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EDITORIALE
E D I T O R I A L E
RIFORMA DEL SSN: DEVE PARTIRE DALLA VALORIZZAZIONE DEI PROFESSIONISTI
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di Filippo Anelli, Presidente dell’OMCeO della Provincia di Bari
Quest’anno 77mila giovani hanno sostenuto il test per gli oltre 14mila posti a Medicina, il 7% in più dello scorso anno accademico, il 21% in più rispetto al 2019/2020. L’intervento del Ministro della Salute, Roberto Speranza - che ha portato a 17400 le borse di Specializzazione, cui vanno aggiunte le oltre 2000 borse previste per la Medicina Generale - permetterà di assorbire in gran parte il cosiddetto ‘imbuto formativo’, il gap tra i medici laureati e quelli che riescono a specializzarsi. Resta da capire, dal momento che l’aumento delle borse è legato ai fondi del PNRR, come rendere questa crescita strutturale in futuro, per evitare che l’imbuto formativo ricominci a riempirsi di giovani medici tenuti fermi in panchina. Ma occorre anche chiedersi quali siano la professione e le condizioni di lavoro che attendono domani quei giovani. Mi auguro infatti che, una volta portato a termine il percorso formativo, gli specialisti e i medici di medicina generale che verranno trovino, ad aspettarli, un contesto lavorativo più appagante e meno usurante di quello attuale. Anaao-Assomed ha denunciato il “malessere” dei medici dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale, quantificando in oltre un miliardo di euro il loro ‘credito’ verso le Aziende sanitarie, dovuto al blocco del turnover e alle ore di straordinario solo in parte retribuite e difficili da recuperare per la carenza di personale. Agli straordinari non retribuiti si aggiungono cinque milioni di giorni di ferie arretrate. A fronte di un durissimo impegno quotidiano, si rischiano conseguenze fisiche e psicologiche a lungo termine, acuite ulteriormente dalla persistente mancanza di riposo. E anche il lavoro diventa più difficile, a causa sia dei carichi insostenibili, sia del crescente livello di burocrazia. Conciliare vita lavorativa e privata diventa quasi impossibile. I medici si sentono in colpa se cadono malati, le colleghe procrastinano le maternità per non lasciare sguarniti i reparti. Tutto questo è peggiorato durante la pandemia, con specialisti che dovevano fronteggiare sia il Covid sia le normali patologie, nella stessa giornata, con turni anche di 24 ore, senza riposi settimanali.
La condizione dei medici ospedalieri è però solo una faccia del disagio che attraversa trasversalmente la professione medica, e che, come Fnomceo, abbiamo più volte denunciato, tanto da sollevare, appunto, quella che abbiamo definito la “Questione medica”. Sul fronte del territorio non va infatti meglio: tutti abbiamo memoria dei medici di famiglia delle zone più colpite, che dormivano negli studi per non dover fare la quarantena e sospendere il lavoro. In Italia, il 20% del territorio, soprattutto le zone più disagevoli, non è coperto da medici di medicina generale. Da qui al 2027, andranno in pensione circa 35.200 professionisti, che probabilmente non saranno sostituiti per carenza di giovani colleghi. Già oggi circa un milione e quattrocentomila cittadini non hanno un proprio medico di famiglia, quello che rappresenta il ‘front-office’ della nostra sanità e, che deve dedicare sempre più tempo a incombenze burocratiche, sottraendolo al tempo di cura e ascolto.
In un recente sondaggio commissionato da Fimmg, il 53,4% dei Medici di Medicina Generale intervistati si è detto insoddisfatto dell’organizzazione sul territorio durante la pandemia, mentre l’84,7% non si è sentito supportato e sostenuto dalle istituzioni sanitarie locali. Fiducia, autonomia professionale, libera scelta, prossimità, dedizione diventano vocaboli desueti, che non piacciono a chi propone il passaggio dei medici di famiglia alle dipendenze del Ssn e nemmeno a chi punta ad una privatizzazione della medicina del territorio, come è già accaduto in certe regioni a quella ospedaliera. Così, in questa logica, poco importa se la scienza dimostri, con solide evidenze, che è proprio quel rapporto continuativo, fondato sulla fiducia e sulla libera scelta, ad allungare la vita ai cittadini, come dimostra un recente studio pubblicato su Bmj open. Per risolvere la ‘Questione medica’ occorre, quindi, agire su più fronti, partendo da una corretta programmazione, che faccia corrispondere, per legge, a ogni laurea una borsa. Poi, serve un provvedimento che stabilizzi i cosiddetti “camici grigi”, i medici che, nell’attesa di entrare nelle scuole o al corso per la medicina generale, sono stati impiegati con contratti a termine, rinnovati anche per dieci anni di seguito, nel nostro Servizio sanitario nazionale. Medici che si sono spesi, prima e durante il COVID, che hanno ac- quisito esperienza e che hanno permesso di tamponare le carenze. Sarebbe giusto e opportuno far valere il servizio prestato durante la pandemia ai fini formativi, in modo da accelerare l’ingresso nei ruoli. Infine, è tempo di rinnovare contratti e convenzioni: il lavoro dei medici è cambiato, non possiamo rimanere fermi all’epoca pre-COVID, con contratti e retribuzioni che, peraltro, già allora non erano adeguati agli standard europei. La valorizzazione e il riconoscimento del ruolo che i medici hanno avuto e continuano ad avere nel sostenere il Servizio Sanitario Nazionale e nel metterlo in grado di reggere all’onda d’urto della pandemia passa anche attraverso contratti equi dal punto di vista economico e organizzativo, che garantiscano un lavoro sereno, in sicurezza, con gli adeguati riposi e la giusta retribuzione. La situazione attuale ha infatti importanti ricadute in termini di sicurezza sul lavoro, che è correlata con il numero non adeguato di addetti. Dopo una pausa nel 2020, quando, nel pieno della pandemia, i medici venivano considerati eroi, sono purtroppo riprese a pieno ritmo le aggressioni. E sembra essersi attenuata la differenza tra Nord e Sud, tra strutture isolate e centri di eccellenza: quando la rabbia dei pazienti esplode, è incontenibile, e il medico diventa un bersaglio. Né basta a fare da deterrente il fatto che ci sia una Legge, la 113 del 14 agosto 2020, che prevede, tra le altre cose, pene più aspre e la procedibilità d’ufficio per chi aggredisce un operatore sanitario in servizio. In questo scenario, il Piano nazionale di Ripresa e Resilienza può essere ora l’occasione per un progetto complessivo di riforma del Servizio Sanitario nazionale. A patto che coinvolga a pieno titolo i professionisti della salute, che sono i veri cardini del sistema. Per questo, all’ultimo Consiglio Nazionale, abbiamo chiesto un tavolo di confronto con i rappresentanti della Professione perché i processi di riforma non siano appannaggio di “pochi” ma si avvii un dibattito nel Paese. Il Pnrr interviene sulle strutture, sulle tecnologie, ma non contempla, a parte l’aumento delle borse, un finanziamento ad hoc per le professioni. Ora spetta al Governo riflettere sulle richieste che l’intera classe medica gli rivolge. Le risposte sono necessarie per garantire stabilità e sostenibilità al nostro Servizio Sanitario Nazionale, e non possono prescindere da un investimento sui professionisti e da una valorizzazione del loro ruolo professionale e sociale.