizione, così come l’intero sistema ornamentale (Wollesen 1981, 61-64, 67-72; Menichella 1983): le scene incorniciate e ‘appese’ come pinakes, il già menzionato acanto, le colombe affrontate [3] e il fondo rosso, ovvero alcuni di quegli elementi di chiara intonazione antica (Belting 1977, 164165, 221; Wollesen 1981, 61-64; Romano 1995b, 51) che, a partire dal pontificato di Niccolò III, caratterizzano la pittura romana degli ultimi due decenni. Pertinenti, poi, sono i confronti proposti dal Wollesen (1981, 72) tra la Vergine dell’Incoronazione [2] e le donne dolenti nella Crocifissione di Pietro al Sancta Sanctorum, oppure tra la Vergine della Natività [1] e l’angelo che corona il Martirio di san Lorenzo nell’oratorio lateranense (¤ 60). Altri, invece, sono i termini di paragone per la figura di san Giuseppe della Natività [6],
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che delle due lunette è la meglio conservata, ma anche quella qualitativamente più alta: i riscontri più convincenti sono con gli affreschi della prima fase del cantiere nella navata della basilica superiore di Assisi, a capo della quale era Jacopo Torriti; e a Roma, con il san Saba e il san Nicola che affiancano san Gregorio Magno nella “quarta navata” di San Saba (¤ 66). Anche alcune soluzioni prospettiche – nella Natività, il raccourci con il quale è rappresentato l’angelo e la posizione, di schiena, del pastore [5] – rimandano alla pittura del nono decennio inoltrato, ancora una volta, ad esempio, alla Costruzione dell’Arca ad Assisi. Questi espedienti appaiono in contraddizione con soluzioni francamente più semplicistiche, quasi ingenue, come il trono squadrato dell’Incoronazione, la grotta della Natività – una sorta di guscio roccioso – o la disproporzione tra le figure di Giuseppe e di Maria: emerge, così, il carattere composito di queste pitture, nelle quali elementi nuovi convivono con elementi arcaicizzanti. Le tangenze iconografiche tra l’Incoronazione della Vergine delle Tre Fontane e quella del mosaico absidale di Santa Maria Maggiore non implicano, come si è detto, un legame diretto, anche perché i due programmi si differenziano profondamente, essendo estremamente più complesso quello di Santa Maria Maggiore (Tomei 1990, 141). Invece, il già proposto confronto (ibid., 141) tra l’Incoronazione della Vergine della lamina in argento conservata nel Tesoro del duomo di Veroli – anch’essa una committenza cistercense – dimostra come gli eventuali modelli per l’affresco della sacrestia debbano essere cercati altrove. L’Incoronazione della Vergine delle Tre Fontane ben testimonia la fortuna che i soggetti mariani incontrano a quest’epoca, per effetto, anche, della diffusione della teologia mariana che caratterizza gli ordini mendicanti, specialmente i Francescani, come attesta il caso di Santa Maria Maggiore. Questa scelta, però, trova piena giustificazione nell’appartenenza cistercense dell’abbazia, legandosi alla devozione mariana che da sempre caratterizza l’Ordine; il programma della sacrestia dell’abbazia
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romana, che accosta la Natività all’Incoronazione della Vergine, ben si accorda con gli elementi di fondo del pensiero bernardino: è il concetto, tanto caro all’abate di Clairvaux, del doppio ruolo di Maria che, in quanto Regina-Madre, è mediatrice tra il genere umano e suo Figlio («Virgo regia ipsa est via per quam Salvator advenit, procedens ex ipsius utero, tamquam sponsus de thalamo suo. [...] Per te accessum habeamus ad Filium, o benedicta inventrix gratiae, genitrix vitae, mater salutis, ut per te suscitiate nos qui per te datus est nobis»: Sermo in Adventu Domini, II, 5) a essere qui celebrato (Leclercq 1985, 79-92). La ragion d’essere delle pitture delle Tre Fontane, quindi, appare fortemente connessa alla storia dell’Ordine. È il caso, tuttavia, di sottolineare la precocità, nell’orizzonte cistercense, della raffigurazione dell’Incoronazione della Vergine dell’abbazia delle Tre Fontane: se, infatti, in ambito cistercense non mancano raffigurazioni duecentesche di Maria in trono, come mostra l’episodio, cronologicamente prossimo alle pitture delle Tre Fontane, delle vetrate del chiostro dell’abbazia di Wettingen (1270-1280) nelle quali Maria in trono è rappresentata prima sola e poi con il Bambino e il monaco committente dell’opera, il tema dell’Incoronazione sembra diffondersi più tardi: gli unici altri esempi conosciuti – un’Incoronazione decora i refettori dei monastero di Seligenthal (Germania) e Bijloke (Belgio) – appartengono ormai al XIV secolo (Mihályi 1991, 157, 181, nota 27). Per quanto concerne, invece, la Natività, l’attitudine della Vergine che si rivolge a Giuseppe e non al Bambino è l’erede di una lunga tradizione locale di XII e primo XIII secolo – il ciclo della Grotta della Santissima Trinità sul Monte Autore o gli sportelli della Madonna lignea della collegiata di Alatri (Gandolfo 1988, 339) – e si discosta quindi dalla serie di esempi romani degli anni Novanta, come la Natività nel mosaico absidale di Torriti a Santa Maria Maggiore e quella del Cavallini nell’emiciclo absidale di Santa Maria in Trastevere, in cui Maria è rivolta verso il Figlio. Quanto appena detto situa gli affreschi della sacrestia all’interno ABBAZIA DELLE TRE FONTANE / ATLANTE I, 12 355
della pittura romana subito prima e subito dopo la partecipazione all’impresa pittorica della navata di Assisi, dunque al limite dell’arco cronologico di questo volume. La datazione ad annum non è possibile, ma lo stile dei dipinti, di qualità non altissima e – come si è detto – comunque distante da quello degli affreschi del dormitorio e del ciclo enciclopedico, appare ancora fortemente legato al clima artistico degli anni Ottanta e al cantiere del Sancta Sanctorum. Fu probabilmente l’abate Martino (1283-1306) il responsabile dell’impresa: forse verso l’inizio del suo lungo governo dell’abbazia, che esordì l’anno stesso dell’elezione con la realizzazione del reliquiario destinato ad accogliere i resti di sant’Anastasio, che reca la data 1283 (Bertelli 1970a, 15).
Interventi conservativi e restauri
1970: campagna di restauro condotta dalla Soprintendenza alle Gallerie e alle Opere d’Arte Medioevali e Moderne per il Lazio sotto la guida di Carlo Bertelli, durante la quale si rimuovono le imbibizioni di olio cotto che intaccano la superficie e, tramite iniezioni, si fissa l’intonaco che tende a sbriciolarsi (Bertelli 1972b).
Bibliografia
Bertelli 1969; Bertelli 1972b; Ruotolo 1972, 84-85; Belting 1977, 164-165, 215-221; Bertelli 1978, 80; Wollesen 1981, 42, 61-64, 67-77; Bellosi 1983, 130; Menichella 1983; Bellosi 1985, 111-112; Gandolfo 1988, 337-339; Mulazzani 1988, 56, 60; Tomei 1990, 138-142; Mihályi 1991; Romano 1992, 83-85; Quattrone 1995, 4851; Romano 1995, 51; Tempesta 1995, 187-189; Radke 1996, 95; Barclay Lloyd 1997, 334-336; Bellosi 1998, 75; Monciatti 2005a, 173; Barclay Lloyd 2006, 28, 233; Pogliani, in Atlante I (¤12); Wollesen 2007-2008, 35-36. Irene Quadri
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64. IL CICLO PITTORICO NELLA CAPPELLA DI SANTA BARBARA AI SANTI QUATTRO CORONATI Nono decennio del XIII secolo
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I dipinti oggetto di questa scheda sono conservati sulla parte alta e lunettata delle pareti, e sulla volta. Sono estremamente rovinati, interessati da vastissime lacune e danneggiati nella pellicola pittorica di cui resta oggi solo la parte presumibilmente realizzata a fresco, mentre i dettagli fisionomici, i ritocchi, le sfumature, probabilmente aggiunti a secco, sono oggi perduti. Sulla volta [1], le quattro vele, incorniciate da fasce bianche e rosse, ospitano ognuna un simbolo di un evangelista con il Libro inscritto. Sono tutti molto lacunosi; due di essi sono identificabili con Matteo e Giovanni sulla base dell’incipit del loro Vangelo, ancora leggibile sul libro (Iscr.). Sui costoloni [6], eleganti racemi vegetali simili a candelabre su fondo rosso porfido ‘puntano’ verso la chiave di volta, ma a breve distanza dal centro sono interrotti da quattro scudi araldici [7], il cui simbolo è malauguratamente illeggibile. Sui quattro lunettoni, due dei quali con una finestra centrale, si svolge un ciclo agiografico, il cui inizio va verosimilmente individuato sulla parete orientale, dunque a sinistra dell’ingresso originario dalla chiesa e della nicchia che conserva i resti di pittura altomedievale, e al di sopra di quella dove oggi appare l’affresco con la Vergine, il Bambino e un santo, più tardo rispetto al ciclo. In questa parete [2], la metà a sinistra della finestra è praticamente distrutta, mentre nella metà destra si vede un’alta figura femminile coronata (Barbara era una fanciulla nobile, ma 358 SANTI QUATTRO CORONATI
non una principessa) in atto di parlare, o di dirigere i lavori di alcuni uomini indaffarati attorno a una torre: è l’episodio in cui Barbara fa aggiungere una terza finestra alle due della torre che il padre fa edificare per tenerla prigioniera, al fine di ottenerne un numero trinitario. I due piccoli personaggi sulla destra sono contadini, uno dei quali lavora con una vanga, l’altro ha sulla testa una specie di vaso. La narrazione continua presumibilmente sulla parete di fronte [3], l’occidentale, dove è sopravvissuta la metà lunetta a sinistra della finestra: si può riconoscere Dioscuro, il padre di Barbara, a cavallo, in atto di voltarsi verso i pastori; vari animali sono riuniti ai piedi del cavallo. Nell’altra metà della lunetta c’era probabilmente l’episodio in cui un pastore tradisce Barbara che è fuggita via dal padre e si nasconde in una grotta. Sulla parete meridionale [4] – dove si apre la nicchia con pitture altomedievali – è sopravvissuta solo la parte sinistra e un brano della destra: un personaggio assiso in trono, dietro il quale si tiene una seconda figura, leva il braccio come per rispondere all’appello che gli rivolge un nobiluomo inginocchiato davanti a lui, che fa un gesto con la mano come per intercedere o chiedere qualcosa. Dietro il gruppo si vede la rossa torre, che appare anche, unico brano sopravvissuto, nella metà destra della lunetta. L’episodio è presumibilmente quello in cui Dioscuro si lamenta con il prefetto Marciano della figlia, e Marciano che ne ordina la tortura.
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Nell’ultima lunetta, la settentrionale, priva di finestra in quanto confinante con la navata della chiesa, la superficie è divisa a metà da un’ampia fascia chiara bordata di rosso: nella parete destra è la Fustigazione di Barbara [5], con una veste bianca abbassata fino alla vita, legata ad un palo, e due aguzzini che la fustigano con lunghe verghe, mentre della parte sinistra resta solo un piccolo brano di architettura, forse l’altra tortura con i ferri roventi. La base d’imposta della volta è sottolineata da un’ampia fascia decorativa dipinta a imitazione dei mosaici cosmateschi; piccoli resti dicono che anche tutta la parte della parete sottostante al registro delle finestre doveva essere dipinta.
Iscrizioni
1 - Simbolo di san Matteo. Iscrizione esegetica, nel libro sorretto dall’angelo, allineata su quattro righe orizzontali segnate sopra e sotto le lettere, nella pagina destra, secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere nere su fondo bianco. Lacunosa della pagina sinstra. Scrittura maiuscola gotica. Fonte: Mt 1, 1.
[Liber generationis Jesu Christi] // filii Da/vid filii Íaçra/aò 2 - Simbolo di san Giovanni. Iscrizione esegetica, nel libro sorretto dall’aquila, allineata su tre righe orizzontali segnate sopra e sotto le lettere, nelle due pagine, secondo un andamento rettilineo regolare. Lettere nere su fondo bianco. Lacunosa delle prime righe di testo nelle due pagine ed evanida per la caduta del pigmento pittorico. Scrittura maiuscola gotica. Fonte: Gv 1, 1.
[In principio] êræt Ûe÷çu(m) / et [Ver]çú(m) // [erat apud] Dê[um] / [e]ù Éê[us] / êræt (S. Ric.) 360 SANTI QUATTRO CORONATI
Note critiche
La cappella è oggi accessibile dal chiostro del convento, ma era un tempo una delle due cappelle laterali della basilica leonina, analoga al sacello di San Zenone a Santa Prassede. Ha pianta quadrata, volta a crociera su peducci e grandi mensole probabilmente di spoglio, e tre absidi o nicchie, dunque una sorta di tricora. È stata oggetto di almeno tre fasi decorative: nella nicchia di fronte all’ingresso originario rimangono infatti brani di pittura altomedievale, e nell’abside sinistra c’è invece una Madonna col Bambino e un santo (Boskovits 1973, 12), che appaiono più tardi dei dipinti oggetto di questa scheda, almeno della fine del secolo. Il giudizio sul ciclo della cappella di Santa Barbara è reso estremamente arduo dal catastrofico stato di conservazione: tutti, o quasi, gli elementi su cui in genere ci si basa sono danneggiati al limite dell’illeggibilità. La datazione che abbiamo qui assegnato ai dipinti origina in primo luogo da un dato, che è stato anche l’unico rilevato nella magra storia degli studi su queste pitture: la derivazione dell’impianto compositivo del ciclo con quello del Sancta Sanctorum (¤ 60), in particolare per i simboli degli evangelisti sulla volta (Muñoz 1914, 36; Barelli 2009a, 64-66), ma anche, aggiungiamo, per gli apparati ornamentali di imitazione cosmatesca; la distribuzione delle storie nelle superfici lunettate, e ai lati delle finestre, è un altro elemento di affinità, ovviamente portato dalla simile struttura architettonica delle due cappelle. Nessuno invece nota mai la presenza degli stemmi [7], invece molto interessante pur se non si riesca a comprendere di quale famiglia siano le armi. La cappella era probabilmente già in origine predisposta ad essere usata come sacello familiare, o latamente ‘privata’, come nel caso del sacello di San Zenone, all’incirca contemporaneo alla sua fondazione; impossibile capire se sia stata usata da una famiglia nobile ad esempio con funzioni funerarie, e se ci sia qualche relazione onomastica con la scelta del tema iconografico. Questo è tuttavia quasi sicuramente legato all’antica
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dedicazione della cappella: Leone IV (847-855) offrì doni ai tre sacelli della basilica, dedicati a Sisto, Nicola e Barbara. Va in ogni caso sottolineato il fatto che questo ciclo, per danneggiato che sia, costituisce la più antica testimonianza iconografica in ambito monumentale della storia di santa Barbara, finora attestata in Centro Italia solo in opere già quattrocentesche; la redazione di alcune scene riflette probabilmente la contaminazione o il prestito iconografico da altri racconti, ad esempio sant’Agnese per quel che attiene la scena della Fustigazione [5] (si veda la scena nel Sancta Sanctorum ¤ 60). Il pittore, o i pittori, per quel che se ne vede, non erano grandissimi artisti, ma abili narratori, espressivi talvolta come nel brano in cui Dioscuro si gira a guardare i pastori, lo sguardo acuto e un po’ maligno [8]: qui anche il disegno – venuto in vista per la caduta della pellicola pittorica – sembra piuttosto disinvolto, il manto svolazza al vento, e il busto si volge in modo naturale. La gigantesca figura della santa vicino alla torre [2] sembra invece alquanto più goffa, non solo per le proporzioni ma anche per la forma un po’ sghemba del viso. Forse il brano pittoricamente più intrigante è la scena della Fustigazione [5], in cui gli aguzzini hanno movimenti compatibili con i repertori delle botteghe romane del nono decennio del secolo, specialmente quelle torritiane attive
nella navata di Assisi alla Costruzione dell’Arca, e a Roma nella Natività alla sacrestia delle Tre Fontane (¤ 63); ma la sagoma antichizzante, da vera e propria statua antica stereometrica nella forma e candida come marmo, della santa fustigata, è ancora una volta ben comprensibile nella tradizione del Sancta Sanctorum, specialmente del Martirio di sant’Agnese. La bottega sembra aver attinto a fonti disparate, sia quelle più nobili e attestate nei grandi contesti monumentali cittadini, che altre, chissà se di illustrazione di libri o di altro tipo di cultura figurativa. Varie scene di questo ciclo non hanno paralleli o precedenti nella tradizione iconografica regionale, anche per la rarità del tema che è in realtà un unicum fra il conservato patrimonio pittorico romano.
Bibliografia
Muñoz 1914, 36-37; van Marle 1923, 436; Di Cerdena 1950, 16, 73-77; Apollonj Ghetti 1964, 68; Buchowiecki 1974, 698; Caraffa 1979, 42-43; Carletti 1979, 24-25; Barberini 1989, 49-53; Barelli 1998, 114; Barelli 2006, 37-38; La fontana del chiostro 2006, 64; Barelli 2009, 64-66. Serena Romano e Irene Quadri
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65. LA MADONNA ADVOCATA DI SAN LORENZO IN DAMASO 1280-1290
L’icona della Madonna della chiesa di San Lorenzo in Damaso è un dipinto di modeste dimensioni (cm 82 x 56) e la Vergine vi è raffigurata secondo il tipo iconografico della Advocata, senza il Bambino e in atteggiamento di preghiera. Del fondo oro originale rimangono modeste porzioni, recuperate nel restauro del 1968 dopo l’asportazione di un altro fondo dorato attribuito ad un restauro quattrocentesco (Toesca 1969, 59, nota 4). Molto deteriorato è anche il manto della Vergine, di una fastidiosa tinta marronastra – ma forse rosso in origine (ibid., 57) – sulla quale spesse linee nere delineano l’andamento delle pieghe, che ricadono abbondanti soprattutto sulla spalla sinistra; i bordi dorati sono per la maggior parte perduti, in particolare quello che corre sotto la mano sinistra. Sul manto sono distribuite decorazioni di varia foggia: il medaglione rotondo circondato di perle posto appena sopra il petto; lamine d’oro quadrate con forme di croci sparse un po’ ovunque e la grande placca rettangolare con l’immagine di Cristo che, benché quasi illeggibile, è resa riconoscibile dal nimbo crucisignato. La veste sottostante, che oggi appare bruna come il manto ma che sappiamo di colore verde dalle osservazioni della Toesca (ibid., 57), si chiude sui polsi con un alto bordo dorato delimitato da due file di perle, praticamente perduto sul braccio sinistro. Il volto è tondo e ben scorciato, il naso è dato da un sottile tratto nero che scende dal sopracciglio destro e al quale quasi si accosta il labbro superiore, realizzato con una curva rossa piena come l’inferiore, e da questo separato da un tratto nero più largo; due piccoli tratti neri suggeriscono la sporgenza del mento e due sottili linee rosse quella della palpebra. Se gli incarnati, del volto come delle mani, risultano oggi fortemente abrasi (ibid., 57) e piuttosto appiattiti su un tono livido, la pittura è ancora vivida nei begli occhi castani, che con il tratto bianco del fondo compongono la nota più luminosa del dipinto. Abbastanza ben conservato è il diadema sulla fronte della Vergine, una semplice placca dorata delimitata e attraversata da file di perle, mentre è scarsamente leggibile la traccia che circoscrive l’aureola originale sul fondo dorato, descritta sempre dalla Toesca, che attribuisce invece al restauro quattrocentesco l’aureola punzonata oggi ben più visibile (ibid., 57). La cornice è ricavata dallo stesso legno del supporto, è larga circa cm 5 e interamente percorsa da un’iscrizione a caratteri bianchi su fondo nero, sostanzialmente integra sebbene a causa dell’asportazione del supporto ligneo sui due lati lunghi ne siano andate perse le estremità.
Iscrizioni
Iscrizione esegetica, disposta sui quattro lati della cornice, in una fascia rettangolare, allineata su due righe orizzontali e due verticali, secondo un andamento rettilineo irregolare. La lettura del testo inizia in alto a sinistra e prosegue in senso orario fino al margine inferiore destro, per riprendere in senso antiorario dall’angolo alto a sinistra fino al margine inferiore destro. Lettere bianche su fondo scuro. Mutila e con alcune lettere tagliate per la rifilatura della cornice. Scrittura capitale.
In hac ymmagine reco^ndita^e su/n/t r/el/li/q/u/i/a^e sa<n>c/t/o/ru(m) / q/u/a/d/ra/gi/n/t/a // m/a/r/ti/r/u/m/ e/t f/e/l/i/x p/a/p/a^e / e/t / s/a/n/ ctoru(m) Mæ÷èi et Mæ^÷è[ell]iani (S. Ric.) 364 SAN LORENZO IN DAMASO / ATLANTE II, 10
Note critiche
L’icona della Madonna Advocata si venera oggi sull’altare della cappella della Concezione, in fondo alla navata sinistra della chiesa di San Lorenzo in Damaso, ma non è noto l’anno esatto in cui fece ingresso nell’edificio. Nel 1494, anno in cui furono redatti gli statuti della confraternita della Santissima Concezione che deteneva il patronato sull’omonima cappella, la tavola era arrivata a San Lorenzo «a paucis annis» dalla chiesa di San Salvatore super arcum a Campo dei Fiori, e si attendeva che fosse ultimata la grandiosa cappella a lei destinata nella nuova chiesa allora in costruzione (ASVR, Statuti, ms. 62, cap. 3; Valtieri 1980-1984, 233-234; Barone 2003, 70-71, 105; Frommel 2009, 418). La prima chiesa di San Lorenzo, fondata da papa Damaso (336-384) (LP I, 212), fu infatti distrutta a partire dal 1496 per volere del cardinale titolare Raffaele Riario, che nel 1489 aveva avviato i lavori di costruzione dell’imponente Palazzo della Cancelleria. All’interno del suo palazzo Riario insediò l’attuale San Lorenzo in Damaso, un edificio di dimensioni inferiori rispetto all’originario, ad esso parallelo ma spostato verso sud, ultimato intorno al 1503 (Pupillo 1997, 38; Frommel 2009, 422). Considerando che la chiesa di Campo dei Fiori è menzionata l’ultima volta nei documenti nel 1481 (Valtieri 1980-1984, 237, nota 6), è intorno a questa data, e comunque pochi anni prima del 1494, che può essere circoscritta l’epoca del trasferimento dell’icona da San Salvatore alla basilica damasiana; essa dovette essere collocata dapprima in una cappella della chiesa antica – forse quella eretta nel 1414 e già dedicata alla Concezione di Maria e Sant’Anna o, come recentemente ipotizzato, in una nuova appositamente costruita (Frommel 2009, 418) – per poi giungere nella cappella in fondo alla navata sinistra dove si trova tutt’ora, consacrata nel 1503 (Valtieri 1980-1984, 234). Negli statuti della confraternita della Santissima Concezione del 1494 leggiamo anche che il sagrestano della cappella aveva il compito di «cum omni adhibita diligentia et honore imaginem betae Virginis colere et ornare» (ASVR, Statuti, ms. 62, cap. 14.1; Barone 2003, 113) e che ogni anno, in occasione della ricorrenza della Concezione di Maria, l’icona prendeva parte alla processione che si svolgeva intorno alla chiesa di San Lorenzo, in posizione preminente dietro i membri eccellenti della confraternita e i celebranti, e davanti alle fanciulle verso le quali si era espletata l’attività caritativa della confraternita (ASVR, Statuti, ms. 62, cap. 34.4; Barone 2003, 127-128). Una lapide posta sulla parete sinistra della cappella riporta la notizia che nel 1635 la tavola della Advocata fu protagonista di una solenne processione, organizzata in occasione della incoronazione da parte del Capitolo Vaticano; per celebrare l’avvenimento fu intrapreso inoltre il rinnovamento della cappella stessa ad opera di Pietro da Cortona, concluso nel 1638 con una nuova consacrazione e il ritorno dell’icona sull’altare (L’Immacolata Concezione 1904, 6-7; Valtieri 1980-1984, 234). La veste architettonica cortoniana della cappella è stata in parte modificata dal restauro, l’ultimo, del 1859 (Valtieri 1980-1984, 235). Nel 1799 la chiesa di San Lorenzo fu requisita dai Francesi e utilizzata come scuderia, e l’icona fu privata della corona d’oro conferitale dal Capitolo Vaticano; il 15 dicembre del 1854, pochi giorni dopo la proclamazione del dogma della Immacolata Concezione da parte di Pio IX, l’immagine che per prima fu venerata a Roma sotto quel titolo ricevette una nuova incoronazione (L’Immacolata Concezione 1904, 7; Pupillo 1997, 38). Di questa seconda corona non fa menzione la Toesca che,
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relazionando circa il restauro del 1968, dice soltanto che furono «riapplicati direttamente sulla pittura alcuni monili di scarso interesse» (1969, 59, nota 4), verosimilmente l’orecchino e l’anello che la Vergine ancora indossa. Sotto il profilo cultuale è interessante inoltre la notizia, riferita da Simonetta Valtieri, purtroppo senza indicazioni temporali, che nei giorni feriali il dipinto di San Lorenzo in Damaso era coperto da una lastra di rame che ne riproduceva le sembianze e che scendeva sull’immagine manovrando un argano (1980-1984, 234), evidentemente per sottolinearne la sacralità. L’Advocata di San Lorenzo in Damaso è nota anche con il titolo di Madonna di Grottapinta, sulla base di un’antica tradizione che la voleva originariamente collocata nella chiesa di Santa Maria in Grottapinta, un oratorio sorto in un ambiente di quello che un tempo era il Teatro di Pompeo, sempre nella zona di Campo dei Fiori (L’Immacolata Concezione 1904, 5; Toesca 1969, 60, nota 8), tradizione smentita dall’attestazione della provenienza da San Salvatore super arcum contenuta nei citati statuti del 1494. Tra le più tarde eredi dell’Advocata oggi conservata presso il monastero di Santa Maria del Rosario a Monte Mario, la Madonna di San Lorenzo in Damaso è l’unica tra le icone romane a svolgere anche la funzione di reliquiario: al centro del medaglione posto sopra il petto si trova infatti un’apertura circolare, serrata da una chiusura di legno, che racchiude le reliquie magnificate dall’iscrizione che corre lungo tutta la cornice. Pubblicando gli esiti del restauro svolto nel 1968, la Toesca riferiva che all’interno della cavità erano stati effettivamente rinvenuti modesti frammenti di ossa e di tessuti, accompagnati da tre strisce pergamenacee su ciascuna della quali erano scritti i nomi dei santi ai quali appartengono le reliquie – «XL martirü, felix pp, marci et marcelliani» – contenute a loro volta in una quarta pergamena recante la scritta: «reliquiae s marci et marcelliani s felix pp et xl martirü» (1969, 58, 61, nota 10). Le reliquie e i quattro cartigli sono stati ricollocati nella loro sede al termine dell’intervento di restauro (ibid., 61, nota 10). I caratteri dell’iscrizione della cornice e il confronto con una serie di dipinti allora collocati nella prima metà del XII secolo – quelli di Castel Sant’Elia, di Magliano Romano, dell’oratorio mariano di Santa Pudenziana (Croisier, in Corpus IV ¤ 30), della cripta di San Pietro a Tuscania e della Bibbia di Santa Cecilia (Barb. lat. 587) – indussero la Toesca ad avanzare la stessa datazione anche per la tavola di San Lorenzo in Damaso (1969, 57-58), allontanandosi dalle proposte di datazione al tardo Duecento di Hager (1962, 48), al Trecento di Hermanin (1945, 220) e Garrison (1949, 69) – accolta da Matthiae (Toesca 1969, 56) – e riavvicinandosi alle più antiche di Wilpert (1916, II, 1149) e Grassi (1941, 84). Partendo pressappoco dagli stessi presupposti della Toesca, e cioè il rilievo della plasticità delle forme della Vergine di San Lorenzo, dell’intensità del volto, e del suo rivitalizzare il modello in altri casi molto inaridito della Madonna di Santa Maria del Rosario, Gandolfo ha invece individuato per la tavola un legame con l’ambiente romano dell’ultimo quarto del Duecento, in particolare con l’ambito torritiano, del quale è indice l’azzeccato confronto con la figura della Vergine sulla volta dei Santi nella Basilica Superiore di San Francesco ad Assisi (1988, 360). Appare effettivamente diversa l’icona di San Lorenzo dalle Advocatae romane e laziali dell’XI e del XII secolo. Benché lo
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stato di conservazione in cui è pervenuta sia un limite rilevante nel riconoscimento della qualità dell’opera, non pochi dettagli ne rivelano la modernità e un distacco consapevole dal modello dal punto di vista stilistico: gli occhi piccoli e non marcati da linee scure, certamente non ‘liquidi’ come quelli dell’icona di Monte Mario ma comunque presenti, e assai più verosimili rispetto a quelli delle altre copie; le sopracciglia sottili che ben seguono l’orientamento del volto; le labbra naturali; il naso non eccessivamente allungato. La tipologia del volto della Madonna di San Lorenzo in Damaso è pertanto distante da quella delle icone dell’XI e XII secolo – pensiamo a quella dell’Aracoeli (Sgherri, in Corpus IV ¤ 15), quasi intontita nell’imitazione del modello – e meglio si colloca negli anni Ottanta del Duecento, nell’ambiente che produsse il dipinto di Assisi.
Interventi conservativi e restauri
1968: restauro eseguito da Sergio Benedetti, seguito e pubblicato da Ilaria Toesca (1969, 56-61). Fu compiuta la pulitura del dipinto – completamente ridipinto era il manto, tanto che nell’incisione del 1635 realizzata per celebrare l’incoronazione da parte del Capitolo Vaticano non compaiono le decorazioni dorate oggi invece visibili – il consolidamento del colore e la reintegrazione delle lacune più invasive; fu inoltre asportato un fondo oro non originale e ispezionato il contenuto dell’apertura circolare posta all’interno del medaglione sopra il petto della Vergine, consistente in frammenti di ossa e stricioline di pergamena (ibid., 59, nota 4, 61, nota 10). La Toesca attribuisce l’applicazione sul dipinto di un nuovo fondo oro – asportato nell’intervento del 1968 – a un restauro quattrocentesco (ibid., 59, nota 4), datazione che probabilmente deriva dalla relazione con l’arrivo dell’icona a San Lorenzo in Damaso; menziona inoltre una non ulteriormente collocata «precedente pulitura» (ibid., 57).
Documentazione visiva
Incisione del 1635 riprodotta in L’Immacolata Concezione 1904, 6.
Fonti e descrizioni
ASVR, Statuti, ms. 62, capp. 3, 14.1, 34.3, 34.4; Panciroli 1625, 779, 788; Torrigio 1643b, 251; Martinelli 1653, 136-137, 214; Bovio 1729, 129-130, 166; Fonseca 1745, 198; Bombelli 1792, III, 5.
Bibliografia
Rohault de Fleury 1878, II, 28; Armellini 1891, 377; Pecorari 1900, 28-29; L’Immacolata Concezione 1904, 5-7, 9; Wilpert 1916, II, 1149; Grassi 1941, 85-87; Hermanin 1945, 220; Garrison 1949, 69; Hager 1962, 48; Maroni Lumbroso-Martini 1963, 90-91; Toesca 1969, 56-61; Valtieri 1980-1984, 233-238; Valtieri 1984, 63-68; Fiorani 1985, 268-269; Gandolfo 1988, 360-362; Pupillo 1997, 42; Barone 2003, 70-71, 79, 105, 113, 127-128; Frommel 2009, 417-418. Daniela Sgherri
66. LA DECORAZIONE PITTORICA DELLA “QUARTA NAVATA” DI SAN SABA Anni Ottanta del XIII secolo
L’ambiente che nella basilica di San Saba si apre lungo il fianco della navata laterale sinistra – la cosiddetta “quarta navata” – custodisce ampi brani pittorici. Sulla parete di fondo della prima campata è affrescata una Vergine col Bambino in trono [1, 4], affiancata a sinistra da san Saba [5] e a destra da un santo di cui non resta ormai che la parte inferiore del viso e una porzione del busto [1]. Maria indossa un manto blu bordato d’oro e il Bambino una veste rossa. San Saba – una tunica color ruggine e la cocolla blu – nella mano destra tiene un libro e il pastorale. Anche il secondo santo, vestito con un abito chiaro e un manto rosa, regge un libro. Sulla parete laterale della prima campata sono rappresentati un santo papa al centro, un santo monaco a sinistra e un santo vescovo a destra, sotto una sorta di porticato su colonnine tortili e con soffitto cassettonato [3]. Del pontefice, identificabile con san Gregorio per la colomba vicino all’orecchio, sopravvive solo la parte superiore del corpo: porta una tunica rossa sulla quale spicca il pallium a croci nere e la tiara papale. Il santo monaco, barba e capelli bianchi, indossa un abito scuro: tiene un libro nella mano destra, mentre con l’altra mano accenna verso san Gregorio; il vescovo – un libro tra le mani – ha veste riccamente ornata, manto rosso e pallium. Nella seconda campata è l’Elemosina di san Nicola [2]: in primo piano, al centro della scena, le tre fanciulle, distese sullo stesso giaciglio, e al loro fianco, il padre, dormono [6]: le fanciulle sono nude e con il petto scoperto; il padre indossa un abito verde e un manto rosso. Dietro di loro s’innalza la casa, una costruzione monolitica con una piccola edicola sul fianco: san Nicola, nella mano la borsa coi soldi, si affaccia alla loggetta della facciata e guarda i quattro personaggi addormentati sotto di lui. Le pareti sono incorniciate da motivi di finta architettura, non sempre ben conservata: due possenti colonne tortili terminanti con un capitello corinzio reggono un’arcatura a mensoloni in prospettiva. Lo zoccolo è coperto da una decorazione a velaria, ormai completamente scomparsa sotto la Vergine con il Bambino in trono; nella scena con San Gregorio Magno tra due santi il velum, bianco, è percorso nel mezzo da decorazioni nere, in quella con il Miracolo di san Nicola, invece, il velum è a righe rosse, bianche, blu e gialle e l’estremità superiore presenta una bordura bianca con motivi a triangoli e ovuli neri. Anche gli intradossi degli archi che dividono rispettivamente le campate della “quarta navata” e quest’ultima dalla navatella sinistra sono dipinti: sui primi è un doppio racemo verde intrecciato che si staglia su una fascia gialla compresa tra un nastro blu e rosso, di cui non resta ormai che qualche frammento sbiadito [3]; i secondi, invece, sono percorsi da una fascia scura racchiusa da una doppia cornice rossa e gialla divisa nel mezzo da una filettatura bianca, sulla quale appare uno stelo con inflorescenze gigliacee rosa e azzurre [7] o rosse [8].
Note critiche
Gli affreschi furono eseguiti sui muri di riempimento coi quali si occlusero gli archi di un portico che si addossava al fianco sinistro della basilica, annesso a quest’ultima tramite l’apertura di quattro arcate nella parete terminale della navata laterale sinistra. Quando ciò sia avvenuto è difficile stabilire dal momento che, mancando qualsiasi indizio documentario sulla storia dell’edificio, anche la cronologia della costruzione della basilica – che secondo l’ipotesi più accreditata (CBCR 1976, IV, 67) si colloca tra il 1145, anno in cui il monastero passò nelle mani dei cluniacensi e il 1206,
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data che appare nell’iscrizione del portale cosmatesco – resta ipotetica. Con i restauri d’inizio Novecento, poi, si demolirono le tamponature con le quali, forse durante la seconda metà del XVII secolo, quando si modificò radicalmente l’interno dell’edificio, si murarono gli archi di raccordo tra la navata laterale sinistra e la “quarta navata” – alla quale si continuava ad accedere attraverso due aperture – riportando così alla luce gli apparati ornamentali dei sottarchi (La Bella 2003, 89-93, 98). Se le questioni inerenti allo stile degli affreschi di San Saba sono state a varie riprese discusse dalla critica, molto trascurata risulta la questione iconografica. Al di là dell’ovvia individuazione del santo monaco nella Vergine e il Bambino in trono con san Saba [1, 5], i tentativi di identificazione dei tre santi della prima campata [3] sono pochi e si concentrano unicamente sulla figura centrale, da qualcuno ritenuta san Nicola (Tomei 1990, 134; La Bella 2003, 150). Ma la tiara papale e la presenza della colomba dello Spirito Santo permettono di riconoscere facilmente Gregorio Magno, come solo il Testini (1961, 60) aveva dubitativamente suggerito. A Gregorio il monastero sull’Aventino è legato fin dalle SAN SABA 367
origini: secondo quanto tramandato dalla tradizione, confluita successivamente nelle biografie, ad esempio quella di Giovanni Diacono (PL LXXV, 66), la madre, santa Silvia, abitava nella località che poi accolse il monastero di San Saba, inizialmente chiamato Cella Nova (Ferrari 1957, 284-285; Testini 1961, 5-6; La Bella 2003, 25-29). Le vicissitudini relative alla prima comunità monastica di Cella Nova, così come l’eventuale ruolo di Silvia nella costituzione di quest’ultima, restano oscuri (Ferrari 1957, 283290): una piccola comunità nestorianita è attestata a partire dal pontificato di Martino I (649-653) ed è solo durante l’VIII secolo che monaci sabaiti presero possesso del cenobio sull’Aventino (La Bella 2003, 29-33). Nelle pitture in questione, san Nicola è da riconoscere se mai nel santo vescovo rappresentato alla sinistra di san Gregorio, mentre il monaco orientale alla sua destra è probabilmente ancora san Saba. La figura oggi solo parzialmente visibile che fa da pendant a san Saba a fianco della Vergine [1] è molto probabilmente sant’Andrea, il cui nome, durante il Medioevo, appariva insieme a quello del santo cappadoce nell’intitolazione della chiesa sull’Aventino (Testini 1961; La Bella 2003, 73-74). A differenza degli altri personaggi, la presenza di san Nicola, al quale, con la raffigurazione dell’Elemosina alle tre fanciulle [2] – dove, però, appare giovane e imberbe – viene dato ampio spazio, non sembra trovare una giustificazione alla luce della storia del luogo: ciò che lega il vescovo di Myra a quest’ultimo è la sua appartenenza al mondo orientale. Quando non è stato attribuito allo stesso Torriti (Boskovits 1971, 37, nota 11; Id. 1981, 9, nota 42; Id. 1997, 8, nota 14, 14, nota 26; Bellosi 1983, 130; Id. 1985, 111-112; Marques 1987, 186; Bellosi 1998, 84) il ciclo di San Saba è stato assegnato a un pittore – ormai convenzionalmente chiamato Maestro di San Saba secondo l’appellativo coniato dal Garrison (Garrison 1949, 29, 63) – strettamente connesso all’ambito torritiano (Hueck 1969-
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1970, 139-144; Wollesen 1981, 56; Gandolfo 1988, 337-338; La Bella 2003, 150-155) e identificabile, per alcuni, con l’autore dell’icona di Santa Maria del Popolo (Toesca 1927 [1965], 981; Matthiae 1966a [1988], 209; Garrison 1949, 29, 63; Testini 1961, 60; Bologna 1969, 110, nota 57; Tomei 1990, 135). Ma il ciclo della “quarta navata” è il prodotto di più personalità artistiche e se, come vedremo, molto forte è il rapporto tra la Vergine di San Saba [1, 4] e quella dell’icona di Santa Maria del Popolo, altri brani se ne discostano vistosamente. I due pannelli della parete sinistra [2, 3] meritano l’aggettivo ‘torritiano’ in un’accezione più ampia: come nel caso della sacrestia delle Tre Fontane (¤ 63), piuttosto che evidenziare un rapporto univoco con le opere dell’artista, esso definisce l’appartenenza a una cultura artistica che è quella multiforme e sfaccettata che prende avvio con il pontificato dell’Orsini e nella quale il Torriti si è formato. Ben lo dimostra il già evidenziato rapporto (Romano 1995b, 82) con i dipinti del Sancta Sanctorum (¤ 60), coi quali il ciclo della “quarta navata” ha più punti in comune, come prova il confronto tra il san Saba che nella basilica aventinense affianca la Madonna col Bambino [5] e il san Pietro dell’Offerta di Niccolò III nella cappella lateranense, oppure la vicinanza di alcuni dettagli dell’Elemosina di san Nicola [2] che lasciano intendere che il pittore che partecipò al cantiere della “quarta navata” potrebbe aver fatto parte della bottega che lavorò nell’oratorio lateranense (Wollesen 1981, 54; Romano 1995b, 82). Anche qui, come a San Saba, è riscontrabile una divergenza tra il tipo fisionomico del san Nicola dell’Elemosina, giovane e imberbe, e quello raffigurato in busto dei mosaici, più anziano e con barba e baffi, probabilmente imputabile alla diversa tipologia dell’immagine – scena narrativa, rappresentazione iconica – e quindi all’utilizzo di modelli di tradizione indipendente. Anche il trono su cui siede la Vergine, semicircolare e in marmo [4], appare per la prima volta nel ciclo
del santuario alla Scala Santa: fortemente debitore nei confronti di modelli tardo antichi (Romano 2001-2002, 57), questo tipo di seggio è usato già nella Vergine e il Bambino in trono a Santa Balbina (¤ 68); successivamente si diffonde a Roma e anche fuori Roma, come nel caso della vetrata duccesca al duomo di Siena (Boskovits 2007, 573; per gli altri casi di fine secolo, Romano 1992, 49-50, 61-65). Già orientati, invece, verso soluzioni stilistiche più mature sono la Vergine e il Bambino [4] e san Saba e san Nicola raffigurati con Gregorio Magno [3]: rispetto alle figure di cui si è detto sopra, questi sono trattati con maggior finezza – il chiaroscuro, condotto più sottilmente, conferisce all’incarnato un colorito più unificato – avvicinandosi effettivamente a opere quali l’icona di Santa Maria del Popolo. Se, come abbiamo visto, gli affreschi di San Saba sembrano essere collocabili dopo quelli del Sancta Sanctorum, le loro rilevate caratteristiche di svolgimento verso l’icona di Santa Maria del Popolo orientano verso una datazione agli anni Ottanta. La fascia di mensoloni prospettici su finte colonne, piuttosto mal eseguita, è un elemento che è sempre stato messo in relazione ai finti mensoloni di Cimabue nel transetto e coro di Assisi; ora sappiamo che ne esiste un’altra redazione, molto preziosa e forse meglio eseguita di questa di San Saba, nel sottotetto di Sant’Agnese (¤ 49). Il programma di San Saba dev’essere letto alla luce della cultura a cui appartiene: la sua intonazione orientale, infatti, si spiega solo in parte grazie alla forte componente greco-orientale dell’identità del monastero, come indirettamente dimostra la presenza di san Nicola che, almeno per quel che ne sappiamo e come abbiamo già detto, non è direttamente connesso alla storia del luogo; fu forse il prodotto di una devozione locale o privata – il committente e l’occasione del ciclo restano ignoti – ma assume maggior SAN SABA 371
significato in un’epoca in cui intensissimi erano i rapporti con l’Oriente e il mondo bizantino.
Documentazione visiva
Jean Baptiste Séroux d’Agincourt, disegno (1780-1790), BAV, Vat. lat. 9849, f. 72v.
Bibliografia
Grisar 1907, 46; van Marle 1923, 427; Toesca 1927 [1965], 1012, nota 38; Garrison 1949, 29, 63; Testini 1961, 60; Matthiae
67. LA VERGINE COL BAMBINO E SANTI IN SAN GREGORIO NAZIANZENO
1966a [1988], 209; Bologna 1969, 90, 110, nota 57; Hueck 19691970, 139-144; Bertelli 1970b, 57-58; Boskovits 1971, 37, nota 1; Boskovits 1981, 9, nota 42; Wollesen 1981, 54-56; Bellosi 1983, 130; Wollesen 1983, 348; Bellosi 1985, 111-112; Marques 1987, 186; Gandolfo 1988, 337-338; Tomei 1990, 134-136; Rebold Benton 1993, 129-130; Romano 1995b, 68, 82; Radke 1996, 95; Boskovits 1997, 8, nota 14, 14, nota 26; Bellosi 1998, 84; La Bella 2003, 150-155; Monciatti 2005a, 173; Boskovits 2007, 573; Wollesen 2007-2008, 29-32.
Nono decennio del XIII secolo
Irene Quadri
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Nel terzo sottarco della parete sinistra dell’oratorio di San Gregorio Nazianzeno, in una lunetta a sfondo blu orlata da una cornice a bande verde, bianca e rossa, è una Vergine col Bambino in trono tra santi [1], oggi solo parzialmente visibile a causa del grande arco longitudinale di epoca barocca (Corpus Cosmatorum III, 221) che, estendendosi lungo tutto il muro, taglia completamente la parte sinistra della composizione. La Vergine, seduta su un trono in marmo e concavo, indossa una veste blu e un maphorion rosso che le copre la testa; il Bambino – una tunica rossa – è abbracciato alla Madre e appoggia il viso contro il suo [2]. Le aureole sono in pastiglia dorata e raggiata. Il santo alla loro sinistra, tonsurato e con barba e capelli grigi, porta una pianeta vistosamente decorata; la mano destra regge un libro, la sinistra è appoggiata sul petto [3]. Del santo che gli faceva pendant non resta che la parte terminale di un’aureola e di una tiara. Nell’intradosso un racemo terminante con grandi fiori a petali rossi e verdi e con un bottone giallo al centro si staglia su un fondo bianco compreso entro una doppia fascia verde e rossa [1].
Note critiche
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372 SAN SABA
Le pitture di San Gregorio Nazianzeno fanno parte di un gruppo di dipinti murali con la Vergine e il Bambino in trono (¤ 66, ¤ 68), per alcune delle quali è stata spesso messa in evidenza la matrice torritiana. In particolare, la Madonna col Bambino di San Gregorio
[2] – che a differenza di tutti gli altri esempi mette in scena il tipo iconografico della Panaghia Glikophilousa, la Vergine affettuosa – è stata avvicinata a quella della quarta navata di San Saba (¤ 66) (Boccardi Storoni 1987, 131; Gandolfo 1988, 349; Possanzini 1997, 29). Il rapporto tra le due è innegabile e coinvolge sia gli elementi inerenti alla composizione – identica è la maniera di rendere il trono sovrastato da una sorta di calotta rossa, visibile, peraltro, anche a Santa Balbina (¤ 68) – sia la complessiva resa fisionomica delle due Vergini; nella Madonna dell’oratorio in Campo Marzio, gli occhi globulosi e fissi, l’impostazione è più rigida e meno espressiva. Anche il santo che affianca la Vergine [3] – forse san Quirino, le cui reliquie, secondo la leggenda, furono trasferite insieme a quelle del santo patrono e che si suppone sia il santo raffigurato nell’abside in maniera simile, tonsurato e con la pianeta (Dos Santos, in Corpus IV ¤ 22) – non è lontano da quelli del ciclo della quarta navata: il confronto con il san Saba che negli affreschi della basilica aventinense sta a fianco di Gregorio Magno, mette in evidenza, tuttavia, lo stile più secco e schematico della figura in questione e una più marcata tendenza a ridurre a formalismi i segni che marcano il volto. Il miglior confronto per il Bambino [2] sembra invece quello con la figura della Madonna col Bambino in trono nella Rotonda ai Santi Cosma e Damiano, databile ormai all’ultimo decennio del secolo (Tomei 1989c; Id. 1990, 134-136). Quanto all’altro santo, dai resti superstiti si potrebbe supporre trattarsi del titolare dell’oratorio, Gregorio Nazianzeno. SAN GREGORIO NAZIANZENO / ATLANTE II, 6 373
68. LA VERGINE CON IL BAMBINO NELLA TERZA CAPPELLA DELLA PARETE SINISTRA DI SANTA BALBINA Nono decennio del XIII secolo
Il palinsesto pittorico della nicchia (¤ 21), fu oggetto, verso la fine del secolo, di un ulteriore aggiornamento pittorico che interessò in particolare il brano della Vergine con il Bambino in trono e che fu realizzato con modalità quasi chirurgiche, per l’abilità nel camuffare i margini dell’intonaco soprammesso. In questo finale strato pittorico, la Vergine indossa un manto blu orlato di rosso e sotto il maphorion emerge la cuffia, anch’essa rossa; il capo è incorniciato da un’aureola a pastiglia raggiata. Il Bambino ha il volto rivolto verso destra, l’aureola crucisignata e indossa una veste celeste con il manto rosso, con la mano destra benedice, mentre la sinistra s’intreccia a quella della madre. La coppia siede su un trono con il dossale marmoreo semicircolare decorato a intarsi cosmateschi, chiuso in alto da una semicupola a fondo rosso con stelle bianche, e il seggio ligneo gemmato. Appartiene a questo strato anche la cornice semicircolare a tre bande (rossa, bianca con dentelli rossi e verde) che segue in alto il profilo della semicupola del trono e s’innesta sui due tratti orizzontali superiori della cornice dello strato sottostante.
Note critiche
L’aggiornamento dell’immagine della Vergine e del Bambino è stato rilevato da Marques (1987, 99) e Romano (1992, 65). Il pittore che lo realizza mostra di conoscere la Madonna con il Bambino dipinta nella “quarta navata” della vicina San Saba (¤ 66), della quale ricalca l’iconografia, inserendo la variante del piccolo Gesù rivolto verso destra, e condivide la cultura artistica. Rispetto a San Saba, l’esecuzione della Vergine di Santa Balbina tradisce però un ductus più duro, che disegna gli occhi lunghi e stretti della Vergine e usa una tavolozza dai colori più freddi che crea un incarnato meno modulato nei trapassi tonali.
Interventi conservativi e restauri
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Se all’origine di questo gruppo di Madonne non è inimmaginabile presumere l’esistenza di un modello comune – magari ascrivibile allo stesso Torriti – e oggi perduto (Tomei 1990, 137), resta comunque difficile stabilire in che grado di relazione queste eventuali repliche stiano le une alle altre. La vicinanza con quella di San Saba colloca il dipinto di Campo Marzio all’estremo limite del periodo considerato in questo volume. L’affresco con la Vergine e il Bambino andava ad aggiungersi all’adornamento pittorico della chiesa, di cui facevano parte la tavola del Giudizio Universale (Romano-Dos Santos, in Corpus IV ¤ 3) e le pitture con la leggenda dell’icona Tempuli (Dos Santos, in Corpus IV ¤ 23), con le quali condividevano l’intonazione femminile e mariana, ma non le implicite mitologie
374 SAN GREGORIO NAZIANZENO / ATLANTE II, 6
locali, dense di valenze politico-ecclesiastiche (Romano, in Corpus IV, 17-19).
Interventi conservativi e restauri
1945-1949: campagna di restauri diretta da Ottorino Montenovesi. 1974-1987: campagna di restauri diretta da Franco Borsi.
Bibliografia
Montenovesi 1950, 226-227; Montenovesi 1958, 43; Bosi 1961, 73-74; Lotti 1966, 39; Buchowiecki 1970, 194; Boccardi Storoni 1987, 126-13; Gandolfo 1988, 349; Possanzini 1997, 29. Irene Quadri
1571: scialbatura a calce dei dipinti murali medievali e chiusura delle nicchie per volere del capitolo di San Pietro, a cui la basilica di Santa Balbina era stata affidata dal pontefice Pio IV (1559-1565) (Buchowiecki 1967, 426). 1927: riapertura delle nicchie laterali della basilica e scoperta dei dipinti medievali sotto lo spesso strato di scialbo del 1571, durante i lavori di restauro dell’edificio condotti da Antonio Muñoz tra il 1927 e il 1930 (Bellanca 2003, 122-124). 1970: campagna di restauro della Soprintendenza per i beni architettonici e ambientali di Roma all’interno e all’esterno della chiesa, a cura di Ermete Crisanti. Gli intonaci medievali sono stati fissati con un cospicuo numero di grappe, le lacune stuccate a gesso e a malta e reintegrate con pesanti ridipinture a tratteggio (Albini et al. 1991-1992, 13-14). 1991-1992: indagini diagnostiche sullo stato di conservazione dei dipinti murali condotte dagli allievi del XLIII Corso di restauro, Settore conservazione dei dipinti e dei beni architettonici, anno accademico 1991/1992 dell’ISCR (Albini et al. 1991-1992, 159225, tavv. 9.1-9.3). 1996: intervento di pulitura, consolidamento e restauro dei dipinti
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murali realizzati dalla Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici di Roma, a cura della Delphica restauri, sotto la direzione di Andreina Draghi. L’intervento ha comportato la rimozione delle stuccature, delle grappe e delle ridipinture del 1970 e la scoperta di alcune parti di decorazione dipinta ancora nascoste dallo scialbo del 1571 (Archivio Delphica restauri). 2000 ca.: intervento conservativo della Soprintendenza per i beni artistici e storici di Roma, che ha messo a nudo il paramento murario in laterizio (Flaminio 2002, 485).
Bibliografia
Muñoz 1931, 37-38; Lotti 1972, 38; Marques 1987, 99; Romano 1992, 67; Faenza 2006, 58-59. Giulia Bordi
CAPPELLA DI SANTA BALBINA 375
69. L’AFFRESCO CON LA CROCIFISSIONE DAL CONVENTO DI SAN SILVESTRO IN CAPITE Post 1285
L’affresco è oggi staccato ed esposto nell’ambiente a destra dell’ingresso nella chiesa. È un grande frammento (cm 205 x 100) di una Crocifissione [1] che doveva avere dimensioni molto maggiori e mostrare i personaggi a figura intera. Sul fondo azzurro si staglia il braccio orizzontale della croce di colore ocra rossastro; il Cristo [4] ha gli occhi chiusi e l’espressione calma, ed ha un perizoma bianco. Alla sua destra la Vergine con espressione dolorosa e manto bruno, e accanto a lei un’altra Maria [2] ammantata di rosso intenso, nel classico gesto della mano coperta dal manto e portata alla guancia in atto di dolore. Dall’altro lato del Cristo, san Giovanni Evangelista [3], anch’egli con volto aggrottato dal dolore e mano alla guancia, con veste bianca e manto rosso geranio; tutte le figure hanno aureola a pastiglia raggiata e dorata, quella del Cristo con croce inscritta. Più lontano a destra si vede ancora la mano levata di quella che doveva essere la figura del centurione, mentre al bordo della lacuna, vicino alle gambe del Cristo, si vede il resto di un’aureola, apparentemente non raggiata e non dorata, che doveva appartenere ad una figura ai piedi della croce, verosimilmente la Maddalena.
Note critiche
Il frammento affrescato fu menzionato da Gaynor e Toesca (1963, 114) che attestano una provenienza “dall’antico convento”. Il convento di San Silvestro in Capite venne parzialmente espropriato alle suore benedettine nel 1871, e definitivamente nel 1876; radicali lavori lo trasformarono nell’edificio attuale della Posta, finito nel 1879 (Guide rionali. Colonna III 1983). Il ritrovamento della Crocifissione e di altri dipinti murali trecenteschi ancora oggi conservati nel medesimo locale della chiesa (Flagellazione e Madonna del Latte) risale appunto al 1876, come attestano i documenti ritrovati nel corso delle ricerche per questo volume all’Archivio Centrale di Stato (Int. cons.). Si tratta del carteggio tra Giandomenico Malvezzi, ingegner capo del Genio Civile, e il Ministero dei Lavori Pubblici cui facevano capo i lavori per la trasformazione dell’edificio conventuale. L’8 marzo 1876 Malvezzi avverte il Ministero che «nel coro superiore dell’ex Monastero... esistono alcuni affreschi i quali appartenendo ad un’epoca assai infelice per l’arte, mi sembrano di nessun merito» ma «per evitare postume recriminazioni» prima di deciderne la distruzione chiede la visita della commissione delle Antichità e Belle Arti. Nei mesi successivi ci sono visite, non della commissione, ma di Cavalcaselle – che non riconosce ai dipinti qualità tali da giustificarne la conservazione – e di “parecchi intelligenti” tra cui il pittore Cesare Mariani, che invece raccomanda stacco e conservazione. Nell’incertezza, il Ministro, «per deferenza alla opinione pubblica che intorno a quelli si è manifestata... e per ovviare a qual si voglia pretesto di censura», decide per lo stacco, che viene eseguito nell’ottobre 1878; subito dopo i tre affreschi vengono dati in deposito a don Pompeo Acquisti, rettore della chiesa di San Silvestro, stabilendo che vengano conservati «nel sito più prossimo a quello dal quale furono levati ossia la parete di fronte del braccio a sinistra della crociera». Il verbale di consegna infine precisa che la Crocifissione, di cui vengono fornite le misure, si trovava in origine «sotto la finestra circolare dello stesso coro sulla parete di via del Gambero», dunque sulla parete sinistra dell’ambiente (Int. cons.). Il convento di San Silvestro era una venerabile e secolare istituzione, già esistente nel 761 e provvisto di una «ecclesiae mirae pulchritudinis»; ad esso apparteneva la Colonna Antonina (Ferrari 376 SAN SILVESTRO IN CAPITE
1957, 302-12). Dapprima comunità di monaci greci, dovette trasformarsi in latina e benedettina, probabilmente a seguito della Riforma gregoriana come nel caso di molti altri monasteri romani; all’inizio degli anni Ottanta del Duecento si trovò tuttavia a contare solo due monaci e l’abate Gerardo (Federici 1900, 415-416). Nel 1285 ebbe quindi gioco facile la famiglia Colonna, peraltro radicatissima in zona, a ottenere dal papa Onorio IV l’assegnazione del convento alla comunità femminile damianita, guidata dalla badessa Erminia e stretta attorno alla memoria – e al progetto di canonizzazione – di Margherita Colonna, sorella del senatore Giovanni e del cardinale Giacomo, morta il 30 dicembre 1280 dopo una vita di laica penitenza, e con i voti di povertà e castità (Oliger 1922, 1935; Barone 1983; i documenti in Federici 1900, 416-417). Non sappiamo se l’arrivo delle Clarisse abbia comportato lavori di adattamento degli ambienti conventuali già usati dai monaci benedettini, come non fu in altri casi di immediata riutilizzazione di monasteri benedettini da parte delle Clarisse: i documenti ottocenteschi fanno intravedere l’esistenza di uno spazio, definito «coro superiore» dietro l’abside, che richiama alla memoria casi come quello di San Pietro in Vineis ad Anagni, in cui – questa volta al di sopra della navata destra – uno spazio che guardava verso la navata per via di finestrine venne riservato alle monache, e affrescato alla fine del sesto decennio del Duecento (Romano 1997; Boehm 1999). La Crocifissione fu molto verosimilmente segno precoce dell’installarsi delle Clarisse al convento e del loro marcare i luoghi della vita comunitaria con nuove immagini; pur mutilo e rovinato, l’affresco è opera degna della centralità e della storia del monastero. Il volto del Cristo è morbido e sereno, la sua anatomia notevolmente naturalistica, appeso il corpo pesante in modo del tutto contraddittorio con le arcature manieristiche giuntesche o cimabuesche, e invece analogo alle descrizioni anatomiche francesi e gotiche, cui si rifà anche il dettaglio finissimo dell’inizio dell’anca visibile dal perizoma leggermente scivolato. Il volto della Vergine e dell’altra Pia Donna sono increspati dal dolore, le sopracciglia sono aggrottate, e quasi infantilmente attristata e patetica è l’espressione del paffuto san Giovanni, il cui manto rosso ha un panneggio gonfio e l’invenzione del risvolto sul braccio sinistro che mette in vista la veste candida; il manto della Vergine è bruno (e molto integrato da rigatino) mentre quello dell’altra dolente è rosso e vivacissimo. Tutti gli incarnati hanno una forte preparazione verde che traspare oggi per la perdita della superficie pittorica. Soltanto menzionato dalla Toesca e da Pietrangeli, fornito ora di più precise informazioni sull’ubicazione originaria, il dipinto movimenta il panorama della pittura romana dell’ultimo quarto del secolo, mostrando in quale modo elementi di diversa origine potessero fondersi nell’attività di un maestro e di una bottega non altrove nota finora. Il circuito francescano cui la comunità delle Damianite apparteneva, e verosimilmente anche i nessi internazionali e di altissimo livello garantiti dalla famiglia Colonna, possono dar ragione del forte goticismo della sagoma del Cristo: novità precoci, che arrivavano presumibilmente tramite miniature, oreficerie, avori, o ancora sigilli, ipotesi legittima se si pensa a quanti oggetti di questo tipo circolavano negli ambienti francescani e curiali (Gardner 1969; ld. c.s. [a]), e quanti potevano essere di proprietà dei Colonna, élite cardinalizia e senatoriale di primissimo piano. Il timbro dominante del dipinto è quello patetico, che è tentante spiegare con la destinazione ad una comunità di donne, e di Clarisse. Il ritmo paratattico e riposato
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della composizione, e lo schema soggiacente all’invenzione delle figure femminili sono arcaicizzanti: così come ancora memore del giuntismo addolcito e riformato di, ad esempio, Simeone e Machilone nel Crocifisso Bastianelli oggi al Museo di Palazzo Venezia (1257) appare il volto del Cristo, che tuttavia ha perso i manierismi giunteschi e si pone tra questi e l’era imminente di Jacopo Torriti. L’affresco appartiene ad un’epoca in cui Cimabue era già ben noto, anche a Roma dopo il passaggio del 1272; ma anche più morbide e sottili di quelle cimabuesche sono le fisionomie purtroppo danneggiate delle due Dolenti, e diversa l’intenzione cromatica che le contrassegna. Il bacino della cultura pittorica fra Roma e l’Umbria, in particolare quello percorso dalla committenza francescana e curiale, sembra appropriato per spiegare l’apparizione di questo straordinario documento pittorico, che rimane senza confronti diretti ma si avvicina, nelle procedure di ammorbidimento fisionomico e di sottolineatura patetica, ad una costellazione di episodi che vanno dagli affreschi del refettorio di Santa Giuliana a Perugia, al Maestro di Montefalco (Boskovits 1973b; Todini 1989; per la datazione dei dipinti di Santa Giuliana, monastero femminile delle Clarisse, ai primi anni Ottanta, Romano 2005b). Le aureole raggiate sono ulteriore indizio per una datazione all’altezza dei lavori assisiati, fra transetto e navata, dunque in un momento di pochissimo
successivo all’arrivo delle Damianite nel 1285. Il rapporto solidale tra i Savelli, con Onorio IV, e i Colonna, concretatosi nella vicenda di Margherita Colonna e delle Clarisse, ebbe ulteriore visibilità nelle cappelle della chiesa quali le attesta la pianta cinquecentesca di Antonio del Tanghero (Firenze, casa Buonarroti), che allinea una cappella Savelli e una cappella Colonna, quest’ultima più grande delle altre, rettangolare e coperta di volte a crociera (Guide rionali. Colonna III 1983, 16).
Interventi conservativi
1876-1878: ritrovamento del dipinto nel corso dei lavori di adattamento dell’edificio del convento a Posta Centrale da parte del Genio Civile; stacco e deposito nella chiesa di San Silvestro (ACS, Ministero dei Lavori Pubblici, Roma Capitale, b. 33). 1961-1963: restauro (Gaynor-Toesca 1963, 53).
Bibliografia
Gaynor-Toesca 1963, 114; Guide rionali. Colonna III 1983, 26; Kane 2005, 104. Serena Romano
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APPARATI ABBREVIAZIONI BIBLIOGRAFIA INDICE DEI NOMI INDICE DEI LUOGHI INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI
ABBREVIAZIONI
BIBLIOGRAFIA
La bibliografia delle schede e delle note dei saggi è data in maniera abbreviata. Nella citazione la data dell’edizione originale può essere seguita, entro parentesi quadre, da quella dell’edizione da cui proviene la pagina citata. c.s. s.a. s.d. s.l.
in corso di stampa senza autore senza data, con l’anno deducibile tra parentesi senza luogo di edizione
MANOSCRITTI, CODICI E FONTI INEDITE AAV - ARCHIVIO DI SANT’ANDREA DELLA VALLE - Relatione della SS.ma Imagine della Madonna della Purità, collocata nella Chiesa di S. Silvestro di Monte Cavallo de PP. Teatini in Roma (1650 ca.) - Stato degli obblighi di messa della Casa di S. Silvestro
TESTI E CORPORA
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ICCD
Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma ICR Istituto Centrale per il Restauro, Roma (= ISCR) LBL British Library, London LBM British Museum, London LSA Society of Antiquaries, London LWAL Westminster Abbey Library, London MAV Museo Archeologico, Venezia MB Museo Barracco, Roma MCN Calcografía Nacional, Madrid MPB Museo di Palazzo Braschi, Roma MPM Museo Pushkin, Moscow MV Musei Vaticani MV-ALRP Musei Vaticani, Archivio Laboratorio Restauro Pitture MV-CARM Musei Vaticani, Collezione di Arte Religiosa e moderna ÖNB Österreichische Nationalbibliothek, Wien PCAS Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, Città del Vaticano PIAC Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, Città del Vaticano PML Pierpont Morgan Library, New York SBAESoprintendenza per i Beni Storici Artistici Lazio ed Etnoantropologici del Lazio SAPFR Soprintendenza alle Antichità Palatino e Foro Romano SBAAL Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Lazio SBAAS Soprintendenza per i Beni Storici e Artistici Roma di Roma (¤ PSAE) SBAP Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici di Roma SBBa Staatsbibliothek, Bamberg SSPSAE Soprintendenza Speciale per il Patrimonio e PM - Roma Artistico ed Etnoantropologico e del Polo Museale della città di Roma SWL Wüttenbergische Landesbibliothek, Stuttgart URHC Rijkmuseum Het. Catharijneconvent, Utrecht WAL Westminster Abbey Library, London WEC Windsor, Eton College WRL Windsor, Royal Library
Acta Sanctorum Bibliotheca Hagiographica Latina Corpus Basilicarum Christianarum Romae Dizionario Biografico degli Italiani Inscriptiones Christianae Urbis Romae Inscriptiones Christianae Urbis Romae, Nuova serie IMAI Inscriptiones Medii Aevi Italiae LIMC Lexicon Iconographicum Mytologiae Classicae LOML Lettere Originali del Medioevo Latino LP Liber Pontificalis (Duchesne 1886; Duchesne 1892) MGH Monumenta Germaniae Historica MGH SRG MGH. Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum MGH SS MGH. Scriptores PG Patrologiae, series Greca PL Patrologiae, series Latina RIS Rerum Italicarum scriptores: raccolta degli storici italiani dal Cinquecento al Millecinquecento AASS BHL CBCR DBI ICUR ICUR-NS
ACMM - ARCHIVIO CAPITOLARE DI SANTA MARIA MAGGIORE - Cod. C. III Giuseppe Bianchini, Historiae Basilicae Liberianae S. Mariae Maioris (1754) ACS - ARCHIVIO CENTRALE DELLO STATO - Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, I vers. 1860-1890, b. 575. - Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, II vers., 2° serie (1891-1897), b. 418. - Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, III vers., II parte (1898-1907), b. 728 (Relazione Calderini) - Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, I Divisione, 1908-1924, b. 122. - Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, I Divisione, 1909-1924, b. 1476 - Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, II Divisione, 1940-1945, b. 143 ACSP - ARCHIVIO CAPITOLARE DI SAN PIETRO - Album, A. 64 ter (1635 ca.) - G.5. Tiberio Alfarano, De aliquibus antiquitatibus Basil. S. Petri, ex scripturis, antiquis traditionibus, etc. (entro il 1579) - H.2. Giacomo Grimaldi, Catalogus Sac. Reliquiarum in Basilica... - H.3. Giacomo Grimaldi, Opusculum de Sacrosancto Veronicae Sudario, Ac Lancea, qua Salvatoris Nostri Iesu Christi Latus patuit in Vaticana Basilica maxima ueneratione asseruatis (1618) - H.3.bis Giacomo Grimaldi, Opusculum de Sacrosancto Veronicae... (1630) - Madonne coronate, XXVII Raffaele Sindone, Elenco istorico, e cronologico delle miracolose Imagini di Maria Vergine coronate con Corone d’oro (1756) - Privilegi e atti notarili, 39 AFR - ARCHIVIO DI SAN FRANCESCO A RIPA - ms. 99 Ludovico da Modena (1637-1722), Cronaca della Riforma e fondazione dei Conventi dal 1519 al 1722 AMANL - A RCHIVIO DEI M ARMORARI PRESSO L ’A CCADEMIA NAZIONALE DI SAN LUCA - Libri del Camerlengo, Registro 112 (1597) - Conti di artisti, b. 12 - Conto de lavori fatti ad uso di pittura da Christofano Cagniardi à tutte sue spese e fattura nell’Oratorio SS. Quattro Coronati... (1727) - Libro della sagra Visita in tempo di Mons. Benedetto Passionei (1793) - Corrispondenze e memorie, b. 15 (1892) APP - ARCHIVIO DEI PADRI PASSIONISTI - Fondo Antico, b. Basilica, n. 3, Cartella Appunti Fr. Lamberto Budde APRCM - A RCHIVIO DELLA P ROVINCIA R OMANA DELLA CONGREGAZIONE DELLA MISSIONE - Memorie della chiesa di S. Silvestro a Montecavallo. Cappella terza, Madonna della Catena ASR - ARCHIVIO DI STATO DI ROMA - Chierici Regolari Minori, vol. 1556, Memorie della casa di S. Lorenzo in Lucina di Roma (1639-1651) - Fondo Giustiniani, Notai del tribunale AC, uff. 8, vol. 1302 (Rainaldo Buratti), Inventario redatto alla morte di Benedetto Giustiniani (1621) - Fondo Giustiniani, b. 16, Inventario redatto alla morte di Vincenzo Giustiniani (1638)
384 ABBREVIAZIONI
- Fondo Giustiniani, b. 15 (Volume 10A, parte IV), 92-94, Inventario di tutta la robba della Cappella della bona memoria del Signor Cardinale Giustiniani (1649) ASV - ARCHIVIO SEGRETO VATICANO - Arm. VII, 111, Visita apostolica (1624) - Arm. VII, 112, Visita apostolica (1629) - Reg. Vat. 9, epist. 319 e 864 - Reg. Vat. 21 ASVR - ARCHIVIO STORICO DEL VICARIATO DI ROMA - ms. 62 Statuti AW - ALBERTINA. GRAPHISCHE SAMMLUNG, WIEN - Ital. Architekturzeichnungen, Rom, Mappen XXII-XXV, nn. 600 e 601 BAM - BIBLIOTECA AMBROSIANA DI MILANO - A. 168 inf. Giacomo Grimaldi, Catalogus sacrarum reliquiarum almae basilicae Vaticanae (1621) - A. 178 inf. Raccolta senza titolo (1617) - F. 221 inf. 1-4 Raccolta senza titolo con copie dei disegni del Vat. lat. 5407 (XVII secolo) - F. 227 inf. - I. 87 inf. Catalogus sacrarum reliquiarum almae Vaticanae basilicae (1621) BANLC - BIBLIOTECA DELL’ACCADEMIA NAZIONALE E CORSINIANA - Cod. 39. D. 4 (Cors. 276)
DEI
LINCEI
BAR - BIBLIOTECA ANGELICA, ROMA - C. 2. 11 (fine sec. XVI) - C. 77 Panvinio, De gente Fragepania libri quatuor (sec. XVIII) BAV - BIBLIOTECA APOSTOLICA VATICANA - Barb. lat. 2481 Onofrio Panvinio, De gente Fragepania libri quatuor (1556) - Barb. lat. 2732 Giacomo Grimaldi, Instrumenta autentica translationum sanctorum corporum et sacrarum Reliquiarum e veteri in novam Principis Apostolorum Basilicam, atque immissionis lapidis Benedeicti a Smo Dno. N. Paulo quinto Pont. Maximo in fundamentum Porticus et frontis ejusdem Basilicae (1612-1620) - Barb. lat. 2733 Giacomo Grimaldi, Instrumenta autentica translationum Sanctorum corporum et Sacrarum Reliquiarum E veteri in novum Templum Sancti Petri, cum multis memorijs, Epitaphijs, Inscriptionibus, Delineatione partis Basilicae demolitae, Iconicis Historijs Sacrae Confessionis Ab eodem Summo Pontifice magnificentissime exornata, anno domini MDCXVIIII - Barb. lat. 4333 Copia di alcuni mosaici, pitture antiche, bassi rilievi, statue, e altri monumenti antichi. Carte qua e là trovate, e raccolte in uno volume (sec. XVII) - Barb. lat. 4402 Forma della Chiesa profanata di S.to Urbano Papa primo posta nel loco detto della Caffarella, non lungi da S. Sebastiano, nella via Appia. Con pitture della vita di Christo, di Santo Urbano e di S.ta Cecilia (1630 ca.) - Barb. lat. 4403 Pitture della basilica di S. Lorenzo nel Campo Verano fedelmente copiate da Antonio Eclissi l’anno 1639 - Barb. lat. 4404 Mosaichi et pitture della Basilica di Santa Maria in Trastevere copiate fedelmente da Antonio Eclissi l’anno 1640 - Barb. lat. 4405 Codice cartaceo (sec. XVII) - Barb. lat. 4410 Altaria, sepulcra, vetera monumenta quae olim in templo vel atrio vaticano extabant, nunc in cryptis Vaticanis vel reposita vel delineata reperiuntur (sec. XVII)
- Barb. lat. 4423 Copie di pitture antiche (XVII secolo) - Barb. lat. 4426 Liber instrumentum vendictionis Vinca facta per haredes Card. de Carpo Dno Card. de Urbino (XVII secolo) - Chigi D. IV n. 54 Ufficium Beatae Mariae Virginis secundum consuetudinem romanae curiae... (1434) - Chigi L.I.18 Paris de Grassis, Ceremoniale. II. dal 18 agosto 1506 al di ultimo di ottobre 1508 (Giulio II) - Reg. lat. 2100 Miscellanea. Niccolo Cassiani (inizio sec. XVII) - Stampati, Barberini V. VX. 8 - Riserva Pompeo Ugonio, Historia delle Stationi di Roma 1588 - Vat. lat. 5407 Alfonso Ciacconio, Effigies variae Sanctorum, Pontificum, ex picturis antiquis desumptae cum suis inscriptionibus et coloribus (1590 ca.) - Vat. lat. 5408 Alfonso Ciacconio, raccolta senza titolo (1590 ca.) - Vat.lat. 6439 Giacomo Grimaldi, Opusculu’ de S.S. Veronicae Sudario, et Lancea, qua Salvatoris nri Jesu Christi latus patuit, in Vaticana Basilica maxima venerat.ne asservatis (s.d.) - Vat.lat. 6780 Onofrio Panvinio, Schedae De Ecclesiis Urbis Romae (1560) - Vat. lat. 7010 Onofrio Panvinio, De rebus antiquis memorabilibus et praestantia basilicae sancti petri apostolorum principis Vaticanae libri septem - Vat. lat. 7934 Iohannis Vincentii Capoccii, De gente capoccina Historia (1624) - Vat. lat. 8253 Gualdi, Epitaphia et insignia nobilium familiarum in eclesiis urbis. I. (s.d.) - Vat. lat. 8404 Giacomo Grimaldi, Opusculum de Sacrosancto Sudario ac Lancea, qua Salvatoris Nostri Jesu Christi latus patuit in Vaticana Basilica maxima veneratione asservatis (1628) - Vat. lat. 9023 Dissertazione sopra la fabbrica, fondazione, e ristoramenti della Basilica di S. Paolo. Del Mosaico d’Onorio III nella Basilica di S. Paolo nella via Ostiense - Vat. lat. 9135 Varia de veterum Kalendariis a Cajetano Marinio collecta (saec. XVI. XVII. XVIII). Praeter Kalendario multa viterum romanorum christianorum et medii aevi variis aetatibus excripta... chematibus, picturarum Kalendarii Constantiniani insunt... Constantini Gajetani Calendarium ecclesiasticum ex ruinodso muro monasteriis S. Mariae in monte Aventino - Vat. lat. 9172 Francesco Cancellieri, Memorie del culto di S. Lorenzo martire in Oriente e in Occidente (1821) - Vat. lat. 9841 Jean Baptiste Louis Séroux d’Agincourt, Disegni e appunti (1780-1790) per Séroux d’Agincourt 1823 - Vat. lat. 9843 Jean Baptiste Louis Séroux d’Agincourt, Disegni e appunti (1780-1790) per Séroux d’Agincourt 1823 - Vat. lat. 9849 Jean Baptiste Louis Séroux d’Agincourt, Disegni e appunti (1780-1790) per Séroux d’Agincourt 1823 - Vat. lat. 10577 Enrico Stevenson, Schedae ad picturas ecclesiarum pertinentes (sec. XIX) - Vat. lat. 11869-11895 Antonio Bruzio, Theatrum Romanae Urbis sive Romanorum sacrae aedes (1655-1675) - Vat. lat. 11905 Benedetto Mellini, Dell’antichità di Roma (ante 1667) - Vat. lat. 11988 Giacomo Grimaldi, Instrumenta autentica translationum sanctorum corporum et sacrarum reliquiarum e veteri in novum templum Sancti Petri sub Paulo V. Pont. Max., cum multis memoriis, epitaphiis, et inscriptionibus Basilicae eiusdem (1621)
BIBLIOGRAFIA 385
- Vat. lat. 13128 Santi Pesarini, Appunti, copie, estratti e schede riguardanti in massima parte le chiese di Roma (sec. XIX-XX) - Vat. lat. 13129 Santi Pesarini, Raccolta di appunti, copie di estratti di documenti relativi alle chiese di Roma (inizio sec. XX) BCAF - BIBLIOTECA COMUNALE ARIOSTEA, FERRARA - Classe I, Ms. 161 Pompeo Ugonio, Theatrum Urbis Romae (1594) BCU - BIBLIOTECA COMUNALE, UDINE - mss. 1195 e 1197/7 Libri dei Conti BDS - BIBLIOTECA DEL SENATO, ROMA - Ms. E 49, Affreschi e frammenti scoperti nella demolizione e sterro dell’antica chiesa di S. Salvatore de Thermis BIASA - BIBLIOTECA DI ARCHEOLOGIA E STORIA DELL’ARTE - Roma XI.44, Raccolta Lanciani - Roma. XI.45.III, Raccolta Lanciani, San Lorenzo fuori le mura - Roma. XI.47.III, Raccolta Lanciani, San Paolo fuori le mura BNC - BIBLIOTECA NAZIONALE CENTRALE, FIRENZE - Cod. II-III-173 (olim Fondo Magliabechiano, III, n. 173 e cl. XXXVII, n. 60) Giacomo Grimaldi, Opusculum de Sacrosancta Veronicae... (1620) BNF - BIBLIOTHEQUE NATIONALE DE FRANCE, PARIS - Liber Astrologiae di Georgius Zothorus Zaparus Fendulusm ms. lat. 7330 BNN - BIBLIOTECA NAZIONALE, NAPOLI - Ms Brancacciano 1F1 BVR - BIBLIOTECA VALLICELLIANA - L. 28 - T9, vol. 28 Inventario Bianchini della Collezione Dal Pozzo (1740-1746) DKK - KUNSTMUSEUM KUPFERTICHKABINETT, DÜSSELDORF - Inv. nr. 97 neg. nr. 8505/7 - Inv. 179, neg. nr. 174/5080 LBM - BRITISH MUSEUM, LONDON - ms. 14801 Necrologio di Santa Maria in Trastevere (XIV secolo) LSA - SOCIETY OF ANTIQUARIES, LONDON - John Talman (1677-1726), Drawings, I MCN - CALCOGRAFÍA NACIONAL, MADRID - Lámina n. 4186 ÖNB - ÖSTERREICHISCHE NATIONALBIBLIOTHEK, WIEN - Codex s. n. 3311 Pitture copiate da Antonio Eclisse custode delle Pitture della Camera Papali di Rafaello d’Urbino, dalla Cappella anticha, che stà avanti il Parlatorio delle Monache di Santi Quattro di Roma (1673) SBAP – S OPRINTENDENZA PER I B ENI A RCHITETTONICI E PAESAGGISTICI DI ROMA - Cartella 8, Conto dei lavori eseguiti dal Prof. A.M. Zamponi per il restauro degli affreschi medievali della basilica di S. Lorenzo fuori le mura a Roma, 1845 - Cartella 278, Relazione sui lavori di sbendaggio dei mosaici nella cappella di S. Zeno, 4 giugno 1945 WAL - WESTMINSTER ABBEY LIBRARY, LONDON - Randall Davies collection Cn. 4. II. 24 WEC - WINDSOR, ETON COLLEGE - Cod. Farf. 124 WRL - WINDSOR ROYAL LIBRARY - Museo cartaceo di Cassiano dal Pozzo (The Paper Museum of Cassiano dal Pozzo), 1630-1644 ca. Mosaici antichi I: 8928, 8934-8936, 8951, 8979, 9000-9009, 9017, 9018, 9045-9050, 9052, 9054, 9055, 9199, 9200, 9203, 9204, 9217, 9219 Mosaici antichi II: 8966, 9088, 9093; Private collection, USA, già SMS f. 104.
386 BIBLIOGRAFIA
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Casimiro da Roma 1744 Casimiro da Roma, Memorie istoriche delle chiese e dei conventi dei frati minori della provincia romana, Roma 1744
Fedini 1627 Domenico Fedini, La vita di S. Bibiana, vergine e martire romana, Roma 1627
Kehr 1906 Paul Fridolin Kehr, Regesta pontificum romanorum. I. Roma, Turici 1906
Ciacconio 1630 [1677] Alfonso Ciacconio, Vitae, et res gesta pontificum romanorum et S.R.E. cardinalium, ab initio nascentis Ecclesiae usque ad Clementem IX... M. Alphonso Ciaconio... & aliorum opera descriptae: cum uberrimis notis. Ad Augustino Oldoino... recognitae, & ad quatuor tomos ingenti ubique rerum accessione productae. Additis pontificum recentiorum imaginibus, & cardinalium insignibus, plurimisque aeneis figuris, cum indicibus locupleti, Roma 1677
Felini 1625 Pietro Martire Felini, Trattato nuovo delle cose maravigliose dell’alma città di Roma: ornato de molte figure, nel quale si discorre di 300 e più chiese, Roma 1625
Lalande 1769 Joseph Jérôme Le François de Lalande, Voyage d’un François en Italie fait dans les années 1765-1766: contenant l’histoire et les anecdotes les plus singulières de l’Italie et sa description, 8 voll., Venezia-Paris 1769
Martinelli 1653 Fioravante Martinelli, Roma ex ethnica sacra sanctorum Petri, et Pauli apostolica praedicatione profuso sanguine, Romae 1653
Langlois 1886 Les registres de Nicolas IV, a cura di Ernest Langlois, Paris 1886
Martinelli 1660-1663 [1969] Fioravante Martinelli, «Roma ornata dall’architettura, pittura e scoltura», in Roma nel Seicento, a cura di Cesare D’Onofrio, Firenze 1969
Ciampini 1690 Giovanni Giustino Ciampini, Vetera Monimenta in quibus praecipue musiva opera sacrarum, profanarumque aedium structura, I, Romae 1690
Ferri 1905 Giorgio Ferri, «Le carte dell’archivio liberiano dal secolo X al XV», in Archivio della R. Società Romana di Storia Patria, 28 (1905), 23-39
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Filippini 1639 Giovanni Antonio Filippini, Ristretto di tutto quello, che appartiene all’antichità, e veneratione della chiesa de’ Santi Silvestro e Martino de’ Monti di Roma, Roma 1639
Ciampini 1699 Giovanni Giustino Ciampini, Vetera Monimenta in quibus praecipue musiva opera sacrarum, profanarumque aedium structura, II, Romae 1699 Constitutiones 1215 [1981] Constitutiones concilii quarti lateranensis una cum commentariis glossatorum, a cura di Antonio Garc’a y Garc’a, Città del Vaticano 1981 Contelori 1650 Felix Contelori, Genealogia familiae comitum romanorum, qua cum primarijs nobilitatis romanae principibus affinitates indicantur, Romae 1650 Costaguti 1620 [1684] Giovanni Battista Costaguti, Architettura della basilica di S. Pietro in Vaticano, Roma 1684 Crescimbeni 1715 Giovanni Mario Crescimbeni, L’istoria della Basilica diaconale, collegiata e parrocchiale di S. Maria in Cosmedin di Roma, Roma 1715 Davanzati 1725 Benigno Davanzati, Notizie al pellegrino della Basilica di Santa Prassede, Roma 1725 de Angelis 1621 Paolo de Angelis, Basilicae S. Mariae Maioris de Urbe a Liberio Papa I usque ad Paulum V Pont. Max. descriptio et delineatio, Romae 1621 Die Register Innocenz’ III 1964-[2007] Die Register Innocenz’ III, Graz-Köln 1964-[2007] Dionisi 1773 Filippo Lorenzo Dionisi, Sacrarum Vaticanae basilicae cryptarum monumenta, Roma 1773 Duchesne 1886 Le Liber Pontificalis, texte, introduction et commentaire par Louis Duchesne, I, Paris 1886 [LP] Duchesne 1892 Le Liber Pontificalis, texte, introduction et commentaire par Louis Duchesne, II, Paris 1892 [LP] Egidi 1908 Necrologi e libri affini della provincia romana, I, a cura di Pietro Egidi (Fonti per la storia d’Italia 44), Roma 1908 Exuviae sacrae constantinopolitanae 1878 Exuviae sacrae constantinopolitanae: fasciculus documentorum minorum, ad byzantina lipsana in Occidentem saeculo XIIIo translata, spectantium, et historiam quarti belli sacri imperiique gallo-graeci illustrantium, a cura di Paul-Edouard-Didier Riant, Genevae 1878 Federici 1900 Vincenzo Federici, «Regesto del monastero di S. Silvestro de Capite», in Archivio della R. Società Romana di Storia Patria, XXIII, 2 (1900), 67-128, 411-447 Federici s.d. [sec. XVII] Federico Federici, Della famiglia Fiesca. Trattato dell’ecc. signor Federico Federici., Genova s.d. [sec. XVII]
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BIBLIOGRAFIA 411
INDICE DEI NOMI
Abacuc, profeta, 199, 204 Abbondanzio, santo, 59 Abbondio, santo, 59 Abdias, profeta, 206 Abele, 152, 174, 339 Abramo, 71, 199, 201, 339 Achilleo, santo, 200, 206 Adalberto, santo, 59 Adamo, 91, 306 Adinolfo, sacrista, 77, 82, 83, 85-87, 112, 121, 251 Adriano I, papa, 306 Adriano IV, papa, 300 Adriano V, papa, 20, 32, 44, 217, 260, 291 Aethelstan, re, 192 Agapito I, papa, 184, 187, 190, 239 Agnese, santa, 105, 190, 287, 290, 291, 311, 324, 332-334, 336, 337, 362 Agostino, santo, 157, 170, 214 Agricola da Bologna, santo, 188, 190 Alberto, santo, 239 Alberto, vescovo, 27 Aldobrandeschi, Ildebrandino il Rosso, 354 Aldruda, vedova di Scoto Paparone, 54 Alessandro III, papa, 70 Alessandro IV, papa, 19, 20, 24, 27, 44, 200, 206, 213, 236, 237, 290 Alessandro Magno, 157, 172, 174 Alessandro Severo, 124 Alessio, santo, 200, 206 Alfano, camerario, 24, 45, 260, 292 Altemps, Giovanni Angelo, 116 Amos, profeta, 199, 204 Anacleto II, papa, 84, 249, 340, 342 Anastasia, figlia di Giacomo di Foligno e Divitia, 210 Anastasio I, papa, 190 Anastasio, martire, 67, 284, 350 Ancher de Troyes, cardinale, 48, 278 Andalò, Brancaleone degli, 23, 244, 313 Andalò, Diana degli, 23 Andrea, santo, 41, 77, 79, 84, 188, 189, 226, 230, 237, 316, 368 Andromeda, 138, 158 Aniceto, papa, 184, 190, 239 Annibaldi, Riccardo, cardinale, 19, 20, 44, 230, 237, 291 Antelami, Benedetto, 48 Antonio del Tanghero, 377 Apollo, 159, 174 Arnolfo di Cambio, 344 Aymone di Faversham, generale francescano, 24 Barbara, santa, 360, 362 Barberini, Francesco, cardinale, 300 Barnaba, santo, 77, 79, 185, 240 Bartolomeo da Pisa, 24, 45 Bartolomeo, abate, 42, 344 Bartolomeo, santo, 77, 80, 86, 187, 226 Basilio, santo, 117, 118, 181 Beato Angelico, 220, 221, 350 Benedetto Canonico, 300 Benedetto II, papa, 190 Benedetto XIV, papa, 54, 86 Benedetto, santo, 118, 127, 240, 283, 284 Berardus, magister, cappellano di Stefano Conti, 210 Berlinghieri, Bonaventura, 278 Bernardo di Chiaravalle, santo, 21, 271, 283, 284 Bernini, Gian Lorenzo, 108, 109 Bernulfo, 192 Bibiana, santa, 108, 109 Bicchieri, Guala, cardinale, 16, 43, 105 Boezio, 147, 164 Bona, moglie di Cencio, 59 Bonaventura, generale francescano, 49, 303
412 INDICE DEI NOMI
Heemskerck, Maarten van, 281 Howard, Philip, cardinale, 236
Bonifacio I, papa, 200, 206 Bonifacio VIII, papa, 20, 44, 105, 136, 216, 219, 221, 310, 335, 336 Bonifacio IX, papa, 221, 347 Bonvesin de la Riva, 246 Bramante, Donato, 65 Bruno di Segni, abate e vescovo, 173 Caetani Tomassini, Giacomo, cardinal, 20, 216, 219 Caetani, Benedetto ¤ Bonifacio VIII Caetani, famiglia, 219, 310 Caetani, Francesco, cardinale, 20, 44, 136 Caetani, Giovanni, abate, 77, 83, 85, 86, 112, 115, 130, 251 Caetani, Perna, madre di Gian Caetano Orsini, 48 Caino, 152, 339 Callisto II, papa, 56, 84, 174 Campano da Novara, 35 Capocci, Giacomo di Giovanni, 133, 262, 263, 337 Capocci, Pietro, cardinale, 291 Capocci, Raniero, cardinale, 16, 18-20, 27, 32, 47, 217 Capocci, Vinia, moglie di Giacomo Capocci, 263 Capuano, Pietro, cardinale, 84, 130 Carlo d’Angiò (Carlo II di Napoli), 20, 44, 48, 136, 248, 313, 336 Carlomagno, 67, 70, 132 Cavalcaselle, Giovanni Battista, 376 Cavallini, Pietro, 15, 42, 44, 73, 88, 317, 339, 340, 342, 344, 355 Cecilia, santa, 101, 102, 105 Cecilia, monaca domenicana, 23, 45, 277 Celestino III, papa, 13, 52, 220, 263 Cellini, Pico, 96, 97 Cenci, Jacopa, badessa, 24 Cencio Camerario ¤ Onorio III Cencio, cancellario di Roma, 16, 25, 59, 60 Cesario da Terracina, santo, 188, 241 Christopharis, Pietro Paolo de, 76 Cimabue, 13, 23, 32, 38-40, 47, 49, 114, 293, 298, 302, 313, 317, 318, 334, 336, 371, 377 Ciriaca, santa, 93, 256 Cirilla, santa, 93 Chiara, santa, 187 Clemente IV, papa, 35, 44, 47, 309, 313 Clemente V, papa, 115 Clemente VII, papa, 65 Clemente VIII, papa, 51, 66, 88, 266 Clemente XI, papa, 76 Clemente XII, papa, 86 Cleto, papa, 190 Cola di Rienzo, 18 Colonna, famiglia, 24, 25, 263, 376, 377 Colonna, Giacomo, cardinale, 376 Colonna, Giovanni, senatore, 133, 313, 376 Colonna, Girolamo, cardinale, 263 Colonna, Margherita, 24, 376, 377 Conti, Carlo, 66 Conti, famiglia, 18, 27, 175 Conti, Giovanni, 18 Conti, Lotario (†1635), 66 Conti, Riccardo, 27, 190 Conti, Stefano, cardinale, 15, 18-20, 27, 28, 43, 44, 46, 136, 173, 190, 200, 206, 207, 210, 213 Conti, Stefano “Furioso”, 257 Conti, Trasmondo, 257 Conti, Ugolino ¤ Gregorio IX Conti, Lotario ¤ Innocenzo III Conxolus, pittore, 49 Cornelio, papa, 340, 342 Corrado II, imperatore, 157, 175 Cosciari, famiglia, 309
Cosma, marmoraro, 334, 337 Cosma, marmoraro, figlio di Iacobus, 27, 28, 46, 91 Cosmatus, magister, 334 Costantino, imperatore, 28, 65, 106, 127, 178, 191-193, 195, 196, 198, 200, 206, 207, 209, 210, 257, 316, 320 Costanza, santa, 290 Cratone, filosofo, 198, 201, 212, 257 Crisi, famiglia, 309 Cusano, Nicola, 206 Damaso, papa, 100 Daniele, profeta, 156, 169, 174, 199, 203 David, re, 28, 156, 168, 169, 174, 199, 201 Decio, imperatore, 255, 256, 324, 332, 336 Desiderio da Montecassino ¤ Vittore III Dismas (o Dimas), 210 Divitia, 28, 34, 35, 210, 213, 214 Domenico di Guzman, santo, 18, 21, 23, 46, 158, 172-174, 276, 277 Donato, grammatico, 141 Dorotea, santa, 200, 206 Duccio di Buoninsegna, 23 Edoardo il Confessore, santo, 24, 292 Egidio de Torres, cardinale, 36, 269 Elena, regina e santa, 105, 195, 198 Eleuterio di Auxerre, 187 Elia, profeta, 71, 114 Elisabetta di Ungheria, santa, 190 Emerenziana, santa, 24, 290 Enrico di Castiglia, 20, 44, 136 Enrico di Würzburg, 35 Enrico II, re d’Inghilterra, 214 Enrico III, imperatore, 157 Enrico III, re d’Inghilterra, 45, 292 Enrico, conte, 49 Epifanio di Benevento, 281 Erminia, badessa, 376 Erode, 99, 100, 333 Essuperanzia, santa, 200, 206 Euclide, 31, 143 Eudes de Sully, vescovo, 84 Eudes di Châteauroux, cardinale, 291 Eugenio III, papa, 54, 73, 220 Eugenio IV, papa, 115 Eusebio di Nicomedia, 206 Eusebio di Vercelli, santo, 105 Eusebio, monaco, 188 Eustachio, santo, 259 Ezechia, profeta, 199, 204 Ezechiele, profeta, 199, 203 Fammilume, Giuseppe, 221, 350, 352 Federico II, imperatore, 16-19, 31, 44, 65, 115, 190, 207, 247 Felice da Terracina, santo, 188, 190 Felice di Nola, santo, 181, 189, 190 Felice IV, papa, 270, 271, 300 Fendulus, Georgius, 30, 47, 175, 247 Fibonacci, Leonardo, 18, 38, 44 Fieschi, famiglia, 47, 218, 260 Fieschi, Guglielmo, cardinale, 34, 35, 259-261 Fieschi, Ottobono ¤ Adriano V Fieschi, Sinibaldo ¤ Innocenzo IV Filippini, Giovanni Antonio, priore, 104-106 Filippo Augusto, 44 Filippo il Bello, 44 Filippo, pittore, 42 Filippo, santo, 77, 80 Francesco d’Assisi, santo, 18, 21, 27, 43, 157, 172, 174, 187, 190, 277, 296, 303, 304 Frangipane, Angelo, 97 Frangipane, famiglia, 16, 43 Frangipane, Graziano, 303 Fuga, Ferdinando, 54, 263
Gaddi, Gaddo, 115 Gaio, papa, 190 Galeno, 28 Galgani, famiglia, 131 Galla Placidia, 344 Gargario, Quintiliano, 62 Gavasetus, Raphael, 338 Gelasio, papa, 206 Gennaro, santo, 200, 206 Gentile da Fabriano, 300 Gerardo, abate, 376 Geremia, profeta, 98, 99, 101, 199, 202 Gessi, Enrico, restauratore, 221, 352 Gestas, 210 Ghiberti, Lorenzo, 13, 44, 45, 339, 340, 342 Giacobbe, profeta, 199, 204 Giacomo di Foligno, 210 Giacomo Maggiore, apostolo, 77, 80, 86, 113, 114, 119, 121, 124, 230, 236 Giacomo Minore, apostolo, 77, 80, 230 Gimignani, Giacinto, 125, 126 Giobbe, 156, 168, 174, 175 Gioele, profeta, 86, 199, 204 Giona, profeta, 199, 204 Giosia, re, 206 Giotto, 13, 23, 29, 38, 43-45, 48, 293 Giovanni Battista, santo, 17, 40, 56, 93, 114, 117-119, 121, 133, 192, 226, 290, 294 Giovanni da Crema, cardinale, 281 Giovanni da Gaibana, 32, 47 Giovanni da Toledo, cardinale, 20, 291 Giovanni da Udine, 65 Giovanni de Matha, 21, 90, 91 Giovanni di Sutri, cardinale, 228 Giovanni di Tor Sanguigna, 339 Giovanni Diacono, 56, 333, 368 Giovanni VI, papa, 240 Giovanni VII, papa, 51-53, 263 Giovanni XXI, papa, 20 Giovanni, evangelista, 77, 80, 86, 98, 113, 114, 175, 192, 209, 210, 214, 230, 234, 237, 274, 276, 278, 290, 294, 296-298, 302, 306, 307, 317, 318, 333, 358, 360, 376 Giovanni, vescovo di Alatri, 44 Girolamo da Ascoli ¤ Niccolò IV Girolamo, santo, 171, 172, 174, 206 Giuda Iscariota, 157, 170, 174 Giuda Ciriaco, 206 Giuda, figlio di Giacobbe, 170, 199, 204 Giuda, servo di sant’Elena, 198 Giuliano l’Apostata, 158, 172, 174 Giulio I, papa, 187, 190 Giulio II, papa, 334 Giuseppe di Costanzo, abate, 339 Giuseppe, patriarca, 135, 339 Giuseppe, santo, 353-355 Giustiniani, Benedetto, cardinale, 116, 316 Giustiniani, famiglia, 116 Giustiniani, Vincenzo, 116 Giustino, santo, 255-257 Gregorio Magno, papa, 124, 214, 300, 367, 368, 355, 371, 373 Gregorio Nazianzeno, santo, 181, 373 Gregorio III, papa, 97 Gregorio VII, papa, 23, 45 Gregorio IX, papa, 16-19, 23, 24, 27, 28, 33, 43-47, 66, 112-116, 132, 173, 175, 207, 229, 251, 303, 310, 317 Gregorio X, papa, 44, 84 Gregorio XIII, papa, 316, 346, 351 Guastaferri, Fabrizio, 54 Guglielmo di Malavalle, santo, 296 Guillaume Charnier, ostiaro, 40 Guillaume d’Auxerre, 84 Guy de Foucois ¤ Clemente IV
Iacobus, abate, 354 Iacobus, marmoraro, 27, 91 Iacobus, penitenziere, 95 Iacobus, pictor, 221 Igino, papa, 340, 342 Ignazio di Antiochia, santo, 189, 190 Ignazio di Loyola, santo, 88 Ilario da Viterbo, santo, 188, 190 Innocenti, santi, 77, 84, 85, 88, 99, 101, 107, 214 Innocenzo II, papa, 65, 73, 101, 220 Innocenzo III, papa, 13-19, 25, 27, 43, 45, 47, 48, 52-54, 58, 62-66, 71, 73, 83-86, 90, 91, 93, 95, 97, 105-107, 114-116, 136, 190, 195, 200, 206, 220, 225, 259, 334, 344 Innocenzo IV, papa, 17-19, 25, 27, 28, 32, 34, 35, 37, 44, 47, 48, 136, 173, 176, 184, 200, 207, 213, 217, 220, 225, 253, 254, 259-261, 335 Ippocrate, 28 Ippolito, santo, 200, 206, 256, 259 Isacco, patriarca, 199, 201, 339 Isaia, profeta, 98, 99, 101, 199, 202 Ispano, Pietro ¤ Giovanni XXI Jacoba, sacrista, 24, 85, 291, 292 Jacopa de’ Normanni (Jacopa de’ Settesoli), 303 Jacopo da Varazze, 206, 333 Jacques de Vitry, cardinale, 45, 84 Johannes levita, 339 Lancisi, Annibale, 338 Langton, Stephan, arcivescovo, 16, 105 Lanzi, Luigi, 13 Lazzaro, 40, 317 Leonardo, abate delle Tre Fontane, 354 Leonardo, abate di Noblac, 188 Leonardo, santo, 127 Leone I (Leone Magno), papa, 114, 184, 190 Leone III, papa, 67, 221 Leone IV, imperatore d’Oriente, 84 Leone IV, papa, 189, 317, 362 Leone X, papa, 338 Leone XII, papa, 76 Leopardo, figlio di Giunta Pisano, 32, 47, 217 Lino, papa, 200, 206 Longino, 210, 212, 257 Lorenzo, santo, 35, 40, 42, 47, 49, 52, 92, 93, 118, 157, 170, 187, 226, 240, 249-252, 255257, 259, 260, 319, 321, 324, 332, 334, 336, 337, 354 Luca, evangelista, 77, 79, 96, 97, 113, 115, 116, 188, 333 Lucia, badessa, 24, 291 Lucia, santa, 200, 206 Lucillo, 256 Lucina, santa, 101 Lucio, papa, 206 Luigi IX, re di Francia, 283, 334 Luziano Rizzo, Marco, 65 Machilone, 36, 278, 377 Maestro “Oltremontano”, 38, 45, 49, 317 Maestro d’Isacco, 38 Maestro dei Crocifissi blu, 298 Maestro del Redentore, 49, 335 Maestro del Sancta Sanctorum, 271, 298, 302 Maestro della Bibbia di Corradino, 313 Maestro della Maddalena, 302 Maestro delle Traslazioni (“Primo Maestro di Anagni”), 28, 46, 71, 124, 234 Maestro di Filettino, 46, Maestro di Montefalco, 377 Maestro di San Francesco, 32, 43, 298 Maestro di San Saba, 121, 335, 368 Maestro Ornatista (“Secondo Maestro di Anagni”), 28, 29, 121, 124, 178, 190, 206, 224, 226, 234, 265, 271, 335 Magno, santo, 27, 124 Malabranca, famiglia, 131 Malabranca, Latino, cardinale, 131 Malachia, profeta, 206
Mallio, Pietro, 56 Malpiliis, B. de, prete, 75, 76 Malvezzi, Giandomenico, 376 Manfredi di Svevia, re, 237, 248 Maometto, 156, 174 Marcellino, papa, 190 Marcellino, vescovo, 207 Marcello, 187, 316 Marciano, prefetto, 358 Marciano, santo, 59 Marco Aurelio, 174 Marco, evangelista, 77, 113, 190, 333 Margaritone d’Arezzo, 21, 303, 304, 317 Margherita, figlia di Federico II, 18 Maria, donna, 46, 210 Maria Maddalena, 269, 270, 276, 278, 376 Maria Salomé, 269 Mariani, Cesare, 376 Mario, santo, 200, 206 Marta, santa, 200, 206 Martiniano, soldato, 321, 336 Martino, abate, 71, 240, 354, 356 Martino I, papa, 104, 105, 368 Martino V, papa, 317 Martino, santo, 104, 127, 157 Masaccio, 340 Masolino da Panicale, 281 Matteo, evangelista, 33, 42, 77, 80, 113-116, 176, 192, 333, 335, 358, 360 Mattia, santo, 77, 82 Mauro, santo, 200, 206 Medici, Alessandro de’, cardinale, 285 Melchisedech, 71 Michea, profeta, 86, 199, 204, 208 Michele Scoto, 31 Mitra, 31, 138, 151, 152, 174 Montanus, Ioseph, pisauriensis, 338 Nabucodonosor, 52 Naldini, Giovanni Battista, 281 Nardini, Pietro Paolo, 263 Naum, profeta, 199, 204 Nereo, santo, 200, 206 Nerone, imperatore, 37, 51, 52, 124, 157, 171, 174, 316 Niccolò d’Anagni, camerario, 45 Niccolò da Calvi, 44, 220, 253 Niccolò III, papa, 13, 18, 25, 33, 35-38, 40-42, 48, 49, 83, 131, 220, 221, 291, 293, 298, 310, 311, 313, 315, 317-319, 321, 334-337, 340342, 344, 350, 354, 371 Niccolò IV, papa, 13, 20, 21, 42, 44, 49, 293, 313, 317, 318 Niccolò V, papa, 76, 115, 220, 221, 350 Nicola, santo, 298, 324, 332, 333, 336, 337, 355, 367, 368, 371 Nicolaus, magister, 35, 36, 47, 48 Oddone di Cluny, 290 Oddone, priore, 277 Oderisio (Odericius Stephani), marmoraro, 24, 292, 293 Onorio Augustodunense, 139, 173 Onorio III, papa, 13-16, 18, 23, 25, 26, 34, 43, 47, 56, 58-60, 64, 74, 77, 79, 83-87, 91-95, 98, 100, 101, 105-109, 112, 115, 118, 121, 122, 125, 129, 130, 136, 209, 213, 228-230, 234, 253, 254, 276, 283, 337 Onorio IV, papa, 24, 25, 42, 217, 221, 344, 376, 377 Orazio, 157 Ordonio, cardinale di Tuscolo, 344 Orsini, famiglia, 38, 131, 310, 312, 313, 336 Orsini, Giovanni Gaetano ¤ Niccolò III Orsini, Matteo Rosso, 48, 313, 344 Osea, profeta, 199, 203 Ottone di Brunswick, imperatore, 65 Ottone III, imperatore, 59, 206 Ovidio, 174 Pan, 174 Pandolfo, vescovo, 27 Pantaleone, 84 Paolino da Nola, santo, 190 Paolo, apostolo, 37, 40, 49, 51-53, 56, 62, 64, 66, 77, 79, 83, 98, 100, 101, 103, 104, 114,
117-119, 121, 127, 156, 169, 174-176, 192, 193, 198, 207, 214, 226, 230, 234, 237, 283, 294, 298, 316, 318, 319, 321, 332-340, 344 Paolo, pittore, 42 Paolo di Paphos, vescovo, 298 Paparone, Giovanni, 54 Paparone, Rolando, arciprete, 54 Paparone, Scoto, 54 Paparone, vescovo, 344 Paparoni, famiglia, 21, 54 Papia, santo, 200, 206 Pasquale I, papa, 84, 133 Pasquale II, papa, 46, 136, 176, 209, 290 Peacock, Reginald, 206 Pelagio I, papa, 333 Pellegrino, vescovo, 344 Perseo, 138, 158 Petrus, frater, 241 Petrus, pittore, 276, 278, 297 Petrus, socio di Arnolfo, 344 Pier delle Vigne, 17 Pierre de Courtenay, imperatore, 93 Pietro, apostolo, 17, 25, 37, 38, 40, 43, 51-53, 62-65, 77, 79, 86, 98, 100, 101, 104, 113, 114, 119, 121, 122, 157, 171, 173-175, 189, 193, 198, 207, 214, 226, 230, 234, 237, 269, 271, 276, 294, 316-321, 332-338, 344, 354, 371 Pietro da Cortona, 364 Pietro, marmoraro, figlio di Oderisio, 24 Pio IV, papa, 121, 123, 298, 375 Pio VII, papa, 76 Pio IX, papa, 287, 364 Piranesi, Giovanni Battista, 87, 238, 241 Pironti, Giordano, cardinale, 36, 269 Pisano, Giunta, 19, 32, 175, 217, 297, 298 Pisano, Nicola, 247 Pitagora, 147, 164 Porfirio, 174 Prassede, santa, 133, 200, 206 “Primo Maestro di Anagni” ¤ Maestro delle Traslazioni Prisca, santa, 190 Prisciano, 141 Processo, soldato, 321, 336 Prudenzio, 174 Pudenziana, santa, 133, 135, 200, 206 Quirino, santo, 100, 101, 373 Raffaello, 32 Raimondo di Tolosa, 47 Rainaldetto di Ranuccio, 36 Rainaldo dei Conti di Jenne ¤ Alessandro IV Rainaldus, magister, 213, 214 Rainero, abate, 56 Riario, Raffaele, cardinal camerlengo, 334, 338, 364 Richard de Ware, abate, 24, 38, 45, 292 Roberto il Guiscardo, 209 Romano, abate, 25 Romano, santo, 35, 256 Ruggero, fra’, 277 Ruperto di Deutz, 173 Saba, santo, 41, 355, 367, 368, 371, 373 Salomone, 22, 28, 33, 137, 138, 156, 157, 169, 173, 176, 199, 202 Samuele, profeta, 199, 204 San Silvestro, prete di, 76 Sant’Alberto, Matteo di, 34, 257, 260 Sant’Alberto, Pietro di, 257 Saturnino, santo, 236 Savelli, famiglia, 254, 377 Savelli, Giacomo ¤ Onorio IV Savelli, Pandolfo, 313 Sebastiano, santo, 98, 100, 101, 190 “Secondo Maestro di Anagni” ¤ Maestro Ornatista Sergio I, papa, 270 Sergio II, papa, 105 Sergio, santo, 187 Sevastjanov, Pietr Ivanovic, 116 Severino, papa, 63 Sfondrati, Emilio, cardinale, 293 Sigismondo, re, 136 Silvestro I, papa, 15, 16, 28, 65, 66, 104-106,
127, 191, 193, 195, 196, 198, 200, 201, 206, 207, 210, 212, 316, 320 Silvia, santa, 368 Simeone, pittore, 36, 377 Simeone, sacerdote, 124 Simmaco, papa, 83, 234 Simon Mago, 51, 52, 158, 173, 316 Simone, fariseo, 269, 295 Simone, santo, 77, 81, 82, 86 Simplicio I, papa, 107 Sinibaldo, canonico, 16, 43 Sinibaldo, camerario papale, 112 Sisto, papa, 184, 200, 340, 342 Sisto IV, papa, 124 Sofonia, profeta, 199, 204 Sotero, papa, 190 “Sozio”, Alberto, 27, 46 Stanislao di Cracovia, 184 Stefano da Vancsa, cardinale, 291 Stefano II, papa, 334 Stefano, santo, 40, 42, 49, 92-94, 251, 259, 321, 332, 334, 337 Stephaton, 210 Succi, Pellegrino, 340, 342 Taddeo da Sessa, 17 Taddeo, santo, 77, 80 Tedeschi, Pietro, 97 Telesforo, papa, 340, 342 Teodora, priorissa, 24 Teodora, santa, 59 Teodoro, santo, 188, 200, 206 “Terzo Maestro di Anagni”, 27-30, 36, 40, 46, 47, 49, 175, 176, 190, 213, 224, 234, 265, 266, 271, 298, 335 Thomas Becket, santo, 15, 16, 27-29, 43, 105, 106, 127, 189, 207, 214 Tiburzio, santo, 184, 200, 206 Timoteo, santo, 339, 340 Tolomeo, Claudio, 149 Tolomeo da Lucca, 333, 334, 340 Tommaso da Celano, 303 Tommaso, apostolo, 64, 77, 81, 230 Torlonia, Andrea, 66, 116 Torlonia, famiglia, 66 Torriti, Jacopo, 15, 40-42, 46, 49, 176, 307, 310, 315, 335, 337, 342, 351, 354, 355, 368, 371, 374, 377 Tubalcain, 147 Tuttabuona, 210 Ubaldini, Ottaviano, cardinale, 20, 29, 44, 136, 213, 291 Ugo di Evesham, cardinale, 20 Ugo di Saint Cher, cardinale, 291 Ugo, abate, 45 Uguccione, cardinale, 105 Urbano IV, papa, 35, 38, 44, 48, 317 Urbano V, papa, 33, 70 Urbano VIII, papa, 107, 266, 300 Ursus, sacerdos et monachus, 339 Valeriano, imperatore, 256 Valeriano, santo, 184 Valla, Lorenzo, 206 Valois, Carlo di, 20 Vassalletti, famiglia, 28, 91, 93, 130 Vespignani, Virginio, 74, 257, 261, 286, 287, 293 Vicomte, Jean, 124 Vincenzo di Beauvais, 139 Vincenzo, santo, 284 Viniziano, Marco ¤ Luziano Rizzo, Marco Visconti, Federico, arcivescovo, 32, 47 Vitale, santo, 290 Vittore III, papa, 281 Wippo, cappellano, 157, 158, 171, 172, 175 Zaccaria, profeta, 195, 206 Zambri, mago, 198 Zenofilo, praefectorius vir, 198, 201, 212, 257 Ziani, Pietro, doge di Venezia, 85, 86
INDICE DEI NOMI 413
INDICE DEI LUOGHI
Acri, 47 Alatri - collegiata di Santa Maria Maggiore, 355 - San Sebastiano presso, 19, 44, 128, 225, 302 Amaseno, Santa Maria dell’Auricola, 126 Anagni, 18, 27, 94 - cattedrale, 128, 129, 219, 221, 225 - cappella Caetani, 27 - cappella del Salvatore, 128, 225 - cripta, 17, 27-29, 32, 43, 45, 46, 71, 121, 124, 127, 175, 206, 209, 213, 224, 227, 228, 234, 265, 266, 271, 292, 298 - oratorio di San Thomas Becket, 105 - chiesa di Sant’Eustachio, 35, 200, 260 - palazzo di Gregorio IX, 18, 20, 44, 46, 118, 229 - palazzo cosiddetto di Bonifacio VIII, 132, 310 - San Pietro in Vineis, 24, 34, 47, 129, 218-220, 225, 267, 376 Ansedonia, 67, 70, 71, 132, 283 Antiochia, 51, 53 Ardea, Santa Marina ad, 60 Arezzo - convento di Ganghereto, 303 - convento di Sargiano, 303 - Museo Statale d’Arte Medievale e Moderna, 304 Assisi, 184 - basilica e convento di San Francesco, 13, 16, 24, 29, 31, 36-43, 45, 47-49, 52, 84, 114, 116, 176, 217, 293, 297, 302, 310, 313, 315, 317, 318, 334-336, 339, 342, 350, 351, 355, 356, 362, 366, 371, 377 - Museo del Tesoro del Sacro Convento, 304 - Museo di Santa Maria degli Angeli, 297 Ausonia, Santa Maria in Piano, 102 Avignone, 17, 20 Baltimora, The Walters Art Museum (Walters Gallery), 298 Bamberga, 44, 175, 192 Beaulieu-sur-Dordonne, abbazia di Saint-Pierre, 192 Bergamo - cattedrale, 45 - cosiddetta aula della Curia, 45 - episcopio, 45 Betlemme, 62, 113, 344 Bijloke, monastero, 355 Bologna, 16, 23, 38 Bominaco, San Pellegrino, 22, 35, 47, 118, 190, 218, 240, 247 Brescia, 91 Cambridge, Pembroke College, 192 Capodimonte, 311 Capua, 130 - porta, 17, 207 Casamari, Santa Maria del Reggimento, 127 Castel del Monte, 32 Castel Sant’Elia, Sant’Anastasio, 366 Castiglion Fiorentino, Pinacoteca Comunale, 304 Castiglione Olona, 281 Ceri, Santa Maria Immacolata, 207 Cipro, 227 Civita Castellana, 91 Como, 45 Cori, chiesa dell’Annunziata, 339 Cossito, 126 Costantinopoli (Bisanzio), 32, 40, 41, 49, 84, 93, 133, 206, 302 - Santa Sophia, 84 Ercolano, casa dei Grifi, 336 Fabriano, 296 - convento di Sant’Agostino, 296 - Museo civico, 296 Farfa, abbazia, 124 Ferentillo, San Pietro in Valle, 97, 315 Fermo, 344 Filacciano, Sant’Egidio, 127 Filettino, San Nicola, 206 Firenze, 13, 18, 43, 260, 302
414 INDICE DEI LUOGHI
- Accademia, 278 - Battistero, 49 - Casa Buonarroti, 377 Foligno, abbazia di Sassovivo, 213, 214 Francia, 18, 54, 105, 136, 241, 244 Fulda, 173 Gaeta, Museo diocesano, 126 Genova, 260 - cattedrale di San Lorenzo, 35, 260 Gerusalemme, 21, 51, 53, 62, 84, 90, 113, 195, 206, 207, 237, 344 - basilica del Santo Sepolcro, 195 - Golgota, 306 Grottaferrata, abbazia, 16, 25, 43, 46, 58, 60, 64, 112, 114, 207 Inghilterra, 16, 24, 105, 214, 263 Irlanda, 95 Isola del Giglio, 67 Italia, 13, 16, 22, 23, 32, 40, 48, 54, 56, 73, 105, 174, 175, 210, 227, 241, 244, 278, 286, 304, 362 Kastoria - San Nicola Kasnitsi, 56 - Santi Anargyroi, 56 Kiev, Santa Sophia, 56 Kurbinovo, San Giorgio, 56 Lastra di Signa, 302 Lavagna - chiesa del Salvatore, 260 - San Lorenzo, 260 Limoges, 222 Lione, 17-19, 40, 49, 207 Londra, British Museum (LBM), 75, 76, 311 Magliano Romano, grotta degli Angeli, 366 Marsiglia, 90 Monreale, cattedrale, 15, 25, 27, 29, 33, 53, 60, 61, 64, 102, 105, 206, 224, 292 Monte Autore, Grotta della Santissima Trinità, 355 Montecorvino Pugliano, San Vito, 56 Monte Mario, Santa Maria del Rosario, 366 Montepulciano, Museo Civico, 304 Müstair, Sankt Johann, 53 Napoli, 18, 28 - Santa Chiara, 45 New York, Pierpont Morgan Library, 193 Ninfa, Santa Maria Maggiore, 58 Norcia, Sant’Antonio, 276, 278, 297 Orbetello, 70 Orvieto, 35, 70, 344 - palazzo, 18, 20, 34, 44, 47 Ostia, 206, 213, 410 Oviedo, 344 Oxford, 38 Padova, cappella degli Scrovegni, 29 Parigi, 16, 38, 48, 90 - Biblioteca Nazionale, 247 - Notre-Dame, 44 - Sainte-Chapelle, 37, 334 Parma - Battistero, 32, 47 - Collezione Magnani Rocca, 302 Perugia, 188 - Fontana Maggiore, 246 - Palazzo dei Priori, 132 - San Bevignate, 40 - Santa Giuliana, 377 Pisa, 32, 260 - Museo Nazionale di San Matteo, 207 - palazzo Da Scorno, 45 - San Piero a Grado, 316
Pistoia, 260 Poli, Villa Catena, 66 Poppi, San Fedele, 302 Ravenna - cappella arcivescovile, 337 - San Vitale, 263 Rieti, 344 - Archivio Storico del Comune, 47 Roma Basiliche, chiese, monasteri e oratori: - Abbazia delle Tre Fontane, 16, 43, 95 - affreschi enciclopedici, 42, 132 - affreschi dell’ala dei monaci/dormitorio, 42, 310 - Arco di Carlomagno, 16, 25-27, 67-71, 95, 132, 252, 271, 283, 284 - Calendario, 22, 42, 240 - chiesa dei Santi Vincenzo e Anastasio alle Tre Fontane, 70 - sacrestia, 42, 307, 353-356, 362, 371 - sala capitolare, 129 - vestibolo, 219 - Monasterium Tempuli, 23, 276 - Monastero di Sant’Andrea di Biberatica, 45 - San Bartolomeo all’Isola, 16, 25, 59-61, 73, 88, 91, 96, 127 - San Basilio ai Pantani, 21, 26, 46, 56-58, 102, 103, 117, 118, 132, 230, 234, 293 - San Biagio, 44, 303 - San Biagio ai Monti, 54 - San Ciriaco di Camilana, 45 - San Clemente, 18, 19, 44, 216, 217, 236 - basilica inferiore, 174, 293, 336 - basilica superiore, 101, 132, 287, 344 - Residenza, 19, 20, 31, 32, 34, 47, 94, 129, 206, 216-219, 224, 225, 282 - San Cosimato, 24, 44, 45, 302 - San Crisogono - basilica inferiore, 109, 174, 207 - “torre” (cosiddetto battistero), 20, 280-282 - San Filippo Neri, 51, 53 - San Francesco a Ripa, 21, 44, 303, 304 - San Giacomo al Colosseo, 340 - San Giovanni a Porta Latina, 37, 58, 64, 102, 174, 229 - San Giovanni in Laterano e complesso lateranense, 13, 15, 20, 65, 95, 115, 136, 196, 213, 217, 236, 335 - Basilica di San Giovanni, 13, 15, 16, 21, 37, 42, 43, 65, 130, 207, 334, 337, 340 - Battistero (oratorio di Santa Croce), 337 - chiostro, 93, 130, 241 - Palazzo/Patriarchio lateranense, 193, 200, 220 - camera pro secretis consiliis, 174 - oratorio di San Nicola, 84, 95, 106, 335 - ospedale lateranense, 340 - Sancta Sanctorum, 32, 33, 37, 38, 40-43, 46, 48, 49, 52, 95, 174, 176, 250, 263, 282, 284, 286, 298, 302, 310, 311, 315, 318, 319, 321-338, 342, 350, 351, 354, 356, 360, 362, 371 - oratorio di San Silvestro, 136 - San Lorenzo fuori le mura, 15, 21, 26, 34, 35, 42, 52, 54, 91-94, 101, 109, 118, 210, 218, 250, 253-261 - San Lorenzo in Damaso, 364-366 - San Lorenzo in Lucina - chiesa, 34, 35, 44, 47, 218, 249-252 - palazzo, 20 - San Martino ai Monti, 105 - chiesa, 104 - oratorio di San Silvestro, 15, 37, 64, 104-106, 174, 207 - San Nicola in Carcere, 48, 136 - San Pancrazio, 45 - San Paolo fuori le mura, 70 - basilica, 14, 15, 25, 26, 28, 34, 37, 40, 42, 46-49, 60, 61, 63, 64, 74, 75, 77-88, 91, 93, 101, 102, 107, 109, 112-115, 118, 121, 133, 206, 234, 251, 263, 294, 295, 319, 336, 339-345 - chiostro, 109, 130, 267 - Museo della basilica di San Paolo, 340 - Vaticano, 196 - San Pietro in Vaticano
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- basilica, 13-17, 21, 25-27, 37, 38, 40, 43, 52, 60, 62-66, 71, 73, 74, 83, 86, 91, 93, 95, 101, 113-116, 190, 220, 251, 260, 294, 295, 311, 316-320, 336, 338, 340 - oratorio di Giovanni VII, 13, 51-53, 263, 319, 336 - Palazzo Vaticano, 19, 20, 28, 34, 37, 39, 48, 121, 122, 128, 130, 175, 206, 209, 219-225, 267, 281, 310, 313, 335, 336, 346-352 - cappella Niccolina, 221, 225, 350, 351 - cubicolo di Niccolò V, 221, 222, 310, 347, 350-352 - Palatium Novum, 310 - Sala dei Chiaroscuri, 221, 222, 310, 347, 350, 351 - Sala vecchia degli Svizzeri, 221, 222, 310, 347, 350, 351 - seconda Sala dei Paramenti o del Concistoro Segreto, 220, 221, 350-352 - Segreteria di Stato, 347, 350, 351 - Stanza della Falda, 221, 224, 225, 346, 350, 351 - Torre d’Innocenzo III, 121, 128, 175, 206, 209, 219-222, 224, 281, 313 - stanza al primo piano della Torre, 222, 224, 225 - Stanza d’Innocenzo III, 122, 130, 223-225, 267, 281, 350352 San Saba, 21 - chiesa, 22, 34, 40, 41, 94, 128, 129, 174, 218, 219, 225, 226, 242, 292, 293, 335, 342, 355, 367-375 - torre abbaziale, 34-36, 189, 241, 245-248, 282, 311 San Salvatore in Thermis, 124 San Salvatore super arcum a Campo dei Fiori, 364, 366 San Sebastiano fuori le mura, 32 - chiesa, 32, 320 - cosiddetto oratorio di Onorio III, 15, 26, 74, 85, 98-103, 105, 107, 112, 118, 121, 122, 129, 293 - mausoleo degli Innocentiores ¤ catacomba di San Sebastiano San Silvestro al Quirinale, 96, 124-127, 174, 206 San Silvestro in Capite, 24, 45, 376-381 San Sisto Vecchio, 23, 276 San Tommaso in Formis, 26, 75, 90, 91 Sant’Adriano al Foro Romano, 96, 200 Sant’Agnese fuori le mura, 16, 24, 34, 38, 39, 45, 85, 218, 287, 291-293, 371 Sant’Alberto, convento carmelitano, 297, 305-307 Sant’Alberto all’Esquilino, 307 Sant’Ambrogio alla Massima, 131 Sant’Andrea in Catabarbara, 52, 53, 105, 295 Sant’Angelo in Pescheria, 131, 237, 302 Sant’Urbano alla Caffarella, 210, 250 Santa Balbina - chiesa, 36, 119-123, 284, 298, 299, 302, 371, 373, 375 - convento (attuale Istituto Santa Margherita), 21, 45, 121, 122, 296-298 Santa Bibiana, 15, 23, 45, 85, 86, 101, 107-109 Santa Cecilia in Trastevere, 64, 93, 250, 366 Santa Costanza, 21, 24, 37, 48, 174, 336, 351 Santa Croce in Gerusalemme, 207 Santa Francesca Romana ¤ Santa Maria Nova Santa Maria Antiqua, 210 Santa Maria de Aventino (Domus templare), 22, 23, 34, 35, 56, 189, 190, 218, 238-242, 250 Santa Maria del Buon Consiglio, 54 Santa Maria del Popolo, 41, 49, 371 Santa Maria del Priorato ¤ Santa Maria de Aventino Santa Maria della Massima, 45 Santa Maria Domine Rose, 228, 265 Santa Maria in Aracoeli - chiesa, 44, 45 - convento, 36 Santa Maria in Campomarzio, 45 - San Gregorio Nazianzeno, 373-374 Santa Maria in Cosmedin - chiesa, 16, 24, 45, 52, 207, 260, 292 - palazzo cardinalizio, 20 Santa Maria in Domnica, 84, 133 Santa Maria in Grottapinta, 366 Santa Maria in Pallara, 44, 174 Santa Maria in Traspontina, 306, 307 Santa Maria in Trastevere, 15, 26, 27, 31, 64, 72-76, 86, 88, 96, 101, 102, 124, 132, 135, 206, 263, 287, 311, 337, 338, 355 Santa Maria in Vallicella, 126 Santa Maria Maggiore, 21, 34, 42, 45, 47, 48, 54, 55, 189, 237, 240, 253, 262-264, 313, 334, 335, 337, 338, 351, 354, 355 Santa Maria Nova, 16, 26, 34, 43, 46, 96, 97, 102, 106, 110-112, 121, 206, 218, 226, 227, 234, 287, 292, 302 Santa Maria sopra Minerva, 45 Santa Passera, 14, 34, 45, 218, 226, 271, 292, 294, 295, 297
- Santa Prassede, 36, 88, 133-135, 260, 263, 278, 279, 284, 297, 337, 360 - Santa Pudenziana, 64, 133, 366 - Santa Sabina, 20, 64 - Santi Andrea e Gregorio al Celio, 236 - Santi Bonifacio e Alessio, 105 - Santi Ciro e Giovanni ¤ Santa Passera - Santi Cosma e Damiano, - chiesa, 16, 34, 36, 266, 267, 297, 300-302 - Rotonda, 34, 36, 130, 218, 224, 225, 228, 252, 260, 265, 267272, 276, 278, 282, 293, 295, 297, 298, 307, 313, 315, 373 - Santi Cosma e Damiano in Mica Aurea ¤ San Cosimato - Santi Domenico e Sisto, 23, 274-278 - Santi Giovanni e Paolo, 15 - chiesa, 19, 24, 34, 44, 121, 130, 174, 206, 207, 218, 225-228, 230-237, 251, 252, 267, 293, 295, 302 - convento, 37, 229, 230 - Santi Quattro Coronati, 16, 19, 20, 22, 28, 33, 136, 209, 221, 224, 236, 292, 335 - basilica, 34, 35, 109, 209-215, 257, 278 - cappella di Santa Barbara, 21, 42, 282, 358-362 - Palazzo - Aula ‘Gotica’, 18, 21, 22, 28-33, 35, 37, 38, 43, 46, 47, 124, 136-176, 179, 190, 191, 207, 213, 218, 224, 228, 230, 234, 241, 242, 244, 246-248, 265-267, 271, 292, 293, 310, 335 - Calendario, 130, 180-190, 225, 240, 241, 267 - cappella di San Silvestro, 16, 22, 26, 28, 29, 46, 48, 114, 118, 127, 129, 135-137, 145, 173, 174, 178, 190-210, 212-214, 224, 226, 227, 234, 240, 241, 257, 260, 263, 267, 295 - sala adiacente l’Aula ‘Gotica’, 37, 177 - Sala delle pentafore, 136, 137, 145, 149, 179 - Torre minore, 136, 178 - Santi Vincenzo e Anastasio alle Tre Fontane, 70 - Santissima Annunziata, 56, 58 - Santissimo Nome di Maria, 302 Palazzi: - Palazzo Altemps, 116 - Palazzo della Cancelleria, 364 - Palazzo di Sallustiano, 319 - Palazzo Lovatelli, 20, 21, 35, 118, 131, 132 - Palazzo Madama, 124 - Palazzo Saragona-Albertoni, 20, 34, 282, 308-310 - Palazzo Senatorio (Campidoglio), 22, - affreschi con i Lavori dei Mesi (?), 132, 242-244 - Aula Consiliare, 23, 34, 38, 40, 45, 282, 309, 312-315 - Camellaria, 313 - Palatium novum, 244, 313 - Palatium vetus, 244 Catacombe: - Catacomba di San Sebastiano (mausoleo degli Innocentiores), 85, 101 - Catacomba di Santa Ciriaca, 93 Monumenti antichi: - Ara Pacis, 20, 336 - Arco di Costantino, 174, 318 - Aula ‘Isiaca’ sul Palatino, 230 - Castel Sant’Angelo (mausoleo di Adriano), 318, 336 - Clivo di Scauri, 236, 237 - Colonna Antonina, 376 - Domus Transitoria, 174 - Fori imperiali, 56 - Foro d’Augusto, 56 - Foro Romano, 198, 200 - Meta Romuli o Meta, 318, 319, 336 - Portico di Filippo, 131 - Portico di Ottavia, 131 - Teatro di Pompeo, 366 - Tempio di Marte Ultore, 56 - Terebintum Neronis, 318, 319 - Terme Alessandrine, 124 Musei, pinacoteche: - Collezione Stroganoff, 316, 317, 319 - Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini, 278 - Grotte Vaticane, 51, 53, 64, 66, 77, 86, 115, 116 - Musei Vaticani, 338, 346, 347, 350, 351 - Museo Barracco, 62, 66 - Museo della Biblioteca Vaticana, 237 - Museo Nazionale Romano Crypta Balbi, 131, 265, 308 - Museo Palazzo Braschi, 62, 66, 113 - Museo Petriano, 53, 319 - Pinacoteca Vaticana, 303 Vie e Piazze: - Campo dei Fiori, 366
- Campo Marzio, 351 - Via del Gambero, 376 - Via Nazionale, 125 Altro: - Casa dei Cavalieri di Rodi, 58, 117 - Conservatorio di Santa Caterina, 265 - Reverenda Fabbrica di San Pietro, 66, 316, 319 Rongolise, 102 Scozia, 95 Seligenthal, monastero, 355 Serbia, 40 Sermoneta, Castello Caetani, 58 Sicilia, 18, 25, 29, 31, 46, 47, 60, 61, 74, 86, 88, 102, 221, 227, 237, 260, 337 Siena, 18, 176, 260 - duomo, 371 - Pinacoteca Nazionale, 303 Sopocani, 33, 335 Sora, 190 Soriano nel Cimino, 334 Spoleto, 27 - cattedrale di Santa Maria Assunta, 114 - San Domenico, 277 - Santa Maria inter Angelos, 278 - Santi Giovanni e Paolo, 27, 214 Subiaco, 27 - Sacro Speco, 25, 46, 49 - cappella San Gregorio, 27, 43, 46, 47, 71, 175 Sulmona, eremo di Sant’Onofrio al Morrone, 212 Terracina, cattedrale, 188, 254 Terra Santa, 90, 118, 198 Tivoli - San Silvestro, 46, 207 - Santa Maria Maggiore, 351 Treviso - Museo Diocesano, 214 - Palazzo Vescovile, 214 Torcello, Santa Maria Assunta, 56, 64, 84, 91, 114 Torino, 66 - chiesa del Salvatore, 174 Toscana, 13, 36, 40, 67, 97, 260, 302, 339 Troia, 97 Troyes, cattedrale, 175 Tuscania, San Pietro, 56, 366 Umbria, 25, 27, 36, 70, 276-278, 302, 377 Velletri, Sant’Apollonia, 300 Venezia, 47, 83 - Museo archeologico, 63 - San Marco, 61, 85, 86, 133, 135 Vercelli - Sant’Andrea, 43 - Sant’Eusebio, 105 Veroli, duomo, 355 Vico nel Lazio, collegiata di San Michele Arcangelo, 262-264 Vienna, Biblioteca Nazionale, 210 Viterbo, 19, 227 - Palazzo dei Papi, 18, 20, 24, 34, 35, 44, 47, 282, 313 Vittoria, 30 Vladimir, San Demetrio, 56 Westminster, 24, 38, 292, 293 Worcester, Museo, 278
INDICE DEI LUOGHI 415
INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI
p. 14 fig. 1 ACSP, A. 64 ter (Album), f. 50r, San Pietro in Vaticano, acquerello del perduto mosaico dell’abside (BAV) p. 15 fig. 2 San Paolo fuori le mura, mosaico dell’abside (da San Paolo fuori le mura 1988) p. 17 fig. 3 WEC, Cod. Farf. 124, f. 122, miniatura dell’ultimo quarto dell’XI secolo, facciata di San Pietro in Vaticano (da La basilica di San Pietro 2000); fig. 4, Roma, Istituto Archeologico Germanico, ms. 46 Porta di Capua, xilografia, anonimo tedesco fine XV secolo p. 19 fig. 5 Santi Quattro Coronati, Aula ‘Gotica’ (V. Antonioli, M. Tralese, G. Zecca, SSPSAE e PMRoma); fig. 6 Alatri, Abbazia di San Sebastiano, ritratto di Stefano Conti (S. Romano) pp. 20-22 figg. 7-9 Santi Quattro Coronati, Aula ‘Gotica’ (V. Antonioli, M. Tralese, G. Zecca, SSPSAE e PMRoma) p. 23 fig. 10 Santi Domenico e Sisto, Istituto Angelicum, Crocifisso, particolare (D. Ventura-C/A) p. 24 fig. 11 Museo di Palazzo Braschi, inv. 5650, busto di Innocenzo III dal perduto mosaico dell’abside di San Pietro in Vaticano (Archivio C/A) p. 25 fig. 12 Subiaco, Sacro Speco, affresco con Innocenzo III (da I monasteri benedettini di Subiaco 1982) p. 26 fig. 13 Abbazia delle Tre Fontane, particolare della decorazione della volta dell’Arco di Carlomagno (D. Ventura-C/A) p. 27 fig. 14 Subiaco, Sacro Speco, particolare della decorazione della cappella di San Gregorio (da I monasteri benedettini di Subiaco 1982); fig. 15 Anagni, cattedrale, cripta (Ministero per i Beni e le attività Culturali, ICR); fig. 16 Subiaco, Sacro Speco, cappella di San Gregorio, particolare con la Vergine della Crocifissione (da I monasteri benedettini di Subiaco 1982) p. 28 fig. 17 Santi Quattro Coronati, Aula ‘Gotica’ (V. Antonioli, M. Tralese, G. Zecca, SSPSAE e PMRoma) p. 29 fig. 18 Anagni, cattedrale, cripta, Guarigioni (Ministero per i Beni e le attività Culturali, ICR) p. 30 figg. 19-20 Georgius Fendulus, Liber Astrologiae, BNF Lat 7330, ff. 16 e 43v (da Liber Astrologiae 1989); fig. 21 Residenza di San Clemente, saletta nella torre, affresco con un Cervo (S. Romano); fig. 22 Santi Quattro Coronati, Aula ‘Gotica’ (V. Antonioli, M. Tralese, G. Zecca, SSPSAE e PM-Roma) p. 31 fig. 23 Georgius Fendulus, Liber Astrologiae, BNF Lat 7330, f. 30 (da Liber Astrologiae 1989); fig. 24 Santi Quattro Coronati, Aula ‘Gotica’ (V. Antonioli, M. Tralese, G. Zecca, SSPSAE e PM-Roma) p. 32 fig. 25 Madrid, Biblioteca del Escorial, 28-I-20, f. 27, Santa Costanza, disegno di Francisco d’Ollanda, 1538-1540 (da Os desenhos das antigualhas que vio Francisco d’Ollanda, pintor portugués, a cura di Tormo y Monzó, Madrid 1940, f. 7v); fig. 26 San Clemente, basilica inferiore (A. Rubino, ICR) p. 33 fig. 27 Santi Quattro Coronati, Aula ‘Gotica’ (V. Antonioli, M. Tralese, G. Zecca, SSPSAE e PM-Roma); fig. 28 Sancta Sanctorum, Niccolò III tra san Pietro e san Paolo (Musei Vaticani); fig. 29 Santi Quattro Coronati, Aula ‘Gotica’ (V. Antonioli, M. Tralese, G. Zecca, SSPSAE e PM-Roma); fig. 30 Sopocani, Santissima Trinità, particolare della Natività (da T. Velmans, V. Korac, M. Šuput, Rayonnement de Byzance, Saint-Léger-Vauban/ Paris 1999); fig. 28 Sancta Sanctorum, angelo (Musei Vaticani)
416 INDICE ILLUSTRAZIONI
p. 34 fig. 32 Bominaco, San Pellegrino, Calendario (V. Pace) p. 35 fig. 33 Palazzo di piazza Lovatelli, particolare dell’affresco (G. Alfano-C/A); fig. 34 San Saba, torre abbaziale, raffigurazione allegorica (D. VenturaC/A); fig. 35 BAV, Chigi CVI 174, f. 97v (da Bilotta 2004) pp. 36-37 figg. 36-37 Sancta Sanctorum, Niccolò III e Cristo (Musei Vaticani) p. 38 fig. 38 Assisi, San Francesco, Ytalia (Archivio C/A) p. 39 fig. 39 Sant’Agnese fuori le mura, decorazione pittorica del sottotetto (D. Ventura-C/A); figg. 4041 Assisi, San Francesco, affreschi ornamentali del transetto (S. Romano) p. 40 fig. 42 Sant’Agnese fuori le mura, sottotetto, fregio a mensoloni sulla parete absidale (D. VenturaC/A); fig. 43 Assisi, San Francesco, particolare dei mensoloni prospettici nel transetto (S. Romano) p. 41 fig. 44 San Francesco di Assisi, transetto, il Battista (S. Romano); fig. 45 Perugia, San Bevignate, apostolo con croce di consacrazione (S. Romano) p. 51 fig. 1 BAV, Barb. lat. 2733, f. 89r, San Pietro in Vaticano, ciclo musivo con Storie di san Pietro e san Paolo, già nell’oratorio di Giovanni VII (da Grimaldi 1619 [1972]) p. 52 fig. 2 BAV, Vat. lat. 8404, ff. 113v-114r, San Pietro in Vaticano, cicli musivi già nell’oratorio di Giovanni VII (BAV) p. 53 fig. 3 Grotte Vaticane, busto di san Pietro, già nell’oratorio di Giovanni VII nella Basilica Vaticana (Fabbrica di San Pietro) p. 55 fig. 1 Ciampini, incisione, medaglione Paparone, già nel pavimento di Santa Maria Maggiore (Ciampini 1690, tav. XXXI, fig. 2; Fototeca Hertziana) p. 56 fig. 1 San Basilio ai Pantani, veduta dell’abside prima della distruzione (AFC xd 8196) pp. 57-58 fig. 2-5 Casa dei Cavalieri di Rodi, pannelli con l’Ascensione dalla perduta abside di San Basilio ai Pantani (D. Ventura-C/A) pp. 59-61 figg. 1-4 San Bartolomeo all’Isola, la Vergine con il Bambino e santi: veduta generale e dettagli (K. Queijo) p. 62 fig. 1 ACSP, A. 64 ter (Album), f. 50r, San Pietro in Vaticano, acquerello del perduto mosaico dell’abside (BAV) p. 64 fig. 2 Museo di Palazzo Braschi, inv. 5650, busto di Innocenzo III dal perduto mosaico dell’abside di San Pietro in Vaticano (Archivio C/A); fig. 3 Museo Barracco, inv. 209, busto dell’Ecclesia dal perduto mosaico dell’abside di San Pietro in Vaticano (Archivio C/A) p. 65 figg. 4-5 BAV, Vat. lat. 5407, pp. 112 e 103, disegni acquerellati, Papa Innocenzo III e Ecclesia, dal perduto mosaico dell’abside di San Pietro in Vaticano (BAV) p. 66 fig. 6 Museo di Palazzo Braschi, inv. 5652, Fenice, dal perduto mosaico dell’abside di San Pietro in Vaticano (Archivio C/A) p. 67 fig. 1 BAV, Barb. lat. 4402, f. 36r, Abbazia delle Tre Fontane, disegno acquerellato della Leggenda di Ansedonia sulla parete sinistra dell’Arco di Carlomagno (BAV); fig. 2 Abbazia delle Tre Fontane, veduta della parete sinistra dell’Arco di Carlomagno con la Leggenda di Ansedonia (D. Ventura-C/A) p. 68 fig. 3 BAV, Barb. lat. 4402, f. 37r, Abbazia delle Tre Fontane, disegno acquerellato della Leggenda di Ansedonia sulla parete destra dell’Arco di Carlomagno (BAV); fig. 4 Abbazia delle Tre Fontane,
veduta della parete destra dell’Arco di Carlomagno con la Leggenda di Ansedonia (D. Ventura-C/A) p. 69 fig. 5 Abbazia delle Tre Fontane, parete destra dell’Arco di Carlomagno, particolare della Leggenda di Ansedonia (D. Ventura-C/A) p. 70 fig. 6 BAV, Barb. lat. 4402, ff. 40v e 41r, Abbazia delle Tre Fontane, disegno acquerellato della decorazione della volta dell’Arco di Carlomagno (BAV); fig. 7 Abbazia delle Tre Fontane, veduta della volta dell’Arco di Carlomagno (D. Ventura-C/A) p. 71 fig. 8 Abbazia delle Tre Fontane, particolare della decorazione della volta dell’Arco di Carlomagno (D. Ventura-C/A) pp. 72-74 figg. 1-4, Santa Maria in Trastevere, mosaico di facciata, veduta d’insieme e dettagli (D. VenturaC/A) p. 75 fig. 1, Santa Maria in Trastevere, mosaico di facciata, le tre vergini di destra (D. Ventura-C/A) p. 77 fig. 1 San Paolo fuori le mura, mosaico dell’abside (da San Paolo fuori le mura 1988) p. 78 fig. 2 San Paolo fuori le mura, vestibolo della sacrestia, testa di san Pietro già nell’abside (da Roma nel Duecento 1991) p. 81 fig. 1 San Paolo fuori le mura, Onorio III, dettaglio del mosaico dell’abside (da San Paolo fuori le mura 1988) p. 82 figg. 4-5 San Paolo fuori le mura, vestibolo della sacrestia, uccelli già nell’abside (Musei Vaticani) p. 83 fig. 6 Grotte Vaticane, uccello, già nell’abside di San Paolo fuori le mura (Fabbrica di San Pietro); figg. 7-8 San Paolo fuori le mura, vestibolo della sacrestia, uccelli già nell’abside (Musei Vaticani) p. 84 figg. 9-10 San Paolo fuori le mura, vestibolo della sacrestia, teste di apostoli già nell’abside (Musei Vaticani) p. 85 fig. 11 San Paolo fuori le mura, mosaico dell’abside, san Giovanni (Musei Vaticani); fig. 12 Grotte Vaticane, testa di apostolo già nell’abside di San Paolo fuori le mura (Fabbrica di San Pietro) p. 86 fig. 13 San Paolo fuori le mura, mosaico dell’abside, angelo (da Roma nel Duecento 1991); fig. 14, San Paolo fuori le mura, mosaico dell’abside: i santi Innocenti, Adinulfo e l’abate Caetani (Musei Vaticani) p. 87 fig. 15 San Paolo fuori le mura, mosaico dell’abside, l’abate Caetani (da Roma nel Duecento 1991) p. 88 fig. 1 Wilpert-Tabanelli, foto acquerellata, icona musiva della Vergine con il Bambino in San Paolo fuori le mura (da Wilpert 1916, III, tav. 119) p. 89 fig. 2 San Paolo fuori le mura, icona musiva della Vergine con il Bambino (da San Paolo fuori le mura 1988) p. 90 fig. 1 San Tommaso in Formis, medaglione musivo dell’ingresso monumentale (K. Queijo) p. 92 fig. 1 San Lorenzo fuori le mura, fregio musivo sull’architrave del portico ovest (K. Queijo); fig. 2 San Lorenzo fuori le mura, fregio musivo sull’architrave del portico ovest: Onorio III e donatore (Archivio C/A) p. 93 figg. 3-4 WRL 9017 e 9018, disegni acquerellati del fregio musivo del portico ovest di San Lorenzo fuori le mura, san Lorenzo e Onorio III con il donatore e Cristo tra una santa e santo Stefano (The Royal Collection © 2012 Her Majesty Queen Elizabeth II) p. 94 fig. 1 San Lorenzo fuori le mura, decorazione a finta cortina nel portico ovest (da Basile 1985); fig. 2 San Lorenzo fuori le mura, veduta del portico ovest con la decorazione a finta cortina riaffiorante dallo strato pittorico tardo duecentesco (D. Ventura-C/A)
p. 95 fig. 1 BAV, Barb. lat. 4423, f. 1r, Crocifissione con Onorio III e Iacobus penitentiarus, già nel Laterano (?) (BAV) p. 96 fig. 1 Santa Maria Nova, volto dell’icona della Vergine duecentesca (ICCD E 28261) p. 98 fig. 1 San Sebastiano fuori le mura, affreschi del cosiddetto oratorio di Onorio III (Archivio PCAS); fig. 2 Wilpert-Tabanelli, foto acquerellata, San Sebastiano fuori le mura, affreschi del cosiddetto oratorio di Onorio III (da Wilpert 1916, IV, tav. 262) p. 99 fig. 3 San Sebastiano fuori le mura, cosiddetto oratorio di Onorio III, Vergine con il Bambino tra due angeli (Archivio PCAS); fig. 4 San Sebastiano fuori le mura, cosiddetto oratorio di Onorio III, profeti in medaglioni (ICCD EK011011) p. 100 fig. 5 San Sebastiano fuori le mura, cosiddetto oratorio di Onorio III, dettaglio della Crocifissione (Archivio PCAS) p. 101 fig. 6 San Sebastiano fuori le mura, cosiddetto oratorio di Onorio III, Cristo nella mandorla (Archivio PCAS); fig. 7 San Sebastiano fuori le mura, cosiddetto oratorio di Onorio III, dettaglio del Cristo nella mandorla (ICCD EK011022) p. 102 figg. 8-9 San Sebastiano fuori le mura, cosiddetto oratorio di Onorio III, velaria e santi Pietro e Paolo (Archivio PCAS) p. 103 fig. 10 San Sebastiano fuori le mura, cosiddetto oratorio di Onorio III, Strage degli Innocenti (Archivio PCAS) pp. 104-106 figg. 1-2 BAV, Barb. lat. 4405, ff. 42v e 49, San Martino ai Monti, oratorio di San Silvestro, decorazione perduta dell’abside (BAV) p. 107 fig. 1 Santa Bibiana, sacrestia, frammento con Onorio III (K. Queijo); fig. 2 BAV, Vat. lat. 5407, f. 56r, Santa Bibiana, ritratto di Onorio III (BAV) p. 108 fig. 3 BAV, Vat. lat. 10577, f. 31r, disegno a matita, Santa Bibiana, decorazione con Onorio III (BAV) pp. 110-112 figg. 1-3 Santa Maria Nova, pannelli con affreschi dalla parete absidale (D. Ventura-C/A) p. 113 fig. 1 ACSP, A. 64ter (Album), f. 10, disegno acquerellato, la facciata di San Pietro in Vaticano (BAV) p. 114 fig. 2 Museo di Palazzo Braschi (inv. 5651), busto di Gregorio IX dalla facciata di San Pietro in Vaticano; fig. 3 Musei Vaticani (inv. 44915), volto di san Luca dalla facciata dell’antico San Pietro in Vaticano p. 115 fig. 4 Mosca, Museo Pushkin (inv. 2858), busto della Vergine dalla facciata di San Pietro in Vaticano p. 116 fig. 5 BAV, Vat. lat. 5407, f. 62r, disegno acquerellato, facciata di San Pietro, san Matteo (BAV) pp. 117-118 figg. 1-2 Casa dei Cavalieri di Rodi, pannelli con la Virgo lactans e santi e frammento ornamentale dalla perduta abside di San Basilio ai Pantani (D. Ventura-C/A) p. 119 fig. 1 Santa Balbina, veduta d’insieme della terza cappella sinistra (D. Ventura-C/A) pp. 119-121 figg. 2-4 Santa Balbina, terza cappella sinistra, dettagli con san Pietro, san Giacomo, san Paolo e san Giovanni Battista e il Cristo del medaglione (D. Ventura-C/A) p. 122 fig. 1 Santa Balbina, veduta d’insieme della terza cappella destra (D. Ventura-C/A) p. 123 figg. 2-3 Santa Balbina, terza cappella destra, dettagli della decorazione dello zoccolo e di una figura di santa (D. Ventura-C/A) p. 124 fig. 1 San Salvatore in Thermis, affreschi della parete sud della cappella nord-occidentale (da Affreschi e frammenti scoperti nella demolizione e sterro dell’antica chiesa di S. Salvatore in Thermis, Biblioteca del Senato, E 49) p. 125 fig. 1 San Silvestro al Quirinale, la Madonna della Catena (da Roma nel Duecento 1991) p. 126 fig. 2 G. Gimignani, disegno preparatorio per il
dipinto con Pio V e il cardinale Alfonso Carafa in adorazione dell’icona della Madonna della Catena (da Fischer Pace 2004) p. 127 fig. 3 San Silvestro al Quirinale, particolare della Madonna della Catena (SBSAEL) p. 128 fig. 1 San Saba, decorazione del portico (D. Ventura-C/A) p. 129 fig. 1 Abbazia delle Tre Fontane, veduta della sala capitolare (D. Ventura-C/A); fig. 2 Abbazia delle Tre Fontane, decorazione della volta e delle pareti del vestibolo tra chiostro e portico orientale (D. Ventura-C/A) p. 130 fig. 1 San Paolo fuori le mura, chiostro, frammenti di decorazione dipinta a velaria (K. Queijo) pp. 131-132 figg. 1-2 Palazzo di piazza Lovatelli, affreschi (G. Alfano-C/A) p. 134 fig. 1 Santa Prassede, sacello di San Zenone, nicchia con la Vergine e il Bambino tra le sante Prassede e Pudenziana (D. Ventura-C/A) p. 135 fig. 2 WRL 8928, disegno acquerellato del mosaico con la Vergine e il Bambino tra le sante Prassede e Pudenziana nel sacello di San Zenone in Santa Prassede (The Royal Collection © 2012, Her Majesty Queen Elizabeth II) p. 136 fig. 1 Santi Quattro Coronati, veduta dell’Aula ‘Gotica’ (V. Antonioli, M. Tralese, G. Zecca, SSPSAE e PM-Roma) pp. 137-140 figg. 1-6 Santi Quattro Coronati, Aula ‘Gotica’, veduta generale e dettagli della volta della campata meridionale (V. Antonioli, M. Tralese, G. Zecca, SSPSAE e PM-Roma) p. 141 fig. 7 Santi Quattro Coronati, Aula ‘Gotica’, pennacchio sud-orientale della campata meridionale (V. Antonioli, M. Tralese, G. Zecca, SSPSAE e PMRoma) pp. 141-144 figg. 8-13 Santi Quattro Coronati, Aula ‘Gotica’, parete occidentale della campata meridionale con la Grammatica e la Geometria e i mesi da Gennaio ad Aprile: veduta generale e dettagli (V. Antonioli, M. Tralese, G. Zecca, SSPSAE e PMRoma) pp. 145-148 figg. 14-19 Santi Quattro Coronati, Aula ‘Gotica’, parete meridionale della campata meridionale con la Musica e l’Aritmetica/Computo e i mesi da Maggio ad Agosto: veduta generale e dettagli (V. Antonioli, M. Tralese, G. Zecca, SSPSAE e PMRoma) pp. 149-150 figg. 20-23 Santi Quattro Coronati, Aula ‘Gotica’, parete orientale della campata meridionale con l’Astronomia e i mesi da Settembre a Dicembre: veduta generale e dettagli (V. Antonioli, M. Tralese, G. Zecca, SSPSAE e PM-Roma) p. 151 fig. 24 Santi Quattro Coronati, Aula ‘Gotica’, veduta generale della parete occidentale della campata settentrionale con Mitra tauroctono e le Virtù (V. Antonioli, M. Tralese, G. Zecca, SSPSAE e PM-Roma) pp. 152-156 figg. 25-30 Santi Quattro Coronati, Aula ‘Gotica’, parete settentrionale della campata settentrionale con Due figure allegoriche e Salomone, la Sobrietà, la Concordia, la Generosità e la Vera Religione: veduta generale e dettagli (V. Antonioli, M. Tralese, G. Zecca, SSPSAE e PM-Roma) pp. 157-160 figg. 31-34 Santi Quattro Coronati, Aula ‘Gotica’, parete orientale della campata settentrionale con il Sole e la Luna, la Carità, il Timor di Dio, l’Amor Celeste e la Giusta emulazione: veduta generale e dettagli (V. Antonioli, M. Tralese, G. Zecca, SSPSAE e PM-Roma) p. 161 fig. 35 Santi Quattro Coronati, Aula ‘Gotica’, parete meridionale della campata meridionale: Leone che azzanna un cervo (V. Antonioli, M. Tralese, G. Zecca, SSPSAE e PM-Roma) p. 163 fig. 36 Santi Quattro Coronati, Aula ‘Gotica’,
parete orientale della campata settentrionale: la Luna (V. Antonioli, M. Tralese, G. Zecca, SSPSAE e PMRoma) pp. 164-168 figg. 37-40 Santi Quattro Coronati, Aula ‘Gotica’, Telamoni (V. Antonioli, M. Tralese, G. Zecca, SSPSAE e PM-Roma) p. 171 fig. 41 Santi Quattro Coronati, Aula ‘Gotica’, frammento di affresco sull’intradosso dell’arco ogivale che divide la campata meridionale da quella settentrionale (V. Antonioli, M. Tralese, G. Zecca, SSPSAE e PM-Roma) p. 173 fig. 42 Santi Quattro Coronati, Aula ‘Gotica’, parete occidentale della campata settentrionale: Mitra tauroctono (V. Antonioli, M. Tralese, G. Zecca, SSPSAE e PM-Roma) p. 175 fig. 43 Santi Quattro Coronati, Aula ‘Gotica’, fregio decorativo (V. Antonioli, M. Tralese, G. Zecca, SSPSAE e PM-Roma) p. 177 figg. 1-2 Santi Quattro Coronati, sala adiacente all’Aula ‘Gotica’, frammenti di affreschi (V. Antonioli, M. Tralese, G. Zecca, SSPSAE e PM-Roma) p. 178 figg. 1-3 Santi Quattro Coronati, sottotetto della torre minore, frammenti di affreschi (V. Antonioli, M. Tralese, G. Zecca, SSPSAE e PM-Roma) p. 179 fig. 1 Santi Quattro Coronati, Sala delle Pentafore, frammenti decorativi (V. Antonioli, M. Tralese, G. Zecca, SSPSAE e PM-Roma) pp. 180-183 figg. 1-3 Santi Quattro Coronati, sala antistante la cappella di San Silvestro, Calendario (V. Antonioli, M. Tralese, G. Zecca, SSPSAE e PMRoma) p. 186 fig. 4 Santi Quattro Coronati, sala antistante la cappella di San Silvestro, velaria (V. Antonioli, M. Tralese, G. Zecca, SSPSAE e PM-Roma) p. 191 figg. 1-2 Santi Quattro Coronati, vedute generali della cappella di San Silvestro (V. Antonioli, M. Tralese, G. Zecca, SSPSAE e PM-Roma) p. 192 figg. 3-5 Santi Quattro Coronati, cappella di San Silvestro, dettagli del registro superiore della parete ovest: Giudizio finale (V. Antonioli, M. Tralese, G. Zecca, SSPSAE e PM-Roma) p. 193 fig. 6 Santi Quattro Coronati, cappella di San Silvestro, dettaglio dell’angolo sud-ovest (V. Antonioli, M. Tralese, G. Zecca, SSPSAE e PMRoma) p. 194 fig. 7 Santi Quattro Coronati, cappella di San Silvestro, parete ovest: Costantino incontra le madri dei fanciulli (V. Antonioli, M. Tralese, G. Zecca, SSPSAE e PM-Roma); fig. 8 Santi Quattro Coronati, cappella di San Silvestro, parete ovest: Costantino sogna i santi Pietro e Paolo (V. Antonioli, M. Tralese, G. Zecca, SSPSAE e PM-Roma) pp. 195-196 figg. 9-10 Santi Quattro Coronati, cappella di San Silvestro, pareti ovest e nord: I messi imperiali intraprendono il viaggio verso il monte Soratte e I messi imperiali salgono sul monte Soratte (V. Antonioli, M. Tralese, G. Zecca, SSPSAE e PM-Roma) pp. 197-198 figg. 11-13 Santi Quattro Coronati, cappella di San Silvestro, parete nord: Papa Silvestro mostra all’imperatore le effigi di san Pietro e san Paolo, Battesimo di Costantino e Donazione di Costantino (V. Antonioli, M. Tralese, G. Zecca, SSPSAE e PMRoma) p. 199 figg. 14-16 Santi Quattro Coronati, cappella di San Silvestro, parete sud: Disputa e miracolo del toro, Invenzione della Vera Croce e Papa Silvestro libera il popolo romano dal drago (V. Antonioli, M. Tralese, G. Zecca, SSPSAE e PM-Roma); fig. 17 Santi Quattro Coronati, cappella di San Silvestro, parete settentrionale p. 200 fig. 18 ÖNB, s. n. 3311, f. 2 disegno con la pianta della cappella di San Silvestro ai Santi Quattro Coronati (ÖNB) p. 201 figg. 19-20 Santi Quattro Coronati, cappella
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di San Silvestro, veduta delle parete meridionale e settentrionale (V. Antonioli, M. Tralese, G. Zecca, SSPSAE e PM-Roma); fig. 21 Santi Quattro Coronati, cappella di San Silvestro, particolare del fregio con Profeti (V. Antonioli, M. Tralese, G. Zecca, SSPSAE e PM-Roma) pp. 202-205 figg. 22-24 Santi Quattro coronati, particolari del fregio con Profeti (V. Antonioli, M. Tralese, G. Zecca, SSPSAE e PM-Roma) p. 207 fig. 25: ÖNB, s. n. 3311, disegno acquerellato con Profeta del fregio nella cappella di San Silvestro ai Santi Quattro Coronati (ÖNB) p. 209 fig. 1 Santi Quattro Coronati, portico della basilica, fregio vegetale dipinto (K. Queijo) p. 211 fig. 1 ÖNB, s. n. 3311, f. 36r, disegno acquerellato della Crocifissione già sulla controfacciata della basilica dei Santi Quattro Coronati (ÖNB) p. 213 fig. 1 Santi Quattro Coronati, controfacciata della basilica, veduta d’insieme della decorazione pittorica, ciclo di san Tommaso Becket (?) (S. Romano) pp. 214-215 figg. 2-4, Santi Quattro Coronati, controfacciata della basilica, dettagli della decorazione pittorica, ciclo di san Tommaso Becket (?) (K. Queijo) p. 216 figg. 1-4 Residenza di San Clemente, saletta nella torre, affreschi con un Cervo, una Cerbiatta, un Leone e un Grifone (S. Romano) p. 217 fig. 5 Residenza di San Clemente, saletta nella torre, dettaglio del Cervo (S. Romano) p. 218 fig. 6 Residenza di San Clemente, saletta nella torre, dettaglio del Leone (S. Romano) p. 219 figg. 1-4 Residenza di San Clemente, decorazione del salone: veduta d’insieme e dettagli (S. Romano) p. 222 fig. 1 Palazzo Vaticano, stanza al primo piano della Torre d’Innocenzo III (Musei Vaticani) p. 223 fig. 2 Palazzo Vaticano, veduta della parete ovest della Stanza d’Innocenzo III o della cicogna all’ammezzato della Torre d’Innocenzo III (Musei Vaticani); fig. 3 Palazzo Vaticano, Torre d’Innocenzo III, particolare della decorazione dello sguancio di una delle finestre-sedile nella parete ovest della Stanza d’Innocenzo III o della cicogna (Musei Vaticani); fig. 4 Palazzo Vaticano, Torre d’Innocenzo III, particolare della decorazione dello sguancio di una delle finestre-sedile nella parete ovest della Stanza d’Innocenzo III o della cicogna (Musei Vaticani) p. 224 fig. 5 Palazzo Vaticano, Torre d’Innocenzo III, velaria della parete est della Stanza d’Innocenzo III o della cicogna (Musei Vaticani); fig. 6 Palazzo Vaticano, Torre d’Innocenzo III, dettaglio della decorazione della parete ovest della Stanza d’Innocenzo III o della cicogna: uccello acquatico (Musei Vaticani) p. 225 fig. 7 Palazzo Vaticano, Stanza della Falda, fregio nello stipite di una porta (Musei Vaticani) pp. 226-227 figg. 1-2 Santa Maria Nova, pannello con la Madonna col Bambino e Santi dal chiostro del convento (D. Ventura-C/A) p. 228 fig. 1 schema ricostitutivo del fregio del portico dei Santi Giovanni e Paolo (da Prandi 1953, 188); fig. 2 Santi Giovanni e Paolo, fregio del portico (K. Queijo) p. 229 fig. 1 Santi Giovanni e Paolo, frammento di decorazione in un ambiente del convento (D. Ventura-C/A) p. 231 figg. 1-2 Santi Giovanni e Paolo, particolare dell’affresco con il Salvatore e gli Apostoli nella navata sinistra della basilica (R. Sigismondi, , SSPSAE e PM-Roma); fig. 3 WRL 9200, disegno acquerellato dell’affresco con il Salvatore e gli Apostoli nella navata sinistra della basilica Santi Giovanni e Paolo (The Royal Collection © 2012, Her Majesty Queen Elizabeth II)
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pp. 232-236 figg. 4-10 Santi Giovanni e Paolo, dettagli dell’affresco con il Salvatore e gli Apostoli nella navata sinistra della basilica (R. Sigismondi, , SSPSAE e PMRoma) p. 239 fig. 1 WRL 9217, disegno acquerellato col primo semestre del Calendario già nel portico della domus templare di Santa Maria de Aventino (The Royal Collection © 2012, Her Majesty Queen Elizabeth II) p. 240 fig. 2 WRL 9219, disegno acquerellato col frammento del secondo semestre del Calendario già nel portico della domus templare di Santa Maria de Aventino (The Royal Collection © 2012, Her Majesty Queen Elizabeth II) pp. 242-244 figg. 1-5 Palazzo Senatorio, frammenti di un ciclo coi Lavori dei Mesi (?) (D. Ventura-C/A) p. 245 fig. 1 San Saba, torre abbaziale, stanza con il ciclo dei Mesi e raffigurazioni allegoriche (D. VenturaC/A) fig. 2 schema della pianta della stanza con il ciclo dei Mesi e raffigurazioni allegoriche nella torre abbaziale di San Saba (D. Ventura-C/A) pp. 246-247 figg. 3-4 San Saba, stanza con il ciclo dei Mesi e raffigurazioni allegoriche nella torre abbaziale, parete sud-occidentale: veduta generale (SettembreDicembre) e dettaglio (Settembre) (D. Ventura-C/A) p. 248 fig. 5 San Saba, stanza con il ciclo dei Mesi e raffigurazioni allegoriche nella torre abbaziale, veduta della parete sud-occidentale con raffigurazioni allegoriche (D. Ventura-C/A) pp. 249-250 figg 1-2 WRL 9203 e 9204, disegni acquerellati, la perduta decorazione di San Lorenzo in Lucina, san Lorenzo distribuisce il tesoro della Chiesa e Martirio di san Lorenzo (The Royal Collection © 2012, Her Majesty Queen Elizabeth II) p. 251 fig. 1 WRL 8934, disegno acquerellato, lunetta con la Vergine e il Bambino tra santo Stefano (?), san Lorenzo (?) e una donatrice in San Lorenzo in Lucina (?) (The Royal Collection © 2012, Her Majesty Queen Elizabeth II) p. 252 fig. 1 WRL 9199, disegno acquerellato, il Cristo con i simboli degli Evangelisti in San Lorenzo in Lucina (?) (The Royal Collection © 2012, Her Majesty Queen Elizabeth II) p. 253 fig. 1 San Lorenzo fuori le mura, perduto medaglione raffigurante un cavaliere nel pavimento (da Muñoz 1944) p. 254 fig. 2 San Lorenzo fuori le mura, pavimento (K. Queijo) p. 255 figg. 1-2 San Lorenzo fuori le mura, perduti dipinti della controfacciata: ciclo di san Lorenzo (da Wilpert 1916, II) p. 256 fig. 3 BAV, Barb. lat. 4403, f. 5, disegno acquerellato con lo schema delle pitture della controfacciata di San Lorenzo fuori le mura (BAV) pp. 257-258 figg. 4-5 San Lorenzo fuori le mura, frammenti dei dipinti della controfacciata, san Giustino e Valeriano (Archivio C/A); fig. 6 WRL 9007, disegno acquerellato, Martirio di san Lorenzo sulla controfacciata di San Lorenzo fuori le mura (The Royal Collection © 2012, Her Majesty Queen Elizabeth II) p. 259 fig. 1 Salvatore Zeri, cromolitografia, BIASA, Racc. Lanc. Roma, vol. 45, tomba di Guglielmo Fieschi in San Lorenzo fuori le mura (BIASA) p. 260 fig. 2 San Lorenzo fuori le mura, perduta decorazione della tomba di Guglielmo Fieschi (da Wilpert 1916, II); fig. 3 WRL 8979, disegno acquerellato con la perduta decorazione della tomba di Guglielmo Fieschi in San Lorenzo fuori le mura (The Royal Collection © 2012, Her Majesty Queen Elizabeth II) p. 261 fig. 4 San Lorenzo fuori le mura, incisione con la perduta decorazione della tomba di Guglielmo Fieschi, Vergine con il Bambino (da Didron-Hudrel 1862)
p. 262 fig. 1 LSA, Drawings, I, f. 97, disegno a penna acquerellato del tabernacolo Capocci, già in Santa Maria Maggiore (LSA) pp. 263-264 figg. 2-5 Vico nel Lazio, collegiata di San Michele Arcangelo, pannello musivo del tabernacolo Capocci, già in Santa Maria Maggiore: veduta d’insieme e dettagli (S. Romano/K. Queijo) p. 265 fig. 1 Santa Maria Domine Rose, fregio della navata (G. Alfano-C/A) p. 266 figg. 1-2 Santi Cosma e Damiano, fregi negli intradossi degli archi delle finestre dell’abside (G. Alfano-C/A) p. 267 fig. 1 Santi Cosma e Damiano, Rotonda, veduta generale (D. Ventura-C/A) p. 268 figg. 2-3 Santi Cosma e Damiano, Rotonda, dettagli dei velaria (D. Ventura-C/A) pp. 269-271 figg. 1-4 Santi Cosma e Damiano, Rotonda, affreschi della nicchia (D. Ventura-C/A) p. 271 fig. 5 Santi Cosma e Damiano, Rotonda, affreschi della nicchia, dettaglio del fregio ornamentale e velarium (D. Ventura-C/A) p. 272 figg. 6-7 Santi Cosma e Damiano, Rotonda, affreschi della nicchia, dettagli: Maria Maddalena e il Convito a casa del Fariseo (D. Ventura-C/A) p. 273 fig. 8 Wilpert-Tabanelli, foto acquerellata, le Marie al Sepolcro nella nicchia della Rotonda ai Santi Cosma e Damiano (PIAC) pp. 274-277 figg. 1-4 Santi Domenico e Sisto, Istituto Angelicum, Crocifisso, veduta d’insieme e particolari (D. Ventura-C/A) p. 279 fig. 1 Santa Prassede, Crocifissione (Archivio C/A) p. 280 figg. 1-2 “Torre” presso San Crisogono, frammenti di affreschi (R. Sigismondi-C/A) p. 281 figg. 3-4 “Torre” presso San Crisogono, frammenti di affreschi (da Mancini 1923-1924) p. 282 fig. 5 “Torre” presso San Crisogono, frammenti di affreschi (R. Sigismondi-C/A) p. 283 fig. 1 Abbazia delle Tre Fontane, Arco di Carlomagno, Vergine e il Bambino tra santi (D. Ventura-C/A); fig. 2 BAV, Barb. lat. 4402, f. 35, Abbazia delle Tre Fontane, disegno acquerellato della lunetta con la Vergine e il Bambino tra santi nell’Arco di Carlomagno (BAV) p. 284 fig. 3 Abbazia delle Tre Fontane, Arco di Carlomagno, dettaglio della Vergine e il Bambino tra santi (D. Ventura-C/A) p. 285 figg. 1-2 Sant’Agnese fuori le mura, decorazione nel sottotetto sulla parete absidale: veduta d’insieme e dettaglio (D. Ventura-C/A) pp. 286-290 figg. 3-11 Sant’Agnese fuori le mura, decorazione nel sottotetto sulla parete di controfacciata: veduta d’insieme e dettagli (D. Ventura-C/A) p. 291 fig. 12 Sant’Agnese fuori le mura, sottotetto, decorazione nello spessore dell’oculo sulla parete di controfacciata (D. Ventura-C/A); fig. 13 Sant’Agnese fuori le mura, sottotetto, fregio sulla parete di controfacciata (D. Ventura-C/A) p. 292 fig. 14 V. Vespignani, incisione, BIASA, Racc. Lanc., Roma XI, 44, f. 43, parete di controfacciata della basilica di Sant’Agnese (BIASA) p. 293 figg. 15-16 Sant’Agnese fuori le mura, sottotetto, fregio a mensoloni sulla parete absidale (D. VenturaC/A) p. 294 fig. 1 Santa Passera, abside (Archivio C/A); fig. 2 WRL 8936, disegno acquerellato con gli affreschi della conca absidale di Santa Passera (The Royal Collection © 2012, Her Majesty Queen Elizabeth II) p. 295 fig. 3 Santa Passera, particolare dell’abside, san Pietro e san Giovanni Evangelista (Archivio C/A) pp. 296-297 figg. 1-3 Istituto Santa Margherita, veduta d’insieme e dettagli della Crocifissione dal convento di Santa Balbina (D. Ventura-C/A) p. 299 fig. 1 Santa Balbina, Crocifissione (D. VenturaC/A)
p. 301 fig. 1 Santi Cosma e Damiano, Vergine Odigitria (G. Alfano-C/A) p. 303 fig. 1 San Francesco a Ripa, icona di san Francesco (Archivio C/A) pp. 305-307 figg. 1-3 Convento di Sant’Alberto, veduta d’insieme e particolari del Crocifisso (SBASR) pp. 308-309 figg. 1-5 Palazzo Saragona-Albertoni, fregi del salone a “L” al primo piano (G. Alfano-C/A) p. 310 fig. 6 Palazzo Saragona-Albertoni, fregio della sala al secondo piano (G.Alfano-C/A) p. 311 fig. 1 Santa Maria in Trastevere, mosaico della facciata, vergine di destra (D. Ventura-C/A) pp. 312-315 figg. 1-4 Palazzo Senatorio, affreschi dell’Aula Consiliare: veduta generale e dettagli (D. Ventura-C/A) p. 316 figg.1-2 Fabbrica di San Pietro, frammenti di affresco con san Pietro e san Paolo dal portico dell’antica basilica di San Pietro in Vaticano (Fabbrica di San Pietro) pp. 317 figg. 3-4 ACSP, A. 64 ter (Album), ff. 41 e 39, disegni acquerellati con Storie dei santi Pietro e Paolo dal portico dell’antica basilica di San Pietro in Vaticano: Caduta di Simon Mago e Domine quo vadis?, Crocifissione di Pietro (BAV) p. 318 fig. 5 ACSP, A. 64 ter (Album), f. 43, disegni con Storie dei santi Pietro e Paolo dal portico dell’antica basilica di San Pietro in Vaticano: Sepoltura di Pietro (BAV) p. 319 figg. 6-8 ACSP, A. 64 ter (Album), ff. 37, 44 e 48, disegni con Storie dei santi Pietro e Paolo dal portico dell’antica basilica di San Pietro in Vaticano: i Corpi degli apostoli vengono gettati nel pozzo, Decollazione di Paolo e i Corpi degli apostoli sono sepolti in San Sebastiano (BAV) pp. 319-320 figg. 9-10 ACSP, A. 64 ter (Album), ff. 40 e 46 , disegni con Storie di san Silvestro e Costantino dal
portico dell’antica basilica di San Pietro in Vaticano: Papa Silvestro mostra le immagini degli Apostoli a Costantino e Sogno di Costantino (BAV) pp. 322-331 figg. 1-22, Sancta Sanctorum, veduta generale e dettagli degli affreschi (Musei Vaticani); pp. 332-338 figg. 23-29, Sancta Sanctorum, veduta generale e dettagli dei mosaici (Musei Vaticani) pp. 341-343 figg. 1-5 Museo della basilica di San Paolo fuori le mura, clipei con ritratti dei papi Anacleto, Sisto, Telesforo e Igino (D. Ventura-C/A) p. 345 figg. 1-2 BAV, Barb. lat. 4406, ff. 137r e 138r, San Paolo fuori le mura, disegni acquerellati con i mosaici sui piedritti dell’arco trionfale (BAV) p. 346 fig. 1 Depositi dei Musei Vaticani, pannello con frammento di fregio già nella Stanza della Falda (Musei Vaticani) pp. 346-347 figg. 2-3 Depositi dei Musei Vaticani, pannelli con frammenti di fregi già nel Cubicolo di Niccolò V (Musei Vaticani) pp. 347-348 figg. 4-5 Palazzo Apostolico Vaticano, fregio della Sala vecchia degli Svizzeri (Musei Vaticani) p. 348 fig. 6 Palazzo Apostolico Vaticano, fregio della Sala vecchia degli Svizzeri (da Cornini-De Strobel 1996, 33) p. 349 fig. 7 Palazzo Apostolico Vaticano, fregio della Sala dei Chiaroscuri (Musei Vaticani); fig. 8 Musei Vaticani, ALRP, protocollo 1957, acquerello del fregio della Sala dei Chiaroscuri realizzato da Enrico Gessi (Musei Vaticani) p. 350 fig. 9 Musei Vaticani, ALRP, protocollo 2803/55, acquerello del fregio della Seconda Sala dei Paramenti o del Concistorio Segreto realizzato da Giuseppe Fammilume (Musei Vaticani) p. 351 fig. 10 Deposito dei Musei Vaticani, pannello con frammento di velarium dalla Cappella niccolina (Musei Vaticani)
p. 352 fig. 11 Deposito dei Musei Vaticani, pannello con frammenti di velarium dalla Stanza d’Innocenzo III nella Torre d’Innocenzo III (Musei Vaticani) pp. 353-354 figg. 1-2 Abbazia delle Tre Fontane, sacrestia, Natività e Incoronazione della Vergine (D. Ventura-C/A) pp. 355-356 figg. 3-4 Abbazia delle Tre Fontane, sacrestia, particolari dell’Incoronazione della Vergine (D. Ventura-C/A) pp. 356-357 figg. 5-6 Abbazia delle Tre Fontane, sacrestia, particolari della Natività (D. Ventura-C/A) p. 358 fig. 1 Santi Quattro Coronati, cappella di Santa Barbara, veduta della volta (D. Ventura-C/A) pp. 359-361 figg. 2-5 Santi Quattro Coronati, cappella di Santa Barbara, Storie di santa Barbara (D. VenturaC/A) p. 362 figg. 6-7 Santi Quattro Coronati, cappella di Santa Barbara, particolari della decorazione della volta (D. Ventura-C/A) p. 363 fig. 8 Santi Quattro Coronati, cappella di Santa Barbara, particolare delle Storie di santa Barbara: Dioscuro a cavallo (?) (D. Ventura-C/A) p. 365 fig. 1 San Lorenzo in Damaso, Madonna Advocata (Archivio C/A) pp. 367-372 figg. 1-8 San Saba, affreschi della cosiddetta “quarta navata” (D. Ventura-C/A) pp. 373-374 figg. 1-3 San Gregorio Nazianzeno, Vergine con il Bambino e santi: veduta generale (G. AlfanoC/A) e particolari (da Boccardi Storoni 1987) p. 375 fig. 1 Santa Balbina, la Vergine con il Bambino nella terza cappella sinistra (D. Ventura-C/A) pp. 377-381 figg. 1-4 San Silvestro in Capite, veduta d’insieme e particolari del pannello con la Crocifissione dal convento (D. Ventura-C/A)
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Finito di stampare nel mese di Marzo 2012