LA NAZIONE 150 anni GROSSETO

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www.lanazione.it

150 ANNI di STORIA ATTRAVERSO LE PAGINE DEL NOSTRO QUOTIDIANO

SUPPLEMENTO AL NUMERO ODIERNO A CURA DI

Grosseto


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Mazziniani, repubblicani, patrioti capaci di morire per un ideale Hanno ucciso David Lazzeretti Sotto processo i suoi seguaci Due eremiti vivono a Giannutri: una donna selvaggia e un garibaldino È il 1956 Nasce nel centro di Grosseto la prima redazione de La Nazione Mancini e Donatelli il giornalismo del dopoguerra Le edizioni locali De Anna: Così nacquero le redazioni di provincia Arrivarono qui da Montelepre Fu il primo rapimento in Maremma Il Far West è in Maremma La dura lotta contro la miseria La morte in fondo al pozzo per 42 minatori di Ribolla 4 novembre 1966 “C’era nell’aria odore di fango” ma nessuno pensava all’alluvione Una centrale elettrica a Follonica È scontro tra turismo e industria La Maremma terra di sport Le inserzioni Quando la pubblicità “pensava” al benessere

Supplemento al numero odierno de LA NAZIONE a cura della SPE Direttore responsabile: Giuseppe Mascambruno

GROSSETO

150 anni di storia attraverso le pagine del nostro quotidiano.

Non perdere in edicola il terzo fascicolo regionale che ripercorre, attraverso le pagine de La Nazione, la storia fino ai nostri giorni e i 17 fascicoli locali con le cronache più significative delle città. In copertina: Antonio Cucchiara, il bandito siciliano, autore nel 1948 del primo rapimento in Maremma.

Vicedirettori: Mauro Avellini Piero Gherardeschi Direzione redazione e amministrazione: Via Paolieri, 3, V.le Giovine Italia, 17 (FI) Hanno collaborato: Fiorenzo Bucci Paolo Pighini

Progetto grafico: Marco Innocenti Luca Parenti Kidstudio Communications (FI) Stampa: Grafica Editoriale Printing (BO)

Pubblicità: Società Pubblicità Editoriale spa DIREZIONE GENERALE: V.le Milanofiori Strada, 3 Palazzo B10 - 20094 Assago (MI)

Succursale di Firenze: V.le Giovine Italia, 17 - tel. 055-2499203 I fascicoli sono sfogliabili on line su www.lanazione.it


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La Maremma negli anni del Risorgimento

MAZZINIANI, REPUBBLICANI, PATRIOTI CAPACI DI MORIRE PER UN IDEALE A loro si rivolse La Nazione che nel 1859, per volontà di Ricasoli, nacque in una sola notte dopo l’armistizio di Villafranca. Il perché di un quotidiano che sarebbe diventato il più antico d’Italia

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na terra dove Mazzini ebbe sempre un buon numero di seguaci. Terra repubblicana, anche quando l’Italia Unita si faceva grazie ai Savoia. Gente schietta, pronta a rischiare la vita per un ideale. Uomini veri, patrioti sui quali si poteva contare. La Maremma occupa un posto a sé nell’Italia risorgimentale. Era lontana da Roma, lontana da Firenze, era praticamente irraggiungibile se non per mare. Eppure anche qui, dove i sentimenti, di qualunque tipo essi fossero, sempre si rivelavano più intensi che altrove, La Nazione fin dall’inizio si diffuse. Arrivava a Grosseto con giorni di ritardo, ma una sua copia era sempre presente nei circoli borghesi, nella case aristocratiche, là dove si progettava il futuro di questa terra. E infatti, molti dei proprietari di queste terre abitavano per gran parte dell’anno proprio a Firenze. E alcuni di loro, facevano parte di quei circoli intellettuali e politici, che vollero la nascita del nostro giornale. Nessun altro giornale può vantarsi di essere nato con l’Italia e di averla accompagnata giorno dopo giorno, fino ad oggi.

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a storia è nota. L’11 luglio del 1859, nel pieno della seconda guerra di indipendenza, quando le truppe franco piemontesi avevano vinto battaglie di rilevanza enorme, come quella di Solferino, e già si pensava come invadere e liberare il Veneto, all’improvviso francesi ed austriaci firmarono un armistizio ed i Savoia non ebbero la forza per opporsi. Lo fecero perché la Francia cominciava a temere un attacco da parte della Prussia che stava ammassando le sue truppe ai confini. Lo fecero, perché un’Italia libera e indipendente poteva anche andar bene alla grandi potenze europee, ma non doveva essere eccessivamente forte. E dunque, ecco che al Piemonte veniva concessa quasi per intero la Lombardia, ma il Veneto il Trentino e la Dalmazia restavano agli austriaci, mentre in

Toscana sarebbero tornati i Lorena, e in ogni caso si ipotizzava una federazione di stati del Centro Sud sotto la guida del Papa. Alla notizia, Cavour, dopo uno scontro durissimo con Vittorio Emanuele si dimise. E l’unico a sostenere la causa dell’Italia da unire, restò in quelle ore il capo del governo toscano costituitosi dopo la partenza del granduca, Bettino Ricasoli appunto.

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a notizia dell’armistizio arrivò a Firenze nel pomeriggio del 13 luglio e i patrioti si riunirono in Palazzo Vecchio dove regnava la rabbia, il caos, la voglia di reagire ma anche un profondo senso di impotenza. E l’unico che dimostrò di avere le idee chiare, ben al di là della logica, delle possibilità offerte dalla diplomazia, si rivelò Ricasoli che non poteva a nessun costo accettare quanto stava accadendo.

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infatti, lui guidava un governo toscano provvisorio con l’unico scopo di arrivare al plebiscito per l’annessione al Piemonte, e se fossero tornati i Lorena tutto sarebbe crollato. Sotto il profilo politico ma anche sotto il profilo personale. Così, dimostrandosi in quelle ore il vero artefice del Risorgimento, ancor più dello stesso Cavour che in qualche modo aveva gettato la spugna, Ricasoli spedì due ambasciatori a Torino e a Parigi per tentare di modificare le cose. Ma nello stesso tempo mandò a chiamare tre patrioti fiorentini, il Puccioni, il Fenzi ed il Cempini, che a suo tempo avevano proposto di stampare un quotidiano in appoggio alle posizioni del governo toscano, e disse loro: “È arrivato il momento, per domattina voglio il giornale.” E a niente valsero le timide proteste dei tre che, comprensibilmente, facevano notare come fossero già le nove di sera e come non sarebbe stato facile mettere insieme i testi e farli comporre in poche ore. Ma Ricasoli insisteva “O domattina o mai più.” E dette anche il nome alla testata “La Nazione”, che era tutto un programma, anzi, era il

Nonostante le differenze politiche il giornale risorgimentale fiorentino si diffuse a Grosseto fin dai primissimi anni.


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programma. Puccioni, Fenzi e Cempini presero una carrozza e si fecero portare in via Faenza alla tipografia di Gaspero Il quotidiano di Barbera, un patriota piemontese, Ricasoli uscì il qui cominciò un lavoro frenetico 14 luglio con un a redigere i testi ed a comporli. formato ridotto e Come nelle migliori tradizioni del senza l’indicazione giornalismo, redattori e tipografi dello stampatore. Fu lavoravano gomito a gomito. Un solo con il 19 luglio articolo non era ancora concluso del 1859 che venne e già la prima parte passava ai distribuito (anno I° compositori. Un articolo non era numero 1) il primo del tutto composto – all’epoca numero ufficiale. non estivano le linotype ed ogni parola era composta a mano – e già si facevano le bozze per le correzioni della prima parte. Alle cinque del mattino Ricasoli si presentò alla tipografia, lesse le bozze e dette il consenso. Alle dieci, tirate pare in tremila copie, due pagine in mezzo foglio, oggi diremmo formato tabloid, erano in vendita nel centro cittadino. Si trattava di un’edizione senza gerenza, senza il nome dello stampatore, senza il prezzo, senza pubblicità. Praticamente un numero zero.

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così si andò avanti fino al 19 luglio quando, finalmente, La Nazione uscì nel suo primo numero ufficiale, con formato a tutto foglio, le indicazioni di legge, i prezzi per l’abbonamento e per la pubblicità. Così, dunque, nacque il nostro giornale. Che

conobbe i giorni fausti dell’Italia Unita, e poi quelli pieni di problemi, non solo economici, in cui Firenze fu provvisoriamente capitale. Quindi la questione romana, la breccia di Porta Pia, e insomma tutte le fasi che con alterne vicende portarono alla nascita dello Stato italiano.

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a fu proprio con Roma Capitale che La Nazione dovette modificare il proprio tipo di impegno. Che fare? Seguire il governo e il mondo politico fino a Roma, là dove si sarebbero svolte da allora in poi tutte le vicende, e prese le decisioni relative all’Italia? La domanda fu posta ed era più che legittima. Nessun altro quotidiano aveva il diritto di continuare le proprie pubblicazioni nella sede del regno e del governo italiano, più di quello che l’Italia aveva contribuito a farla nascere. Ma fu compiuta una scelta, che di certo non fu di tipo economico: restare. Restare a Firenze, accompagnare la vita della città dove era nata, e dedicare sempre di più le proprie attenzioni anche alla vita quotidiana, a quella che oggi diremmo la cronaca di ogni giorno. Insomma, da grande foglio risorgimentale carico di tensioni ideali, a giornale come oggi lo intendiamo. Con rubriche dedicate alla moda, allo sport, con grandi spazi dedicati

alla vita musicale e teatrale. Con la disponibilità a condurre grandi battaglie nel nome e per conto di Firenze, che già allora viveva con naturalezza la sua doppia natura, ancor oggi visibile: quella di una dimensione provinciale aperta al mondo. Città universale e allo stesso tempo città dove pochi personaggi, e fra loro in costante conflitto, dominavano la scena. Rese possibile questa scelta di obiettivi un grande direttore, Celestino Bianchi. Che seppe conquistare il pubblico femminile, interessare anche la media e piccola borghesia mercantile, ma soprattutto richiamare intorno al foglio di Ricasoli le migliori firme italiane del momento. Che, del resto, già erano presenti su La Nazione, fin dai primissimi anni. E allora ecco il D’Azelio e il Tommaseo, ecco il Manzoni e il Settembrini, e poi il Collodi, il De Amicis, Alessandro Dumas, Capuana, il Carducci e in seguito anche il Pascoli, ed infinti altri. Grandi firme che sarebbero continuate durante il fascismo e nell’Italia repubblicana fino ad oggi. Da Malaparte a Bilenchi, a Pratolini, ad Alberto Moravia, a Saviane, a Luzi. Dopo aver ospitato Papini, Prezzolini, Soffici, e gran parte dei letterati delle Giubbe Rosse nel periodo che precede e che segue la grande Guerra.

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ueste le scelte che permisero a La Nazione, pur dovendo affrontare momenti di crisi e di difficoltà, di battere ogni volta le testate concorrenti. Se esisteva una difficoltà di vendita o addirittura di immagine, sempre riuscì a trovare gli uomini e le energie per risollevarsi. Liberale infatti, fu sempre il quotidiano fiorentino, ma di un liberalismo illuminato che sapeva aprirsi ogni volta ai temi di interesse sociale, e per farlo non esitava ad ospitare anche firme lontane dalle proprie posizioni. Così, quando si trattò di presentare ai fiorentini, e commentare, la nascita delle scuole serali, fu chiesto un articolo a un giovane e rivoluzionario poeta, il Carducci.

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fu tra i primi giornali, La Nazione di Firenze, a porre sul tappeto il dramma del lavoro minorile, e a pubblicare le relazioni di Sidney Sonnino sulla condizione dei bambini, quelli del Nord Italia che a sette anni lavoravano anche 13 ore al giorno nell’industria della seta e quelli di Sicilia, costretti a starsene

chini, senza luce né acqua, nelle solfatare di Sicilia. Ancora di più colpisce, per il giornale del Risorgimento, la moderazione con la quale fu seguita la questione romana e fu data notizia della breccia di Porta Pia. E infatti, mentre la retorica anticlericale si scatenava, creando con i suoi estremismi solo un effetto boomerang, La Nazione fu capace di analisi e di intuizioni che a distanza di 90 anni, con il Concilio Vaticano II, perfino il mondo cattolico avrebbe fatto proprie. Scriveva infatti il nostro giornale: “Il potere temporale ha trattenuto il cattolicesimo fermo sull’idea imperiale pagana.” Del resto non era il Ricasoli religiosissimo?

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dunque, è in omaggio ad una visione laica delle differenze fra Stato e Chiesa, una visione totalmente deducibile dai vangeli che si combatté quella battaglia, che non significava affatto compiacersi di un assoluto anticlericalismo ideologico, o ancor di più di una qualsiasi forma di ateismo conclamato. E ancora, quando si trattò di decidere se trasferirsi a Roma capitale, seguendo le sorti del governo e del re, la spiegazione data ai lettori fu questa. “Noi non vogliamo che Roma attiri a sé tutta la forza intellettuale. Noi vogliamo che Napoli, Firenze, Bologna, Venezia, Milano, Torino, serbino la loro influenza legittima, portino il peso nella bilancia delle sorti politiche nazionali.

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gni regione ha elementi originali da custodire e nello stesso tempo è sentinella dell’Unità inattaccabile.” Una prosa intelligente, modernissima, attuale ancor oggi, 140 anni dopo.

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n atteggiamento che La Nazione conservò anche in epoche ben diverse. Così, durante il fascismo, pur costretta come tutte le testate a pubblicare le veline del minculpop, non per questo La Nazione si allineò mai totalmente al regime. Tanto da opporsi, allorché il Regime voleva imporre come direttori uomini di assoluta fede a Mussolini. E ospitare firme, come quella di Montale, il personaggio che per il suo antifascismo era pur stato “licenziato” dal Vieusseux. Uno stile, un modo di essere, che la premierà quando, pur con mille problemi tornerà alle pubblicazioni nel 1947.

Nella foto: Giuseppe Mazzini. Il fondatore della Giovine Italia ebbe in Maremma un gran numero di seguaci. Ancora oggi la tradizione repubblicana è molto forte a Grosseto.


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Nella foto: i tafferugli di Arcidosso che portarono all’uccisione di David Lazzeretti. L’immagine è tratta da un’incisione di fine Ottocento.

da La Nazione del 3 e 10 novembre 1879

Hanno ucciso David Lazzeretti Sotto processo i suoi seguaci I testimoni in Corte d’Assise a Siena raccontano la morte del Cristo dell’Amiata La requisitoria dell’accusa: “Nella mente di quella gente c’è qualcosa di vago” Lo chiamavano il Santo David e in origine era un carrettiere. Ma sentiva fortissimo il richiamo, quasi mistico, della fede. Nello stesso tempo non era indifferente alle tesi marxiste della uguaglianza e della solidarietà. Come risultato, David Lazzeretti aveva costituito sulle pendici dell’Amiata una comunità dove tutto veniva diviso secondo necessità, secondo le indicazioni dei Vangeli e delle prime comunità cristiane. Un giorno, però, durante una processione, un bersagliere gli aveva sparato uccidendolo. E la vicenda – destinata a diventare mito, oggetto di libri, spettacoli teatrali, film, e ancora oggi viva nei ricordi dell’Amiatino – si era tragicamente conclusa. Qui di seguito La Nazione riporta alcune cronache del processo che si svolse nella Corte d’Assise di Siena e che incredibilmente si concluse con pene severe per coloro – preti

ed operai, contadini, intere famiglie – che avevano osato seguire gli insegnamenti del loro profeta.

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introdotto il testimone cavalier Galassi Leopoldo, di anni 41, nato a Montalcino, domiciliato a Roma, avvocato. Non conosce nessuno degli accusati. Nell’agosto 1878 era con la famiglia a Castel del Piano, ove erasi recato per passare la stagione estiva. Colà udì naturalmente parlare del tema favorito del giorno, del Santo David cioè, e della Associazione di Monte Labro…

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vv. Lesen. Il signor cavalier Galassi trovatasi a Castel del Piano il 18 agosto dell’anno decorso. Vorrebbe dirci qual impressione producesse in quel paese l’annunzio della famosa discesa degli Eremiti dal loro eremo del Monte Labro? Testimone. Nessuna… destò piut-

tosto un senso generale di curiosità… io stesso fui da alcuni miei amici incitato a prender parte a codesta gita. Sapendo però che… i Lazzerettisti avrebbero dovuto passare anche da Castel del Piano, ritenni inutile prendermi tale disturbo, e pensai che potevo benissimo godermi lo spettacolo senza muovermi… Perciò senza nulla alterare delle consuete abitudini dopo aver tranquillamente pranzato spinto come altri dalla curiosità si spinse ad Arcidosso… giunto… seppe i particolari dello scontro ed ebbe notizia che David, mortalmente ferito e vicino a spirare, trovatasi nella vicina borgata detta Le Bagne… giuntovi assisté a un miserando spettacolo… In un povero casolare, sopra uno squallido letto, giaceva il corpo dell’infelice Lazzeretti, cui ormai non restavano che pochi aliti di vita. Accanto al moribondo stava il medico dottor Terni che faceva delle posche con acqua ghiac-

cia al capo del ferito e il figlio di questi che ne allontanava le mosche…

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i qua e da là erravano spaventate, colla massima confusione, donne e fanciulle vestite di bianco e con le corone in testa, nonché varii uomini… Visto il testimone che riconobbero, si affollarono intorno a lui richiedendolo che nella sua qualità di avvocato sapesse dire cosa sarebbe avvenuto di loro. Egli rispose… che li avrebbero tratti in arresto, e che anzi aveva veduto i carabinieri dirigersi a quella volta. Interpellati se avessero armi, ebbe in risposta che non avevano neppure il più piccolo temperino… L’avvocato Galassi non si perita a qualificare l’avvenimento del 18 agosto col titolo di selvaggia repressione. (ndr. L’ascolto dei testimoni si svolge il 2 e 3 novembre 1879, sette giorni dopo, il 10 novembre, prende la parola il Pubblico

Nel tondo: così i lazzerettisti, nei loro labari, raffiguravano il trionfo di Cristo.


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egli voleva far Re d’Italia, deve essere pure abbattuto; che egli ricostituirà la società su nuove basi, e fantasticando su tutto e su tutti prende il volo, in fondo al quale non poteva trovare che il manicomio, la carcere o le armi della forza pubblica… riuscì ad accumulare, per la dabbenaggine dei suoi seguaci, una immensità di denari, coi quali diceva voler comprare Gerusalemme; entrò in trattativa col Sultano; ma Solimano lo fece arrestare e minacciò di tagliargli la testa; ed egli per salvare testa e quattrini gabbò gli ebrei ed il Sultano e si fece turco…

Nella foto: David Lazzeretti mentre, ispirato, scrive una delle sue tante profezie.

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ministero). Non intendo – sostiene l’oratore della legge – di innalzare né distruggere questo idolo, dinanzi alla fede più o meno sincera, più o meno ipocrita dei suoi ammiratori… se sarà destinato a sopravvivere come un grande uomo, o come un eroe da strapazzo per uso e consumo dei nostri cantastorie nelle fiere e nei mercati dei nostri castelli, da venire insieme con Guerrino, ma strilli e con Brindano.

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ignori giurati, la storia del Lazzeretti è una storia antica... falsi Messia vissero e perirono in tutto il mondo. La leva, il punto d’appoggio per queste operazioni fu sempre il cielo; lo scopo vero furono sempre i materiali interessi... tutti questi agitatori e profeti ebbero il loro tempo... come David Lazzeretti seppe trovare

il suo!... La linea che percorse fu questa. Barrocciaio, figlio di barrocciaio, visse fino al 1868 di una vita conforme alle abitudini del suo mestiere. In quest’epoca scomparve da Arcidosso, e dicasi restasse nascosto in Sabina, ove condusse, per qualche mese, vita da anacoreta.

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ornato al paese natio egli si mostrò completamente trasformato: l’antico carrettiere era divenuto un filosofo più o meno strano, spropositato inintelligibile. L’antico bestemmiatore parlava di Dio, con accento ispirato e profetico. I buoni montanari dell’Amiata l’accolgono prima con diffidente curiosità; egli arriva ben presto ad avere dei seguaci e a farsi un partito. Va a Monte Labro; e già ha tante braccia, e tanti mezzi a sua disposizione, che fabbrica

una chiesa ed erige una torre. Crea società religiose, predica per lunghissime ore; scrive libri, scrive poesie, intraprende viaggi in Francia, in Inghilterra, nel Belgio e giunge al colmo del successo allorché ha la ripetuta soddisfazione di trionfare dei propri nemici.

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enunziato dinanzi ai tribunali ecclesiastici, dinanzi ai civili, egli rimane sempre assolto. Inorgoglito della sua fortuna, rompe ogni freno alla sua cieca ambizione, che poi fu la sua vera rovina. E giacché era a tutto fare e disfare, allorché trattasi di se medesimo non si accontenta di esser più l’eremita, nemmeno il Profeta, ma si dice Cristo, e Dio addirittura… Dice, predicando ai suoi fidi, che tutto deve essere riformato. Che il Papa, quello che una volta

detto in tal modo di lui l’oratore parla distintamente di tutti gli altri accusati. Dice che per giudicare delle loro intenzioni bisogna distinguere la prima dalla seconda epoca della storia del Lazzeretti, asseverando che se poteva nei primi tempi ammettersi in quella gente una tal quale buona fede, allorché non si facevano che modeste riunioni ascetiche e si trattava di cose religiose, la buona fede non può ammettersi negli ultimi tempi, non fosse altro che per le forme esterne che avevano assunto le pratiche religiose della lazzerettiana commedia.

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i sa che David e i suoi seguaci erano tenerissimi della banda musicale, e per questo chiamavano e pagavano spesso la musica d’Arcidosso. Ma quell’andare a zonzo, quel parlare di riforme sociali e di penitenze e di pratiche religiose a suon di Walzer e di Polke, non è certo una cosa che si concili con la serietà…

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n sostanza, dopo l’esame di molti altri fatti, l’oratore conclude col dire che nella mente di quella gente c’era qualche cosa di incomposto e di vago, che altro non era che un pervertimento di ogni idea d’ordine e di rispetto della legge.

Nel tondo: il sigillo d’argento col quale il profeta dell’Amiata battezzava i suoi seguaci. La “chiesa” dei lazzerettisti ha continuato ad esistere, pur con notevoli trasformazioni, fino ai giorni nostri.


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da La Nazione del 5 settembre 1922

Due eremiti vivono a Giannutri: una donna selvaggia e un garibaldino In solitudine fra grotte e dirupi, con la bandiera tricolore a nutrirsi di zampe di topo Stanco della vita a quarant’anni. Una intervista dell’inviato Ferdinando Paolieri Isola del Giglio - Agosto

L Uno degli scrittori più importanti nella storia de La Nazione, Ferdinando Paolieri, ci rivela una vicenda al limite dell’incredibile. Il vecchio nobiluomo e la “signorina” che scelgono l’isola di Giannutri per una vita di stenti e di silenzio.

a barca ha il nome di un antico porto “Santa Liberata”, oggi “Orbetello”, dove sorgeva “Cosa” etrusca ricordata da Cesare nel De Bello Gallico. Fila discretamente con un mezzo vento di maestrale nella mattina limpidissima sul Tirreno. Dei due marinai, mentre Marcello Cavero attende alla vela, Angelo suo fratello, il pilota, mi racconta mirabilia dell’isola di Giannutri… Alle dieci la tartana imbocca a remi la cala degli Spalmatoi fra mezzo un anfiteatro di rocce vulcaniche, nere, irsute, ostili. Il silenzio è alto, ma alla realtà ci richiama la vista d’una barca da pesca carica di una cassetta misteriosa chiusa a lucchetto. Niente paura! È dinamite per pigliar pesci a bizzeffe senza bisogno di fare il callo alle spalle colle reti a strascico e in barba a tutte le leggi...

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onosco l’isola fin dai primi della guerra... giro sotto il Poggio dei Mirti detto Punta del Cannone da un vecchio cannone abbandonato che vi giace da grandissimo tempo, e cerco fra le rovine romane fra le quali vive, da quarantacinque anni in compagnia di una signorina il più strano degli uomini… un magnifico vegliardo dalla gran barba mosaica, poveramente vestito, ma di aspetto dinsintissimo. Capitano Gualtiero Adami; si accomodi. L’eremita mi offre una sigaretta egiziana. Giro intorno lo sguardo stupefatto. Il letto è costituito da uno strapunto disteso sopra una tavola massiccia, e sopra vi è spiegata, tutta consunta dall’uso, a guida di coperta, la bandiera tricolore. La volta è simile a quella delle cantine e il pavimento è incrostato di pezzi di marmo pregevolissimi. Mentre principio ad orizzontarmi, dalla grotta laterale vedo fuggire a precipizio una figura femminile avvolta in vesti formate di sacchi cuciti insieme e coi

capelli sciolti sulle spalle... “Sono venuto in quest’isola – comincia Gualtiero Adami fumando saporitamente – quarant’anni fa ed oggi ne ho ottantacinque, non me ne sono mosso altro che per ragioni imprescindibili, d’interessi o di coscienza. Vale a dire? “D’interessi perché ho avuto l’isola in enfiteusi dal comune del Giglio e doveva restare a me, mentre invece, per la morte del legale che aveva in mano tutte le carte, l’ho perduta e ci ho rimesso trentamila lire! Di coscienza perché sono religioso, e ho volto talvolta confessarmi e comunicarmi. L’ultima gita poi la feci a Porto Ercole per far riabbracciare suo fratello alla signorina… Ah! Perché la signorina ha un parente? “Ecco, una storia che sembra complicata ma in realtà è semplicissima. La signorina è Maria Moschini , figlia del compianto commendatore Meschini che fu direttore delle Poste e Telegrafi a Pisa...

Perché lei è pisano? “No, io sono livornese. Ho fatto parte con Garibaldi, da Capitano, della seconda spedizione in Sicilia, e ho combattuto da tenente nelle file dell’esercito regio e con quel grado sono pensionato.

Magra pensione? “Ma ho ancora cento lire al mese dalla Principessa Ruffo – Scaletta per guardarle la vigna e amministrargliela. Così, ogni quindici giorni, una barca mi rifornisce da Porto Ercole di vino e di cibo, ma spesso rimango a denti asciutti, specialmente d’inverno.” E allora? “Allora m’ingegno. Ho mangiato di tutto: le cosce dei topi per esempio, sono eccellenti… Leggo i giornali e sono sbalordito. L’Italia è fatta ma gli italiani hanno ancora da nascere… egoismo e

odio, cecità e presunzione hanno sostituito le parole di Mazzini: pensiero e azione, Dio e popolo... Nessuno più fa il suo dovere…

Ma la signorina? “La signorina Moschini è mia figlioccia ed è laureata in chimica. Aveva 25 anni quando rimase orfana della madre e del padre; suo fratello, distinto commerciante, abitava ed abita ancora a Rio de Janeiro. Essa non volle imbarcar-

si per il Brasile e volle e preferì venire con me in quest’isola… Da allora Maria non s’è più mossa da qui, s’è innamorata della vita contemplativa, s’è inselvatichita e non vuole avere assolutamente contatti col mondo. Mi scusi ma come vive? “La notte non dorme; legge o prega. Ella ha imparato a memoria tutta intera la Divina Commedia. Prega moltissimo...

Così fu raffigurata dal disegnatore de La Nazione Maria Moschini la “donna selvaggia. Nel tondo: i giacigli dentro le caverne che ospitavano i due eremiti.


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È il 1956

Nasce nel centro di Grosseto la prima redazione de La Nazione È in Corso Carducci e per anni aveva ospitato la sede della Cgil. L’ arrivo di Caio Rossi, il primo caposervizio. Una squadra di collaboratori che garantiranno i primi successi

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ochi mesi prima, in aprile, Gaetano Baldacci aveva firmato a Milano il primo numero del Giorno. Poche settimane prima da Budapest Indro Montanelli aveva raccontato la rivolta d’Ungheria soffocata nel sangue dai carri armati del Patto di Varsavia. Era già autunno inoltrato quando, nel 1956, a metà di Corso Carducci, nasceva la redazione maremmana della Nazione. Due stanzone che a lungo erano state la sede storica della Cgil. A Grosseto avevano già conosciuto le loro stagioni più o meno fortunate le edizioni della Gazzetta di Livorno e del Telegrafo. Il direttore Enrico Mattei voleva però qualcosa di nuovo. Nel suo progetto il giornale di Bettino Ricasoli

doveva diventare la gazzetta di tutta la Toscana e Grosseto nel vecchio Granducato rappresentava la provincia, più vasta, la meno omogenea. Così da Firenze venne spedito in Maremma Caio Rossi che fu il primo caposervizio del quotidiano fiorentino.

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ossi, classe 1920, piombinese, arrivò nella sede di Corso Carducci con una discreta esperienza di cronaca locale. Aveva infatti lavorato a Livorno per la Gazzetta e a Firenze con Nuovo Corriere, un giornale allora sotto il diretto controllo del Pci. Raccontano che fu lo stesso Palmiro Togliatti a negare a Rossi la possibilità di continuare nella redazione romana l’esperienza che aveva iniziato nel capoluogo toscano. Fortuna volle che un latifondista di Forlì, in buoni rapporti con il

gruppo Monti, avvicinasse Rossi alla Nazione. Caio venne convocato a Firenze dove, insieme a Enrico Mattei, ritrovò il direttore amministrativo Ivo Formigli che aveva conosciuto al Nuovo Corriere. Addirittura il futuro primo caposervizio della redazione de La Nazione di Grosseto venne messo di fronte ad una scelta: “Dobbiamo aprire - gli dissero - due nuove redazioni, in Maremma e a La Spezia. Dove vuoi andare?”.

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ossi, maremmano della Val di Cornia, non ebbe un attimo di esitazione e qualche giorno dopo era al lavoro in Corso Carducci. Ottimo cronista, personaggio amato, Caio aveva la passione per il bridge che lo portò in giro per il mondo come direttore sportivo della naziona-

le giovanile ed addetto stampa di quella maggiore. L’esordio de La Nazione a Grosseto fu caratterizzato dagli “acquisti”, i primi collaboratori grossetani del giornale. Con Rossi lavorarono Rodolfo Nerozzi, un reporter debole nella scrittura, abile nel ricercare notizie, il maestro Guerri che aveva compiti che oggi definiremmo da deskista, il collaboratore sportivo Sirio Parronchi e gli uomini dell’agenzia Bf per le foto.

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na pagina al giorno con servizi e foto spediti per fuori sacco. Anche le foto. Cronaca un po’ precotta ma sempre pungente, mai banale e molto apprezzata. A lungo funzionò così la redazione di Caio Rossi il quale negli anni Sessanta ingaggiò un nuovo cronista che doveva diventare uno dei personaggi storici de La Nazione a Grosseto. Vittorio Donatelli, nei primi tempi della sua attività fu un eccellente fotografo come poi divenne il vero.

Nella foto: Il Palazzo Aldobrandeschi nel centro di Grosseto. A dirigere la prima redazione fu Caio Rossi che veniva dal Nuovo Corriere all’epoca strettamente collegato al Pci.


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Nella foto: Il Cassero Senese svetta dalle mura di Grosseto. La città fu per secoli un avanposto del potere di Siena nel territorio.

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opo 21 anni di conduzione della redazione Caio Rossi lasciò il giornale. Una pensione anticipata che fu brevissima: nel 1979 il primo capocronista grossetano morì. La successione era scontata e, dal 1977, la guida della redazione venne assunta da Donatelli sotto la cui conduzione vennero ampliati numero delle pagine ed organico. Vittorio strappò al Telegrafo un altro storico cronista grossetano, Isaia Vitali, l’uomo che per anni è stato l’anima silenziosa e discreta delle

cronache di nera e giudiziaria. Arrivarono anche il collaboratore sportivo Ilio Bandinelli, il redattore Gino Bernardini e il fotografo Lio Aprili.

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l caposervizio Donatelli, animato da spirito bianciardiano, ospitò in redazione un’infinità di giovani che vennero in Maremma ad iniziare la loro carriera. Le macchine da scrivere grossetane hanno battezzato i primi pezzi dell’attuale direttore della Nazione, Giuseppe Mascambruno, dell’in-

viato, firma storica del giornale, Maurizio Naldini, di un giovanissimo Paolo Ermini poi divenuto vicedirettore del Corriere della Sera, dell’attuale inviato Stefano Cecchi, e tanti altri che hanno avuto ruoli di rilievo nel giornale da Roberto Baldini, a Riccardo Jannello, a Paolo Pighini, a Paolo Berardengo, da Marina Marenna a Salvatore Mannino.

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egli anni Ottanta Donatelli riuscì a convincere un giovane redattore del Tirreno, Luciano Salvatore che,

trasferitosi alla Nazione, doveva poi essere promosso ad importanti incarichi. Salvatore, divenuto vice di Donatelli, successe al capo quando Vittorio nel 1994 andò in pensione. Salvo un intervallo di poco più di tre mesi a cavallo tra il 1995 ed il 1996 (la redazione venne affidata al caposervizio Daniele Magrini), Salvatore è rimasto alla guida dell’edizione grossetana fino al novembre 2005 quando è stato promosso responsabile della Nazione in Umbria.

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ittorio Donatelli se ne è andato il 23 ottobre 1995. Dopo Salvatore, La Nazione affidò la redazione ad un giornalista che si era formato nelle redazioni di Siena e di Perugia, Giuseppe Di Blasio. Da dicembre del 1996, dopo il trasferimento di Di Blasio a Firenze, la redazione è retta da Fiorenzo Bucci.

Nei tondi in basso: Mauro Mancini e Vittorio Donatelli, due personaggi che hanno fatto la storia del giornalismo nel dopoguerra in Maremma.

Mancini e Donatelli: il giornalismo del dopoguerra

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auro Mancini al timone della sua barca, Vittorio Donatelli nella campagna della sua Scansano. Sono i due giornalisti che hanno rappresentato questo nostro mestiere nella Maremma del dopoguerra, insegnandolo a intere generazioni. ancini cominciò a Grosseto la sua attività, divenne poi capo della redazione di Prato, quindi inviato speciale di punta. Trattò in particolare i temi dell’ambiente e del mare. Ma fu anche sensibile come pochi, alle vicende della mafia e del terrorismo. Morì tragicamente durante un assurdo viaggio in barca con Ambrogio Fogar.

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ittorio Donatelli cominciò invece come fotografo e solo dopo un lungo tirocinio fu chiamato a sostituire Caio Rossi al vertice della redazione di Grosseto. Non volle mai lasciare la sua città, e alla sua scuola crebbero personaggi come Giuseppe Mascambruno, attuale direttore del giornale, Maurizio Naldini storica firma del quotidiano fiorentino, l’inviato speciale Stefano Cecchi e tantissimi altri. Vittorio non seppe mai distinguere tra la vita privata e il lavoro al giornale. Egli era totalmente avvolto dalla quotidiana vicenda della sua redazione. Per tutti, a Grosseto, fino al giorno della sua morte, fu semplicemente il giornalista.


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Le edizioni locali

De Anna: Così nacquero le redazioni di provincia Il “fuori sacco” e i megafoni che annunciavano il ritorno in edicola del nostro giornale I “pionieri” di una grande avventura nel racconto di colui che seppe trovarli e organizzarli

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egli anni Quaranta la redazione delle province era formata da quattro redattori sotto la guida di Giuseppe Cartoni il cui figlio, Mario, sarebbe poi diventato un noto cronista giudiziario. Fra questi era Nicola Della Santa, almeno finché non fu richiamato sotto le armi. Fu allora che entrò in scena un personaggio destinato a organizzare le redazioni provinciali così come sono ancor oggi, sia pure con ben altra consistenza di pagine e di giornalisti. Si trattava di Gastone De Anna, figura mitica del giornale, al quale si deve – assieme a Giordano Goggioli, ad Alberto Marcolin, e ai grandi direttori Russo e Mattei – il rilancio del dopoguerra che permise a La Nazione di raggiungere negli anni Cinquanta le centomila copie.

Gastone de Anna (al centro della foto, in ginocchio) tra i colleghi Rosario Poma e Paolo Marchi. Alle loro spalle circondano Wanda Lattes redattori e cronisti de La Nazione alla fine degli anni Sessanta.

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e Anna ha oggi novant’anni, non uno di meno. Ma anche una memoria di ferro e una lucidità invidiabile. È capace, perfino, di divertirsi a raccontare quegli anni. Ha conservato l’ironia, la capacità di narrare e fare sintesi, che ne fece un grande giornalista. Com’era il clima in redazione? “Scansonato, ironico, divertente. Ma lavoravamo tutta la notte senza pause. L’editore era Favi, l’amministratore Gazzo, era tutto un gioco di parole.” Come organizzò il lavoro? “Dove era possibile contattavo i vecchi corrispondenti e riaprivo i vecchi locali. Altrimenti cercavo edifici e uomini nuovi. Nel ’48, quando Favi morì, tutte le redazioni dei capoluoghi di provincia erano riorganizzate.” Qualche nome di allora, qualche collega? “Passaponti a Pisa, Chiantini a Siena, Coppini ad Arezzo e poi Dragoni e Piero Magi. A Spezia Reggio che poi passò il testimo-

ne al figlio, il conte Vitelleschi e poi Bassi a Perugia. E ancora Ciullini a Pistoia, Del Beccaro a Lucca, Valleroni e Pighini a Massa, Rossi a Grosseto. Mauro Mancini diresse la prima redazione di Prato. Poi divenne inviato speciale assieme a Piero Magi, e più tardi a Piero Paoli e Raffaele Giberti che ricordo con immenso affetto, veniva da Spezia. Intanto cresceva anche la redazione province a Firenze. Era tornato Della Santa, poi arrivarono Gianfranco Cicci, Nereo Liverani, Romolo De Martino, Enrico Mazzuoli, Aldo Satta, Giancarlo Domenichini, Tiberio Ottini, Giuseppe Mannelli, Luigi Scortegagna, Rossi, l’indimenticabile Piero Chirichigno, Franco Ignesti e una splendida segretaria, la signorina Giorni, che divenne un po’ l’anima di quell’ufficio. Si andò avanti così sino alla fine degli anni Sessanta quando arrivarono giovani come Enrico Maria Pini, Riccardo Berti e Maurizio Naldini. Spero di non aver dimenticato nessuno.”

Come lavoravate? “Al contrario di oggi. Tutto il materiale viaggiava col fuori sacco, e in base alle ore in cui arrivava era controllato e titolato in redazione. Fu solo con il computer che le redazioni presero a organizzare le loro pagine direttamente. L’impaginazione poi partiva dalle nove di sera con la prima edizione che veniva chiamata “Nazionale”. Poi si passava alle province più lontane come Spezia, Perugia, Grosseto, e un po’ alla volta si arrivava a impaginare Prato. Quindi, alle tre di notte veniva preparata l’ultima edizione, quella che i fiorentini trovavano in edicola al mattino. Intanto i primi corrispondenti erano diventati giornalisti professionisti, accanto a loro erano vari collaboratori, poi assunti come giornalisti anche loro, mentre la rete si infittiva fino a raggiungere anche i paesi più piccoli e sperduti.” Quando fu concluso il lavoro di organizzazione? “Praticamente mai, continua-

va giorno dopo giorno. Però, alla fine degli anni sessanta La Nazione dominava totalmente il suo territorio di diffusione, e cominciavano anche le edizioni di Sarzana con Osvaldo Ruggeri e di Pontedera con Orazio Pettinelli. Era poi arrivato dal Nuovo Corriere un ottimo amministratore, Ivo Formigli, che già aveva collaborato con Favi”.

Rimpianti? Lo rifarebbe quel lungo lavoro? “Subito. Credo di essere nato per svolgere quell’attività. Eravamo una grande squadra, un gruppo di amici che riuscivano a lavorar bene divertendosi. La redazione era sempre affollata di personaggi famosi che venivano a trovarci. Per segnalare notizie, per commentarle, semplicemente per scambiare due idee. Potevano essere attori o personaggi della televisione, atleti, uomini politici. Ci sentivamo forti, i lettori del resto, ci davano ragione.”


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Era il 23 ottobre del 1948

Arrivarono qui da Montelepre Fu il primo rapimento in Maremma Il conflitto a fuoco, l’arresto, la liberazione dell’ostaggio e una foto ricordo assieme agli inviati Avevano chiesto un riscatto di 20 milioni di lire di Fiorenzo Bucci

Nelle foto: Antonio Cucchiara (foto grande) uno dei due rapitori insieme a Francesco Russo (nel tondo in alto). Arrivati in Maremma da Montelepre decisero di rapire Giovacchino Zopfi (nel tondo in basso durante la liberazione) proprietario di una azienda agricola.

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i rapimenti - confessò più tardi il fotoreporter Corrado Banchi - non se ne era mai sentito parlare, quello fu il primo in Italia e nessuno, per giorni, volle credere alla signora Anna Maria. Anna Maria Borgna, pisana, classe 1912, era la giovane moglie di Giovacchino Zopfi, proprietario di una florida azienda agricola che si estendeva per molti ettari nel Volterrano. Donna premurosa e gentile, la signora Anna Maria, il 23 ottobre 1948, preparò la cena per il marito e lo attese in cucina. Gino, come tutti chiamavano il “padrone”, però non rientrò né quella notte né nei giorni seguenti. Prima di imboccare il viale verso la casa padronale la sua auto venne bloccata da due individui che l’imprenditore non aveva mai visto. Entrambi siciliani, Francesco Russo ed Antonio Cucchiara venivano da Montelepre. Russo

aveva 36 anni; estroverso, bello, atletico era di una furbizia rara. Non sapeva né leggere né scrivere ma riuscì ugualmente, in quei giorni, a far pervenire alla famiglia Zopfi una richiesta di riscatto: 20 milioni di lire che una Fiat 1100 bianca doveva scarrozzare avanti ed indietro da Saline a Montegemoli “finché qualcuno non l’avesse fermata”.

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ucchiara, 31 anni, taciturno, un volto triste, era arrivato in Toscana con la giovane moglie e si era adattato ad ogni tipo di lavoro. Di Francesco ammirava il passato (“Ha fatto parte - diceva della banda di Salvatore Giuliano”) e per questo lo aveva seguito senza indugio in quell’incredibile avventura. “Di questi rapimenti - gli aveva assicurato Russo - ne faremo tre o quattro, metteremo insieme un po’ di soldi, poi acquisteremo un panfilo e ce ne andremo beati in Sud America”. Dopo il sequestro, Gino venne subito allontanato da Volterra e nascosto in una capanna su una collinetta nella zona di Pian delle Rose. “Tu - disse Russo a Cucchiara - resterai qui con lui. Devi stare attento, non deve scappare e, mi raccomando, trattalo bene. Io andrò in giro a far rifornimenti: dobbiamo pur mangiare. Aspettami ritornerò appena possibile”. I due banditi non avevano appoggi e Francesco, spavaldo e temerario, per giorni percorse in lungo e in largo le campagne costringendo i contadini a riempirgli una vecchia sporta che non abbandonava mai.


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Nella foto: un gruppo di inviati intervistano Cucchiara al podere Sant’Ottaviano. Il bandito ha ancora le manette ai polsi. Si riconoscono il collega Cartoni (con l’impermeabile bianco) e Beppe Pegolotti (con giacca e cravatta).

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opo una settimana di scorribande anche i più increduli si arresero all’evidenza: il rapimento Zopfi diventò un caso nazionale. Si mossero le autorità diplomatiche svizzere, ci fu un intervento del Vaticano e la reazione fu consistente: le campagne a cavallo delle province di Pisa e Grosseto si riempirono di carabinieri e poliziotti.

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giornali inviarono i loro migliori inviati. I servizi de La Nazione furono affidati alle penne di Beppe Pegolotti e Mario Cartoni che ebbero per prezioso fotografo Corrado Banchi (due anni dopo, allo stadio di Firenze, doveva scattare la foto della Rovesciata di Parola, resa immortale delle Figurine Panini). Braccato e senza aiuti, Russo sfuggì diverse volte alla cattura, finché il 31 ottobre una ragazzetta del podere Treggiano, Tina Pieraccini, lo incrociò e dette l’allarme. Una pattuglia dei carabinieri, comandata dal maresciallo Bruno Rustighi, riuscì a scovare il bandito e fece fuoco: sette colpi. Una pallottola trapassò il polpaccio destro di Francesco che, colpito di striscio anche alla testa, fu costretto ad arrendersi. Il rapitore venne medicato alla meglio e interrogato con “modi convincenti” tanto che alla fine accettò di collaborare e di portare gli inquirenti al covo di Zopfi. Fasciato alla meglio, adagiato su una barella spinta da due militari,

Russo guidò per le macchie e le campagne la più incredibile delle processioni: carabinieri, poliziotti, soldati di leva mandati di rinforzo, contadini, curiosi giunti dai paesi, giornalisti, fotografi. Una marcia di alcune ore finché i due carabinieri in avanscoperta spararono tre colpi in aria; era il segnale: la capanna era stata trovata.

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er la verità, oltre che in cielo, i militari lasciarono andare anche due fucilate verso Cucchiara che venne raggiunto ad una natica ma riuscì ugualmente a fuggire. Lo rincorsero per ore finché non lo bloccarono. Il maresciallo di Follonica Angelo Benassi prese in custodia il bandito (Russo mezzo svenuto era stato riportato in caserma) e decise di trasferirlo a Massa Marittima. Si riformò il solito corteo che fece tappa al podere Sant’Ottaviano nel Comune di Monterotondo.

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l fattore e sua moglie affettarono prosciutto e stapparono fiaschi di vino per tutti. Al tavolo perfino Cucchiara. “Anche lui - disse Benassi - è un figlio di Dio”. Così al bandito vennero liberate le mani ma, “per sicurezza” fu legato per i piedi alle gambe del tavolino. Corrado Banchi scattò incredibili foto con il rapitore intervistato a tavola dagli inviati, con i carabinieri, che petto gonfio, si fecero riprendere nell’aia con il loro “trofeo”, il terribile bandito. A Massa

Marittima, dove il gruppo giunse qualche ora dopo, Cucchiara venne portato in piazza.

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a voce del suo arrivo si sparse perfino al campo sportivo dove era in corso una partita di campionato. Arbitro e capitani si misero d’accordo: l’incontro fu sospeso per un’ora per permettere alle squadre ed al pubblico di correre a vedere il bandito. Gino Zopfi, disse di essere stato trattato bene. I carabinieri trovarono nella capanna anche i ferri da calza ed una berretta di lana quasi ultimata. La stava facendo Cucchiara “perché - confessò - questo vecchio aveva sempre freddo”. Il “padrone” ritornò quasi subito al suo lavoro ma rimase segnato dal rapimento. Morì nel 1966 a 77 anni. Russo restò diversi anni al Maschio di Volterra. A pena scontata, lavorò come fruttivendolo a Cecina ma “poi nel 1997 - disse il maresciallo Benassi - vennero due suoi compari da Bologna e lui si rimbrancò”.

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ntonio Cucchiara, al processo negò anche l’evidenza, disse che non aveva mai visto Zofpi e non conosceva Russo. A fine pena di lui si perse ogni traccia. Dicono che sia tornato a Montelepre. Nel 1976 nello stesso Podere Sant’Ottaviano, venne rapito l’imprenditore livornese Bartolomeo Neri. Aveva 73 anni e nonostante il pagamento di una rata del riscatto, non tornò mai a

casa. Si parlò di anonima sarda. La Maremma ha conosciuto spesso il fenomeno-rapimenti. A Paganico la mattina del 2 dicembre 1987 venne sequestrata, mentre andava a scuola, Esteranne Ricca, appartenente ad una facoltosa famiglia che, nella zona, possedeva la tenuta di Pietratonda. Quel giorno Esteranne, 16 anni, era accompagnata dall’autista ed era insieme al fratello Leandre, due anni più grande di lei.

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a ragazza venne rilasciata a Roma il 26 giugno 1988 dopo 207 giorni nelle mani dell’Anonima, un’estenuante trattativa che vide in prima fila la nonna della giovane, Georgine Osio, ed il pagamento di un riscatto di due miliardi e mezzo di lire. Durante la sua prigionia Esteranne venne spesso trasferita da un covo all’altro. Le indagini riuscirono a scoprire e sgominare l’intera banda dei rapitori, un gruppo di banditi sardi che si erano trasferiti nel grossetano.

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el 1997, dopo giorni spesso drammatici, tornò libero anche un altro rapito eccellente che fu costretto a trascorrere in Maremma parte della sua prigionia: l’industriale bresciano Giuseppe Soffiantini.

Nel tondo: Beppe Pegolotti è vicino a Cucchiara dopo l’arresto del bandito. L’ultimo a destra, in borghese, è il maresciallo di Follonica Angelo Benassi, autore della cattura.


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da La Nazione del 19 marzo 1954

Il Far West è in Maremma La dura lotta contro la miseria Una città, Grosseto, e un territorio che ancora non hanno finito di nascere La battaglia contro le zanzare. “Luoghi lontani fatti apposta per i disperati”

ci furono stendardi e trombe, ma bandiere gialle e corni da caccia... ci pensava la malaria ad ammazzare gli ideali.

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per questo che oggi la Maremma si ritrova giovane, della stessa giovinezza che ha fatto diventare grandi gli Stati Uniti d’America. Là si vinsero gli indiani e qui si sono vinte le zanzare. Uno spirito che ormai in America si è spento ma che a Grosseto si trova ancora.

Per la raccolta delle olive in Maremma arrivavano uomini e donne da tutta la Toscana. Molto spesso però il lavoro da stagionale diventava definitivo. Fu così che dalla metà dell’Ottocento la Maremma richiamò costantemente forza lavoro.

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ui il declino non può esserci per il semplice motivo che Grosseto non ha ancora finito di nascere. I suoi natali sono di certo i più lunghi e laboriosi che città abbia mai avuto, cominciarono al tempo degli etruschi e continuano tuttora.

A

contrastarli ci pensarono le zanzare e le acque. Soffocata in mezzo alla Maremma, Grosseto rimase per secoli fra la vita e la morte. Se la vita prevalse fu perché gli uomini sono più delle piante attaccati alla terra, fradicia o no. Ne morirono d’uomini in Maremma, gonfi di malaria e di fatica, ma sempre n’arrivarono degli altri… un’epopea ignorata ma non per questo meno eroica, fatta a colpi d’accetta e di zappa. Non c’erano qui a contrastare il passo ai colonizzatori gli indiani pittoreschi del West americano,

in compenso c’erano zanzare e miseria, nemici più silenziosi ma non meno terribili.

F

atevelo raccontare dai superstiti, vecchi che hanno ancora sulle guance avvizzite segni bigi della malattia di palude. Vi diranno che ai loro tempi e nei loro paesi - intendono i primi decenni di questo secolo, intendono tutti i paesi poveri di Toscana o del Sud – ai giovani s’aprivano due strade sole: una portava in America e l’altra in Maremma. Sembravano due luoghi ugualmente lontani e pericolosi, fatti apposta per i disperati che non avevano pane a casa loro. Fu un’accetta molte volte a decidere il destino: coloro che ne possedevano una e sapevano adoperarla scelsero la Maremma. Partirono giovani e divennero subito vecchi nei boschi malsani, fra il grufolio dei cinghiali e le fumate delle carbo-

naie. Dura vita di ieri. Oggi è un altro giorno. Il sangue succhiato dalle zanzare si è trasformato in seme…

V

i stavo dicendo che Grosseto, capitale di questa Maremma, sta tuttora nascendo. Ma nasce ora ad un ritmo allegro, affrettato. La circonda una campagna fiorente e non più la palude. Spezzato il cerchio angusto, rachitico delle mura, la città si allarga fra il verde delle piante giovani. Dappertutto sorgono nuovi edifici, per sua fortuna Grosseto non ha troppi monumenti da preservare ed è libera di darsi un’impostazione razionale, rispondente alle esigenze dei cittadini e non soltanto a quelle dei turisti.

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erra nuova questa, che la stentata storia di ieri e dei secoli precedenti è tutta da dimenticare. Qui non

inalmente ho trovato una provincia che si protende nell’avvenire e non dentro il passato. Il “complesso di vecchiaia” che affligge tante altre città qui non esiste… Come c’è già stata la lotta (soltanto burocratica) fra allevatori di bestiame e coltivatori, conclusasi nei vasti espropri di questi ultimi anni, vi sono adesso difetti d’esperienza amministrativa e soprattutto ci sono ingenuità politiche, economiche, urbanistiche ed edilizie…

U

n altro fattore che avvicina la Maremma d’oggi all’America di ieri è costituito dalla popolazione costituita di immigrati antichi e recenti. Se là era un crogiuolo di lingue qui è stato un crogiuolo di dialetti. In entrambi i casi ne è venuto fuori un linguaggio particolare, come del resto un costume e un carattere particolari sono venuti fuori dall’incontro di razze diverse nel primo caso e di cittadinanze diverse nel caso di Grosseto…

G

rosseto è una città in cui l’asfalto non fa dimenticare il colore e l’odore della terra… Mauro Senesi

Oltre che dalla Toscana, ad abitare la Maremma delle bonifiche, furono contadini del Veneto (nel tondo) e della Calabria. Per questo motivo tutt’ora, nel grossetano, si tengono in vita tradizioni delle Alpi e della Sila da tempo scomparse nei luoghi di origine.


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da La Nazione del 6 maggio 1954

La morte in fondo al pozzo per 42 minatori di Ribolla E’ una delle più grandi tragedie minerarie dell’Italia Unita – Lo strazio delle famiglie L’impianto era in netto passivo, esistono responsabilità dei dirigenti della Montecatini?

Uno scoppio a duecento metri di profondità nel pozzo Camorra, così si muore ancora negli anni Cinquanta nelle miniere della Maremma. La Nazione manda sul posto due inviati. Beppe Pegolotti al quale viene affidato un articolo che indaghi sulle responsabilità, e Paolo Bugialli che si occupa della cronaca della tragedia. Qui di seguito, ne riportiamo alcuni stralci.

Lo scoppio nel pozzo Camorra arrivò a spostare per cinquanta metri blocchi di cemento del peso di 40 chili.

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morti sono 42. Questa l’agghiacciante notizia fornita stasera dai dirigenti della Montecatini. Ventidue, fino a questo momento, recuperati: gli altri venti ancora stretti nell’abbraccio della terra… la lista degli operai che alle sette di ieri mattina erano scesi a “Camorra” nella bocca della morte, l’aveva in tasca il caposquadra Ferioli il corpo del quale era stato recuperato fra i primi ma così orribilmente ridotto che era assurdo di potergli trovare ancora in tasca il tragico elenco… La tremenda forza dello scoppio… blocchi di cemento di quaranta chili spostati anche di cinquanta metri dalla loro sede naturale... Quarantadue morti, dunque. Più quattro feriti ricoverati all’ospedale di Massa Marittima, più qualche altro ferito leggero che si è fatto curare soltanto all’infermeria della miniera. La squadra che scese giù ieri mattina alle sette era di sessantaquattro operai.

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Ribolla stanotte si è vegliato. Non c’era una finestra spenta: chi non li vegliava sull’orlo del “pozzo Camorra” i suoi morti, chi non li vegliava davanti alla saracinesca chiusa del capannone dove le salme appena estratte vengono esaminate dal giudice e dai medici, chi non piangeva il più tragico spettacolo del mondo… restava a piangere in casa. Anche se non era legato a quei morti da vincoli di sangue. Questi sono morti di tutti... Paolo Bugialli

Nelle foto pubblicate da La Nazione del 6 maggio 1954: familiari e compagni di lavoro (foto in alto) davanti al pozzo Camorra in attesa di conoscere notizie sulla sorte dei loro cari. L’onorevole Amintore Fanfani (foto in basso) in visita ai luoghi della tragediastringe la mano a un ufficiale dei carabinieri.

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esponsabilità: è una parola terribile, che schiaccia. Attorno al “pozzo Camorra” dal quale escono di continuo cadaveri mutilati di uomini che vi entrarono ieri mattina pieni di vita, attorno alla camera ardente dove sono già allineate tante bare sormontate dall’elmetto e dalla lampada simboli del minatore, questa parola echeggia senza posa: responsabilità. C’è gente che non conosce mezzi termini, che punta l’indice e accusa… Dice, la gente che la responsabilità del disastro ricade sui dirigenti e sui tecnici della Montecatini... Gli accusatori non

si peritano a riferire che la Montecatini avrebbe trascurato molto, negli ultimi tempi, le attrezzature della miniera di Ribolla, pensando di chiuderla un giorno o l’altro perché decisamente passiva.

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on potendo chiuderla, evidentemente, per molteplici ragioni anche di carattere sociale, la società avrebbe trascurato gli impianti, non avrebbe apportato innovazioni, così che sarebbero sopravvenute, per voler lesinare sulle spese di gestione, condizioni di insicu-

rezza dei lavoratori. Tutto ciò, per di più, sapendo benissimo che una disgrazia sarebbe dovuta fatalmente accadere... Chissà se anche l’inchiesta, pur completa e profonda e intelligente che sia, potrà darci una spiegazione. Qui sotto, nello sconquasso, tutto è crollato, la ricostruzione della tragedia nei suoi esatti termini è più che problematica. Coloro che avrebbero potuto dirci la verità sono rimasti laggiù, straziati a brandelli, vittime del lavoro, vittime della ricerca faticosissima e rischiosa del pane di tutti i giorni. Beppe Pegolotti


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4 novembre 1966

“C’era nell’aria odore di fango” ma nessuno pensava all’alluvione Durante la notte l’Ombrone ruppe gli argini. Alle otto del mattino il fiume invase la città In via Guerrazzi la piena superò i quattro metri. Furono 1650 i senza tetto

di Fiorenzo Bucci

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a giorni - scrisse Aldo Mazzolai - i muri, gli alberi, le pareti, la terra trasudavano. C’era nell’aria un odore di fango”. Su Grosseto cadeva senza sosta una pioggia fitta ed intensa ma “nessuno - annotò il cronista Omero Marraccini - pensò mai alla piena”. Era lontano il ricordo dell’inverno del ‘46 quando l’Ombrone ruppe gli argini ed invase la città; i tempi erano cambiati, l’alveo era stato ripulito. Invece, quel sabato sera, il 3 novembre 1966, Genesio, il guardiano del Genio civile di Sasso d’Ombrone, arrivò al ponte sul fiume e vide l’apocalisse. Sotto i suoi piedi un’onda immensa scendeva a valle travolgendo tutto in un rumore infernale. “È la catastrofe” - urlò per ore nel microfono del suo telefonino a manovella, ma dall’altra parte nessun orecchio raccolse l’allarme. Per tutta la notte, nelle

strade deserte di Grosseto, la luce fioca dei lampioni rimandò l’immagine di una pioggia fine e infinita che accompagnò il sonno della città fino all’alba. Verso le otto, Mirta, la moglie di Isaia Vitali, cronista di Paese Sera, venne svegliata da un rumore sordo che veniva dalla campagna. Alzò l’avvolgibile e rimase impietrita: un massa d’acqua dall’Ombrone stava investendo il suo palazzo. Isaia tese l’orecchio: “Gente, fuggite, mettevi in salvo, sta arrivando la piena!”. Omero Pucci, si era alzato presto, aveva capito ed in un baleno aveva messo in funzione la sua attrezzatura: l’altoparlante, l’amplificatore e il microfono che da un furgoncino usava per reclamizzare i prodotti dei negozi. Dalle 7,55, nella zona tra la Grancia e l’Aurelia, l’Ombrone stava vomitando 4500 metri cubi di acqua al secondo.

In poche ore, un fiume di fango, di detriti, di lamiere accartocciate, una melma nera dalla quale spuntavano carcasse di animali, avvolse l’intero centro storico risparmiando solo la piazza della Prefettura e la zona intorno al vecchio ospedale. La ferrovia, rialzata rispetto al piano della strada, fece da argine all’acqua che non raggiunse le zone di nuova urbanizzazione, ma ristagnò in un enorme lago nel centro storico. In via Guerrazzi, il livello della piena superò i quattro metri; Corso Carducci, la via principale, diventò un fiume. Palazzi e villette, edifici pubblici e locali di ritrovo rimasero isolati. Genitori, figli, zii e nipoti per giorni non ebbero notizie gli uni degli altri.

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e comunicazioni avvenivano solo con urla fioche e cenni stentati dalle finestre e dai tetti dei palazzi più alti. I telefoni, le linee elettriche, le condotte dell’acquedotto vennero irreparabilmente danneggiati fino dalle prime ore della domenica. Da qualche radiolina gracchiante i grossetani appresero che a Firenze la tragedia aveva colpito anche più che in Maremma. Non mancarono mai i giornali. Nelle redazioni locali ci si arrangiò ed a lume di candela i cronisti riuscirono a garantire l’informazione essenziale telefonando i loro pezzi dal solo apparecchio rimasto miracolosamente attivo nella sede della Guardia di Finanza.

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a Rai, invece, arrivò solo dopo giorni: in un’intervista il sindaco Renato Pollini vestì i panni dei momenti gravi: “Grosseto - disse - è tornata cento anno indietro”. Quando l’impeto della piena raggiunse le campagne di Montepescali una intera mandria di vitelli venne travolta dall’acqua. Sante Guadalti, uno dei butteri più noti, sfidò la corrente per soccorrere le bestie che stavano annegando. Armato solo del suo cavallo, affrontò una montagna di fango, di detriti, di tronchi d’albero. Qualche giorno dopo il suo corpo fu ritrovato in mezzo alle carogne degli animali. Era morto da buttero come aveva vissuto; fu l’eroe oscuro della grande piena, l’unica vittima di una tragedia che avrebbe potuto causare lutti infiniti. “Se fosse accaduto in un giorno feriale - disse lo scrittore Luciano Bianciardi - non so come ci saremmo potuti riprendere”.

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uella domenica invece negozi, scuole, laboratori artigiani erano chiusi e la città aspettava solo la tarda mattinata per celebrare l’Anniversario della Vittoria. Mesi più tardi un bilancio sommario dei danni accertò che 1650 grossetani erano rimasti senza tetto, che oltre 7500 edifici erano stati devastati dall’acqua, che migliaia di ettari di campagna erano stati sconvolti dal fango. Non si sono mai contati i capi di bestiame che la piena spazzò dalle stalle e dai recinti. Né esiste una stima di quante vie comunali e provinciali furono distrutte, di quante linee dell’acquedotto e di quanti tratti di fognature furono resi inservibili. Negli anni novanta si parlò di danni per 500 miliardi di lire. Mesi dopo ci fu anche un processo che, senza risultati, tentò di chiarire i motivi della mancata risposta all’allarme lanciato dal guardiano del Sasso, Genesio Morotti.

L’acqua dell’Ombrone non raggiunse le zone di nuova urbanizzazione ma ristagnò per giorni nel centro cittadino.


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da La Nazione del 30 ottobre 1968

Una centrale elettrica a Follonica È scontro fra turismo e industria Previsto un pontile di accosto per le petroliere La paura che un’onda di catrame possa danneggiare Punta Ala e l’isola d’Elba

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Enel ha progettato una centrale termoelettrica… gli impianti devono sorgere in riva al mare… la centrale dovrebbe sorgere nel golfo di Follonica fra Piombino e Follonica in faccia al versante orientale dell’Elba. La località si chiama Torre del Sale e nel raggio di 18 chilometri troviamo l’isola d’Elba e Punta Ala, due poli turistici di importanza internazionale… Perché proprio qui?

Ancora alla fine degli anni Sessanta si confrontavano fra loro due opportunità di sviluppo: l’industria e il turismo.

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tecnici dell’Enel hanno battuto la costa da Civitavecchia a Vada e alla fine sembrano aver stabilito che il punto più andato si trova in questo splendido golfo... Dall’Elba sono naturalmente contrari perché la loro economia è prevalentemente turistica e non vedono in una centrale elettrica l’occasione per qualche miglioramento; si preoccupano invece dello scarico delle petroliere che andrebbe a rifornire la centrale , e non tanto per l’operazione in se stessa, ma per un eventuale incidente. Da quando è successo della “Torrey Canyon” nessuno sta

più tranquillo (e il comandante in quell’occasione era proprio elbano). Basta che una volta si rompa un tubo – essi dicono – qualche tonnellata di grezzo vada in mare e la nostra isola diventa nera.

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i deve dire che fino ad ora l’isola è rimasta quasi immune dagli inquinamenti grazie alle correnti marine che la lambiscono e quindi la difendono da tante porcherie alla deriva , ma anche perché non esiste una pericolosa fonte vicina che scarichi in acqua prodotti industriali. Il centro metallurgico di Piombino, in questo senso, non ha mai rappresentato un problema. Sono gli idrocarburi che danno pensiero.

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Follonica il sindaco Dino Abati col quale siamo andati a parlare non ritiene ancora giunto il momento per esprimere una opinione certa; si riserva di farlo quando avrà a disposizione tutti i dati tecnici del problema...

L’

Ente provinciale per il turismo di Grosseto non nasconde le più vive preoccupazioni e aspetta, anch’esso, che certe questioni tecniche vengano chiarite. Piombino invece è favorevole, ad esclusione del presidente della Pro–loco che per altro dichiara di esprimere soltanto un parere personale…

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a ecco i riferimenti tecnici a noi noti sull’intero progetto. Per la costruzione della centrale, che avverrebbe in sei fasi diverse ma collegate fra loro, l’Enel prevede una spesa di cento miliardi in cinque anni; è probabile che per tutto questo tempo a Torre del Sale possano trovar lavoro quattrocento o cinquecento persone, mentre si parla di duecento tecnici da destinare all’impiego fisso una volta che gli impianti siano partiti… Per permettere l’attacco delle carboniere e delle navi cisterna che dovranno rifornire lo stabilimento, verrà costruito un molo della lunghezza di tre chilometri orientato approssimativamente verso Capo della Vita nell’ Elba. E qui si innesta un discorso importante, anche da parte di alcuni ambienti politici: sarebbe possibile forse approfittare di questa grossa

iniziativa per programmare lo sviluppo di Piombino come scalo per i traghetti della Sardegna (in sostituzione parziale di Civitavecchia) come nuovo polo di traffico interregionale.

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he l’Enel debba costruire uno smisurato braccio di accosto, proteso in mare, sembra certo. Che questo braccio sia prossimo a Piombino appare evidente: che la nuova opera, saldata alle vecchie possa far nascere un superporto risulta tecnicamente proponibile…..

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i fa inoltre sapere da ambiente interessati che l’Enel offre garanzia di assoluta sicurezza sia a livello della depurazione dei fumi di combustione sia per i trasferimenti dei carichi “pericolosi” da mare a terra… Può darsi non accada nulla per l’eternità… ma un incidente è sempre possibile e basta uno sgorgo di nafta in mare perché tutto il golfo ne sia insozzato… Mauro Mancini

Occorrerà arrivare negli anni Ottanta perché venga universalmente accettata l’idea che la Maremma possiede un patrimonio culturale e ambientale unico al mondo.


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La Maremma terra di sport Dal calcio al pugilato, dall’atletica al baseball, dall’hockey alla vela, gli atleti locali ai primi posti in Italia. Alessandra Sensini il nostro ambasciatore nel mondo secolo di vita (è stata fondata il 13 maggio nel 1912). E sicuramente nella mente degli sportivi scorrono le immagini dell’ultimo quarto di secolo da quando, cioè, dopo la retrocessione dalla serie C nei gironi dei dilettanti, il Grifone ha attraversato momenti davvero bui con trasferte impossibili su campi di periferia prima di arrivare all’ultimo decennio che corrisponde all’epoca del patron Piero Camilli. L’imprenditore venuto da Grotte di Castro, infatti, come se avesse avuto una bacchetta magica, è riuscito a portare i colori biancorossi dal mondo dei dilettanti al sontuoso palcoscenico della Serie B. Sicuramente il “Comandante”, come è stato definito affettuosamente dai tifosi, è destinato a lasciare un segno indelebile nella storia centenaria del Grosseto dal momento che il Grifone, sotto la sua gestione, ha sempre svolto un ruolo di protagonista.

PUGILATO di Paolo Pighini

Nella foto: Alessandra Sensini simbolo sportivo di tutta la Maremma. Con la sua tavola a vela ha partecipato a cinque olimpiadi e vinto quattro medaglie.

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a Maremma, terra meravigliosa e ospitale, ha nel suo Dna i “cromosomi” della pratica sportiva. Sia a livello agonistico, quindi come risultati, sia a livello promozionale, quindi, come organizzazione di eventi. Un feeling tra territorio e sport che sta lanciando nel mondo questo binomio vincente. A parte la vasta diffusione dello sport (in provincia sono praticate quasi tutte le discipline indicate dal Coni per la soddisfazione del presidente Alessandro Capitani) appare doveroso segnalare alcune peculiarità. Calcio, pugilato, atletica, baseball, hockey su pista e vela, sono gli sport che maggiormente hanno lasciato un segno nella storia della Maremma. E non a caso Grosseto, in diverse circostanze e per queste discipline, è stata definita la «capitale d’Italia».

CALCIO

Iniziamo la nostra “rassegna” dall’Us Grosseto che si sta accingendo a compiere il primo

Uno sport che viene da lontano e che è destinato ad andare lontano è il pugilato, sempre amato in Maremma. Dai Cortonesi, Polidori e Marconi per arrivare al “professorino” Scapecchi e alla campionessa del mondo Emanuela Pantani, qui scorre tutta la storia della boxe che ha trovato nell’organizzazione Rosanna Conti Cavini un depositario di assoluta garanzia. Negli ultimi trent’anni, infatti, il binomio Umberto Cavini e Rosanna Conti ha dato vita ad un punto di eccellenza del pugilato in Italia, e non solo, con la organizzazione di eventi indimenticabili come l’Europeo dell’85’ nel principato di Montecarlo tra Scapecchi e March, il Mondiale del 90’ a Grosseto tra Mitchell e Beard e il mondiale di Grosseto che ha laureato, alla fine del 2008, Emanuela Pantani, la “migliore al mondo”.

ATLETICA LEGGERA

È del 1939 il primo titolo italiano conquistato da Umberto Ballerini nel salto con l’asta. Viene da lontano quindi anche l’atletica leggera, l’altro sport che ha portato Grosseto e la Maremma

nel mondo grazie alla organizzazione di appuntamenti unici. Impossibile da dimenticare il ritorno alle gare di Pietro Mennea, avvenuto nell’agosto del 1987, che fece piombare in Maremma giornalisti da tutto il mondo: anche il TG1 aprì una diretta sull’evento. Per poi passare alla organizzazione, grazie alla felice intuizione del dirigente Alfio Giomi, dei Campionati Europei Juniores seguiti, poi dai Campionati Mondiali Juniores. E che dire dell’arrivo, in programma all’inizio di quest’estate, in Maremma dell’atleta Pistorius per preparare il «minimo di partecipazione» ai mondiali di Berlino? Davvero eventi indimenticabili. Una curiosità: la società Atletica Grosseto Massimo Pellegrini è l’unica società in provincia a potersi fregiare della Stella d’oro del Coni.

BASEBALL

Ed il passaggio degli americani dopo la seconda Guerra mondiale ebbe come conseguenza la nascita del baseball in Maremma. Il Bbc Grosseto, infatti, nacque nel 1952 «dalle ceneri» dei Canarini. Nomi storici come John Self, Beppe Massellucci, Tom Mutz, Graig Stimac, Bob Pate, Richard Olsen,Vic Luciani, Otis Green, Navarro, Ramos, Medina e Mazzotti fanno, ormai, parte del patrimonio degli sportivi maremmani. E grazie all’attività dei vari presidenti Ciampolini, Tonini, Falconi e Banchi, il Bbc può vantare una bacheca ricca di trofei come i quattro scudetti vinti, una Coppa dei Campioni, una Coppa Ceb e tre Coppe Italia.

Inoltre non va dimenticata la organizzazione di eventi eccezionali come i Campionati Europei, quelli Mondiali, la Coppa delle Coppe e la Coppa Campioni. E un altro motivo di vanto la presenza di Marco Mazzieri alla guida della Nazionale italiana.

HOCKEY SU PISTA

L’hockey su pista è un altro segmento del patrimonio dello sport maremmano. Grosseto, Castiglione della Pescaia e Follonica rappresentano il «triangolo» della tradizione. Ma è dal Golfo, con l’arrivo di Massimo Mariotti alla guida tecnica, che sono arrivate le più grandi soddisfazioni dall’Asd Follonica Hockey la quale nel suo palmares presenta quattro scudetti, sette Coppe Italia, tre Supercoppe italiane, una Coppa di Lega, una Coppa Cers, una Coppa Campioni, unica squadra italiana che ha realizzato l’impresa, e un titolo Intercontinentale.

VELA

E un’impronta indelebile è quella lasciata da Alessanda Sensini, la velista più medagliata nella storia grazie alle sue imprese realizzate sulla “tavola a vela”. Il suo palmares non finisce mai. Tra i suoi exploit ricordiamo, soltanto, la partecipazione a cinque Olimpiadi nel corso delle quali ha conquistato quattro medaglie: un oro, un argento e due bronzi. Queste “imprese” hanno fatto di Alessandra il “miglior ambasciatore” della terra di Maremma.


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Quando la pubblicità “pensava” al benessere

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ciroppo contro la tosse “Cavallina”, magici ritrovati che facevano bene all’intestino, liquori per ogni disturbo della gola e della voce, acque minerali francesi che garantivano miracoli. La pubblicità delle origini è pressoché totalmente dedicata a prodotti per la salute. Se non sono vere e proprie medicine, così come oggi le intendiamo, almeno ci provano.

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n particolare l’attenzione verso i farmaci “miracolosi” si ebbe in Maremma, dove la vita media ancora alla fine dell’Ottocento non raggiungeva i quarant’anni. La malaria era un autentico flagello, ma anche la mancanza di strutture sanitarie, le grandi distanze tra i centri abitati e in genere le condizioni di vita erano causa di numerosi decessi. Per tutto questo a Grosseto e provincia arrivavano spesso con i loro calessi i venditori ambulanti di panacee per il corpo e la mente.

Alcuni esempi delle proposte pubblicitarie, mediche e paramediche, apparse su La Nazione all’inizio del Novecento.

Di nuovo in edicola iI volume celebrativo Esaurito in pochi giorni nella sua prima edizione, è tornato in edicola la ristampa del volume edito in occasione dei 150 anni de La Nazione. Il libro, stampato con la collaborazione della Burgo, prestigiosa azienda cartaria di tradizione ultracentenaria, è stato voluto dalla Poligrafici Editoriale e dalla famiglia Monti Riffeser proprio per celebrare l’importante traguardo. Curato dal giornalista e scrittore Maurizio Naldini, rappresenta un’opera senza precedenti. Anche solo sfogliandola, infatti, permette di ripercorrere, attraverso le cronache quotidiane, la storia di un giornale, di una regione, dell’Italia e del mondo. Il volume, di 400 pagine, contiene oltre 200 articoli originali – dalle cronache del Collodi per l’annessione della Toscana al Piemonte fino all’elezione del presidente Obama - introdotti dall’autore. La pubblicazione è arricchita da 15 tavole illustrate originali realizzate da Luca Parenti, l’impaginazione è stata curata da Marco Innocenti dell’agenzia Kidstudio. Storici del livello di Zeffiro Ciuffoletti, Cosimo Ceccuti e Sandro Rogari hanno introdotto le tre parti nelle quali si articola, cronologicamente, l’opera.


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