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La Fenice Rassegna Martinista

Il rito

Iperion S:::I:::I::: - Loggia "Silentium" - Collina di Pescara

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Arriverà il tempo, in questa o in un 'altra vita, Arriverà il tempo in cui quel frutto coglieremo per un 'altra volta Arriverà il tempo in cui quel dono ci infonderà la panica visione

(L Valentini, Il volo dell'Ibis)

Risulta complesso parlare del “rito” senza fare alcun riferimento al “ sacro ” a cui il rito è strettamente connesso.

Mircea Eliade, studioso rumeno di storia delle religioni, a proposito del sacro parte da una definizione per esclusione, oppositiva: “il sacro presuppone la netta distinzione da ciò che sacro non è, dal profano1” .

Partendo da questa considerazione e volendo rimanere al nostro argomento cercherò un approccio più antropologico.

A partire dalle epoche più remote, fin da quando l’uomo ha cominciato a confrontarsi con l’ambiente circostante, con la Natura e con gli astri del cielo, egli ha ritenuto queste creazioni e la presenza animatrice che le ha plasmate, opera di un essere “altro” , a lui diverso e, soprattutto, a lui superiore, un essere “ultra” .

Ed è a questo essere “altro” e “ulteriore” che l’uomo inizia a dedicare forme cultuali di ringraziamento e riconoscenza.

Nasce così il senso del divino e il concetto di sacro inteso come una ierofania2 .

Infatti, il sacro rimanda al rapporto fra l’uomo e il divino e alle azioni poste in essere dagli uomini per entrare in contatto con la divinità

In questa relazione intimistica fra l’uomo e il divino, un ruolo preminente lo assumono lo “spazio sacro ” , inteso come luogo in cui si con-centra la “ presenza ” del divino, e il “rito” , cioè l’insieme di gesti e parole, corroborati dalla volontà, attraverso cui l’uomo comunica con il divino.

La Fenice ­ Notiziario martinista ­ Primavera 2023

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Ed eccoci quindi giunti alla definizione di rito inteso come una serie di gesti e parole, vitalizzati dalla volontà (elemento Fuoco), attraverso cui l’uomo - che potremmo equipararlo all’elemento Terra - attiva dei legami sottili con forze a lui superiori e in qualche modo sconosciute - equiparabili al Cielo, ossia, nella lingua dei Numi, a forze celate, non visibili.

E in questa azione di connessione, di ponte, fra Terra e Cielo, l’officiante del rito assume la funzione di pontifex, pontefice

Allo stesso tempo, l’officiante operando con il sacro, diverrà il sacerdote, il cui significato etimologico è “colui che agisce nel sacro ” .

Ma spingendoci oltre, o meglio ultra, la linguistica ufficiale, o il Demotico, e ricorrendo al parlare Hieratico o Orfico, sacerdote è sacer - oto, colui che ha il sacro (sacer) orecchio (oto), ossia “colui che intende gli Dei” .

Ed ancora, intendere è in (dentro) + tendere (mirare), quindi “guardare il Nume interiore” .

Allora, il sacerdote officiante il rito è sia colui che comunica con gli Dei (macrocosmo) sia colui che (sempre mediante il rito) si pone in relazione con il Nume interiore (microcosmo).

Quindi la funzione del rito, officiato da chi ha valenza sacerdotale, è quella di mettere in relazione il Nume interiore con l’Essere Supremo di cui detto Nume è parte.

Ma seguendo il parlare Orfico, il Nume è prerogativa di chi ha un Nomen ossia il Nome, ossia dell’iniziato, da in-ire di chi va dentro il Tempio, invece il profano, da profanum è chi sta fuori dal Tempio, è un senza-nome, a-nomen, cioè anonimo, sconosciuto a sé stesso e agli dei.

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Il fil rouge di questa conversazione ci porta indietro di circa 2 500 anni, alla famosa massima scritta sul frontone del Tempio di Apollo, γνῶϑι σεαυτόν, gnōthi seautón, nosce te ipsum, conosci te stesso, ovvero era ed è l’esortazione a trovare il proprio Nome, ovvero il proprio Nume, cioè il proprio Maestro Interiore, vale a dire il proprio D’Io, espressione nell’uomo del Dio “in alto” .

Il rito prevede che debba essere svolto seguendo precise istruzioni che richiamino, prevalentemente, aspetti analogici micro-macro cosmici, vale a dire che siano imitativi dei processi e dei tempi della Natura per operare in sintonia con l’Assoluto.

Quindi, occorre fare riferimento ad una scansione del tempo di tipo ciclico, in quanto basato sulle ricorrenze, anziché sulla comune determinazione del tempo lineare, basato sulla sequenzialità. Non è un caso che la parola rito abbia la stessa radice “rt” di ruota e di ritmo

Il rito, infatti, è officiato all’unisono con i ritmi cosmici terrestri, lunari e solari al fine di risvegliare stati di coscienza che giacciono addormentati nell’interiorità dell’uomo e per questo egli si serve di un complesso di gesti, parole, suoni, profumi, segni, colori, arredi, armonizzati fra loro, per ricreare le giuste e necessarie corrispondenze.

Tutto ciò che contribuisce alla realizzazione di un rito perde la sua efficacia se l’operatore non è posto nelle condizioni di poter operare con quegli strumenti (è perciò richiesta una qualificazione soggettiva).

Per intenderci, non basta aver acquistato un libro di karate e indossare un kimono, magari con cintura nera, per entrare in un Dojo, prendere posto sul tatami e affrontare un kumite: l’esito sarebbe disastroso.

Allo stesso modo, non si può acquistare un testo di rituali massonici in libreria, imbellettarsi con collari, grembiuli, ciondoli ed altri ammennicoli vari e creare una Loggia prendendo in giro oltre che sé stesso, soprattutto chi ingenuamente e in buona fede crede a tali camouflage.

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Per non parlare di chi acquista o confeziona ad hoc titoli, patenti e brevetti per soddisfare le proprie aspirazioni egoiche autoproclamandosi Grande, Supremo, Sovrano, Potentissimo perdendo di vista irrimediabilmente la figura del sacerdote o pontifex prima ricordata.

Quindi, per approcciarsi ad un rito occorre avere delle qualificazioni intrinseche ed estrinseche che consentano all’operatore, entro uno spazio sacro, di creare quel collegamento con l’Assoluto o con il Nume (che di quello è parte) per raggiungere stati di coscienza e conoscenza tali da rivelare, all’operatore stesso, la propria natura divina originaria.

Ovviamente, se questo è il fine, i riti, intesi come strumenti, possono essere molteplici e, sebbene tramandati dalla Tradizione, sono il più delle volte condizionati da innumerevoli fattori quali la localizzazione geografica e l’etnia dell’operatore, il periodo storico e l’identità cultuale di riferimento3.

Si può comunque convenire che ogni rito contempla l’erezione di uno spazio sacro entro cui deve muoversi l’officiante.

Si pensi a Stonehenge in Inghilterra e alla posizione dei suoi trilitici orientati secondo la posizione del Sole agli equinozi e ai solstizi, o alla collina di Newgrange in Irlanda sotto cui vi è un tempio il cui accesso è un corridoio percorso dalla luce solare nel solstizio d’inverno. Si pensi alla posizione dei Moai, le celebri statue monolitiche dell’Isola di Pasqua, disposte secondo una geografia sacra, e all’orientamento delle piramidi di Egitto

Per non parlare delle costruzioni a noi più vicine come le cattedrali romaniche e gotiche orientate tutte secondo l’asse Est-Ovest, e della linea micaelica lungo la quale sono stati disposti sette santuari dedicati a Michael o ancora della linea della rosa presente in diverse cattedrali.

Sono tutti spazi sacri che riprendono il percorso degli astri e prevalentemente del Sole per creare quella relazione sinergica e giungere alla communio con l’Assoluto.

Ma lo spazio sacro, sempre per quella analogia macro-micro cosmica ha, e deve avere, anche un risvolto soggettivo.

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A ciò sopperisce sempre il rito il cui risultato è quello di riportare il senso del sacro nel quotidiano in quanto l’Assoluto è sì trascendente, ma è anche immanente

Ed è attraverso il rito che si coglie la presenza dell’Assoluto in tutto ciò che cade sotto i nostri sensi e oltre questi, ossia in quella controparte del creato invisibile ma che è comunque presente e vivente e che si riflette anche nell’uomo

Mediante il rito, l’operatore consapevole è in grado di entrare in empatia con l’anima della Natura e attraverso questa vi è la piena presa di coscienza che l’uomo e l’Assoluto sono parte di un unico potere spirituale tanto che viene a crearsi quell’unità fra soggetto e oggetto dell’atto conoscitivo tanto caro all’idealismo magico di Julius Evola4.

E sotto questo aspetto va letto il rapporto esistente fra Dio, l’Uomo e l’Universo richiamato da Louis-Claude de Saint-Martin5.

Ecco cosa occorre attendersi e, in un certo senso, pretendere dal rito, non l’acquisizione di un potere personale, non la soluzione dei propri problemi psicologici, economici o familiari ma la creazione, o meglio, la generazione - da cui il Genio, il generato - del proprio Maestro Interiore o Nume, reso possibile allorché, coscientemente, si riesce a stabilire la comunicazione diretta con il Divino o Assoluto o Mercurio, processo, questo, che coincide con la reintegrazione, sostenuta e propugnata da Martinez de Pasqually6, obiettivo a cui tende il Martinismo

Note:

1Mircea Eliade, Il sacro e il profano, Boringhieri, Torino, 1984, p 16

2Mircea Eliade, Trattato di storia delle religioni, Boringhieri, Torino, 1976, pp 10-19

3In proposito, si veda: Mircea Eliade, Trattato di storia delle religioni, cit.

4Julius Evola, Teoria dell’individuo assoluto, Mediterranee, Roma, 1998

5Louis-Claude de Saint-Martin, Quadro naturale dei rapporti che esistono tra Dio, l’Uomo e l’Universo, FirenzeLibri, Reggello, 2007

6Martinez de Pasqually, Trattato sulla reintegrazione degli esseri, Amenothes, Genova, 1982.

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Una testimonianza sul rito martinista

Samas S:::I::: - Gruppo "Nova Lux" - Collina di Roma

Il testimone I l latino ‘Testis’ significa “testimone” , etimologicamente rendibile come “il terzo presente” .

Il prefisso “te” , da cui appunto osserviamo derivare in italiano parole come terzo o ternario, è considerato dagli studiosi proveniente da un più antico “tri” (si pensi appunto alle parole tris o trinitas).

Mentre la restante parte della parola

“stis” è un sostantivo che deriva dalla radice indoeuropea “stā” che appunto possiamo rendere intuitivamente con “stare1” .

Ma indagando quindi meglio la radice

“stā” se ne scopre il senso originario, forse più evocativo, cioè quello di essere o rendere fermo, saldo2 .

Testimone è quindi il “3 che è” , il famoso (o incognito) “terzo” che con la sua presenza rende stabile, addirittura reale, la presenza di “altri due” con i quali “sta” e dei quali “stabilisce” la loro effettiva verità e sostanza.

Ancora di più, per estensione: il “testimone” , appunto, è colui che riporta, che referenzia, verso eventuali “infiniti altri3”

Vedremo ora di calibrare su alcuni aspetti della ritualità martinista delle brevi considerazioni, avendo come fulcro quanto si è appena cercato di portare all’attenzione

Sulla croce cabalistica

Essa è dei nostri riti quasi sempre principio e fine.

Anche qui dobbiamo inventarci ben poco: una scorsa ai nostri vademecum ci dice che essa è di per sé già un rituale, “ una chiave per delimitare e focalizzare la sacralità del pensiero, del gesto, della parola e di quanto si sta ponendo in atto (azione)” .

Teniamoci innanzitutto stretto il riferimento al pensiero, al gesto, alla parola e andiamo più in profondità.

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Nei momenti iniziali in cui segniamo e nominiamo ATEH (Tu sei) e MALKUTH (Il Reame), dopo alcuni passaggi passiamo ad un segno universale, il cerchio.

Sono numerose ad esempio le applicazioni magiche e le considerazioni intellettive su questo tracciamento: esaminiamone qualcuna Vediamo allora (PENSIERO) che il cerchio è per sua natura, o per nostra ideala differenza è forse nulla - un simbolo di perfezione, di circoscrizione e di totalità.

Come potremmo allora escludere dalla nostra ritualità di attivare questo simbolo, appunto mediante il (GESTO)?

Sistemati quindi pensiero e gesto, passiamo alla (PAROLA) che sembrerebbe dare un ’ulteriore conferma: LE OLAM (Per Sempre).

Quindi la totalità spaziale del simbolo che tracciamo, insieme all’eternità che proferiamo; il senso è sempre quello: è necessario “attivare” l’universalità, sia essa intesa in termini di forma perfetta sia di totalità dello spazio o di eternità rispetto al tempo

Rispetto a questo ultimo punto, non è un segreto che il rito dovrebbe in qualche modo spezzare la nostra concezione lineare del tempo e portarci quindi in una percezione altra; in un atteggiamento mentale ben lontano dalle modalità di coscienza condizionata che, volenti o nolenti, esercitiamo per buona parte della giornata.

E qui arriviamo al primo tema di meditazione che viene proposto: sotto l’aspetto della tecnica rituale, potremo mai concludere il “rito” della croce cabalistica solo con la tracciatura del cerchio?

Per fortuna non siamo tenuti, se non per crescita e scelta personale, a rispondere a questa difficile domanda perché l’istruzione, la tecnica tramandata, è invero chiara e sta lì forse apposta anche per insegnarci qualcosa: si conclude cioè congiungendo le “due mani”, in segno di evidente presenza: AMEN (Così sia)

AMEN (Così sia): Qualcosa o qualcuno viene a ‘stabilire’, a contemplare, a decretare, a sigillare una presenza nella croce particolare e nel cerchio universale appena tracciati

Se ciò non avvenisse, probabilmente, non avremmo alcuni aspetti della “chiave” di cui parlano i nostri vademecum.

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A valle di un segno di individuazione (la croce) e uno di totalità imperante (il cerchio), possiamo vederne seguire uno conclusivo, se vogliamo appunto, o di testimonianza: le mani sono giunte, tutto è calmo e in pace, tutto è giusto e perfetto; non c’è altro ‘da fare’ a questo punto se non, innanzitutto, esserci. Concludiamo questo breve spunto con la ulteriore considerazione che tutto ciò che avviene si conclude all’altezza delle mani giunte; ovvero l’essere, il nostro stare che andrà ad operare, sembra collocarsi simbolicamente e fisicamente tra i due ‘punti’ di ATEH e MALKUTH, di cui renderà testimonianza.

Sul salmo I°

“Beatus vir ” così comincia il I° verso del I° salmo. È interessante.

Siamo ormai giunti nei nostri riti in un luogo interiore in cui tutte le chiacchiere, comprese quelle di cui sopra, hanno fatto il loro tempo

Non ci sono dotte citazioni da postare sui social, non ci sono persone altre da affascinare, non ci sono altri libri da leggere o i riflessi psichici di questa o quella casistica umana Eppure, non siamo scappati dal mondo, anzi

Siamo dove abbiamo scelto di stare e dove, probabilmente, facciamo “bene” ad essere: siamo presenti ad un mistero che stiamo vivendo, non solo in un mistero esclusivamente mentale da risolvere

Siamo in una Conciliazione con la Coscienza. E quindi, potremmo aggiungere, il rito come testimonianza diventa anche la celebrazione di questo stato coscienziale Così allora della cosiddetta preghiera

Una preghiera o un rito per ottenere, per separare, un Dio vissuto come “altro” dalla nostra presenza, addirittura per servire un culto, è davvero un atto totale, o almeno efficace, di Presenza?

Difficile non essere equivocati, ma è certo che i nostri riti sembrerebbero lontani da operatività e da dualità tipiche

“di un mondo dove Dio è presente e un mondo dove Dio è assente”

“Beatus vir ” , ecco la base che viene gettata, piuttosto.

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È un punto di ‘ringraziamento’, qualcosa di profondamente non-duale messo immediatamente davanti i nostri occhi.

Poi, tutti quei NO di ammonimento per non seguire gli empi, non indugiare sulla via dei peccatori, di non sedere ‘nella stoltezza’!

Ma non vi è presenza di un Dio che ammonisce o un uomo in conflitto che declama versi.

Il I° salmo sembra appunto una descrizione, ancora, appunto: una testimonianza

Una testimonianza nella quale addirittura come prima parola si osa richiamare la beatitudine4: sul percorso della reintegrazione vi è un Uomo che si riconosce e può riconoscere la Via anche in quei versi, perché la sta percorrendo, perché È, proprio in quell’esatto momento.

Le prime parole proferite dal salmista possono quindi senz ’altro essere lette come un “atto di testimonianza” , o almeno questo è lo spunto che si vuol portare con la presente meditazione.

Non sarà poi difficile scoprire, nei salmi, numerose simili attitudini, già dai primissimi versi: “Ecce quam bonum…” , “Ecce nunc ” e così via

Sulla candela

Interessante infine il rapporto tra la ritualità e la cosiddetta materia

Qualsiasi sia il nostro percorso, le nostre realizzazioni anche intellettive, le nostre illusioni, qualsiasi sia ciò che ci fa diversi o ci accumuna, i significati ultimi appartengono ad una sfera interiore che il rito permette di vivere, meditare e testimoniare attraverso anche degli strumenti: dei significati e dei significanti comuni e cosiddetti tradizionali, perché appunto tramandati di generazione in generazione, di lignaggio in lignaggio

Questo è il motivo per cui abbiamo accennato, precedentemente, ad una tecnica da apprendere e cercare di rispettare, perché è da considerarsi tramandata ma, soprattutto, tramandante, cioè vivente, “in-segna” in un certo senso sempre, anche e soprattutto, durante lo svolgersi di un rito.

Non certo perché la particolare tecnica vince sulla nostra libertà, ma perché la tecnica di una tradizione l’abbiamo scelta noi: ci risulta congeniale proprio come ausilio e stimolo a quello che vogliamo perseguire.

Capendo perché viene indicato di fare così e non cosà, oppure perché se opero così “viene meglio” che cosà, vi è una consapevolezza in azione; vi è, inoltre, qualcuno che sempre osserva la persona profana e la persona sacra che siamo5: vi è un Testimone che via via si reintegra e reintegra nell’osservare, nello studiare, nel sentire, nel testimoniare

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Riguardo l’esoterismo operativo, in particolare, stiamo parlando delle esperienze dei riti martinisti, siano essi individuali o collettivi di loggia, non è una novità dire che queste esperienze siano in larga parte non comunicabili.

In quanto cosa davvero avviene, interiormente, è fruito e vissuto da una coscienza, ogni volta meravigliosamente irripetibile, che è Soggetto, Oggetto e Testimone; che mai potrà, solo con le parole, degnamente e completamente condividere o dettagliare.

Esistono, forse, e lo diciamo a vantaggio dei tanti aspiranti “laureandi in esoterismo”, altre modalità di comunicazione.

Modalità in cui il “ruolo” della materia può essere curiosamente vagliato E ci avviciniamo quindi pian piano al terzo tema di meditazione che sarà proposto come una domanda aperta.

Possiamo certo parlare del colore di una candela, del suo materiale, della sua storia, delle sue referenze simboliche, del suo apparato mitologico, perché è rossa e non blu, per quella particolare occasione.

È utile, certo!

Ci contestualizza, ci accumuna, ci dona un linguaggio comune e spunti di ragionamento

Ma l’operatività, il rito, la presenza sono altro: sono “oltre”.

Ecco, forse il rito martinista ed alcuni riti martinisti più di altri, sono un chiaro esempio di quello che potremmo chiamare Alchimia.

E appunto l’alchimia a studiarla sui libri, tutti gli autori classici ci dicono ci si romperà solo la testa, o si diventerà al più vili soffiatori.

E però… sempre tramite gli autori classici possiamo desumere qualcosa come: “ non solo la scienza alchimica proclama l’unità della materia, ma testimonia dell’unione della materia e della coscienza” . È interessante.

Cosa “sta” davvero succedendo, dunque, quando si accende una candela?

Note:

1The American Heritage, Dictionary of the English Language, HarperCollins Publishers, 2022

2 Francesco Bonomi, Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana, 2004-2008

3Cfr “Il Dao produce l’Uno, l’Uno produce il Due, Il Due produce il Tre, Il Tre produce i Diecimila esseri” dal cap 42 del Daodejing.

4Non sarà difficile per chi ha studiato qualcosa dell’induismo notare a questo punto il nitido parallelismo tra alcuni aspetti rituali e la concezione, o meglio l’esperienza finale, di “Brahman” come SatChit-Ananda (Essere – Coscienza – Beatitudine).

5Cfr. Rémi Boyer, Maschera, Mantello e Silenzio.Il Martinismo come via di risveglio, Tipheret, AcirealeRoma, 2012, p. 58 e p. 84.

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