Volume 12 - Vecchiaia

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IL CRISTIANESIMO COME MOTORE DELLA MODERNITÀ - VOLUME NO. 12

Il Cristianesimo e la vecchiaia Warnfried Dettling / Ursula Lehr


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Il Cristianesimo e la vecchiaia Warnfried Dettling / Ursula Lehr

Indice

Estratti dal Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa Cattolica, dalla Lettera di Giovanni Paolo II ai partecipanti alla II Assemblea Mondiale sull’invecchiamento (2002) e dal Dott. Robert Zollitsch (compilati da Katharina Fuchs)

Osservazioni conclusive.........................................................................................22


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Estratti

dal

Compendio

della

Dottrina

Sociale

della

Chiesa

Cattolica, Capitoli 5 e 6: (222) “L'amore si esprime anche mediante una premurosa attenzione verso gli anziani che vivono nella famiglia: la loro presenza può assumere un grande valore. Essi sono un esempio di collegamento tra le generazioni, una risorsa per il benessere della famiglia e dell'intera società: ‘Non solo possono rendere testimonianza del fatto che vi sono aspetti della vita, come i valori umani e culturali, morali e sociali, che non si misurano in termini economici o di funzionalità, ma offrire anche un contributo efficace nell'ambito lavorativo e in quello della responsabilità. Si tratta, infine, non solo di fare qualcosa per gli anziani, ma anche di accettare queste persone come collaboratori responsabili, con modalità che rendano ciò veramente possibile, come agenti di progetti condivisi, in fase sia di programmazione, sia di dialogo o di attuazione.’ Come dice la Sacra Scrittura, le persone ‘nella vecchiaia daranno ancora frutti’ (Sal 92,15). Gli anziani costituiscono un'importante scuola di vita, capace di trasmettere valori e tradizioni e di favorire la crescita dei più giovani, i quali imparano così a ricercare non soltanto il proprio bene, ma anche quello altrui. Se gli anziani si trovano in una situazione di sofferenza e dipendenza, non solo hanno bisogno di cure sanitarie e di un'assistenza appropriata, ma, soprattutto, di essere trattati con amore.” (285) “La domenica è un giorno da santificare con un'operosa carità, riservando attenzioni alla famiglia e ai parenti, come anche ai malati, agli infermi, agli anziani.”

Giovanni Paolo II.: “Lettera di Giovanni Paolo II ai partecipanti all II Assemblea Mondiale sull’invecchiamento” (10 aprile 2002): “Occorre, in primo luogo, considerare l'anziano nella sua dignità di persona, dignità che non diminuisce con il passare degli anni e con il deterioramento della salute fisica e psichica. (…) Occorre parimenti che tali politiche si completino con programmi formativi volti a preparare le persone all'anzianità durante tutta la loro esistenza, rendendole capaci di adattarsi ai cambiamenti, sempre più rapidi, nello stile di vita e di lavoro. Una formazione incentrata non solo sul fare ma anche e soprattutto sull'essere, attenta ai valori che fanno apprezzare la vita in tutte le sue fasi, e sull'accettazione sia delle possibilità sia dei limiti che la vita ha. (…) La nostra civiltà deve assicurare agli anziani un'assistenza ricca in umanità e permeata di valori autentici. A tale proposito, possono svolgere un ruolo determinante lo sviluppo della medicina palliativa, la collaborazione dei volontari, il coinvolgimento delle famiglie - che perciò devono essere aiutate ad affrontare la loro responsabilità - e l'umanizzazione delle istituzioni sociali e sanitarie che accolgono gli anziani. Un vasto campo in cui la Chiesa cattolica, in particolare, ha offerto - e continua ad offrire - un contributo importante e permanente. Riflettere sull'anzianità significa pertanto prendere in considerazione la persona umana che, dalla nascita fino al suo tramonto, è dono di Dio, a sua immagine e somiglianza, e sforzarsi affinché ogni momento dell'esistenza sia vissuto con dignità e pienezza.”

Il parere di Arcivescovo Dr. Robert Zollitsch: „La società invecchiata come una sfida per la chiesa“ (24 febbraio 2010): „Abbiamo identificato tre aspetti centrali, i quali caratterizzano la società che invecchia come una sfida per la chiesa e forniscono un orientamento per un rapporto responsabile con questo centrale sviluppo sociale:


4 1. Possiamo affermare con piacere: La durata maggiore della vita è una vittoria. Guistamente lo sguardo viene rivolto in modo rafforzato anche verso le probabilità della vecchiaia. 2. Nonostante le probabilità della vecchiaia dobbiamo accertare: Il fenomeno della socità che invecchia apporta sfide e rappresenta un peso per il singolo, la società e la chiesa. 3. La società nonchè la chiesa devono prendere questo sviluppo sul serio e devono affrontarlo in maniera differenziata. Sono convinto: La comprensione cristiana umana offre impulsi avveniristici e perciò deve fungere necessariamente anche qui da canone: L’uomo è la creatura di Dio; in qualsiasi tempo della sua esistenza. In sintesi possiamo dire: Viene presentato un rapporto responsabile con la problematica della società che invecchia; un rapporto che si basa sull‘immagine cristiana dell’uomo. Da questa responsabilità nascono le conseguenze concrete per le relazioni tra le generazioni. In questo contesto la giustizia generazionale assume un notevole pregio. Si tratta della solidarietà e dell’unione rispettosa tra le generazioni. Bisogna prendere in considerazione sia i bisogni che le capacitá dei giovani e degli anziani. Inoltre è essenziale un sano equilibrio tra egoismo e bene comune.

I testi sono stati compilati da Katharina Fuchs


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Warnfried Dettling: Impegnati insieme – la nuova idea della vecchiaia

L’invecchiamento costituisce una grande opportunità: sia per l’impegno civico onorifico sia per la coesione sociale. Tuttavia questa opportunità si realizza soltanto se si riesce a sviluppare una nuova idea della vecchiaia rafforzando l’impegno volontaristico. Il volontariato ha bisogno degli anziani e questi hanno bisogno di persone che abbiano tempo da dedicare agli altri. Si tratta di un cambio di prospettiva per l’assistenza agli anziani e la politica degli anziani, che si ripercuote in profondità in tutta la società. Questo cambio di prospettiva, che può dare luogo a una nuova idea della vecchiaia, vorrei illustrarlo in dieci tesi.

I. Pensare in positivo! Dell’invecchiamento della società si discute per lo più in relazione all’andamento demografico della società. Si parla di un “invecchiamento eccessivo”

della società. Al

riguardo occorre, invece, ribadire che il problema dell’andamento demografico non consiste nel fatto che ci sono troppi vecchi (1), ma troppo pochi bambini. Perché dovrebbe essere una “catastrofe” se un numero sempre maggiore di persone diventa sempre più vecchio, tanto più se le condizioni generali sono regolari (mercato del lavoro, forza economica, ecc.)? L’invecchiamento della società non è una “catastrofe”, ma non è nemmeno un problema, che si possa “risolvere” alla buona, per poi passare al punto successivo dell’ordine del giorno. Si tratta, invece, di un compito da adempiere, con il quale è possibile crescere o anche fallire: il singolo, lo stato, il comune, la provincia, la società locale. Se invece l’invecchiamento è inteso in senso negativo come invecchiamento eccessivo e questo come una catastrofe, le conseguenze possono essere notevoli: per la politica degli anziani, che quindi si risolve nell’assistenza a favore di una categoria ai margini della società (approccio deficitario) come anche per gli stessi anziani di cui si compromettono così l’autodefinizione e l’autoconsapevolezza. Parlando a lungo degli anziani nell’ottica deficitaria, si contribuisce a farli sentire veramente solo vecchi e deboli. Inizia così un’emarginazione nella mente, cioè una nuova forma di discriminazione, per la quale in America è stata coniata una nuova espressione: ageism. Con ciò si intende l’emarginare e lo svantaggiare persone in base all’età, come con “sessismo” si intende l’emarginazione in base al sesso e con “razzismo” l’emarginazione in base all’appartenenza etnica. Chi

voglia

combattere

questa

nuova

forma

di

discriminazione,

diversamente, cioè in senso positivo, al riguardo dei concittadini anziani.

deve

pensarla


6 II . La politica degli anziani è più che una politica per gli anziani! Il compito della politica degli anziani e della salute in una società che invecchia, non consiste innanzi tutto nel sottrarre alla vita qualche anno in più, ma nell’ incamerare più vita con i trent’anni guadagnati (2). Come le persone vivono la vecchiaia, dipende essenzialmente da come hanno vissuto nei decenni precedenti. Sono soprattutto tre i fattori dei vari decenni trascorsi che condizionano la qualità della vita in vecchiaia: alimentazione, moto, relazioni sociali. Perciò una politica degli anziani intelligente e previdente inizia dall’asilo, dalla scuola. È qui che i giovani imparano a nutrirsi correttamente. E con ciò si arriva ai genitori. Si continua a sottovalutare completamente il valore e il significato dell’impegno sociale e culturale ai fini di una vita sana e lunga. Il sociologo statunitense Robert Putnam ha dimostrato in numerosi studi che quanto migliori sono le relazioni sociali delle persone e quanto più fanno insieme e gli uni per gli altri, tanto maggiori opportunità hanno di essere risparmiati da tanti mali sociali (alcolismo, disoccupazione) o di ricuperare rapidamente la salute dopo una malattia grave. Vale quanto segue, e in due sensi diversi: senza volontariato non c’è buona vecchiaia!

III . Per una rivalutazione della vecchiaia ! L’idea tradizionale della vecchiaia era caratterizzata dalla contrazione e dal decadimento. Emerge, invece, da studi più recenti che la vecchiaia è l’una e l’altra cosa: decadimento ed evoluzione. Determinate capacità vengono meno, altre si sviluppano fino alla tarda età. Ad esempio, nel corso della vita diminuiscono le capacità dell’”intelligenza meccanica” (ad esempio le prestazioni della memoria: la capacità di elaborare rapidamente grandi quantità di informazioni), anzi già dalla prima età adulta tra i 25 e i 30 anni. Invece, le capacità dell’”intelligenza pragmatica” (superamento di situazioni difficili, pensiero per grandi nessi, ecc.) nonché le prestazioni “relative alla saggezza” (esperienza di vita, capacità di inquadramento corretto delle cose) si sviluppano fino agli ottanta

anni.

È,

quindi,

ora

di

rivalutare

la

vecchiaia

sviluppando

un’idea

di

invecchiamento produttivo. Vista così, la vecchiaia diventa una fase autonoma del corso della vita, che non può più essere concepita secondo il modello tradizionale della scala della vita (3): in gioventù si impara, da adulti si lavora e/o si ha una famiglia, nella vecchiaia ci si riposa dalle fatiche e pene della vita. Chi impara solo in gioventù e poi mai più, ha poche possibilità di riuscire nella vita. Ma se un terzo (e anche più) della società passa un terzo della vita (e anche più) lontano dal lavoro retribuito, non ha più senso concepire la vecchiaia come una fase in cui “si lascia finire la vita”.


7 Tuttavia, la rivalutazione della vecchiaia implica conseguenze e opportunità notevoli per i singoli, l’economia e la società. Può iniziare una nuova fase di vita attiva (volontariato). Molti potranno, vorranno e dovranno lavorare più a lungo, il che si ripercuote a sua volta sull’intera vita lavorativa. Ci sarà più tempo da dedicare alle amicizie e alla famiglia e, quindi, una migliore possibilità di attivare la “famiglia multigenerazionale multilocale” (Hans Bertram). È una carenza della politica se questa non tematizza le possibilità positive insite in una rivalutazione della vecchiaia e se, ad esempio, la questione del prolungamento del periodo lavorativo è sempre trattata dal punto di vista della politica pensionistica.

IV. Non esistono “gli” anziani Essi non rappresentano un gruppo omogeneo. L’unica cosa che si possa dire di loro con certezza, è che sono anziani e molto diversi fra loro (4). La vecchiaia ha molte facce. Un gruppo di quindicenni o un gruppo di ventenni presenta presumibilmente molte più somiglianze di un gruppo di sessantenni o settantenni, che possono essere molto diversi, a seconda se sono in salute o infermi, se hanno più o meno denaro, se vivono da soli o in relazione, se hanno figli o meno. Perciò in futuro non ci dovrebbero essere tanti conflitti tra generazioni, quanto piuttosto differenze e anche tensioni all’interno della generazione degli anziani (Elisabeth Niejahr). Da queste riflessioni si possono derivare conseguenze importanti per qualsiasi politica degli anziani: questa dovrebbe essere altrettanto differenziata e “complessa” come lo è il gruppo degli anziani stesso. Le reti e la collaborazione sono più importanti delle istituzioni rigide. Le biografie e le situazioni sociali non standardizzate richiedono istituzioni flessibili e non standardizzate. Se la società degli anziani è molto complessa e molto differenziata, lo devono essere anche l’assistenza agli anziani e la politica degli anziani.

V. Distinguere due sottogruppi di anziani Anche se non esistono più “gli” anziani, per ragioni pratiche è comunque consigliabile distinguere due sottogruppi di anziani: quelli piuttosto “attivi” e quelli piuttosto “passivi”. Infatti, ci sono quelli prestanti e attivi, che vogliono fare e dare qualcosa, e che ne sono capaci. E poi ci sono quelli malati e bisognosi di cure, che devono “ricevere” più di quando non siano in grado di “dare”. Sarebbe poco realistico fare come se tutti gli anziani fossero forti e sani (un mito nuovo), ma anche come se tutti gli anziani fossero deboli e bisognosi di assistenza (il vecchio approccio deficitario). Nella vita pratica non si potrà fare a meno di questa distinzione. Perciò sarà tanto più importante non perdere di vista due aspetti: non esiste un limite di


8 età netto per discriminare i due gruppi. Esistono ottantenni attivi e sessantenni passivi. E per ambedue i gruppi sarà sempre meglio basarsi sulle rispettive forze, capacità e risorse che non sulle loro debolezze e carenze. Qualsiasi politica degli anziani ha il compito di rafforzare le persone appartenenti ad ambedue i gruppi, qualificandole e attivandole al massimo (empowerment). Ne conseguono due massime importanti per una politica degli anziani adeguata ai tempi.

VI. Mobilitare il capitale sociale degli anziani Da una parte è importante mobilitare il capitale sociale degli anziani! Mai prima nella storia un numero tanto alto di uomini aveva raggiunto un’età così avanzata. Ma ciò che è ancora piú importante è che mai prima nella storia erano esistiti tanti anziani così ricchi di risorse come oggi: mai erano stati tanto sani e istruiti e mai avevano avuto tanto tempo (a causa della speranza di vita più lunga) e tanto denaro. In definitiva, costituiscono un enorme capitale sociale presente nella società. In gran parte lo sanno: sono stati bene nella vita precedente e molti sono ben disposti a restituire qualcosa. E questa è una buona notizia. Quella cattiva, invece, è che questo capitale sociale troppo spesso rimane inutilizzato. Perciò è compito della politica presentare offerte attraenti e creare strutture occasionali, affinché un numero maggiore di anziani si impegni in attività onorifiche o civiche. Le possibilità sono molte: leggere e parlare negli asili o fare da mentori nelle scuole a favore di scolari problematici, che ne ricavano un’utilità attraverso un’attività che abbia un senso, insieme alla sensazione che per la prima volta qualcuno si interessi veramente a loro. A tale riguardo ci si può chiedere concretamente se le strutture pubbliche si siano veramente regolate adeguandosi alla nuova situazione (quella di una clientela sempre più anziana). Che ne è delle università della terza età, delle biblioteche pubbliche? In Scandinavia tali istituzioni e altre affini sono riuscite ad attirare un numero maggiore di anziani. Non è il caso della Germania. Per quali ragioni? Gli anziani dispongono di un notevole capitale sociale. Ma anche sotto il profilo finanziario non stanno male in confronto alle generazioni passate e future. La povertà è emigrata: dalla vecchiaia alle famiglie numerose. Ma potrebbe tornarvi in futuro. Infatti, diversi sviluppi (mercato del lavoro, tagli alle prestazioni dello stato sociale, interruzione di attività retribuite) fanno presagire che i giovani di oggi in vecchiaia non saranno assistiti altrettanto bene come lo sono i loro genitori e nonni. Chi voglia prevenire oggi la povertà degli anziani, dovrà convincere adesso i giovani a mettere da parte una parte del reddito per la pensione.

VII . Triangoli di cura e circoli di cura: inclusione e non emarginazione


9 In cifre assolute in avvenire ci saranno più anziani che avranno bisogno di cure. La fascia degli ultranovantenni è la classe di età della società che sta crescendo più rapidamente. Contemporaneamente la quantità crescente di cure prestate si distribuirà su un minor numero di persone. Ciò riguarda soprattutto le cure prestate in famiglia, e non perché i figli e i nipoti (femmine!) siano diventati più egoisti, ma perché ce ne saranno di meno. I figli non nati dal 1975 in poi, nel 2030 e in seguito, quando l’invecchiamento avrà raggiunto il proprio massimo, non saranno lì per curare. Inoltre, in futuro molte donne con famiglia saranno attive, sia perché lo desiderano sia per necessità (in conseguenza del drammatico regresso del numero dei lavoratori potenziali a seguito dei bassi tassi di natalità degli ultimi 30 anni). Non sarà possibile per ragioni finanziarie, né auspicabile dal punto di vista normativo accogliere negli ospizi un numero crescente di persone bisognose di cure. Tra la famiglia, da un lato, e l’ospizio, dall’altro, si svilupperanno situazioni di cura molto diverse e molteplici. Se gli anziani non sono più in grado di recarsi alla struttura assistenziale e dagli assistenti, questi assistenti professionali andranno a casa loro e saranno aiutati da assistenti volontari, mentre ai familiari rimarrà il compito di decidere e gestire il piano assistenziale. Molte cose fanno pensare che sia i bisognosi di cure sia i familiari vogliano organizzare personalmente un simile piano di assistenza, in modo da adattarlo alla situazione concreta, conservando al riguardo un potere di influsso determinante. La famiglia rimane sempre importante, ma per un altro verso: non prestando l’assistenza in proprio, ma preoccupandosi del fatto che anche in una situazione del genere i loro congiunti stiano il meglio possibile. Si determina così un triangolo di cura con tre attori: famiglia, servizi sociali prestati a livello professionale, ambulatorialmente o in case di cura e, infine, quelli prestati ad opera di volontari. Un altro modello possibile può essere quello osservabile presso la Fondazione Liebenau (5). Si tratta in sostanza di un sistema a rete e di circoli aperti che si sostengono a vicenda stabilizzando il tutto. Alla base vi è la convinzione che ogni o quasi ogni persona possiede ancora delle capacità residue. Ci si aspetta da questa – e le strutture stazionarie emettono un chiaro messaggio in tal senso - che faccia effettivamente ciò che riesce ancora a fare per se stessa; infatti: Chi fa per altri ciò che questi possono anche fare da soli, agisce in modo asociale, perché non rafforza, ma indebolisce i punti forti degli altri e la loro autostima. D’altra parte ci si aspetta da coloro che stanno (ancora) relativamente bene, che aiutino coloro che stanno peggio; infatti: poche cose contribuiscono alla felicità e alla qualità della vita delle persone bisognose di aiuto meglio della sensazione di essere ancora utili, di essere ancora in grado di aiutare gli altri. Il principio della reciprocità, secondo il quale un numero possibilmente grande di persone (nella società come negli ospizi) dovrebbe


10 agire sia da “datori” sia da “prenditori” di servizi sociali, promuove la qualità sociale della società nel suo insieme e delle istituzioni in particolare. Ovviamente gli assistenti professionali anche in questo caso svolgono un ruolo importante, sebbene spetti loro un duplice compito: l’aiuto in casi singoli e la gestione sociale delle reti di sostegno. Con il retroterra sociale, come i villaggi situati intorno alle istituzioni, esistono molteplici relazioni che si ripercuotono in forma di impegno sociale e collaborazione volontaria nelle istituzioni: una società civile socialmente attiva, per la cura e la sostenibilità della quale si preoccupano i sindaci della regione che si incontrano a intervalli regolari con la fondazione Liebenau per effettuare scambi di opinioni ed esperienze. Così nasce un paesaggio sociale in cui chi proviene dall’esterno è integrato e chi sta dentro non è escluso.

VIII . L’età autodefinita L’età autodefinita con il sostegno familiare professionale e volontaristico: così si potrebbe definire la nuova idea dell’assistenza agli anziani. Le relative conseguenze riguardano anche l’abitazione in tarda età. Occorre chiedersi criticamente se il motto “abitare a casa propria” sia sempre e in ogni luogo un bene per gli anziani. Le abitazioni in cui hanno passato la loro vita, spesso sono troppo grandi e non a misura di anziano. Più si protrae l’ora del trasloco e minore diventa la possibilità di allacciare nuovi contatti sociali. Gli anziani sono disposti a traslocare, se sono consigliati e sostenuti e se, possibilmente, possono rimanere nel quartiere ben noto. Molti anziani soffrono di solitudine. Vogliono stare da soli, ma non solitari. Il fatto che più generazioni coabitino sotto lo stesso tetto, non corrisponde ai desideri né degli anziani né dei giovani. Invece potrebbero rappresentare una forma di abitazione e di vita del futuro le comunità di abitazione per anziani. Affinché queste possano rappresentare una soluzione positiva, occorre garantire determinati presupposti e, quindi, anche la consulenza e altri tipo di sostegno. Soprattutto occorre stabilire in anticipo quali debbano essere i locali e le attività comuni. Così in realtà, con la consulenza, la moderazione e la supervisione e tutti i servizi sociali necessari, le comunità di abitazione per anziani possono costituire una buona possibilità anche per le persone bisognose di assistenza, ad esempio coloro che sono affetti da demenza di grado lieve o medio.


11 IX. Una politica degli anziani non solo per (!), ma anche con (!) gli anziani In questo caso si tratta di una precondizione senza la quale molti buoni propositi sono destinati a fallire. Ogni comune dovrebbe riflettere su quali servizi sociali a favore degli anziani possano essere trasferiti all’auto-organizzazione di costoro (consorzi di anziani, consigli di anziani ecc.).

X. Una nuova cultura e pratica del volontariato Una politica degli anziani orientata al futuro è realizzabile soltanto attraverso una buona collaborazione tra incarichi professionali e volontaristici. Ma questa non si crea da sola. Molti

professionisti

considerano

il

volontariato

come

attività

svolta

da

profani

incompetenti e non qualificati e temono, inoltre, di perdere il lavoro. I volontari, da parte loro, si sentono utilizzati solo come tappabuchi e confinati a svolgere attività di scarso rilievo. Per far funzionare veramente la collaborazione, occorre che ambedue le parti sappiano “cambiare prospettiva”, cioè che siano capaci di vedere il mondo anche con gli occhi dell’altro e di discutere sul lavoro da farsi e di distribuirlo di conseguenza (6). Nella maggior parte dei casi ciò non funzionerà in assenza di una mediazione e moderazione professionale. Invece così da ambedue le parti sarà possibile acquisire competenze sociali che il comune o la provincia potrebbero utilizzare anche in altri campi d’azione. Valga un esempio per tutti. Un’assistente per anziani, dopo anni di attività professionale, ora attiva su base volontaristica,

riferisce della propria esperienza e anche del fatto che

attualmente ricava più soddisfazione dal suo lavoro rispetto a quanto succedeva in passato, quando era oberata di lavoro e doveva svolgere anche attività fisicamente impegnative e “alienanti” che nessuno è contento di svolgere. Successivamente, con il volontariato ha avuto modo di parlare con gli anziani sul senso della vita, della propria vita e dei figli, insomma di cose piacevoli. In questo modo nella cura degli anziani il “dovere” e la “libera scelta” non dovevano essere separati. È difficile mettere a punto un interesse importante in modo migliore. Il numero degli anziani aumenterà. Non si tratta di un “peso dovuto all’età”, ma di un’opportunità e di un progresso. Ed è lecito esprimere la speranza che ci sia più impegno volontaristico e civico, comunque purché – come succede qui e altrove – vi siano condizioni generali corrette e la volontà politica relativa. Ambedue questi sviluppi possono rafforzarsi a vicenda, soprattutto se si riesce a sviluppare un’idea nuova della vecchiaia e del volontariato. Il bello del principio della reciprocità e della mutualità è che in definitiva non è più possibile distinguere con precisione chi stia dando e chi ricevendo perché tutti staranno meglio.


12 Note: 1| Per semplificare parlo di “anziani” o “vecchi”, senza distinguere le varie fasce dell’età avanzata. 2| In quel periodo del 20° secolo la speranza media di vita aumentò. Gli esperti stimano che una bambina su due nata nel 2005 arriverà ai cento anni di età. 3| Per maggiori dettagli si rimanda a Warnfried Dettling, Die Stadt und ihre Bürger. Neue Wege in der kommunalen Sozialpolitik, Verlag Bertelsmann Stiftung Gütersloh 2001, 3357. 4| Con riferimento a una formulazione del ricercatore in materia di gioventù Arthur Fischer sui giovani: sono giovani e molto diversi. 5| Stiftung Liebenau: Hilfen aus einer Hand, Meckenbeuren 1999. 6| Per maggiori dettagli si rimanda a Warnfried Dettling, Die Stadt und ihre Bürger. op. cit.. (nota.4).


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Ursula Lehr: Il cambiamento demografico – una sfida per il singolo e la società

Sotto il titolo “L’invecchiamento come opportunità e sfida” Lothar Späth e il Governo regionale il 14 e 15 novembre 1988 lanciarono un invito al Neues Schloss di Stoccarda per un congresso facente parte della serie dei loro congressi sul futuro. Si trattava di riprendere i molteplici aspetti inerenti a questa tematica, integrandoli in una visione generale, e di discutere pubblicamente le nuove problematiche su una base ampia e interdisciplinare e, infine, di risvegliare una consapevolezza circa le aree problematiche del futuro. Se volgiamo uno sguardo retrospettivo agli anni trascorsi da allora, occorre convenire che l’iniziativa è riuscita, anche se i problemi sono ancora lungi dall’essere risolti. Oltre mille partecipanti dall’interno e dall’estero – scienziati di varie discipline, operatori impegnati come professione principale nel servizio agli anziani e ausiliari onorifici nonché volontari interessati – si sono scambiati nozioni ed esperienze aprendo prospettive di trasformazione sociale, proiettate in un futuro non tanto prossimo, e campi d’azione politici. L’articolazione e i contenuti di questo congresso hanno incontrato apprezzamenti ben oltre i confini del Paese. Il linguaggio usato da noi scienziati sembra essere troppo asciutto perché possa essere ascoltato. Affinché i politici si diano una mossa occorrerá attendere l’eloquenza di Frank Schirrmacher con il suo Complotto di Matusalemme (un libro che in ultima analisi non riporta conoscenze nuove, ma espone solo ciò che molti altri hanno già scritto anni fa). Infatti, ha ragione quando dice: “Dobbiamo concepire le nostre biografie in modo diverso, adattandole a speranze di vita molto più lunghe – e non, come abbiamo fatto finora, per così dire scarrozzare nel 21° secolo trainati da cavalli come si faceva nel 19° secolo. […] Abbiamo bisogno di una riforma del calendario della nostra vita!” In un altro punto l’autore afferma: “Ridefinendo la vecchiaia aiutiamo di piú i nostri figli che non piangendo continuamente sulle nascite mancate dell’anno 1984. Non ci sono state. E quelli che non sono nati allora, […] non metteranno mai al mondo dei figli.” Perciò cominciamo a fare la riforma del calendario della nostra vita”! Facciamo iniziare l’età adulta prima e quella senile più tardi! Comunque, richiamiamo alla mente innanzi tutto alcuni fatti a proposito del cambiamento demografico.


14 1. L’aumento della speranza di vita Intorno al 1900 la speranza di vita media era di circa 45 anni, oggi un neonato maschio ha una speranza di vita di 76 anni, una neonata di 82 anni. Un sessantenne di oggi ha ancora davanti a sé in media una speranza di vita di circa 25 anni. Ne consegue che andando in pensione oggi, si ha ancora davanti a sé un quarto della vita – e con uno stato di salute migliore e una maggiore competenza rispetto ad alcuni decenni fa. Invecchiamo, eppure siamo meglio in salute rispetto alle generazioni precedenti – allora, perché non dovremmo lavorare più a lungo? Già nel1968 l’allora Ministro del lavoro e della previdenza sociale Hans Katzer aveva invitato a un hearing sulla “flessibilità del limite di età”, con il risultato che gli scienziati di varie discipline erano concordi sulla possibilità di prolungare il periodo di lavoro della vita, tanto che la Frankfurter Allgemeine Zeitung riferì: “[…] la flessibilità in via eccezionale può anche significare flessibilità verso il basso.” – Con quale risultato? A causa della situazione economica improvvisamente la flessibilità iniziò a oscillare tra i 65 e i 63 anni. Tuttavia, non abbiamo soltanto una longevità crescente, ma anche un prolungamento della gioventù. Si inizia più tardi a svolgere un’attività professionale, ci si sposa più tardi (se mai ci si sposa; infatti oggi dei quarantenni soltanto il 37 percento è sposato) e in tutti i partiti politici fino all’età di 35 anni si fa parte delle organizzazioni giovanili. Quindi, fino a 35 anni si è “giovane”, da 45 in poi già “lavoratore anziano”, da 50 anni in poi si è considerato “troppo vecchio” per un posto di lavoro nuovo e dopo i 55 anni, come emerge dal settore dei pensionati, si fa parte dei pensionati. “Dalla legge sulla promozione della formazione professionale fino alla pensione” – può essere questa la metà di una vita? Siamo una società che manca di una parte mediana della vita”! Sfida: abbiamo bisogno di una riforma del calendario della nostra vita! Dobbiamo progettare le nostre biografie in modo diverso: inizio anticipato dell’entrata nel modo del lavoro (il che presuppone un’istruzione scolastica adeguata – ma anche una situazione economica più favorevole) e fuoriuscita dalla professione posticipata (il che presuppone un’istruzione permanente che affianchi la professione e un mondo del lavoro che favorisca la salute).

2. Un mondo che invecchia In Germania la quota degli ultrasessantenni è pari al 25 percento della popolazione totale e nel 2050 lo sarà di oltre il 38 percento, in Spagna è superiore al 44 percento, in Italia oltre il 42 percento e in Austria del 41 percento, in Svizzera di circa il 39 percento. – Ben presto, quindi, un cittadino su due farà parte della fascia degli anziani?


15 La quota degli ultraottantenni in tutti i paesi indicati si triplicherà o quadruplicherà, quella dei centenari in Germania aumenterà dagli attuali 10.000 circa a oltre 44.000 nell’anno 2025 e a oltre 117.000 nell’anno 2050 – e con una popolazione totale minore. È noto che l’invecchiamento non significa per forza riduzione e perdita di capacità; tuttavia è anche un fatto che per molte persone con l’avanzare dell’età si presentani certi impedimenti fisici. Sfida: dobbiamo fare di tutto per invecchiare rimanendo possibilmente giovani e competenti. Occorrerà prestare maggiore attenzione all’aspetto della prevenzione – e già da giovani (attività sportiva a scuola, sviluppo di interessi, formazione ecc.)! L’incremento delle persone in età avanzata richiede l’ampliamento di diversi servizi di assistenza (consentendo tra l’altro anche l’impiego di badanti) e la garanzia della qualità dell’assistenza. Comunque, l’invecchiamento della nostra popolazione è anche dovuto al regresso della natalità. È vero che attualmente il paese con il minor tasso di fertilità è la Spagna (1,22 nati), seguita dall’Italia, paese di per sé considerato tanto amante dei bambini (1,25), dalla Grecia (1,30) e dall’Austria (1,32). In Germania abbiamo in media circa 1,34 bambini per ogni donna in età fertile. Tra le donne classe 1950 solo l’11 percento è rimasta senza figli, tra quelle della classe 1960 il 21 percento, per la classe 1965 si calcola il 33 percento – ma per le laureate quarantenni oggi si arriva già al 44 percento! Tra poco la Germania sarà sempre di più il fanalino di coda negli studi PISA, perché l’intelligenza dei figli non corrisponde al titolo di studio del padre, ma a quello della madre! Il maggior numero di figli (1,89) si incontra in Irlanda e Francia; in Irlanda forse per ragioni religiose, in Francia per la possibilità di conciliare lavoro e famiglia. Altri paesi europei dimostrano che è possibile conciliare figli e carriera e/o attività professionale (in Islanda le donne attive sono il 82,3 percento del totale, in Norvegia, Danimarca e Svezia il 76 percento, e con un tasso di natalità superiore al nostro). Comparando le quote di assistenza dei bambini inferiori ai tre anni da parte di terzi (daycare-center, tagesmutter), in Danimarca si arriva al 64 percento, negli USA al 54 percento – e in Germania solo al 10 percento. Le ragioni del regresso del tasso di natalità sono molteplici, ossia: - maggiori possibilità di pianificazione familiare (dicasi “pillola”) dagli anni ’60 in poi; - perdita del fattore “strumentale” (la prole come forza lavoro, come assicurazione personale in vecchiaia, il figlio come erede maschio e continuatore del nome);


16 - concetto di “figlio come fattore di costo” nella discussione pubblica unilaterale, sottacendo che i figli sono anche fonte di gioia e un enorme arricchimento della vita e che in definitiva sono “poveri” coloro che non hanno figli – anche se forse attualmente possono permettersi più cose; - prolungamento della giovinezza con l’istruzione professionale che talora dura fino al quarto decennio di vita e rinvio del matrimonio a un’età sempre più alta (anche per l’accettazione sociale delle coppie di fatto); - frequenza sempre maggiore e di maggiore durata dello status di celibe/nubile, che implica una più forte individualizzazione; – mentre nella prima metà del secolo scorso la donna prima del matrimonio abitava nella casa dei genitori (ed era, quindi, costretta ad adeguarsi alle abitudini di vita degli altri) e poi aveva subito dei figli (il che richiedeva un nuovo adattamento), oggi esce di casa a 18 o 20 anni e vive da sola e autonomamente. In questo periodo pluriennale di vita da sola, in cui spesso si crea uno stile di vita individuale peculiare con lo sviluppo di abitudini e caratteristiche particolari, può diventare molto difficile adattarsi a un compagno e ancora di più ai figli; - incertezza delle condizioni di vita (conservazione del posto di lavoro?, situazione abitativa? cura dei figli? conciliazione di famiglia e professione?). Inoltre è emerso che, soprattutto per i giovani maschi, i figli sono considerati come fattore

di disturbo

nella pianificazione

del tempo

libero

(secondo

lo

studio

di

Opaschowski, il 40 percento degli uomini quarantenni immaginano benissimo di avere una vita senza figli). Secondo gli studi di Klingholz, oggi le ragazze sono “troppo istruite” per cui non incontrano un compagno. Nella nostra società è “normale” che un primario sposi un’infermiera, ma una primaria che sposi un infermiere è guardata di traverso. E noi abbiamo, appunto, troppi primari donne (e simili). Il terzo figlio diventa sempre più una rarità, per lo più nasce per parto gemellare oppure da una seconda unione, per sottolineare l’attaccamento al nuovo partner (Klein, 2002). Molte coppie desiderano avere dei figli e non possono averne – per vari motivi. Sfida: rafforzare l’accettazione dei figli (anche se rappresenta una possibilità limitata di contribuire a impedire l’invecchiamento della nostra società) mediante: - conciliabilità di famiglia e professione, - cambiamento di immagine: una madre attiva non è una madre snaturata, - miglioramento delle condizioni generali per le donne attive, - possibilità di assistenza, tagesmutter, - assistenza qualificata e non “parcheggio”, - scuola a metà tempo garantita (dalle 8.00 alle 13.00),


17 - scuola a tempo pieno qualificata.

3. Il mutamento dei rapporti intergenerazionali Per un settantacinquenne 100 anni fa c’erano ancora 79 persone più giovani di lui; oggi solo 11,2 persone e tra otto anni saranno solo 8,4. E quando i nostri attuali quarantaduenni avranno 75 anni, in Germania il numero degli ultrasettantacinquenni sarà quasi uguale a quello dei giovani sotto i 20 anni (1:1,2) e solo 1,6 persone avranno un’età compresa tra i 20 e i 40 anni. I settantacinquenni sono ancora ampiamente autonomi, ma spesso presentano qualche limitazione funzionale (dell’apparato sensoriale: vista e udito; della mobilità, della sensibilità, ecc.). Le condizioni ambientali possono anche essere responsabili di ulteriori limitazioni dello spazio vitale. Sfida: dobbiamo disporre di un ambiente a misura di anziano (cioè a misura d’uomo) anche sotto il profilo della prevenzione. cioè della garanzia di un invecchiamento possibilmente in condizioni di salute e competenza e con un’autonomia fino in età avanzata. Vi si dovranno adeguare l’urbanistica, l’economia e l’industria. Non mancano le differenze strutturali: dalla famiglia a tre generazioni a quella a due e a una, fino alla famiglia composta da una sola persona. Il 37 percento di tutte le economie domestiche è composto da una sola persona, nelle grandi città questa percentuale sale addirittura a oltre il 50 percento. Le famiglie composte da cinque e più persone non corrispondono

nemmeno

più

al

cinque

percento

del

totale!

il

modello

Ciò

si

ripercuote

sull’assistenza ai figli e sulla cura degli anziani. Contemporaneamente

abbiamo

uno

sviluppo

verso

della

famiglia

di

tre/quattro/cinque generazioni, ma in cui le varie generazioni abitano distanti le une dalle altre, cioè le famiglie “multigenerazionali multilocali”, la famiglia “a pertica”, detta così per il fatto che vi mancano sorelle e fratelli, cugini e cugine, zii e zie, nipoti, cognati e cognate ecc. Ma siccome l’uomo ha anche bisogno di contatti all’interno della propria generazione, se li deve cercano fuori della famiglia. In età scolastica e professionale questo è più facile, ma anche i bambini (perciò occorrono gli asili anche per i piccolissimi) e gli anziani hanno bisogno di contatti con i propri simili. Sfide: occorrono vari servizi di assistenza. Perciò occorrerà creare un numero sempre maggiore di

bidelli, organizzare servizi di vicinato, favorire possibilità di contatto e

promuovere l’impegno civile.


18 4. Dal contratto tra tre generazioni al contratto tra cinque generazioni Il contratto tra tre generazioni è già passato a essere un contratto tra quattro o cinque generazioni. Esso fu notoriamente istituito alla fine del 19° secolo e consiste nel fatto che coloro che guadagnano devono mantenere con le loro imposte e i loro contributi quelli che non sono ancora entrati nel mondo del lavoro e quelli che sono usciti dal sistema del lavoro. Allora l’età media di ingresso nel mondo del lavoro si situava tra i 15 e i 16 anni; (purtroppo) non esistevano ancora le scuole professionali e pochi potevano permettersi un’istruzione superiore o uno studio universitario – e men che meno le donne. Si entrava alla scuola elementare a cinque anni e la durata di questa era di otto anni; Perciò all’età di 15 anni si guadagnava già (anche se poco) e si versavano contributi alla cassa di previdenza. Il limite di età

per i lavoratori era fissato in 70 anni, un’età che

allora pochi raggiungevano (la speranza di vita media a cavallo del secolo era di 45 anni!). Solo nel 1916 il limite di età fu ridotto a 65 anni. Di conseguenza, le persone in età da 15 a 70 anni mantenevano coloro che non avevano ancora 15 anni e coloro che avevano più di 70 anni – e cioè intorno al 1900 appena il 2 percento della popolazione totale. Questo contratto intergenerazionale ha funzionato per molto tempo. “La pensione è sicura”, si poteva affermare allora e fino a metà del secolo scorso (Adenauer). Come stanno, invece, le cose oggi? L’età media di entrata nel mondo del lavoro – dopo l’assolvimento della scuola professionale – è di 25 anni. L’età media della conclusione del primo ciclo di studi universitari è di 28 anni. E la fine del periodo di lavoro coincide di fatto con l’età di 58/59 anni, grazie ai prepensionamenti, alle baby-pensioni, ai piani sociali e al lavoro a tempo parziale. Sta di fatto che le persone attive – cioè in età di 25-58/59 anni – devono mantenere tutti quelli che non lavorano ancora (cioè attualmente ben due generazioni, poiché qualche studente trentenne ha già il proprio bambino all’asilo) e soprattutto il grande gruppo di coloro che sono usciti dal mondo del lavoro. E non sono più – come 100 anni fa – il due percento della popolazione, ma ormai oltre il 25 percento, e spesso altre due generazioni. Infatti oggi non è più una rarità che madre e figlia, padre e figlio siano contemporaneamente pensionati. Si capisce, quindi, che la generazione dei lavoratori si lamenti dell’eccesso di contribuzione. Oltre alla longevità in aumento, nel calcolo pensionistico deve essere presa in considerazione anche l’integrazione di un fattore demografico. Tuttavia, il passaggio dal contratto tra tre generazioni al contratto tra quattro o cinque generazioni non risale solo a cause demografiche, ma anche alla situazione economica e sociale. E soprattutto, anche in questo caso, oltre alla longevità in aumento, si fa sentire fortemente il peso del prolungamento della giovinezza. Al riguardo, occorre tenere conto innanzi tutto del fatto


19 che oggi molti pensionati sono usciti dal mondo del lavoro precocemente – e spesso contro la propria volontà – per lasciare posti di lavoro ai giovani. Ed è anche un bene. Solo che allora questi giovani non possono venire a rimproverare ai pensionati questo “onere

pensionistico”

e

“onere

dell’anzianità”

lamentandosi

per

l’aumento

della

contribuzione a favore delle casse della previdenza sociale. Inoltre, occorre tenere presente anche il fatto che molti dei pensionati attuali

hanno

dietro alle spalle una vita di lavoro di 45 anni, un’anzianità che i giovani alla ricerca di un impiego non raggiungeranno mai. Molti dei pensionati attuali hanno ancora il ricordo della settimana da 60 ore o per lo meno di 48 e 45 ore. Il sabato per loro era ancora una giornata di lavoro piena e le ferie erano di 12 giorni all’anno, sabato compreso (dal 1957 in poi 14 giorni all’anno). Un altro fatto da considerare è che i pensionati attuali dovevano ancora pagarsi la formazione professionale, anche durante l’apprendistato; non se ne parlava proprio di stipendio da contratto di formazione-lavoro né di legge per la promozione dell’istruzione professionale. Molti di loro dovevano anche pagare per intero la formazione dei loro figli. Essi hanno allevato più figli dell’attuale generazione di giovani – e in tempi di guerra e nel dopoguerra, quando non esistevano né assegni familiari né sussidi all’istruzione né congedi per motivi di istruzione. Inoltre, occorre menzionare almeno il fatto che la spesa pubblica per l’istruzione, di cui approfittano soprattutto le generazioni giovani, è aumentata enormemente. Si tratta di qualcosa di necessario e positivo, ma che ai fini dell’analisi delle opportunità e delle sfide delle generazioni non dovrebbe essere dimenticato. Gran parte di coloro che oggi hanno 60-65 anni (e anche molti di più) sono in grado di lavorare e ne hanno anche voglia, ma sono ritirati precocemente dal mondo del lavoro. Nella fascia di età dei 55-64 anni, in Germania solo il 43 percento degli uomini e il 15 percento delle donne è ancora attivo; in Svizzera invece il 77 percento degli uomini e il 50 percento delle donne, in Norvegia il 72 percento degli uomini e il 59 percento delle donne. I nostri “lavoratori anziani” non sono certo più incapaci di quelli di altri paesi, ma grazie a leggi protettive dalle finalità positive, ma che hanno un effetto di boomerang, gli anziani vengono a costare troppo al datore di lavoro, che non li può più licenziare. Di conseguenza, si cerca di ritirare gli “anziani” in anticipo mediante piani sociali in base alla contrattazione tra le parti sociali, motivando tale misura con un presunto calo di produttività e mancanza di capacità di innovazione. Invece, finora non esiste un solo studio che abbia dimostrato che con l’avanzare dell’età diminuisce la capacità di innovazione. Al contrario, numerosi studi pongono in evidenza le competenze maggiori dei lavoratori anziani: spesso gli anziani dimostrano un maggiore impegno professionale rispetto ai giovani, hanno una migliore conoscenza dei nessi sociali, possiedono una visione migliore della situazione generale, conoscendo le relative opportunità e i relativi limiti e in determinati ambiti hanno acquisito un’expertise che non ci si può attendere dai giovani. Abbiamo certamente bisogno del dinamismo e della disponibilità al rischio dei


20 giovani, ma abbiamo anche bisogno del controllo, dell’esperienza e della capacità di ponderazione degli anziani. Abbiamo bisogno della collaborazione tra le generazioni, e non di attizzare il conflitto generazionale! Sfide: innanzi tutto occorre predisporre le nostre biografie in modo diverso: - anticipo dell’ingresso nella scuola, apprendimento precoce di una lingua straniera, - incoraggiamento della motivazione all’efficienza (e resistenza allo stress) attraverso il voto di profitto, - maturità dopo 12 anni di scuola media, - promozione della formazione delle famiglie, - accorciamento del tempo di studio, - anticipo dell’ingresso nel mondo del lavoro (come in altri paesi dell’UE), - specializzazione parallela al lavoro, - prolungamento del periodo di lavoro (tuttavia a condizione che lo consenta la situazione economica). Inoltre, occorre migliorare la situazione del mercato del lavoro e ridurre il numero dei disoccupati mediante: - l’aumento dell’orario di lavoro, perché ”il lavoro crea lavoro”, - la specializzazione parallela al lavoro, - la creazione di posti di lavoro “compatibili con la salute”, - una maggiore flessibilità (limite di età flessibile; congedo non retribuito), - anticipo dell’ingresso nel mondo del lavoro, prolungamento dell’anzianità di servizio; riduzione delle ferie. Occorre, infine, ripensare alcune normative (eccessive), ad esempio: - allentamento della tutela ai fini del licenziamento (per il reinserimento dei disoccupati), - abbandono del principio dell’anzianità di servizio (da sostituirsi con la retribuzione commisurata al rendimento), - analisi e rielaborazione e/o abolizione di norme specifiche (ad es. la prescrizione secondo cui l’assistenza di più bambini è ammessa solo in presenza di un WC apposito per i bambini), - creazione di posti di lavoro retribuibili per lavoratori non qualificati.

5. La vecchiaia non deve equivalere alla perdita dell’autonomia La perdita dell’autonomia non è una condizione necessaria della vecchiaia. Anche se invecchiamo, siamo più sani delle generazioni che ci hanno preceduto. Spesso si


21 sopravvaluta la necessità di assistenza degli anziani, che in realtà inizia a contare nella fascia degli ultraottantacinquenni. Si tratta di circa il 35 percento della popolazione. In futuro vi saranno, comunque, problemi da risolvere nel campo dell’assicurazione per la cura agli anziani, per il fatto che attualmente il 70 percento circa è ancora assistito dai congiunti (con minore spesa), il che non sarà più possibile in avvenire. Infatti, le cure familiari hanno dei limiti; in un prossimo futuro non ci saranno più parenti che possano assumersi tali cure. e per i seguenti motivi: 1. la necessità dell’assistenza si presenterà a un’età più avanzata (multimorbilità), 2. la moglie/compagna sarà anche lei più anziana e non sarà più in grado di assumersi le cure, 3. non vi saranno figli, 4. in assenza di figli, non ci sono fratelli e sorelle che possano darsi il cambio nelle cure, 5. i figli abitano sempre più raramente nello stesso luogo dei genitori (necessità di mobilità), 6. un numero sempre maggiore di donne sarà attivo (minore potenziale di figlie come assistenti). 7. l’aumento del numero di divorzi senza nuove nozze (nessuno curerà l’ex-suocera). Ciò significa che occorrerà ampliare l’assistenza ambulatoriale e stazionaria! Tuttavia, una politica orientata al futuro dovrà preoccuparsi maggiormente degli handicappati e delle persone bisognose di cure, dovrà imporre il requisito, ancorato nella legge

sull’assistenza

alle

persone,

della

“riabilitazione

prima

dell’assistenza”

e

promuovere le misure preventive in misura superiore a quanto non si facesse in passato! – Infine, dovrà prendere atto del fatto che le cure familiari in futuro incontreranno dei limiti, per cui sarà richiesta un’estensione delle cure ambulatoriali come pure di quelle istituzionali (in varie tipologie abitative). Sfide: innanzi tutto dovremmo fare di tutto per evitare la perdita dell’autonomia. Di ciò fanno parte tra l’altro l’estensione della prevenzione, l’ampliamento delle strutture ambulatoriali

e

stazionarie,

un

rafforzamento

della

qualificazione

nell’ambito

dell’assistenza, una maggiore considerazione per le malattie demenziali nonché la formazione nell’ambito della professione sanitaria e delle professioni mediche ausiliarie in gerontologia/geriatria. Abbiamo bisogno di sviluppare ulteriormente la ricerca sull’invecchiamento e di non chiudere istituzioni che funzionano in modo impeccabile, come il Centro tedesco per la ricerca sull’invecchiamento! Inoltre, abbiamo bisogno di una ricerca gerontologica di base orientata in senso interdisciplinare, che sia in grado di indicare la via verso un invecchiamento in condizioni di salute e competenza possibilmente buone!


22 Osservazioni conclusive Una politica orientata al futuro deve essere una politica non solo per, ma anche e soprattutto con e in parte anche degli anziani. Infine, essa deve comprendere gli anziani in quanto gruppo di destinatari importante per l’azione politica. La nostra società è tutt’altro che favorevole agli anziani. In una “politica della vita lunga” la politica deve svolgere, in misura molto maggiore rispetto a quanto non facesse in passato, il compito di preoccuparsi di garantire un ambiente a misura di anziani, onde poter assicurare un periodo possibilmente lungo di autonomia. D’altra parte, una politica orientata al futuro deve riconoscere, onorare e promuovere il contributo offerto dagli anziani alla società. Soprattutto essa deve creare le condizioni generali, che consentano ai concittadini anziani di sfruttare le loro capacità relativamente al mondo del lavoro, all’istruzione permanente e all’impegno civile (un primo spunto in questo senso è già dato dalla creazione di uffici degli anziani). L’autoresponsabilità delle persone anziane e la condivisione delle loro responsabilità per la società dovranno essere indicate con maggior chiarezza e promosse. Una politica orientata al futuro deve offrire un contributo a un’immagine della vecchiaia diversa, più positiva, tematizzando i punti forti della vecchiaia presso il pubblico e riconoscere l’importanza del ruolo che le persone anziane ed esperte possono svolgere nella società (nell’economia e in politica – e non solo come elettori!), purché se ne riconoscano anche solo le competenze. Infatti, è proprio la politica a dover offrire il proprio contributo a ciò, correggendo l’immagine della vecchiaia che rimane ancora distorta in senso negativo (iniziando, ad esempio, dal fatto che nella competizione elettorale non si dovrebbe sempre puntare al “ringiovanimento” propagandando il ricambio generazionale, perché anche alla politica a volte farebbe bene ascoltare un vecchio saggio!).


23 Gli autori Warnfried Dettling Laureato in scienze politiche, sociologia e filologia, Warnfried Dettling è stato Direttore dell’Ufficio politico principale della sede nazionale della CDU dal 1973 fino al 1983. Dal 1983 al 1991 è stato Direttore ministeriale al ministero della gioventù e della famiglia. In seguito ha insegnato alle università di Ratisbona, Zurigo e Innsbruck e ha lavorato come consulente politico e pubblicista libero.

Ursula Lehr Laureata in psicologia all’università di Bonn, Ursula Lehr ha lavorato come referente scientifico all’Istituto di psicologia a Bonn dal 1954 al 1968. Dal 1972 al 1976 è stata professoressa di pedagogia all’Università di Colonia. In seguito è stata professoressa di gerontologia all’Università di Heidelberg. Dal 1989 fino al 1991 è stata ministro della gioventù e della famiglia. Dal 1997 è presidente dell’Istituto tedesco di gerontologia.


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