La Nazione 150 anni parte 2

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SUPPLEMENTO AL NUMERO ODIERNO A CURA DI

150 ANNI di STORIA ATTRAVERSO LE PAGINE DEL NOSTRO QUOTIDIANO

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SECONDA PARTE • Dal 1910 al 1959

Le firme prestigiose e i grandi eventi in Italia e nel Mondo


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La storia degli editori de La nazione Da Gaspero Barbera ad Attilio Monti Il Novecento le grandi firme fanno nascere la Terza Pagina Montale sconfigge Quasimodo Quella volta che gli orchestrali aggredirono il Bastianelli Magico Toscanini, Firenze lo osanna Spettacoli Nove sale a Firenze ospitavano il teatro Ecco come raccontai per 40 anni il grandi avvenimenti dello sport Economia La capitale dell’editoria La politica Tre episodi in tre anni destinati a cambiare l’Italia Le perle del regime Marconi in diretta dall’Australia Affonda il Titanic Il voi di Mussolini Quando il regime prese di petto il lei Il Fascismo: fine della libertà Crolla il fascismo il Duce costretto a dimettersi Badoglio firma l’armistizio L’Italia è repubblicana Superga: così in tragedia finisce il grande Torino La TV? Sta per arrivare anche da noi (ma intanto ecco cosa succede negli Usa) Entra in vigore la legge Merlin Addio alle “case chiuse” La rivolta d’Ungheria Quando il regime sovietico rivelò la sua vera natura Il Mec, l’Europa è più unita Casto a L’Avana Allah non approvò le nozze della regina triste e ripudiata La pubblicità Gli abiti antipiega e le cliniche per i nervosi

SECONDA PARTE • Dalle 1910 al 1959

Le firme prestigiose e i grandi eventi in Italia e nel Mondo Non perdere in edicola il terzo e ultimo fascicolo regionale che ripercorrerà, attraverso le pagine de La Nazione, la storia fino ai nostri giorni e i 17 fascicoli locali con le cronache più significative della tua città.

Supplemento al numero odierno de LA NAZIONE a cura della SPE Direttore responsabile: Giuseppe Mascambruno

Vicedirettori: Mauro Avellini Piero Gherardeschi Antonio Lovascio (iniziative speciali) Direzione redazione e amministrazione: Via Paolieri, 3, V.le Giovine Italia, 17 (FI) Consulenza storica: Aurora Curzio

Progetto grafico: Marco Innocenti Luca Parenti Kidstudio Communications (FI)

Stampa: Grafica Editoriale Printing (BO)

Pubblicità: Società Pubblicità Editoriale spa DIREZIONE GENERALE: V.le Milanofiori Strada, 3 Palazzo B10 - 20094 Assago (MI)

Succursale di Firenze: V.le Giovine Italia, 17 - tel. 055-2499203


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La storia degli editori de La Nazione

DA GASPERO BARBERA AD ATTILIO MONTI “D

a quel lontano 19 luglio 1859 – scriveva l’indimenticabile Alberto Marcolin nel 1989, per i 130 anni del nostro giornale – La Nazione ha avuto sei editori, due soltanto fiorentini: Attilio Vallecchi (fondatore dell’omonima casa editrice) ed Egidio Favi, il “sor Egidio” com’era chiamato da giornalisti e tipografi.”

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arcolin aveva ragione a sottolineare questo aspetto, perché in effetti, pur mantenendo sempre intatto il suo legame, assoluto, con la città che la ospita, La Nazione ha sempre guardato, dal punto di vista editoriale, ben al di là dei confini di Firenze. Gaspare Barbera, lo stampatore al quale si rivolsero fin dall’inizio Puccioni, Fenzi e Cempini, era arrivato qui da Torino, perché Firenze era già nella metà dell’Ottocento la patria delle lettere, della cultura, delle arti, e dunque offriva occasioni di lavoro per chi si occupava di composizione e di stampa, che di certo Torino non poteva offrire. A maggior ragione, con Firenze capitale, Barbera troverà nuovi motivi giustificare la sua scelta, tanto da entrare in società con il fratello di Celestino Bianchi, il segretario del Ricasoli che poi diverrà anche direttore de La Nazione.

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arbera, che nel 1859 aveva sede in via Faenza (il numero civico era in quei giorni il 4765, poi diventato il 66) quasi all’altezza della Fortezza da Basso, era un risorgimentale di fedeltà assoluta, e quando La Nazione prese a diffondersi non esitò a investire nella nuova avventura editoriale comprando un “torchio” modernissimo che gli permetteva di abbreviare i tempi di tiratura. Vicenda, questa, che gli costò le accuse, anzi, le insinuazioni della concorrenza, convinta che quel “torchio” il Barbera lo avesse comprato con i soldi del Ricasoli, anzi, del Governo toscano e quindi del contribuente. Vicenda che finì

in tribunale dove Barbera poté esibire le sue ricevute di pagamento, ed ebbe ragione senza ombra alcuna di dubbio.

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on Barbera La Nazione conobbe anche stagioni di difficolta economica, tanto che agli inizi degli anni Settanta dell’Ottocento, con il passaggio a Roma della capitale che lasciò a Firenze solo una gran messe di debiti, si parlò perfino di una chiusura. Ma fu Celestino Bianchi, oltre ad un comitato editoriale composto da alcuni dei maggiori esponenti dell’aristocrazia fiorentina, che permise di superare la difficoltà e di marciare con alterne vicende fino agli albori del nuovo secolo.

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gli inizi del Novecento La Nazione vendeva all’incirca cinquemila copie, molte delle quali in abbonamento. E fu allora che cambiò la sede e l’editore. Nel 1907 il giornale passò, infatti, agli eredi di Felice Le Monnier, e si trasferì nel Lungarno Acciaiuoli, nel palazzo omonimo, e subito dopo in Borgo SS. Apostoli al numero 7. Qui poteva contare su una tipografia tecnicamente molto avanzata, il che gli permise di portare a sei le pagine quotidiane, ma soprattutto di pubblicare ben tre edizioni: quella della mattina, quella del pomeriggio e quella della sera. Un impegno editoriale quanto mai doveroso, perché la concorrenza già da tempo era sul mercato con quel tipo di uscite e di presenza. Con orgoglio l’editore de La Nazione poteva finalmente stampare in bella vista, in ogni copia, che il giornale era “stampato nella tipografia de La Nazione”.


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a proprietà era intanto passata al Principe Tommaso Corsini, e fu lui a trasferire di nuovo la sede del giornale e la tipografia. Sette anni dopo, nel 1914, il quotidiano si trasferì infatti nella tipografia Vallecchi, che aveva sede nel palazzo Gondi in via Ricasoli. E sarà in questa sede, pur con passaggi di proprietà e varie vicende amministrative, che il giornale sarebbe rimasto fino al 1966 quando fu costruita la nuova sede di via Paolieri dove ancor oggi si trova.

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n quei giorni lo scontro tra quanti volevano un intervento italiano nel conflitto mondiale e coloro che preferivano la neutralità era durissimo. La Nazione non sembrava scegliere. In qualche modo, anzi, sembrava su posizioni neutralistiche, al punto che per due volte la redazione fu invasa da gruppi di interventisti che la distrussero e minacciarono i redattori. Era in quei giorni amministratore del giornale un personaggio che avrebbe avuto un peso decisivo sulle sorti del giornale nella prima metà del Novecento. Si chiamava Egidio Favi, aveva un fisico da lottatore, era altissimo, e sapeva prendere le sue decisioni con coraggio e chiarezza di idee. Poiché il principe Corsini ormai da tempo voleva vendere il giornale che gli dava non poche preoccupazioni, il Favi accettò di acquistarlo, per la verità a buon prezzo, avendo ben chiara una strategia di comportamento che subito si rivelò come vincente. E infatti, prima impose il cambiamento del direttore, così da indirizzare al politica del giornale verso posizioni interventiste, poi - era il 15 marzo del 1915 - rilevò il giornale anche sotto il profilo amministrativo. I cambiamenti furono rapidissimi e di grande portata. Sempre più esplicitamente interventista, il giornale ospitò un famoso “fondo” di Giovanni Papini, fino ad allora acerrimo nemico delle posizioni de La Nazione, nel quale “oggi l’Italia è pronta – si leggeva fra l’altro – a pagare la sua vecchia nemica e padrona”, l’entrata in guerra era indicata come la nuova e definitiva guerra risorgimentale. E dunque, La Nazione tornò a cavalcare le passioni ideali che l’avevano vista nascere e in qualche modo l’avevano accom-

pagnata per gran parte dell’Ottocento. Nello stesso tempo, Favi fece un accordo con la Stampa di Torino per lo scambio di servizi dal fronte, che si rivelò utilissimo perché permise senza grossi costi di avere quotidiani reportage dal fronte. Infine, per la prima volta, l’editore de La Nazione cominciò a stabilire un rapporto con il territorio regionale, dando inizio alla formazione di una rete di corrispondenti che, nei fatti, sarebbe arrivata a concludersi solo alla fine degli anni Quaranta.

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ueste scelte premiarono Egidio Favi, al punto che alla fine della guerra, nel 1918, poteva rilevare la gestione della tipografia da Vallecchi, e nello stesso tempo, rialzando di un piano l’immobile di via Ricasoli 8, poteva ospitare in locali finalmente adeguati la redazione. E dunque, La Nazione sempre più si insidiava nella centralissima sede, a due passi dal Duomo, e qui l’editore intervenne in più occasioni a migliorare le potenzialità tecniche della tipografia. In particolare, nel 1924, La Nazione poté contare su una nuova rotativa a motore elettrico, capace di stampare fino a 32 pagine alla volta. Si trattatava di una delle più avanzate stampatrici esistenti in Europa. Poi, nel 1927 Favi riuscì ad entrare in possesso per intero dell’immobile che ospitava redazione e tipografia. E dunque, il giornale aveva la sua sede prestigiosa, e non doveva più pagare a nessuno canoni di affitto, o ancor meno spese di stampa.

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on furono anni facili, quelli del fascismo, per il quotidiano fiorentino di ispirazione liberale. Fu logico ed evidente – non esistevano altre scelte – che La Nazione si allineasse alle direttive del regime e alle sue famose “veline”, ma tutti gli “spazi di libertà” possibili Egidio Favi li rivendicò e li ottenne. In primo luogo non accettò mai che a dirigere La Nazione fossero uomini imposti da Mussolini o dai gerarchi locali. Quando le pressioni si fecero insopportabili, lui ricorse a figure, per esempio Umberto Guglielmotti, che per essere mutilato, grande invalido della Grande Guerra e decorato al valore, non potevano

essere contrastate più di tanto dai fascisti. Questo permise a La Nazione di accogliere fra i suoi scrittori anche personaggi in difficoltà col Regime, a cominciare da Montale una volta che aveva perso il posto al Gabinetto Vieusseux proprio per le sue posizioni politiche. Come ricorderà Romano Bilenchi nel suo “Amici”, Favi aiutò in mille modi proprio gli scrittori antifascisti. E aiutarli significava non solo permettere loro di scrivere su la Nazione ma anche sostenerli economicamente a sopportare le difficoltà di quei giorni.

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l momento più difficile Favi lo visse quando il “Nuovo giornale” quotidiano schierato totalmente col fascismo, e suo concorrente, entrò in grave crisi finanziaria e i gerarchi fiorentini imposero a Favi di rilevarlo. Lui cercò fino all’ultimo di evitarlo, ma quando non gli fu più possibile rinviare, utilizzò la nuova testata come edizione del pomeriggio, ovvero una edizione di minore importanza, e che comunque La Nazione stampava da tempo. Il “salvataggio” dunque, avvenne ma solo in apparenza. Nella realtà Favi si limitò a cambiare nome ad una delle sue tre edizioni quotidiane.

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uesto atteggiamento, tenuto durante il fascismo, non impedì a La Nazione di pagare uno scotto politico pesante. Interrotte le pubblicazioni alla vigilia della liberazione di Firenze, poté riprenderle solo nel marzo del 1947 e con un nome leggermente diverso: La Nazione italiana, una scritta in più quella “italiana”che La Nazione conserverà fino ai festeggiamenti del suo centenario nel 1959.

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l momento di ripartire, Favi volle subito ricostruire la rete dei corrispondenti dai capoluoghi toscani ed affidò questo delicatissimo compito a Gastone De Anna. Poi riorganizzò lo sport, la terza pagina, la cronaca di Firenze. Quando morì, nel giugno del 1948, e tutta Firenze partecipò al suo funerale, il giornale era già una realtà consolidata. La famiglia Favi, però, non se la sentì

di portare avanti le imprese del “sor Egidio” e così nel 1952 La Nazione fu ceduta alla “Società editoriale La Nazione” della quale facevano parte imprenditori di varia estrazione guidati dal cavaliere Giorgio Barbieri, un bolognese del settore ceramiche. Fu con questa organizzazione amministrativa che il quotidiano di Firenze arrivò fino alla soglia degli anni Sessanta, quando entrerà in scena il cavaliere del lavoro Attilio Monti.

Nella pagina precedente dall’alto: Gaspero Barbera primo stampatore de La Nazione ed Egidio Favi editore nel periodo compreso tra le due guerre mondiali. Qui sopra: Il cavalier Attilio Monti che guiderà il giornale fino dagli anni Sessanta dopo aver ricevuto il testimone dal cavalier Giorgio Barbieri (nel tondo).


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Il Novecento: le grandi firme fanno nascere la Terza Pagina Pascoli, Soffici, Papini, Prezzolini, D’Annunzio, Montale, Malaparte, Moravia: ecco alcuni dei nomi illustri presenti dagli anni Trenta agli anni Cinquanta

È il giugno del 1937, la Terza Pagina de La Nazione (nell’immagine grande) ha ormai consolidato le proprie caratteristiche grafiche e di contenuto.

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dunque La Nazione esordì con cronisti come Collodi, De Amicis, Ferdinando Martini, commentatori come Carducci, Lessona e lo stesso Manzoni; accolse scritti ironici e divertenti come quelli di Yorik, ma anche le ponderose considerazioni di D’Azelio e più tardi quelle di Jarro e Ferdinando Paolieri, della Serao, di Capuana. Ma non per questo con il Novecento diminuì l’attenzione verso la buona prosa, i grandi nomi della letteratura del proprio tempo, i polemisti, gli uomini impegnati ad analizzare la società del Ballo Excelsior e dei decenni che ne seguirono.

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all’alto del suo amore per l’ordine costituito il giornale di Ricasoli guardò con disagio alle intemperanze della Voce, e quindi agli scritti di Papini e Prezzolini. Ma già nel 1915 Papini prese a scrivere fondi interventisti su La Nazione e in quanto a Prezzolini rimase fedele al foglio fiorentino fino al giorno della sua morte avvenuta, come è noto, quando ormai lo scrittore aveva superato i 100 anni ed era in esilio volontario a Lugano. È che nel Novecento, prima del fascismo, la Nazione ospitava Ardengo Soffici e i suoi diari dal fronte, Antonio Baldini, Trilussa, Ojetti, Pascoli, e ancora più spesso D’Annunzio, il che non gli impediva di prendere spesso le distanze dal “vate” e dai suoi innumerevoli eccessi.

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anche durante il fascismo, l’attenzione verso i letterati e comunque gli scrittori di talento non si affievolì nonostante le difficoltà imposte dal regime. Troviamo così le firme di Vittorio Gui, di Cesare Brandi, di Carlo Bo, Leone Traverso. Ma anche figure in difficoltà con il fascismo come Eugenio Montale, oltre agli articoli di Gianna Mancini, i diari riposanti di Bino Samminiatelli, gli elzeviri di Giovan Batista Angioletti,

le invenzioni linguistiche di Alberto Savinio, fino agli elzeviri di Giuliotti e le prose di Alfonso Gatto. Un gioco della misura costante, una attenzione verso la bellezza della prosa ma anche il nitore della intelligenza che non l’abbandonerà mai. E così ecco i grandi collaboratori come Giuseppe De Robertis, il grecista Manara Valgimigli, Alessandro Bonsanti. E ancora nel dopoguerra, ecco una Terza Pagina in molte occasioni la migliore che poteva essere offerta dalla stampa italiana, con Malaparte, Alberto Moravia, Virgilio Lilli, ma anche Coccioli, Vittorini, Armando Meoni, Carlo Montella, e ancora Pratolini e Bilenchi. E infatti, quando riprese le pubblicazioni, nel 1947, La Nazione puntò soprattutto in tre direzioni. La prima fu la riorganizzazione delle sedi di corrispondenza in tutti i capoluoghi toscani oltre all’Umbria e alla provincia di La Spezia. La seconda fu la nascita di un grande inserto sportivo. La terza, per l’appunto, fu quella di dedicare sempre più spazio alla cultura, alle arti e alle lettere, con una Terza pagina di altissimo livello. Una “Terza” che era già sorta fin dal periodo fra le due guerre e progressivamente era andata assumendo le forme classiche, con un elzeviro in apertura, una grande spalla – fino a diecimila battute – ed un taglio talvolta anticipato da una foto di attualità. Uno schema che durerà fino a tutti gli anni Settanta, quando progressivamente, l’aumento della foliazione e poi le nuove tecniche di composizione e di stampa, verranno a modificare quello che fu definito “il tempio della cultura nei giornali italiani”.

Nei tondi: Gabriele D’Annunzio e Ardengo Soffici. La loro firma appare ripetutamente sul nostro giornale.


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da La Nazione del 28 maggio 1932

Montale sconfigge Quasimodo Fra piatti gustosi e versi in quantità si disputa il premio Antico Fattore Trecentottantasei i partecipanti. Mille lire il premio

Quella che segue, riportata in ampi stralci, è la cronaca della consegna del Premio Antico Fattore assegnato a Montale nel 1931

Nella foto in basso: una delle ultime immagini di Giulio Bucciolini con il sindaco di Firenze Piero Bargellini.

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a clientela sta tutta nella seconda e nella terza stanza (della vecchia osteria). È mercoledì: il mercoledì dei pittori e degli scultori che per amor della compagnia e della cucina alla casalinga s’adunano in vivace e non di rado burrascosa tavolata. Anzi, siamo al grande mercoledì: stasera la pittura e la scultura festeggiano la poesia, la mettono al posto d’onore, la laureata e premiata con moneta sonante. Mille lire. Ma se scarse sono le lire messe in palio, molta è la sincerità. Trecentottantasei poeti, verseggiatori e anime candide, hanno mandato alla tavolata dell’Antico Fattore poemi, odi, sonetti e qualche autentica poesia. Insomma una carrellata di versi, migliaia di endecasillabi, qualche squisito lavoro di oreficeria moderna, tre o quattro liriche, infine: “E il gioco valeva la candela” dicono i lettori usciti da codesto pelago di ritmo e di rime. Quanta gente di tenero cuore ha mandato messaggi da un mondo poetico innocente. Sta il fatto che scrittori e pittori si sono dati a tutt’uomo per fare una finestra sul tetto della critica letteraria. Ci sono riusciti? Oppure quel tanto di buona letteratura che è ormai bagaglio degli artisti ha avuto il sopravvento? Certo è che la responsabilità dell’assegnazione del premio aspetta per intero agli artisti della tavolata: che gli amici letterati e musicisti, pure quelli che più spesso fanno calare il livello del vino dai fiaschi dell’Antico Fattore si son tenuti in disparte con l’aria di chi non vuol compromettersi , nella seconda stanza della trattoria: ove regnano, per grazia e numerica maggioranza le signore.

Qui accanto: Salvatore Quasimodo. Nel tondo una curiosa immagine di Eugenio Montale.

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lle otto e trenta il collegio giudicante si ritira nella terza saletta. Ed ecco la tavolata: Mario Castelnuovo Tedesco presidente (la musica in funzione arbitrale fra la poesia e le arti figurative) con l’insegna del comando: un martello. Libero Andreotti, Felice Carena, Bruno Bramanti, Giovanni Colacicchi, Gianni Vagnetti, Giannetto Marchig, Peyron, Innocenti, Gelli, Magnelli e Vanni: segretario. Giudice aggiunto il professor G.B. Roatta. Sono rimaste nel vaglio quattro poesie: Alla sera di Adriano Grande, Vento a Tindari di Salvatore Quasimodo, La casa dei doganieri di Eugenio Montale, una lirica senza titolo di Roberto Papi Montale ha otto voti, Quasimodo quattro, Grande tre, Papi uno. Si procede al ballottaggio, Montale è dichiarato vincitore a pieni voti, con acclamazione…

Bucciolini, un critico che fu anche autore

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lla ripresa delle pubblicazioni nel 1947, critico teatrale de La Nazione fu Giulio Bucciolini e toccò a lui seguire la fantastica evoluzione del teatro italiano di quegli anni. Bucciolini, oltre a commentare le opere altrui era lui stesso commediografo ed ebbe anche come autore un discreto successo. Fu dunque Bucciolini il testimone di due grandi cambiamenti avvenuti nel nostro teatro. Il primo fu il ruolo sempre più rilevante che toccò alla regia. Il secondo la nascita dei teatri stabili che Bucciolini filtrò con buon senso toscano a sensibilità particolare, tanto da essere particolarmente apprezzato dai lettori. Non va dimenticato, infatti che La Nazione era stata, fin dagli inizi delle sue pubblicazioni particolarmente attenta alle critiche teatrali, visto che nella Firenze lorenese numerose erano le attività di teatro, di prosa o musicali che fossero. Nel 1963, il ruolo di Bucciolini sarà preso da Paolo Emilio Poesio.


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Quella volta che gli orchestrali aggredirono il Bastianelli Sempre preparatissimi, spesso controcorrente, i critici de La Nazione erano molto temuti dai compositori e dagli esecutori Ildebrando Pizzetti ed il giovanissimo Valentino Bucchi

Nella foto in basso: il critico musicale Ildebrando Pizzetti.

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opo Alessandro Biaggi e l’eclettico Jarro, La Nazione tornò ad avere un critico musicale di grandissimo pregio con Giannotto Bastianelli. Veniva dalla vita musicale, era un compositore ed un pianista apprezzato, aveva una sensibilità acutissima e forse, proprio per questo talvolta si trovò ad essere una presenza scomoda in un costume musicale, quello fiorentino, che spesso si compiaceva del proprio provincialismo. Bastianelli arrivò a La Nazione nel 1915, poco più che trentenne, ma con una fama già acquisita grazie alla sua monografia su Mascagni e al volume “La crisi musicale europea” che lo aveva fatto apprezzare già nel 1912. Nel 1914 aveva anche pubblicato un fasciolo sul Parsifal di Wagner e aveva fondato con Ildebrando Pizzetti la rivista

Dissonanza, destinata a pubblicare “composizioni italiane moderne.” La rivista ebbe vita brevissima, ma fu il simbolo di quelle utopie e di quei fervori che spinsero Bastianelli a compiere un tentativo quanto mai necessario: quello di ricucire lo strappo esistente fra la vita culturale e la musica. Battaglia che Bastianelli condusse per primo, e nel modo più autorevole, ma avendo come compagni d viaggio scrittori quali Emilio Cecchi. Ebbene, volendo raggiungere questo obiettivo, collegare cioè la vita musicale a quella della cultura italiana, Bastianelli fu il primo ad applicare i canoni dell’estetica di Croce alle espressioni musicali.

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u proprio questo suo guardar lontano, ben oltre i confini che fino a quel giorno si era data la vita musicale italiana, fu dunque la sua acutezza di critico e anche la sua vena di polemista, che spesso lo portarono ad assumere posizioni controcorrente, e a sollevare vere e proprie reazioni violente. Tant’è vero che nel 1919, quando da poco era passato al resto del Carlino, Bastianelli fu aggredito da un gruppo di orchestrali dopo una sua recensione sulla Nona di Beethoven diretta da Guarnieri. Una aggressione che sconvolse la vita del Bastianelli che morirà a Tunisi nel 1927, non si sa se suicida o ucciso da u amico che viaggiava con lui. Anche il suo successore, Ildebrando Pizzetti, era uno dei musicisti più conosciuti a apprezzati nell’Italia musicale di quei giorni. Dirigeva il conservatorio Cherubini dal 1917, e in qualche modo garantiva una continuità, se non di contenuti, certo di autorevolezza morale e musicale, degna del suo predecessore.

Pizzetti – ci ricorda in una lucidissima analisi Leonardo Pinzauti - praticava un giornalismo aristocratico, animato da grande coerenza e fervore, anche se certi suoi giudizi su Mozart, Ravel e Puccini appaiono oggi molto discutibili. E non è un caso che autorevoli storici della musica hanno più volte auspicato che gli articoli su La Nazione di Bastianelli e di Pizzetti fossero raccolti in una antologia, con ciò dando un contributo non da poco alla conoscenza musicale di quella prima metà del Novecento.

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opo Pizzetti, La Nazione continuò nella serie di critici musicali di altissimo livello con Luigi Parigi fondatore di due riviste “La nuova musica” e la “Critica musicale”. Toccò dopo al musicologo Arnaldo Bonaventura, bibliotecario del Cherubini, che resse l’incarico a La Nazione fino al 1938 quando dovette lasciare a causa delle leggi razziali. Il suo successore, entrato giovanissimo a La Nazione, fu quindi Valentino Bucchi, che fu capace di imporre una critica vivace e anticonformista anche nella prosa. Bucchi si guadagnò così un posto nella critica musicale italiana, dove fu attivo anche nel dopoguerra prima alla Nazione del popolo e poi al Mattino dell’Italia Centrale.

Nella foto in alto: Valentino Bucchi, la sua prosa vivace ed anticonformista gli permise di avere un ruolo di primissimo piano nella critica musicale.


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da La Nazione del 15 maggio 1930

Magico Toscanini Firenze lo osanna E A Fu un successo senza precedenti quello di Arturo Toscanini (foto grande) al Politeama Fiorentino. Qualcuno fra il pubblicò osò perfino chiedere il “bis”.

rturo Toscanini avrà ricevuto accoglienze ammirative nel suo giro di concerti con la Philarmonic Symphony Orchestra attraverso le città d’Europa; ma per entusiastiche che possano essere state, avran potuto uguagliare quelle tributategli ieri sera dal nostro pubblico al Politeama Fiorentino. L’aspetto del teatro era quello, impressionante, degli avvenimenti veramente eccezionali, che trasformano in un reale alveare umano. La folla riversatasi era fiumana: e una fiumana così strabocchevole che non si riusciva a farle varcare la soglia della sala, a condurla ai propri posti.

quante volte Toscanini abbia dovuto presentarsi a ringraziare, durante tutta la serata, solo Dio lo sa. Tanto frenetico entusiasmo aveva la sua piena giustificazione. A che cosa riduca l’ orchestra questo mago della bacchetta, appena è credibile dopo averne fatta la constatazione. La perfezione di esecuzione è tale che sembra sia scomparso, almeno annullato l’ostacolo tecnico dello strumento materiale e tutto vi sembra come il fluttuare di un’atmosfera sonora.

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n buon terzo di spettatori si son ridotti ad ascoltare in piedi la prima parte del concerto. Lo scroscio degli applausi appena Toscanini si presenta, con tutta puntualità, in orchestra, è piuttosto immaginabile che dicibile. E nel corso del concerto ha assunto un crescendo strepitoso, tanto che verso la fine, dopo lo Scherzo del Mendelsshon, si è fatto furibondo. C’è stato un getto di fiori e perfino, dimenticando di essere di fronte a Toscanini, si è gridato reclamando il bis. Un leggero cenno di testa del direttore ha fatto comprendere la temerarietà della richiesta. Pure, abbiamo assistito ad un fatto inaudito. Non possiamo dire quanto possa essere stato effetto della spontaneità e della insistenza del pubblico a chiedere il bis dell’incantevole brano meldelsshoniano, ma fatto si è che quietatosi un poco il grandinar degli applausi coi quali è stata accolta la chiusa del poema di Strauss, Toscanini ha fatto ancora un inaspettato gesto con la mano per invitare al silenzio ed ha attaccato le splendide pagine wagneriane del Tristano e Isotta. Insomma, Toscanini non ha concesso, no, il bis, ma ha aggiunto ancora un numero di capitale importanza al programma…

QUESTO KARAJAN FARÀ STRADA? Singolare tipo di lottatore questo Karajan (nella foto a sinistra). Non si può certo dire che abbia il pugno di ferro. Anzi. L’orchestra non si sente affatto dominata, ma liberissima. Libera però s’intende, di fare ciò che piace a Karajan… non è concesso di dare quello che il linguaggio cavalleresco si chiama colpo di grazia e in linguaggio sportivo il knock out. Può far sì però che chiunque durante le sue interpretazioni non possa che karjanamente pensare e karjanamente intendere la musica. Ciò che è una cosa ugualmente sbalorditiva… Dove Karajan ha toccato il punto più alto della sua potenza interpretativa è stato nella Quarta Sinfonia di Brahms… Ogni iniziazione si compone per gradi. Prima Karajan lungamente si concentra su se stesso, poi sull’orchestra, poi sul pubblico. Tutto questo richiede tempo. Poi però, una volta fatta scattare la molla magica che apre le dighe ai torrenti della musica, questa si rovescia impetuosa… Da La Nazione del 16 marzo 1941


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Spettacolo

NOVE SALE A FIRENZE OSPITAVANO IL TEATRO Le stroncature di Luigi Capuana e la prosa di Ferdinando Paolieri

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a Firenze del 1859 era la città col maggior numero di teatri in quella che di lì a un anno sarebbe diventata l’Italia Unita. Erano nove le sale che quasi ogni sera aprivano i loro sipari ad un pubblico competente ed esigente. Funzionavano a pieni giri il Cocomero che ben preso avrebbe cambiato nome in Niccolini, che era stato da poco restaurato dall’architetto Telemaco Bonajuti; La Pergola che quattro anni prima era stata impreziosita dal ricco vestibolo di Luigi Baccani, e che finalmente si era aperta anche a persone che non appartenessero all’aristocrazia; c’erano poi l’Alfieri che sarà abbattuto nel 1928 e aveva ingresso da via Pietrapiana, il Nuovo che si sarebbe trasformato in un magazzino e poi in un garage in piazza Duomo, il Borgognissanti che offriva spettacoli di teatro popolare, in particolare dedicati a Stenterello, Il Leopoldo II, già Vecchia Quarconia, il Giglio che poi avrebbe preso il nome di Nazionale, il Goldoni in declino, e il nuovissimo ed enorme Pagliano, il Verdi di oggi, costruito dall’inventore di un miracoloso sciroppo. C’era inoltre il Politeama, un teatro all’aperto capace di contenere seimila persone, nel terreno dell’attuale Comunale.

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i fronte a una realtà di teatro così diffusa, con i fiorentini che erano fra i più raffinati conoscitori di spettacoli di prosa, oltreché musicali, non sorprende che la neonata Nazione dedicasse fin dai primi numeri ampio spazio alla critica teatrale. Tanto più che uno dei suoi primissimi direttori, Alessandro d’Ancona, oltre ad essere un critico letterario di grande livello era anche un conoscitore e appassionato di teatro. Fu così che la prima cronaca drammatica – ci ricordava nel 1989, in occasione dei 130 anni del nostro giornale Paolo Lucchesini, lui stesso critico teatrale – apparve il 30 settembre del 1859.

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a commedia recensita era di Federigo Garelli, e La Nazione le dedicò ampio spazio pur quasi scusandosi con i lettori “Parlando di teatro – sentì il bisogno di precisare il direttore di allora – non usciamo dalla politica”. Erano gli anni risorgimentali e dunque il teatro diventava una cassa di risonanza per idee, rivendicazioni, istanze, e dunque andava ben al di là del semplice intrattenimento. Ma nello stesso tempo la borghesia vedeva negli spettacoli – fino ad allora riservati all’aristocrazia - un’occasione di crescita culturale e quindi di promozione sociale. Fu così che con l’Italia Unita, ed ancor più con Firenze capitale, invece di diminuire le sale teatrali aumentarono ancora. Ed a quelle già esistenti andarono ad aggiungersi nel giro di pochi anni l’Arena Nazionale (che poi diventerà l’Apollo), il Teatro delle Logge, poi ribattezzato Capitol, l’Arena Morini in piazza d’Azeglio. Ce n’era a sufficienza perché il nostro giornale in qualche modo faticasse a tener dietro a tutta l’attività che quasi ogni giorno si svolgeva in tanti luoghi, e per questo fu presto istituita la figura del giornalista critico teatrale, ovvero un personaggio che aveva come unico compito quello di seguire l’attività dei teatri.

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dunque, se nel settembre del 1859 erano cominciate le prime recensioni, fu solo il 12 settembre del 1861 che la critica teatrale apparve firmata. Nel nostro caso si trattava di una semplice sigla, A.F., ovvero Augusto Franchetti, che presentava il suo articolo in prima pagina, nella parte più bassa, che nello spazio indicato come “appendice” e che poi avrebbe ospitato i romanzi a puntate. Franchetti era un critico letterario d’ottimo livello, aveva tradotto Aristofane, era informatissimo e sosteneva la neces-

Giulio Piccini, che si firmava Jarro, ricoprì infiniti ruoli ne La Nazione a cavallo tra i due secoli. Fra questi, con particolare impegno, fu critico teatrale.


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sità di un teatro nuovo, autonomo, stanziale, che rinunciasse all’atavico nomadismo e ancor più alle sovvenzioni statali. In pratica anticipava, di decenni, quella che poi sarebbe diventata una realtà, ovvero le compagnie teatrali stabili.

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Nelle foto a destra: Luigi Capuana che fu critico teatrale de La Nazione dal 1868 e Ferdinando Paolieri che svolse la sua attività fra il 1915 e il 1928.

criveva infatti: “Abbiamo un bel lamentarci dei vetusti attrezzi, dei luridi scenari, delle tele cadenti a brani, che furono aule dorate, ed ora per lunghi servigi portano in fronte onorate ferite! Accanto a qualche nuovo e più conveniente addobbo essi tornano ogni sera ad affliggersi con lo spettacolo della loro miseria…” Era il 4 gennaio 1863, dopo che aveva assistito a una recita al Niccolini. Scriveva ancora “Cominciando dal re Voltaire e terminando con l’ultimo dei critici che scrive queste colonne. Non poter fiorire l’arte drammatica in Italia, finché non vi fossero buon compagnie, le quali, abbandonato lo stato nomade prendessero sede in qualche teatro!”. Franchetti lasciò La Nazione nei primi mesi del 1865, e il suo posto fu assunto da Celestino Bianchi, factotum del giornale, tanto da diventarne direttore nei primi anni Settanta dell’Ottocento. Bianchi si firmava con, di volta in volta, gli pseudonimi di Pier Morone, Napoleone Giotti e Lorenzo Rocco.

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inalmente approdò a Firenze un giovane talento siciliano, che già si era misurato col teatro come drammaturgo e che sarebbe diventato uno dei padri del verismo con il suo “Il marchese di Roccaverdina”. Si trattava di Luigi Capuana. La sua firma apparve per la prima volta il 5 marzo del 1866. Pur molto giovane, il critico siciliano si rivelò fin dagli inizi esigente,

rigoroso, pur muovendosi con estrema cautela, tanto che le sue critiche spesso venivano pubblicate all’ultima delle recite in programma. “Sapeva ben valutare l’ingrato compito dell’attore – scriverà con acutezza Paolo Lucchesini – ma non era tenero di fronte ai grandi attori, cui era concessa qualsiasi licenza.” Ecco il suo giudizio sull’Otello del grande Ernesto Rossi in scena al Pagliano: “Nell’Otello il Rossi non ha alcuna moderazione nel gesticolare e nel declamare: in certi punti anzi, non declama, ma benanche gorgheggia... Il Rossi, inoltre ci parve sempre preoccupato dal pensiero del pubblico. Egli sa che la folla è là a divorarlo cogli occhi, intenta con le orecchie, ad ogni menomo suono della sua voce: ed in tale guisa anche allora che la passione, esaltandolo, dovrebbe come isolarlo, egli non riesce a contenersi per parlare solamente con se stesso, o con l’attore che agisce in lui”. Nel 1868 a Capuana successe Yorik, pseudonimo di Pietro Coccoluto Ferrigni, livornese, garibaldino, che già dal 1861 curava per La Nazione le settimanali cronache fiorentine. Yorik prese sul serio il suo nuovo incarico e si rivelò un critico acuto, caustico, spiritoso e puntiglioso, conquistando col tempo una solida esperienza, fino a meritarsi il titolo di “Gautier dell’Italia”.

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orik nel 1884 lasciò La Nazione. Lo sostituì Giulio Piccini che si firmò Jarro e mantenne l’incarico fino al 1915. Personaggio argutissimo, inesauribile, fu popolare al punto di identificarsi con il suo giornale, sempre pronto ad intervenire puntualmente in questioni letterarie, di costume e sociali oltreché teatrali, con

sentenze lapidarie. Per anni ebbe un bersaglio fisso: il grande attore naturalista Ermete Zacconi. Ecco cosa scrisse il 16 aprile 1901 in occasione della Città morta dannunziana in scena alla Pergola: “Ermete Zacconi ci parve sopraffatto da soverchia eccitazione: abusò di rauche intonazioni di voce, del continuo tremolio delle mani: non seppe trovare la misura se non in qualche scena…” Elogiando però la sua mitica partner Eleonora Duse. Alla morte di Jarro subentrò il 5 gennaio 1915 Ferdinando Paolieri. Letterato, pittore, drammaturgo affermato, studioso della cultura contadina toscana, Paolieri divenne un critico competente, convinto che Firenze fosse l’osservatorio più autorevole dal quale si potesse osservare la vita teatrale italiana. Il 25 novembre 1922 descrisse l’unica visita fiorentina della settantottenne Sarah Bernhardt interprete di una commedia mediocre Regina Armand di Louis Verneuil. “Un lungo entusiastico applauso salutò al secondo atto Sarah Bernhardt allorché il pubblico dopo averne udito la voce dal timbro meraviglioso, la vide all’aprirsi della tenda del camerino dove l’artista figura di trovarsi, sorridente e lontana come una visione che sta per dileguare… Il Teatro! Ecco l’ara sulla quale Sarah Berhardt ha gettato tutta se stessa sacrificandosi in un’ebbrezza spirituale, in un sogno di bellezza supremo. Dal 1928, già in epoca fascista, dopo la scomparsa di Paolieri, la critica teatrale fu affidata a Cipriano Giachetti, che fu testimone di un evento straordinario: la presenza in Italia dei grandi registi stranieri.


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ECCO COME RACCONTAI PER 40 ANNI I GRANDI AVVENIMENTI DELLO SPORT Uno dei primi inviati speciali ci parla della sua esperienza. Così Beppe Pegolotti con qualche disagio e molta umiltà narrava di sé in occasione dei 130 anni de La Nazione

da Bartali e Coppi e Magni e Nencini ad Anquetil Gimondi e Merckx. Vi parlo di mezzo secolo fa: i giovani mi considerano un dinosauro, gli anziani – bontà loro – una specie di “mostro sacro”. Lasciamo perdere.

di Beppe Pegolotti

Tazio Nuvolari (nel tondo in alto) detto il “mantovano volante” aveva cominciato a correre con le motociclette prima di diventare il più amato pilota automobilistico d’Italia.

E’

questo mio vecchio giornale che mi chiede di raccontare me stesso nelle vesti di giornalista sportivo di tempi passati. Me lo chiede nel quadro di una rievocazione dei trascorsi della gloriosa testata ripercorrendo il 130° anniversario della sua fondazione. “Mio” giornale, sì, perché vi militai per oltre quaranta anni, lungamente come inviato speciale n.1, infine, con i limiti di età, come collaboratore fisso. Ero un inviato “a tuttofare”: in guerra e nelle rivoluzioni, nelle inchieste politiche all’estero, nei processi indiziari come nelle grandi manifestazioni delle sport. Vi dirò che fui a Gardone per la morte di D’Annnunzio, a Monaco di Montecarlo per il matrimonio della Grace Kelly e in mare aperto sulla Electra con Guglielmo Marconi. Ma qui debbo limitarmi a parlare di sport. Bene: ho seguito venticinque giri d’Italia e venti giri di Francia, quattro olimpiadi, diversi campionati del mondo sia per il calcio che per il ciclismo,

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allora, pronti via! Partiamo dagli anni trenta, eccoci al mio primo Giro d’Italia. Lo seguii con la macchina de La Stampa in quanto La Nazione era associata, a scambio di servizi, con l’illustre quotidiano. A bordo c’erano Giuseppe Ambrosiani, che più tardi fu anche direttore de La Gazzetta dello Sport, Alfredo Biunda divenuto commissario tecnico della squadra nazionale e l’autista Bertolazzi, già campione mondiale dei dilettanti. Quando la corsa era scialba, ossia a gruppo compatto, Binda faceva un segno convenzionale ad un corridore di nome Rovida: mano destra aperta, le cinque dita bene in vista. Voleva dire: cinquanta lire se scateni la fuga. E quello partiva a razzo, sgranando il plotone, Pennellata di colore in una tappa fu ospite della nostra auto il famoso cantante Alberto Rabagliati.

E

ccoci al 1934: fui il narratore accanto a Vittorio Pozzo che faceva l’articolo tecnico, del campionato mondiale di calcio che si teneva in Italia e fu vinto dagli azzurri. A Firenze, nei quarti di finale, i nostri erano opposti alla Spagna di Zamora, gigantesco e prodigioso portiere. Furono due partite elettrizzanti e drammatiche. Finita alla pari la prima, ci volle la “bella”. Zamora infortunatosi il giorno prima non era più

in campo. L’Italia la spuntò di stretta misura. In un meno lontano campionato mondiale, nel 1958 in Svezia, assistei alla prepotente nascita, come massimo astro del firmamento calcistico, del giovanissimo Pelè. Le partite degli azzurri di quei tempi le seguivo normalmente, a meno che non fossi già impegnato in altri servizi lontani o comunque più importanti. A quella di Vittorio Pozzo la mia firma era sempre accoppiata. Lo spazio assegnatomi, piuttosto avaro, non mi consente di dilungarmi. Non parlerò, quindi, delle “Mille Miglia” automobilistiche di quando correvano Nuvolari e Biondetti vissute dal quartier generale di Brescia.

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assando al “Tour de France” rievocherò un tragico episodio: la morte in corsa del campione inglese Tom Simpson, ucciso dal caldo torrido e dalla fatica improba sulle arcigne rampe del Mont Ventoux. L’avevamo visto crollare, sfrecciandogli di fianco con l’auto, sapevamo del suo ritiro ma non di più. La ferale notizia ci pervenne in sala–stampa con notevole ritardo. Avevo già scritto l’articolo, ma ora non poteva più andare a quel modo. Rifarlo di sana pianta? No: avrei superato il limite di tempo per la trasmissione. Mi soccorse una buona idea: mutare solo il cappello e correggere pochissimo qua e là: mi rivolgevo al povero Tom raccontandogli come era proseguita e finita la corsa. Così la cronaca già scritta rimase tale e quale era. Chiusi nel tempo regolare il servizio e ne uscì un “pezzo” umano, commovente. Nei primi tempi della mia attività le telescriventi non c’erano. Occorreva servirsi sempre del telefono, con linee pessime, disturbatissime. In specie dagli

arrivi di tappa sulla Manica era un disastro. Col chiasso delle sale stampa, in cui molti telefonavano negli stessi momenti, le voci a tutta gargana degli altri coprivano la nostra. Unico rimedio: sdraiarsi con l’apparecchio sul pavimento, perché – si sa – i rumori salgono e disturbano meno. Con tutto ciò rimaneva problematico farsi capire dagli stenografi.Diversi Giri di Fancia e d’Italia li seguii in compagnia del giornalista–principe Orio Vergani sull’auto del Corriere della Sera. Poi, con la comunione del nostro giornale col Resto del Carlino avevo il posto fisso sulla macchina–corse di Stadio con Luigi Chierici e compagnia bella. E tutto divenne più facile col carro della radio–stampa al seguito delle corse.

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ltro campo: il campionato calcistico nazionale. Io mi occupavo sempre o quasi della squadra viola, ero insomma “quello della Fiorentina”. Sì, anche nei due scudetti e nella conquista delle Coppe a Glasgow. Non sono mai stato tifoso, ho sempre considerato il calcio come un gioco, da non imbastirci tragedie. Perciò, al contrario dei miei predecessori che osannavano senza risparmio la squadra “malintesa carità di patria, paura di offendere qualcuno?” e tacevano le magagne, rispecchiavo la verità trinciando, se era il caso, con articoli critici, polemici, pieni di umorismo. Da prima la tifoseria rimase sconcertata e mi mise il broncio; ma poi si abituò, riconobbe che il mio metro era nel giusto e mi volle bene.

La strada si inerpica e Fausto Coppi si alza sui pedali e mette in difficoltà i suoi diretti avversari. È un’immagine classica che simboleggia la supremazia del Campionissimo.


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QUEI TEMERARI SULLE DUE RUOTE

(e con un pallone fra piedi)

Così cambiò con gli inizi del Novecento il concetto stesso di sport

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Nel tondo in alto: Un atleta del 1911 ritratto con la divisa da calciatore.

utto cambiò nell’arco di dieci anni. Ancora alla fine dell’Ottocento lo sport era una cosa possibile a chi non aveva problemi di alcun tipo. Ovvero era certo di mangiare al mattino a mezzogiorno e anche la sera. Aveva tempo libero e denaro da investire in un’attività che gli desse unicamente piacere, poteva permettersi di pensare a se stesso e al proprio corpo non come una macchina per produrre il denaro necessario a sopravvivere, ma piuttosto come a una parte di sé che poteva anche dare piacere, attrarre, e far provare emozioni forti. E dunque, sino alla fine dell’Ottocento, le attività sportive erano una prerogativa dei ricchi e perfino degli aristocratici. Attività che più o meno erano quattro. Il tiro al piccione – Firenze aveva il campo di tiro alla Cascine – la ginnastica (signori coi baffoni e con mutande a righe volavano tra pertiche e “cavalli”) l’ippica, e almeno negli ultimi anni del secolo il canottaggio. Ma col Novecento, arrivarono sulla scena altre due forme di impegno sportivo che permettevano di gareggiare da soli o in squadra. La prima, importata ancora una volta dagli inglesi era il foot-ball, come si chiamava allora. E se agli inizi erano solo i ricchi a praticarlo, un po’ alla volta anche la gente semplice e perfino i ragazzacci di strada – non fosse altro che con una palla di stracci – presero a praticarlo. L’altra era il ciclismo. Al quale si dedicarono, fin dagli inizi, non i rampolli di famiglie bene, ma i più forti, i più capaci di soffrire tra i figli del popolo. E furono proprio loro, costretti a pedalare per sfuggire alla fame, che fin dagli inizi ottennero i migliori successi. Il fatto poi che a praticare questo sport fossero popolani lo rese immediatamente uno sport “popolare”. A tutti era concesso, infatti, immedesimarsi, sognare di essere il campione in gara. E un po’ alla volta, grazie appunto alle “palle di stracci” anche il calcio assunse un po’ la stessa anima, e divenne esso pure un sport “popolarissimo”. E dunque, fu agli inizi del secolo ventesimo che la gente comune conobbe lo sport, vi si appassionò, prese a praticarlo ed a tifare. Calcio e ciclismo avevano finalmente imposto, almeno in questo settore, la democrazia. Anche se agli inizi era il ciclismo a prevalere nella fantasia della gente, e solo più tardi, lentamente, dovette cedere il passo al suo amico e rivale gioco del calcio.


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Economia

La capitale dell’editoria Le Monnier, Vallecchi, Alinari, Sansoni, richiamavano a Firenze autori da tutta Italia Ma in quegli anni oltre ai libri si producevano automobili

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picca nella Firenze del primo Novecento un settore industriale che strettamente si collega alle vocazioni culturali della città. È l’editoria, che divenne sempre più rilevante, con le case editrici di Le Monnier, di Vallecchi, di Alinari, di Sansoni, di Bemporad. Nella realtà economica nazionale, che ancora era saldamente legata all’agricoltura, sarà solo nel 1953 che gli addetti all’industria supereranno per la prima volta il numero dei contadini e dei salariati agricoli. Firenze diventa così una stupenda eccezione, anche se le case editrici per loro specifica vocazione, non offriranno mai un numero di posti di lavoro di particolare rilevanza. Contribuivano poi all’economia regionale, oltre che le innumerevoli attività artigianali e di trasformazione dei prodotti agricoli, anche l’edilizia che specie durante il fascismo rappresentò una delle attività più

Nei tondi gli editori Felice Le Monnier e Giulio Cesare Sansoni.

diffuse e dette anche lavoro ad un gran numero di operai. Nascevano inoltre in Lucchesia un buon numero di pastifici e di fabbriche di conserve. La crisi economica mondiale del ’29 non impedì che l’imprenditoria nazionale e toscana continuasse ad espandersi nel periodo fascista. Ma la seconda guerra mondiale portò con sé la distruzione di quanto di buono era stato fatto e dunque, con gli anni Cinquanta, anche la Toscana come del resto l’Italia si trovò a ripartire praticamente da zero. Da notare che nel periodo a cavallo fra i due secoli, esisteva a Firenze una “fabbrica italiana di automobili”, con tanto di catena di montaggio e regolare pubblicità che appariva su La Nazione. Ma almeno in questo caso la sua concorrente torinese, la Fiat, ebbe più forza e continuità, e alla fine prevalse sul tentativo di costruire a Firenze le automobili degli italiani.

Sulla Firenze-Mare un record in Maserati Fra le altre opere del regime, è la costruzione della autostrada tra Firenze e il mare. È a una sola corsia, come è noto il raddoppio avverrà nel dopoguerra, ma già consente velocità da “brivido”. E quì, nel novembre del 1934 una Maserati guidata dall’ingegner Furmanik riuscirà a battere il record del mondo di velocità per auto fino a 1100 di cilindrata. Ecco come La Nazione ne dava notizia il 29 novembre del 1934 Pistoia 28 notte – La notizia della prova che avrebbe intrapreso la Maserati, trapelata alla vigilia, ha fatto accorrere sull’autostrada diecine e diecine di curiosi anelanti di potrer assistere all’ardimentoso tentativo di record. L’ingegner Furmanik si passa davanti ai cronometristi e annuncia che si porta al luogo di partenza. Incomincia da questo momento un certo nervosismo ed una giustificata trepidazione. Riuscirà? Quasi tutti ne sono sicuri date le prove precedenti. Il record precedente per la categoria dei 1100 cmc. appartiene al pilota Eynston che compì il

chilometro lanciato con una M.G. in 17” alla media oraria di Km 207 e 127 metri.L’ingegner Furmanik che si è accinto al tentativo con grande freddezza è sicuro di riuscire. Si ode in lontananza un sibilo che si trasforma in un rombo sempre più assordante. Il bolide rosso passa come un razzo e sparisce in un batter d’occhio. I cronometri non hanno scattato all’entrata, pur dando la dimostrazione con la prova manuale che il pilota ha viaggiato alla media di 204, vale a dire sotto il record. Pochi secondi di attesa ed ecco nuovamente la macchina passare velocissima. Questa volta la voce del comandante Romagna annuncia: “Sedici e dodici”. La media presto fatta: il pilota ha viaggiato a 223 km. Ora. Fantastico! Nella seconda prova consecutiva i cronografi segnano il tempo di 16” 22 c/2. Il record di Eynston è di gran lunga superato. Battuto di oltre 15 chilometri. Appena il pilota scende di macchina, sereno e come si fosse trattato di fare una semplice passeggiata turistica, è accerchiato ed acclamato per aver conquistato all’Italia un altro primato mondiale.


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La Politica

Tre episodi in tre anni destinati a cambiare l’Italia

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n soli tre anni, con la nascita del Partito Popolare di don Sturzo e quindi il ritorno nell’agone politico di una forza dichiaratamente cattolica, la scissione di Livorno fra socialisti e comunisti e quindi con la marcia su Roma, l’Italia cambia completamente volto. E non solo per gli anni a venire, ma in qualche modo fino ad oggi, o almeno fino a primi anni Novanta del Novecento quando uscirono dalla scena, a breve distanza di tempo, sia la Democrazia Cristiana che il Partito Comunista.

IL PARTITO DI DON STURZO La Nazione del 19 gennaio 1919 Roma 19, Il “Corriere d’Italia” scrive che in seguito a diverse riunioni tenute da deputati al Parlamento, da consiglieri comunali e provinciali eletti dai cattolici e dai rappresentanti delle organizzazioni operaie, è stata promossa la costituzione del Partito Popolare Italiano con programma, responsabilità e fisionomia propria. Una commissione provvisoria ha redatto un appello che si rivolge a tutti gli uomini liberi e forti che in questa grave ora si sentono il dovere di cooperare ai fini supremi della Patria senza pregiudizi, né preconcetti perché insieme propugnino nella loro interezza gli ideali di giustizia e di libertà. L’appello porta la firma dei seguenti componenti la commissione esecutiva: on. Bertini, avv. Bertone, sig. Cavazioni, rag. Grandi, conte Grosoli, on. Longinotti, on. Mauri, avv. Merlin, on. Rodinò, conte Cantucci, prof. don Sturzo segretario politico.

SCISSIONE DEL PCI A LIVORNO La Nazione del 22 gennaio 1921 Livorno- Il risultato maggiore e il più importante del Congresso è appunto questo: che i quattro quinti del Partito socialista italiano sono stati automaticamente liberati dall’obbligo di seguire senza controllo i deliberati di un sinedrio imperialistico straniero, che agisce per una politica di espansione militare: obbligo al quale si erano incautamente legati, aderendo senza riflessione alla Internazionale… Tutti i socialisti hanno dovuto riunirsi e discutere il bolcevismo, e tra gli altri vi è stato obbligato anche il nostro, che per due anni se l’era cavata gridando “Viva la Russia”. È inutile di insistere sulla utilità della cosa. I risultati si sono visti a Livorno, ove per quanto molti delegati si siano limitati ad accopparsi a colpi di pugni e di episodi personali, i migliori ingegni sono stati portai a discutere il bolcevismo ed i suoi metodi direttamente ed hanno indotto il congresso a manifestarsi nella grande maggioranza in senso contrario alla teoria russa…

LA MARCIA SU ROMA La Nazione 1 novembre 1922 In tre giorni l’Italia ha risolto la più grande crisi che avesse affrontato dalla sua costituzione ed unità ed ha dopo tanti anni composto il dilemma di avere un governo espressione genuina della nazione senza forzare nell’urto della conquista gli istituti fondamentali dello Stato… La rapidità della vittoria fascista che già da sabato notte noi prevedevamo immancabile e grandiosa e il suo coronamento nella fulmineità della formazione nel nuovo governo non possono essere intese appieno se non pensando alla permeazione fascista di tutto il paese, il quale ha accompagnato la calata delle camicie nere su Roma come verso una riconquista legittimata della Capitale alla nuova Italia riplasmata nel silenzio, dalla fede e dalla passione delle provincie… L’entusiasmo con cui è stato accolto il nuovo Governo e che non ha nulla a che fare col tradizionale cerimoniale della benevola attesa di cui hanno sempre beneficiato i nuovi ministeri, indica quali focolari di fede sono stati accesi nelle masse popolari e di quali forze politiche attive può giovarsi l’onorevole Mussolini nel suo programma…

Nei tondi dall’alto: Un giovanissimo don Luigi Sturzo e il politico, filosofo e giornalista Antonio Gramsci che fu tra i fondatori del Partito Comunista d’Italia.

In basso: Benito Mussolini e i quadrumviri fascisti durante la Marcia su Roma.


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LE PERLE DEL REGIME Raid aerei, navi e treni ultraveloci, gallerie che perforano le Alpi e gli Appennini, tutto serve per rendere gli italiani orgogliosi del loro governo

da La Nazione del 2 agosto 1931

“VA! VA! VA!” È IL VARO DEL REX

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ono le 7,55, Dietro la preghiera che, con un inchino, le viene rivolta da Sua eccellenza Cavallero, la graziosa Sovrana tende la mano sopra un ricchissimo mobile, appositamente preparato, che reca nel suo mezzo il bottone Toccò alla regina che deve comandare elettricaElena il ruolo di mente, a distanza, il congegno madrina per il varo che farà muovere la tradizionale del transatlantico bottiglia di spumante italiano Rex. che pende in alto, dall’estremità di un’antenna. La Regina preme il tasto. La bottiglia, legata con un nastro dai colori sabaudi si stacca improvvisamente dal suo sostegno, percorre rapida la breve traiettoria e si infrange con un gorgoglio di spuma contro il fianco della nave… La nave è immobile e passano, o meglio, cadono nel silenzio pochi secondi, ed ecco che dalla prua del colosso l’operaio che sta vigilando presso i martinetti di spina si avvede che il colosso è percorso da un brivido. Il Rex si muove. Il tradizionale grido dell’operaio, che per l’emozione scoppia poi in singhiozzi, se ne va alto

Il Rex fu il più grande transatlantico italiano mai costruito. Era l’unica nave italiana in grado di competere coi grandi transatlantici dell’epoca. Nell’agosto del 1933 battè il record di velocità per la traversata del’Atlantico e conquistò il prestigioso “Nastro Azzurro”.

nell’aria: “Va, va, va!” Questo è il segnale . La ciclopica nave, prima lentissimamente e poi accelerando il suo moto, scende posata sulla sua slitta, verso il mare. Le artiglierie tuonano il loro saluto. Il “Rex” è già per duecento metri in mare… La nave misura 268,25 di lunghezza e m. 31 di larghezza ed ha una stazza lorda di circa 50mila tonnellate, l’altezza della chiglia al ponte di comando è di metri 36,50. Vi sono due ponti, 15 compartimenti stagni oltre ai saloni da pranzo, da riunioni, da musica, alle biblioteche, alle sale per fumatori ecc. Il Rex avrà grandi verande chiuse e grandi passeggiate per tutte le classi. Disporrà di grandi ponti degli sports, di piscine, di sale da ginnastica per adulti e per bambini, sale da gioco per bambini, caffé, verande, eccetera. La nave avrà inoltre un teatro ed una chiesa accessibili direttamente ai passeggeri di tutte le classi. Potrà trasportare oltre duemila passeggeri.

da La Nazione del 27 marzo 1930

MARCONI, IN DIRETTA CON L’AUSTRALIA Premendo semplicemente un tasto Guglielmo Marconi (nella foto accanto), che si trovava a Genova, riuscì ad accendere tutte le luci del municipio di Sidney in Australia.

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enova 26 notte – Stamani dunque Guglielmo Marconi ha compiuto il nuovo prodigio: ha parlato radiofonicamente con Sidney così come io parlo in questo momento da Genova con il mio collega stenografo di Firenze, quindi, premendo l’indice destro su un modestissimo tasto per cinque volte consecutive ha lanciato attraverso l’etere quell’onda misteriosa sufficiente a fare scattare gli interruttori dell’impianto elettrico del Municipio di Sidney ed a mettere in efficienza tutte le lampade di illuminazione del grandioso edificio, compreso un grosso emblema che simboleggia la Corporazione radio elettrica della Nuova Galles di Sud. Si può pensare a prodigio maggiore di questo? Sidney: una parola! Un nulla! Ma tra noi e l’Australia corrono 9700 miglia: siamo agli antipodi: da noi è primavera, in Australia è autunno. Guglielmo Marconi ha nuovamente sottoposto alla sua volontà , al suo genio i chilometri. Ha ridotto la immensità degli oceani, la vastità della terra a nulla…


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da La Nazione del 17 agosto 1933

NASTRO AZZURRO PER LA NAVE PIÙ VELOCE

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oma 16 notte. Il supertransatlantico italiano Rex, partito da Genova alle ore 11 del giorno 10 corr. e da Gibilterra alle ore 18,30 del giorno 11 agosto, è giunto a New York (Ambrose) alle 4,40 locali del giorno 16 agosto, pari alle 8,40 del tempo medio di Greenwich, con un anticipo di 27 ore e 20 minuti sull’orario stabilito. La traversata del Nord Atlantico da Gibilterra a New York (Ambrose) è stata effettuata in 4 giorni 13 ore e 50 minuti, con la velocità media di miglia 28,92 all’ora ed il Rex ha perciò conquistato il famoso “Blue Ribbon”, il Nastro Azzurro, per molti anni detenuto dalle grandi navi inglesi e poi passato al supertransatlantico tedesco Bremen.

da La Nazione del 24 agosto 1933

LA GALLERIA CHE VINSE L’APPENNINO

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alla notte fra domenica e lunedì la Direttissima Firenze – Bologna è in piena funzione. Nella mattinata del 22 c’è passato il treno recante Sua Maestà. A breve distanza di tempo, un altro convoglio sul quale avevano preso posto autorità e giornalisti, e alle 22,30 della stessa giornata il primo treno ordinario… Il treno reale sul quale sono saliti con il Governo i ministri, gli alti funzionari, ed alcuni ingegneri che diressero i lavori, si muove e si allontana, lasciando dietro di sé gli squilli di “attenti” e le note nazionali delle fanfare. Dopo venti minuti parte il secondo convoglio… Lungo il percorso fino a Prato il treno reale è fatto segno all’omaggio del popolo di tutta la pianura: finchè si annuncia con la sua intricata rete di binari che

divergono e si moltiplicano, sovrastanti dall’intrico dei fili e dei semafori che sfociano nel grande piazzale. Le pensiline sono gremite e quando il Re discende un altissimo grido “Viva il Re” si leva dalla folla. Tutta Prato è uno scampanio ed un urlo di sirene che non tacciono neppure quando il Sovrano scompare nell’interno della stazione per il rito inaugurale. Il convoglio riparte. La Val di Bisenzio è tutta sventolante di tricolori… Dopo Vernio il treno entra nella grande galleria lunga quasi diciannove chilometri, per fermarsi alla stazione sotterranea delle precedenze, dove il Re discende per visitarne la costruzione audace e massiccia… S.M. il Re, fatto segno al devoto omaggio del personale, sale nuovamente sul treno che sette minuti dopo sbocca sul versante emiliano e, lungo il fiume Setta, corre verso Bologna che attende l’arrivo del Sovrano.

da La Nazione del 28 luglio 1938

TRENO RECORD

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l battito sempre più veloce dei motori ha dato come un colpo di frusta alle ferrovie di tutto il mondo… In questa gara di superamento l’Italia si poneva nelle primissime linee ed, ora segna addirittura un ambito primato con la media commerciale più alta d’Europa : centocinquantacinque chilometri orari registrati dall’elettrotreno Roma-Napoli. Quello di stamani è stato il viaggio conclusivo di un laborioso periodo di prova. Il servizio degli elettrotreni funziona – come è noto – già da un anno fra Napoli e Roma, Firenze e Bologna, con un immediato collegamento di treni rapidi fino a Milano, perché fra Bologna e Milano la elettrificazione funzionerà solo il 28 ottobre prossimo. Finora questo mezzo impiegava un’ora e 46 minuti fra Roma e Napoli…


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Affonda il Titanic Le agenzie di stampa battono contraddittori messaggi da New York

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n vorticoso e contraddittorio balletto di messaggi annuncia ai lettori de La Nazione che il mitico Titanic sta affondando. Si tratta di messaggi di agenzia, che non è possibile verificare in alcun modo. Tutto, dunque resta sospeso a quanto di volta in volta viene comunicato via telegrafo. E fu così che per circa 24 ore, i nostri lettori credettero e sperarono che davvero tutti i passeggeri si fossero messi in salvo. La sequenza quasi ossessiva delle note di agenzia ci rivela quanto fossero difficoltose le trasmissioni in quegli anni e di come nessuno fosse capace di “gestire” in modo chiaro e corretto le differenze di fuso orario a così grandi distanze. Ecco dunque il susseguirsi dei dispacci di agenzia.

da La Nazione 17 aprile 1912 New York 15, ore 8,40 pom. “La White Star Line”riconosce che vi sono molti morti nel naufragio del Titanic. 675 fra passeggeri e personale di equipaggio fra cui tutte le donne e i fanciulli sarebbero salvi. New York 16 La notizia che il piroscafo Titanic è affondato ha provocato una vera costernazione perché tutti credevano con “Franklin” che il Titanic mercé i suoi compartimenti stagni non potesse affondare.

da La Nazione del 16 aprile 1912 New York , 15 Il piroscafo Titanic partito da Southampton mercoledì faceva il suo primo viaggio. Un dispaccio da Capo Race annuncia che i vapori “Baltic” e “Olympic” ricevettero radiotelegrammi che chiedevano di soccorrere il Titanic. Essi corsero in suo aiuto.

Il Titanic, qui ripreso in banchina, era costato l’equivalente di 50 milioni di lire (siamo nel 1912) e andò a fondo durante il viaggio inaugurale.

New York, 15 Si conferma che tutti i passeggeri del Titanic lasciarono il vapore ponendosi in salvo alle 3,20 del mattino. Caperace, 15 Un radiotelegramma da bordo del Titanic informava che ieri sera alle 10,25 il “Titanic” aveva urtato un banco di ghiaccio ed aveva bisogno di soccorso immediato. Mezz’ora più tardi pervenne un altro radiotelegramma annunziante che il “Titanic” era affondato da prua. Le donne erano state salvate con i battelli di salvataggio.

Londra 16 Il Times dice che l’equipaggio del Titanic era di 2350 persone. Il numero dei salvati essendo secondo gli ultimi dispacci di 675, quello delle vittime non sarebbe inferiore a circa 1700 persone. New York 16 Appena si sparse la voce del disastro del Titanic gran folla in preda a profonda emozione si ammassò dinanzi agli uffici della White Star Line chiedendo notizie rassicuranti. Le donne piangenti e gli uomini in vivo orgasmo interrogavano gli impiegati della compagnia che potevano soltanto rispondere che non avevano informazioni sicure circa la sorte dei passeggeri. Il Titanic era la più grande nave del mondo , si trovava al suo primo viaggio ed è costata 50 milioni.

da La Nazione del 26 febbraio 1922

LA GHIGLIOTTINA PER BARBABLÙ Per derubarle di ogni avere, Henry Landau, detto Barbablù, uno dei più noti serial killer nella storia del crimine, aveva ucciso dieci donne e un ragazzino che era con una di queste. Arrestato nel 1919, tre anni dopo veniva ghigliottinato. Ecco la cronaca dell’esecuzione. Parigi 25 … dopo le cinque i magistrati incaricati di svegliare il condannato, seguiti dai difensori e dal cappellano delle

prigioni penetrarono nella cella di Landru. Questi chiese i suoi abiti migliori che aveva conservato per quella triste giornata e si vestì lentamente… il condannato venne poi accompagnato al cancello, dove firmò sul registro la sua uscita dal carcere e venne consegnato al carnefice… alle 6,4 minuti il portone della prigione girò silenziosamente sui cardini e carnefice e i suoi aiutanti apparvero… Fu guardando il coltello fatale che Landau, pal-

lidissimo ma calmo, percorse a piccoli passi i pochi metri che lo separavano dalla sinistra macchina impacciato dalle pastoie. In un baleno gli aiutanti del carnefice lo assicurarono con una cinghia alla tavola a bilancia mentre un altro regolava sul suo capo la lunetta. Il carnefice premette il bottone e il coltello scese come in un lampo. Si udì un sordo rumore mentre la testa rotolava nel canestro. Un getto impetuoso di sangue sgor-

gò dall’immane ferita. Erano esattamente le 6,4,28”. In men che occorre dirlo un aiutante del carnefice afferrò il canestro in cui era la testa, e lo gettò entro la cassa di vimini nella quale il corpo era già stato collocato e il funebre carico fu messo su di un furgone e si avviò scortato dai carabinieri a cavallo al cimitero di Gohards.

Barbablù, al secolo Henry Landau, fu uno dei primi serial killer nella storia del crimine.


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Il voi di Mussolini

Quando il regime prese di petto il lei

Aitante, ottimista, al massimo dei consensi, Mussolini si rivolge ai suoi fedelissimi con il saluto romano.

Dopo il saluto fascista ecco un altro diktat di Mussolini, l’abolizione del “lei”, e l’adozione del più “virile” tu, o in alternativa del voi. A commentare la vicenda fu chiamato, nel 1989, per l’anniversario dei 130 anni del giornale Luciano Satta, un linguista di razza, all’epoca capo redattore del nostro giornale. Qui di seguito, ecco il suo magistrale articolo.

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on elaborati e un po’ faticosi corsivi – il cui autore, se è sempre vivo mi perdoni – La Nazione intervenne verso la fine degli anni Trenta nella disputa sui pronomi allocutivi, quando il partito fascista abolì il lei sostituendolo con il tu “come segno di più intimo cameratismo” e con il voi “nei casi di subordinazione gerarchica”. L’esistenza di quei corsivi fa capire che la novità non fu di facile applicazione e del resto la novità consisteva nella lingua imposta dall’alto, evento quasi sempre pernicioso e intollerabile: peraltro non c’era da stupirsi dato l’uso, frequente prima e dopo, di entrambi i pronomi al posto del lei. Avemmo dunque per poco tempo il “tuennio” durante il ventennio, e dico la parola scherzando, ma sicuro di non urtare per niente le coscienze linguistiche, perché c’era e c’è perfino il verbo “tuteggiare” (ma anche “tueggiare”) su cui il fascismo avrebbe potuto giocare per diffondere ed imporre il tu. Credo che non lo abbia fatto per due ragioni di prudenza: guarda che disdetta, anzitutto il “tuteggiare” nasceva francese, “tutoyer” e in tempo di purismo non era il caso di menare il verbo come esempio di popolarità del tu: e poi se si insiste nei verbi fabbricati sui pronomi c’è di mezzo quel maledetto toscano che fece verbo perfino (“prima che tu più i’inlei”) ma per l’ap-

punto disdegnò di fare lo stesso con l’altro pupillo pronominale del fascismo il voi.

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er un’altra ragione non c’era da meravigliarsi di un tu e di un voi al posto di un lei: gli italiani erano preparati a tutto nelle faccende di lingua e anzi furono presi da lieve sbalordimento quando seppero che il bar per speciale concessione era esentato dal chiamarsi taverna e che Renato Rascel poteva fare a meno di mutarsi in Rascele o Rascelo. Sicché, almeno nelle occasioni ufficiali, accettarono il tu e il voi, più rari in quelle private, allorché magari al ragazzo che stava per presentarsi in casa della fidanzata bastava informarsi se il futuro suocero era un gerarca. E qualcuno faceva notare che il voi si dava ai contadini.

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no di quei corsivi “trentottini” del nostro giornale arrivò a rivelare , piuttosto faticosamente, dicevo, che il distacco del popolo dalla narrativa italiana era da ricercare anche “nella difficoltà di aderenza del lei alla schiettezza di vita che il popolo esige giustamente dall’arte.” Bugia anche innocua e con un poco di verità: lo stesso poco di verità secondo la quale nel ’68 gli studenti davano del tu al rettore, che rispondeva con il lei. Io penso che non manchi un motivo grammaticale: nel caso dell’esortazione, del comando e simili, il tu, insieme con il voi, impegna soltanto in forme verbali che sono le stesse dell’indicativo, mentre il lei vuol vedere l’uomo in faccia, con le forme che sono le stesse del congiuntivo: “Fai, fate silenzio”. Ma “Faccia silenzio” e così tanta gente si butta sul “Facci”. Chissà, forse con il tu come con le paludi bonificate il fascismo andò incontro al popolo. Ma quanto si cambia: credo che nessuno in quei tempi lontani pensasse di dire, come si è sentito da Mazzola anche quest’anno, che i calciatori danno del tu alla palla. Luciano Satta


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Il Fascismo: fine della libertà

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en presto le “grandi speranze” che l’arrivo al potere di Mussolini avevano aperto in larghi stati della borghesia, furono destinate a fare i conti con la tragica realtà della dittatura. Quelle che seguono, dal delitto Matteotti in poi, sono le cronache di come fu prima imbavagliata la stampa, poi sciolte le organizzazioni che in qualche modo potevano creare dissenso. Quindi la cronaca del ritrovamento dei cadaveri dei fratelli Rosselli che anticipò di un anno l’orrore delle leggi razziali.

IL DELITTO MATTEOTTI Si è sparsa la voce a Montecitorio che l’onorevole Giacomo Matteotti, socialista unitario, era misteriosamente scomparso da Roma. Alle 16,30 di ieri sera l’on. Matteotti uscendo da casa sua in via Flaminia, lasciava la moglie sul portone dicendole che si recava ad acquistare le sigarette. La moglie attese un po’ il marito e non vedendolo più tornare andò in giro a ricercarlo per le tabaccherie vicine, ma inutilmente. Lo attese ancora per un po’ di tempo sul portone e non vedendolo tornare risalì in casa. Né ieri sera, né stamani, né oggi, l’onorevole Matteotti ha fatto ritorno a casa sua né ha dato notizie di sé. La signora Matteotti si è recata con l’onorevole Modiglioni a sporgere denunzia della scomparsa del marito al Ministro degli interni. Il Ministro ha incaricato il questore Bestini di fare le ricerche del caso. Da La Nazione del 12 giugno 1924

LA CENSURA SULLA STAMPA

L’esecuzione del decreto dell’editto della stampa deliberato oggi dal Consiglio dei Ministri mira a ridare calma e serenità all’opinione pubblica, a restituire l’ordine e la disciplina al Paese… Di fronte a una situazione quale è quella creata alle violente campagne di stampa seguite all’assassinio dell’onorevole Matteotti riconosciamo l’opportunità e apprezziamo la ragione di Stato che ha indotto i ministeri a prendere la decisione odierna. Da La Nazione del 10 luglio 1924

CHIUSI I CIRCOLI “SOVVERSIVI” Oggi alle 16 a Palazzo Vicinale si è riunito il consiglio dei Ministri… Il ministro dell’interno onorevole Federzoni riferisce circa l’azione iniziata dal governo per assicurare fermamente l’ordine e il rispetto dei poteri costituiti. Dà conto dei provvedimenti adottati negli ultimi giorni: 1) che fossero chiusi i circoli e i ritrovi sospetti dal punto di vista politico. 2) che fossero sciolte le organizzazioni che sotto vari prete- sti raccolgono elementi turbolenti e sovversivi. 3) che fossero sciolte la sede centrale e i comitati locali dell’Italia libera. 4) che fossero intensificate le perquisizioni per il rastrella- mento delle armi e per la raccolta di tutti i documenti che costituiscono mezzi di propaganda sovversiva. 5) che fossero chiusi esercizi pubblici nei quali abitualmente si riuniscono elementi sovversivi. Da La Nazione del 7 gennaio 1925

UCCISI I FRATELLI ROSSELLI Un duplice delitto è stato scoperto stamani, alle 8, nelle vicinanze di Bagnoles de l’Orne, mercoledì sera verso le venti vicino alla Chapelle Moche, venne scoperta una automobile Ford 12 cavalli… All’interno i gendarmi trovarono un guanto insanguinato, un caricatore vuoto di rivoltella ed una bomba… È dopo queste circostanze che stamani, a parecchi chilometri dal luogo dove fu trovata l’automobile, un operaio agricolo, certo Jarry, ha scoperto nella foresta, al centro di un fossato, a una decina di metri dalla strada, due cadaveri rovesciati l’uno sull’altro… Uno dei due corpi aveva la testa forata all’altezza della tempia da un colpo di rivoltella. Gli abiti dell’altro erano macchiati di sangue all’altezza del cuore. Vicino ad essi, nel fango, sono stati trovati due pugnali con la lama brunita, senza marca di fabbrica. Pare accertato che il crimine sia stato commesso nella Ford trovata rovesciata, nella quale l’assassino aveva poi posto una bomba. L’identità dei due uomini è stata rapidamente stabilita. Si tratta del terrorista italiano Carlo Rosselli, di anni 38, capo dello sparuto gruppetto di “Giustizia e libertà”e di suo fratello Sabatino, meglio conosciuto col nome di Nello di anni 37. Carolo Rosselli… era fuggito nel 1929 dall’Italia e precisamente da Lipari dove era stato confinato… Nello Rosselli abitava a Firenze, in via Giusti 26, dove pure risiede la sua madre Amelia, scrittrice assai nota, figlia del defunto senatore Pincherle.

Da La Nazione del 12 giugno 1937


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Crolla il fascismo

Il Duce costretto a dimettersi Badoglio firma l’armistizio BADOGLIO CAPO DEL GOVERNO da la Nazione del 27 luglio 1943 Sua Maestà il Re e imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di Capo del Governo, primo Ministro Segretario di Stato, presentata da Sua Eccellenza il Cavaliere Benito Mussolini ed ha nominato Capo del Governo, primo Ministro segretario di Stato, sua Eccellenza il Cavaliere Maresciallo d’Italia Piero Badoglio.

GIORGIO LA PIRA “RIEDIFICARE CIÒ CHE È CROLLATO” da la Nazione del 27 luglio 1943

Arrestato Mussolini, Badoglio (nella foto) fece conoscere la sua voce via radio nel famoso messaggio che si concludeva con il disilludente «la guerra continua a fianco dell’alleato germanico».

Anzitutto: incombe su tutti, ineliminabile, il dovere di operare? Nel quadro de valori della libertà e dell’ordine – tenendo conto della delicatissima trama delle attuali circostanze belliche – si impone a tutti l’obbligo di una partecipazione generosa alla riedificazione di ciò che è crollato, alla solidificazione di ciò che è indebolito, alla purificazione di ciò che non è intatto? La risposta non è dubbia: agire bisogna, nei limiti del proprio talento, perché il bene comune sia ricomposto: nessuna evasione è legittima: c’è una solidarietà che tutti ci investe e che da tutti imperiosamente esige un rapporto generoso di sacrificio e di amore… Giorgio La Pira

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oma 26 notte - Il 24 luglio 1943 si è riunito a Palazzo Venezia il gran Consiglio del Fascismo. All’inizio della riunione cominciata alle ore 17 il Capo del Governo ha fatto una relazione sulla situazione politica e militare. Dopo di che il presidente della Camera Grandi ha presentato ed illustrato un ordine del giorno che portava oltre la firma di Grandi, De Vecchi, De Marsico, Acerbo, Pareschi, Cianetti, Ciano, Bottati, Balella, Gottardi, Bignardi, De Sedani, Rossoni, Marinelli, Alfieri, Alfini, Bastianini. Il documento afferma: la necessità dell’unione morale e materiale di tutti gli italiani in quest’ora grave e decisiva per i destini della Nazione. Dichiara: che a tale scopo è necessario l’immediato ripristino di tutte le funzioni statali, attribuendo alla Corona e alle Corporazioni i compiti e le responsabilità stabilite dalle nostre leggi statu-

tarie e costituzionali Invita: il Capo del Governo a pregare la Maestà del Re, verso la quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore di tutta la Nazione, affinché egli voglia, per l’amore e per la salvezza della patria, assumere, con l’effettivo comando delle Forze Armate di terra, di mare e dell’aria, secondo l’articolo 5 dello Statuto del Regno, quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a lui attribuiscono e che sono sempre state in tutta la nostra storia nazionale, il retaggio glorioso della nostra Augusta Dinastia di Savoia. La discussione che ha seguito è durata ininterrottamente dieci ore, cioè fino alle ore tre antimeridiane del 25 luglio. Alla fine di esso l’ordine del giorno, presentato da Grandi, ha avuto 19 voti favorevoli, contrari 7, ed uno astenuto. Da la Nazione del 27 luglio 1943

L’ARMISTIZIO da La Nazione del 9 settembre 1943 La decisione che il maresciallo Badoglio ha annunziato (armistizio) ieri sera al popolo italiano è una triste necessità alla quale non era possibile non obbedire, e che ha richiesto certo tutta la sua forza d’animo… Quello che ha determinato la decisione, tutti lo sappiamo: le nostre città distrutte, metodicamente e scientificamente bombardate, anche negli ultimi giorni, da una meccanica implacabile, contro la quale la tecnica più avanzata non conosce ancora riparo: le vittime innocenti, le madri e i bambini uccisi, le folle senza tetto e senza rifugio, l’impossibilità di dar loro il minimo aiuto, la necessità per i soldati di assistere impotenti a tanto strazio.

LE S.S. LIBERANO IL DUCE da La Nazione del 14 settembre 1943 Berlino 13 - Dal quartier generale del Fuehrer: Reparti di paracadutisti e di truppe di sicurezza germanici, unitamente a elementi delle S.S. hanno oggi condotto a termine una operazione per liberare il Duce che era tenuto prigioniero dalla cricca de traditori. L’impresa è riuscita. Il Duce si trova in libertà. In tal modo è stata sventata la sua progettata consegna agli anglo americani da parte del Governo Badoglio.


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L’Italia è repubblicana Il 2 giugno 1946 l’Italia è stata chiamata alle urne per scegliere tra monarchia e repubblica. L’esito del referendum avviò la fase costituente

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a Nazione fu costretta a cessare le pubblicazioni alla vigilia della liberazione di Firenze, il 28 luglio del 1944. I tedeschi portarono via gran parte delle attrezzature tipografiche e nello stabilimento di via Ricasoli rimasero soltanto, coperte di sabbia e dunque inutilizzabili per giorni, cinque linotype. È questo il motivo per cui dalle collezioni del nostro giornale non risultano le cronache eroiche e drammatiche di quei giorni. Dopo la liberazione uscirà “La Nazione del Popolo”, organo del comitato di liberazione, e finalmente, con il marzo del 1947 tornerà in edicola La Nazione.

ECCO LA CARTA COSTITUZIONALE Rallegriamoci anche noi che l’Assemblea abbia terminato e oggi solennemente approvato la Costituzione della Repubblica italiana. Non è questo il momento di epilogarne i difetti – difetto vuol dire mancanza – mentre ne sono così palesi le ridondanze. Non è certo una Costituzione che, fissate le linee maestre, precisati i limiti invalicabili, lasci, prudentemente all’avvenire di elaborare l’imprevedibile storia. Non è un monolito di sapienza giuridica: ma è l’unica conclusione statutaria possibile nell’incertezza e nella discordia dei partiti che il Popolo sovrano ha espressi alla fine della guerra infelice, con il desiderio di rifarsi una vita politica e sociale migliore di quella che era finita nel disastro. La Costituzione rappresenta il compromesso fra codeste discordie e l’onesto sforzo di riconciliare. da La Nazione del 23 dicembre 1947

LA COSTITUZIONE ENTRA IN VIGORE

La Costituzione è entrata in vigore a mezzanotte. De Nicola ha depositato a quell’ora il titolo di capo provvisorio dello Stato ed ha assunto le prerogative di Presidente della Repubblica. Il nuovo anno, che coinciderà col centenario del 1848, vedrà entrare in azione gli organismi della costituzione testè varata. da La Nazione del 1 gennaio 1948

IL SINDACATO SI SPACCA NASCE LA CISL

La scissione sindacale è un fatto compiuto, in seguito alla decisione presa dal comitato esecutivo della CGIL di dichiarare decaduti i dirigenti della corrente democristiana. A una CGIL in cui sono in prevalenza i socialcomunisti, si opporrà un’altra confederazione, che i democristiani intendono costituire al più presto, dopo aver elevato una viva protesta per l’estromissione decretata da Di Vittorio e compagni. In qual modo sarà creato il nuovo organismo sindacale, se cioè sarà ristretto ai democristiani o aperto a tutti i lavoratori all’attuale confederazione, verrà stabilito dagli esponenti sindacali democristiani e dai dirigenti delle Acli nei prossimi giorni. da La Nazione del 28 luglio 1948

Nel tondo sopra: Il capo provvisorio dello Stato, De Nicola firma la Costituzione. È il 27 dicembre 1947. In piedi ai suoi lati De Gasperi e Terracini. Qui di fianco: la copia anastatica della Costituzione visibile presso il Senato.

FRONTE POPOLARE L’ITALIA DICE NO

La Democrazia Cristiana che ha ottenuto il 47 % dei voti votati ha più del 51% dei voti ammessi a concorrere alla ripartizione dei seggi. Ha cioè la maggioranza assoluta alla Camera. Invece al Senato fra i membri eletti e di diritto, mette insieme 148 seggi (130 per l’elezione e 18 di diritto) contro 119 del Fronte popolare (74 per elezione e 45 di diritto): vale a dire non ha la maggioranza assoluta come nell’altro ramo del parlamento, bensì solo quella relativa. Questo è certamente uno dei lati positivi della situazione. La presenza dei socialisti e dei repubblicani al governo continua ad essere per la Democrazia Cristiana assolutamente necessaria. E d’altronde non fruendo essa al Senato della stessa posizione di privilegio ricoperta alla Camera, non è affatto annullata quella funzione di controllo delle minoranza, connaturata all’istituto parlamentare. da La Nazione del 22 aprile 1948


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da La nazione del 5 maggio 1949

Superga: così in tragedia finisce il grande Torino

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La tragedia al ritorno da Lisbona dopo una partita col Benfica. Il trimotore si sfracella contro la cupola della Basilica di Superga.

na sciagura tremenda. L’aereo trimotore che trasportava la squadra di calcio del Torino nel viaggio di ritorno da Lisbona dopo la partita col Benfica, si è sfracellato oggi alle 17,55 contro la cupola della Basilica di Superga. Sono periti diciotto giocatori (tutti i titolari della squadra campione più le riserve) sei dirigenti, tre giornalisti, e i tre componenti dell’equipaggio. Ed ecco ora i nomi delle vittime. Giocatori: Bacigalupo, Ballarin I, Ballarin II, Martelli, Maroso, Grezar, Tigamonti, Casigliano, Ladini, Menti, Loik, Grava, Gambetto, Bongiorni, Mazzola, Schubert, Ossola e Operto. Inoltre dirigenti del Torino Anisetta, Cavalieri, Erbstein, l’allenatore Lievesley, il massaggiatore Bonaiuti e i giornalisti Casalbore, Tosatti e Cavallero, oltre ai membri dell’equipaggio. Beppe Pegolotti fu chiamato a commentare la sciagura con l’articolo che segue

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n rovinio, un rombo, un rogo sul far della sera di ieri. E trenta vite umane troncate di colpo, e trenta uomini quasi tutti giovani uomini, ridotti a masse informi e carbonizzate. La tragedia umana di per se stessa atterrisce e sconvolge. Povere nostre vite. Sì, nostre, perché le vite di quei morti erano tanto vicine a noi, perché rievocano nomi che ricorrevano quasi ogni giorno alle cronache e nei discorsi della gente. Diciotto campioni dello sport più popolare, dello sport calcistico, campioni acclamati da anni ed anni dalle appassionate folle degli stadi. La maggior parte di essi avevano rivestito la maglia

azzurra, avevano portato al di là del mare e delle Alpi, gloriosamente, il prestigio dell’Italia sportiva… È scomparso, fragilità delle cose umane, è scomparso in un soffio il grande Torino la squadra “fenomeno” che per quattro anni consecutivi aveva vinto lo scudetto del massimo campionato italiano e che si apprestava a vincerlo per la quinta volta. È stata annientata, nello stesso tempo, l’inquadratura tipica ed efficiente della nostra nazionale alla vigilia della partita con l’Austria che doveva, qui a Firenze, segnare la rivincita dello scacco di Vienna. Caduti sulla breccia, caduti di ritorno da una gara disputata all’estero, a Lisbona, il giorno prima. Azzurri e campioni, campioni ed azzurri, consacrati per sempre. Imbattibili nella tecnica e nello sfruttamento di ogni possibilità di gioco calcavano da maestri i rettangoli verdi. Gli stadi risuonano ancora degli echi di osanna, mentre le salme si allineano presso il luogo della sciagura. Tu, Valentino Mazzola, capitano azzurro, tu non farai più scat-

tare in piedi ottantamila persone col tuo caracollare tutto finezze. Tu, Meo Menti, che già indossasti la maglia viola, non potrai abbattere ancora una volta gli avversari con un tiro folgorante. Voi, poveri Maroso e Ballarin, non ci sbalordirete più con le vostre rovesciate magistrali, con le vostre entrate volanti ed audaci. Bacigalupo, avresti forse parato un calcio di rigore agli austriaci come facesti agli spagnoli a Madrid? Tutto finito. Non riusciamo a renderci conto… Tre nostri colleghi cari, tre giornalisti militanti che hanno dedicato la loro esistenza a far rivivere agli appassionati la bellezza e la forza delle battaglie sportive, sono periti nel rogo di Superga, insieme ai campioni, ai tecnici agli organizzatori che erano stati gli interpreti delle loro cronache. Essi lasciano un solco di dolore davanti a tutti coloro che li hanno letti per tanto tempo,

lasciano una scia di tristezza accorata in noi che li avemmo compagni di tante ansie e di tanti rischi… La notizia, sparsasi fulmineamente ieri sera da un capo all’altro della Penisola, ha atterrito e commosso ogni strato della popolazione. Tutta l’Italia è stata percorsa da un fremito. Ci inchiniamo dinanzi alle trenta salme ed alle famiglie percosse dalla folgore. Perché mai questo volle il fato? Povere nostre vite, care vite.


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da La nazione del 20 luglio 1950

La Tv? Sta per arrivare anche da noi (ma intanto ecco cosa succede negli Usa) La Televisione sta per arrivare anche nelle case degli italiani. Ecco allora che Giuseppe Prezzolini, corrispondente da New York del nostro giornale ci spiega quali cambiamenti sociali ha già provocato in America quell’elettrodomestico. È un quadro, scritto nel 1950, che colpisce per la sua acutezza e la sua attualità.

La televisione in America ormai ha preso il posto del focolare. Nella foto in basso uno dei primi modelli di TV in circolazione negli Stati Uniti.

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a famiglia non si raccoglie più intorno al focolare, e nemmeno intorno al tavolo del bridge o della canasta, ma davanti allo schermo della televisione. Gli americani vanno meno al cinematografo, leggono meno libri, stanno meno a sentire la radio, trascurano ancora più il teatro, invitano meno gente a pranzo nel ristorante preferito. Anche le taverne non fanno affari se non c’è la televisione. L’attrazione è fortissima nella generazione dei giovani. Adulti, maschi e femmine vi parteci-

pano in eguale modo, sebbene con simpatie differenti per i vari programmi. Tutti, quasi indistintamente, van pazzi per le competizioni sportive. Ma il problema più grave è quello degli studenti. Non vanno più a giocare a hockey e a fare a pugni: guardano la televisione. Mai uno strumento o un gioco nuovo aveva così rapidamente incatenato l’attenzione del pubblico e conquistato le folle. Con queste parole all’incirca iniziavo un mio articolo tecnico nella rivista Spettacolo della Società degli autori ed editori italiani, e in questi giorni leggendo una grande inchiesta del New York Times che ha fatto molta impressione vedo che avevo azzeccato giusto. E forse qualche lettore de La Nazione si ricorda che in mie corrispondenze ho fatto cenno a questo avvenimento che è il più importante dopo la guerra nel campo delle relazioni umane… Per ora il progresso divoratore della televisione è ritardato

artificialmente dalla Commissione Federale delle Comunicazioni, un’importante organo che può distribuire onde nell’aria e i “canali” per i quali la televisione può passare, e che ha l’incarico di impedire che si formino dei monopoli… La nuova scoperta è stata accolta con diffidenza aperta dalla classe degli educatori. Essi hanno chiesto alla Commissione di riserbare una parte dei “canali” a stazioni speciali educative. Hanno fatto una serrata critica ai programmi che sono frivoli, grossolani, indecenti e sostenuti da una pubblicità che indispone… Molte discussioni, molti problemi. Ma una cosa ammettono tutti, anche coloro che la combattono, che della televisione non si può fare a meno e che non si tornerà più indietro. Giuseppe Prezzolini

ARRIVA IL QUIZ

Milano 9 novembre - A imitazione di quanto avviene negli Stati Uniti anche la televisione italiana metterà in onda un programma che durerà mezz’ora intitolato “Lascia o Raddoppia”, che sarà presentato da Mike Bongiorno. Il premio di cinque milioni o più sarà assegnato a chi saprà rispondere fino all’ultimo a un succedersi incalzante di domande su un determinato argomento. Potrà trattarsi di storia, di musica, lirica, musica sinfonica, musica leggera e jazz, moda, gioco del calcio, gastronomia, ciclismo, atletica, teatro di prosa, cinema… da La Nazione del 10 novembre 1955

L’AUTO PER TUTTI Oggi l’automobile popolare italiana, la “600”, sarà presentata dalla fabbrica torinese Fiat al salone internazionale di Ginevra, dopo che i primi esemplari saranno consegnati agli acquirenti d tutte le città. Per la prima volta appare sul mercato italiano una “quattro posti” veramente tale il cui prezzo (che si aggira sulle seicentomila lire) la rende accessibile a molti. Contemporaneamente, dopo venti anni di onorato servizio scompare dalla produzione la vecchia “Topolino”. da La Nazione del 10 marzo 1955


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Entra in vigore la legge Merlin

Addio alle “case chiuse” Dopo una lunga battaglia parlamentare la senatrice socialista ha vinto la sua battaglia: “Così rispondo ai miei detrattori”

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il mestiere più antico del mondo e nessuno si illude di poterlo abolire, ma la battaglia condotta da Lina Merlin ha ben altro significato: vuole impedire che lo Stato tragga addirittura benefici dalla prostituzione. Qui di seguito la notizia riportata su La Nazione del 21 settembre 1958.

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n occasione dell’entrata in vigore della legge per l’abolizione delle “case chiuse” l’onorevole Lina Merlin ha rilasciato all’Ansa una dichiarazione: “Non ho la pretesa, con la legge che porta il mio nome di aver eliminato una piaga che è connessa a cause profonde. Essa, però, costituisce un primo passo in quanto ha tolto la complicità dello Stato all’esercizio della prostituzione. Il sistema in vigore fino ad oggi nel campo della prostituzione, anziché contenere il fenomeno (è la tesi degli antiabolazionisti) tendeva ad esasperarlo come dimostra abbondantemente l’esperienza. Esso inoltre non conteneva il diffondersi delle malattie veneree, né si può dire che tutelasse la dignità della donna come creatura umana e come cittadina.

Bisogna dire, poi, che intorno alla “case” oltre che al vergognoso traffico della carne umana si organizzavano la malavita e la tratta delle bianche cui non sono certo estranei certi delitti, il traffico degli stupefacenti, la criminalità eccetera. La mia legge ha inteso porre riparo a tutto ciò, anche se riconosco che essa non è che un primo passo. “Vorrei cogliere l’occasione per rispondere a una serie di domande che mi sono state poste in questi tempi. Come faremo ora?” si chiedono alcuni. Ad essi voglio dire che per essere continenti nessuno è mai morto, mentre di fame si muore. Altri, invece, che fanno ricorso ad una sorta di senso di pietà per le “povere donne” che fuori dal lupanare resteranno “sul lastrico” vorrei ricordare che con il sistema invalso finora, uscite dalle case per raggiunti limiti di età, quasi sempre senza un soldo, per lo sfruttamento esercitato a loro danni da lenoni, tenutari, medici disonesti, eccetera, le prostitute erano costrette a portare per tutta la vita il peso infame di quell’iscrizione sui libri della questura. Questo oggi esse non l’avranno più. Se vorranno potranno avvalersi dell’aiuto che viene offerto per l’inserimento nella vita normale.”

Il mondo della prostituzione controllato dallo Stato. Nelle immagini: una ragazza posa per una foto osé dei primi del Novecento. Sotto: il tariffario ufficiale del 1956 posto all’ingresso di una casa chiusa autorizzata.

Però, è un bel libro quel “Gattopardo” Bel romanzo, veramente, con un che di ricco e di strano, questo Giuseppe Tomasi duca di Palmi e Principe di Lampedusa (Il Gattopardo, edizione Feltrinelli, 1958). Due sono le forze che armonizzano il gran libro: finezza d’arte vera e “durata” (anche se l’una e l’altra non toccarono il giusto compimento). Ma pure bastano ad assicurarne la riuscita. Finezza d’arte s’è detto, senza nessuna di quelle forzature espressioniste (di linguaggio) pur ragguardevoli; che ebbero e continuano ad avere libero corso ai tempi nostri. Vi agisce invece qui all’interno (direi alle origini) una vivace fantasia, ma limpida quanto mai, che solleva la pagina, sì che propriamente rida (è la parola). E meritava forse d’esser meglio finita, messa a punto (ma la vita non gli bastò)… Ma tutto questo sarebbe nulla senza quell’accordo “in maggiore” che chiude il capitolo quarto. “Siamo vecchi Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui abbiamo dato il la: noi siamo dei bianchi quanto lo è lei, Chevalley, e quanto la Regina d’Inghilterra, eppure da duemilacinquecento anni siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi: è colpa nostra. Ma siamo stanchi e svuoti lo stesso… Da La Nazione del 29 gennaio 1959


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La rivolta d’Ungheria

Quando il regime sovietico rivelò la sua vera natura

I carri armati dell’URSS entrano a Budapest e sparano contro la folla

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l 1956 è l’anno del disgelo ma anche quello delle più terribili disillusioni. Stalin è ormai morto da tre anni e Nikita Kruscev, incontrato nel ’55 a Ginevra il presidente americano Eisenhover si impegna con lui a mantenere la pace nel mondo. È davvero l’inizio della distensione? Nel febbraio del ’56 Kruscev denuncia in un famoso discorso i crimini dello stalinismo. Sembra così iniziato un percorso di riavvicinamento fra occidente e Russia comunista. E questo credono in Polonia e in Ungheria quanti decidono di ribellarsi al giogo sovietico con governi finalmente democratici. È una grande illusione i carri armati entrano a Budapest e sparano sulla folla. È una strage. Nel mondo occidentale per la prima volta i comunisti si interrogano sulla vera natura del regime sovietico. Alcuni stracceranno la tessera del PCI, ma la gran parte seguirà l’ordine del partito e difenderà le infamie compiute contro i civili dalle truppe sovietiche.

da La Nazione del 25 ottobre 1956 Vienna 24 ottobre - L’Ungheria ha vissuto una giornata di sangue. La rivolta contro il regime comunista divampa ormai da ventiquattro ore e le divisioni sovietiche, chiamate in soccorso dal governo, hanno messo Budapest a ferro e fuoco per stroncare l’insurrezione. L’azione repressiva è di una ferocia senza precedenti: carri armati e aerei russi hanno sparato contro gli insorti e i morti si contano a centinaia. La legge marziale è stata proclamata in tutto il Paese…

da La Nazione 25 ottobre 1956

I moti rivoluzionari di Polonia e di Ungheria hanno scosso profondamente il sistema politico e geografico dell’imperialismo slavo – comunista. Solo il terrore, ch’è stato la somma delle intimidazioni, delle persecuzioni, delle deportazioni, delle impiccagioni, ormai clamorosamente confessata dagli stessi capi sovietici e dai loro clienti dell’Europa orientale, poté stabilire in quei paesi “l’ordine” e solo la menzogna poté dipingere quest’ordine come l’adesione di quei popoli al comunismo. Questa è la prima lezione di quei moti rivoluzionati. E ve n’è una seconda, altrettanto grave e importante, questa: i moti polacchi e ungheresi significano il fallimento e la condanna del comunismo in quei paesi…

La notizia dell’invasione sovietica in Ungheria scatenò duri contrasti all’interno del Partito Comunista Italiano. Nel tondo: il campione di calcio Ferencz Puskas. Inizialmente si era creduto che fosse morto durante i disordini.


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La rivolta d’Ungheria da La Nazione del 5 novembre 1956 Vienna 5 novembre - Ecco, nel convulso susseguirsi dei dispacci di Radio Budapest e dell’agenzia ungherese “Mti”, il quadro della tragedia del popolo magiaro, ridotto di nuovo in schiavitù dal brutale assalto dell’armata sovietica. La prima notizia del colpo di scena l’ha fornita verso le cinque e mezza l’agenzia di stampa “Mti”. Il dispaccio diceva: “I gangsters russi ci hanno tradito. Stanno ora aprendo il fuoco in tutta Budapest. Per favore informate il governo austriaco. Le truppe russe hanno improvvisamente attaccato Budapest e l’intero paese. Hanno aperto il fuoco contro tutti gli ungheresi. Si tratta di un attacco generale. Jamos Kadar (segretario del partito) Gyoergy Marosan e Sandor Ronai hanno formato un nuovo governo ed hanno cominciato ad annientare la rivoluzione. Ora sono a fianco dei russi. Anche il nostro edificio si trova sotto l’intenso fuoco russo. Tutta Budapest è sotto il fuoco sovietico. I gangsters russi ci hanno tradito…”. Sparano anche contro la nostra redazione. Nelle ultime ore alcune centinaia di cari armati hanno attaccato Budapest e Dunafoldavar. È in atto un’intensa azione di fuoco da parte dei russi per la conquista delle posizioni chiave e dei ponti. Cercherò di rimanere in collegamento e di mandarvi notizie man mano che le riceviamo. Dobbiamo informare il mondo di tutto. Nagy parlerà immediatamente al popolo.” Poco dopo infatti il primo ministro Nagy inviava da radio Budapest un’invocazione al mondo per sollecitare aiuti contro l’improvviso attacco de russi. “È Imre Nagy che parla – diceva l’appello – nelle prime ore di questa mattina le truppe sovietiche hanno iniziato un attacco contro Budapest con l’evidente scopo di rovesciare il governo democratico della repubblica popolare ungherese. Le nostre truppe sono impegnate nella battaglia con le truppe sovietiche. Il governo è al suo posto. Questo è il mio messaggio al popolo ungherese e al mondo…” Ore 7,14, ancora radio Budapest: “Il governo ungherese rivolge appello a ufficiali e uomini dell’esercito sovietico di non far fuoco al fine di scongiurare uno spargimento di sangue. I russi sono nostri amici e rimarranno nostri amici.” Sono state queste le ultime parole ascoltate da radio Budapest: “Aiuto… aiuto…. aiuto…”. Alle 8,07 non si è sentito più nulla. Budapest era caduta.

Il Mec, l’Europa è più unita

Roma 25 marzo. I sonori rintocchi delle due campane della torre capitolina hanno salutato e annunciato la nascita di due fondamentali istituti per la creazione dell’Europa unita. Alle 18,50 i rappresentanti dell’Italia, del Belgio, della Francia, della Germania, dell’Olanda e del Lussemburgo, i sei paesi che formano la Comunità europea, hanno firmato i trattati per il mercato comune europeo e per il pool atomico. La cerimonia si è svolta in Campidoglio nella sala degli Orazi e Curiazi. Qui era stato installato il grande tavolo ricoperto di damasco rosso... da La Nazione del 26 marzo 1957

Castro all’Avana

L’Avana ultimo atto della guerra civile cubana. I reparti, o meglio ciò che è rimasto dei reparti dell’esercito di Batista – il dittatore fuggito ieri nella repubblica domenicana – si stanno arrendendo uno alla volta alle forze del capo ribelle Fidel Castro. Il grosso delle forze di Castro, vittoriose dopo venticinque mesi di guerriglia tra i monti e le gole della Sierra Maestra è giunto all’Avana a bordo di colonne autocarrate e di tradotte ferroviarie. Fidel Castro Ruiz, l’uomo che a Cuba ha sconfitto la dittatura di Fulgenxio Batista ha trentadue anni, è di taglia atletica, porta gli occhiali e la barba lunga, ha tre lauree. È un ribelle romantico. I suoi simpatizzanti gli hanno dato il cognome di Robin Hood. Fidel Castro ha la ribellione nel sangue. Quando aveva venti anni prese parte a una insurrezione nella repubblica domenicana. I suoi compagni d’impresa vennero catturati, lui riuscì a fuggire e a rientrare a Cuba, dove riprese a frequentare i corsi di diritto dell’università dell’Avana…. da La Nazione del 3 gennaio 1959


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da La Nazione del 15 marzo 1958

Allah non approvò le nozze della regina triste e ripudiata

Dopo la separazione, che le lasciò comunque il titolo di Sua Altezza Imperiale la Principessa d’Iran, si trasferì in Francia per fare l’attrice. Recitò nel film del 1965 ”I tre volti”, e si innamorò del regista italiano Franco Indovina.

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uesto che oggi è giunto all’epilogo, indubbiamente amaro per entrambi gli sposi, era il secondo matrimonio dello Scià Mohammed Reza Pahlevi, ed era stato opera di sua madre – la vecchia imperatrice Malekeh Mader come la chiamano i persiani – e di una delle sorelle, la principessa Shams. Dopo lo scioglimento del matrimonio con Fawzia… La madre e la sorella si dettero allora alla ricerca di una fanciulla di nobile ceppo iraniano ma educata in Occidente, che potesse in breve tempo diventare la nuova compagna del regale congiunto... Orientarono la loro scelta, per suggerimento di una dama di corte, madama Furuzafar, su una sua nipote diciassettenne e bellissima figlia di Kalil Esfandiary, un proprietario terriero della numerosa e turbolenta tribù dei Bakthairi, nel sud dell’Iran e di una tedesca di Riga, Eva Karl. Questa ragazza era Soraya. Nata il 22 giugno 1932 a Isfahan (Kalil ed Eva si erano sposati col rito musulmano a Berlino ed erano poi rientrati nella città natale dello sposo) Soraya trascorse i primi anni della sua infanzia nella capitale tedesca dove i genitori si trasferirono nel 1937. Ritornati in Persia, la bimba ebbe una governante tedesca…

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eza Pahlevi conobbe la futura fidanzata tramite alcune fotografie... il primo incontro ebbe luogo a palazzo imperiale nel corso di un tè familiare nel pomeriggio; lo Scià ne fu subito conquistato. Soraya tutta tremante si chinò a baciargli la mano secondo l’etichetta di corte ma si sentì prendere per i gomiti e dovette sollevare il capo. Lo Scià, sorridendo, la baciò sulla guancia,

durare con stazioni più o meno assise dalla speranza per oltre cinque anni. Lo stesso destino di Fawzia si profilava dinanzi alla giovane donna intensamente innamorata e parimenti amata… Particolarmente terribile fu l’anno 1954 quando, ritornata la coppia imperiale da un viaggio negli Stati Uniti – dove un ennesimo consulto con i più illustri specialisti aveva dato esito negativo –, si determinarono sullo Scià pressioni forti e insistenti perché divorziasse… lo Scià in ossequio a una legge dinastica che non poteva sorpassare avrebbe ripudiato Soraya per contrarre nuove nozze e dare così al trono di Persia il suo erede naturale e legittimo in linea diretta.

l’amore non tardò a nascere in entrambi i giovani (Reza aveva trent’anni) che in poco tempo approfondirono i loro rapporti. Non molto tempo dopo fu celebrato il fidanzamento nella sala degli specchi del Palazzo di marmo, residenza ufficiale dell’imperatore, alla presenza dei ministri e del corpo diplomatico in un fasto tutto orientale. Fu fissata la data del matrimonio: il 12 febbraio 1951. Il vestito nuziale della sposa, capolavoro di Christian Dior aveva un immenso strascico di broccato di seta… fuori il paesaggio era bianco di neve: e l’avvenimento

O rarissimo nella capitale, aveva fatto trarre ai santoni una serie di profezie pessimistiche. Allah, dissero, non approvava le nozze del sovrano, il vincolo non sarebbe stato vitale. E infatti ora si è sciolto. Dopo sei mesi di luna di miele la giovane sposa partì senza il marito per Ginevra. Il richiamo dell’Europa nella quale era stata allevata, allettava naturalmente il suo cuore… Soraya si era però recata a Ginevra per consultare un celebre ginecologo per sapere da lui se poteva aspirare alle gioie della maternità…. Il calvario cominciava e doveva

ra che il calvario di Soraya è finito – il calvario di Soraya imperatrice: fiera, elegante, bellissima fra le belle – ora che il suo romanzo d’amore è finito. Fiumi d’inchiostro correranno. E quanti misteriosi motivi saranno scoperti per spiegare l’ultima scena del dramma, quant’anche saranno inventati... ma per noi e per ogni persona di buon senso resta categorico un dato di fatto: che se lo Scià avesse potuto contemplare e additare a tutte le sue genti e al suo governo sul grembo di Soraya un bel maschietto, nessun intrigo avrebbe potuto avere partita vinta. Questa è la verità. Michele Risolo

Il 12 febbraio 1951, all’età di 17 anni, Soraya (donna molto bella con una notevole somiglianza ad Ava Gardner), sposò lo Scià a Teheran. Il loro matrimonio ebbe fine il 6 aprile 1958, quando lo Scià la ripudiò dopo che fu evidente che non avrebbe potuto dargli dei figli. Lo stesso Scià diede l’annuncio della separazione, visibilmente affranto.


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La pubblicità

GLI ABITI ANTIPIEGA E LE CLINICHE PER I NERVOSI

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engono messe in vendita in scatole sigillate in carta rosa e azzurra e hanno l’affascinante nome di “Pillole Pink”. A dire il vero non si sa bene a cosa servano ma ciò non impedisce che occorre “guardarsi dalle imitazioni”. A testimoniare la loro bontà è un signore elegante con barba, pizzo e gilet che urla ai suoi clienti “Esigete! Esigete!”. Ancora nei primi anni del Novecento la pubblicità accolta nel quotidiano era in gran parte composta da imbonitori, falsi medici, qualche dentista, mentre si affacciavano sulla scena i primi specialisti nella cura delle malattie nervose. Stanno però proponendosi le prime sartorie e soprattutto i locali notturni e i cinema. Anche garage e carrozzieri iniziano a promuovere i propri servizi. Col passare degli anni migliora la proposta grafica e il disegno diventa importante quanto lo slogan in una sorta di vero e proprio visual pubblicitario.

Una selezione di annunci economici della prima metà del 900. Sempre più trovano spazio i locali notturni e i negozi di tessuti e abbigliamento.


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