L’IDEALE DELLA CITTA’ IDEALE Joseph di Pasquale
F
in dal suo archetipo fondativo, la Gerusalemme Celeste, tutte le epoche passate nella cultura Occidentale hanno prodotto una propria versione della città ideale come espressione della tensione verso la costruzione di un mondo e di una città migliori stabilendo un parallelo tra estetica urbana e perfezione sociale. E che dire della nostra epoca? Quali sono i nostri ideali? Qual è la nostra visione ideale della città e della società? Riflettendo su questo tema mi chiedevo se sia l’architettura l’ambito nel quale bisogna cercare la narrazione della “città ideale” dei nostri tempi. La risposta è stata negativa ed è probabilmente questa la principale differenza rispetto al passato: il racconto della città del futuro (e quindi della società del futuro) ha cambiato narratore: non sono più gli architetti o gli urbanisti che raccontano e lanciano visioni sul mondo di domani. Il loro posto è stato preso dai profeti delle nuove tecnologie, di internet, del mondo digitale. Nella nostra società liquida che, come diceva il dottor Emmett Brown nel film Ritorno al Futuro, ha “grossi problemi con la forza di gravità” (da qui
8 l’AI 139
evidentemente la nostra ossessione per la “sostenibilità”), l’immagine del futuro non può venire da ciò che è pesante, dalla pietra, da ciò che è stabile e che tende all’eternità. E’ invece dalla “leggerezza”, cioè dall’immateriale, dal temporaneo, da ciò che appare non impegnativo e sempre reversibile, dal digitale insomma che arriva la promessa del futuro. Sono quindi i giganti senza peso del virtuale che ci raccontano come vivremo domani, che stanno cambiando anche “pesantemente” i nostri comportamenti, secondo un processo di creazione del consenso che non è più didattico educativo ma sottilmente induttivo. Ma se in nostri comportamenti sono in una fase di profonda trasformazione, le sembianze della città non sono però cambiati in modo corrispondente, e nemmeno è ancora emersa un’immagine sintetica della città corrispondente a questo nuovo racconto della società futura. Tutte le app che il mondo digitale potrà produrre non riusciranno mai a dare sostanza visibile e simbolica a questa speranza di una città rinnovata, tecnologica, sicura, comoda, bella, in armonia con l’ambiente, che faciliti lo stabilirsi
di relazioni umane ricche ed edificanti, ben governata, dove tutti possano prosperare e perseguire la propria felicità è in fondo il grande racconto della nostra civiltà Occidentale globalizzata. L’unica tecnologia che può soddisfare questa speranza profondamente umana è l’architettura. Ma per tornare ad avere autorevolezza nei confronti delle altre nuove tecnologie contemporanee deve rinnovarsi a sua volta affrontando la città in modo nuovo. Da molti anni l’unica novità in urbanistica è una novità in negativo ed è la critica all’urbanistica razionalista e alla sua interpretazione funzionalista della città: lo zooning. Quelli che erano ai tempi i simboli della modernità, la divisione funzionale dei quartieri, le grandi strade urbane che li collegavano, l’edilizia e gli spazi aperti si sono trasformati negli incubi della nostra contemporaneità: il traffico, lo smog, lo squallore delle periferie senza identità, i centri storici disabitati. Ma a questa critica non corrisponde la capacità di andare oltre e di elaborare una visione originale della città del futuro. La risposta critica al razionalismo non può certo essere un ritorno sic et simpliciter
all’urbanistica ottocentesca, al disegno dei tracciati viari e alla costruzione delle cortine edilizie. Mi sento in questo senso intellettualmente obbligato a difendere la tradizione moderna in urbanistica, proprio in quella che fu la sua aspirazione originaria di pianificare in modo unitario la città. E’ da qui che occorre riprendere il discorso, consapevoli degli errori fatti in termini di specializzazione funzionale e di negazione del linguaggio urbano, ma recuperando assolutamente l’idea di un organismo urbano progettato in modo unitario superando il limite del singolo edificio, magari in modo graduale: un intero isolato, un intero quartiere, un’intera città. Oggi abbiamo gli strumenti culturali e soprattutto le tecnologie per progettare la città come un singolo organismo. Non solo è possibile ma è anche auspicabile in termini di sostenibilità. In natura, l’aggregazione di organismi viventi in organismi unitari sempre più grandi e complessi è stata la strada maestra dell’evoluzione a causa della sua “convenienza biologica”, vale a dire della minore dispersione di risorse e delle conseguenti maggiori probabilità di successo. Allo
Joseph di Pasquale, Drone City (photoshop collage)
stesso modo progettare oggi un intero quartiere come un unico organismo urbano è garanzia di sensibili economie proprio in termini di economia degli spostamenti, consumo di risorse e di energia. Muoversi in un unico organismo urbano significa potersi spostare in modo più efficiente. L’auto privata (ibrida o elettrica) verrà utilizzata per gli spostamenti esterni. Già oggi c’è la tendenza a spostarsi all’interno della città senza usare l’auto privata, ma siamo costretti a farlo con continui cambi modali: ascensore, strada, autobus, metropolitana, e poi ancora strada marciapiede e ascensore. Enormi inefficienze dovute al fatto che tutto il sistema dei trasporti è pensato e progettato per singole parti separate e non in modo unitario. Perché ad esempio non posso entrare in ascensore e invece di selezionare un piano selezionare una zona della città o il teatro o il cinema o lo stadio? E perché invece di entrare in ascensore non posso pensare che sia direttamente una parte della mia casa a spostarsi e a portarmi dalla parte opposta della città mentre leggo comodamente le mie mail o mentre continuo a lavorare sul mio
portatile ? Pensiamo a cosa potrebbe significare ad esempio in termini di risparmio energetico avere un’unica centrale di produzione e gestione termica e frigorifera per un intero quartiere. Già oggi per una smart-grid si parla di risparmi energetici vicini al 40%. Alla scala del quartiere o della città potrebbero essere di gran lunga più elevati. Oppure pensiamo ai vantaggi della creazione di un microclima generale per un intero quartiere o per l’intera città: un unico involucro che ridurrebbe di centinaia di volte le superfici disperdenti e i dispositivi di regolazione e di gestione. Occorre acquisire la consapevolezza della grande opportunità che abbiamo oggi di far evolvere le nostre città in una direzione di maggiore efficienza non solo energetica ma anche e soprattutto sociale e relazionale. Ci sono enormi porzioni di tessuto urbano esausto nel pieno delle nostre periferie che sono oggi da rinnovare e da trasformare. La crisi sta terminando e la finanza torna ad interessarsi alla città da rigenerare. Sarebbe davvero anacronistico riproporre per queste grandi parti del tessuto urbano dei
quartieri ottocenteschi. Sarebbe come sostituire oggi la nostra vecchia automobile a benzina con una carrozza a cavalli. No, e i primi che se ne devono convincere sono proprio gli architetti. E mi riferisco in modo particolare a quei colleghi che ricoprono ruoli nelle istituzioni e negli organi di governo delle nostre città, nelle commissioni urbanistiche e negli assessorati all’urbanistica, alla mobilità e alle rigenerazione urbana. E’ su di essi che ricade la principale responsabilità nell’indirizzare e incoraggiare i progettisti a tentare strade nuove, a cercare il dialogo con la città storica non per tornare indietro ma per farla evolvere verso un futuro migliore. La città e a maggior ragione le nostre periferie non devono e non possono temere il nuovo. Non possono rischiare di imbalsamare il loro squallore nel tentativo anacronistico di rincorrere una vaga memoria di un passato che in quelle zone non è mai esistito. La città viva delle periferie ha l’obbligo di guardare in avanti, consapevole che la propria tradizione è la tradizione del moderno, aperta cioè all’innovazione, alla realizzazione di grandi organismi urbani uni-
tari, che propongano relazioni urbane e sociali rinnovate e generative. In questo slancio coraggioso ma consapevole sì che possiamo e dobbiamo ispirarci alla storia delle nostre città: se chi ci ha preceduto avesse rinunciato ad attuare concretamente il rinnovamento urbano per realizzare delle porzioni concrete del loro ideale di città, oggi noi non avremmo i centri storici di Venezia, Firenze, Siena, Roma, Urbino, Mantova, e così via. Abbiamo quindi di fronte a noi una grande scommessa come architetti, come cittadini e come intellettuali: partire dalle nostre periferie e da ciò che di positivo ci lascia il sogno urbanistico del razionalismo, per trasformare le grandi parti ormai esauste del tessuto urbano in nuovi centri irraggiatori di energia urbana, altrettante prefigurazioni della una nuova tecnologia urbana dei quartieri e delle città-organismo, una città tecnologica e digitale per una società tecnologica e digitale, in equilibrio con l’ambiente, che materializzi con la propria immagine urbana il desiderio e la speranza dell’epoca storica a cui apparteniamo di costruire il proprio ideale di città ideale. l’AI 139 9
L’IDEALE DE LA VILE IDEALE
1. Gerusalemme Celeste (Medieval representation) 2. Utopia Island illustration for Tommaso Moro’s Utopia (1516) 3. Piero della Francesca, La città ideale, 1480
Joseph di Pasquale
D
epuis son archétype, à savoir la Jérusalem Céleste, dans la culture occidentale chaque époque du passé a produit sa propre version de la ville idéale comme expression de l’aspiration à bâtir un monde et une ville meilleurs, en faisant un parallèle entre esthétique urbaine et perfection sociale. Et que dire de notre époque ? Quels sont nos idéaux ? Quelle est notre vision idéale de la ville et de la société ? En y réfléchissant, je me demandais si l’architecture est bien le domaine dans lequel nous devons chercher le récit de la “ville idéale” de notre époque. La réponse a été négative, et c’est probablement là la principale différence avec le passé : le récit de la ville de demain (et par conséquent de la société de demain) a changé de narrateur : ce ne sont plus les architectes ou les urbanistes qui racontent et qui lancent les visions du monde de demain. Ils ont été remplacés par les prophètes des nouvelles technologies, d’Internet et de l’univers numérique. Dans notre société liquide qui, comme disait le docteur Emmett Brown dans le film Retour vers le futur, a “de gros problèmes avec la force de pesanteur” (de là évidemment notre obsession pour la “durabilité”), l’image du
futur ne peut venir de ce qui est lourd, de la pierre, de ce qui est permanent et tend à l’éternité ; mais c’est en revanche de la “légèreté”, c’est-à-dire de l’immatériel, du temporaire, de ce qui apparaît sans importance et toujours réversible, du numérique en somme, qu’arrive la promesse du futur. Ce sont par conséquent les géants sans poids du virtuel qui nous racontent comment nous vivront dans le futur, qui sont en train de changer même “lourdement” nos comportements, selon un processus de création du consensus qui n’est plus didactique et éducatif, mais subtilement inductif. Mais si nos comportements connaissent une phase de profonde transformation, l’apparence de la ville n’a pas changé de la même manière, et aucune image synthétique de la ville correspondant à ce nouveau récit de la société future n’est apparue. Toutes les applications que le monde numérique sera en mesure de produire ne parviendront jamais à donner une substance visible et symbolique à cette espérance d’une ville renouvelée, technologique, sûre, confortable, belle, en harmonie avec l’environnement, qui favorise l’instauration de relations humaines riches et constructives, bien gouvernée, où chacun peut prospérer
4 10 l’AI 139
1
et chercher le bonheur, ce qui est au fond le grand récit de notre civilisation globale d’aujourd’hui. La seule en mesure de répondre à cette espérance profondément humaine est l’architecture. Mais pour avoir de l’autorité à l’égard des autres nouvelles technologies contemporaines, elle doit se renouveler elle aussi, avec une nouvelle approche de la ville. Depuis de nombreuses années, la seule nouveauté en matière d’urbanisme est une nouveauté négative, ainsi que la critique qui est faite à l’urbanisme rationaliste et à son interprétation fonctionnaliste de la ville : le zonage (ou zoning). Ce qui était à l’époque les symboles de la modernité, comme la division fonctionnelle des quartiers, les grandes routes urbaines qui les relaient, la construction et les espaces ouverts, est devenu le cauchemar de notre époque contemporaine : la circulation, le smog, la misère des banlieues sans identité, les centres historiques déshabités. Mais cette critique n’est pas compensée par la capacité d’aller plus loin et d’élaborer une vision originale de la ville de demain. La réponse critique au rationalisme ne peut certainement pas être un retour pur et simple à l’urbanisme du XIXe siècle, au tracé des rues et à la construction des façades des bâtiments. En ce
5
2
sens, je me sens intellectuellement obligé de défendre la tradition moderne en matière d’urbanisme, précisément dans ce qui fut son aspiration d’origine à planifier la ville de façon unifiée. C’est à partir de là qu’il faut reprendre le discours, conscients des erreurs commises en termes de spécialisation fonctionnelle et de déni du langage urbain, mais en récupérant absolument l’idée d’un organisme urbain conçu de façon unifiée, en dépassant la limite du bâtiment et si possible, de manière progressive : un bloc entier, un quartier entier, une ville entière. Aujourd’hui nous avons les outils culturels et, surtout, les technologies pour concevoir la ville comme un seul organisme. Non seulement c’est possible, mais c’est également souhaitable en termes de durabilité. Dans la nature, l’agrégation d’organismes vivants en organismes unitaires de plus en plus grands et de plus en plus complexes a été la voie royale de l’évolution en raison de l’“avantage biologique” que cela représente, c’est-à-dire d’une moindre dispersion de ressources et donc, des plus grandes probabilités de réussite. De la même manière, concevoir aujourd’hui un quartier entier comme un seul organisme urbain est une garantie d’économies im-
6
3 portantes, précisément en termes de déplacements, de consommation de ressources et d’énergie. Se déplacer dans un seul organisme urbain signifie pouvoir se déplacer de façon plus efficace. La voiture privée (hybride ou électrique) sera utilisée pour les déplacements à l’extérieur. Aujourd’hui, il y a déjà une tendance à se déplacer dans la ville sans utiliser la voiture privée, mais nous sommes obligés de le faire avec des correspondances modales continue : ascenseur, rue, autobus, métro, puis de nouveau rue, trottoir et ascenseur. D’énormes pertes d’efficacité dues au fait que l’ensemble du système de transports est conçu pour des tronçons séparés et non de façon unifiée. Par exemple, pourquoi ne puis-je pas entrer dans un ascenseur et au lieu de sélectionner un étage, ne puis-je pas sélectionner un quartier de la ville ou le théâtre ou le cinéma ou le stade ? Et pourquoi au lieu d’entrer dans l’ascenseur, ne pourrais-je pas imaginer que c’est directement une partie de ma maison qui se déplace et me conduit de l’autre côté de la ville pendant que je lis confortablement mes courriels ou que je continue de travailler sur mon portable ? Imaginons par exemple ce que pourrait signifier en termes d’économies
4. Map of Palmanova (Italy), 1593 5. Veri di Bartolomeo Dal Bene, Utopia Civitas, 1609 6. Laputa Flying City, illustration for Johnatan Swift’s Gulliver Travels (1726) 7. Charles Fourier, Phalanstère, ca. 1822 8. Robert Owen, New Harmony, 1825
7
d’énergie, avoir une seule centrale de production et de gestion thermique et réfrigérante pour un même quartier. Aujourd’hui, pour un réseau de distribution d’électricité “intelligent” (smart grid), nous parlons déjà d’une économie d’énergie de près de 40 %. À l’échelle du quartier ou de la ville, elle pourrait être nettement plus importante. Ou bien, imaginons les avantages que présenterait la création d’un microclimat général pour tout un quartier ou pour toute la ville : une unique enveloppe qui réduirait des centaines de fois les surfaces de dispersion et les dispositifs de régulation et de gestion. Nous devons prendre conscience de la grande opportunité que nous avons aujourd’hui de faire évoluer nos villes dans la direction d’une plus grande efficacité non seulement en termes d’énergie, mais aussi et surtout sur le plan social et relationnel. Il y a d’énormes portions de tissu urbain épuisé au cœur de nos banlieues qui sont maintenant à rénover et à transformer. La crise touche à sa fin et la finance s’intéresse de nouveau au renouvellement urbain. Il serait vraiment anachronique de re-proposer des quartiers de style XIXe siècle à ces grandes parties de tissu urbain. Ce serait un peu comme remplacer notre vieille automo-
bile à essence par une voiture tirée par des chevaux. Non, et les premiers qui doivent s’en convaincre sont justement les architectes. Je me réfère en particulier aux confrères qui jouent un rôle dans les institutions gouvernementales et dans les collectivités locales de nos villes, dans les commissions d’urbanisme et dans les secrétariats à l’urbanisme, à la mobilité et à la régénération urbaine. C’est sur eux que retombe la principale responsabilité, celle d’orienter et d’encourager les concepteurs à entreprendre de nouvelles voies, à chercher le dialogue avec la ville historique non pas pour revenir en arrière, mais pour la faire évoluer vers un avenir meilleur. La ville, et à plus forte raison nos banlieues, ne doivent pas, et ne peuvent pas, redouter la nouveauté. Elles ne peuvent pas risquer de momifier leur misère en tentant de façon anachronique de retrouver un vague souvenir d’un passé qui n’a jamais existé dans ces endroits-là. La ville vivante des banlieues a l’obligation d’aller de l’avant, consciente que sa tradition est la tradition du moderne, c’està-dire ouverte à l’innovation, à la réalisation de grands organismes urbains unitaires qui
proposent des relations urbaines et sociales renouvelées et génératives. C’est dans cet élan courageux mais conscient que nous pouvons, et que nous devons, nous inspirer de l’histoire de nos villes : si ceux qui nous ont précédé avaient renoncé à mettre concrètement en œuvre le renouvellement urbain pour réaliser des portions concrètes de leur ville idéale, nous, aujourd’hui, nous n’aurions pas les centres historiques de Venise, de Florence, de Sienne, de Rome, d’Urbino, de Mantoue, etc. Donc en tant qu’architectes, en tant que citoyens et en tant qu’intellectuels, nous nous trouvons devant un grand défi : partir de nos banlieues et de ce qu’il y a de positif dans le rêve du rationalisme urbain, pour transformer les grandes parties désormais épuisées du tissu urbain en nouveaux centres qui irradient l’énergie urbaine, en autant de préfigurations d’une nouvelle technologie urbaine des quartiers et des cités-organismes, en une ville technologique et numérique pour une société technologique et numérique, en harmonie avec l’environnement, qui matérialise avec son image urbaine le désir et l’espérance de construire son propre idéal de ville idéale de l’époque historique à laquelle nous appartenons.
8 l’AI 139 11
THE IDEAL OF THE IDEAL CITY Joseph di Pasquale
E
ver since its founding archetype, Heavenly Jerusalem, every age in Western culture has had its own version of the ideal city embodying the notion of constructing a better world and better city, creating a parallel between urban aesthetics and social perfection. So, what about our age? What are our ideals? What is our ideal vision of a city and society? Thinking about this issue, I wondered whether architecture is really the realm in which we need to look for the “ideal city” of our age. The answer is no and that is probably the main difference compared to the past: the story of the city of the future (and, hence, of society of the future) has a different narrator: it is no longer architects and town-planners who talk about and launch visions of the world of tomorrow. They have forfeited this position to the prophets of new Internet technology and the digital world. In our liquid society, which, as Dr Brown said in the film Back to the Future, has “big problems with the force of gravity” (which probably explains our obsession with “sustainability”), our image of
9 the future cannot come from anything as heavy as stone, from things that are stable and tend towards the infinite. In contrast, it is “lightness” (i.e. the immaterial or temporary, things that seem to be less definitive and more reversible or, in other words, the digital world) that holds the key to the future. So, it is the weightless giants of virtual reality who are telling us how we will live in the future, who are also having a “heavy” impact on our behaviour through a process of creating consensus, which is no longer instructive or educational but subtly inductive. But whereas our behavioural patterns are going through a period of deep transformation, the physical appearance of the city has not changed in any corresponding way, and a synthetic image of the city corresponding to this new narrative about society of the future has not even emerged yet. All the apps the digital world could possibly produce will never give visible-symbolic substance to this hope for a brand-new kind of technological, safe, convenient and beautiful city in harmony with the environment, which encourages rich and edifying human relations
9. Le Corbusier, Chandigarh (India), urban plan, 1952 10. Lucio Costa, Oscar Niemeyer, Roberto Burle Marx, aerial view of Brasilia (Brazil), 1956-1960 11. Roger Anger, Auroville (India), 1968-in progress 12. Foster+Partners, Masdar (Abu Dhabi), 2006-in progress 13. Robert Zemeckis, Back to the Future (screenshot),1985 14. Illustration for Blade Runner (1982) 12 l’AI 139
that are well controlled, so that everybody can prosper and seek happiness for themselves. Nevertheless, this remains the great narrative of our Western globalised civilisation. The only kind of technology that can satisfy this deeply human aspiration is architecture. But if it is to regain its authority in relation to other new contemporary technologies, it must, in turn, renew itself so that it can tackle our cities in a new way. For a number of years now, the only innovation in town-planning has been negative or, in other words, criticism of rationalist town-planning and its functionalist interpretation of the city: zoning. What once used to be seen as symbols of modernity, such as the functional division of neighbourhoods and big inner-city streets connecting them together, building enterprises and open spaces, have turned into the nightmares of our age: traffic, smog, squalor in suburbs with no identity, and uninhabited city centres. But this kind of criticism has not been matched by an ability to take things forward and devise an original vision of the city of the future. The critical response to rationalism cannot be a sic et
simpliciter return to 19th-century town-planning, designing roads and constructing new building fronts. In this respect, I feel intellectually obliged to defend modern tradition in town-planning, specifically its original aspiration to plan the city in a unitary manner. This is what we need to start from, bearing in mind the mistakes that have been made in terms of functional specialisation and a negative attitude to urban language, while most definitely reviving the idea of an urban organism designed in a unitary way and moving beyond the bounds of individual buildings, possibly on a gradual basis: first an entire block, then an entire neighbourhood and finally an entire city. We now have the cultural and, above all, technological means to design cities like individual organisms. This is not just possible, but also desirable in terms of sustainability. In nature, the way living organisms group together into increasingly larger and more complex unitary organisms is the path evolution has taken in accordance with “biological convenience”, i.e. less wastage of resources and the greater likelihood of success it entails.
12
10 In the same way, designing an entire neighbourhood like one single urban organism will, nowadays, result in notable savings in terms of movement and the consumption of resources and energy. Moving as one single urban organism means being able to move around more efficiently. Private cars (hybrid or electric) will be used for transportation outside the city and there is already a tendency to move around within the city without using our own car, although this often means we are forced to constantly change our means of transport: lift, road, bus, underground, walkway and escalator. This is incredibly inefficient because the entire transport system is devised and designed in separate parts and not as a unitary whole. Why, for example, can’t we enter a lift and, instead of choosing a floor, select an area of the city or a theatre, cinema or stadium? And, instead of even entering a lift, why can’t part of my own home actually move and take me to some other part of the city while I conveniently read my emails or carry on working at my laptop? Imagine what it might mean, for example, in terms of ener-
13
11 gy-saving if there was just one single power unit for heating/ cooling an entire neighbourhood. There is already talk of a smart-grid allowing approximately 40% savings on energy. These figures would be much higher on the scale of a neighbourhood or city. Imagine the benefits from creating a general microclimate for an entire neighbourhood or entire city: one single enveloping shell reducing the quantity of wasteful surfaces or number of control/management devices required by a hundredfold or more. We need to realise just what a great opportunity we have today to develop our cities along the lines of greater efficiency, not only in terms of energy but also, and above all, on a social-relational level. Huge sections of the urban fabric right in the heart of our suburbs need to be regenerated and transformed. The recession is almost over and finance is once again beginning to focus on regenerating the city. It would be truly outmoded to propose 19th-century style neighbourhoods for these large sections of the urban fabric. It would be like replacing our old-fashioned
petrol-driven cars with horse-drawn carriages. That would be wrong and architects should be the first to realise it. I am specifically referring to those colleagues with institutional roles, who are involved in the government of our cities, with places on town-planning committees or working as commissioners for town-planning, mobility and urban generation. They have the greatest responsibility in directing and encouraging architectural designers to try out new approaches and attempt to interact with historical cities not with a view to going back in time, but to help them evolve towards a better future. Our cities and, even more so, our suburbs must not and cannot be afraid of the new. They cannot afford to wallow in their current state of squalor as part of an outmoded attempt to rejuvenate some kind of vague memory of a past that never really existed in those areas. Cities and suburbs must look ahead, realising that their own tradition comes from modernity or, in other words, an openness to innovation and the creation of giant unitary urban organisms fostering renewed
and regenerated urban-social relations. If we are brave and conscientious enough to work in this direction, then we can, and indeed must, aspire towards what our cities were in the past; if those who came before us had not dared to actually regenerate the urban environment to create real portions of their ideal city, then we would not have city centres like those of Venice, Florence, Siena, Rome, Urbino and Mantua etc. This means we are now facing a great challenge as architects, city folk and intellectuals: we must begin with our suburbs and the positive legacy the urbanistic dream of rationalism left us, so that we transform large and now dilapidated sections of the urban fabric into new centres radiating with urban energy and pointing towards a new technological vision of the city composed of neighbourhoods and city-organisms, a technological/digital city for a technological/digital society, in tune with the environment, whose very image embodies the hope and desire of the age in which we live as it attempts to construct its own ideal of an ideal city.
14 l’AI 139 13