La Nazione 150 anni LIVORNO

Page 1

1

www.lanazione.it

150 ANNI di STORIA ATTRAVERSO LE PAGINE DEL NOSTRO QUOTIDIANO

SUPPLEMENTO AL NUMERO ODIERNO A CURA DI

Livorno


2


3

sommario 4 7 9

11 13 15 17 19 20 23 24 27 29 30

Livorno città risorgimentale tradita più volte dai “patrioti” Livorno invasa dai bagnanti: quando il mare è una tavola blu da La Nazione del 7 gennaio 1876 L’epopea dei contadini livornesi emigrati fino in Nuova Zelanda da La Nazione del 28 luglio 1890 Scusi, ma che ore sono? da La Nazione del 10 aprile 1877 Stivaletti, ventagli, e parasole Ecco la moda estiva da Parigi da La Nazione del 14 aprile 1882 I tramway? Sono un pericolo E la folla li assale e li incendia da La Nazione del 17 marzo 1883 Scende in mare la Lepanto L’Italia ha una nuova corazzata da La Nazione del 16 marzo 1891 Livorno, la città radicale: novanta arresti e una guardia uccisa da La Nazione del 15 -19 gennaio 1921 Tra risse e colpi di pistola nasce il Partito Comunista da La Nazione del 10 novembre 1971 Precipita un Hercules alla Meloria muoiono 46 uomini della Folgore Le teste di Modì? A scolpirle siamo stati noi col Black & Decker Un trionfo per la Folgore ed Angioni che tornano dalla missione a Beirut Moby Prince: 140 morti sulla nave (e ancora tanti misteri da svelare) Quella prima partita di calcio giocata sui prati del Soccorso

Supplemento al numero odierno de LA NAZIONE a cura della SPE

LIVORNO

150 anni di storia attraverso le pagine del nostro quotidiano.

Non perdere in edicola il terzo fascicolo regionale che ripercorre, attraverso le pagine de La Nazione, la storia fino ai nostri giorni e i 17 fascicoli locali con le cronache più significative delle città. In copertina: Pietro Coccoluto Ferrigni, giornalista e scrittore, noto con lo pseudonimo di Yorik. Nato a Livorno nel 1836, studiò legge e divenne avvocato, ma si sentiva più giornalista. Collaborò a lungo con La Nazione.

Direttore responsabile: Giuseppe Mascambruno Vicedirettori: Mauro Avellini Piero Gherardeschi Direzione redazione e amministrazione: Via Paolieri, 3, V.le Giovine Italia, 17 (FI) Hanno collaborato: Marina Marenna Antonio Fulvi Lorenzo Gremigni

Progetto grafico: Marco Innocenti Luca Parenti Kidstudio Communications (FI) Stampa: Grafica Editoriale Printing (BO)

Pubblicità: Società Pubblicità Editoriale spa DIREZIONE GENERALE: V.le Milanofiori Strada, 3 Palazzo B10 - 20094 Assago (MI)

Succursale di Firenze: V.le Giovine Italia, 17 - tel. 055-2499203 I fascicoli sono sfogliabili on line su www.lanazione.it


4

LIVORNO CITTÀ RISORGIMENTALE TRADITA PIÙ VOLTE DAI “PATRIOTI” Ecco perché i labronici ebbero nell’Ottocento fama di “rivoluzionari” Da Yorik le migliori corrispondenze per il giornale che Ricasoli volle far nascere nel 1859

rito a Firenze, a togliere alla città labronica, nel 1868, le franchigie doganali del porto franco. Fu un crollo economico assolutamente prevedibile. E solo in parte, col tempo, si riuscì a superarlo con l’arrivo della industria di Stato ed in particolare coi cantieri navali, affidati agli ingegneri Orlando, i nobili siciliani che avevano appoggiato Garibaldi nella sua impresa. Poi, nel 1881, l’arrivo dell’Accademia Navale che portò nuovo prestigio e benessere alla città labronica.

Yorik, seguendo la tradizione che era stata di Collodi e di Ferdinando Martini, all’inizio di ogni estate inviava le sue cronache dai luoghi delle vacanze.

S

i ha un bel dire che Livorno fu una città ribelle e radicale, che le rivoluzioni erano sempre in agguato, che a mala pena l’esercito unitario riusciva a tenere a bada le masse nella seconda metà dell’Ottocento. Basta scorrere la storia della città di quel periodo per capirne i motivi. I tradimenti continui che subì. La rabbia comprensibile della sua gente. E infatti nel 1849, durante i moti risorgimentali che portarono alla cacciata del Granduca Leopoldo, Livorno si proclamò repubblica autonoma e fu l’ultima città toscana a capitolare contro gli austriaci che restaurarono il Granducato col compiacimento del barone Bettino Ricasoli.

A

nzi, fu proprio Ricasoli all’epoca gonfaloniere dei Lorena, che suggerì a Leopoldo II di punire la città

ribelle, togliendole la sua originaria circoscrizione provinciale e riducendola così al solo comune labronico e all’Isola d’Elba. Così, quando Leopoldo lasciò Firenze e quindi il trono, nel 1859, e proprio il Ricasoli divenne il capo del Governo provvisorio Toscano, i livornesi dovettero far buon viso al nuovo arrivato. E generosi come sempre, non rinunciarono affatto alle proprie idee, tanto che nel maggio del 1860 in oltre cento si unirono alla spedizione dei Mille, e nel mese di giugno altri 800 raggiunsero Garibaldi in Sicilia. Quindi la storia di Livorno seguì di pari passo quella del Regno d’Italia, e ciò nonostante che Livorno fosse sempre stata mazziniana, e quindi repubblicana. Ma un nuovo tradimento era in agguato. E infatti, fu proprio l’Italia Unita e il governo che nel frattempo da Torino si era trasfe-

E

bbene, con queste premesse, quali rapporti poteva avere Livorno con La Nazione, nata nel luglio del 1859 per volontà di Ricasoli? Può anche sembrare strano, ma fin dall’inizio il quotidiano fiorentino si diffuse in città. E le cronache da Livorno erano le più frequenti ad apparire sul foglio di Ricasoli, potendo contare su vari corrispondenti. Il primo fra i quali era Pier Coccoluto Ferrigni, livornese appunto, che si firmava Yorik e che divenne presto una delle firme più amate dai lettori, tanto che trascorreva più giorni a Firenze che a Livorno. La sua prosa ironica, infatti, piaceva sia ai fiorentini che ai livornesi, con ciò a dimostrare che, nonostante le apparenze, le due città sono più simili di quanto si pensi.

E

dunque, fin dalle origini, e ininterrottamente fino ad oggi, La Nazione fu un giornale apprezzato dai livornesi. Ma come era successo che in una sola notte, per volontà appunto di Ricasoli, quel foglio fosse nato fino a diventare il più antico fra giornali italiani che mai hanno cessato per lunghi periodi le pubblicazioni?

L

a storia è nota. L’11 luglio del 1859, nel pieno della seconda guerra di indipendenza, quando le truppe franco piemontesi avevano vinto battaglie di rilevanza enorme, come quella di Solferino, e già si pensava come invadere e liberare il Veneto, all’improvviso francesi ed austriaci firmarono un armistizio ed i Savoia non ebbero la forza per opporsi. La notizia dell’armistizio arrivò a Firenze nel pomeriggio del 13 luglio e i patrioti si riunirono in Palazzo Vecchio dove regnava la rabbia, il caos, la voglia di reagire ma anche un profondo senso di impotenza. E l’unico che dimostrò di avere le idee chiare, ben al di là della logica, delle possibilità offerte dalla diplomazia, si rivelò Ricasoli che non poteva a nessun costo accettare quanto stava accadendo.

E

infatti, lui guidava un governo toscano provvisorio con l’unico scopo di arrivare al plebiscito per l’annessione al Piemonte, e se fossero tornati i Lorena tutto sarebbe crollato. Sotto il profilo politico ma anche sotto il profilo personale. Così, dimostrandosi in quelle ore il vero artefice del Risorgimento, ancor più dello stesso Cavour che in qualche modo aveva gettato la spugna, Ricasoli spedì due ambasciatori a Torino e a Parigi per tentare di modificare le cose. Ma nello stesso tempo mandò a chiamare tre patrioti fiorentini, il Puccioni, il Fenzi ed il Cempini, che a suo tempo avevano proposto di stampare un quotidiano in appoggio alle posizioni del governo toscano, e disse loro: “È arrivato il momento, per domattina voglio il giornale.” E a niente valsero le timide proteste dei tre che, comprensibilmente, face-

Il quotidiano di Ricasoli uscì il 14 luglio con un formato ridotto e senza l’indicazione dello stampatore. Fu solo con il 19 luglio del 1859 che venne distribuito (anno I° numero 1) il primo numero ufficiale.


5

vano notare come fossero già le nove di sera e come non sarebbe stato facile mettere insieme i testi e farli comporre in poche ore. Ma Ricasoli insisteva “O domattina o mai più.” E dette anche il nome alla testata “La Nazione”, che era tutto un programma, anzi, era il programma.

Livorno era stata nel 1849 l’ultima città toscana a cedere agli austriaci che restaurarono il Granducato dei Lorena.

P

uccioni, Fenzi e Cempini presero una carrozza e si fecero portare in via Faenza alla tipografia di Gaspero Barbera, un patriota piemontese, qui cominciò un lavoro frenetico a redigere i testi ed a comporli. Come nelle migliori tradizioni del giornalismo, redattori e tipografi lavoravano gomito a gomito. Un articolo non era ancora concluso e già la prima parte passava ai compositori. Un articolo non era del tutto composto – all’epoca non estivano le linotype ed ogni parola era composta a mano – e già si facevano le bozze per le correzioni della prima parte. Alle cinque del mattino Ricasoli si presentò alla tipografia, lesse le bozze e dette il consenso. Alle dieci, tirate pare in tremila copie, due pagine in mezzo foglio, oggi diremmo formato tabloid, erano in vendita nel centro cittadino. Si trattava di un’edizione senza gerenza, senza il nome dello stampatore, senza il prezzo, senza pubblicità. Praticamente un numero zero.

E

così si andò avanti fino al 19 luglio quando, finalmente, La Nazione uscì nel suo primo numero ufficiale, con formato a tutto foglio, le indicazioni di legge, i prezzi per l’abbonamento e per la pubblicità. Così, dunque, nacque il nostro giornale. Che conobbe i giorni fausti dell’Italia Unita, e poi quelli pieni di problemi, non solo economici,

in cui Firenze fu provvisoriamente capitale. Quindi la questione romana, la breccia di Porta Pia, e insomma tutte le fasi che con alterne vicende portarono alla nascita dello Stato italiano.

M

a fu proprio con Roma Capitale che La Nazione dovette modificare il proprio tipo di impegno. Che fare? Seguire il governo e il mondo politico fino a Roma, là dove si sarebbero svolte da allora in poi tutte le vicende, e prese le decisioni relative all’Italia? La domanda fu posta ed era più che legittima. Nessun altro quotidiano aveva il diritto di continuare le proprie pubblicazioni nella sede del regno e del governo italiano, più di quello che l’Italia aveva contribuito a farla nascere. Ma fu compiuta una scelta, che di certo non fu di tipo economico: restare. Restare a Firenze, restare in Toscana, accompagnare la vita della regione dove era nata, e dedicare sempre di più le proprie attenzioni anche alla vita quotidiana, a quella che oggi diremmo la cronaca di ogni giorno. Insomma, da grande foglio risorgimentale carico di tensioni ideali, a giornale come oggi lo intendiamo. Con rubriche dedicate alla moda, allo sport, con grandi spazi dedicati alla vita musicale e teatrale.

R

ese possibile questa scelta di obiettivi un grande direttore, Celestino Bianchi. Che seppe conquistare il pubblico femminile, interessare anche la media e piccola borghesia mercantile, ma soprattutto ri-

chiamare intorno al foglio di Ricasoli le migliori firme italiane del momento. Che, del resto, già erano presenti su La Nazione, fin dai primissimi anni. E allora ecco il D’Azelio e il Tommaseo, ecco il Manzoni e il Settembrini, e poi il Collodi, il De Amicis, Alessandro Dumas, Capuana, il Carducci e in seguito anche il Pascoli, ed infiniti altri. Grandi firme che sarebbero continuate durante il fascismo e nell’Italia repubblicana fino ad oggi. Da Malaparte a Bilenchi, a Pratolini, ad Alberto Moravia, a Saviane, a Luzi. Dopo aver ospitato Papini, Prezzolini, Soffici, e gran parte dei letterati delle Giubbe Rosse nel periodo che precede e che segue la grande Guerra.

F

u tra i primi giornali, La Nazione di Firenze, a porre sul tappeto il dramma del lavoro minorile, e a pubblicare le relazioni di Sidney Sonnino sulla condizione dei bambini, quelli del Nord Italia che a sette anni lavoravano anche 13 ore al giorno nell’industria della seta e quelli di Sicilia, costretti a starsene chini, senza luce né acqua, nelle solfatare di Sicilia. E ancora, quando si trattò di decidere se trasferirsi a Roma capitale, seguendo le sorti del governo e del re, la spiegazione data ai lettori fu questa.

“Noi non vogliamo che Roma attiri a sé tutta la forza intellettuale. Noi vogliamo che Napoli, Firenze, Bologna, Venezia, Milano, Torino, serbino la loro influenza legittima, portino il peso nella bilancia delle sorti politiche nazionali. Ogni regione ha elementi originali da custodire e nello stesso tempo è sentinella dell’Unità inattaccabile.” Una prosa intelligente, modernissima, attuale ancor oggi, 140 anni dopo.Un atteggiamento che La Nazione conservò anche in epoche ben diverse.

C

osì, durante il fascismo, pur costretta come tutte le testate a pubblicare le veline del MinCulPop, non per questo La Nazione si allineò mai totalmente al regime. Tanto da opporsi, allorché il Regime voleva imporre come direttori uomini di assoluta fede a Mussolini. E ospitare firme, come quella di Montale, il personaggio che per il suo antifascismo era pur stato “licenziato” dal Vieusseux. Uno stile, un modo di essere, che la premierà quando, pur con mille problemi tornerà alle pubblicazioni nel 1947.

Nei tondi in alto: una suggestiva immagine della Fortezza Medicea (in alto) e una litografia (in basso) che rappresenta il posizionamento di un cannone a Forte San Pietro.


6


7

Livorno invasa dai bagnanti: quando il mare è una tavola blu Le abitudini, i giochi, le conversazioni dei turisti arrivati da tutto il mondo sul nostro litorale Perfino gli inglesi ridono. Come distinguere durante il bagno un diplomatico da un prete Pier Coccoluto Ferrigni, arguto livornese che amava firmarsi Yorik, scrive per La Nazione del 1865 questa cronaca balneare della quale riportiamo alcuni brani.

I

bagnanti sono di tre generi, come i sostantivi nella lingua latina: mascolini, femminini Tra i primi stabili- e neutri. Il bagnante mascolino menti balneari in ha una sola inflessione in tutti i Italia trovano posto casi e in tutte le declinazioni... è i Bagni Pancaldi di quello che paga. Al nominativo Livorno. firma la scritta e paga il quartieInizialmente re; al genitivo paga per i figlioli uomini e donne dovevano usare due di cui lo hanno fatto padre zone diverse per la il codice civile, la moglie… e balneazione. compagni; al dativo paga pei capricci della consorte che non sa passare dinanzi a un magazzino di mode senza offrirsi un regaluccio purchessia... i regalucci mantengono l’amicizia. All’accusativo paga per l’amica che gli è venuta dietro non passibus aequis come Astianatte ad Enea, e che minaccia ogni giorno uno scandalo se non è contentata; al

vocativo come al nominativo per regola di grammatica; all’ablativo salda tutti i conti... i bagni finiscono… e il dabben uomo torna asciutto alla patria.

L

a bagnante femmina cambia invece l’inflessione caso per caso. O è maritata, e viene ai bagni perché c’è venuto l’amico che ha moglie e ci fu trascinato da lei che corre dietro a un amico ammogliato, e così via discorrendo. O è nubile e cerca marito. O è vedova e cerca un facente funzioni. O è ricca e ci viene per farlo sapere. O è povera e ci viene perché nessuno lo sappia. O è giovane e vuol vedere e farsi vedere, godere dello spettacolo e farsi spettacolo. O è vecchia e ha sentito dire che Diana de Poitiers mantenne la freschezza delle carni in grazia delle continue abluzioni...

I

bagnanti neutri sono le mamme che hanno una figliuola di diciott’anni, riposate e giubilate dalla galanteria per lunghi e fedeli servigi, i babbi, le letterate, i diplomatici, e il professor Barellai con relativi ospizi marini…

Q

uest’anni i livornesi hanno avuto un momenti di crudele incertezza. La notizia del “Cholèra” imperversante in Egitto avea fatto tremare il fiato in corpo... gli appartamenti preparati e rimessi a nuovo restavano vuoti come le casse dello Stato, gli stabilimenti de’ bagni deserti di visitatori… I facchini... i barcaioli, i ciceroni, i servitori di piazza camminavano per la città con gli occhi bassi e le braccia penzoloni…

P

oco a poco si dileguò la paura e Livorno prese quell’aria giuliva e spensierata che ti accade tanto di rado di vedere in tutto il resto dell’anno. Le nostre vie rigurgitano di forestieri e di paesani… Abbiamo degli inglesi tories e degli inglesi wighs... abbiamo degli americani unionisti che rinfrescano nel Tirreno la dottrina di Monroe… e degli americani separatisti che si consolano vedendo come chiunque sparisce per un momento sott’acqua trascinato dal peso del corpo e dalla violenza della caduta, torna a galla dopo poco e domina con la testa il flutto spumante… abbiamo dei

tedeschi di tutti i 36 stati della Confederazione con trentasei modi di vedere le cose….

T

utta questa gente ha una maniera di prendere i bagni tutta sua particolare… Gli inglesi nell’acqua paiono in casa propria… un inglese che ride è come un napoletano che sta zitto… ti mette paura di una congestione cerebrale… i francesi muovono gambe e braccia all’impazzata... i diplomatici fanno il morto o nuotano sott’acqua. I preti, i parlotti si fanno il segno della croce… entrano in mare, si nascondono dentro fino al collo e restano fermi come pini co’ i piè nella rena. Bisogna mettersi bene in mente queste sottili distinzioni per riconoscere al bagno le diverse figure che nel resto del giorno vi passano innanzi agli occhi perché il mare è un gran demagogo, un livellatore imparziale, un gran partigiano della fraternità e dell’uguaglianza...

Nel 1868 la città perse i vantaggi che le venivano dall’essere “porto franco”. Il turismo e i cantieri Orlando servirono a superare una gravissima crisi economica.


8


9

Nella foto grande: Partono i bastimenti. Gruppi di emigranti sulla coperta di una nave, affrontano la traversata dell’Atlantico in viaggio verso l’America.

da La Nazione del 7 gennaio 1876

L’epopea dei contadini livornesi emigrati fino in Nuova Zelanda Sono 166 e affronteranno un viaggio di 118 giorni. Chi muore in navigazione viene gettato in mare dentro un sacco. Ed ecco cosa aspetta gli emigranti una volta all’arrivo Né gli Stati Uniti né l’Europa. C’è, in questi giorni chi cerca fortuna nelle isole più lontane e misteriose, oltre l’Australia. Sono dei nostri concittadini. Quella che segue, riportata in ampi stralci, è la cronaca autentica di questo incredibile viaggio. A scriverla, in una lettera inviata ai propri familiari che La Nazione decise di pubblicare, è uno dei protagonisti della vicenda. New Zealand - Wellington

M

iei cari, partiti come sapete da Livorno il 22 giugno a ore 3 pom. Giungemmo ad Amburgo il sabato 26 a ore 10 di sera, tutti in buona salute: trovammo alla stazione una guida che ci condusse ad una locanda di cui non so dirvi il nome, ma abbastanza confortabile, ove incontrammo tutti i nostri paesani che erano partiti da Livorno il giorno avanti a noi. Ci fu immediatamente dispensato, per ogni individuo, il corredo di viaggio, consistente in una coperta di lana, due picccoli

lenzuoli, una bombola di latta, una boccalina, una gamella, un cucchiaino da caffè, e un astuccio contenente chucchiaio, forchetta e coltello, di qualità e forma piuttosto elegante, quindi un chilo di sapone. Terminata la dispensa degli oggetti ci fornirono da cena e dopo, ognuno ci coricammo, chè ne sentivamo bastevolmente il bisogno.

L

a mattina dopo ci fu servito il caffè e dopo ci fu passata una visita medica per constatare se tutti eravamo in grado d’intraprendere il viaggio di mare. La domenica del 27 giugno all’ore 1 pom. ci imbarcammo alla riva della fiumare dell’Elba in due grossi gozzi, e si lasciò la riva all’ore 6 e mezzo pom. accodati ad un vaporino da rimorchio per tutto il corso della fiumara che è di circa 80 miglia…

C

omponevasi la detta spedizione di 230 e più individui, cioè 116 livornesi, altri toscani e piacentini; sicchè calcolate che il numero maggiore resultava quello degli italiani. Il lunedì notte arrivammo a bordo

della nave prussiana Herschel a vela, costruita in ferro, comandata da un bravo capitano di lunga corsa, prussiano, con equipaggio e medico pure prussiano.

L

a mattina di martedì 29 giugno morì un bambino di un danese, che era stato portato a bordo affetto da male scrofolare, e nella stessa notte fu gettato a mare. Il 30 mercoledì si levò un gran mare di traverso, in conseguenza che furonvi molti travagli di stomaco... Il primo serio pericolo che passammo fu la Manica… e siccome era di notte, i piloti del porto fecero segnali con palloni luminosi. Il 4 agosto morì un italiano Piacenza… di anni 4, per male di petto in 8 giorni, e nella stessa notte fu gettato in mare involtato in alona e posto in un sacco. Eravamo poco distanti dall’Equatore… il 2 settembre altra cattivissima nottata, gran colpi di mare a bordo. Il giorno 3 settembre gran neve, intensissimo freddo, quindi pioggia dirotta. Il 7 setttembre, passato il Capo Buona Speranza… la notte del 9 settembre fu la più memorabile; il mare alzava

il bastimento ad una altezza spaventosa… Il 18 ottobre morì in tre giorni di male intestinale un bambino di due anni figlio di un livornese. Il 21 ottobre ci alzammo all’alba per l’ansia indescrivibile di veder terra; infatti la vedemmo, e vedemmo ancora diversi bastimenti e grossi pesci, e nello stesso tempo entrammo nel sinuoso stretto di Cook che separa le due grandi isole della Nuova Zelanda. Il 22 entrammo finalmente sani e salvi in questo sospirato porto di Wellington, Nuova Zelanda, e lo trovammo frequentato di molti bastimenti, i quali fanno un attivo commercio, il che conforta tutti noi che ci siamo portati fin qua allo scopo di farci una posizione con l’onesto lavoro.

I

l viaggio è durato cento diciotto giorni, e sarete desiderosi di sapere come si passava il nostro tempo. Si studiava, vi erano diversi individui che suonavano diversi strumenti, s’improvvisavano ricreazioni spesse volte, quando il mare lo permetteva, si ballava. Il cibo era abbondante.

I contadini livornesi furono tra i più numerosi nell’affrontare i pericoli dell’emigrazione. Come dimostra questa cronaca non esitarono a raggiungere perfino la lontanissima Nuova Zelanda.


10 Informazione Pubblicitaria

www.li.camcom.it

CAMERA DI COMMERCIO DI LIVORNO UNA ISTITUZIONE A SOSTEGNO DELLE IMPRESE • • • • • • • • • • • •

Raccolta e diffusione dati e informazioni economiche Contributi alle imprese, organizzazione manifestazioni espositive Sostegno al credito bancario Partecipazione a società di rilevante interesse per lo sviluppo economico locale Comitato per l’imprenditoria femminile Internazionalizzazione delle imprese Assistenza per la creazione di nuove imprese Conciliazione, arbitrato, clausole vessatorie nei contratti Protesti cambiari, metrologia legale, commercio estero, brevetti e marchi d’impresa Degustazione vini a D.O.C. Corsi per l’accesso agli albi abilitanti Tenuta del registro imprese e di albi, ruoli ed elenchi professionali

La Storia A Livorno la Camera di Commercio accompagna l’espansione della Città perché vanta una lunga storia: nata ufficialmente nel 1801, all’epoca in cui il Granducato di Toscana divenne Regno di Etruria, in realtà era già vivace punto di riferimento per gli scambi commerciali dalla metà del 1600, con nomi e funzioni diverse. Infatti Livorno - costituitasi in Città nel 1606 e popolata grazie alle leggi “livornine” che garantivano libertà di culto, di professione religiosa e politica a chiunque fosse stato ritenuto colpevole di qualsiasi reato (con alcune eccezioni, tra le quali l’assassinio e la “falsa moneta”) - divenne presto un vivacissimo porto dove si incrociavano mercanti di tutte le Nazioni, grazie anche all’istituzione del porto franco. L’edificio della Dogana (1648) nel quale ha sede la Camera accolse dagli ultimi decenni del 1700 mercanti e operatori per il cambio di monete e divise, e divenne il naturale punto di riferimento per la raccolta e la diffusione delle notizie di avvio, modifica e cessazione di attività commerciali. Il nuovo Stato italiano istituì nel 1910 l’obbligo di iscrizione delle ditte alle Camere di Commercio, mentre nel ventennio fascista gli enti camerali furono sostituti dai Consigli Provinciali dell’Economia. Ripristinata l’antica autonomia nel 1944, si aprì un nuovo periodo che ha portato l’istituzione, con significative novità e l’ampliamento dei compiti attribuiti, fino ai giorni nostri. Oggi più che mai la Camera è espressione delle imprese e si impegna a rendere competitivo il territorio, in sinergia con gli altri Enti.

L’attenzione al patrimonio documentale: l’Archivio storico L’Archivio della Camera di Commercio, con le sue sedicimila unità archivistiche, conserva i documenti che raccontano la storia dell’Ente. E’ stato ordinato e censito su supporto informatico ed offre ai ricercatori una fonte insostituibile per le più svariate ricerche storico-economiche. E’ del 2008 il volume “Antiche ditte livornesi” che mette in luce una piccola ma preziosa parte dell’archivio storico: quella che raccoglie gli estremi di oltre tremila fascicoli intestati ad altrettante ditte, che a partire dai primi anni dell’Ottocento scrissero lettere circolari alla Camera di Commercio per rendere pubblica la loro esistenza e segnalare variazioni della ragione sociale, modifiche o cessazioni di attività.

La Biblioteca La Biblioteca della Camera di Commercio è stata recentemente ristrutturata: negli ampi locali ospita migliaia di volumi, frutto di acquisti alle aste nazionali, di donazioni e della passione di illuminati amministratori del passato. I libri, non di rado rari e preziosi, trattano gli argomenti più diversi, storia e letteratura comprese, ma particolarmente nutrita è la raccolta di testi di natura economica, antichi e moderni. Grazie ad un’accorta politica di valorizzazione dei beni culturali, il patrimonio bibliografico della Camera è entrato a far parte del catalogo collettivo delle biblioteche che partecipano al Servizio Bibliotecario Nazionale (SBN), consultabile online.

LA CAMERA DI COMMERCIO A SOSTEGNO DELLA CULTURA, VOLANO INDISPENSABILE PER LO SVILUPPO ECONOMICO La Camera di Commercio di Livorno collabora attivamente con il mondo universitario: • dal 2006 la CCIAA cofinanzia il corso di laurea in Economia e legislazione dei Sistemi logistici, istituito dall’Università di Pisa a Livorno. Quello della logistica e dei trasporti costituisce uno dei settori strategicamente importanti, su cui si fondano molte delle aspettative di crescita economica del territorio • offre un contributo al Master in Sistemi informativi territoriali, promosso dal Polo scientifico e tecnologico PST BIC di Livorno in partenariato con il Dipartimento di Informatica e la Facoltà di Ingegneria a Pisa • sostiene il Master sulla gestione dell’alta qualità nella filiera

vitivinicola, promosso dal Comune di Cecina in partenariato con la Facoltà di Agraria dell’Ateneo pisano. La Camera di Commercio collabora con gli Enti locali per promuovere la cultura sul territorio: • è tra i sostenitori della Fondazione Teatro “Carlo Goldoni” di Livorno. • riconosce un contributo a importanti premi letterari come il “Castiglioncello” e “Isola d’Elba Raffaello Brignetti”. Attraverso l’Azienda speciale “Centro Studi e Ricerche”, la Camera di Commercio compie e rende disponibili analisi in campo economico e statistico.


11

da La Nazione del 28 luglio 1890

Scusi, ma che ore sono? I viaggi navali intorno al globo stanno creando il caos Un’ora identica in tutto il mondo o 24 ore, una per ogni meridiano? La disputa tra Greenwich e Gerusalemme

Il sistema dei meridiani fu definito per la prima volta nel 1888 alla conferenza di Washington. Occorsero invece vari decenni perché fosse scelto come meridiano iniziale quello di Greenwich.

Nel gennaio 1890 Nelly Bly, una giornalista americana, riuscì a concludere un avventuroso giro intorno al mondo in 72 giorni e 6 ore, battendo così il record ipotizzato da Verne nel famoso “Il giro del mondo in Ottanta giorni”. L’impresa ebbe una grande eco, a Livorno furono organizzati dibattiti sul tema, ma ancor più sulle sue conseguenze. E infatti, il grande problema per chi andava per mare, ancora in quei giorni, era fondamentalmente questo: “Ma che ore sono?” Domanda non da poco, che poteva mettere in difficoltà la stessa sicurezza dei naviganti, visto che le comunicazioni di eventuali pericoli, le richieste di soccorso, la stessa identificazione della latitudine dipendevano dal conoscere un’ora esatta. Due le tesi che si erano contrapposte per anni. Quella di chi sosteneva che nel mondo doveva esserci una stessa ora, universale, sempre e dovunque, così che il mezzogiorno di alcuni sarebbe stata la mezzanotte per altri. E quella, più complessa ma più razionale, proposta una prima volta dal canadese Sanford Fleming nel 1878, che divideva la terra in 24 meridiani, a distanze parallele fra di loro, ad indicare altrettanti passaggi del sole ad intervalli di un’ora. Nel 1888, in un congresso appositamente tenuto a Washington, fu deciso di adottare questo sistema per la navigazione internazionale. Ma da dove cominciare il conteggio? Gli inglesi e gli americani scelsero il meridiano di Greenwich. Ma molti si ribellarono e proposero Gerusalemme. La polemica andò avanti per decenni, tanto che la Francia dette ordine alle sue navi di regolarsi secondo Greenwich solo nel 1917, e la Russia lo fece due anni dopo.

L’

unificazione dell’ora è un problema al quale si va cercando una soluzione pratica. Ogni paese può facilmente compiere questa unificazione entro le sue frontiere, sostituendo, come ognuno sa, all’ora del tempo medio locale l’ora del tempo medio normale: stabilendo che l’ora delle ferrovie e dei telegrafi sia al tempo stessa quella della vita civile tutta intera. Ma se l’unificazione oraria interna è facile, quella esterna o internazionale è all’opposto molto difficile. Per raggiungere l’intento si propongono tre mezzi: l’ora locale assoluta; l’ora universale; i così detti fusi orari.

S

e avessi spazio per esaminare qui i primi due mezzi, dimostrerei facilmente che ambedue offrono tali e tanti inconvenienti da doversi addirittura rigettare, mentre il terzo mezzo sembra il solo attuabile. Ne dirò due parole. Il sistema delle zone o dei fusi orari è detto ancora americano, perché gli americani lo hanno per primi applicato nel loro vasto territorio. La Terra, secondo questo sistema, dovrebbe essere divisa in 24 strisce o zone, o fusi, avente ciascuno la sua ora normale, che differisce di un’ora precisa dall’ora normale del fuso precedente.

G

li americani hanno scelto per meridiano iniziale quello di Greenwich, di guida che le ore normali degli altri ventitrè fusi si trovano ad essere le ore locali dei 15°, 30°, 45°, 60° grado di longitudine ovest ed est partendo da Greenwich. Nel continente europeo avremo tre fusi, cioè quello A, quello B e quello C sempre partendo da Greenwich. Il fuso A comprenderebbe le Isole Britanniche, i Paesi Bassi, la Francia, la Spagna.

I

M

l fuso B la Scandinavia, la a si vorrà accettare da Germania, la Svizzera, l’Italia, tutti per meridiano l’Austria-Ungheria, la Servia. Il iniziale quello di Grefuso C la Polonia e la Russia fino enwich? That is the problem. a Mosca, la Romania, la Bulgaria, Ecco perché sarebbe altamente la Turchia europea, la Grecia. desiderabile che si riunisse al più presto una grande confei questi 24 fusi, 5 cadreb- renza internazionale per fissare bero nell’Oceano Pacifico, questo famoso meridiano, la cui 2 nell’Atlantico, e dei 17 ora diverrebbe per convenzione rimanenti 9 hanno già in pieno l’ora internazionale. La Confevigore le nuove ore normali. renza di Washington già citata, In due anni, cioè dal 1888, epoca alla quasi unanimità (22 stati della conferenza di Washington, sopra 25) scartò il meridiano il sistema dei fusi orari ha acqui- iniziale oceanico; si tratta quindi stato molto favore ed è genedi stabilirne uno continentale. ralmente preferito. Infatti esso facilita singolarmente la unifiAccademia delle scienze cazione oraria sul globo intero, di Bologna ha preso molto e semplicizza la coordinazione a cuore questa questione: delle date; il salto di un’ora che essa caldeggia, assieme al Goesso impone al contatto dei fusi verno italiano, la convocazione sarà facilmente accettato ed en- della sopraccennata Conferenza trerà nelle abitudini dei popoli, e l’adozione del meridiano contitanto più poi se si farà coincide- nentale di Gerusalemme. re con le frontiere politiche.

D

L’

Da quasi tre secoli Galileo ha finalmente dimostrato che la Terra gira intorno al Sole, e quindi le ore sono diverse, pur nello stesso istante, nelle varie parti del globo.


12


13

da La Nazione del 10 aprile 1877

Stivaletti, ventagli, e parasole Ecco la moda estiva da Parigi Infuriano i bottoni di madreperla, ma va forte anche la scarpa alla Maria Stuarda Consigli alle dame che frequentano i salotti e le spiaggie

Gli abiti femminili sono sempre più costosi e pesanti, gli accessori sono diventati indispensabili, la donna è agghindata come raramente lo fu in precedenza nella storia dell’abbigliamento. E l’occasione migliore per ostentare il proprio guardaroba, meglio se arrivato da Parigi erano proprio le vacanze al mare o alle terme, dove era concesso – anzi, auspicato – che avvenisse quanto in città, quotidianamente, era negato. Ecco dunque come E. Bilia – Mossi, esperta di moda per La Nazione, tratta il tema nella primavera del 1877, tanto caro alle signore che stavano per partire verso i lidi di Livorno

Fin dal 1870, La Nazione dedica particolare attenzione alla moda femminile. Oltre ad una rubrica settimanale vengono presentati disegni di modelli di abiti e di accessori.

M

antengo la mia promessa e vengo a parlare oggi dei cappellini, delle coistures e delle altre parti complementari dell’abbigliamento. L’anarchia che da qualche tempo si è manifestata fra i cappelli prosegue a regnarvi. Se ne vedono d’ogni foggia, dalle più semplici alle più complicate: dalle più artistiche alle più bizzarre.

L

a fantasia della modista può spaziare nei dominii del capriccio e della stravaganza. Cappellini di paglia d’Italia, che a rigore dovrebbe dirsi paglia di Toscana, non godono elevata posizione: la paglia nostrale è una regina decaduta e solo ammessa nell’elenco infinito delle paglie e delle fantasie che le imitano: Berlino, Monaco, la Svizzera fanno una concorrenza assai sensibile alla fabbriche inglesi e francesi in tale articolo. I colori nuovi, a base di giallo, si adattano egregiamente alla paglia nera, ed in generale favoriscono più le signore brune delle signore bionde. La moda pone in evidenza per la stagione un cappellino storico… almeno pel nome: il cappellino Enrico III: dico pel nome, perché sarà difficile stabilire un rapporto fra la forma e il colore di questo

grazioso modello e il cupo uccisore del Duca di Fuisa. Esso si fa in paglia o in tulle, ed è letteralmente coperto di fiori, dai quali si diparte una ricca piuma… Le capote estive sono di varie stoffe e di varie fogge: la stoffa che già accennai per l’abito Czartoriska e che con grazioso paradosso chiamai neigeuse (sarà una vera delizia per l’estate) gode di gran voga. La capote Virginia è in faille bianco–argento con piume bianche e nodi di velluto nero.

L

a capote Madrilena è in stoffa di color rosa con pieghettato color tiglio, che copre l’ala ed ha un mazzo di piume tinte in gradazione dal bianco al color tiglio. Dopo aver veduto i cappellini saltiamo alle scarpe e agli stivaletti. Così potremo dire di aver tratteggiato da capo a piedi la fisionomia della moda primaverile ed estiva. Hanno il primato sulle altre, tre fogge di calzature: i souliers à l’incroyable, epperciò come lo minsegna il nome, di stile secolo XVIII. Il tacco è dorato, e sovr’esso vedesi un moscerino (muscardin) in smalto il quale si asconde in un cespuglio cesellato. Lo stivaletto Maria Stuarda allacciato per di dietro e fatto di sughero egiziano. Lo stivale Chimere di raso color bronzo, con ricami antichi. I fisciù lamballe (altro ricordo legittimo, come i gigli sui costumi Betoni) sono di ventaglio Czarina, in foglie valencienne; il ventaglio Fidanzata il quale porta dipinto un superbo medaglione che rappresenta l’Iphigènie de l’himen, vittima volontaria e interessante, non riserbata, per certo, al fato della figlia di Agamennone.

I

profumi subiscono, come tutto il resto, la legge dei capricci della moda; i fanatici del bon vieux temps si rammentano ancora con delizia dell’odore di polvere alla marescialla con cui le nostre nonne incipriavano il loro toupet, e rimpiangono la semplicità dei profumi maggiormente in voga presso i veneziani

del Medio Evo che erano (i profumi, non i veneziani) quello della mela rosa e della scorza di limoni introdotti d’Asprano…

A

desso la voga ha portato in auge l’ixora, nome assai dolce d’una pianta della flora tropicale, il cuk effluvio soave, profumando l’aere, parrà, a chi ha un tantino di poesia nell’anima, un saluto olezzante che il Nuovo Mondo invita a vecchio.

L

a madreperla, il gentile prodotto della gentile conchiglia è sempre più di moda… pei bottoni. Il colore preferito è quello maggiormente tendente al bianco: fra le ultime novità in fatto di bottoni, vi sono anche quelli incrostati, o scolpiti, e quelli damaschinati… come una bonne lame de Tolde d’un eroe spagnolo del signor Dènnery o del signor Sèjour.

In primavera la nuova moda scatena la curiosità femminile. La cronista de La Nazione, E. BiliaMossi, si impegna nel dare consigli su come vestirsi dalla “testa ai piedi”.


14


15

da La Nazione del 14 aprile 1882

I tramway? Sono un pericolo E la folla li assale e li incendia Cronaca di una rivolta dopo che una carrozza a cavalli ha ucciso un negoziante Le donne in prima fila nella sollevazione che coinvolge la città intera

Giacomo Kotzian, proprietario di un noto magazzino, esce dal suo negozio in via Vittorio Emanuele, e viene travolto e ucciso da un tramway, ovvero una carrozza pubblica a cavalli. La gente si fa intorno e prende a imprecare contro i tram. Poi ferma un paio di vetture, e utilizzando il petrolio dei lampioni delle vetture stesse, le incendia. Ma non finisce lì, e ben presto la protesta si trasforma in rivolta. Una autentica sollevazione che dura per ore. Ecco come La Nazione ne dà notizia, l’indomani della morte di Kotzian.

T

aluni parlano relativamente al Kotzian... di investimento per parte del tram e perciò di disgrazia… mai i più sostengono si trattasse di un vero e proprio suicidio... si dice anzi che uno degli impiegati del povero Kotzian fino dalla mattina avesse confidato a qualcuno che il suo principale si trovava in tristissime disposizioni d’animo, per certe sue particolari traversie. In quel frattempo, e mentre si notava già nella folla un po’ di fermento, sopraggiungeva un’altra carrozza del tram e allora fu che scoppiò il tumulto. Alcuni

Nella foto: l’Omnibus a cavalli, chiamato anche Tramway, fotografato alla fermata delle carrozze di Montenero.

fra i molti presenti fecero ressa intorno alle carrozze de’ tram gridando e scendendo a vie di fatto verso i cocchieri ed i conduttori.

D

a ogni parte fu un vociferare, un compiangere senza fine, ed anche un imprecare contro il tramway, accusandolo funesto alla salute dei cittadini e degno d’essere bandito dalla città. Ferocissime nelle imprecazioni furono da principio, a quanto dicesi, alcune donne, e alle donne fecero tosto riscontro alcuni furibondi i quali, slanciatosi sulle due carrozze si dettero a manometterle le rovesciarono e le incendiarono… le carrozze presero rapidamente fuoco… sopraggiunti , indi a poco, alcuni delegati di P. S. e alcuni carabinieri, seguiti da parecchie guardie e da molti soldati di linea, la forza pubblica riuscì ad aprirsi un varco tra la folla, ma non senza fare uso delle armi, uso che si limitò,

per vero dire, a qualche piattonata. Tosto che la forza pubblica ebbe il sopravvento furono eseguiti dodici arresti.

M

a la gente continuava ad accorrere, attratta specialmente dall’aspetto e dalle grida delle donne fuggenti… una compagnia di linea si schierava dinanzi alla Questura, e il questore, cinto di sciarpa, usciva sulla piazza… Le grida e i fischi ricominciavano di quando in quando, ora qua ora là, massime allorché si procedeva a qualche arresto... Il comando dei pompieri veniva avvisato alle 6 e tre quarti che in via Vittorio Emanuele si dava fuoco al tramway… il fuoco aveva cominciato a propagarsi anche alle porte delle botteghe vicine. Nel più forte del tumulto furono esplosi diversi colpi di revolver... In un certo momento parve a qualcuno dei tumultuanti che si volesse dai

soldati far uso della forza, e si strinsero loro contro in atto minaccioso. I soldati misero mano alle daghe... indi a poco giungeva altra truppa… Fra gli arrestati c’è anche una guardia municipale. Dicesi che questa guardia, nel principio del tumulto, avesse parole e fatti con qualche soldato in linea… Lunedì gli arrestati furono condotti dalla sala di deposito della questura alla carceri giudiziarie dei Domenicani…

L’

autorità, temendo maggiori eccessi, spedì con lodevole prudenza un distaccamento di truppa alla direzione e alle scuderie dei tramway... lunedì mattina il servizio di tramway fu ripreso su tutta la linea… La polizia sorvegliava… nella sera grosse pattuglie di fanteria precedute da delegati di Pubblica Sicurezza, percorrevano le vie della città.

Le società di trasporto pubblico erano per lo più in mano a compagnie straniere. Per questo i livornesi non guardavano con simpatia a questo tipo di servizio.


16


17

da La Nazione del 17 marzo 1883

Scende in mare la Lepanto L’Italia ha una nuova corazzata La cerimonia ai cantieri Orlando. La nave è lunga 122 metri ed è costata 24milioni di lire I problemi del varo alla presenza dei sovrani

Sette anni dopo la Duilio, varata nel 1876, suscita un immenso entusiasmo il varo della Lepanto, chiamata a tenere alto nei mari l’orgoglio della Regia Marina Unitaria. In realtà le corazzate italiane creeranno molti problemi, fin dalle prime battaglie, ma nessuno poteva prevederlo in quel marzo del 1883. Il varo della Lepanto rappresentò il primo grande successo dei cantieri Orlando di Livorno.

Per arrivare al mare, la nave dovette scendere per un piano inclinato lungo 92 metri. Le preoccupazioni per un varo di queste dimensioni erano moltissime, ma tutto andò per il meglio.

A

ncora poche ore e la immensa corazzata scenderà maestosamente nel mare… ci pare quindi opportuno raccogliere qui le notizie che la riguardano.

ricotto centrale eccetera. Avrà un albero in ferro per il comando. Come tutte le navi da guerra del giorno è costruita secondo un sistema cellulare, cioè con un doppio fondo: il fondo inferiore è scompartito in 96 cellule stagne, il vero scafo è diviso in 12 riparti ancora essi stagni.

N

on possiamo fare a meno di parlare prima di ogni altra cosa del Cantiere e dei bravi ingegneri navali signori fratelli commendatori Orlando, dove la colossale corazzata è stata costruita.

Q

uesto cantiere da quindici anni è per Livorno una delle sue più vitali risorse. In esso sono state fatte costruzioni delle più difficili… la costruzione della Lepanto è la prova più evidente che anche l’Italia ha raggiunto il maximum di ciò che si può fare in questo ramo d’industria e non è davvero rimasta indietro a nessuna potenza europea, nemmeno alla stessa Inghilterra, potenza marittima per eccellenza. In questo cantiere hanno lavorato quasi continuamente oltre mille operai al giorno, dei quali in media novecento circa sono stati occupati per la costruzione della Lepanto. Nello spazio di sei anni diciassette operai del cantiere ebbero a subire infortuni. I bravi operai del cantiere Orlando dettero inizio alla costruzione di questo colosso… nella seconda quindicina del mese di agosto del 1877: di modo che sono 5 anni e 7 mesi che la grande corazzata... Riposa sullo scalo del cantiere… I lavori vennero però sospesi per

qualche tempo nel 1881, e ciò a causa della famosa questione sorta fra l’ammiraglio Acton e l’ammiraglio Saint-Bon e l’onorevole Brin circa l’utilità delle grandi e piccole corazzate…

D

aremmo adesso le dimensioni generali di questa corazzata: Lunghezza fra le perpendicolari metri 122 Larghezza fuori della ossatura metri 22,28 Altezza del ponte di coperta al paramensale metri 16,40.

L

a nave avrà un dislocamento di 14.700 tonnellate quando sarà completamente armata: appena varata

sposterà 4.200 tonnellate. Il suo prezzo a varo eseguito sarà di 4,830,000 lire. Pronta di ogni cosa supererà i 24 milioni. Sarà armata di quattro cannoni da 100 tonnellate collocati in barbetta in un ridotto corazzato ellittico, e di 14 cannoni da tonnellate 4 e ½ ciascuno collocati in batteria.

A

vrà una macchina di 18.000 cavalli indicati, capaci di imprimere alla corazzata una velocità di 16 nodi (miglia marine) all’ora. Non avrà corazza esterna , ma avrà un ponte subacqueo corazzato ed avrà corazzate tutte le parti vitali, come passaggio per fumaioli, tubo elevatore delle munizioni,

I

l varo della corazzata presentò un problema di molta gravità che impose un accurato studio… la ristrettezza dello spazio concesso dalla darsena del cantiere rende necessario un esatto accertamento della velocità che assumerà la nave nei diversi istanti… oltre a questa difficoltà l’egregio ingegnere ha dovuto combattere colla mancanza di criterii esatti... del coefficiente d’attrito… lo scalo di costruzione sopra il quale la nave scorrerà è lungo 92 metri; l’avanti scalo, che non è altro che il prolungamento subacqueo del piano inclinato, lungo il quale la nave scivola nel varo, è lungo metri 70,70. La pendenza è 1/13,30. Il peso dela nave al varo è tonnellate 4300...


18


19

da La Nazione del 16 marzo 1891

Livorno, la città radicale: novanta arresti e una guardia uccisa E tutto per commemorare Giuseppe Mazzini. Quando la folla decide di “prendere in mano la situazione”. Troppi revolver fra la gente comune

G

ravissimi fatti accadevano iersera a Livorno... Bisogna sapere anzitutto che l’anniversario della morte di Giuseppe Mazzini è stato commemorato tre volte: e cioè domenica passata, martedì e ieri e con quanta opportunità così decidessero i radicali, e consentisse l’autorità politica, io non intendo… sapete bene che le prime due commemorazioni procederono egregiamente… non così era destinato dovesse procedere la cosa per la terza commemorazione stabilita per ieri sera. Il questore l’aveva concessa… le associazioni si recarono al Cimitero Comunale per deporre corone e ghirlande sul monumento sacro a G. Mazzini… Fra le società ve n’era una dei repubblicani intransigenti: e come le altre era fiancheggiata da guardie e carabinieri sotto gli ordini di un delegato…

V

i furono parole vivissime e ingiurie contro gli agenti della pubblica forza: e cominciò il tafferuglio. In questo punto un carabiniere ricevette una bastonata al capo, e, cadutogli il cappello di capo, chinatosi a raccoglierlo, fu fatto cadere a terra. Vicino al carabiniere c’era un brigadiere delle guardie di P.S. il quale, veduto come le cose volgevano al peggio tirasse fuori il revolver… chi poi sparasse per

primo non si sa, ma è certo che una guardia, un certo Mannu, cadde, colpito al cuore, restando all’istante cadavere. Vi furono poi guardie e carabinieri feriti e vi furono anche dimostranti feriti e contusi. Quindi sopraggiungeva altra forza, sopraggiunti soldati, fu fatto un serra serra: ci fu un fuggi fuggi; gli uni ricoverandosi nelle case gli altri prendendo la via dei campi.

P

ure furono fatti vari arresti e fra questi vi fu anche il signor Ezio Marocchini, che è uno dei capi del locale partito repubblicano. Nella giornata di oggi si sono poi fatti altri arresti: in tutto circa novanta…

L’

impressione in città è stata molto grave. Il Mannu, sardo, era giovanissimo ancora, ed era un ottimo ragazzo ed un’eccellente guardia. Il giorno avanti della luttuosa sciagura egli aveva in un incendio, rischiato animoso la vita, per sentimento del dovere e per impulso di pietà; chè lo persuasero a tentare di strappare una preda umana alle fiamme divampanti!... fra gli arrestati ci furono anche delle donne e dei bambini… addosso a molti arrestati sono stati trovati coltelli e sassi… Quello che ci sembra degno di nota è che la legge di

Livorno fu la città toscana dove le idee socialiste maggiormente si trasformarono in attivismo politico.

Pubblica Sicurezza disgraziatamente non sia riuscita a impedire che i cittadini possano andare armati di rivoltella o di altre armi anche insidiose, e quello chè peggio, prendere parte armati così a pubbliche riunioni, sicchè al più

semplice ostacolo che si frapponga a quella riunione o dimostrazione che sia, possa questa da un momento all’altro degenerare in lotta aperta, in ribellione, in guerra civile.

2 maggio 1891

16 gennaio 1894

Ieri alle 3 giungeva nel nostro porto il regio ariete incrociatore Montebello, con 108 persone di equipaggio e 8 cannoni… l’arrivo del Montebello non sarebbe estraneo alle misure preventive prese pel 1° Maggio, i preparativi del quale durano e si mantengono, come vi dissi ieri… sono stati affissi, oltre agli accennati, anche altri manifesti tutti assai temperati, tolti alcuni, microscopici, violentissimi, stampati alla macchia, che furono affissi ieri sera tardi e subito lacerati dalle guardie. È giunta molta truppa.

Lo sciopero è quasi generale, verso le 10 in varie località gli operai assalirono i tram rompendo a sassate i vetri delle vetture. In via Garibaldi un individuo fermò un carrozzone del tram. I carabinieri lo arrestarono ponendolo dentro il carrozzone, ma il conduttore, intimorito dal contegno di molti presenti, staccò i cavalli. L’individuo si dette alla fuga e i carabinieri gli tirarono invano due colpi che provocarono un fuggi fuggi nella folla. Il tempo è splendido, le vie affollate, ma i magazzini in gran parte chiusi e non circola nessuna carrozza. Sono arrivati rinforzi di truppa….


20

da La Nazione dal 15 gennaio al 19 gennaio 1921

Tra risse e colpi di pistola nasce il Partito Comunista Gli inutili interventi contro gli “estremisti” Terracini difende i “puri” e Bombacci estrae la rivoltella “L’ordine della scissione” viene dalla Russia

il comunismo russo scrutina, non diremmo i pensieri, ma i remoti e intimi pensieri dei nostri socialisti… e così avremmo cominciato a domandarci: È poi esatto che legandoci soltanto a una rivoluzione internazionale capitanata dalla Russia noi potremmo fare quella rivoluzione che ci sembra indispensabile? Perché questo sia vero occorre che negli altri paesi di Europa esistano partiti decisi a muoversi assieme, altrimenti non potremmo attendere secoli... Siamo purtroppo convinti che non vi è molto da aspettare dal comunismo francese, il quale ha cominciato la sua carriera con dichiarazioni collaborazioniste di un carattere che in Italia disgradirebbero Turati.

Nei disegni: Nicola Bombacci (a sinistra) e Filippo Turati (nella pagina seguente). Per il congresso di Livorno La Nazione mobilitò oltre a numerosi cronisti anche un gruppo di disegnatori.

Siamo a Livorno e si assiste ad un evento storico. La componente comunista si stacca dal Partito Socialista. Ci si arriva dopo discussioni quanto meno animate. Anzi, ci si arriva fra risse, sputi, e perfino colpi di pistola. Ma alla fine si avvera quanto era nell’aria fin dalla vigilia. La Nazione dedica all’avvenimento i suoi fondi di Carlo Scarfoglio, cronache dettagliate, e per la prima volta anche i disegni con le facce dei protagonisti. Quella che segue è una raccolta di brani dalle cronache di quei giorni.

È

certo un fatto notevolissimo che, mentre i congressisti di Livorno danno misero spettacolo di sé coprendosi di pugni davanti alle classi borghesi che li guardano, e questa volta con ilarità e non con timore, nessuno di loro si chieda cosa faccia la Russia in questo momento… È nostro avviso che, se fossimo comunisti, il nostro primo dovere e il nostro primo pensiero sarebbe quello di scrutinare quello che fa non a parole ma in un’azione effettiva e umana il comunismo russo, con la stessa cura con la quale

Q

uanto al comunismo inglese esso è puramente letterario e si limita a Bernard Show e H.G. Wells, a parte i quali i soli partigiani del comunismo russo sono i buoni commercianti della city, spaventati dalla crisi economica che reclamano l’accordo commerciale per liquidare gli stocks di manufatti che non riescono a vendere in Europa. Le Trade Unions sono collaborazioniste fino all’ultimo uomo… In Germania le agitazioni sono finite e gli operai non chiedono che di lavorare. Con chi, dunque, faremo questa rivoluzione internazionale? Perché una rivoluzione sia internazionale occorre che sia fatta in parecchie nazioni nello stesso tempo, e una parola d’ordine comune, che parta da un centro organizzato. Per

fortuna abbiamo questo centro in Russia; e se è dubbio che la rivoluzione europea possa veramente scoppiare al suo ordine, in seguito alle osservazioni suesposte, per lo meno il centro esiste, e se la propaganda viene fatta sul serio vi è tra sperare che fra dieci o venti anni, convinti i proletariati delle altre nazioni, la rivoluzione internazionale si possa fare.

S

oltanto occorre che, almeno la Russia, non si convinca alla tesi collaborazionista e riformista; che rimanga intatta in mezzo alle altre nazioni come un esempio di comunismo intransigente e assoluto, che non abbia contatti coi governi borghesi e che continui la sua propaganda con l’esempio...

M

a mentre noi ci aduniamo per formare in Italia quel partito che dovrà convincere il proletariato italiano a dimenticare i propri interessi e ad unirsi a un’azione rivoluzionaria internazionale… ecco che la Russia tratta non più con capitalisti privati, come ha già fatto… ma direttamente col governo inglese per introdurre capitale anglo–sassone in Russia e in cambio da astenersi dalla propaganda in Inghilterra e nelle colonie inglesi...

Q

uesto penseremmo e diremmo se fossimo comunisti. Ma i comunisti italiani non ci pensano nemmeno per un momento. Essi con-


21

Le cronache del Congresso per giorni e giorni riempirono le pagine de La Nazione. Gli inviati del giornale stenografarono gli interventi di gran parte degli oratori.

tinuano a trattare il problema della rivoluzione internazionale come se le cose fossero ancora ai giorni quando il governo di Pietrogrado stracciava i trattati internazionali e si isolava nelle proprie idee, buone o cattive che fossero...

E

ssi sanno benissimo che dall’adunata della Terza Internazionale la Russia ha rinnegato la Terza Internazionale… ma questo è per loro indifferente perché la rivoluzione è l’ultima delle loro cure e quello che loro preme è soltanto di poter creare un nuovo partito per poterne essere i capi, dal momento che non sono riusciti a impadronirsi del Partito nel suo insieme…

È

questo politecnismo sempre pronto a dimenticare ogni dogma, ogni idea e ogni fine collettivo nella soddisfazione degli astii, delle ambizioni e delle banalità personali, che ha in ogni tempo distrutto l’azione del Partito socialista in Italia, portandolo alle successive scissioni, tutte le volte che un paio di ambiziosi volevano disfarsi del loro rivale. A questo

spettacolo assistiamo a Livorno, e non latente ma proclamato ed esibito. È la condanna implicita dei Partiti che ne nascono. Carlo Scarfoglio

(ed ora ecco alcuni brani dai vari interventi e dalla cronache delle sedute n.d.r.) Lazzari:”Noi compagni, vogliamo tutti la dittatura del proletariato ma non la dittatura di una frazione sull’altra. Carlo Marx dice Proletari di tutti i Paesi unitevi. Perché non dice separatevi o dividetevi? Perché solo nella stretta unione delle nostre energie noi troveremo la nostra grande forza. Marx dice proletari, non proletari comunisti. Era un uomo di precisione Carlo Marx e i colleghi dell’Ordine Nuovo hanno ancora da imparare da lui. Ecco perché noi diciamo che la separazione che si vuole fare oggi è una seprazione artificiale e artificiosa…” Si grida: Viva il socialismo! Abbasso l’anarchia! Ma i comunisti inscenano : Viva Lenin ! Abbasso Turati! Vacirca: “Parlo a nome della

fazione dei rivoluzionari intransigenti (urla, rumore) che mi ha affidato l’incarico di sostenere le sue ragioni…” Un comunista: “Hai una bella faccia tosta” Un unitario: “Taci tu idiota, venduti! Chi ve li ha dati i denari? Chi vi sussidia? Ladri, ladri! Vacirca: Se permettete vorrei andare avanti… Parlo a nome di una piccola fazione…” Voce femminile: “Piccolissima, ah, ah!” Altra voce: “Oltre ai maschi ubriachi vi sono pure le femmine isteriche...” Rosa Block: “Comunisti!” Voce: “Sta zitta, scimmia!” Fischi continui e fragorosi e minaccia di pugilato. Violenti tumulti nei palchetti dei comunisti. Gli unitari improvvisano una dimostrazione a Vacirca. Contemporaneamente i comu-

nisti fischiano. Frattanto Bombacci si sporge dal palchetto di proscenio. Non lo avesse mai fatto! I congressisti gli urlano di uscire. Si grida: “Pauroso, Pauroso. Hai avuto paura di un temperino! Vigliacco!...” In questo momento Bombacci cava fuori la rivoltella, ma Bordiga gli trattiene il braccio…

Durante i lavori del Congresso Socialista accadde di tutto. Nicola Bombacci arrivò al punto di estrarre una pistola mentre i suoi avversari politici gli urlavano di “vigliacco!”.


22


23

da La Nazione del 10 novembre 1971

Precipita un Hercules alla Meloria muoiono 46 uomini della Folgore

Nella foto grande: la torre della Meloria, al largo di Livorno, dove si inabissò l’Hercules C 130 della Aviazione Britannica.

Avevano quasi tutti vent’anni. Il quadrimotore, con equipaggio britannico doveva partecipare a una manovra in Sardegna. Furono ritrovati alcuni oggetti, ma nessuna salma. (dal nostro inviato) Livorno 9 novembre

S

ono perdute le speranze, sono tutti morti. Erano cinquantadue a bordo del quadrimotore “Hercules C 130” a turboelica che stamani alle cinque e cinquanta si è inabissato a tre miglia a nord–ovest dalle secche della Meloria, fra Marina di Pisa e il porto di Livorno.

E

ra appena decollato dall’aeroporto di Pisa - San Giusto. A bordo si trovavano quarantasei paracadutisti italiani della brigata “Folgore” e sei uomini di equipaggio. L’equipaggio era inglese, come il velivolo. Si tratta della sciagura più grave accaduta in Europa in tempo di pace per i trasporti aerei militari. I mezzi navali impegnati nelle ricerche hanno recuperato poche cose. Nessun corpo. I corpi dei paracadutisti sono legati nelle loro

poltroncine di tela, nella carlinga dell’“Hercules” a settanta metri di profondità. In fila da vivi e in fila da morti.

I

l più giovane si chiamava Elio Quarti, aveva compiuto da poco i diciannove anni ed era nato a Villa d’Almè, a Bergamo. Il più anziano si chiamava Giuseppe Augello, quarantadue anni, maresciallo addetto alla sicurezza dei lanci. Aveva moglie e due figli. La famiglia abita a Livorno. C’erano anche due sottotenenti, ufficiali di prima nomina, di ventitré e ventiquattro anni. Uno si chiamava Ernesto Borghesan e l’altro Pier Maria Magnaghi.

I

quarantadue paracadutisti, più due sottufficiali, più due sottotenenti, erano partiti stamani alle due, in camion dalla caserma dell’Ardenza a Livorno per recarsi all’aeroporto di San Giusto. Il concentramento era stato fissato per le tre e trenta. I decolli sarebbero avvenuti dalle cinque e mezzo in poi. Si trattava di una manovra combinata con altri paracadutisti inglesi. I lanci dovevano avvenire in Sardegna in una zona vicina a Cagliari. Otto quadrimotori Her-

cules avrebbero trasportato sul cielo dell’operazione una forza di oltre trecento uomini. Quello che è precipitato era il numero quattro. I ragazzi che c’erano dentro appartenevano alla sesta compagnia, primo reggimento. Cinque di loro stavano per essere congedati alla conclusione della ferma di leva.

L’

Hercules numero quattro è come svanito nel nulla, dieci minuti dopo il decollo. L’Hercules è decollato alle 5,40, tutto era in perfetto ordine e il comandante, capitano Harison aveva trasmesso l’O.K. alla torre di controllo… Intanto dall’Hercules caposquadriglia si chiamavano gli altri velivoli a raccolta per assumere una formazione relativamente compatta di volo. Il numero due dà l’o.k. È in vista, poco più in basso a sinistra… Il numero quattro non risponde. Sono passati esattamente dieci minuti dal suo decollo. Dovrebbe trovarsi in coda... allora il caposquadriglia segnala alla torre di controllo di Pisa che un aereo è muto. La torre di controllo fa ricerca. Nulla. Da San Giusto fanno parti-

re un altro aereo distraendolo da altra esercitazione. Intanto i due ultimi “Hercules” vengono fermati a terra, mentre stavano per cominciare il rullaggio.

C

he cosa stava accadendo a bordo del numero quattro?... I tecnici dicono: o c’è stato uno scoppio a bordo, o si è staccata un’ala, o si sono recisi i comandi o per un caso, assolutamente unico nella storia di questo tipo di velivolo, si è chiusa di colpo l’alimentazione del carburante. Il mistero è con loro, con i cinquantadue morti sul fondo della Meloria. Un fatto è certo: non hanno avuto nemmeno il tempo di chiedere aiuto... un cacciatore, come si dice in altra parte di queste cronache, ha visto la grande macchina perdere quota e schiantarsi in mare. Nessun altro testimone. Il cacciatore non ha visto fumo in coda, né fiamme a bordo.

Nel tondo: L’aereo inglese perse ogni contatto con la torre di controllo dieci minuti dopo il decollo dall’aeroporto militare di San Giusto.


24

Le teste di Modì? A scolpirle siamo stati noi col Black & Decker Nell’estate del 1984 a Livorno si consuma la “beffa del secolo” L’entusiasmo dei critici d’arte davanti ad un “bidone” costruito “ad arte” da tre studenti

E Nella foto grande: un’autentica scultura di Amedeo Modigliani. I tre studenti riuscirono a farne una simile usando un trapano elettrico.

ra l’estate del 1984, e per il centenario della nascita di Amedeo Modigliani (nato il 12 luglio del 1884), il Museo di Arte Moderna di Livorno decise di allestire una mostra in omaggio all’artista. L’esposizione aveva, come primo obiettivo, quello di far conoscere la breve e poco documentata carriera di Modigliani scultore. La cura del progetto fu affidata alla conservatrice del museo, Vera Durbè, con la collaborazione del fratello Dario, sovrintendente alla Galleria d’Arte Moderna di Roma. Per l’occasione, fu anche deciso di perlustrare il Fosso Mediceo, dove nel 1909, correva voce, Modigliani avrebbe gettato, offeso dal giudizio dei suoi concittadini alcune delle sue sculture.

I

l Comune di Livorno non esitò a finanziare le ricerche, e così, davanti ad una sparuta folla di curiosi, la benna della scavatrice iniziò la perlustrazione del Fosso. Quando tutta l’operazione sembrava doversi concludere in un enorme spreco di denaro pubblico, all’ottavo giorno, la benna trovò un oggetto. Si trattava di una testa di granito scolpita con tratti duri e allungati. Passarono poche ore e la ruspa tirò fuori dal Fosso altri due blocchi di pietra serena, che si rivelarono essere altrettante sculture, anch’esse raffiguranti delle teste.

P

er Vera Durbè e suo fratello non ci furono dubbi: le opere erano di Modigliani. Da quel momento in poi, la città di Livorno viene letteralmente invasa da turisti e dai media di tutto il mondo. Arrivarono dall’America e dal Giappone curiosi, giornalisti e critici d’arte. I grandi maestri della critica italiana, plaudirono all’impresa. Il fratello di Vera Durbè, Dario, pubblicò a tempo di record un libro dal titolo “Due Pietre Ritrovate di Amedeo Modigliani”, con tanto di foto e commenti di eminenti esperti.

L

a giornata trionfale era prevista per domenica 2 settembre, nella sede della mostra, per la presentazione del libro che doveva consacrare definitivamente il valore mondiale della

scoperta. Ma mentre al Museo si preparavano i festeggiamenti una notizia Ansa piombò sulla vicenda: tre studenti di Livorno, Pietro Luridiana, Pierfrancesco Ferrucci e Michele Guarducci, in un’intervista rilasciata al settimanale Panorama, dichiaravano di essere gli autori della seconda Testa pescata del Fosso. Si trattava di un gioco, dicono i tre giovani, di uno scherzo ben riuscito ottenuto non con un poetico e filologicamente corretto scalpello, bensì con un semplice e prosaico trapano elettrico Black & Decker.

A

conferma di quanto appena detto, il settimanale pubblicava alcune foto scattate dei tre studenti in un giardino, mentre “scolpivano” la testa. Per fugare i residui dubbi, i falsari vengono inoltre invitati in televisione, durante la prima serata, per ripetere dal vivo il loro esperimento davanti a dieci milioni di telespettatori.

M

a i fratelli Durbè, e gran parte della critica, ancora credono che le opere siano di Modigliani, e sostengono che la trovata dei tre studenti sia solo un modo per farsi pubblicità. A suffragare la loro tesi ci sono ancora le altre due Teste ritrovate, che in nessun modo e per loro stessa ammissione i tre ragazzi avevano potuto scolpire. Ma dopo una decina di giorni, si scopre che le altre due sculture sono opera di un lavoratore portuale, discreto artista.

T

utto il mondo, dopo aver puntato gli occhi delle telecamere e l’interesse sulla cittadina toscana in cui era avvenuto il miracolo di un ritrovamento tanto atteso e desiderato, seppe dunque della beffa di Livorno. E la vicenda giovò, non poco, alla celebre marca di trapani elettrici Black & Decker, che impostò la sua campagna pubblicitaria sulle straordinarie potenzialità del proprio prodotto.

P

er quanto riguarda il resto, la vicenda si concluse con le lacrime di Vera Durbè e il sorriso divertito dell’opinione pubblica italiana.

Nella foto in basso: cosìm titolava in prima pagina La Nazione il 5 settembre 1984.


25


26


27

È il 27 febbraio 1984

Un trionfo per la Folgore ed Angioni che tornano dalla missione a Beirut Il contingente italiano per la prima volta all’estero dal dopoguerra, ha svolto la sua missione meglio degli altri. Pertini in prima fila ad applaudire, e Livorno al suo fianco

Nel tondo in alto: reaprti della Folgore al ritorno dalla missione di Beirut.

I

l generale Angioni e gli uomini della Folgore impegnati nella prima missione all’estero del dopoguerra tornano in Italia. Era cominciata male, malissimo. Ma poi, il coraggio e l’intelligenza dei nostri paracadutisti permise al nostro Paese di svolgere il proprio compito internazionale, a Beirut, meglio degli altri. E il presidente Pertini, e tutta Livorno che in certe situazioni sa essere più generosa di altre città, vollero dire grazie ai soldati che tornavano a casa.

F

u quasi un trionfo, quel giorno, per i parà della Folgore. Ed ecco come Maurizio Naldini, l’inviato de La Nazione che con loro aveva trascorso i giorni più difficili della missione in Libano, descrisse l’evento.

V

enti minuti di trionfo per il generale Angioni. Preceduto dalla banda dell’esercito, seguito dalla bandiera del contingente italiano e da un gruppo di fedelissimi paracadutisti, ha percorso via Grande in mezzo a due ali di folla che lo chiamavano per nome, lo ringraziavano, gli gettavano fiori applaudendo. Erano i parenti dei soldati venuti da ogni parte d’Italia, erano anche i livornesi, la gente comune che ha finalmente capito quanto è diverso, oggi, il ruolo svolto dalle forze armate. “Livorno città di pace – si leggeva su striscioni e cartelli – accoglie il contingente italiano e il presidente Pertini” Ed è stato proprio lui, “Sandro” come lo chiamava la gente, a gui-

dare l’entusiasmo generale non verso la sua persona ma verso i soldati che per ore, sotto una pioggia scrosciante, hanno atteso che si svolgesse la cerimonia in piazza della Repubblica.

L

a nave ammiraglia Vittorio Veneto e i traghetti Tiepolo e Appia, erano entrati nel porto di Livorno all’alba di ieri. Sulle banchine, già allora, c’erano migliaia di persone. Ma la vera cerimonia è cominciata poco dopo le nove, quando il presidente Pertini è salito sulla nostra ammiraglia per salutare il generale Angioni, l’ammiraglio Giasone Piccioni e un centinaio di paracadutisti carabinieri, marinai, schierati sul ponte di volo degli elicotteri. Pertini non aveva voluto altri onori se non gli “otto fischi alla banda”.

L

o seguivano il ministro della difesa Spadolini e il generale Cappuzzo. Angioni era in mezzo ai suoi uomini: “Caro comandante -gli

si è fatto incontro il presidente Pertini– bravo, bravo comandante... avete fatto onore alla bandiera italiana. Anche a Londra ho ricevuto i complimenti per il vostro comportamento. Avete mostrato come si può difendere una nazione non solo con il vostro prestigio e con le armi ma con l’affetto. Laggiù sentono la vostra mancanza perché siete stati vicini a donne e bambini. Avete dimostrato che si può essere fieri soldati ma anche uomini generosi e buoni come sanno essere gli italiani.”

P

oi il ministro della difesa si è rivolto direttamente ai soldati: “I vostri rischi –ha detto– hanno suscitato nel Paese una trepidazione grande ma anche un grande orgoglio per la forma serena, consapevole con la quale li avete affrontati, cercando di cogliere le esigenze di una popolazione martoriata…” A quel punto, mentre aerei militari sorvolavano il centro di Livorno, è stata decorata la

bandiera del contingente con una croce di cavaliere all’ordine militare. La stessa decorazione è poi toccata al generale Angioni, ancora una volta abbracciato paternamente dal presidente Pertini… Le autorità militari e civili, i soldati ed i loro parenti, si sono poi ritrovati alla caserma Vannucci per il pranzo. La gande sala del rancio era stata addobbata con paracaduti di vari colori.

A

l tavolo d’onore, oltre al presidente della Repubblica, al ministro della difesa e al generale Angioni, sedevano dei semplici soldati. È stato un normalissimo rancio... ma in più c’era il dolce e soprattutto lo spumante… Maurizio Naldini

Nel tondo in basso: il Presidente della Repubblica Sandro Pertini accoglie i soldati italiani e il Generale Angioni come degli autentici eroi.


28


29

Moby Prince: 140 morti sulla nave (e ancora tanti misteri da svelare) I due processi, le tante perizie e relazioni ancora non ci hanno dato risposte convincenti su quanto accadde a bordo del traghetto. L’impatto con la surpetroliera e un solo sopravissuto, il mozzo

lo fantasma con il suo carico di 140 morti. Non fu raccolto alcun segnale di soccorso e la stessa Agip Abruzzo, che chiese aiuto, non seppe dire che era successo.

S

Nella foto: brucia ancora la poppa della petroliera Agip Abruzzo. La circondano i rimorchiatori di Livorno.

di Antonio Fulvi

M

orirono tutti, insieme alla grande nave. Morirono in una dolce sera d’aprile, su quel dolcissimo mare blu cobalto che la luna aveva appena cominciato a spruzzare d’argento, poche migliaia di metri dalla costa inghirlandata delle luci di una città allegra e ignara. Si disse, e anch’io lo scrissi da coscienzioso cronista, che quei 140 erano morti quasi tutti senza soffrire, spinti lentamente nell’incoscienza dalla mancanza d’ossigeno per l’incendio.

F

u scritto anche nei rapporti. Ma nella tragedia di quella sera del 10 aprile 1991, tre miglia dalla bocca sud del porto di Livorno, quando il traghetto Moby Prince si piantò contro la petroliera Agip Abruzzo scatenando un incendio apocalittico, di certezze ce ne furono e ce ne sono anche oggi assai poche. L’hanno chiamata la tragedia dei misteri.

A

nche due processi e un’infinità di relazioni, di perizie, di testimonianze, di rivelazioni reali o

fasulle, sono approdate a poco. E ferisce in particolare i parenti delle vittime la conclusione processuale: una tragedia senza colpevoli, se non coloro che sul Moby Prince sono bruciati senza lasciare di se altro che poche tracce calcinate sulle lamiere roventi.

L’

orrore. Da anni, da allora, ci si chiede se soccorsi più tempestivi avrebbero potuto salvare almeno qualcuno. Perché i soccorsi tardarono. Ma attribuirne la colpa ai soccorritori, e come fu fatto al personale di guardia della Capitaneria di porto, sembrò a molti un tentativo di lavare la coscienza collettiva dell’intera città. Il Moby Prince finì a oltre 16 nodi- cioè quasi al massimo della velocità, visto che poteva raggiungere a tutta forza circa 19 nodi- contro la fiancata di dritta della superpetroliera Agip Abruzzo, che era all’ancora a tre miglia del porto. In rada c’erano anche altre navi: alcune in attesa di entrare con la luce del giorno dopo, altre che operavano per la base militare Usa di Camp Darby. Gli esperti s’interrogarono invano su come una grande nave, dotata di moderni strumenti di navigazione

come il radar, e condotta da un comandante esperto e riflessivo come Luigi Chessa, fosse finita alla cieca contro una nave ferma, lunga più di 300 metri, davanti a una costa quasi illuminata a giorno. L’ipotesi del banco di nebbia traditore- smentita e confermata: se ne discute ancora oggi, e la nebbia in effetti c’era perché la vidi anch’io, prima che fosse spazzata da una brezza leggera- non basta a giustificare l’impatto. Con il radar in funzione, l’Agip Abruzzo sullo schermo doveva essere come un muro, visibile anche a un cieco. Invece dalla plancia del Moby Prince se ne accorsero solo quando ci picchiarono addosso.

L

o conferma la disperata manovra di macchine tutto indietro che dal posto di comando fu attuata, prima che il getto incandescente di nafta scaturito dall’Agip Abruzzo sventrata incenerisse timoniere e personale di guardia. Più tardi, troppe ore più tardi, quando il relitto fumante del Moby Prince fu intercettato per caso da una pilotina accorsa per l’incendio della petroliera, il traghetto navigava lentamente ancora a marcia indietro, lugubre vascel-

i salvò, incredibilmente, solo un giovane mozzo napoletano, Alessio Bertrand. Lo trovarono dalla pilotina, appeso alla battagliola di poppa, sconvolto e bruciacchiato, ma pressoché illeso. Navigando in retromarcia, il Moby Prince aveva tenuto lontano da lui fiamme e fumo. Ma ai fini dell’indagine Bertrand servì davvero a poco: non aveva visto niente, solo il gran botto e poi la disperata ricerca della salvezza, spinto dall’istinto di sopravvivenza. Sparì quasi subito da Livorno.

E

anche su questo si discusse, con ipotesi anche cupe e fantasiose. Cupe e fantasiose come le ipotesi che ancora oggi, a quasi vent’anni della tragedia, i comitati dei parenti delle vittime continuano ad agitare. Come le ipotesi sostenute da pamplet, da libri più o meno “instant”, da dietrismi su contrabbando di armi, contrabbando di carburanti- si parlò a lungo di una fantomatica bettolina che andava a succhiar fuel di straforo all’Agip Abruzzo e che si sarebbe parata di colpo davanti al Moby Prince costringendolo a una fatale virata-contrabbando di tutto.

S

i chiesero invano i rilevamenti dei satelliti militari Usa. Quei poveri 140 morti, strattonati e strumentalizzati, nemmeno oggi riposano in pace. E questo è forse l’atto di accusa più amaro e più tragico nella più incredibile tragedia sui nostri mari.

Due processi e un gran numero di inchieste e perizie non hanno ancora fatto piena luce sulla tragedia della Moby.


30

Quella prima partita di calcio giocata sui prati del Soccorso Ebbe così inizio l’avventura del football a Livorno. Nel 1915 nacque la società amaranto Lo scudetto sfiorato nel ‘43 dietro il grande Torino. I giocatori per la Nazionale

di Lorenzo Gremigni

Nella foto: il beniamino del pubblico amaranto, Igor Protti, esulta dopo uno dei suoi fantastici goal.

S

e l’Us Livorno, l’antenata dell’attuale massima società calcistica, nasce nel 1915, il calcio livornese ha origini più lontane, agli albori del secolo scorso, quando uno studente inglese di liceo figlio del vice console della città riunì un gruppo di amici nei prati adiacenti alla Chiesa del Soccorso e dette vita alla prima partita di football. Da lì, dal successo che ebbe l’idea, nacquero Virtus e Spes che poi, nel 1915, dettero vita all’attuale società. Colori sociali l’amaranto, gli stessi della città, primo presidente l’avv. Arrigo Galeotti e tra i vice quel Giorgio Campi che fu anche l’autore delle parole dell’Inno che ancora oggi si sente all’ingresso delle squadra in campo al ‘Picchi’ con la musica del maestro Montanari. Campo di gioco Villa Chayes.

L’

attività iniziò dopo il 4 novembre 1918 alla fine della prima guerra mondiale. Campionati a gironi territoriali ed uno da ricordare: quello del 1920 quando il Livorno vinse il girone Toscano dell’Italia centro-meridionale, superò la Fortitudo Roma per approdare alla finale il 20 giugno a Bologna, campo dello Sterlino. Avversaria l’Internazionale di Milano che vinse 3-2 in un incontro drammatico che gli amaranto chiusero in 10 per un infortunio a Jacoponi. Era già il Livorno di Magnozzi che segnò i due gol livornesi. Il campionato unico, quello che segna l’inizio dell’era moderna del calcio italiano, ebbe vita la prima volta nel 1929/30. E il Livorno conquistò in quello precedente che valeva anche da qualificazione la serie A. Da allora la storia del Livorno Calcio è scorsa tra soddisfazioni e delusioni. Diciasset-

Nel tondo: Bruno Arcari, che esordì con la maglia amaranto il 1° ottobre 1933, arrivò a giocare nella nazionale italiana così come Magnozzi, Vincenzi, Pitto, Silvestri, e più tardi Armando Picchi e Cristiano Lucarelli.

te campionati di serie A, 20 di B ma anche 39 di C, tre fallimenti, un campionato di eccellenza ed uno nei dilettanti nazionali. Parlando delle gioie non si può fare a meno di andare a quel campionato 1942/43 in cui la squadra partì come outsider e sfiorò lo scudetto perso solo all’ultima giornata. Un punto dietro al grande Torino.

È

una squadra entrata nella storia quella formata da Silingardi, Del Bianco, Lovagnini, Capaccioli, Traversa, Tori, Piana, Stua, Raccis, Zidarich, Degano ed in cui trovarono ampio spazio Assirelli, Miniati e Soldani e posto per qualche esibizione Spagnoli, Emiliani, Martinelli, Grassi e Angelini. Allenatore Ivo Fiorentini. Ma le gioie talvolta hanno anche i connotati di una promozione da tempo agognata. Ed allora vale la pena ricordare quel-

la in B del 1963/64 dopo 8 anni di purgatorio in C. Quella ottenuta con allenatore Guido Mazzetti ed un undici formato da Bellinelli, Balestri, Lessi, Azzali, Varlyen, Caleffi, Colombo, Virgili, Mascalaito, Ribechini e Cartasegna in cui trovarono ampio spazio Gimelli e Pistolesi come portieri e quindi Basilico e Buglioni e quella dalla C2 alla C1 del 1983/84 di una squadra imbattuta e che subì solo 7 reti in tutto il campionato allenata da Renzo Melani o l’altra del 1996/97 con allenatore Stringara che superò la Maceratese nei play-off a Reggio Emilia e di cui era alfiere il livornesissimo Bonaldi per arrivare all’era recente, quella di Aldo Spinelli con la promozione prima in B nel 2001/02 della squadra allenata da Jaconi e quella del 2003/04 in A della formazione allenata da Mazzarri, un ritorno al grande palcoscenico dopo 55 anni

con Protti e Cristiano Lucarelli grandi protagonisti.

U

n’ultima annotazione per i giocatori livornesi in azzurro. Tra i quali non figurano due di coloro che hanno fatto la storia amaranto e rimarranno sempre impressi nel cuore degli sportivi come Mauro Lessi, il fedelissimo, e Igor Protti.

D

a Livorno sono approdati alla nazionale Magnozzi, Vincenzi, Pitto, Silvestri, Bruno Arcari fino a quelli del dopoguerra, il grande Armando Picchi e infine Cristiano Lucarelli.


31


32


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.