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Il venerabile W

Com’era prevedibile, non parliamo di un documentario che adotta un punto di vista critico, né tantomeno di giornalismo d’indagine. Ma la Ferragni resta un’imprenditrice troppo abile e capace per divulgare un film banale, che si limiti alla mera operazione auto-celebrativa. La struttura del film è più sottile e meno scontata. Nella sua confezione americana alterna un’estetica glamour a una pretesa verità di emozioni e sentimenti. Mentre, ovviamente, illustra una vita e un immaginario attentamente costruiti in ogni dettaglio. Una definizione inquietante, ma in fondo il segreto della sua ascesa potrebbe nascondersi proprio nell’allegria e nella spontaneità che la ragazza sembra non aver mai perduto. La mitologia della “self made woman” partita da blog e dagli albori del web 2.0 e poi esplosa tramite lavoro e determinazione. Chiara incarna il classico “american dream”, quella opportunità che è lì per chiunque, basta avere idee e determinazioni. Ma la macchina dei sogni, dopo aver visto il film, sembra più una fabbrica mortale, pronta a generare frustrazione e tristezza. Tutto finisce per affogare nel mare di un racconto che sfocia con l’assenza di conflitto nella sua comunicazione. Non c’è conflitto nell’entrata di Ferragni nel mondo esclusivo della moda: Chiara dice di aver fatto fatica ad emergere, ma Amoruso non ci mostra come sia stato possibile che la figlia di un dentista di Cremona finisse a far défilé con Anna Wintour, in un mondo chiuso e conformista come quello della moda. Sembra tutto semplice e non c’è nessun accenno alla lotta necessaria per mantenere di fronte a tutti quella perfezione esteriore. Perché il legame tra questo film e lo storytelling digitale via Instagram di Chiara Ferragni è direttamente consequenziale. In questo film è entrato tutto quello che, per motivi legati al medium, o al tempo non era ancora apparso nei post. Il film è un extra di Instagram nel quale tutto quello che appare, viene detto e raccontato, è costruito e controllato con la stessa maniacale precisione con la quale la Ferragni comunica la sua immagine su Internet. È la prosecuzione di quel racconto di sé con altri mezzi. Una storia di Instagram dall’estetica più ricercata e patinata, girata con enfasi estetizzante e al servizio della protagonista.

Il direttore di Vanity Fair Simone Marchetti coglie di questa trentaduenne milionaria un aspetto fondamentale: sbagliano coloro i quali la criticano per quello che comunica, per i suoi contenuti, dice, perché Chiara Ferragni non è un contenuto, ma è il mezzo di se stessa, una pagina pubblicitaria vivente. Un mezzo che rimane immutabile, indifferente alla piattaforma sulla quale opera: che si tratti di una fotografia, di un sito, di un social o di un documentario.

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Rimane comunque fermo un punto: riflettere su questo fenomeno, sulla nuova condizione cui i social ci obbligano è fondamentale per comprendere il presente e andare incontro al futuro.

Veronica Barteri

di Barbet Schroeder

IIn sovrimpressione su un tempio ripreso in camera car: “L’odio è il piacere più duraturo, gli uomini amano in fretta, ma odiano con calma” Lord Byron.

Circondato dai libri un monaco buddista spiega placidamente l’analogia tra i pesci gatto e i musulmani, entrambi si moltiplicano velocemente e si cibano di organismi della loro specie.

È Wirathu, “Il venerabile W”.

Una carrellata in slow motion ci introduce alla vita monastica buddista: la raccolta del cibo, la preghiera. Una voce off femminile ne elenca i precetti, il mondo del Budda è al di là del bene e del male ma le sue parole devono limitare la meccanica del male.

Wirathu illustra una sua giornata tipo. Durante un sermone spiega la strategia del sesso adottata dai musulmani per convertire le ragazze buddiste attraverso il denaro e il piacere.

La voce off racconta lo stupore per le molte donazioni ricevute per l’occasione e il significato e gli obiettivi del 969, l’associazione fondata da W.

Wirathu ricorda la scelta monastica e l’uccisione di una ragazza avvenuta quando era dodicenne. La voce off su immagini riguardanti la vigilia della festa dell’Eid, racconta la contrarietà dei buddisti al sacrificio degli animali.

Nel 1991 W cambia monastero e incontra nuove usanze, qui acquista indipendenza e pubblica di contrabbando un libro contro una tecnica di meditazione.

Nel 1997 W, dopo la lettura di un pamphlet nazionalista proibito, “In fear of our race disappearing”, inizia la sua battaglia con i

Origine: Francia, Svizzera, 2017 Produzione: Les Films du Losange, Bande à part in coproduzione con Arte France Cinema, RTS-Radio Télévision Suisse, SRG SSR Regia: Barbet Schroeder Soggetto e sceneggiatura: Barbet Schroeder Interpreti: Venerabile Wirathu (se stesso) Distribuzione: Satine Film Durata: 100’ Uscita: 21 marzo 2019

musulmani, chiamati spregiativamente kalar, con manifestazioni e sermoni.

Nel 2003 durante un sermone incita un violento attacco ai kalar. Dopo un mese degli scontri causano ai musulmani morti e la distruzione di abitazioni. Wirathu e il suo maestro raccontano il proprio arresto.

Dietro le sbarre si dedica alla meditazione e attraverso un suo scritto critica la giunta al potere, arrogandosi il merito della Rivoluzione zafferano.

Nel 2012 in seguito a un amnistia W viene liberato e prosegue il proselitismo anti islamico legato al gruppo 969. L’uccisione e lo stupro di una buddista, dà il via a una serie di violenze e rappresaglie che provocano saccheggi e morti di entrambe le fazioni.

La macchina propagandistica del 969 sfrutta gli scontri diffondendo cruenti dvd e promuove la formazione di milizie etniche.

La situazione degenera nuovamente in ottobre, villaggi musulmani vengono bruciati. W accusa i musulmani di aver bruciato le proprie case per attirare aiuti internazionali. Circa 140.000 Rohingya vengono deportati, filmati di repertorio mostrano che già nel 1978 con l’Operazione Dragon King questa etnia fu costretta a lasciare temporaneamente il paese. Odio religioso ed etnico si unisce a interessi economici legati allo sfruttamento dei giacimenti petroliferi nelle regioni contese.

W per la salvaguardia dell’identità nazionale e religiosa critica la politica d’accoglienza della Merkel e appoggia Trump. L’esercito subisce l’influenza delle sue idee.

A Meiktila dopo un suo sermone i musulmani sono attaccati, immagini documentano violenze e mucchi di cadaveri, l’esercito inerte e dei monaci armati di bastoni: la città è in fiamme. In un mese gli attacchi si diffondono nelle città vicine.

Il gruppo 969 viene bandito, al suo posto nasce il Ma Ba Tha, più strutturato con una politica propagandistica aggiornata e aggressiva. W mostra fiero il video prodotto dal suo staff, The black Days, che rievoca attraverso il re-enactment la vita della ragazza uccisa dai musulmani.

Una bufala postata dal W sul proprio profilo provoca altre aggressioni, sedate a fatica da altri monaci.

La legge sulla razza e la religione asseconda W e il suo gruppo discriminando i musulmani. Il conseguente parere negativo dell’ONU, provoca un attacco misogino del leader verso la rappresentante. W rischia la messa in stato d’accusa e iniziano colloqui di pace e riavvicinamento tra le diverse etnie.

Una rivolta dei Rohingya e la brutale repressione dell’esercito scatenano violente manifestazioni islamiche fuori dai confini nazionali.

Barbet Schroeder dedica

Bil terzo capitolo del suo studio sul male a Wirathu, il Venerabile W del titolo, un monaco buddhista che contraddicendo i noti precetti della propria fede porta avanti un’aggressiva campagna contro i musulmani presenti in Myanmar.

Il documentario racconta cronologicamente la vita di W dalla scelta monastica ai giorni d’oggi e la contemporanea intensificazione degli scontri tra i seguaci del gruppo 969 e la comunità musulmana, oltrepassando il ritratto del soggetto per delineare un compendio storico e soprattutto mettere in risalto il legame tra le strategie propagandistiche portate avanti con i moderni mezzi di comunicazione e la manipolazione emozionale delle masse.

Seguendo una logica documentaria classica, alle dichiarazioni del monaco, tratte da sermoni e materiale d’archivio, fanno da contrappunto le interviste a giornalisti, membri di associazioni non governative, altri religiosi buddisti e rappresentanti delle minoranze.

Schemi, infografiche, riprese di repertorio si uniscono al controcanto nel disinnescare razionalmente quanto afferma il monaco, mentre le immagini delle violenze filmate con i cellulari rivelano la partecipazione attiva dei sostenitori, anche monaci, del 969 agli scontri e la condotta inerte dell’esercito.

In questo processo cumulativo di materiale il condizionamento emozionale dello spettatore è in parte scongiurato attraverso l’istanza portata avanti da una voce off femminile (interpretata da Maria de Medeiros) rappresentante il punto di vista di una piccola buddhista, che accompagna lo spettatore mostrando i precetti monastici e accennando al significato originale della dottrina buddhista.

Schroeder riesce comunque, come nei sui precedenti documentari su Idi Amin Dada e Jacques Vergès, a svelare il carattere reale del personaggio attraverso l’auto smascheramento. Il sorriso di soddisfazione malcelato da W quando parla delle violenze o il nevrastenico accompagnamento sonoro a rinforzare ogni sua affermazione rivelano le sue reali intenzioni.

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