LA NAZIONE 150 anni SARZANA

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150 ANNI di STORIA ATTRAVERSO LE PAGINE DEL NOSTRO QUOTIDIANO

SUPPLEMENTO AL NUMERO ODIERNO A CURA DI

Sarzana


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Così nacque in una sola notte il giornale di Bettino Ricasoli Cronache fra ‘800 e ‘900 Sarzana su La Nazione di oltre un secolo fa Pontremolese La storia infinita della ferrovia che ci unisce all’Emilia Era il 7 settembre del 1920 Il terremoto distrusse Fivizzano Terrore da Pisa alla Lunigiana “I fatti di Sarzana” 21 luglio 1921: quando i carabinieri spararono sui fascisti Vizzardelli: storia e delitti di un serial killer sedicenne Mussolini: “Siamo in guerra” E un pazzo spara ad Angelo Lucri Erano cinque copie (invedute) e con Ruggeri divennero 5mila Giornalisti per caso o per passione A Natale un “Presepe senza Stella” Così Sarzana mantenne il seminario Fiamme fra le canne sul Vialone Il delitto rimarrà un mistero È il 1968 e crolla, in “diretta” il secolare ponte sul Magra 1969 - 2009 Compie 40 anni l’autostrada che ci ha collegati all’Europa Bertolla: così vive (così muore) un vero poeta e giornalista La guerra di Ca’ Gaggino: un’oasi di verde salvata dai rifiuti Supplemento al numero odierno de LA NAZIONE a cura della SPE Direttore responsabile: Giuseppe Mascambruno Vicedirettori: Mauro Avellini Piero Gherardeschi

SARZANA

150 anni di storia attraverso le pagine del nostro quotidiano.

Non perdere in edicola il terzo fascicolo regionale che ripercorre, attraverso le pagine de La Nazione, la storia fino ai nostri giorni e i 17 fascicoli locali con le cronache più significative delle città.

Direzione redazione e amministrazione: Via Paolieri, 3, V.le Giovine Italia, 17 (FI) Hanno collaborato: Egidio Banti Natalino Benacci Emanuela Rosi

Progetto grafico: Marco Innocenti Luca Parenti Kidstudio Communications (FI) Stampa: Grafica Editoriale Printing (BO)

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COSÌ NACQUE IN UNA SOLA NOTTE IL GIORNALE DI BETTINO RICASOLI L’improvvisa notizia dell’armistizio di Villafranca. Le volontà, mai tradite, del fondatore de La Nazione Perché il giornale non volle lasciare Firenze per trasferirsi a Roma capitale

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ascere con l’Italia e accompagnarla, giorno dopo giorno, fino ad oggi. Nessun altro giornale vanta questo primato. E infatti, se anche una testata, la Gazzetta di Parma, sicuramente è più antica di quasi 100 anni rispetto al giornale fiorentino, è anche vero che per lunghi periodi ebbe un altro nome, in altri sospese le pubblicazioni, e in ogni caso non svolse il ruolo fondamentale per l’Unità d’Italia che toccò al foglio di Bettino Ricasoli. Già, perché fu proprio lui, il “Savonarola del Risorgimento” come lo definiva Spadolini, a volere che il nostro giornale fosse in edicola, redatto e composto in una sola notte, alla notizia dell’armistizio di Villafranca.

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a storia è nota. L’11 luglio del 1859, nel pieno della seconda guerra di indipendenza, quando le truppe franco piemontesi avevano vinto battaglie di rilevanza enorme, come quella di Solferino, e già si pensava come invadere e liberare il Veneto, all’improvviso francesi ed austriaci firmarono un armistizio ed i Savoia non ebbero la forza per opporsi. Lo fecero perché la Francia cominciava a temere un attacco da parte della Prussia che stava ammassando le sue truppe ai confini. Lo fecero, perché un’ Italia libera e indipendente poteva anche andar bene alla grandi potenze europee, ma non doveva essere eccessivamente forte. E dunque, ecco che al Piemonte veniva concessa quasi per intero la Lombardia, ma il Veneto il Trentino e la Dalmazia restavano agli austriaci, mentre in Toscana sarebbero tornati i Lorena, e in ogni caso si ipotizzava una federazione di stati del Centro Sud sotto la guida del Papa. Alla notizia, Cavour, dopo uno scontro durissimo con Vittorio Emanuele si dimise. E l’unico a sostenere la causa dell’Italia da unire, restò in quelle ore il capo del governo toscano costituitosi dopo la partenza del granduca, Bettino Ricasoli appunto.

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a notizia dell’armistizio arrivò a Firenze nel pomeriggio del 13 luglio e i patrioti si riunirono in Palazzo Vecchio dove regnava la rabbia, il caos, la voglia di reagire ma anche un profondo senso di impotenza. E l’unico che dimostrò di avere le idee chiare, ben al di là della logica, delle possibilità offerte dalla diplomazia, si rivelò Ricasoli che non poteva a nessun costo accettare quanto stava accadendo. E infatti, lui guidava un governo toscano provvisorio con l’unico scopo di arrivare al plebiscito per l’annessione al Piemonte, e se fossero tornati i Lorena tutto sarebbe crollato. Sotto il profilo politico ma anche sotto il profilo personale. Così, dimostrandosi in quelle ore il vero artefice del Risorgimento, ancor più dello stesso Cavour che in qualche modo aveva gettato la spugna, Ricasoli spedì due ambasciatori a Torino e a Parigi per tentare di modificare le cose. Ma nello stesso tempo mandò a chiamare tre patrioti fiorentini, il Puccioni, il Fenzi ed il Cempini, che a suo tempo avevano proposto di stampare un quotidiano in appoggio alle posizioni del governo toscano, e disse loro: “È arrivato il momento, per domattina voglio il giornale.” E a niente valsero le timide proteste dei tre che, comprensibilmente, facevano notare come fossero già le nove di sera e come non sarebbe stato facile mettere insieme i testi e farli comporre in poche ore. Ma Ricasoli insisteva “O domattina o mai più.” E dette anche il nome alla testata “La Nazione”, che era tutto un programma, anzi, era il programma.


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uccioni, Fenzi e Cempini presero una carrozza e si fecero portare in via Faenza alla tipografia di Gaspare Barbera, un patriota piemontese arrivato a Firenze nei giorni in cui la città fu capitale, e qui cominciò un lavoro frenetico a redigere i testi ed a comporli. Come nelle migliori tradizioni del giornalismo, redattori e tipografi lavoravano gomito a gomito. Un articolo non era ancora concluso e già la prima parte passava ai compositori. Un articolo non era del tutto composto – all’epoca non estivano le linotype ed ogni parola era composta a mano – e già si facevano le bozze per le correzioni della prima parte. Alle cinque del mattino Ricasoli si presentò alla tipografia, lesse le bozze e dette il consenso. Alle dieci, tirate pare in tremila copie, due pagine in mezzo foglio, oggi diremmo formato tabloid, erano in vendita nel centro cittadino.

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i trattava di un’edizione senza gerenza, senza il nome dello stampatore, senza il prezzo, senza pubblicità. Praticamente un numero zero. E così si andò avanti fino al 19 luglio quando, finalmente, La Nazione uscì nel suo primo numero ufficiale, con formato a tutto foglio, le indicazioni di legge, i prezzi per l’abbonamento e per la pubblicità. Così, dunque, nacque il nostro giornale. Che conobbe i giorni fausti dell’Italia Unita, e poi quelli pieni di problemi, non solo economici, in cui Firenze fu provvisoriamente capitale. Quindi la questione romana, la breccia di Porta Pia, e insomma tutte le fasi che con alterne vicende portarono alla nascita dello Stato italiano. Ma fu proprio con Roma Capitale che La Nazione dovette modificare il proprio tipo di impegno. Che fare? seguire il governo e il mondo politico fino a Roma, là dove si sarebbero svolte da allora in poi tutte le vicende, e prese le decisioni relative all’Italia? La domanda fu posta ed era più che legittima. Nessun altro quotidiano aveva il diritto di continuare le proprie pubblicazioni nella sede del regno e del governo italiano, più di quello che l’Italia aveva contribuito a farla nascere. Ma fu compiuta una scelta, che di certo non fu di tipo economico: restare. Restare a Firenze, accompagnare la vita della città dove era

nata, e dedicare sempre di più le proprie attenzioni anche alla vita quotidiana, a quella che oggi diremmo la cronaca di ogni giorno. Insomma, da grande foglio risorgimentale carico di tensioni ideali, a giornale come oggi lo intendiamo. Con rubriche dedicate alla moda, allo sport, con grandi spazi dedicati alla vita musicale e teatrale. Con la disponibilità a condurre grandi battaglie nel nome e per conto di Firenze, che già allora viveva con naturalezza la sua doppia natura, ancor oggi visibile: quella di una dimensione provinciale aperta al mondo. Città universale e allo stesso tempo città dove pochi personaggi, e fra loro in costante conflitto, dominavano la scena. Rese possibile questa scelta di obiettivi un grande direttore, Celestino Bianchi. Che seppe conquistare il pubblico femminile, interessare anche la media e piccola borghesia mercantile, ma soprattutto richiamare intorno al foglio di Ricasoli le migliori firme italiane del momento. Che, del resto, già erano presenti su La Nazione, fin dai primissimi anni. E allora ecco il D’Azelio e il Tommaseo, ecco il Manzoni e il Settembrini, e poi il Collodi, il De Amicis, Alessandro Dumas, Capuana, il Carducci e in seguito anche il Pascoli, ed infinti altri. Grandi firme che sarebbero continuate durante il fascismo e nell’Italia repubblicana fino ad oggi. Da Malaparte a Bilenchi, a Pratolini, ad Alberto Moravia, a Saviane, a Luzi. Dopo aver ospitato Papini, Prezzolini, Soffici, e gran parte dei letterati delle Giubbe Rosse nel periodo che precede e che segue la grande Guerra.

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ueste le scelte che permisero a La Nazione, pur dovendo affrontare momenti di crisi e di difficoltà, di battere ogni volta le testate concorrenti. Se esisteva una difficoltà di vendita o addirittura di immagine, sempre riuscì a trovare gli uomini e le energie per risollevarsi. Liberale infatti, fu sempre il quotidiano fiorentino, ma di un liberalismo illuminato che sapeva aprirsi ogni volta ai temi di interesse sociale, e per farlo non esitava ad ospitare anche firme lontane dalle proprie posizioni. Così, quando si trattò di presentare ai fiorentini, e commentare, la nascita delle scuole serali, fu chiesto un articolo a un giovane e

rivoluzionario poeta, il Carducci. E fu tra i primi giornali, La Nazione di Firenze, a porre sul tappeto il dramma del lavoro minorile, e a pubblicare le relazioni di Sidney Sonnino sulla condizione dei bambini, quelli del Nord Italia che a sette anni lavoravano anche 13 ore al giorno nell’industria della seta e quelli di Sicilia, costretti a starsene chini, senza luce né acqua, nelle solfatare di Sicilia. Ancora di più colpisce, per il giornale del Risorgimento, la moderazione con la quale fu seguita la questione romana e fu data notizia della breccia di Porta Pia. E infatti, mentre la retorica anticlericale si scatenava, creando con i suoi estremismi solo un effetto boomerang, La Nazione fu capace di analisi e di intuizioni che a distanza di 90 anni, con il Concilio Vaticano II, perfino il mondo cattolico avrebbe fatto proprie. Scriveva infatti il nostro giornale: “Il potere temporale ha trattenuto il cattolicesimo fermo sull’idea imperiale pagana.” Del resto non era il Ricasoli religiosissimo?

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dunque, è in omaggio ad una visione laica delle differenze fra Stato e Chiesa, una visione totalmente deducibile dai vangeli che si combatté quella battaglia, che non significava affatto compiacersi di un assoluto anticlericalismo ideologico, o ancor di più di una qualsiasi forma di ateismo conclamato. E ancora, quando si trattò di decidere se trasferirsi a Roma capitale, seguendo le sorti del governo e del re, la spiegazione data ai lettori fu questa. “Noi non vogliamo che Roma attiri a sé tutta la forza intellettuale. Noi vogliamo che Napoli, Firenze, Bologna, Venezia, Milano, Torino, serbino la loro influenza legittima, portino il peso nella bilancia delle sorti politiche nazionali. Ogni regione ha elementi originali da custodire e nello stesso tempo è sentinella dell’Unità inattaccabile.” Una prosa intelligente, modernissima, attuale ancor oggi, 140 anni dopo.

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n atteggiamento che La Nazione conservò anche in epoche ben diverse. Così, durante il fascismo, pur costretta come tutte le testate a pubblicare

le veline del minculpop, non per questo La Nazione si allineò mai totalmente al regime. Tanto da opporsi, allorché il Regime voleva imporre come direttori uomini di assoluta fede a Mussolini. E ospitare firme, come quella di Montale, il personaggio che per il suo antifascismo era pur stato “licenziato” dal Vieusseux. Uno stile, un modo di essere, che la premierà quando, pur con mille problemi tornerà alle pubblicazioni nel 1947. E ancora, quando nel ’68 la realtà italiana dette segni di grande malessere e tutto il nostro modo di essere società fu posto in forse, La Nazione non esitò ad assumere giovani della più varia estrazione politica ed ideologica, anche con provenienze ben diverse da quelle liberali, perché contribuissero ad aiutare la direzione a interpretare quanto stava accadendo. Erano i giorni del direttore Mattei ed ancor più del condirettore Marcello Taddei. La Nazione si poneva una volta di più il problema di come adeguarsi ai tempi. E se ciò le costò dei rischi, e dure minacce per alcuni dei suoi cronisti - quelli più esposti nei giorni del terrorismo - ciò non modificò la sua linea.

Alessandro Dumas (nella foto in alto) fu inviato speciale de La Nazione al seguito dell’impresa dei Mille. Tre poeti tra le tante firme illustri de La Nazione: Alessandro Manzoni (nel tondo), Giosuè Carducci e Giovanni Pascoli.


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Cronache fra ‘800 e ‘900

Sarzana su La Nazione di oltre un secolo fa Mercoledì 10 ottobre 1860 Al via il progetto per la ferrovia del Litorale

Leggiamo nell’Opinione: il ministro dei lavori pubblici invece di accordare la concessione della linea, ne ha solo affidato l’appalto e l’armamento, riserbando a sé l’esercizio… L’appalto abbraccia tutta la linea dal confine francese a Massa, dell’estensione di 275 chilometri… Gli appaltatori si obbligano compiere tutta la strada nel periodo di sei anni, ma il tratto da Voltri a Savona debb’essere terminato tra due anni, quello da Massa alla Spezia in 18 mesi, e da Massa sino a Sarzana soltanto in un anno.

Martedì 31 gennaio 1899

Morte di un vescovo …simpatico e liberale È morto a Genova, nella casa di un suo nipote, monsignor Giacinto Rossi, vescovo di Sarzana, settantenne. Era un prelato dotto e simpatico per i suoi noti sentimenti liberali. Come è noto, intervenne più volte al varo delle nostre navi da guerra, per la benedizione.

Sabato 20 gennaio 1894

Di Ortonovo i capi della rivolta di Carrara Continuano gli arresti. Ad Ortonovo sono stati arrestati tre individui ritenuti capi dei fatti d’Avenza e dell’assassinio conseguente di un brigadiere dei carabinieri.

Giovedì 19 maggio 1904

Lunedì 8 ottobre 1906

SARZANA, 17 ore 21.- Stasera, alle 18,30, proveniente da Salsomaggiore, è qui giunta in automobile S. M. la Regina Margherita, accompagnata da S. A. il Duca di Genova, dalle sue dame marchesa Villamarina e contessa Oldofredi e dal conte Guiscioli. Per un guasto riportato nell’automobile sulla strada Parma – Sarzana, a circa 10 km. di distanza dalla città, S. M. dovette fermarsi qui. Scese all’Hotel Italia, dove ricevette il sindaco avv. Lucri accompagnato dagli assessori Mosconi, Almajer e Neri; il Presidente del Tribunale cav. Nazzaro ed il Procuratore del Re cav. Tamburi; ed una rappresentanza delle Dame di Carità. A mons. Carli, nostro vescovo, inviò uno splendido anello; monsignor Vescovo, accompagnato da mons. Raganti, si recò subito a ringraziare la Regina. Tutta la popolazione accorse ad acclamare S. M. che, assieme al Duca di Genova, si presentò più volte a ringraziare. La musica cittadina, durante il pranzo eseguì uno scelto programma; gli uffici pubblici e moltissime case furono imbandierate ed illuminate. S. M. si dichiarò più volte commossa e grata per la imponente e spontanea dimostrazione. S. M. la Regina pernotta all’Hotel Italia col suo seguito.

SARZANA, 7 ore 18,30 (P.) – I soci della “Società Dantesca”, le Autorità ed altri invitati, circa in 60, stamani furono ospiti nella magnifica Villa Caniparola, del marchese Alfonso Malaspina. Il ricevimento fu oltre ogni dire splendido. Si passò poi a visitare il Palazzo, la Biblioteca e l’Archivio, che contiene documenti notevolissimi. La colazione fu sontuosa. Il senatore prof. Del Lungo si alzò, interrompendo il convitto, per dar lettura del telegramma del Sovrano, che fu applaudito entusiasticamente. Eccovi il testo: “Racconigi, 7 ore 10,20. Con solenne adunanza ieri la Società Dantesca Italiana, il locale patriottico Comitato hanno reso nuovo omaggio alla memoria del nostro maggiore Poeta. Ho ben gradito il saluto rivoltomi da lei e da coteste elette persone e lo ricambio a tutti, aggiungendo cordiali ringraziamenti… Vittorio Emanuele”. Allo champagne brindarono felicemente il marchese Malaspina, il prof. Pio Rajna, il comm. Sforza, presidente del Comitato, il senatore D’Ancona, Filippo Crispolti, salutando il vescovo Carli, che rispose improvvisando affettuosamente. Chiuse il sen. Prof. Del Lungo. I convenuti, recatisi poi a Castelnuovo, inaugurarono la lapide commemorativa, murata sopra i ruderi del castello dei vescovi di Luni, e parlarono ancora il Sindaco prof. Ferrari, il senatore prof. D’Ancona, tutti applauditissimi; quindi vi fu solenne ricevimento in casa del Sindaco.

UNA TAPPA IMPREVISTA PER LA REGINA MARGHERITA

LE FESTE DI SARZANA PER IL SECENTENARIO DI DANTE


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Pontremolese

La storia infinita della ferrovia che ci unisce all’Emilia Nell’Ottocento la grande battaglia che portò all’inaugurazione della strada ferrata Da 28 anni l’attesa del raddoppio dei binari di Natalino Benacci

La ferrovia ParmaLa Spezia, 120 chilometri di binari, fu completata nel 1894. Si era cominciato a parlarne con l’Unità d’Italia: il 1861.

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n secolo dopo il binario triste e solitario della vecchia canzone punta al raddoppio. La storia dell’importante linea ferroviaria che collega Val di Magra e Lunigiana all’Emilia corre parallela alle cronache de La Nazione con i suoi 150 anni di storia. La ferrovia Parma-La Spezia, lunga 120 chilometri, fu completata nel 1894 e fu un avvenimento storico, una grande rivoluzione per i territori emiliani, toscani e liguri. Già nel 1861 il Governo di Torino si impegna ad occuparsi della Parma-La Spezia e due anni dopo il comitato promotore presenta due progetti, Petrioli e Luciano.

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a la terza guerra d’indipendenza e i conseguenti disagi sul piano economico impediscono il “varoE. Diversi sono i progetti, ma non offrono quegli elementi necessari

per poter programmare il costo effettivo dell’intera opera, perciò il Ministero decide di far redigere dall’ingegner Emanuele Artom uno speciale studio del tronco di linea fra Pontremoli e Borgotaro e della galleria del Borgallo. La proposta di legge per il tunnel ferroviario viene al Parlamento dal Ministro della Guerra (la linea aveva scopi soprattutto militari) nella seduta del 4 giugno 1873, ma non ottiene l’approvazione e viene rinviata in attesa del nuovo dettagliato progetto. In realtà le motivazioni del rinvio vanno ricercate nelle numerose pressioni esercitate da parlamentari che propongono ferrovie diverse e che tentano di smantellare l’importanza strategica del porto di La Spezia.

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erso la fine del 1874 l’ingegner Artom porta a termine il progetto di tutta la linea Parma-La Spezia. Qualche mese dopo si costituisce a Parma un consorzio interprovinciale (Parma-Massa Carrara-La Spezia) presieduto dall’onorevole Torreggiani per promuovere una domanda di concessione della linea. Il progetto Artom permette di stabilire i costi: 36 milioni di lire non compresi gli interessi dei capitali impegnati durante la costruzione e il materiale mobile.

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on la legge 29 luglio 1879, che autorizza la spesa di 1260 milioni di lire per la costruzione di oltre 6000 km. di ferrovie, si sblocca anche la linea Parma-La Spezia che viene inserita al terzo posto di una lista di sette ferrovie di prima categoria da costruirsi a totale carico dello stato. Vengono inaugurati nel 1883 la Parma-Fornovo; nel 1888 Vezzano-Pontremoli; nel 1889 Fornovo-Berceto; nel 1893 Berceto-Borgotaro; nel 1894 Borgotaro-Pontremoli. Viene realizzata completamente in 15 anni di lavoro e con il sacrificio di molte vite umane. Da ricordare i 13 morti della galleria del Borgallo il 7 aprile 1893 per un improvviso scoppio di gas.

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a 28 anni La Nazione segue le infinite tappe della nascita della nuova Ferrovia Pontremolese, un progetto di raddoppio fondamentale per il Corridoio intermodale europeo 1 Tirreno-Brennero che collega Berlino a Palermo. Raddoppio e potenziamento della linea Parma-La Spezia sono stati avviati nel 1981 e “viaggiano” con il passo di lumaca degli stanziamenti, che non bastano mai, mentre le scadenze slittano tra problemi di risorse, priorità politiche e burocrazia. Lo stop al piano finanziario dei 48 milioni di euro per la progettazione preliminare dei tratti non ancora raddoppiati imposto dalla Corte dei Conti lo scorso autunno, ha messo in pausa la progettazione. Ora dal Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica sono arrivati i soldi per finanziare il primo lotto delle opere mancanti (230 milioni, su un costo complessivo di 2,3 miliardi di euro), ma il progetto esecutivo non c’è.

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l Ministro per le Infrastrutture Altero Matteoli si è impegnato a fornire i chiarimenti alla magistratura contabile per cancellare il blocco dei fondi. Secondo il progetto preliminare i lotti ancora da avviare sono quattro: sul tratto Parma-Fornovo, nel centro di Fornovo (un doppio tunnel bypasserà la città), poi la galleria di valico di 20 chilometri Ghiare di BerceloPontremoli ed infine il segmento Pontremoli-Chiesaccia. Nel bilancio delle opere concluse invece il raddoppio del tratto La Spezia-Santo Stefano-Chiesaccia con il raccordo “Garfagnana” per la Aulla-Lucca inaugurato a febbraio 2008 e la tratta Berceto-Solignano, mentre sono in corso i lavori sul segmento Solignano-Osteriazza (Fornovo) il cui completamento è previsto nel 2010. Ad essere realisti l’opera dovrebbe concludersi attorno al 2025-2030 tenendo conto che tempi di progettazione e di realizzazione della sola galleria di valico richiederanno almeno dieci anni per un costo complessivo intorno ai 360 milioni di euro.

Un corridoio che dovrà unire Berlino a Palermo. In questo grande progetto si inserisce il raddoppio della ferrovia Pontremolese. Se ne parla dal 1981 e ancora oggi, fra polemiche e mancanza di fondi, siamo lontani dalla realizzazione.


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Era il 7 settembre del 1920

Il terremoto distrusse Fivizzano Terrore da Pisa alla Lunigiana Ancora oggi la nostra gente ricorda la tragedia che costò decine di morti, un migliaio di feriti, e il crollo di migliaia di abitazioni

La scossa che arrivò alle 7,50 sulla parte nord della dorsale appenninica ebbe un’intensità di 10 gradi della scala Mercalli, e 6,5 gradi della scala Richter.

Fu una delle primissime volte nelle quali La Nazione uscì in edizione straordinaria. Un terremoto di forti dimensioni colpì l’area tirrenica, ma soprattutto la Garfagnana e la Lunigiana. Le scosse continuarono per giorni e per fortuna – a ridurre il numero delle vittime – la sera precedente ce n’era stata un’altra, quasi un avvertimento, che aveva spinto molte famiglie a dormire all’aperto. Il paese più colpito fu Fivizzano, praticamente raso al suolo, che ebbe 30 morti e 300 feriti.

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a sera del 6 settembre una prima scossa, un avvertimento. Ma nessuno avrebbe immaginato il dramma che attendeva la Lunigiana la mattina successiva. Quella seconda, micidiale scossa, arrivò alle 7,50 del 7 settembre 1920 e mise in ginocchio la dorsale appenninica che divide Lunigiana,

Garfagnana ed Emilia. Raggiunse i 10 gradi della scala Mercalli (6,5 gradi della Scala Richter) e ancora oggi, 89 anni dopo, non è uscita dai ricordi dei lunigianesi. La paura e il lavoro salvarono moltissimi di loro: qualcuno era già al lavoro nei campi, gli altri avevano dormito all’aperto, messi in allerta dalla prima forte scossa della sera precedente. Così i morti furono molti meno di quanti avrebbe potuto provocarne il terremoto, ma i danni per il patrimonio storico, architettonico e artistico furono enormi.

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ivizzano (il capoluogo e Sassalbo) e Casola in Lunigiana (il capoluogo, Vigneta e Regnano) furono i borghi più colpiti. In quei paesi il conto dei morti fu molto alto, i danni alle case immensi, il volto dei borghi fu stravolto. Scrissero i giornali dell’epoca: “Fivizzano non esiste più. Contro Fivizzano, località bella e ridente, la brutale forza della natura scagliò colpi furibondi. Non rimase più alcuna casa abitabile e quelle pochissime che restarono in piedi, al di sopra di spessi cumuli

di macerie, grazie ad un vero e proprio miracolo, riportarono lacerazioni e squarci talmente profondi che alla scossa successiva, nonostante leggerissima in quanto a intensità, rovinarono al suolo definitivamente. Tutta la popolazione rimase all’adiaccio, accampata in tende di fortuna...”

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Fivizzano il terremoto provocò 30 morti e 300 feriti ed il quasi totale crollo dei fabbricati del centro storico. E dalle cronache dell’epoca si scopre che i soccorsi non furono tempestivi ed “i poveri superstiti non hanno nè tende, nè viveri.”

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a ricostruzione di Fivizzano durò 10 anni. Nella ricostruzione molto spesso gli interventi non tennero conto dell’architettura di palazzi e chiese. Ancora oggi si lamenta l’inutile demolizione della chiesa di S. Giovanni fatta costruire dagli avi di Papa Nicolò V; di cui era crollata solo una parte del tetto, di un palazzo in Piazza Medicea, del Teatro degli Imperfetti, demolizioni che hanno stravolto l’assetto della città.

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a molti furono i morti in tutta la Lunigiana. I paesi di Sassalbo, Regnano, Vignetta, Luscignano e Montecurto furono trasformati in mucchi di rovine. Gravemente colpiti anche Comano, Camporaghena, Ceserano e Torsana. A Villafranca, Merizzo e Fornoli gli edifici furono in parte distrutti o resi inabitabili. Morti anche a Virgoletta. Terrore e panico a Pontremoli, dove caddero molti comignoli e l’edificio più colpito fu la Chiesa della Misericordia dove sprofondò parte del soffitto e danneggiò l’organo.

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anni si registrarono anche a Casacorvi, nelle varie cappelle del Cimitero e a Valdantena. Un morto a Filattiera; danni alla chiesa e alla canonica di Rocca Sigillina nonché a Mochignano e Pieve di Bagnone.

Nella foto: i primi soccorritori a Reusa una frazione di Casola in Lunigiana guardano con totale stupore le rovine provocate dal sisma. La popolazione fu accolta per mesi in tende militari.


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“I fatti di Sarzana”

21 luglio 1921: quando i carabinieri spararono sui fascisti Le premesse e le conseguenze di un episodio che il regime definì un “eccidio” I titoli e i commenti de La Nazione di allora

L I fascisti locali erano capeggiati da Renato Ricci, un fedelissimo di Mussolini. Ricci rimase a fianco del Duce anche il 25 luglio 1943, quando fu votato l’ordine del giorno Grandi per le dimissioni del capo del governo.

o scontro tra i fascisti di Amerigo Dumini e i carabinieri del capitano Guido Jurgens, passato alla storia come “I fatti di Sarzana”, avvenne come è noto nel piazzale della stazione di Sarzana la mattina del 21 luglio 1921. Ma gli antefatti - con scontri e vittime quotidiane di estrema destra e di estrema sinistra un po’ in tutta Italia - vanno ricercati nei giorni precedenti, e di questo ci danno testimonianza le cronache dei giornali, compresa La Nazione. Il nostro giornale, all’epoca, non aveva ancora una sua cronaca di Sarzana - dove operava come corrispondente saltuario un professionista del luogo, l’avvocato Leopoldo Ferrarini - e non era, al contrario di oggi, il più diffuso nel litorale alto toscano tra la Versilia e la Spezia, ma i suoi redattori compresero che stavano maturando eventi gravidi di conseguenze. Lo dimostra il titolo di prima pagina dell’edizione di martedì 19. Titolava dunque La Nazione: ‘’Tragica domenica nel sarzanese - sette morti, oltre venti feriti e numerosi arresti in seguito alla spedizione punitiva dei fascisti di Carrara’’.

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in quella domenica che vanno ricercate le radici di quanto avvenne in seguito, e quelle radici stanno in una

“spedizione punitiva dei fascisti di Carrara”. Quei fascisti che erano capeggiati dal ”ras” locale Renato Ricci, in seguito esponente di spicco del regime, irriducibile sostenitore di Mussolini (fu uno di coloro che il 25 luglio 1943 votarono contro l’ordine del giorno Grandi al Gran Consiglio).

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icci, rientrato dall’impresa di Fiume, guidava sin dalla primavera le imprese squadristiche delle camicie nere in tutta la Lunigiana, da Pontremoli a Sarzana, per quella che egli chiamava “operazione di risanamento” contro le forze politiche di sinistra che dal 1920 amministravano Sarzana con il sindaco Pietro Arnaldo Terzi. Il 15 luglio, a Tendola di Fosdinovo, era stato ucciso un anziano liberale di simpatie fasciste, Pietro Procuranti, di Fivizzano. I funerali si svolsero la domenica mattina, presenti un gran numero di camicie nere al comando di Ricci. Al ritorno, lungo la strada della Cisa, essi compirono numerose violenze, con tre morti a Monzone (dove era previsto un comizio degli anarchici), due a Santo Stefano Magra (tra cui un vecchio esponente del partito popolare di Sturzo) ed altri due nei pressi di Sarzana: un comunista ed uno degli stessi fascisti. Si arriva così al numero

di sette morti riferito dal giornale. Proseguendo verso Carrara, gli uomini di Ricci fecero per entrare a Sarzana, ma i carabinieri della locale tenenza, al comando del tenente Nicodemi mossero loro incontro in buon numero e li dispersero. Ricci venne arrestato e rinchiuso a Sarzana nel carcere della Cittadella.

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i arriva così alla nuova spedizione punitiva del 21 luglio, questa capeggiata da Dumini alla guida di diverse centinaia di fascisti di tutta la Versilia e dell’area Massese. Lo scopo dichiarato è quello di liberare dal carcere Renato Ricci. I fascisti arrivano in treno a Sarzana poco prima delle cinque del mattino, ma trovano il capitano Jurgens con i suoi carabinieri (e alcuni soldati di fanteria di stanza in città) che li blocca all’ingresso del viale (oggi viale XXI Luglio) che portava verso le carceri. I carabinieri, come è noto, sparano e mettono in fuga i fascisti, che si sbandano anche per la campagna, dove alcuni saranno a loro volta uccisi da uomini di estrema sinistra. È il 21 luglio, e l’eco di questa vicenda si sparge rapidamente. Il giorno dopo La Nazione titola, sempre con grande evidenza in prima pagina come gli altri giornali. ‘’I particolari dell’orrendo eccidio di

Sarzana - numerosissimi fascisti uccisi e feriti - barbarie comunista - i feriti torturati - treni assaliti - il terrore rosso ‘’. Qui, come si vede, il giornale tende a sottovalutare non solo la gravità della spedizione punitiva fascista, ma anche il fatto che a sparare per difendere l’ordine pubblico - siano stati i carabinieri. Viene usata la parola “eccidio”, e proprio questa (“L’eccidio di Sarzana”) sarà l’espressione usata dal regime per tutto il ventennio Oltre a ciò, il giornale (ma un po’ tutti i giornali, segno di un clima che in pochi giorni già era cambiato) mette l’accento sulla “barbarie comunista” e sul “terrore rosso”... Per molti storici è il segno che anche nel mondo imprenditoriale ed editoriale non si voleva calcare la mano contro i fascisti

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el resto, il 23 luglio 1921 (sabato) il titolo principale del giornale sposta apertamente l’attenzione sulle conseguenze politiche generali dei fatti di Sarzana: “Altre ripercussioni dei fatti di Sarzana alla Camera”. Non c’è ancora un aperto sostegno al fascismo, e men che meno alle sue violenze, ma la ricerca di una via d’uscita rispetto alla grave crisi italiana e, nel contempo, il tentativo di evitare che le violenze delle camicie nere finissero per portare nuove simpatie al fronte opposto delle sinistre massimaliste.

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ome è noto, l’amministrazione democratica di Sarzana pagò lo scotto della vicenda del 21 luglio venendo sciolta d’autorità nel giro di un anno (prima ancora della marcia su Roma), mentre il sindaco Terzi, costretto a trasferirsi a Sestri Levante, sarà poi deportato a Mauthausen, dove morirà alla fine del 1944. Anche il capitano Jurgens fu presto trasferito dal comando della compagnia dei carabinieri di Spezia.

Una spedizione punitiva guidata da Dumini con centinaia di fascisti arrivati da tutta la Versilia e da Massa voleva liberare dal carcere Renato Ricci. Un capitano dei Carabinieri si oppose sparando alle camicie nere.


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Vizzardelli: storia e delitti di un serial killer sedicenne Cinque vittime e una condanna all’ergastolo fra il 1938 e il 1939 Poi, una volta libero, il suicidio: si tagliò la gola nel 1973

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ggi cercando su Google notizie di Giorgio William Vizzardelli si apre una serie di siti tutti dedicati ai serial killer e alla storia del crimine. Allora, fra il gennaio 1937 e il dicembre 1938, i suoi delitti gettarono nel panico Sarzana.

Nella foto: il collegio Casa delle Missioni dove il giovane Vizzardelli uccise il rettore Don Umberto Bernardelli con tre colpi di pistola al petto.

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iorgio William, il killer di Sarzana, era nato nel 1922 a Francavilla al Mare, figlio del direttore del Registro Guido Vizzardelli. Una passione per la distillazione dei liquori e le armi da fuoco, Al Capone come mito. Uccise per la prima volta, quando aveva solo 14 anni, don Umberto Bernardelli, rettore del collegio Casa delle Missioni dove frequentava la scuola di avviamento con tre colpi di pistola in pieno petto. E durante la fuga, spara anche due colpi mortali contro Frate Andrea Bruno, il guardiano del collegio, che lo aveva riconosciuto.

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ue delitti che disorientano la polizia e le indagini non riescono ad ingranare. Viene subito arrestato un giovane, ma gli inquirenti sono costretti subito a liberarlo: ha un alibi di ferro. Da Mussolini riceve le scuse ed un risarcimento di 25 mila lire per l’errore. I delitti dei frati sono ancora impunti quando la paura riesplode a Sarzana più di un anno dopo.

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il 20 agosto 1938 ed a Ghiaia di Falcinello, alle porte di Sarzana, vengono ritrovati in un torrente i cadaveri del barbiere ventenne Livio Delfini e del tassista Bruno Veneziani, di 35 anni, uccisi con due diverse pistole. una calibro 9 e una calibro 7,65. Mussolini convoca il capo della polizia che si occupa del caso e lo incita a compiere indagini serrate. E il 29 dicembre dello stesso anno viene trovato morto Giuseppe Bernardini, di 75 anni, custode dell’Ufficio del Registro. È stato ucciso a colpi di accetta e dalla cassaforte dell’ufficio, aperta senza segni di effrazioni, manca-

no 12.949 lire e 35 centesimi.

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quest’ultimo delitto a tradire Giorgio William Vizzardelli portando gli inquirenti al direttore dell’Ufficio e quindi al figlio sedicenne che la sera del delitto era rientrato molto tardi. Nelle sue tasche gli investigatori troveranno la chiave della cassaforte ricoperta di sangue rappreso e questo lo convincerà a confessare tutti e cinque i delitti commessi.

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ella sua confessione, Vizzardelli spiega con incredibile freddezza di aver ucciso il custode del Registro perché voleva scappare in America e aveva bisogno di soldi. Il barbiere aveva scoperto l’omicidio dei due frati, perciò lo ricattava, il tassista era un testimone involontario come Don Andrea. “Don Andrea non lo avrei ucciso se non mi avesse riconosciuto” dichiara pacatamente Giorgio. Don Umberto Bernardelli lo aveva invece schiaffeggiato

per aver bruciato delle carte geografiche e doveva pagare per questo. Vizzardelli scampa alla pena di morte solo perché non ancora maggiorenne. Il processo si apre il 19 settembre 1940 e il 23 settembre si chiude con la condanna all’ergastolo. Giorgio diventa così il più giovane ergastolano d’Italia.

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egli anni ‘60 è stata chiesta per lui la grazia, concessa poi dal Presidente Saragat, che afferma: “Vizzardelli è socialmente recuperabile”. Esce così di prigione il 29 luglio 1968, dopo avere scontato 28 anni tra carcere e manicomio, ma il 12 agosto del 1973 viene trovato morto nella sua abitazione: si è tagliato la gola e un braccio con un coltello da cucina e si è lasciato morire dissanguato. Pare che la sera prima abbia assistito ad un programma sui serial killer.

Guido Vizzardelli commise i suoi cinque delitti quando aveva tra i quattordici e i sedici anni. Era figlio del direttore dell’ufficio del registro. Si tratta di uno dei primissimi casi di serial killer in età adolescenziale.


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Mussolini: “Siamo in guerra” E un pazzo spara ad Angelo Lucri Prima di sparare l’assassino pronunciò la frase : ‘N po’ per un ‘n braciu a la ma’ La vittima era un noto e stimatissimo medico

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artedì 11 giugno 1940 la prima pagina della Nazione, come quella di tutti i quotidiani italiani, era interamente occupata dal grande titolo, dai servizi e dai commenti relativi al discorso con cui, la sera prima, Benito Mussolini, dal balcone romano di Palazzo Venezia, aveva annunciato la discesa in guerra dell’Italia, con la celebre frase “La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia”.

IL delitto di Angelo Lucri rimane ancora oggi privo di movente. Unica ipotesi il fatto che l’assassino, a suo tempo curato dal dottor Lucri, covasse un rancore per l’operato del medico.

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enne quindi necessariamente confinata nelle pagine interne - anche per la ritrosia della censura di regime a dare enfasi alla cronaca nera - la notizia di un singolare fatto di sangue avvenuto a Sarzana, proprio in concomitanza con l’annuncio del Duce. Anche a Sarzana, come in tutta Italia, i responsabili del partito fascista avevano convocato i cittadini nella piazza principale della città per ascoltare, via radio, il discorso di Mussolini. Così, nel tardo pomeriggio di quello che era stato, comunque, un giorno di lavoro come tanti altri, la piazza Vittorio Emanuele si era lentamente riempita di una folla incuriosita ma anche preoccupata degli eventi che, ormai si sapeva, il Capo del Governo avrebbe preannunciato.

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ussolini iniziò a parlare alle 18 in punto, e il suo discorso, di circa settecento parole, durò meno di un quarto d’ora. Dopo gli applausi e le grida di consenso che vennero anche dalla folla sarzanese, più o meno convinta, la piazza cominciò lentamente a svuotarsi, e le persone presenti a defluire verso le proprie abitazioni. Fu a quel punto che dalla parte alta della piazza Vittorio Emanuele, a fianco dei portici che conducono

verso il Torrione San Francesco, si udì netto il rumore di due colpi di rivoltella, subito accompagnati dalle grida delle persone più vicine. Un uomo, colpito dai proiettili, giaceva a terra privo di vita, mentre il suo assassino, con in mano l’arma fumante, fu udito distintamente pronunciare le parole di un antico proverbio dialettale: ‘N po’ per un ‘n brazu alla ma’, “Un po’ per uno in braccio alla mamma”. La vittima non era una persona qualunque: a 74 anni di età, infatti, il dottor Angelo Lucri era uno dei sarzanesi non solo più conosciuti ma anche stimati ed amati dalla popolazione tutta.

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llievo dei due grandi chirurghi Agostino Paci e Giuseppe Tusini, Lucri era stato per diversi decenni, a partire dal trasferimento a Pisa del Tusini nel 1920, il primo chirurgo e direttore dell’ospedale di Sarzana, contribuendo a farlo ammodernare, specie nelle apparecchiature, e a dargli una fama che il nosocomio di San Bartolomeo si sarebbe portata dietro nel tempo. Anche Lucri, come tanti sarzanesi, aveva ascoltato in piazza il comizio di Mussolini, e quando venne ucciso stava rientrando nella sua casa, lì vicino. L’assassino, subito bloccato dalla folla e consegnato ai carabinieri, risultò infermo di mente. Era sta-

to in precedenza un paziente di Lucri e, forse, come talora accade, aveva maturato una forma insana di risentimento nei confronti del medico che lo aveva curato.

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a notizia della dichiarazione di guerra, forse, lo aveva ulteriormente sconvolto, spingendolo ad un gesto di vendetta del tutto assurdo, tanto più accompagnato da quel

proverbio in dialetto, gesto di vendetta che costò la vita ad una illustre personalità di Sarzana. Il giorno dopo i giornali andarono a ruba, La Nazione compresa, nelle edicole sarzanesi. Non è dato sapere se più per la volontà di leggere nel dettaglio le notizie sulla guerra ormai dichiarata oppure per saperne di più sulle tragica fine di un medico cui tutti volevano bene...


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Erano cinque copie (invedute) e con Ruggeri divennero 5mila Come La Nazione si impose a Sarzana fino a diventare il primo giornale per vendite e prestigio L’arrivo della pagina della Lunigiana e del giovane Enzo Bucchioni

Nel tondo in alto: Ovidio Ruggeri, primo corrispondente da Sarzana con un giovane Gustavo Masseglia. Nel tondo in basso: Ovidio Ruggeri con gli alunni di una scuola elementare. Fra gli altri compiti del corrispondente era anche quello di spiegare ai giovani l’incredibile mestiere del gionalista.

lettori. Ma c’era anche il gossip, come si direbbe oggi. Ruggeri era un cronista dal grande fiuto, aveva capito che il suo compito era trasferire al lettore la sua grande curiosità innata. L’immediatezza diventò un altro dei suoi segreti, con la televisione ancora all’inizio e la radio nazionale che non si occupava certo delle notizie locali, c’era solo un modo per essere informati: la Nazione di Sarzana.

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utte le mattine dal finestrino del vagone postale del treno proveniente da Pisa lanciavano sul marciapiede un pacchetto destinato al giornalaio della stazione di Sarzana: cinque copie de La Nazione, il giornale di Firenze. La sera quel pacchetto riprendeva la strada del ritorno e poi del macero. Non ne vendeva una copia e il giornalaio era un po’ seccato per quel lavoro fatto a vuoto: anche se era il suo mestiere non riusciva a capire chi avesse avuto la brillante idea di diffondere in Liguria un giornale toscano. Poi un giorno, di buon’ora, si presentò all’edicola un giovanotto sarzanese sui trent’anni che il giornalaio conosceva di vista, e quei cinque giornali se li comprò tutti. La storia andò avanti per giorni e giorni, poi quelle copie diventarono dieci, venti, cinquanta, cento e le compravano tutti, non più solo quel signore che di nome faceva Ovidio, di cognome Ruggeri e di professione l’informatore de La Nazione da Sarzana e Val di Magra. Era il 1958. La Nazione all’epoca era un quotidiano in forte espansione, per merito di un grande diretto-

re come Enrico Mattei e delle sue polemiche politiche aveva varcato gli autorevoli confini della Toscana per affermarsi come un importante giornale nazionale, pur continuando a radicarsi sul territorio con le cronache locali. L’espansione aveva già portato a sfondare i confini regionali con l’apertura di una pagina di cronaca della Spezia e di un ufficio di corrispondenza, sbarcare anche a Sarzana, seconda città della provincia, all’inizio era una conseguenza logica. Alla fine si rivelò vincente.

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vidio Ruggeri riempiva mezza pagina di Cronaca di Sarzana e della val di Magra, sulla testata c’era scritto così, e lo faceva alla sua maniera, quasi pionieristica. Su una bicicletta nera, pesante e sgangherata, (non prenderà mai la patente) Ruggeri girava in lungo e in largo la “sua” zona per farsi raccontare tutto quello che era successo o stava succedendo. E non gli sfuggiva nulla. Dentro quella mezza pagina ci finiva la cronaca nera di tutta la vallata, cronaca viva che in poco tempo attirò sempre più

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invenzione della locandina per strillare le notizie vicino all’edicola fu un’altra idea vincente. Ruggeri allo scrivere preferiva parlare, riferire alla redazione centrale di Firenze. Il telefono diventò la sua arma micidiale anche se lui il telefono in casa non ce l’aveva. Usava il “posto pubblico” alle Poste dove due volte il giorno, alle sedici e alle venti, lo aspettava la “Fissa”, una telefonata proveniente dall’ufficio dimafoni di Firenze dove un disco registrava tutto quello che Ruggeri dettava. Poi un redattore riascoltava e trasformava le sue notizie in articoli per la pagina di Sarzana. Quando succedeva qualcosa dopo l’ultima “Fissa” della giornata, Ruggeri si buttava sul primo telefono pubblico per chiedere alla centralinista la famosa “telefonata in partenza da Firenze”, a carico del ricevente. Poi arrivarono i gettoni e qualche tempo dopo La Nazione installò il telefono a casa di Ruggeri. Il passo successivo, visto il successo di vendite, fu il passaggio dalla mezza pagina alla pagina intera e l’apertura di un ufficio. Era il 1960. Allora il giornale di Firenze scoprì di essere diventato un punto di riferimento per la città tanto che ci fu una gara per ospitare

gli uffici della Nazione. Il conte Picedi Benettini volle la redazione nel suo storico palazzo di via Mazzini e quella fino al 1989 fu la casa del giornale. Già, il giornale. La Nazione era talmente familiare, considerata un qualcosa di casa o di famiglia, che non veniva neppure chiamata per nome, ma era semplicemente “il giornale”, l’unico riconosciuto, apprezzato e letto nella zona. Alla richiesta “mi dia il giornale”, qualsiasi giornalaio sapeva benissimo di dover vendere La Nazione.

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l fascino del mestiere di giornalista attirò molti giovani studenti e professionisti attorno a Ovidio Ruggeri, alcuni continuarono poi il mestiere altrove, altri collaborarono a far crescere la qualità e la quantità della cronaca locale e sono ancora oggi in redazione come Giovanni Bertocchi. La redazione fu dotata gra-


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La redazione di Sarzana fu inaugurata nel 1960 e la cronaca locale occupava lo spazio di una pagina. Nel 1977 nacquero le cronache della Lunigiana.

Giornalisti per caso o per passione di Emanuela Rosi

dualmente dei primi congegni moderni per trasmettere le notizie a Firenze, dai telecopier alle teletrasmissioni con telescrivente per finire al fax prima dell’avvento dei moderni computer.

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uelle famose cinque copie diventarono cinquemila in pochi anni, fu un successo clamoroso. Tanto clamoroso che nel 1977 il direttore Sensini decise di allargare l’esperimento riuscito in val di Magra alla vallata confinante: la Lunigiana. Dal primo ottobre di quell’anno le pagine di cronaca diventarono due, una dedicata a Sarzana-val di Magra e un’altra alla Lunigiana. Ad affiancare Ruggeri venne inviato Enzo Bucchioni, un giovane giornalista della redazione della Spezia che si era già distinto per capacità e voglia di fare. Oggi, dopo una brillante carriera, è vicedirettore del Quotidiano Nazionale, ma questa è un’altra storia.

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a redazione di Sarzana ebbe nuovo impulso, le pagine diventarono quattro, le copie arrivarono a toccare le ottomila vendute. Bucchioni divenne presto il caposervizio, furono assunti altri giovani giornalisti come Franco Antola, anche lui destinato a un’importante carriera nel gruppo editoriale, capo della redazione di Siena, i part-time Gianni Bertocchi e Carlo Galazzo, ed Emanuela Rosi, attuale responsabile della redazione.

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el 1989, per ospitare l’ingresso delle tecnologie e la figura di un operatore tipografico come Roberto Valerio, già giornalista collaboratore, al fine di rendere la redazione completamente autonoma nella fattura del giornale La Nazione si è trasferita nei locali di via Picedi 17, inaugurando la prima di una serie di modernissime redazioni locali.

Nella foto grande: la redazione di Sarzana e della Lunigiana quando ormai la Nazione si era imposta come primo giornale della zona. Da sinistra Enzo Bucchioni, Franco Antola, Carlo Galazzo e Ovidio Ruggeri.

Giornalisti si poteva, e forse si può ancora, diventare per caso. Ma un vero giornalista lo è per passione, una passione alimentata da una curiosità inesauribile, dall’ostinazione di voler sempre arrivare al “cuore” delle notizie dopo averle liberate dagli orpelli, dalla convinzione che questa professione sia una specie di missione: informare per aiutare a costruire, migliorare, crescere. È quella che non ti fa guardare l’orologio, ti fa superare l’impossibilità di dare programmazione e orari alla tua vita privata. La passione non si insegna ma si può trasmettere. E la fortuna di un giovane giornalista è trovarsi al fianco di “vecchi” giornalisti veri. Quello era Ovidio Ruggeri che, superata la difficoltà di fidarsi allora (22 anni fa) di una giornalista donna in erba, riuscì a rendermi partecipe della sua passione, alimentata ogni giorno malgrado l’impresa di adeguarsi ad un mondo dell’informazione in evoluzione rapidissima, sia nei mezzi tecnici che nei contenuti. Mi insegnò il valore di una notizia, la caparbietà di inseguirla fino in fondo e non lasciarsene sfuggire una, l’orgoglio di difendere le scelte editoriali, di rappresentare La Nazione, il senso della responsabilità. Una lezione professionale che Enzo Bucchioni, allora caposervizio, ampliò e integrò con l’umiltà di mettersi sempre in discussione, di scrivere con la stessa serietà l’annuncio di poche righe per una nuova laurea come un’inchiesta giornalistica o uno “scoop”; l’umanità che, sola, ti consente di raccontare tragedie personali con la consapevolezza di entrare in vite vere che meritano rispetto assoluto, di dover dare un senso a quel racconto; l’ideale di avere in mano uno strumento capace di dare voce a chi di solito non viene ascoltato, di rendere evidenti piccoli e grandi problemi con la speranza di aiutare a risolverli. Poi Franco Antola aggiunse le sue qualità: la serietà, la competenza, il rigore. Mi auguro che le lezioni di quanti mi hanno preceduto lavorando perché La Nazione fosse la voce autorevole dei cittadini di Sarzana, della Val di Magra e della Lunigiana, e di quanti mi affiancano oggi nel lavoro quotidiano siano servite davvero. Spero che quegli stessi cittadini ci aiutino a migliorarla sempre, a farla diventare sempre più la loro voce. La redazione è sempre stata e sarà sempre aperta a tutti.

Nel 1989 La Nazione si trasferì dal Palazzo di via Mazzini in via Picedi al numero 17 dove si trova ancora oggi (nella foto l’attuale redazione).


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A Natale un “Presepe senza Stella” Così Sarzana mantenne il seminario La protesta “garbata” ma efficace contro il vescovo di La Spezia nel 1964 E a Giovanni Bertolla “prudevano le dita”

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a sera di Natale 1963, come sempre, il vescovo della Spezia celebrò a Sarzana la messa pontificale, nella cattedrale (allora si chiamava ancora così) di Santa Maria Assunta. Monsignor Giuseppe Stella – secondo vescovo della Spezia dopo che monsignor Giovanni Costantini, veneto come lui, vi aveva trasferito la sede diocesana nel 1929 – non era un presule particolarmente amato, ma nemmeno inviso ai sarzanesi, e la chiesa, quella sera, era piena di gente. Molti anche i sacerdoti, i canonici e i seminaristi che affollavano il presbiterio.

Giovanni Bertolla, presidente dell’Azione Cattolica e nostro collaboratore raccontò la vicenda nel giornale satirico “Strinà”.

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a la predica del vescovo fu, per i presenti e più in generale per tutti i sarzanesi, una vera doccia fredda. Monsignor Stella partì infatti, com’era naturale, dal commentare l’evento salvifico del Natale, ma poi se ne discostò per dare all’uditorio un annuncio del tutto inatteso: il trasferimento del Seminario vescovile diocesano dalla sede antica di via Mascardi a Sarzana (risalente alla fine del Cinquecento: uno dei primi seminari dopo la fine del Concilio di Trento, che ne aveva disposto l’istituzione) alla Spezia, in una sede tutta nuova che sarebbe stata edificata ai Colli, in posizione soleggiata e panoramica.

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na doccia fredda, abbiamo detto. Che qualcosa fosse nell’aria, i più addentro alle cose della diocesi, preti in particolare, lo avevano capito da tempo. A Spezia si parlava di una sottoscrizione per il seminario in occasione del ventennale della presenza in città del vescovo (gennaio successivo), ma nessuno si immaginava che il vescovo avrebbe dato l’annuncio a Sarzana proprio in occasione del suo Pontificale di Natale, e la cosa non fu preso affatto bene. Del resto, già il trasferimento della diocesi, nel 1929, fece registrare violente reazioni, a Sarzana, dove anche gli anticlericali riscoprirono il proprio campanilismo per difendere la presenza di un vescovo. Allora ci fu persino chi minacciò di passare armi e bagagli alla…

concorrenza, ovvero alla fede della religione protestante, e per rabbonire il clero locale in subbuglio monsignor Costantini dovette nominare vicario generale un sarzanese tutto d’un pezzo (monsignor Luigi Accorsi), cancelliere vescovile un altro sarzanese (monsignor Ferruccio Casabianca), ed insignire infine del titolo di protonotaro apostolico, che comportava nelle cerimonie l’uso della mitra e dei guanti proprio come un vescovo, l’arcidiacono del capitolo monsignor Luigi Riccobaldi.

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rentacinque anni dopo, l’annuncio che anche il Seminario sarebbe andato a Spezia sembrò quindi la riproposizione di una ferita mai del tutto sopita. Un nuovo e forse definitivo “oltraggio”. Il giorno dopo, 26 dicembre, i giornali non uscirono, ma il 27, che era venerdì, le cronache locali ripresero la notizia con grande evidenza (La Nazione le dedicò l’apertura della sua pagina locale, pur senza particolari commenti), facendola divenire oggetto dei più svariati commenti in tutti gli ambienti cittadini.

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onsignor Dino Faccini, che era il parroco della cattedrale, pur amareggiato, chiese a tutti i cattolici – in particolare a quelli che si mostravano più “focosi”, come il sindaco di un tempo Bernardo Tamburi – un atteggiamento di basso profilo, che però non voleva dire rinuncia, anzi…

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osì, nei giorni successivi, non ci furono se non caute lettere di protesta sul giornale (al contrario di quanto probabilmente avverrebbe oggi), ma il fuoco, come si dice, covava sotto la cenere. Lo stesso Faccini, nei mesi seguenti, andò più volte a Roma, investendo della questione, a quanto risulta, importanti ambienti del Vaticano. E non senza risultato, se un anno e mezzo dopo, a metà settembre 1965, proprio da Roma venne un annuncio sorprendente: il papa Paolo VI aveva nominato monsignor Luigi Maverna (pre-

sule destinato in seguito ad una prestigiosa carriera ecclesiastica) vescovo ausiliare della Spezia con l’incarico specifico di rettore del Seminario e con residenza a Sarzana (così nel bollettino ufficiale della Santa Sede). Qualcuno, oggi, potrebbe dire che monsignor Stella, con quella nomina, veniva di fatto “commissariato”, e proprio per la gestione del Seminario. Non solo, ma Sarzana tornava ad avere un vescovo residente, sia pure “ausiliare”.

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averna, a fine 1966, andò poi vescovo a Chiavari, ma il Seminario, come è noto, a Sarzana c’è ancora, e di costruirne uno nuovo alla Spezia oggi davvero nessuno parla più. I giornali, come detto, riferirono la notizia dell’omelia di Stella in modo asciutto, senza troppe polemiche. Ma a qualcuno, battendo sui tasti della “lettera 22”, cioè della macchina da scrivere del tempo, certo prudevano le dita. Questo qualcuno era Giovanni Bertolla, cattolico “doc”, presidente dell’Azione cattolica della cattedrale e collaboratore

della Nazione. E alla fine Bertolla non resistette, approfittando di uno dei giornali umoristici che, al tempo, venivano pubblicati a Sarzana in occasione delle feste. Così, l’edizione 1964 dello “Strinà” (“Lo strinato”) aprì con un editoriale scritto da lui, che aveva questo titolo, quanto mai significativo: “Presepe senza… Stella”…


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Fiamme fra le canne sul Vialone Il delitto rimarrà un mistero L’assassinio del dottor Cesare De Ponti nel luglio del 1968 La vittima era un professionista lombardo forse in vacanza dalle nostre parti

Il delitto del Vialone rimane un mistero nella cronaca nera della Val di Magra. Nonostante accurate indagini non è mai trapelato il pur minimo indizio dell’assassino.

Il Vialone, che unisce Sarzana a Marinella (nella foto) era stato inaugurato cinque anni prima del delitto. In anni recentiè stato più volte teatro di episodi di violenza.

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el luglio 1968, mentre le cronache nazionali dei giornali continuavano a parlare della contestazione giovanile dilagante da un capo all’altro dell’Atlantico, della difficoltà di dare un governo all’Italia dopo le elezioni di primavera e della guerra in Vietnam, quelle sarzanesi - La Nazione compresa - furono per molti giorni dominate dalle notizie relative ad un delitto rimasto senza un colpevole: l’assassinio del dottor Cesare De Ponti (ma qualche giornale scriveva Deponti).

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ra già estate quando la notte del 23 luglio, il comando dei carabinieri dell’allora tenenza di Sarzana venne allertato perché dal vialone di Marinella, in una stradina sterrata in mezzo alle canne, non lontana da Bradio-

la, si vedevano divampare alte fiamme, fiamme che non lasciavano presagire nulla di buono. Mancando allora a Sarzana una caserma dei vigili del fuoco (motivo questo di ripetuti articoli di protesta sulla cronaca locale de La Nazione firmati da Ovidio Ruggeri e dai suoi collaboratori), vennero fatti intervenire quelli di Carrara e della Spezia.

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n effetti, le fiamme avevano avvolto quella che era ormai la carcassa di un’auto di grossa cilindrata, nel cui interno i pompieri trovarono il cadavere ormai carbonizzato di un uomo di mezza età, che risultò essere quello di un noto dentista e radiologo lodigiano, probabilmente in vacanza sul litorale sarzanese, appunto il dottor Cesare De Ponti, di 56 anni.

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carabinieri, titolari dell’indagine, accertarono quasi subito trattarsi di un delitto, e non di un suicidio o meno ancora di un incidente, del resto assai improbabile in quel luogo e a quell’ora di notte. L’autopsia, effettuata all’obitorio dell’ospedale di Sarzana, accertò che il poveretto – che era completamente vestito al posto di guida (e l’auto era la sua) -, era stato stordito con un corpo contundente, probabilmente un bastone, e poi colpito con un pugnale, verosmilmente dalla stessa persona che poi aveva dato fuoco alla vettura.

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on si trovarono tracce di alcun genere, ed anche il movente rimase sempre sconosciuto. De Ponti, nel Milanese, era una persona abbastanza nota, tanto che per

alcuni giorni vennero a Sarzana a seguire il caso anche alcuni inviati di quotidiani lombardi. Ma, pur scavando nella sua vita, né giornalisti né inquirenti trovarono indizi anche labili che consentissero di portare sulle tracce dell’assassino o degli assassini, e il caso rimase irrisolto.

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a detto che, negli anni seguenti, le strade sterrate che corrono nella campagna tra Sarzana e Marinella sono state spesso teatro di episodi di cronaca, magari legate a vicende di prostituzione, femminile o maschile. Ma, in quel tempo (il vialone era stato inaugurato solo cinque anni prima), nulla del genere si era mai verificato, e la tragica fine del De Ponti suscitò in tutta la Val di Magra notevole impressione.


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È il 1968 e crolla, in “diretta” il secolare ponte sul Magra Il corrispondente Ruggeri riuscì a dare la notizia, per telefono, mentre osservava il crollo dei piloni. L’opera fu ricostruita nel 1972

Nel tondo in alto: l’onorevole Giuseppe Niccolai che rivolse per primo una interpellanza parlamentare sulle cause del crollo. A suo giudizio i motivi andavano ricercati negli incontrollati prelievi di sabbia dal letto del fiume.

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iovedì 31 ottobre 1968 su Sarzana e la Val di Magra aveva piovuto ininterrottamente per l’intera giornata, e già cominciava il tradizionale “rosario” della segnalazione dei danni. Sulla strada tra l’Aurelia e il centro storico di Arcola, ad esempio, incombeva pericolante il muro di cinta del cimitero e il sindaco aveva disposto la chiusura della strada stessa, rendendo così il capoluogo comunale raggiungibile solo provenendo da Baccano. Ma il peggio doveva ancora venire.

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Sarzana, il corrispondente della Nazione, l’instancabile Ovidio Ruggeri, aveva “chiuso” come di consueto la pagina di cronaca poco prima dell’ora di cena, ma, telefonando le ultime “brevi di nera” a Firenze, si era premurato di avvertire il capo della redazione “Province” che qualcosa poteva ancora cambiare nell’impaginazione. Tornando dal pronto soccorso e passando, come di consueto, per piazza Matteotti, Ruggeri aveva ascoltato infatti il racconto allarmato di alcuni autisti della

Brun Caprini provenienti da Spezia e da Lerici (il cui capolinea era proprio nella piazza, davanti al Comune): la pioggia insistente gonfiava fuor di misura le acque del fiume Magra, divenute vorticose come non mai, e transitando sul ponte stradale di Romito, via di comunicazione fondamentale tra il Sarzanese ed il resto della provincia, si sentiva un rumore sordo, con l’acqua che batteva sempre più forte contro i piloni in muratura, e non sembrava promettere nulla di buono.

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osì, Ruggeri non si sorprese più di tanto quando, poco dopo le 20, venne avvertito che tecnici e cantonieri dell’ANAS avevano poco prima deciso, per precauzione, di chiudere al traffico il ponte. A Battifollo le auto dirette a Spezia o a Lerici venivano fermate e rimandate indietro: gli unici percorsi alternativi restavano i lunghi giri da Fiumaretta (ponte della Colombiera, molto recente e quindi ancora solido) oppure da Albiano Magra, Ceparana e il

Buonviaggio. Nessuno poteva immaginarselo, ma quei lunghi giri sarebbero stati gli unici collegamenti stradali con l’altra sponda del fiume per circa due mesi, sin quasi a fine anno.

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quel punto, saltando la cena (come ai cronisti di un tempo capitava spesso di fare), Ruggeri era tornato in redazione, attaccandosi al telefono, e spedendo il fotografo del giornale, che era il “mitico” Castagna, a cercare di fotografare nella notte qualcosa del ponte e dei suoi dintorni. Così, la notizia del crollo arrivò in redazione a Sarzana quasi in tempo reale, e Ruggeri non ebbe neppure il tempo di meravigliarsi troppo di un evento così inatteso. L’intera pagina fu rifatta in un battibaleno, con l’apertura tutta incentrata sul crollo del ponte poco più che centenario Le precauzioni assunte dai tecnici dell’ANAS avevano impedito danni alle persone, ma il crollo di quel manufatto fu un evento straordinario, e per settimane

sarzanesi e romitesi, tra gli altri, andarono sul posto ad “ammirarne”, si fa per dire, le rovine accumulatesi sul fondo del fiume. L’11 novembre successivo la vicenda approdò in parlamento, con una interrogazione presentata al ministro dei lavori pubblici dal deputato del MSI on. Giuseppe Niccolai. Niccolai, anticipando polemiche che sarebbero durate anni, e che durano ancora, chiedeva se fosse vero che il crollo era stato causato “dagli incontrollati prelevamenti dal letto del fiume Magra di rena e ghiaia, da parte delle ditte che costruiscono la E 1 (cioè l’autostrada tirrenica).

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olo a fine dicembre collegamenti stradali poterono essere ripresi grazie all’installazione, da parte dei soldati del genio pontieri di Piacenza, di un cosiddetto “Ponte Bailey”, in ferro, collocato al fianco di quello caduto. Solo a metà 1972, invece, sarebbe stato inaugurato il nuovo ponte stradale vero e proprio, cioè quello attuale, dopo lunghissime discussioni nei competenti consigli comunali di Sarzana e di Arcola tra coloro che lo volevano più spostato a valle, cioè più vicino a Romito, o più invece spostato a monte, verso il ponte nuovo della ferrovia, come poi in effetti avvenne.

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a quel 31 ottobre 1968 sarebbe stato comunque ricordato a lungo, in Val di Magra. Allora, dai paesi anglosassoni, non era ancora stato importato l’uso di festeggiare, con Halloween, la notte detta “delle streghe”. Ci fosse stato, quell’uso, la tradizione, in quella notte di tregenda, sarebbe parsa davvero più veritiera…

La notizia del crollo del Ponte arrivò in redazione a Firenze appena in tempo perché fosse possibile rifare totalmente la pagina. Fortunatamente il crollo non coinvolse le persone.


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1969 - 2009

Compie 40 anni l’autostrada che ci ha collegati all’Europa Nel 1969 l’inaugurazione del primo tratto tra Fornovo e Selva del Bocchetto Ma se ne parlava già nel 1951

appennini, si riteneva urgente diporre di un migliore collegamento fra il nord e il centro Italia attraverso la realizzazionre di un progetto di valico della Cisa. Alla legge Aldisio seguì la Romita (21 maggio 1955 n.463) che impegnava lo Stato a varare con il sistema delle concessioni un programma di costruzioni autostradali.

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l Comitato promotore si era sciolto e al suo posto era nata una società per azioni denominata “Autocamionale della Cisa per la direttissima MilanoRoma-Mezzogiorno s.p.a.”. Un obiettivo che fu poi ridimensionato dai programmi dell’Iri che costruì l’ “Autostrada del Sole”.

di Natalino Benacci

La Cisa come collegamento tra la Val Padana e il Tirreno ha una vocazione antichissima. Da qui passarono eserciti, papi ed imperatori.

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Autocisa compie 40 anni. Arrampicato in mezzo all’Appennino questo nastro d’asfalto nasce come un itinerario moderno copiato dalla storia delle comunicazioni nell’antichità. Là dove passarono eserciti, imperatori, papi e pellegrini è stato creato un “lungo ponte” in grado di collegare il centro Italia con l’Europa.

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en pochi itinerari possono vantare le vocazioni storiche della Cisa come via di valico tra la Padania e il Tirreno. Il primo tratto Fornovo-Selva del Bocchetto fu inaugurato il 2 agosto del 1969. Poi gradualmente nel giro di cinque anni l’arteria appenninica fu completata. L’idea promotrice, nata nei primi mesi del 1947, puntava solo a realizzare un’autostrada di valico da Fornovo a Pontremoli,

simile alla Genova-Serravalle Scrivia. Tuttavia la proposta lanciata dalle forze economiche parmensi e portata avanti dai maggiori enti pubblici delle tre province di Parma, Massa Carrara e La Spezia, assieme ai comuni e alle Camere di Commercio e agli istituiti bancari lombardi ed emiliani, ebbe successo e fu costituito un comitato promotore che curò una raccolta di fondi per realizzare uno studio completo sulle prospettive tecniche ed economiche affidato all’ingegner Aimone Jelmoni di Milano.

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er sensibilizzare il governo sulla necessità di realizzare l’opera fu organizzato nell’ottobre del 1951 a Salsomaggiore un convegno . Al termine fu approvato un ordine del giorno in cui si affermava che, essendo insufficienti le condizioni della viabilità sui valichi

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l progetto di massima dell’Autocisa fu approvato dall’Anas e il 22 settembre del 1958 il ministro Togni e l’allora presidente dell’Autocamionale Marco Visentini firmarono l’atto di concessione che prevedeva un contributo statale del 32,90%, che valeva 14 miliardi. Nel gennaio del 1962 vennero affidati i lavori alle imprese, ma già sin dal primo anno ci si rese conto che le previsioni economiche sarebbero state superate. L’esecuzione delle opere incontrò infatti notevoli difficoltà nel tratto Fornovo-Roccaprebalza dove movimenti franosi resero inutile la costruzione di gallerie e manufatti. I lavori furono addirittura sospesi: per continuare era necessario sottoscrivere con lo Stato una nuova convenzione. Fu un convegno nazionale organizzato a Roma il 20 maggio 1965 a sbloccare la strada per la firma di una nuova convenzione che arrivò il 21 marzo 1968 per tutti i 101 chilometri dell’autostrada: costo complessivo presunto 93,5 miliardi. Da quel momento i lavori ripresero a grande ritmo.

I

tempi di apertura al traffico dei singoli tratti furono i seguenti: Fornovo Selva del Bocchetto (11,4 km) 2.8.1969; Autosole-Fornovo (22,5 km) 21.11.1971; FornovoGhiare (8,3 km) 21.11.1971; Pontremoli-Autostrada Ligure Toscana (25,2 km) 14.5.1972; Tugo-Montelungo (10 km) 24.6.1972; Roccaprebalza-Tugo (3,4 km) 25.5.1973; Ghiare-Roccaprebalza (5,8 km) 27.7.1974; Montelungo-Pontremoli (14.4 km) 24.5.1975.

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apertura al traffico dell’intera autostrada avvenne il 24 maggio 1975. La lunghezza complessiva dell’arteria dal raccordo con l’Autosole sino a S.Stefano Magra è di 101 km, con 18 gallerie della lunghezza complessiva di 7,5 km, 96 ponti e viadotti (19 km).Le gallerie maggiori sono quelle del valico lunga 2.040 metri e del Cucchero (1.130 metri), il viadotto più alto è quello di Rio Verde (146 m.) che precede il ponte di Roccaprebalza (100 m.).

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er la costruzione dell’autostrada occorsero: 2 milioni e mezzo di giornate lavorative, 13 milioni e 400 mila metri cubi di scavi all’aperto, 1 milione e mezzo di metri cubi di scavi in galleria, 2 milioni e 300 mila metri cubi di calcestruzzi. Gli accessi intermedi all’arteria dalla viabilità ordinaria sono sei: Parma Ovest, Fornovo, Ghiare, Berceto, Pontremoli, Aulla. Le aree di servizio sono 8 (Medesano, Tugo, Montaio, San Benedetto) sui due sensi di marcia. Migliaia di operai e di tecnici hanno lavorato alla realizzazione di quest’opera per anni mettendo spesso a rischio la propria vita. In tragici incidenti di lavoro sono morti dodici operai.

L’apertura al traffico dell’intera autostrada avvenne nel maggio del 1975. L’arteria ha una lunghezza di 101 chilometri con 18 gallerie e 96 fra ponti e viadotti (nella foto).


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Bertolla: così vive (così muore) un vero poeta e giornalista Lo scrittore che seppe interpretare l’anima di Sarzana ci lasciò nel 1994, a 62 anni Una ricca produzione lirica e tanti articoli esemplari

di Egidio Banti

Nel tondo: Giovanni Bertolla. Il nostro collaboratore, assieme a Corrado Martinetti, seppe interpretare nelle sue liriche l’anima di Sarzana.

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9 gennaio 1994, ore 7 del mattino. Nell’alba fredda del primo dei giorni della merla, un uomo esce di casa, barcolla, e si accascia privo di vita su una delle banchine del viale della Pace, a Sarzana. Il suo nome è Giovanni Bertolla. Non ha ancora 62 anni. Con lui lascia questo mondo uno dei maggiori poeti che Sarzana abbia avuto nel Novecento. Il più grande, forse, insieme a Corrado Martinetti. In realtà , però, egli fu molto di più che un poeta, fu un “personaggio” di Sarzana nel senso più ampio e più completo del termine, davvero singolare nella ricchezza prorompente della sua umanità.

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anto che - quindici anni dopo - ancora i sarzanesi la sentono viva, come si è visto all’inizio di giugno nell’incontro “Nostalgia di un amico” promosso proprio per ricordarlo al “Loggiato” di Gemmi. Giovanni apparteneva alla famiglia mode-

sta ma operosa di un barbiere di via Mazzini, Oreste Bertolla, che, tra non pochi sacrifici, volle farlo studiare sino alla laurea in giurisprudenza. Per sbarcare il lunario e mantenersi agli studi, il giovane, la sera, staccava biglietti al cinema Italia e scriveva articoli per le cronache locali. Ecco. Articoli. Il giornalismo è stato infatti, con la poesia, l’altra grande passione nella vita travagliata di Giovanni Bertolla, benché, per motivi “burocratici”, egli non sia mai riuscito ad iscriversi all’Ordine dei giornalisti.

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Sarzana, negli anni Cinquanta, erano molti i giovani universitari che si misuravano nelle collaborazioni giornalistiche, molto diverse dai tempi di oggi, senza telefonini né fax, né computer né videocamere. Si scriveva battendo sui tasti della gloriosa “Lettera 22” della Olivetti, con nastri che presto si consumavano, diventando bianchi, tanto che, mancando il ricambio, si doveva ricorrere al... trucco della carta carbone, affinché qualcosa restasse impresso sui fogli, rigorosamente di carta velina (che costava meno). Le redazioni sarzanesi erano proliferate, nella stagione della rinascita democratica del dopoguerra. La Nazione - con la quale (anche se non solo con quel giornale) Giovanni collaborò a lungo, aveva dato avvio attorno alla metà degli anni ‘50 alla pagina quotidiana di “Cronaca di Sarzana”, con una prima sede in via Mazzini, a fianco del palazzo Massa Neri. Solo in seguito si spo-

stò dall’altra parte della strada (e della piazza della cattedrale).

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uando Ovidio Ruggeri, il popolare “Marangon”, che ne era il redattore, dovette partire per il servizio militare (era il 1956), l’onere di reggere la cronaca passò per parecchi mesi proprio al “non giornalista” Giovanni Bertolla. Del resto, di quell’epoca di giornalismo locale che potremmo definire “bohemien”, Giovanni fu a lungo uno degli eroi eponimi, con la sigla tradizionale e conosciutissima con cui licenziava i suoi pezzi migliori: “Bigio”.

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criveva di tutto, e su tutto, dai resoconti allora corposi dei consigli comunali (consigliere comunale egli lo fu anche per un solo mandato, dal 1956 al 1960, nelle file della DC) alle partite di calcio, che lo vedevano tifoso acerrimo e critico impietoso appuntarsi le azioni principali di gioco sugli spalti di un “Miro Luperi” privo di tribuna stampa; dalle brevi di nera, conquistate quasi come uno scalpo guerriero sottratto alla concorrenza nei locali del pronto soccorso, alle cerimonie cittadine, civili o religiose che fossero.

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onsiderò sempre un grande onore - una volta che la Sarzanese di Orrico approdò alla serie D - l’essere investito del ruolo di corrispondente unico della mitica “Gazzetta dello Sport”. Anche se (come in un film triste di Chaplin) tutto si riduceva, la domenica sera, nell’invio telefonico di un pezzo di... striminzite quindici righe, che Giovanni scriveva di getto, a fine partita, spesso ancora appollaiato sui gradini dello stadio, proprio come una delle sue poesie “dell’istante”. La telefonata alla Gazzetta, poco dopo, era una specie di rito solenne, celebrato quasi sempre all’interno della redazione della Nazione, che lo “ospitava” per la

bisogna: “Signorina, mi passi per favore gli stenografi della Gazzetta dello sport in partenza da Milano. Corrispondente Giovanni Bertolla”!

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el 1972 una grave malattia, seguita al dolore per la morte della madre Nella e ad un periodo di forti turbamenti, sembrò mettere fine a tutto ciò. Ma si riprese e, com’era nel suo carattere, rilanciò alla grande. Non solo riprendendo le collaborazioni quotidiane ai giornali locali, ma dando vita con spericolate acrobazie per chiudere i conti - ad una rivista mensile, “Lunigiana”, che voleva “esportare” in tutto il territorio della nostra “regione mancata” dal passo della Cisa al mare alto versiliese - la ricchezza storica ed umana che egli avvertiva come propria di Sarzana. La “ripresa” registra - anche come reazione alla malattia - l’impennata della produzione poetica, con i numerosi libri che vengono pubblicati (sempre collegati ad iniziative benefiche), le critiche favorevoli che sono numerose, la simpatia della città che gli si stringe attorno.

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a fatica del vivere, però, si fa sentire, e negli anni Novanta appare sempre più in difficoltà, benché le sue attività di sempre, e soprattutto la poesia e il giornalismo, non vengano meno. Come ricordava Franco Antola nel necrologio sulla “Cronaca di Sarzana”, “lui , con quel suo innato senso del pudore, cercava di esibire solo l’aspetto più allegro del suo carattere. Ma i suoi disturbi si accentuavano e spesso spariva dalla circolazione, per riapparire solo a crisi superata. “Sono stato poco bene”, diceva. E tornava ad essere per tutti “Bigio”, spirito libero e poeta scanzonato”. Nella notte prima di quell’alba maledetta, ancora, sulla vecchia macchina da scrivere, aveva scritto versi ai quali affidava la sua umanità e, quella notte, il suo testamento.

Bertolla, che spesso si firmava con lo pseudonimo di Bigio. Pur collaborando con molti quotidiani e riviste, non riuscì mai ad iscriversi all’Ordine dei giornalisti.


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La guerra di Ca’ Gaggino: un’oasi di verde salvata dai rifiuti foto: Massimo Pasquali

Un Presepe di lattine, il Gabibbo e due torrette di osservazione La Nazione al fianco dei cittadini

Nella foto: una delle innumerevoli manifestazioni contro la discarica. Nel tondo: all’interno del “presidio antidiscarica” si legge La Nazione, il quotidiano che fu a fianco della protesta popolare.

di Emanuela Rosi

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odici anni dopo Ca’ Gaggino è ancora una delle tante piccole valli verdissime che si nascondono tra le colline della Lunigiana. Forse solo il nome di una delle infine “case sparse” per la maggior parte degli stessi lunigianesi. Ma Ca’ Gaggino è stata per un anno e mezzo il simbolo della lotta contro le discariche, contro lo sfruttamento del territorio in nome dei rifiuti, contro la prepotenza della politica, contro le decisioni prese a tavolino a dispetto dei cittadini. Doveva essere una discarica Ca’ Gaggino, per tutti i rifiuti di Massa Carrara.

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o aveva deciso la Provincia, con il benestare dell’assemblea dei sindaci lunigianesi,

e le rilevazioni della provincia: li hanno fermati con i trattori, rubati per un giorno al lavoro dei campi. Contro quella scelta non erano stati altrettanto efficaci, fino a quel momento, né i ricorsi giudiziari né l’ironia: il presepe fatto di lattine e bottiglie vuote, carta e plastica, nel centro del paese, le calze della befana per i bambini fatte di sacchetti per i rifiuti, la calza da Guinness ecologica appesa al campanile di Quercia. Poi sono arrivate le magliette “I love Ca’ Gaggino”, diventate divisa di una lotta d’amore e di valori. Cinque giorni dopo venne il Gabibbo forte di un e la rivolta di Quercia progetto allora arrivò alla ribalta nazionale. Ma definito “all’avanguardia”. Loro, ancora si credeva fosse un fuoco gli abitanti di Quercia, Bondola, di paglia: presto la protesta Bigliolo, Vaccareccia, e tante altre sarebbe scemata, gli abitanti si piccole frazioni, hanno detto no, sarebbero rassegnati (come semsono saliti sulle barricate il 9 gen- pre), i progetti “sovracomunali” naio del 1996, ne sono scesi solo sarebbero andati avanti in nome a giugno dell’anno dopo, quando di ragioni superiori. la stessa Provincia si è rassegnata a fare marcia indietro. Ha sospeso a lì a Ca’Gaggino gli gli espropri e cercato alternative abitanti della verde Lulasciandosi aperta la possibilità nigiana hanno cancellato di tornare sui propri passi, una tutta la teoria, spazzato via i scappatoia. Non lo ha mai fatto, in pregiudizi, demolito ogni convinrealtà. Ca’ Gaggino è ancora l’“oa- zione sull’incapacità dei cittadini si verde” che gli abitanti hanno di solidarizzare per un obiettivo salvato dai rifiuti. comune con più forza dei politici. La resistenza degli abitanti di essuno il 9 gennaio creCa’ Gaggino è durata un anno deva che la lotta contro e mezzo, coltivata dentro due la discarica di Cà Gaggino baracche trasformate in “torretpotesse durare tanto. Quel giorno te” di osservazione con stufette dovevano cominciare i sondaggi a legno per combattere il freddo,

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campane al posto delle trombe per suonare l’adunata dell’esercito anti-rifiuti. Erano riusciti a trovare il tempo, tra il lavoro e la famiglia, per organizzare turni di guardia senza vuoti, veglie infinite, lunghe notti insonni con le antenne sempre in funzione nel timore di inaspettati blitz per espropri forzati e partite a carte ad ammazzare il tempo e la tensione. Hanno portato sacchi di rifiuti in municipio, bloccato le strade, si sono scontrati con le forze dell’ordine, hanno resistito ai tecnici e politici.

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i cittadini si sono uniti gli studenti, i ragazzi, hanno dato la loro solidarietà i commercianti, i lavoratori e i pensionati, al loro fianco ci sono state le associazioni ambientaliste ed i giornalisti, tra cui Monica Gabrielli e Gloria Penso, corrispondenti de La Nazione.

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ella baracca di Vaccareccia l’“esercito” antirifiuti ha festeggiato il Natale, poi il Capodanno e il primo compleanno del comitato il 10 gennaio del 1997, ha continuato a combattere con trattori e carte bollate, dividendosi fra barricate e aule giudiziarie. Un anno dopo i paesi in lotta erano venti, i vigilantes anti-rifiuti migliaia, divisi tra la capanna-caserma di Vaccareccia e quella di Olivola, presidi invalicabili sulle uniche due strade che avrebbero potuto far passare i camion carichi di spazzatura a Ca’Gaggino.

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giugno la guerra di posizione era vinta. Di Ca’ Gaggino dieci anni dopo non si parla più. Di discariche nella verde Lunigiana sì. E il “caso” spazzatura è tutt’altro che chiuso.

La protesta contro la discarica si è espressa per anni attraverso presidi e battaglie legali. Oggi, dopo dieci anni di lotte, di Ca’ Gaggino come discarica non se ne parla più.


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