Volume11 - Bioetica

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IL CRISTIANESIMO COME MOTORE DELLA MODERNITÀ - VOLUME NO. 11

Il cristianesimo e le sfide della bioetica Dirk Lanzerath

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Il cristianesimo e le sfide della bioetica Dirk Lanzerath

Indice

Estratti dal Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa Cattolica (compilati da Katharina Fuchs)

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Estratti dal Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa Cattolica, Capitol0 10:

(452) “La relazione dell'uomo con il mondo è un elemento costitutivo dell'identità umana.” L'uso delle biotecnologie (473) “La visione cristiana della creazione comporta un giudizio positivo sulla liceità degli interventi dell'uomo sulla natura, ivi inclusi anche gli altri esseri viventi, e, allo stesso tempo, un forte richiamo al senso di responsabilità. (…) La liceità dell'uso delle tecniche biologiche e biogenetiche non esaurisce tutta la problematica etica: come per ogni comportamento umano, è necessario valutare accuratamente la loro reale utilità nonché le loro possibili conseguenze anche in termini di rischi.” (474) “Le moderne biotecnologie hanno un forte impatto sociale, economico e politico, sul piano locale, nazionale e internazionale: vanno valutate secondo i criteri etici che devono sempre orientare le attività e i rapporti umani nell'ambito socio-economico e politico.1003 Bisogna tener presenti soprattutto i criteri di giustizia e solidarietà, ai quali si devono attenere innanzi tutto gli individui ed i gruppi che operano nella ricerca e nella commercializzazione nel campo delle biotecnologie.”

Benedetto XVI, Lettera Enciclica “Caritas in veritate”, Capitoli 5 e 6: (74) “Campo primario e cruciale della lotta culturale tra l'assolutismo della tecnicità e la responsabilità morale dell'uomo è oggi quello della bioetica, in cui si gioca radicalmente la possibilità stessa di uno sviluppo umano integrale. Si tratta di un ambito delicatissimo e decisivo, in cui emerge con drammatica forza la questione fondamentale: se l'uomo si sia prodotto da se stesso o se egli dipenda da Dio. Le scoperte scientifiche in questo campo e le possibilità di intervento tecnico sembrano talmente avanzate da imporre una scelta tra le due razionalità: quella della ragione aperta alla trascendenza o quella della ragione chiusa nell'immanenza. Si è di fronte a un aut aut decisivo. (…) Attratta dal puro fare tecnico, la ragione senza la fede è destinata a perdersi nell'illusione della propria onnipotenza. La fede senza la ragione, rischia l'estraniamento dalla vita concreta delle persone.” (75) “La fecondazione in vitro, la ricerca sugli embrioni, la possibilità della clonazione e dell'ibridazione umana nascono e sono promosse nell'attuale cultura del disincanto totale, che crede di aver svelato ogni mistero, perché si è ormai arrivati alla radice della vita. Qui l'assolutismo della tecnica trova la sua massima espressione. In tale tipo di cultura la coscienza è solo chiamata a prendere atto di una mera possibilità tecnica. Non si possono tuttavia minimizzare gli scenari inquietanti per il futuro dell'uomo e i nuovi potenti strumenti che la ‘cultura della morte’ ha a disposizione. Alla diffusa, tragica, piaga dell'aborto si potrebbe aggiungere in futuro, ma è già surrettiziamente in nuce, una sistematica pianificazione eugenetica delle nascite. Sul versante opposto, si fa strada una mens eutanasica, manifestazione non meno abusiva di dominio sulla vita, che in certe condizioni viene considerata non più degna di essere vissuta. Dietro questi scenari si nascondono posizioni culturali negatrici della dignità umana.”

I testi sono stati compilati da Katharina Fuchs

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Introduzione I bebè dei designer, secondo i desideri dei genitori, provengono da in-vitro shop; mediante un test genetico l’individuo diventa un uomo di vetro e, quindi, costretto a far mostra della parte più intima della propria natura biologica; la pressione dei costi nella sanità pubblica minaccia di fare del diritto a una morte naturale un dovere di morire. Se è questo, e anche altro, che si legge sulla stampa quotidiana, allora sorge il sospetto che l’umanità civilizzata abbia abbandonato i propri ultimi tabù, realizzando tutto ciò che è possibile realizzare con l’ausilio delle biotecnologie. E’ questo il “bel mondo nuovo” in cui tutto viene sperimentato e per il quale non vi è più nulla di sacro? A ben vedere, tuttavia, in genere le conquiste della scienza si possono leggere in modo molto più spassionato. Non tutto ciò che è pensato, è anche (già) realizzabile. E l’enunciato secondo cui tutto ciò che si può fare viene anche fatto, ha a proprio carico l’onere della prova, non potendo essere considerato come già comprovato. Non deve sfuggire, tuttavia, il fatto che i limiti del fattibile sono spostati più in avanti. Le tecnologie genetiche e biologiche consentono in misura sempre maggiore di intervenire nella natura, nella natura intorno a noi, ma anche nella nostra propria natura. Ciò che è nuovo non è tanto il fatto che l’uomo interviene nella natura, perché lo fa da quando è apparso sulla terra. Nuove sono invece la portata e la profondità dell’intervento. Tuttavia, con l’aumentare della profondità della conoscenza e dell’intervento aumenta anche l’ambivalenza delle conseguenze. Da un lato, risulta evidente la gamma degli impieghi responsabilizzabili e utili all’umanità di questi nuovi mezzi, come dimostrano i progressi compiuti nelle terapie mentre, dall’altro, aumenta costantemente il pericolo di eventuali abusi. In tutto ciò, non sono tanto le bioscienze stesse a fare paura, quanto piuttosto il fatto che sussiste la preoccupazione che siamo inadeguati ad affrontare un discorso sulle norme relative un impiego opportuno delle bioscienze. La paura di rotture degli argini morali spesso sfocia in una richiesta di divieti generalizzati. Invece, il discorso etico necessario richiede un’analisi precisa dei problemi con i quali la società si sente confrontata relativamente all’applicazione delle bioscienze, affinché possano succedersi passo per passo attente ponderazioni bioetiche. Per questo motivo si tratta innanzitutto di indicare in una prima parte (A) le sfide di principio sorte in campo scientifico e scientifico-politico, derivanti dalle nuove possibilità di agire in biomedicina, per poi passare alla discussione in una seconda parte (B) circa le esigenze che si pongono in alcuni campi d’azione selezionati.

A. La sfida etica posta dalle bioscienze nell’epoca moderna: interdisciplinarietà scientifica e integrazione nel mondo della vita Le sfide poste al nostro agire e alle relative conseguenze nell’ambito delle bioscienze sono molteplici. Il mondo moderno, in cui siamo di casa, è improntato a due tendenze contrapposte: da un lato, viviamo in un mondo di elevata diversificazione, caratterizzata dalla divisione del lavoro e dalla specializzazione mentre, dall’altro, la brevità delle vie di traffico e comunicazione

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portano a una globalizzazione che interessa in misura uguale l’economia e la scienza. Una conseguenza del primo elemento è che non comprendiamo più il collega della facoltà vicina all’interno della stessa università, per cui è destinato a estinguersi il tipo dell’erudito universale; il secondo elemento è responsabile del fatto che la ricerca solo raramente rappresenta ancora un processo nazionale, essendo sempre più spesso un processo internazionale interpretazione,

nel

quale

lingua

e

metodi valori.

universali Un

simile

si

confrontano

conglomerato,

con fatto

sistemi di

nuova

regionali

di

lontananza

(specializzazione e divisione del lavoro) e nuova prossimità (globalizzazione), costituisce lo sfondo per la questione importante riguardo al tipo di responsabilità che dobbiamo assolutamente assumerci in questo mondo moderno nei confronti dei limiti del nostro sapere e delle nostre capacità. All’interno del dibattito sulla bioetica spesso si sottende un cambiamento di valori o addirittura una perdita di valori. Tuttavia, guardando le cose da vicino, ci si accorge che sussiste una molteplicità di conflitti (O. Renn) di varia natura, che comportano dissensi in materia di bioetica nella società. Si tratta soprattutto dei modelli di interpretazione nella diversificazione linguistica, che si inseriscono nei nostri giudizi di valore improntandone il dibattito bioetico. La considerazione delle bioscienze può portare paradigmaticamente a rendere evidenti i problemi posti dall’eterogeneità dei modelli di interpretazione e la questione della responsabilità nella società moderna basata sulla divisione del lavoro e sul pluralismo. Al riguardo, è possibile enucleare tre conflitti fondamentali: il conflitto linguistico (A.I) riguarda le discipline nella cultura scientifica; ne deriva al momento dell’incontro con le esigenze del mondo della vita umano un conflitto di interpretazione (A.II); infine, si ravvisa un conflitto di valori (A.III) nella società pluralistica, quando si passa alla pratica di stabilire norme nel campo applicativo delle bioscienze. In questa sede, tralasceremo ulteriori tipi di conflitti, quali quelli riguardanti gli interessi, il sapere e l’economia.

I. Conflitti linguistici: life sciences vs. humanities Fin dal passaggio dalla universitas del Medioevo alla situazione dell’epoca moderna, i linguaggi delle singole discipline scientifiche si sono sviluppati divergendo in misura notevole. Le analisi empiriche condotte nel campo della fisica e della biologia dal filosofo Aristotele erano di notevole valore e di validità duratura. Le accademie medievali, secoli addietro, offrivano ancora spazi per dispute comuni tra le varie discipline accademiche. Lo stesso Goethe era contemporaneamente autore del “Faust” e della “Metamorfosi delle piante” e scoprì nell’uomo l’osso intermascellare, importante dal punto di vista filogenetico. Al contrario, il biologo contemporaneo, che lavora sistematicamente e ragiona in termini morfologici, ha difficoltà a comprendere il contributo specialistico del suo collega di biologia molecolare. Le facoltà e le discipline lavorano in modo più che altro autocentrato e la collaborazione tra la fisiologia e la biologia molecolare – per limitarci a un unico esempio – oggi è già considerata come un

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approccio interdisciplinare. Solo la pressione esercitata dalla prassi applicativa, l’incidenza esercitata sulla società dai risultati scientifici o dalle relative applicazioni ci rendono attenti al fatto che le singole scienze non si sviluppano in uno spazio privo di contesto ma che contengono implicazioni sociali che non possono essere affrontate con i metodi e i linguaggi della propria disciplina. E’ questo il momento in cui lo studioso di scienze naturali o di medicina si ricorderà forse dei colleghi che provengono dalle scienze giuridiche ed economiche o dalla teologia e dalla filosofia, per cercare di avviare un dialogo comune. E’ per questo che in ambito accademico nel frattempo sono sorti sempre più luoghi nei quali si discute e si lavora a livello transdisciplinare. Tuttavia, tutti quelli che vi sono coinvolti conoscono le difficoltà e la fatica di superare le barriere linguistiche incontrate e di rendere fertile il dialogo comune, evitando che una singola disciplina rivendichi un ruolo egemonico, come avviene ad esempio attualmente ad opera di alcuni esponenti delle neuroscienze (W. Singer, G. Roth ed altri). Prospettando questo conflitto linguistico si affronta il problema fondamentale del rapporto tra life sciences e humanities. Come argomento era giá stato espresso molto chiaramente da Charles P. Snow. Nel 1964, a seguito della sua famosa lezione del 1959, in “The Two Cultures, A Second Look” aveva constatato, rassegnato, che la società occidentale mancava di una cultura comune, a causa dell’ apertura di un fossato comunicativo tra gli scienziati e gli intellettuali letterati. Il termine delle “due culture” riguarda in prima linea i linguaggi divergenti delle scienze empiriche e di quelle ermeneutiche. Siccome i rispettivi linguaggi non coincidono più, agli attori non rimane che un’area molto ristretta di comunicazione. Dalle difficoltà di comprensione

reciproca

derivano

conseguenze

teoriche

e

pratiche

che

riguardano

il

soddisfacimento della nostra curiosità teorica (comprensione di sé e della natura) e delle nostre azioni pratiche di cura (disposizione relativa alla natura). Perciò è la prassi comune che li unisce di nuovo ma che fa anche sentire il sussistere di una pressione esercitata sull’agire, per reperire un indirizzo comune a prescindere dalle incommensurabilità teoriche esistenti. Tra l’altro, gli studiosi di scienze naturali dell’epoca moderna hanno tanto successo per il fatto che la loro osservazione è metodicamente limitata e i relativi enunciati possono essere giusti sempre e soltanto nell’ambito di condizioni generali definite preventivamente. Per quanto riguarda la biologia, rimane così coperto soltanto l’ambito delle “condizioni di laboratorio” che è ben diverso dal mondo della vita. A questo punto si pone la questione del tipo di influsso che le bioscienze possono esercitare sulle decisioni riguardanti il mondo della vita, nonché delle prestazioni di orientamento che possono essere loro attribuite. Ad esempio, i risultati e le applicazioni provenienti dalle discipline delle scienze naturali incontrano le esigenze della prassi del mondo della vita quando la genetica diventa pratica nelle relative applicazioni tecniche o mediche (ad esempio, alimenti geneticamente modificati, test genetici predittivi). Ora, mentre le questioni riguardanti l’espansione costante dell’universo o dell’affidabilità della teoria delle stringhe, hanno una certa rilevanza ai fini del soddisfacimento della curiosità teorica, le relative riflessioni teoriche hanno un’importanza limitata nella sfera della vita pratica. Invece, la questione se ad esempio il rilevamento clinico di una moltiplicazione della sezione del DNA CAG

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nel genoma individuale permetta di pronosticare un decorso letale della malattia (chorea Huntington), ha una rilevanza notevole ai fini pratici della vita, anzi della sopravvivenza. E questa forma di sapere genetico può essere decisiva per la pianificazione personale della vita. In questo caso, la sfida consiste nel fatto di far coincidere la terminologia del sapere dispositivo con quella del sapere orientativo. Da simili conflitti linguistici originano conflitti interpretativi – ad esempio tra il medico e il paziente – che influenzano in misura notevole anche il nostro discorso normativo.

II. Conflitti di interpretazione: culture scientifiche e mondi della vita Una novità forse decisiva dell’approccio moderno alle problematiche etiche, inerenti alle scienze moderne e alle relative applicazioni, consiste nel fatto che le singole scienze devono esigere una maggiore consapevolizzazione di quelle presunzioni centrali di fondo che sono contenute nei relativi enunciati, e che le discipline normative devono sollecitare la considerazione dei risultati delle scienze individuali. Limitandoci all’area ridotta della ricerca embrionale sulle cellule staminali, di cui in tutto il mondo si occupano soltanto pochi specialisti, i conflitti di interpretazione e le presunzioni di fondo irriflesse risultano evidenti. Quando nel 1997 venne pubblicato il lavoro sulla pecora clonata Dolly, tutto il mondo parlava di clonazione, ma nessuno delle cellule staminali embrionali, anche se da tempo si erano ottenuti risultati stabili con i topi. Tra il vasto pubblico nessuno era in grado di comprendere la nozione delle cellule staminali embrionali. Soltanto a seguito della fissazione delle cellule staminali umane da parte del gruppo Thompson nel 1998 e dell’annuncio della Gran Bretagna nel rapporto Robertson dell’ammissione della clonazione di embrioni a scopo terapeutico, il concetto di “cellula staminale embrionale” entrò nelle rubriche della terza pagina dei giornali. Oggi quasi nessun scienziato o giornalista si fa scrupolo di rivolgersi al pubblico con concetti come blastocisto o DNA mitocondriale. In realtà, si può considerare tutto ciò come un processo normale in un mondo improntato alla tecnica e alla scienza. Infatti, per noi è naturale guidare automobili provviste di ABS, ESP o ARS, ritenendo di aver fatto qualche cosa per la nostra sicurezza di guida. Ma chi si interessa esattamente delle modalità di funzionamento di simili tecniche e chi mai sarebbe in grado di comprendere e spiegare le stesse, in mancanza della preparazione necessaria? E lo stesso vale forse, per analogia, per la nostra comprensione delle cellule staminali embrionali? Se così fosse, il tema non avrebbe certamente riempito per tanto tempo tutte le rubriche dei quotidiani tedeschi e non avrebbe nemmeno agitato tanto gli animi. Evidentemente è in ballo qualcosa di diverso. Il fatto è che le nuove forme di trattamento della vita umana scuotono le nostre nozioni fondamentali della vita umana, la nostra comprensione dello sviluppo biologico della vita, l’idea dell’irreversibilità degli stadi evolutivi della vita umana. Siamo in grado di manipolare artificialmente determinati processi vitali in una o nell’altra direzione, di produrre artefatti usando il nucleo, la membrana e il liquido di diversi tipi di cellula e combinandoli, impiegando

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anche le cellule di specie diverse. Grazie alla biologia sintetica è forse possibile addirittura costruire un organismo ex novo. In questo modo si cancellano linee di discriminazione finora riconosciute, che hanno una rilevanza normativa. Dove inizia l’uomo, dove finisce la cellula umana, dove sorge l’ibrido, dove la chimera? Tutto ad un tratto, non è più possibile applicare concetti fondamentali comprovati alla nuova realtà della ricerca. La riprogrammazione delle cellule a partire da stadi recenti dello sviluppo a forme precedenti, per molto tempo era considerata impossibile. Ora, invece, sembra possibile grazie alle cellule iPS (vedasi infra). Ma ciò che cosa significa per il potenziale di sviluppo delle cellule, se il concetto di totipotenza è entrato, ad esempio, nella legge tedesca sulla protezione dell’embrione in quanto concetto normativo e la legge protegge questo stadio cellulare richiamandosi alla dignità umana? Non si è partiti da una differenziazione netta tra le cellule delle vie germinali e le cellule dell’organismo, cellule totipotenti e non totipotenti? Non è possibile rispondere a queste domande a partire dalle singole scienze, ma occorre piuttosto che, da un lato, le singole scienze si occupino in modo deciso delle presupposizioni fondamentali di cui fanno ampio uso ma che finora sono state scarsamente oggetto di riflessione e, dall’altro, l’antropologia, la filosofia della natura e l’etica dovrebbero percepire e accogliere le nuove nozioni delle singole scienze per integrarle nella propria riflessione ed ermeneutica. In ultima analisi ciò significa esigere una competenza ermeneutica parziale in materia di scienze della vita e una competenza parziale delle scienze naturali in materia di discipline normative. Ambedue le cose sono tutt’altro che ovvie. Per questo è indispensabile un riavvicinamento e un reperimento di nuovi canali di comunicazione per affrontare le sfide poste dai conflitti linguistici e dai conflitti di interpretazione. Se si eludono queste sfide, i sottosistemi della nostra società si allontaneranno sempre di più l’uno dall’altro, provocando conflitti sempre più evidenti nella pratica comune della vita. Tuttavia, sulla base della responsabilità per noi stessi e la nostra società non possiamo desiderarlo. Le

difficoltà

incontrate

nel

reperimento

del

linguaggio

opportuno

e

i

conflitti

delle

interpretazioni ai fini della comprensione del mondo, nella pratica sfociano nelle questioni relative alla definizione delle norme per un agire responsabile, dando così luogo a un ulteriore conflitto, cioè il conflitto dei valori o della definizione dei valori.

III. Conflitti di valori: definizione delle norme nella cultura scientifica e nel mondo pluralistico L’etica – cioè la riflessione sul nostro agire morale – in genere entra in gioco soltanto quando stiamo valicando limiti naturali finora esistenti e quando i nostri modelli comportamentali tradizionali non sono più adeguati alle esigenze dell’agire moderno. In questo modo, insieme ai limiti

del

fattibile

si

spostano

anche

i

limiti

del

lecito.

Vi

si

aggiungono

inoltre

l’internazionalizzazione della ricerca e della sua applicazione, che per forza di cose relativizza le

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differenze culturali ai fini della valutazione morale. Ora, come può l’etica mantenere ancora in essere la rivendicazione della propria validità nel pluralismo dell’epoca moderna? Certamente il pluralismo delle culture giuridiche e delle morali rappresenta una ricchezza che non corrisponde soltanto all’abilità dell’uomo ma, in condizioni di libertà e di sviluppo, costituisce anche il presupposto per lo sviluppo di forme forti e significative della realizzazione dell’uomo. Tuttavia, laddove la natura del campo d’azione e delle sue conseguenze esige regolamentazioni di portata maggiore, ciò comporta delle difficoltà che devono essere risolte senza compromettere la ricchezza delle culture giuridiche nazionali e delle morali cresciute organicamente. Non è proprio il fatto di richiederla, la nuova domanda di etica, a dimostrare il vicolo cieco, visibile a tutti, nel quale si è cacciata l’etica moderna contemporanea? Perciò il punto di partenza per una regolamentazione, che comprenda la pluralità delle morali e delle culture giuridiche, può essere costituito soltanto da un complesso di convinzioni di valori e norme fondamentali o principi, che in quanto tale sia in grado di suscitare il consenso generale. Si tratta della convinzione del primato della dignità dell’uomo e dei diritti e delle libertà fondamentali ad essa collegati. La loro suscettibilità di ottenere il consenso generale è connessa in ultima analisi anche al fatto che sono diventati la base di norme giuridiche fondamentali,

quali

si

ravvisano

nelle

codificazioni

dei

diritti

umani

riconosciuti

internazionalmente e in parecchie costituzioni nazionali. L’idea dei diritti umani, radicata soprattutto nella filosofia antica, nella religione giudaica e cristiana e nell’illuminismo europeo, si è affermata in modo tale da andare molto oltre il contesto originario e da poter rivendicare la propria validità transculturale a livello mondiale. In questo caso, occorre distinguere tra la pluralità delle forme di vita socioculturali, in cui si inserisce l’idea dei diritti umani, da un lato, e dall’altro la molteplicità e diversità dei contesti filosofici e religiosi che le conferiscono una motivazione profonda, e infine la plausibilità, che occorre attribuire al nucleo dell’idea di diritti umani al di là della molteplicità dei nessi di inserimento e motivazione, e che è dovuta essenzialmente alle esperienze di dolore e ingiustizia a livello mondiale, soprattutto nell’epoca moderna. Ciò che conferisce all’idea dei diritti umani l’idoneità a servire come punto di partenza per il tracciamento richiesto dei limiti etico-giuridici ai fini dell’applicazione della scienza e tecnica moderna, in particolare nella medicina e nella biotecnologia, è costituito dalla concezione dell’uomo sottesa. Infatti, in questo caso l’uomo è concepito come un essere vivente che per sua natura è un soggetto dotato della facoltà di raziocinio e volontà e quindi capace di una morale. L’essere e l’ uomo vanno intesi insieme come un’unità inscindibile. Perciò la dignità propria dell’uomo in quanto soggetto capace di una morale, non viene fatta dipendere da nessuna capacità o prestazione particolare, essendo attribuita all’uomo per il solo fatto di essere un essere vivente umano. Tra le sfide ai diritti umani e alla democrazia, la sfida posta dalla scienza e tecnica moderna, in particolare in forma di medicina e biotecnologia, occupa una posizione specifica. Essa riguarda, infatti, la natura che fa parte dell’uomo stesso e di cui egli stesso è una parte. Ne derivano

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questioni centrali riguardanti la disponibilità della propria natura e di quella di altri uomini: come è possibile tutelare la vita umana non personale (B.I)? Come posso io morire nelle condizioni assicurate dal moderno sostegno della medicina intensiva (B.II)? Fino a che punto è possibile modificare la natura umana mediante la biotecnologia al di fuori delle finalità terapeutiche (B.III)? Se questa natura è o può essere “trasparente” e modificabile in una maniera finora sconosciuta, è sempre l’uomo stesso, il suo essere se stesso e il suo rapporto con se stesso che ne sono interessati. La questione del come trattare l’ambivalenza propria di qualsiasi mezzo tecnico, in considerazione della nuova immensa portata di questa ambivalenza, diventa una questione incentrata sull’uomo stesso. Con i limiti della comprensione e dell’intervento si definisce ex novo anche l’autoimmagine dell’uomo, la sua “etica della specie” (J. Habermas). In ciò si può ravvisare anche una dialettica specifica dell’epoca moderna. L’allargamento dell’autodeterminazione attraverso l’acquisizione scientifica e tecnica di nuovi spazi di azione produce conseguenze che costringono l’uomo a tracciare confini anche per questo allargamento dell’autodeterminazione, in considerazione della sua autodeterminazione morale e giuridica. Siccome questa definizione normativa riguarda la natura della specie, per lo meno limitatamente a determinati ambiti parziali, è possibile attuarla solamente attraverso un discorso mondiale di tutti i partecipanti (L. Honnefelder). Poiché fanno parte di tutto ciò anche l’acquisizione culturale e l’oggetto dell’indagine scientifica, il contributo della comunità scientifica deve andare oltre la prestazione delle scienze e includere la riflessione della ricerca scientifica e dei suoi risultati da parte delle scienze umanistiche, cioè delle scienze spirituali e culturali. Per questo motivo è richiesto non solo un discorso normativo della società, ma in quanto relativo presupposto anche un nuovo discorso di ambedue le culture scientifiche, quella empirica e quella ermeneutica. In questo modo si intrecciano tutti e tre i campi conflittuali presi in esame: quello dei linguaggi, quello dell’interpretazione e quello dei valori.

IV. Conclusioni e prospettive Poiché in una società pluralistica non ci si può attendere che tutti i suoi membri condividano tutte le idee, la sfida delle decisioni biopolitiche comuni può essere concepita soltanto nella forma di un discorso pubblico difficoltoso. Hans Jonas ha coniato la frase: “dobbiamo riimparare la paura e il tremore e anche senza Dio, la paura del sacro. Al di lá del limite che questo pone, rimane un numero sufficiente di compiti da svolgere”. Ma dove poniamo questo limite? La ripresa di norme tradizionali e principi etici è indispensabile, però non è possibile derivarne semplicemente le istruzioni pratiche per il nuovo scenario delle applicazioni delle bioscienze. Occorre osare ed effettuare ponderazioni morali sotto la responsabilità sociale, integrandole in un discorso che vada oltre le nostre frontiere nazionali. È il prezzo che dobbiamo pagare per il mondo moderno (O. Höffe).

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Di seguito cercheremo di illustrare – sulla scorta di tre esempi precisi (ricerca sulle cellule staminali (B.I), aiuto a morire (B.II) ed enhancement (B.III)), strutturalmente molto diversi – la strenua aspirazione a giungere a norme comuni, ma anche il trattamento dei dissensi di fondo esistenti nella nostra società. In tutti i campi sono state realizzate soluzioni intermedie, ma si continua a dibattere sui procedimenti e sulle soluzioni definitive. Bibliografia Habermas, J.: Die Zukunft der menschlichen Natur. Auf dem Weg zu einer liberalen Eugenik?, Frankfurt a. M. 2001; Höffe, O.: Moral als Preis der Moderne Ein Versuch über Wissenschaft, Technik und Umwelt, Frankfurt a.M. 1993; Honnefelder, L.: Was soll ich tun, wer will ich sein? Vernunft und Verantwortung, Gewissen und Schuld, Berlin 2007; Lanzerath, D.: Von der Baisse in der Biopolitik zur Hausse in der Bioethik, in: Die politische Meinung 420 (2004), 31-38; idem: Die Eigenständigkeit der Bioethik und ihr Verhältnis zur Biopolitik, in: Ethik in der Medizin

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(2006)

vol.

Technikfolgenabschätzung.

18, In:

364-368; Th.

Renn,

Petermann

O.:

und

Diskursive R.

Coenen

Verfahren

der

(a

di):

cura

Technikfolgenabschätzung in Deutschland. Bilanz und Perspektiven. Frankfurt am Main (Campus 1999), pp. 115-130.

B. Tre campi d’azione biomedica selezionati e le relative sfide bioetiche I. La sfida della ricerca sulle cellule staminali: la protezione degli embrioni e le aspettative di guarigione Come è successo per ben pochi dibattiti precedenti, la questione del come procedere in Germania nella ricerca sulle cellule staminali embrionali umane ha stimolato, pochi anni fa, una riflessione, e talora anche un litigio, a tutti i livelli della società. Associazioni di specialisti, rappresentanze di categoria, accademie delle scienze, ma anche in senso trasversale i partiti e i parlamentari, gli organi interministeriali, i giornalisti specializzati nelle scienze, le terze pagine dei giornali, le rubriche economiche e politiche nonché le chiese e le loro istituzioni specializzate e infine le conferenze di cittadini nonché certi gruppi sociali di varia tendenza hanno offerto i propri contributi al discorso, e non senza fatica. La Commissione d’inchiesta “Etica e diritto nella medicina moderna” e il Consiglio nazionale dell’etica hanno continuato a pubblicare le proprie prese di posizione di vario tenore per giungere a una decisione. Di conseguenza, si è pervenuti all’adozione della Legge sulle cellule staminali (2002) in seno alla Dieta federale tedesca a seguito di un dibattito sulla biopolitica ben informato e di alto livello, e ciò su un tema per il quale già l’intesa a livello accademico pone grandi sfide. Sul risultato (la legge sulle cellule staminali con la soluzione della data di scadenza per l’importazione) e il suo tempo di dimezzamento si può benissimo discutere fin che si vuole, ma si tratta sempre di un

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risultato che per l’allungamento della scadenza (vedasi infra) è potuto finire ai tempi supplementari. Ma qual è il preciso punto del contendere nel dibattito sulle cellule staminali?

1. Obiettivi e mezzi della ricerca sulle cellule staminali Per molti sostenitori della ricerca con le cellule staminali embrionali umane, in primo piano ci sono finalità di grande priorità, quando si tratta delle possibilità di guarigione di malati gravissimi. Gli avversari indicano in primo luogo la problematicità del mezzo, dal punto di vista etico, nell’uso di embrioni umani. Voci critiche, tuttavia, si sollevano anche dal campo delle scienze umane, al riguardo della validità dell’intera impostazione della ricerca. In prima linea, si fa osservare che non si è avuta un’esperienza ancora sufficiente nel trattamento con le cellule staminali embrionali animali, per poter prendere in considerazione fin da ora le applicazioni con le cellule umane. D’altronde, il comportamento specifico della specie delle cellule staminali embrionali sarebbe contrario a un trasferimento generico dei risultati ottenuti con gli esperimenti animali, cui sarebbe preferibile una ricerca di base condotta con le cellule staminali embrionali umane. Dal punto di vista medico, nella ricerca su e con le cellule staminali embrionali si tratta in primo luogo di coltivare nel lungo periodo cellule tissutali specifiche (ad esempio, le cellule nervose) in vista di un possibile trapianto in pazienti che abbiano perduto in modo irreversibile cellule di determinati organi, pur avendo ancora intatto l’organo nella sua complessità (ad esempio, nel morbo di Parkinson, nella sclerosi multipla, nell’insufficienza cardiaca). Le cellule staminali embrionali sarebbero particolarmente idonee a ciò per il fatto che non hanno ancora subito una differenziazione tissutale specifica, per cui sarebbe possibile coltivarle in laboratorio facendole differenziare in un determinato senso. Questa attività è suscettibile di riuscire con successo soltanto a condizione che si conoscano i fattori di crescita e differenziazione e si possano utilizzare gli stessi in modo mirato nella coltura in laboratorio. Per questo, tuttavia, siamo ancora agli inizi dell’approccio di ricerca e ci muoviamo ancora nell’ambito della ricerca di base. Dal punto di vista biologico, alla base di questa concezione vi è l’esperienza secondo cui tutte le cellule tissutali (ematiche, epatiche, nervose, cutanee ecc.) si sarebbero sviluppate a partire da un tipo unico di cellula, sebbene presentino una formazione diversificata ed esercitino funzioni diverse nell’organismo. Questa capacità evolutiva delle cellule è denominata potenziale biologico di differenziazione. Ne consegue che è possibile anche illustrare e suddividere le cellule in base a questo potenziale di differenziazione: le cellule, a partire dalle quali può svilupparsi ancora un organismo intero, sono dette totipotenti; le cellule che possono differenziarsi in tutti i tipi di cellule tissutali ma che non hanno più la capacità di formare un organismo completo, sono chiamate pluripotenti; le cellule che abbiano già sviluppato una determinata specificità tissutale, ma che sono destinate a differenziarsi ulteriormente all’interno di un tessuto, spesso vengono denominate cellule staminali adulte multipotenti.

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Queste ultime si trovano in numerosi organi e servono alla rigenerazione del tessuto (ad esempio, nella guarigione di una ferita cutanea). Le cellule ulteriormente differenziate, ma che non hanno più la possibilità di svilupparsi in altre cellule, rappresentano l’ultimo stadio dello sviluppo cellulare. La misura in cui le cellule hanno la capacità di riacquistare il proprio potenziale di sviluppo perduto – naturalmente o artificialmente – necessita di ulteriori chiarimenti. Per quanto riguarda le cellule staminali embrionali umane, alcuni elementi – sebbene non sussista ancora un chiarimento scientifico definitivo al riguardo – depongono a favore della supposizione che siano pluripotenti e non più totipotenti. Ai fini del dibattito etico e giuridico-scientifico, la questione del potenziale di differenziazione delle cellule non è priva di rilevanza. Per una valutazione etica della ricerca sulle cellule staminali embrionali umane appare, d’altronde, ragionevole procedere a una valutazione differenziata in relazione alla legittimità degli obiettivi perseguiti attraverso questa impostazione e la giustificabilità dei mezzi impiegati a questo scopo. Si tratta, quindi, di chiedersi quale tipo di priorità sia da attribuire agli obiettivi prospettati. Sono accettabili i metodi necessari per realizzare questi obiettivi? Infatti, anche se vi è concordia sulle finalità, ciò non significa che qualsiasi mezzo sia giustificato per giungere agli stessi obiettivi. Nella considerazione degli obiettivi della ricerca sulle cellule staminali embrionali si tratta innanzitutto di sviluppare nuovi approcci terapeutici per persone affette da malattie gravissime. Ciò riguarda il bene della “salute” che nella società è valutato in maniera particolarmente prioritaria. Perciò, il consenso sociale al riguardo è tanto grande perché la salute è un presupposto per aspirare a determinati altri beni. Di conseguenza, l’intesa su questo punto appare poco problematica. È certo che da parte dei pazienti sorgano determinate aspettative di guarigione suscitate dalle promesse di guarigione dei medici ricercatori. E’ comunque giustificata la domanda critica sulla possibilità di mantenere tali promesse, come pure sull’identità delle persone per le quali simili terapie – posto che esistano – siano a disposizione anche sotto il profilo economico-sanitario, nonché sul tipo di valutazione di un eventuale potenziale di abuso.

2. Le alternative alle cellule embrionali Anche se le finalità generali della ricerca sulle cellule staminali embrionali sono da considerarsi suscettibili di consenso, dal punto di vista etico appaiono comunque controversi i mezzi cui ricorrere per questo scopo. Ciò vale anche laddove l’unica via praticabile per acquisire le cellule staminali embrionali sia quella del prelievo di embrioni ottenuti mediante la fecondazione artificiale, fermo restando il fatto che con questo procedimento l’embrione viene ucciso. Vi è tuttavia anche la proposta di limitare la ricerca sulle cellule staminali adulte, nonché lo sviluppo di procedimenti alternativi (ad esempio, il prelievo dal sangue del cordone ombelicale, dalle cellule germinali primordiali). Attualmente si ripongono molte speranze nella tecnica di

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riprogrammazione. Un gruppo di ricercatori giapponesi e un altro nordamericano nel novembre 2007

hanno

pubblicato

indipendentemente

l’uno

dall’altro

la

realizzazione

di

una

riprogrammazione di cellule cutanee e connettivali in cellule che presentano proprietà significative proprie delle cellule staminali embrionali. Con la riprogrammazione si inserisce nelle cellule somatiche del materiale genetico specifico, per cui le cellule presentano proprietà significative tipiche delle cellule staminali embrionali. Tra queste vi è la proprietà di poter differenziarsi, in presenza di condizioni idonee, in determinati tipi cellulari o tissutali. Le cellule staminali ottenute in questo modo sono denominate “cellule staminali pluripotenti indotte” (iPS). A lungo termine si spera di ottenere, attraverso simili procedimenti, cellule staminali senza dover distruggere degli embrioni. Tuttavia, tutti gli esperimenti finora intrapresi vanno assegnati all’ambito della ricerca di base. Né la loro impostazione né i risultati ottenuti consentono ancora di prospettare una possibilità immanente di applicabilità clinica concreta. Né è possibile escludere che l’efficacia terapeutica sia propria soltanto delle culture cellulari di cellule staminali embrionali umane. Supponendo che sia possibile ottenere cellule staminali embrionali soltanto dagli embrioni in quanto unica variante suscettibile di successo – una valutazione al riguardo, tuttavia, è preclusa all’etica – ai fini della formazione di giudizi etici si pone la questione dell’impiego degli embrioni umani. In altri termini, è consentito strumentalizzare embrioni umani a scopo terapeutico?

3. L’impiego di embrioni nella ricerca e la tutela della dignità Se nel caso degli embrioni umani primordiali degli zigoti (“ovulo fecondato”) si tratta già di uomini – e ciò è difficilmente contestabile; infatti non è nemmeno contestato nella definizione legale del diritto britannico, di per sé relativamente liberale – allora si pone la questione della misura in cui sia possibile trasferire all’embrione umano la tutelabilità ancorata nella costituzione tedesca e propria dell’essere umano nato. Se si considera la dignità umana come quel principio che stabilisce che a ogni uomo spetta la dignità per il fatto che è proprio della natura umana l’essere un soggetto etico (persona), cioè l’essere in grado di porsi dei fini, e se ne deriva il diritto alla vita di ciascun individuo, occorre analizzare la portata di questo diritto (L. Honnefelder). Ci si chiede allora come sia possibile concretizzare la tutela della vita umana in relazione agli embrioni umani. La tutela della vita degli uomini nati è fuori questione e di norma è relativizzata soltanto in situazioni di emergenza o di legittima difesa. Gli organi o le cellule vivi e umani vengono utilizzati per scopi di ricerca, diagnosi e terapia, ma soltanto con il consenso del donatore e soltanto per i fini concordati. Perciò anche questo tipo di impiego della vita umana non è per nulla discrezionale. Anche gli embrioni umani al primo stadio sono cellule, o meglio complessi di cellule. Ci si chiede allora in base a che cosa queste cellule embrionali si distinguano dalle cellule dell’organismo per le quali esistono regole relative a un determinato impiego mirato. Ai

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fini dell’argomentazione etica al riguardo, occorre collegarsi al potenziale di differenziazione delle cellule cui si era accennato innanzi. Infatti, a differenza delle cellule dell’organismo, gli zigoti e gli stadi embrionali successivi sono totipotenti, cioè hanno la capacità di svilupparsi in un organismo completo. Questa capacità di totipotenza è indicata anche nella legge sulla tutela dell’embrione, quando si tratta di tutelare queste cellule umane particolari. Per quale motivo il potenziale di differenziazione ha una tale importanza ai fini della formazione del giudizio etico? A proposito del criterio della totipotenza, è possibile distinguere due momenti: uno descrittivo e uno normativo. Il momento descrittivo è quello di cui si occupa la biologia in vista delle questioni empiriche circa i fattori responsabili di questo potenziale di sviluppo (regolazioni genetiche, sostanze contenute nel liquido cellulare, fattori ambientali ecc.). La componente normativa entra in gioco, invece, se si collega il criterio delle totipotenza con la questione della continuità dell’identità dell’esistenza umana individuale (G. Damschen/D. Schönecker). Infatti, se la formazione del soggetto morale da tutelarsi presuppone l’esistenza fisica e se questa può essere ripercorsa all’indietro senza cesure fino allo zigote, nel senso di un’unità della natura biologica e raziocinante dell’uomo, allora la tutela della persona e la tutela della continuità della vita umana sono strettamente connesse. In questo caso è comunque controverso se questa continuità dell’esistenza umana, in quanto propria di un essere che si pone dei fini, ancorché ex post appaia poco problematica, possa essere fatta valere anche dallo zigote nella proiezione di ciò che si formerà. In considerazione dei risultati attuali della biologia molecolare, cellulare ed evolutiva, si rende necessario anche una nuova visione etica e di filosofia della natura del criterio della totipotenza. Infatti, la rilevanza delle varie condizioni naturali (ad esempio, il rapporto tra menoma e liquido cellulare) e artificiali (ad esempio, la possibilità della riprogrammazione e/o ridifferenziazione di cellule somatiche in cellule totipotenti) in relazione alla proprietà della totipotenza va valutata ex novo dal punto di vista della filosofia della natura e dal punto di vista normativo. Infatti, la presenza di un menoma individuale nuovo è solo una condizione necessaria ma non sufficiente per l’esistenza di un individuo umano. Paragonando le posizioni in discussione in relazione allo stato dell’embrione, in base a una divisione grossolana, emergono due varianti: in base alla prima, la suscettibilità di tutela dell’uomo nato viene trasferita all’embrione umano o a qualsiasi cellula umana, purché possieda la proprietà di svilupparsi in un organismo umano completo (totipotenza), indipendentemente dalle proprietà effettive della stessa o dello stesso; invece, in base alla seconda variante all’embrione o alla cellula umana totipotenti si attribuisce una suscettibilità di dignità differenziata, commisurata ai rispettivi stadi evolutivi delle proprietà effettivamente formate (individualità, sistema nervoso evoluto, capacità di raziocinio, autostima o simili). Mentre una disposizione contraria alla propria tutela e al proprio mantenimento su un embrione umano o su una cellula umana totipotente, come quella implicata nel procedimento illustrato, è perciò considerata dal punto di vista etico come assolutamente inammissibile dai sostenitori della prima variante, per gli esponenti della seconda variante essa è, al contrario, eticamente ed assolutamente giustificabile in determinate circostanze e addirittura imperativa.

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Queste due posizioni sembrano del tutto inconciliabili o per lo meno difficilmente conciliabili. Sullo sfondo degli obiettivi prioritari della ricerca sulle cellule staminali embrionali, tuttavia, occorre riflettere se non vi sia una possibilità di mediazione, almeno limitatamente a un ambito parziale. Nella fecondazione artificiale, anche in Germania si sono prodotti embrioni rimasti orfani e che non vengono impiantati. In considerazione di questa situazione si pone, quindi, la questione se non sia il caso di procedere a una ponderazione del male in relazione all’esistenza di uomini affetti da malattie gravi, poiché ci si trova davanti alle seguenti alternative di azione: o gli embrioni orfani vengono scartati o rimangono disponibili per la ricerca orientata alla terapia. Considerando le due alternative, l’ultima potrebbe essere considerata come il male minore. Gli esponenti categorici della prima delle due posizioni testé indicate farebbero comunque osservare che già con l’introduzione della fecondazione artificiale si è verificata una “rottura degli argini” o un “peccato” per cui gli embrioni orfani non avrebbero dovuto nemmeno essere prodotti. Si potrebbe anche addurre che il male minore forse non sarebbe neanche tale, se un’azione di questo tipo – una volta ammessa – suscitasse nuovi desideri. Tuttavia, anche coloro che rifiutano la fecondazione artificiale, dovrebbero riflettere su che fine debbano fare gli embrioni orfani o esuberanti, una volta che sono stati messi al mondo.

4. Il compromesso giuridico Attualmente in Germania il prelievo di cellule staminali embrionali da embrioni è proibito dalla legge sulla tutela dell’embrione (1990). Anche in base alla legge sulle cellule staminali (2002) la ricerca sugli embrioni e il prelievo di cellule staminali a partire dall’embrione nonché l’importazione e l’impiego di cellule staminali embrionali in Germania sono per principio vietati. Tuttavia, la legge prevede che l’autorità competente (cioè l’Istituto Robert Koch) possa concedere permessi eccezionali per l’importazione e l’impiego di cellule staminali embrionali. I criteri più importanti per la concessione di un permesso eccezionale sono costituiti dall’alta priorità e dalla mancanza di alternative nella ricerca. Inoltre, deve essere soddisfatto il presupposto che le cellule staminali embrionali siano ricavate da embrioni in eccesso e che ciò sia avvenuto entro una certa data (1° maggio 2007). Inoltre, è necessario ottenere il nullaosta di

una

commissione

etica

costituitasi

presso

l’autorità.

Dopo

una

lunga

discussione

controversa, la Dieta federale tedesca in data 11 aprile 2008 ha approvato una modifica della legge sulle cellule staminali. In quell’occasione fu deciso di spostare la data di scadenza per l’importazione di cellule staminali embrionali dal 1° gennaio 2002 al 1° maggio 2007. Lo spunto per un rinnovato dibattito e, quindi, per la modifica della legge è dovuto alle prese di posizione della Deutsche Forschungsgemeinschaft (DFG) nonché del Consiglio nazionale dell’etica degli anni 2006-2007. Le voci critiche hanno rimproverato l’arbitrarietà della definizione della scadenza anche per il fatto che dovrà essere attenuata se si dovesse verificare il fatto che con una linea di cellule staminali generata successivamente alla data di scadenza si possano ottenere risultati

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scientifici migliori che non con una precedente. Tuttavia, come argomento etico a favore di una data di scadenza, si adduce il fatto che la legislazione tedesca non dà luogo a ulteriori uccisioni di embrioni umani all’estero. Comunque, la plausibilità di questa argomentazione può essere messa in dubbio. Infatti, se lo status dell’embrione nel diritto tedesco rimane cosí come è e il procedimento di prelievo di cellule staminali embrionali presuppone un’uccisione, allora il “guadagno morale” di cellule staminali importate rispetto alle cellule staminali generate in proprio non risulterebbe più convincente. Chi rifiuta cellule staminali embrionali ottenute da embrioni umani, ma è a favore di un’importazione di cellule staminali embrionali, diventa anche a posteriori “complice” di coloro che hanno prodotto le dette cellule staminali embrionali. In altri parole, chi importa cellule staminali embrionali deve essere anche in via di principio disposto a ottenerle a partire da embrioni. E ciò a prescindere dalla questione se, dal punto di vista scientifico, sia in linea di massima ragionevole generare linee di cellule staminali in numerosi paesi o se non siano sufficienti poche linee ben descritte prodotte a livello internazionale. Tuttavia, nella prospettiva etica è indifferente in quale paese abbia avuto luogo l’impiego degli embrioni. Una distinzione in tal senso potrebbe essere tutt’al più rilevante se l’importazione riguardasse un caso eccezionale verificatosi “una tantum”, ma non si può far valere questo principio in senso assoluto. Comunque, la prassi giuridica attualmente auspicata al riguardo, che non risulta del tutto convincente dal punto di vista della filosofia morale, non è nuova, poiché già la legge sulla tutela dell’embrione presenta questa contraddizione interna. Infatti, la legge proibisce qualcosa – la ricerca embrionale – che è il presupposto di ciò che viene regolamentato: cioè la fecondazione in vitro. Senza ricerca embrionale questa tecnica non esisterebbe, e anche la fecondazione in vitro in Germania trae vantaggio dai risultati della ricerca embrionale condotta parallelamente all’estero. Dal punto di vista etico-sociale, tuttavia, dalla situazione attuale si può trarre un elemento positivo: la soluzione pragmatica giuridica può risultare per un certo verso soddisfacente in quanto mantiene uno standard etico senza al contempo impedire la ricerca. Quindi, la ricerca ha assunto un impegno. In questo modo è stata trovata una soluzione politica di compromesso che è tuttavia limitata nel tempo, poiché lascia aperte le questioni essenziali. Dal punto di vista giuridico-politico, attraverso la compensazione di interessi molto diversi tra di loro, si sono trovate le condizioni per gestire un dissenso fondamentale, per lo meno temporaneamente. Occorre attendere per sapere se la decisione del Tribunale regionale di Berlino del 14 maggio 2009 - di considerare una diagnosi pre-impianto conciliabile in determinate circostanze con la legge sulla tutela dell’embrione, se condotta allo scopo di rendere possibile una gravidanza - eserciti un effetto di principio sulla tutela dell’embrione in Germania in genere e sulla legge per la tutela dell’embrione in particolare.

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5. Conclusioni e prospettive L’associazione argomentativa della finalità prioritaria in vista della guarigione di uomini affetti da malattie molto gravi con la ponderazione del male in relazione all’impiego di embrioni orfani presuppone che le aspettative di guarigione possano anche essere soddisfatte, per cui l’approccio scientifico ne risulterebbe validato. E’ proprio qui, tuttavia, che dal punto di vista delle scienze naturali si segnalano delle riserve. Occorre chiedersi se le promesse di guarigione siano oneste e se, in considerazione dei risultati ottenuti nella manipolazione di cellule staminali embrionali animali, non sia intempestivo il trasferimento alle cellule umane. Inoltre, occorre prendere in considerazione la situazione dei singoli ricercatori. Qual è l’entità del pericolo della disonestà in relazione all’enorme pressione per il successo? Quali conflitti sorgono in considerazione di un possibile intreccio di interessi economici e scientifici? Sono proprio le tristi esperienze fatte nella ricerca nell’ambito della terapia genetica somatica dagli anni ’80 a questa parte a far comprendere (come comprovato dal caso del diciottenne Jesse Gelsinger che nel 1999 ha perso la vita a causa di una sperimentazione di terapia genetica) quanto sia importante controllare l’onestà e la validità dei progetti di ricerca, evitando i conflitti di interesse accennati. In considerazione dell’enorme importanza dell’intera problematica per la nostra immagine dell’uomo e del nostro agire, in quanto membri responsabili della società, nell’ambito della discussione nazionale come internazionale dobbiamo anche porci questioni sgradevoli, quando non condividiamo determinate posizioni di principio. Quali riflessioni possiamo avviare in considerazione del bene della “salute”? Che cosa sacrifichiamo nella nostra società in termini di umanità, se mettiamo a disposizione embrioni umani per la ricerca terapeutica? Quale responsabilità ci assumiamo se ostacoliamo possibilità terapeutiche per uomini affetti da malattie gravissime? In Germania saremmo disposti a rinunciare in futuro a terapie sviluppate all’estero? Bibliografia

Damschen, G./Schönecker, D.: Der moralische Status menschlicher Embryonen. pro und contra Spezies-, Kontinuums-, Identitäts- und Potentialitätsargument. Berlin 2003; Heinemann, Th./Kersten, J.: Stammzellforschung. Naturwissenschaftliche, rechtliche und ethische Aspekte. T. Heinemann, J. Kersten (Ethik in den Biowissenschaften - Sachstandsberichte des DRZE, 4 verantwortet von L. Honnefelder u. D. Lanzerath), Freiburg, München 2007; Schütze, H.: Embryonale Humanstammzellen : eine rechtsvergleichende Untersuchung der deutschen, französischen, britischen und US-amerikanischen Rechtslage (Schriftenreihe Medizinrecht), Berlin 2007; Wolf, M.: Ethische Kontroverse - demokratische Mitwirkung : Bio- und Gentechnologie als Thema der politischen Bildung (Tutzinger Schriften zur politischen Bildung), Schwalbach/Ts. 2009; Hacker, J./Rendtorff, T./ Cramer, P.: Biomedizinische Eingriffe am Menschen. Ein Stufenmodell zur ethischen Bewertung von Gen- und Zelltherapie, Berlin 2009.

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II. La sfida dell’aiuto a morire: l’autodeterminazione al termine della vita Non meno controverse delle questioni che riguardano l’inizio della vita sono quelle che si occupano della fine della vita. Proprio l’autodeterminazione alla fine della vita negli anni passati è stata oggetto di intense discussioni sfociate in attività legislative. Le misure tese a consentire una morte possibilmente priva di dolore a una persona gravemente ammalata o in punto di morte, sono denominate come aiuto a morire. Alla base di ciò vi è la decisione di massima che in determinati casi della fine della vita umana la morte sia preferibile alla continuazione della vita. Nel processo di riflessione che porta a favorire l’aiuto a morire, la cessazione di sofferenze insopportabili risulta prioritaria rispetto al mantenimento della vita. A prescindere dalla problematica esistenziale con il suo grande peso, le decisioni da prendersi alla fine della vita si presentano particolarmente difficili anche perché vi partecipano oltre al paziente stesso anche i parenti, i medici e coloro che assistono o curano, di cui ognuno ha la propria visione e il proprio punto di vista – per cui, ad esempio, l’etica professionale del medico si fonda su principi normativi prestabiliti che non concordano obbligatoriamente con gli auspici del paziente e dei parenti. Questa situazione di partenza può portare a posizioni divergenti, malgrado la finalità condivisa di una morte nella dignità ed evitando la sofferenza, per quanto riguarda le idee sul da farsi. La questione dell’aiuto a morire non fa parte soltanto delle problematiche più controverse nei contesti scientifici dell’etica medica. Negli anni passati, i casi di aiuto a morire riguardanti Terry Schiavo (Usa 2005) ed Eluana Englaro (Italia 2009) che a seguito di gravi lesioni cerebrali per molti anni non presentavano alcuna attività di coscienza né attività minimali, hanno attirato l’attenzione internazionale. Le pazienti sono decedute dopo la riduzione o la cessazione delle misure di mantenimento in vita. In precedenza vi era stato un gran numero di discussioni giudiziarie, politiche e pubbliche su simili provvedimenti. In Italia anche il destino di Piergiorgio Welby (2006) ha agitato i mezzi di comunicazione di massa. Costui, alla fine della sua vita, era completamente paralizzato da una distrofia muscolare e chiese l’aiuto a morire in una lettera aperta indirizzata al Presidente della Repubblica italiana. Nonostante fosse stata emanata una decisione giudiziaria negativa, il suo medico gli somministrò un narcotico e cessò la respirazione artificiale. La successiva querela per omicidio è stata rigettata. Grazie ai progressi compiuti dalla medicina intensiva nell’ambito dell’assistenza ai malati gravissimi, le persone si sentono sempre più spesso chiamate, anche nel proprio contesto personale, a dover riflettere sul processo della morte in termini etici: sia che la persona morente esprima il desiderio di porre fine alla propria vita prematuramente, sia che un tale desiderio possa essere supposto in caso di perdita della capacità di comunicazione in base a fondati motivi. Nelle discussioni sull’aiuto a morire il divieto di uccidere i pazienti, che da millenni fa parte delle basi della medicina, non offre più alcuna sicurezza che sia esente da dubbi. Per molte persone la morte non è sempre il male peggiore in tutte le circostanze. Piuttosto esse vengono messe di fronte, nel caso di malati gravissimi o morenti, a situazioni che ritengono

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estremamente dolorose e insostenibili, per cui ne auspicano una cessazione rapida. Anche il principio dell’autonomia, che appartiene ai pilastri dell’etica medica moderna, esercita un certo effetto sulla gestione della propria morte. La durata della vita in questi casi non è sempre l’unico

motivo

da

prendere

in

considerazione.

Le

persone

desiderano

influenzare

preventivamente le situazioni della fine della propria vita e possibilmente non vivere la fine della propria vita in condizioni disperate o particolarmente dolorose. Spesso sono proprio le nuove possibilità terapeutiche e della medicina intensiva a indurre questo dilemma. E’ comunque discutibile la misura in cui alla fine della propria vita sia possibile agire in modo responsabile quando le capacità epistemiche relative non sono più presenti. Il dubbio sull’autenticità delle espressioni di volontà di malati gravissimi non sorge soltanto quando sono perdute le capacità di consenso. Le aspettative dell’ambiente possono falsare la formazione della volontà e la relativa espressione come pure la mancanza di orientamento in circostanze di diminuzione delle capacità intellettive. Molte decisioni di ordine etico alla fine della vita umana devono avvenire in condizioni di incertezza epistemica. Persino in casi di desiderio di uccisione dichiarato non è possibile affermare con assoluta sicurezza se per il morente sia meglio continuare a vivere oppure no. D’altronde, non sussiste nemmeno una possibilità di revoca della sospensione dell’intervento. L’omissione di cure nella gestione della fine della vita umana hanno conseguenze pratiche che in gran parte dei casi costituiscono una ragione per riflettere sull’aiuto a morire. Ai fini della valutazione etica dell’aiuto a morire, le costruzioni semantiche e le distinzioni concettuali svolgono un ruolo determinante. Esse preformano in certo qual modo fin dall’inizio il modo di considerare la fattispecie problematizzata. Le differenziazioni semantiche si basano sostanzialmente sui rapporti tra termini antitetici, per cui vengono connesse al termine “aiuto a morire” coppie di aggettivi del tipo “attivo” e”passivo”, “diretto” e “indiretto”, nonché “volontario” e “involontario” oppure “non volontario”. Nei dibattiti etici, giuridici e politici relativi all’aiuto a morire finora non si ravvisa ancora una soluzione suscettibile di consenso generale, su quali principi siano da applicarsi ai fini della valutazione di prestazioni di aiuto nella morte o alla morte per casi individuali. In Germani finora la materia non è stata ancora sottoposta a normativa giuridica. I riferimenti giuridici orientativi sono costituiti dalla normativa del diritto della professione medica nonché dalle decisioni giudiziarie di ultima istanza emanate in occasione di casi problematici di aiuto a morire. Comunque, la Dieta federale nel 2009 ha approvato una legge entrata in vigore il 1° settembre che disciplina la vincolazione delle disposizioni dei pazienti nell’ambito del diritto di tutela.

1. L’evoluzione della discussione sull’aiuto a morire in Germania L’aiuto a morire in Germania, a prescindere dal diritto in materia di esercizio della professione medica (Regolamento professionale (modello) per i medici tedeschi), finora non è ancora stato oggetto espresso di una normativa giuridica speciale. Il legislatore tedesco non impiega né il

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concetto di “eutanasia”, storicamente compromesso e quindi ampiamente rimosso nello spazio germanofono, né il concetto di “aiuto a morire”, normalmente impiegato nel discorso contemporaneo di politica giuridica. Perciò ai fini della valutazione giuridica delle fattispecie valgono le disposizioni generali del diritto penale e civile. In questo caso, rivestono una rilevanza pratica particolare la discriminazione tra accorciamento attivo della vita nel senso dei delitti di uccisione punibili (in base ai paragrafi 211 e seguenti del codice penale) e misure non punibili tese ad attenuare le sofferenze alla fine della vita. Nel caso concreto, in genere si procede all’esame dei fatti contemplati dai paragrafi riguardanti l’omicidio: 211 (assassinio), 212 e 213 (omicidio) e 216 (uccisione su richiesta) del codice penale tedesco. In base al diritto tedesco, il suicidio non è una fattispecie penale, per cui anche l’aiuto al suicidio non è punibile. Tuttavia, in questo caso nella giurisprudenza viene analizzato se sussistano altre fattispecie punibili come l’omicidio o l’omissione di soccorso (paragrafo 323c del codice penale). Se l’aiuto al suicidio è prestato da un medico o da un parente prossimo è di particolare rilevanza, inoltre, la posizione di garante che la persona in questione assume nei confronti della persona che desidera la morte, poiché in questi casi può essere valutata come un reato anche l’eventuale omissione. In considerazione della genericità e dell’astrattezza delle disposizioni di legge, finora né la giurisprudenza né la scienza giuridica sono riuscite a sviluppare criteri generalmente accettati in base ai quali sia possibile definire per i casi singoli il limite della punibilità per prestazioni di aiuto nella morte o alla morte. Riferimenti al diritto civile si possono trarre in particolare in relazione ai requisiti contenutistici e formali per l’efficacia delle disposizioni dei pazienti, di deleghe previdenziali e assistenziali. Inoltre, il diritto costituzionale con il catalogo dei diritti fondamentali espressi nel testo costituzionale traccia il quadro di riferimento e il criterio assolutamente vincolante per il legislatore, essendo rilevanti in questo caso soprattutto gli articoli 1 comma 1 (dignità dell’uomo), articolo 2 comma 1 (punto di riferimento per il diritto di autodeterminazione), articolo 2 comma 2 (diritto alla vita e all’integrità fisica). L’ordine di valori costituzionale svolge anche un ruolo nel dibattito penalistico.

2. Prese di posizione al riguardo dell’aiuto a morire E’ proprio la situazione giuridica poco chiara che negli anni passati ha indotto diversi organi e gruppi di interesse in Germania a occuparsi di questa tematica. L’Ordine federale dei medici nel 2004 ha redatto i Principi per l’accompagnamento alla morte da parte dei medici. In questa pubblicazione si rifiuta “l’accorciamento mirato della vita attraverso misure che causano la morte o accelerano il suo decorso” in quanto “aiuto a morire attivo” e quindi come “inammissibile e punibile”. Tuttavia, vi si dice anche che per i moribondi, “la mitigazione della sofferenza può essere tanto primaria” che “può essere accettabile un accorciamento della vita possibilmente dovuto a ciò”. Le misure tese a prolungare la vita, in base ai principi dell’Ordine federale dei medici, possono essere interrotte o la loro applicazione può essere omessa in base

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alla volontà dichiarata o presunta del paziente, se servono soltanto a “ritardare la morte non essendovi più possibilità di arrestare il decorso della malattia”. Nel caso di pazienti incapaci di esprimere un assenso, il medico è tenuto a chiedere una dichiarazione dei rappresentanti legali che eventualmente dovranno essere nominati dal giudice tutelare. Nello stesso anno la Commissione bioetica della Renania-Palatinato ha pubblicato il proprio rapporto intitolato Aiuto a morire e accompagnamento nella morte: valutazione etica, giuridica e medica del conflitto tra dovere medico di mantenimento della vita e autodeterminazione del paziente. La pubblicazione è favorevole a un sostegno duraturo dell’assistenza domestica nonché alla predisposizione

di

ospizi

e

del

trattamento

medico

con

palliativi.

L’obbligatorietà

dell’esecuzione delle disposizioni dei pazienti dovrebbe essere rafforzata e fissata nella legge. Inoltre, la pubblicazione è favorevole a non dichiarare illegittimo “né l’omissione o la sospensione di una misura tesa a prolungare la vita su espresso desiderio del paziente, né l’accorciamento della vita accettato come effetto secondario di una medicazione necessaria e desiderata dal paziente”. E ciò a prescindere dal fatto “che il male di base del paziente abbia assunto un decorso irreversibilmente letale”. Se in casi di male gravissimo obiettivamente non eliminabile il medico dovesse procedere a un’uccisione su richiesta, in base a un voto maggioritario della commissione, il tribunale dovrebbe poter accantonare la comminazione di una pena. Analogamente, in determinate circostanze, anche un suicidio assistito dal medico eccezionalmente dovrebbe essere “giustificato”. Per quanto riguarda i provvedimenti legislativi che nel 2009 sono sfociati in una modifica del diritto di tutela o amministrazione di sostegno (vedasi infra), è rilevante il rapporto conclusivo del Gruppo di lavoro “Autonomia del paziente alla fine della vita” del Ministero federale della giustizia presentato il 10 giugno 2004. Il Gruppo di lavoro vi constata una necessità di regolamentazione e/o chiarimento relativamente alle questioni riguardanti la “necessità di una decisione dei rappresentanti in presenza di una disposizione del paziente”, il “vincolo del rappresentante ai sensi della volontà del paziente” nonché “la necessità di un assenso del giudice tutelare alle decisioni prese dai rappresentanti”. Il Gruppo di lavoro raccomanda a maggioranza di introdurre attraverso un’integrazione del codice civile l’istituto giuridico della disposizione informale del paziente. Ai sensi del paragrafo 1901b del codice civile, che dovrebbe essere inserito ex novo, l’amministratore di sostegno “è tenuto a rispettare la volontà dell’assistito espressa in una disposizione del paziente. In presenza di una disposizione del paziente relativa all’assenso o al rifiuto dell’assenso a determinate misure mediche o assistenziali, riferita alla situazione concreta, questa continua a essere valida anche quando subentra l’incapacità di assenso. L’amministratore di sostegno ha il dovere di eseguire questa decisione in misura ragionevole”. E ciò dovrebbe valere anche “quando la malattia non abbia ancora assunto un decorso letale”. Inoltre, il Gruppo di lavoro si è espresso a favore di una dichiarazione esplicita di impunibilità per l’aiuto a morire detto passivo e indiretto, introducendo un’integrazione in tal senso nel paragrafo 216 del codice penale. In tal modo si tradurrebbero i principi giuridici esistenti in forma di legge, ottenendo contemporaneamente un

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chiarimento sul piano giuridico e migliorando la certezza del diritto per medici, pazienti e rappresentanti dei pazienti. Oltre alla Commissione di inchiesta “Etica e diritto della medicina moderna” della Dieta federale tedesca (15a legislatura, 2004), nel 2005 il Consiglio nazionale dell’etica (denominato dal 1° agosto 2007 Consiglio tedesco dell’etica, formalmente costituito l’11.4.2008), si è occupato del tema “disposizioni del paziente”. La maggioranza dei suoi membri si è espressa a favore di una regolamentazione giuridica dei presupposti e della portata delle disposizioni dei pazienti. Analogamente il Consiglio dell’etica si è espresso a maggioranza a favore di integrazioni del codice civile e del codice penale in materia di obbligatorietà di esecuzione delle disposizioni dei pazienti. Questa obbligatorietà non dovrebbe essere limitata a determinate fasi della malattia. Tuttavia, una minoranza, al pari della Commissione di inchiesta “Etica e diritto della medicina moderna” è dell’opinione che le disposizioni dei pazienti, in cui è stabilita la sospensione delle misure tese a prolungare la vita, “dovrebbero essere considerate come vincolanti soltanto nel caso di un decorso della malattia irreversibile e con esito letale a breve termine”. Il Consiglio dell’etica propone la forma scritta (oppure “un’analoga forma affidabile”, ad esempio una videoregistrazione) come presupposto per la validità delle disposizioni dei pazienti, mentre altre forme, ad esempio la disposizione verbale, non dovrebbero essere considerate come vincolanti, mentre dovrebbero essere comunque prese in considerazione per la constatazione di una volontà presunta. La maggioranza non ritiene necessario procedere a una continua verifica dell’attualità della disposizione mediante una nuova firma. Inoltre, il Consiglio dell’etica vorrebbe definire per legge le competenze di amministratori di sostegno e procuratori. Il giudice tutelare dovrebbe essere consultato soltanto in caso di divergenze di opinione o di applicazione abusiva di una disposizione. Secondo il Consiglio dell’etica, il divieto dell’aiuto a morire attivo non dovrebbe essere posto in discussione. Nella sua presa di posizione pubblicata il 13 luglio 2006 e intitolata “Autodeterminazione e cure alla fine della vita”, il Consiglio nazionale dell’etica si occupa in prima linea dei problemi della terminologia attuale in relazione all’accompagnamento alla morte, terminologia giudicata “equivoca e fuorviante”, nonché delle problematiche emerse nel contesto del suicidio, in particolare della valutazione etica del suicidio in caso di malattie incurabili nonché dei temi inerenti ai compiti e ai doveri dei medici in relazione a interventi in caso di suicidio, di aiuto al suicidio e di uccisione su richiesta. Nell’ambito della propria presa di posizione, il Consiglio nazionale dell’etica rappresenta posizioni diverse: alcuni membri hanno fatto valere il fatto che l’aiuto al suicidio è in contraddizione con il compito professionale del medico e che sussiste la difficoltà di verificare se alla base del desiderio di suicidio di un paziente vi sia effettivamente una decisione presa in modo liberamente responsabile e seriamente meditata e non soltanto una crisi psichica temporanea o un disturbo depressivo. Vi si contrappone l’opinione di un secondo gruppo che sottolinea il fatto che i medici sono tenuti “ad attuare le proprie competenze mediche per il bene dei loro pazienti accettando la loro autodeterminazione”. In una situazione di malattia incurabile ciò può comportare anche l’aiuto al suicidio. Inoltre, la valutazione della capacità di

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decisione di un paziente farebbe quotidianamente parte dell’ambito delle funzioni mediche. Una terza posizione vede nella decisione del medico pro o contro l’aiuto al suicidio una decisione altamente personale di coscienza, che dovrebbe essere approvata e non perseguita in base alla normativa che disciplina l’esercizio della professione. Anche la questione della prestazione organizzata di aiuto al suicidio è controversa all’interno del Consiglio nazionale dell’etica. Al riguardo la maggioranza esprime riserve di fondo in senso contrario e anche i sostenitori della prestazione di aiuto al suicidio non ritengono desiderabile la forma organizzata rispetto all’aiuto al suicidio di tipo professionale da parte del medico curante. Sulla questione dell’uccisione su richiesta all’interno del Consiglio nazionale dell’etica c’è l’accordo sul fatto che il relativo divieto in base al paragrafo 216 del codice penale dovrebbe essere mantenuto, mentre in casi singoli dovrebbe sussistere la possibilità della depenalizzazione. Nella fase preparatoria del processo legislativo, anche la Deutsche Hospizstiftung (= Fondazione tedesca degli ospizi) presentò un disegno di legge in cui si prospetta un procedimento graduale di verifica della volontà del paziente. Ove sussista senz’ombra di dubbio una disposizione del paziente attuale (cioè non più vecchia di due anni) in forma scritta, soggetta a rigorosi requisiti, questa dovrebbe essere considerata come strettamente vincolante e quindi equiparata a un’espressione di volontà attuale. In questo caso non sarebbe necessario ricorrere al giudice tutelare. In caso di assenza di una simile disposizione del paziente di tipo ideale, occorre verificare, da parte del medico curante e dell’amministratore di sostegno o del procuratore, la volontà presunta in base a espressioni precedenti del paziente, previa consultazione di un organo consultivo. Se tutti costoro giungono a una valutazione concordante, la volontà verificata in questo modo deve essere considerata come base per procedere, mentre in caso di dissenso è necessario ricorrere al giudice tutelare. Questa compilazione di talune prese di posizione prescelte in tema di aiuto a morire e disposizioni del paziente dimostrano, da una parte, l’urgenza di un’iniziativa legislativa atta ad assicurare una chiarezza giuridica a scarico dei partecipanti mentre, dall’altra, emerge quanto controversa sia la discussione sul tema in Germania. Quest’ultimo elemento rende difficile pervenire a un consenso su una legge. Tuttavia, nel frattempo in tema di disposizioni del paziente il processo legislativo si è concluso perlomeno temporaneamente.

3. La regolamentazione giuridica della disposizione del paziente In seno alla Dieta federale tedesca, il tema della disposizione del paziente è stato discusso per oltre cinque anni. Alla Dieta federale sono stati presentati tre disegni di legge trasversali rispetto alle frazioni e tesi a regolamentare il diritto delle disposizioni dei pazienti. Il punto conteso riguarda soprattutto il grado di obbligatorietà e la portata delle disposizioni dei pazienti. Il progetto dei deputati Stünker, Kauch ed altri pone l’accento sul diritto all’autodeterminazione alla fine della vita, mentre il disegno dei deputati Bosbach, Röspel ed altri prevede una graduazione del vincolo dei documenti in base al tipo di malattia e alla fase di

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decorso, attribuendo grande importanza alla consulenza medica e giuridica. Il progetto di Zöller, Faust e altri pone in evidenza il vincolo relativo alle disposizioni dei pazienti a prescindere dal tipo e decorso della malattia. Il processo di verifica della volontà presunta del paziente, da parte del medico, del rappresentante legale del paziente ed eventualmente di parenti prossimi e personale curante, deve essere materia di indagine giuridica. Il 18 giugno 2009 la Dieta federale tedesca ha adottato il progetto di legge dei deputati Stünker, Kauch ed altri sotto il titolo di Terza legge di modifica del diritto di amministrazione di sostegno. Dal 1° settembre in poi la volontà del paziente messa per iscritto nelle disposizioni del paziente, deve essere vincolante per i medici. L’amministratore di sostegno deve esaminare se quanto è disposto nel documento si riferisce alla situazione di vita e di trattamento attuale. “Nel caso in cui,

l’amministratore

di

sostegno

deve

conferire

espressione

e

validità

alla

volontà

dell’assistito. La disposizione del paziente può essere revocata in modo informale in qualsiasi momento”. Le vie legali potranno essere percorse soltanto in caso di litigio. Se la volontà del paziente è espressa in forma scritta, è ugualmente valida – e precisamente in modo del tutto indipendente dal tipo e stadio della malattia. In caso di assenza di una disposizione, occorre verificare la volontà presunta del paziente come in passato. “La volontà presunta va verificata in base a punti di riferimento concreti. In particolare, occorre verificare le espressioni verbali o scritte precedenti, le convinzioni etiche o religiose ed altre concezioni e valori personali dell’assistito”. In caso di divergenza tra l’amministratore di sostegno e il medico in merito a tale decisione, si ricorre al giudice tutelare. Con questa obbligatorietà della disposizione del paziente e della sua volontà, formulata mediante una legge, si ha una notevole rivalutazione del diritto all’autodeterminazione alla fine della vita.

4. Conclusioni e prospettive Qualsiasi tentativo di chiarimento, anche futuro, delle questioni ancora aperte in campo etico, etico-giuridico ed etico sociale nella discussione sull’aiuto a morire, dovrà essere commisurato al grado in cui riusciranno a rispettare in modo adeguato tutti e tre i punti di riferimento eticonormativi che sono da porsi in modo determinante per questa discussione: il diritto di autodeterminazione, il diritto alla vita nonché il diritto all’integrità fisica e psichica. In questo caso, sono determinanti per la valutazione etica dell’aiuto a morire e della rispettiva regolamentazione giuridica e deontologica non soltanto l’autodeterminazione, la vita e l’integrità fisica e psichica di colui che vorrebbe richiedere l’aiuto a morire, ma anche l’autodeterminazione, la vita e l’integrità fisica e psichica di colui che assiste nell’aiuto a morire nonché di tutti coloro che sono interessati in quanto terzi dalle conseguenze dell’esecuzione di un atto di aiuto a morire o dalle conseguenze della sua regolamentazione giuridica o deontologica. Occorre assolutamente impedire che il “diritto a una morte naturale” in base alle esigenze sociali si trasformi in un “dovere di morire”.

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Mentre la discussione sull’aiuto a morire può essere intesa come un tributo al riconoscimento e al trattamento della contingenza dell’esistenza umana, il tema successivo è il contrario esatto. La biotecnologia e la biomedicina mettono a disposizione sempre più mezzi tesi a suscitare fabbisogni atti a migliorare per principio la natura umana fino alla visione dell’immortalità. Bibliografia Grimm, C./Hillebrand, I.: Sterbehilfe. Rechtliche und ethische Aspekte (Ethik in den Biowissenschaften - Sachstandsberichte des DRZE, 4 verantwortet von D. Sturma,. D. Lanzerath u. B. Heinrichs), Freiburg, München 2009; Schockenhoff, E.: Töten oder Sterbenlassen Worauf es in der Euthanasiediskussion ankommt, 2000. In: B. Gordijn / H. ten Have (a cura di) Medizinethik und Kultur : Grenzen medizinischen Handelns in Deutschland und den Niederlanden (Medizin und Philosophie 5), Stuttgart-Bad Cannstatt 2000; idem: Selbstbestimmt sterben? Zur Kritik der Euthanasie. In: Internationale katholische Zeitschrift Communio (33)6, 2004, 574-589; Wolfslast, G./Conrads, C.: Textsammlung Sterbehilfe, Berlin 2001

III. La sfida dell’enhancement: antropotecniche ed ethos medico Con gli ormoni della crescita prodotti mediante tecniche genetiche e utilizzati come mezzi di doping nello sport, per la correzione dell’estetica fisica nella chirurgia cosmetica, speculando sul possibile impiego di procedimenti di terapia genetica per l’aumento della prestazione mnemonica o la diminuzione di comportamenti aggressivi, sembra che le bioscienze e le biotecnologie offrano uno spettro sempre maggiore e apparentemente infinito di possibilità di intervento nella natura umana. Queste possibilità – che si tratti di scienza o di fiction – ci presentano una nuova qualità e profondità di intervento che fanno emergere anche la questione della loro portata e del loro limite. Annunciano così l’inizio di una nuova era della medicina che entra progressivamente nel campo di forme aperte di antropotecnica? O emerge addirittura una gamma di metodi completamente nuova con fini e finalità sempre più ampi che potrebbero portare a sconvolgimenti radicali dei profili professionali noti, delle rivendicazioni sociali e delle forme di autorealizzazione individuale? Tutto ciò richiede riflessioni di principio sulle condizioni strutturali e le finalità della medicina moderna e della loro differenza rispetto alle antropotecniche fondamentalmente aperte a varie finalità. Con l’idea dell’ottimizzazione della natura umana si dispiegano, all’interno del recente dibattito di bioetica, dinamiche estremamente varie. Se autori come Francis Fukuyama temono la “fine dell’uomo”, vedendo all’orizzonte un futuro nuovo di tipo postumano, entro un quadro di controversa biologicizzazione o medicalizzazione dell’umano, altri vi ravvisano un’opportunità per migliorare la salute oppure addirittura l’ultimo passo del compimento del progetto umanistico dell’addomesticazione dell’uomo per l’ appunto attraverso le bioscienze, un compimento che è rimasto precluso alle scienze dello spirito. Secondo l’opinione di Peter

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Sloterdijk, in futuro sarà importante riprendere in modo attivo il gioco della selezione e del controllo genetico formulando un “codice delle antropotecniche”. Un aspetto centrale del dibattito – e a questo si limita la sezione seguente – consiste nel determinare in quale misura sia possibile distinguere le antropotecniche dai metodi medici e se questa distinzione possa essere resa fertile sul piano normativo. In altre parole, l’enhancement è in linea di massima conciliabile con le esigenze dell’ethos medico?

1. L’enhancement e le finalità dell’agire medico I problemi delle tecniche di enhancement in relazione all’ethos medico fanno parte di problematiche che riguardano i limiti di principio dell’impiego delle applicazioni delle bioscienze nonché la posizione generale della medicina nella società. Se si considera la medicina come non più o non più esclusivamente diretta verso determinate finalità (diagnosi, terapia, ivi compresa quella con mezzi palliativi, e prevenzione), allora le tecniche mediche sono a disposizione per qualsiasi finalità. Il profilo professionale tradizionale del medico e il rapporto medico-paziente sono stati caratterizzati da occasioni terapeutiche definite più o meno precisamente e da altrettante precise aspettative comportamentali e regolamentazioni. Il medico veniva ricercato dal paziente quando si presentava un’occasione concreta dovuta a malattia o anche in caso di bisogno di consulenza e prevenzione. Anche se la professione medica è da sempre stata definita come “professione libera”, il profilo professionale è cambiato. All’insegna di un inserimento sempre più massiccio della popolazione nella previdenza sanitaria obbligatoria per legge, la funzione del medico è stata definita in misura sempre maggiore dalla prestazione nell’ambito del sistema della previdenza mutualistica. Siccome il reddito è stato garantito in linea di massima dalla partecipazione alla previdenza sanitaria pubblica, le prestazioni addizionali e la relativa propaganda svolgevano un ruolo relativamente minore. Sebbene questo profilo professionale tradizionale non sia assolutamente superato, tuttavia si possono ravvisare notevoli cambiamenti intervenuti non solo nella professione medica, ma anche nella medicina in genere. Evidentemente è sorto un grande fabbisogno di prestazioni mediche che non servono al trattamento delle malattie, ma che inducono il medico a offrire prestazioni simili finalizzate a un miglioramento “proattivo” della forma fisica, delle capacità psicofisiche, della qualità della vita e della prevenzione di lungo termine. Perciò non solo i malati ma sempre più anche le persone sane stanno diventando “consumatori” di prestazioni mediche. Il ruolo tradizionale, che è sempre e comunque esistito, del medico in quanto “consulente sanitario” si arricchisce così di nuovi aspetti e utilizza nuovi metodi. Quindi, la professione medica non costituisce un’eccezione rispetto ad altre professioni libere caratterizzate analogamente da nuove prestazioni di servizio e forme di comunicazione (consulenza legale, assistenza tecnica, consulenza per la vita ecc.). Di conseguenza, alla medicina si assegna un diverso grado di priorità nell’ambito della “società efficientista”. Non vi

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è quindi motivo di meravigliarsi se sono state elaborate nuove forme di valutazione e caratterizzazione (ad esempio: Ärzte-TÜV, Ranking, “i cento medici migliori”). Comunque, non mancano nemmeno le voci che avvertono del pericolo di trascurare i veri malati, gli invalidi e gli anziani nonché tutte le altre persone inadeguate secondo il dettame della società efficientista e della buona forma fisica, sollecitando un maggiore orientamento alla persona e non al mercato. La Commissione etica centrale dell’Ordine federale dei medici (ZEKO) attualmente si sta occupando di redigere una presa di posizione al riguardo, sottolineando così l’importanza di questa discussione. In questo ambito sono sottoposti a discussione critica tutti i metodi resi possibili dal progresso della ricerca biomedica, atti ad aumentare l’efficienza delle persone sane e la natura dell’uomo in genere (enhancement). Ciò riguarda soprattutto i campi di applicazione esterni all’indicazione medica: antiaging, chirurgia estetica, neuro-enhancement e doping. In relazione a un tale ampliamento delle finalità si critica che, in considerazione delle prestazioni di servizi medico-tecnici offerti sempre più frequentemente, si sta producendo una trasformazione del “paziente” in “cliente”. In questo modo l’agire “medico” rischia di essere regolato secondo la legge dell’offerta e della domanda del mercato e il rapporto fiduciario tra medico e paziente, finora legato alla teleologia medica, verrebbe sostituito da un rapporto contrattuale individuale che ammette anche l’enhancement. Da più parti si propone perciò una distinzione tra terapia e enhancement. Una simile discriminante permetterebbe al medico di rifiutare lo stesso medicamento per una persona in quanto preparato del tipo lifestyle in base a una indicazione assente, ma di somministrarlo a un altro paziente in quanto farmaco atto a curare una malattia e attenuare la sofferenza. Il problema di base non è nuovo, perché l’ambivalenza dei mezzi a disposizione del medico è già stata oggetto degli scritti ippocratici e aristotelici. L’agire medico, quindi, si orienta in base all’indicazione o alla controindicazione, alla natura dell’individuo da trattare e alle finalità generali dell’agire medico.

2. La medicalizzazione del mondo della vita Comunque, si ravvisa un mutamento generale che porta da una medicina finalizzata a una medicina aperta a diverse finalità dotata di mezzi liberamente disponibili. Da una parte, il processo si accompagna all’osservazione di una sempre maggiore medicalizzazione del mondo della vita e, dall’altra parte, di concezioni meccanicistiche o naturalistiche del corpo e dello spirito, che suggeriscono che in caso di cognizioni sufficienti sarebbe possibile ottenere, mediante l’ausilio di metodi scientifico-tecnici, qualsiasi mutamento psicofisico o addirittura sociale. In che modo – e in ciò svolge un ruolo importante il concetto di salute dell’OMS (“Health is a state of complete physical, mental and social well-being and not merely the absence of disease or infirmity”) definito nel 1946 – si medicalizzano, ad esempio, i problemi psico-sociali, se gli psicofarmaci non vengono assunti come medicamenti per curare una malattia, ma come mezzo

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di lifestyle? Sussiste il sospetto che mediante le tecniche di enhancement si debbano risolvere per via “medica” problemi che sono invece di natura psico-sociale, per la cui soluzione esistono forse altre vie migliori o più efficienti al di fuori del campo di competenza della medicina. Per quanto riguarda le finalità dell’enhancement rimane aperta la questione dell’orientamento per il concetto di miglioramento: su quali “capacità”, “talenti” e “normalità” occorre basarsi? Perciò, nel dibattito

vi è

un

ampio

spazio

a proposito

della possibile

inadeguatezza della

medicalizzazione di problemi che sono piuttosto di natura psico-sociale. Da un lato, ci si chiede se i metodi di simili antropotecniche siano adeguati per ottenere gli obiettivi prospettati, assicurando il successo, e dall’altra parte ci si chiede se ricadano comunque nel campo di competenza della medicina e dell’agire medico o se non siano invece incompatibili con i relativi compiti e obiettivi. Su questa base, nella letteratura si discute in particolare dei campi dell’azione

medica

nell’ambito

del

trattamento

degli

ormoni

della

crescita

o

della

psicofarmacologia. Se i genitori di una bambina, che in base ai dati statistici può essere considerata “di statura normale”, richiedono un trattamento a base di ormoni della crescita perché il desiderio professionale di diventare “modella” implica una determinata statura ideale, occorre discutere se - indipendentemente dal problema della responsabilità tutelare dei genitori e a prescindere dalla questione dei rischi per la salute di un tale tipo di trattamento nonché degli effettivi effetti terapeutici - esistano criteri che proibiscono un tale trattamento non soltanto da parte del medico – in assenza di un’indicazione medica – ma anche rispetto ai criteri generici dell’autoformazione nel contesto di una determinata forma societaria esistente. L’importanza della relazione tra statura corporea e formazione della vita non è affatto da scartare, se si prendono in considerazione le analisi empiriche che rendono misurabili le correlazioni tra la statura corporea e il successo professionale. In questo caso occorre anche riflettere se le paure dei figli o dei genitori in relazione al futuro – ad esempio in vista della scelta professionale – possano essere ridotte, nel contesto in discussione, a un unico momento di disposizioni fisiche, che non sia collegato o sia collegato solo in linea secondaria con il vero problema psico-sociale, dando luogo a un trattamento che appare inadeguato per quanto riguarda l’impiego dei mezzi. Si pensi, inoltre, alla discussione in corso nell’ambito della psichiatria e della psicoterapia infantile e adolescenziale, che verte sulla questione se il deficit di attenzione e disturbo di iperattività (ADHS) sia veramente da catalogare come malattia o se si tratti di un fenomeno sociale da ricondursi a carenze esistenti nell’ambito familiare o nei sistemi educativi occidentali. Questo sospetto sorge in particolare per il fatto che – malgrado l’esistenza della chiave ICD – in numerosi paesi questa malattia non sia nemmeno diagnosticata. La somministrazione corrente di Ritalin nelle quantità in uso suscita, quindi, il sospetto che si tratti di enhancement o deve addirittura considerarsi come dannosa se avviene in assenza di una competenza pedagogica o psicoterapeutica. In simili casi occorre chiedersi, inoltre, se l’analisi del problema, la scelta dei mezzi e l’idea delle finalità siano adeguatamente proporzionati gli uni agli altri. In quale misura un problema

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più profondo viene ridotto al solo dato fisico e medicalizzato in base alla forma di un determinato trattamento? Al riguardo occorre anche discutere sulla misura in cui una correzione estetica sia, da un lato, in grado di attenuare un eventuale svantaggio e una sofferenza rafforzando contemporaneamente, dall’altro, con un tale intervento quelle idee di valori e quegli stereotipi estetici che sono alla base dello stesso svantaggio e della stessa sofferenza. Ciò non significa affatto che occorre negare che questi problemi portati alla medicina siano da prendersi sul serio. Occorre, comunque, chiedersi se la soluzione spetti in ogni caso alla medicina e se i mezzi offerti siano quelli adeguati. Senza alcun dubbio, l’estensione della comprensione della salute e della malattia comporta un maggiore ampliamento del concetto di trattamento medico. Sono sempre più frequenti le voci critiche secondo cui ogniqualvolta sorgono fabbisogni sociali che non attendono classicamente una risposta dalla medicina, ma per i quali la medicina ha a disposizione un repertorio metodologico, il concetto di malattia viene semplicemente ampliato offrendo così una motivazione all’applicazione di metodi o tecniche da parte dei medici. Ad esempio, in chirurgia cosmetica si legittimano interventi voluti per fini estetici con l’allargamento del concetto di malattia, anche se tra chirurghi si discute sempre più sul fatto se tale trattamento elimini il male vero o non sia invece all’origine di mali molto maggiori. Di conseguenza, risulta evidente che la questione della giustificazione dell’impiego di tecniche di enhancement non viene discussa solamente in relazione alla legittimità di una determinata finalità, ma anche in vista di una scelta appropriata dei mezzi a disposizione. E’ possibile che l’adozione di un concetto di malattia inteso in senso normativo sia utile per limitare l’agire medico in considerazione delle possibilità di enhancement, impedendo così che la medicina diventi “antropotecnica”. Finora, però, non è stato ancora chiarito se, fuori del campo propriamente medico, il desiderio di enhancement si inserisca in una cornice di miglioramenti o correzioni della prestanza della natura umana, a cominciare dai progetti educativi e di istruzione, per passare all’effetto psicotropo a seguito dell’assunzione di droghe, quali l’alcol, fino al “miglioramento” estetico del corpo umano con tatuaggi o peircing, per il quale esistono lunghe tradizioni, ad esempio nelle culture africane. Dal punto di vista etico, la questione dei limiti dell’applicazione di tecniche di enhancement esorbita certamente dal campo dei rischi medico-tecnici. Occorre chiarire se possano esservi norme valide che disciplinano - in considerazione della possibilità di un miglioramento biotecnico della società o degli individui, nell’ambito di una responsabilizzazione collettiva nella comunità e per essa - l’impiego di tali “antropotecniche” atte all’enhancement, rispettando nel contempo le esigenze individuali di una vita di successo tesa all’autorealizzazione. Infatti, l’uomo realizza se stesso nella buona vita in base alle proprie decisioni con la partecipazione produttiva di altri, cioè nella buona vita comune.

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3. Conclusioni e prospettive Se l’uomo è contemporaneamente assolutamente identico alla propria natura, verso la quale può avere un determinato atteggiamento e nella quale può intervenire in sede diagnostica e terapeutica, non si aprono solo spazi all’intervento, ma si delineano anche limiti in vista della conservazione dell’identità propria dell’uomo. Non è solo la manipolazione dall’esterno che porta all’alienazione e alla perdita dell’identità. In questo senso anche all’esterno del campo della medicina si pongono dei limiti agli interventi nella natura per rispetto dell’identità personale. Allora nell’ambito dei vari campi di azione si tratta di discutere quale tipo di autorealizzazione interessi nel caso specifico la natura umana nella sua essenza, cioè quando non si può più parlare di realizzazione, ma solo di manipolazione. A ciò si collega la questione della forma di fragilità e contingenza necessaria per un progetto di vita riuscita. In considerazione delle future antropotecniche atte all’enhancement, sarà possibile reperire un equilibrio

tra

autotrascendenza

e

corporeità,

apertura

progettuale

e

determinazione,

cambiamento e conservazione dell’identità? Per quanto riguarda le bioscienze, Kant aveva escluso la possibilità di autogenerarsi in base a un progetto proprio. “A che cosa possiamo orientarci” – così si chiese G. Böhme – “se non accettiamo più l’ordine della natura come dato, ma se vogliamo generarlo ‘in base a un progetto proprio’? Il panico che ci coglie alla vista delle possibilità che il sapere genetico ha posto nelle nostre mani, corrisponde all’imbarazzo di fronte a un compito al quale non siamo preparati, al recesso davanti a una responsabilità alla quale non siamo adeguati, all’orrore davanti a un fare che continuiamo a considerare come hybris”. Allora, quali criteri ci aiutano a uscire dall’imbarazzo, se vogliamo perseguire responsabilmente il progetto dell’autocompimento? E quali mezzi sono raccomandabili a questo scopo in vista delle future antropotecniche? Ancora una volta la soglia tra ciò che è fattibile con la medicina e ciò che è responsabile dal punto di vista medico, tra autorealizzazione e perdita di sé è difficilmente definibile. Certamente questa soglia viene spostata in continuazione. Ma esiste un nucleo essenziale irremovibile davanti al quale l’applicazione delle antropotecniche, seppure condotta sotto la responsabilità individuale e collettiva, deve arretrare? Allora l’enhancement può essere inteso come un trattamento che va oltre la terapia, ma che può essere di volta in volta o formazione o manipolazione? Questa questione non è identica alla questione di chi debba pagare per tutto questo. Al riguardo ci si devono attendere ancora notevoli dibattiti di natura bioetica e biopolitica.

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Bibliografia Böhme, G.: Die Vernunft und der Schrecken. Welche Bedeutung hat das genetische Wissen: Naturphilosophische Konsequenzen, in: Honnefelder, L.; Propping, P. (a cura di): Was wissen wir, wenn wir das menschliche Genom kennen?, Köln, 2001, 189-195; Fuchs, M./D. Lanzerath/I. Hillebrand et al.: Enhancement. Die ethische Diskussion über biomedizinische Verbesserungen des Menschen. drze-Sachstandsberichte 1, Bonn 2002; Fukuyama, F.: Das Ende des Menschen. Stuttgart 2002; Lanzerath, D.: Krankheit und ärztliches Handeln. Zur Funktion des Krankheitsbegriffs in der medizinischen Ethik, Freiburg i. Br. 2000; Sloterdijk, P.: Regeln für den Menschenpark. Ein Antwortschreiben zu Heideggers Brief über den Humanismus, Frankfurt am Main, 1999.

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L’autore Dirk Lanzerath Dirk Lanzerath si è laureato in Biologia, Filosofia e Teologia Cattolica all’università di Bonn e ha preso il titolo di Dottorato di Filosofia (Dr. phil.) nel 1998. Dal 1990 al 1993 è stato collaboratore scientifico presso l’Università di Bonn, seminario filosofico nella sezione di bioetica e si è poi trasferito all’Istituto di Scienza e Bioetica a Bonn. Dal 2002 è Direttore del Centro Tedesco di Referenze di Etica nelle Scienze Biologiche. Inoltre dal 1995 è docente di filosofia presso la facoltà di filosofia dell’Università di Bonn e dal 1996 è docente ospite presso la Loyola Marymount University, Los Angeles, Ca. Dal 2008 è membro della commissione etica della camera tedesca dei medici.

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