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150 ANNI di STORIA ATTRAVERSO LE PAGINE DEL NOSTRO QUOTIDIANO
SUPPLEMENTO AL NUMERO ODIERNO A CURA DI
Montecatini
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Venivano alle Terme e sognavano l’Italia unita Al Casinò giocano con le carte truccate Scarpe, ventagli e parasole La moda arriva da parigi Quella volta che La Nazione regalò la 2tuta” di Thayaht Vittoria, Gelso, Giulietta, Campo così battezzavano le acque Giorgio Batini si racconta “Facevo la cronaca e poi me la scrivevo” Giorgio Batini si racconta Giramondo e giraregione Cronache di altri tempi Quella prima redazione affacciata sul viale Verdi Montecatini, il simbolo dell’Italia che torna a sperare Wayne Eden, il purosangue per 23 giorni in mano ai banditi In sedicimila per ammirare Delfo Leoncavallo: cronache di una occasione perduta Quel giorno che entrammo nell’Olimpo del basket italiano Masini, Niccolai, Boni tre campioni nella storia
Supplemento al numero odierno de LA NAZIONE a cura della SPE Direttore responsabile: Giuseppe Mascambruno
Vicedirettori: Mauro Avellini Piero Gherardeschi Antonio Lovascio (iniziative speciali)
MONTECATINI
150 anni di storia attraverso le pagine del nostro quotidiano.
Non perdere in edicola il terzo fascicolo regionale che ripercorre, attraverso le pagine de La Nazione, la storia fino ai nostri giorni e i 17 fascicoli locali con le cronache più significative delle città.
Direzione redazione e amministrazione: Via Paolieri, 3, V.le Giovine Italia, 17 (FI) Hanno collaborato: Mauro Lubrani Gabriele Galligani Davide Ignudi Marco A. Innocenti Roberto Pinochi
Fotografie: Goiorani Rosellini Progetto grafico: Marco Innocenti Luca Parenti Kidstudio Communications (FI) Stampa: Grafica Editoriale Printing (BO)
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VENIVANO ALLE TERME E SOGNAVANO L’ITALIA UNITA I risorgimentali usavano il loro periodo di vacanza a Montecatini anche per organizzarsi E La Nazione fu il loro primo giornale
l’Unità d’Italia che toccò al foglio di Bettino Ricasoli. La storia è nota. L’11 luglio del 1859, nel pieno della seconda guerra di indipendenza, quando le truppe franco piemontesi avevano vinto battaglie di rilevanza enorme, come quella di Solferino, e già si pensava come invadere e liberare il Veneto, all’improvviso francesi ed austriaci firmarono un armistizio ed i Savoia non ebbero la forza per opporsi. Alla notizia, Cavour, dopo uno scontro durissimo con Vittorio Emanuele si dimise. E l’unico a sostenere la causa dell’Italia da unire, restò in quelle ore il capo del governo toscano costituitosi dopo la partenza del granduca, Bettino Ricasoli appunto.
Le Terme di Montecatini furono, a metà Ottocento, un luogo di ritrovo per molti protagonisti del Risorgimento. Qui, lontano dagli sguardi della polizia granducale, si scambiavano idee e progettavano le loro azioni.
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uale modo migliore per passare inosservati alla polizia del granduca di Toscana, che incontrarsi durante una vacanza termale? Quale modo migliore per organizzare rivolte, scambiarsi opinioni, stilare programmi e sognare l’Italia finalmente “libera ed una”? È un tema che non è stato ancora approfondito dagli storici ma certo affascinante. L’Italia, non c’è dubbio fu fatta anche a Montecatini, forse a Montecatini più che altrove. Perché qui convenivano – non c’era solo Giuseppe Verdi personaggi che avrebbero avuto un peso enorme nella storia del Risorgimento e di certo si incontrarono e scambiarono idee.
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er questo La Nazione fin dai primi giorni dalla sua nascita era molto diffusa nell’ambiente termale. Si diffuse poi capillarmente nel periodo di Firenze Capitale, mantenne poi inalterato il suo prestigio, e ancor oggi lo conserva, 150 anni dopo.
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ascere con l’Italia e accompagnarla, giorno dopo giorno, fino ad oggi. Nessun altro giornale vanta questo primato. E infatti, se anche una testata, la Gazzetta di Parma, sicuramente è più antica di quasi 100 anni rispetto al giornale fiorentino, è anche vero che per lunghi periodi ebbe un altro nome, in altri sospese le pubblicazioni, e in ogni caso non svolse il ruolo fondamentale per
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a notizia dell’armistizio arrivò a Firenze nel pomeriggio del 13 luglio e i patrioti si riunirono in Palazzo Vecchio dove regnava la rabbia, il caos, la voglia di reagire ma anche un profondo senso di impotenza. E l’unico che dimostrò di avere le idee chiare, ben al di là della logica, delle possibilità offerte dalla diplomazia, si rivelò Ricasoli che non poteva a nessun costo accettare quanto stava accadendo. E infatti, lui guidava un governo toscano provvisorio con l’unico scopo di arrivare al plebiscito per l’annessione al Piemonte, e se fossero tornati i Lorena tutto sarebbe crollato. Sotto il profilo politico ma anche sotto il profilo personale. Così, dimostrandosi in quelle ore il vero artefice del Risorgimento, ancor più dello stesso Cavour che in qualche modo aveva gettato la spugna, Ricasoli spedì due ambasciatori a Torino e a Parigi per tentare di modificare le cose. Ma nello stesso tempo mandò a chiamare tre patrioti fiorentini, il Puccioni, il Fenzi ed il Cempini, che a suo tempo avevano proposto di stampare un quotidiano in appoggio alle posizioni del governo
toscano, e disse loro: “È arrivato il momento, per domattina voglio il giornale.” E a niente valsero le timide proteste dei tre che, comprensibilmente, facevano notare come fossero già le nove di sera e come non sarebbe stato facile mettere insieme i testi e farli comporre in poche ore. Ma Ricasoli insisteva “O domattina o mai più.” E dette anche il nome alla testata “La Nazione”, che era tutto un programma, anzi, era il programma.
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uccioni, Fenzi e Cempini presero una carrozza e si fecero portare in via Faenza alla tipografia di Gaspero Barbera, un patriota piemontese e qui cominciò un lavoro frenetico a redigere i testi ed a comporli. Come nelle migliori tradizioni del giornalismo, redattori e tipografi lavoravano gomito a gomito. Un articolo non era ancora concluso e già la prima parte passava ai compositori. Un articolo non era del tutto composto – all’epoca non estivano le linotype ed ogni parola era composta a mano – e già si facevano le bozze per le correzioni della prima parte.
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lle cinque del mattino Ricasoli si presentò alla tipografia, lesse le bozze e dette il consenso. Alle dieci, tirate pare in tremila copie, due pagine in mezzo foglio, oggi diremmo formato tabloid, erano in vendita nel centro cittadino. Si trattava di un’edizione senza gerenza, senza il nome dello stampatore, senza il prezzo, senza pubblicità. Praticamente un numero zero. E così si andò avanti fino al 19 luglio quando, finalmente, La Nazione uscì nel suo primo numero ufficiale, con formato a tutto foglio, le indicazioni di legge, i prezzi per l’abbonamento e per la pubblicità. Così, dunque, nacque il nostro giornale. Che conobbe i giorni fausti dell’Italia Unita, e poi quelli pieni di
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problemi, non solo economici, in cui Firenze fu provvisoriamente capitale. Quindi la questione romana, la breccia di Porta Pia, e insomma tutte le fasi che con alterne vicende portarono alla nascita dello Stato italiano. Ma fu proprio con Roma Capitale che La Nazione dovette modificare il proprio tipo di impegno. Che fare? Seguire il governo e il mondo politico fino a Roma, là dove si sarebbero svolte da allora in poi tutte le vicende, e prese le decisioni relative all’Italia? La domanda fu posta ed era più che legittima. Nessun altro quotidiano aveva il diritto di continuare le proprie pubblicazioni nella sede del regno e del governo italiano, più di quello che l’Italia aveva contribuito a farla nascere. Ma fu compiuta una scelta, che di certo non fu di tipo economico: restare. Restare a Firenze, accompagnare la vita della città dove era nata, e dedicare sempre di più le proprie attenzioni anche alla vita quotidiana, a quella che oggi diremmo la cronaca di ogni giorno. Insomma, da grande foglio risorgimentale carico di tensioni ideali, a giornale come oggi lo intendiamo. Con rubriche dedicate alla moda, allo sport, con grandi spazi dedicati alla vita musicale e teatrale. Rese possibile questa scelta di obiettivi un grande direttore, Celestino Bianchi. Che seppe conquistare il pubblico femminile, interessare anche la media e piccola borghesia mercantile, ma soprattutto
richiamare intorno al foglio di Ricasoli le migliori firme italiane del momento. Che, del resto, già erano presenti su La Nazione, fin dai primissimi anni. E allora ecco il D’Azelio e il Tommaseo, ecco il Manzoni e il Settembrini, e poi il Collodi, il De Amicis, Alessandro Dumas, Capuana, il Carducci e in seguito anche il Pascoli, ed infinti altri. Grandi firme che sarebbero continuate durante il fascismo e nell’Italia repubblicana fino ad oggi. Da Malaparte a Bilenchi, a Pratolini, ad Alberto Moravia, a Saviane, a Luzi. Dopo aver ospitato Papini, Prezzolini, Soffici, e gran parte dei letterati delle Giubbe Rosse nel periodo che precede e che segue la grande Guerra.
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ueste le scelte che permisero a La Nazione, pur dovendo affrontare momenti di crisi e di difficoltà, di battere ogni volta le testate concorrenti. Se esisteva una difficoltà di vendita o addirittura di immagine, sempre riuscì a trovare gli uomini e le energie per risollevarsi. Liberale infatti, fu sempre il quotidiano fiorentino, ma di un liberalismo illuminato che sapeva aprirsi ogni volta ai temi di interesse sociale, e per farlo non esitava ad ospitare anche firme lontane dalle proprie posizioni. Così, quando si trattò di presentare ai fiorentini, e commentare, la nascita delle scuole serali, fu chiesto un articolo a un giovane e rivoluzionario poeta, il
Carducci. E fu tra i primi giornali, La Nazione di Firenze, a porre sul tappeto il dramma del lavoro minorile, e a pubblicare le relazioni di Sidney Sonnino sulla condizione dei bambini, quelli del Nord Italia che a sette anni lavoravano anche 13 ore al giorno nell’industria della seta e quelli di Sicilia, costretti a starsene chini, senza luce né acqua, nelle solfatare siciliane. Ancora di più colpisce, per il giornale del Risorgimento, la moderazione con la quale fu seguita la questione romana e fu data notizia della breccia di Porta Pia. E infatti, mentre la retorica anticlericale si scatenava, creando con i suoi estremismi solo un effetto boomerang, La Nazione fu capace di analisi e di intuizioni che a distanza di 90 anni, con il Concilio Vaticano II, perfino il mondo cattolico avrebbe fatto proprie. Scriveva infatti il nostro giornale: “Il potere temporale ha trattenuto il cattolicesimo fermo sull’idea imperiale pagana.” Del resto non era il Ricasoli religiosissimo?
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dunque, è in omaggio ad una visione laica delle differenze fra Stato e Chiesa, una visione totalmente deducibile dai vangeli che si combatté quella battaglia, che non significava affatto compiacersi di un assoluto anticlericalismo ideologico, o ancor di più di una qualsiasi forma di ateismo conclamato. E ancora, quando si trattò di decidere se trasferirsi a
Roma capitale, seguendo le sorti del governo e del Re, la spiegazione data ai lettori fu questa. “Noi non vogliamo che Roma attiri a sé tutta la forza intellettuale. Noi vogliamo che Napoli, Firenze, Bologna, Venezia, Milano, Torino, serbino la loro influenza legittima, portino il peso nella bilancia delle sorti politiche nazionali. Ogni regione ha elementi originali da custodire e nello stesso tempo è sentinella dell’Unità inattaccabile.” Una prosa intelligente, modernissima, attuale ancor oggi, 140 anni dopo.
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n atteggiamento che La Nazione conservò anche in epoche ben diverse. Così, durante il fascismo, pur costretta come tutte le testate a pubblicare le veline del minculpop, non per questo La Nazione si allineò mai totalmente al regime. Tanto da opporsi, allorché il Regime voleva imporre come direttori uomini di assoluta fede a Mussolini. E ospitare firme, come quella di Montale, il personaggio che per il suo antifascismo era pur stato “licenziato” dal Vieusseux. Uno stile, un modo di essere, che la premierà quando, pur con mille problemi tornerà alle pubblicazioni nel 1947.
Sopra: in bianco e nero la Sorgente Acqua Giulia in una foto del 1923 e l’interno della Reale Fonte “Tettuccio” in una cartolina del 1900. Un gruppo di villeggianti siede in attesa di “passare le acque”.
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da La Nazione del 4 agosto 1863
Al Casinò giocano con le carte truccate Una corrispondenza dalle Terme di Ferdinando Martini La pianista inglese che percuote i tasti di un Kern
Montecatini Terme, nella sua tradizione secolare, ha sempre avuto una casa da gioco. Ma, inutilmente nel dopoguerra ha cercato di poter riaprire un casinò. Più volte l’operazione è sembrata possibile salvo poi sfumare di fronte a problemi di ordine politico e giuridico.
Montecatini ha, in questo periodo, 80 fra alberghi e pensioni. Conserva un aspetto agreste, è praticamente immersa nella campagna, eppure vive la sua stagione migliore. La frequentano, infatti, i rampolli bene della migliore società europea. L’unico che non si diverte, a quanto pare, è il giovanissimo Ferdinando Martini (ha appena 22 anni), da poco arrivato a La Nazione, e certo ben lontano da quei traguardi politici che lo porteranno ad essere ministro della pubblica istruzione e governatore dell’Eritrea. Giovane ma ambizioso, vuol dimostrare di essere più bravo del Collodi che di solito tratta questi stessi temi, e così usa tutte le carte. Alcune, a quanto pare, sono truccate...
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uando il treno si fermò ed io scesi alla stazione di Montecatini erano le sette della sera; e il sole presso al tra-
monto tingeva le estreme vette dei colli della Valdinievole di una luce dolce e melanconica come il bacio d’addio della donna amata. Infilato il soprabito corsi al Casinò… Oh! I casini de luoghi dei bagni di cura sono la culla della civiltà futura!
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e mai questa sentenza vi sembrasse un po’ arrischiata, pensate che le fogne di Parigi svelarono a Victor Hugo l’avvenire della Francia… perché dunque non potrò io intravedere la storia dei nostri bisnipoti nei Casini dei luoghi dei bagni? E poi, ditemi, dove la fusione, l’allivellamento delle classi a’ quali l’epoca nostra agogna sì ardentemente, dove, dico, si praticano con maggior dose di buone volontà che in quei luoghi privilegiati? Conduceteci Proudhon – questo illustre democratico che licenzia i servitori quando non gli fanno di cappello – e ne uscirà soddisfatto. Egli vedrà il
negoziante d’acciughe giocare familiarmente una partita di picchetto o d’écarté col rampollo di qualche famiglia principesca; l’altera contessa parlare amichevolmente col fratello della crestaja, e l’elegante dandy, il devoto di quella religione che Chasles chiamò degli abiti nuovi (che ha i sarti per gran sacerdoti, inventa i gilet e dà impulso alla rivoluzione delle cravatte) ballare la polka colla figliuola del calzolaio!...
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osì io pensava varcando la soglia del Casinò di Montecatini, e seguendo il filo delle idee, quasi mi sentiva disposto ad abbracciare le teorie del dottor Pangloss e a gridare anch’io: tutto va per il meglio nel migliore dei mondi possibili… Ma ahimé! Non vi è cosa umana che non abbia il suo lato debole. “Et la rose au Bengale pour etre sans épines est aussi sans parfum”. Entrando nella grande sala, vidi una bionda figlia della perfida
Albione, che faceva di tutto per tartassare una graziosa mazurca di Giorza, picchiando a tutta forza le maestose mani sopra i tasti di un pianoforte di Kern… Allo strazio che arrecarono alle mie povere orecchie le esercitazioni pseudo-musicali della fanciulla britanna l’attenzione svanì, le teorie del dottor Pangloss non altro che il sogno beato di un cor contento, e ripensai alle quattro grandi calamità che affliggono gli uomini – la peste, la fame, la guerra, i suonatori di pianoforte. Passai altrove e mi trovai nella stanza del gioco…
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qui comincian le dolenti note a farmisi sentire.” Apro una parentesi e parlo sul serio. È questa la terza volta in due anni consecutivi che quelli, fra i bagnanti di Montecatini, i quali fra un bicchiere d’acqua
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Nella foto: Ferdinando Martini a Montecatini con la Regina Margherita durante una visita ufficiale della sovrana.
della Fortuna e il pranzo del Valiani U (due purganti di genere diverso) amano trastullarsi colla bambara, lamentano di essere svaligiati da cavalieri d’industria introdottisi al Casinò; è questa la terza volta che i custodi del Casinò stesso danno notizia alla direzione del ritrovamento di carte segnate, le quali stanno a fare ampia testimonianza del furto commesso. Perché dunque non si provvede al rimedio? Io convengo con la direzione che i truffatori non si conoscono dal viso; e chi pretendesse di conoscerli per tal guisa farebbe opera vana; precisamente come chi andasse alla caccia de’ camosci per le strade di Firenze.
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a non si potrebbe all’entrata del Casinò porre un registro nel quale ogni individuo fosse costretto a dichiarare nome e cognome? Vi sono certi nomi, così famosi nella storia della baratteria, che coloro i quali hanno la disgrazia di portarli non oserebbero pronunziare e renunzierebbero quindi alla domanda d’ammissione così condizionata. Insomma, che i direttori ci pensino; io ho suggerito un sistema, che forse non è all’uopo, senza pretendere di far loro il maestro di casa, e togliere il posto al signor Galimberti, che
per la sua squisita cortesia può servire di modello a tutti i maestri di casa del mondo incivilito. E chiudo la parentesi.
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alla stanza del giuoco tornai nella sala e di qui nella stanza del giuoco, e via discorrendo, come si sente la noia alle spalle e vorrebbe evitarla. Volsi gli occhi intorno. Alcuni giocavano, altri pochi, intorno al pianoforte, dicevano brava alla giovane suonatrice colla faccia fresca di chi sa di mandar fuori una bugia sotto le vesti eleganti del complimento. Gli altri, ed erano i più, sbadigliavano o dormivano.
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scii; e guardato l’orologio vidi che erano le nove. Una ora sola era scorsa da quando ero entrato al casinò. Oh! Quest’ora, avrebbe detto la mia interlocutrice, mi è parsa lunga come una tragedia, interminabile come le interpellanze dei deputati napoletani della sinistra parlamentare! Rientrato a casa, mi sdraiai poco mollemente sopra un sofà che non avrebbe potuto essere più stretto, ma più morbido sì, e mi addormentai. Un colpo battuto alla porta della mia camera mi fe’ risvegliare ad un tratto. Era il cameriere della locanda che veniva ad avvertirmi che erano
suonate le sei… Montecatini, ve lo dico se mai non lo sapeste, è un luogo dove si va a letto quando non se ne ha voglia, ci si alza quando si vorrebbe dormire, si beve quando non si ha sete, e via di questo gusto che è una vera delizia. Affascinato dalla visione corsi al Tettuccio. – Oh! Quanto diverso il sogno dalla realtà – Nel sacro recinto tutto era silenzio; solamente un vecchio diplomatico trincava camminando a grandi passi l’acqua miracolosa, cercando nell’impura bevanda il segreto della giovinezza perduta, quasi che la gioventù potesse restaurarsi come si restaurano i quadri, le case e disgraziatamente anche i governi.
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i lì a poco la processione incominciò: il vasto locale andò popolandosi, ed io ebbi campo di essere testimone oculare di una scenetta comica che non posso fare a meno di raccontare ai miei lettori. La signora W… rispettabile matrona e rigorosissima educatrice, aveva condotto seco a Montecatini sua figlia, vaga giovinetta di diciassette anni. Le aveva seguite a bagni il signor D…. giovanissimo d’anni e d’esperienza, riamato amante della graziosissima fanciulla. Fino allora l’amore delle due
colombe si era limitato a qualche tenera occhiata furtiva. Ma la dolcezza del primo colloquio era rimasta sempre nel numero delle speranze! I due giovanetti fidavano nella libertà della quale si gode ai bagni per potersi sussurrare a vicenda le incantate parole d’amore.
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a ahimé! La madre, specie d’Argo in gonnella, attraversava colla sorveglianza continua i desideri dei due innamorati. Quella mattina la vecchia signora, accanita bevitrice d’acqua del Tettuccio, era al tredicesimo bicchiere quando il giovane sedendosi presso la fanciulla le dice qualche parola. La fanciulla fa il viso rosso; la madre vorrebbe correre a disturbare il colloquio… Ma oh Dio!... il rigore materno trova un contrasto violento in una occulta potenza… La vecchia tenta inutilmente di resistere… cede… fugge… e i due giovanetti seduti all’ombra dei verdi oleandri (vulgo mazze di San Giuseppe) si ricambiano i giuramenti di un affetto eterno… Oh! Scrive ci ha dimostrate le conseguenze di un bicchier d’acqua! Immaginate quando i bicchieri sono tredici, e l’acqua è attinta all’impuro cratere del Tettuccio.
L’ex cronista de La Nazione e professore alla Normale di Pisa, divenne poi Governatore dell’Eritrea e Ministro dell’Istruzione Pubblica nel Governo Giolitti.
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da La Nazione del 10 aprile 1877
Scarpe, ventagli e parasole La moda arriva da Parigi Infuriano i bottoni di madreperla, ma va forte anche lo stivaletto alla Maria Stuarda Consigli alle dame che frequentano i salotti, le Terme, le spiaggie
coistures e delle altre parti complementari dell’abbigliamento. L’anarchia che da qualche tempo si è manifestata fra i cappelli prosegue a regnarvi. Se ne vedono d’ogni foggia, dalle più semplici alle più complicate: dalle più artistiche alle più bizzarre. La fantasia della modista può spaziare nei dominii del capriccio e della stravaganza.
Fin dal 1970, La Nazione dedica particolare attenzione alla moda femminile. Oltre ad una rubrica settimanale vengono presentati disegni di modelli di abiti e di accessori.
C Con gli statuti del Milletrecento, Firenze divenuta città guelfa, e quindi borghese, si poneva il problema di non ostentare la ricchezza. Per questo varie pubblicazioni (“il Reggimento delle donne” il “Libro dei buoni costumi”) consigliavano alla madri di famiglia e alle fanciulle come comportarsi nei giorni di festa, come avere atteggiamenti sobri in pubblico, come non fare sfoggio di gioielli quando andavano in campagna e, soprattutto, alle Terme. Ben diverso quanto accade in questi anni dell’Ottocento. Gli abiti femminili sono sempre più costosi e pesanti, gli accessori
sono diventati indispensabili, la donna è agghindata come raramente lo fu in precedenza nella storia dell’abbigliamento. E l’occasione migliore per ostentare il proprio guardaroba, meglio se arrivato da Parigi erano proprio le vacanze alle Terme, dove era concesso – anzi, auspicato – che avvenisse quanto in città, quotidianamente, era negato. Ecco dunque come E. Bilia – Mossi, esperta di moda per La Nazione, tratta il tema nella primavera del 1877.
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antengo la mia promessa e vengo a parlare oggi dei cappellini, delle
appellini di paglia d’Italia, che a rigore dovrebbe dirsi paglia di Toscana, non godono elevata posizione: la paglia nostrale è una regina decaduta e solo ammessa nell’elenco infinito delle paglie e delle fantasie che le imitano: Berlino, Monaco, la Svizzera fanno una concorrenza assai sensibile alla fabbriche inglesi e francesi in tale articolo. I colori nuovi, a base di giallo, si adattano egregiamente alla paglia nera, ed in generale favoriscono più le signore more delle signore bionde. In massima i cappelli di paglia sono a capino piatto, largo, più o meno alto: l’ala assume la forma che le assegna il gusto della modista: ed è giusto che sia così: l’ala non è dessa quella, mediante la quale la fantasia eseguisce i suoi voli più ardenti?...
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a moda pone in evidenza per la stagione un cappellino storico… almeno pel nome: il cappellino Enrico III. Dico pel nome, perché sarà difficile stabilire un rapporto fra la forma e il colore di questo grazioso modello e il cupo uccisore del Duca di Fuisa. Esso si fa in paglia o in tulle, ed è letteralmente coperto di fiori, dai quali
si diparte una ricca piuma… Le capote estive sono di varie stoffe e di varie fogge: la stoffa che già accennai per l’abito Czartoriska e che con grazioso paradosso chiamai neigeuse (sarà una vera delizia per l’estate) gode di gran voga. La capote Virginia è in faille bianco–argento con piume bianche e nodi di velluto nero. La capote Madrilena è in stoffa di color rosa con pieghettato color tiglio, che copre l’ala ed ha un mazzo di piume tinte in gradazione dal bianco al color tiglio. Il cappellino Angè ribelle è in faille, color d’oro vecchio, capricciosamente drappeggiato con nastri “riflesso di lava infuocata” piume nere ed ale laphohore rosso. Non vi è nulla di più graziosamente mefistofelico… Dopo aver veduto i cappellini saltiamo alle scarpe e agli stivaletti. Così potremo dire di aver tratteggiato da capo a piedi la fisionomia della moda primaverile ed estiva.
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anno il primato sulle altre, tre fogge di calzature: I souliers à l’incroyable, epperciò come lo m’insegna il nome, di stile secolo XVIII. Il tacco è dorato, e sovr’esso vedesi un moscerino (muscardin) in smalto il quale si nasconde in un cespuglio cesellato. Lo stivaletto Maria Stuarda allacciato per di dietro e fatto di sughero egiziano. Lo stivale Chimere di raso color bronzo, con ricami antichi. I fisciù lamballe (altro ricordo legittimo, come i gigli sui costumi Betoni) sono di ventaglio Czarina, in foglie valencienne; il ventaglio Fidanzata il
È a primavera che si scatena la curiosità femminile per la nuova moda. E. Bilia- Mossi, la cronista de La Nazione, si impegna nel dare consigli su come vestirsi dalla “testa ai piedi”.
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Nell’immagine grande: un tipico cappello a veletta con “stelle” di seta blu e oro di fine ottocento arricchito da un prezioso nastro blu scuro. Il produttore forniva alle clienti anche le istruzione per come ornare il cappello.
quale porta dipinto un superbo medaglione che rappresenta l’Iphigènie de l’himen, vittima volontaria e interessante, non riserbata, per certo, al fato della figlia di Agamennone. A proposito di ventagli, mi piace, terminando, accennare a una novità letteraria: una magnifica edizione illustrata dell’opera del signor Blondel: Histoire des èventails chez tous les peuples et à toutes les epoques.
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profumi subiscono, come tutto il resto, la legge dei capricci della moda; i fanatici del bon vieux temps. Si rammentano ancora con delizia dell’odore di polvere alla marescialla con cui
le nostre nonne incipriavano il loro toupet, e rimpiangono la semplicità dei profumi maggiormente in voga presso i veneziani del Medio Evo che erano (i profumi, non i veneziani) quello della mela rosa e della scorza di limoni introdotti d’Asprano.
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erto, gli odori aristocratici maggiormente in voga negli ultimi tempi, se erano deliziosi all’olfato, riuscivano scomunicati alla lingua ed alle orecchie. Si chiamavano, cito i due principali, l’opoponax e l’iglangyland, nome indiano della Unona onoratissima, estratto dai fiori sta fra il lillà di Persia ed il mughetto.
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desso la voga ha portato in auge l’ixora, nome assai dolce d’una pianta della flora tropicale, il cuk effluvio soave, profumando l’aere, parrà, a chi ha un tantino di poesia nell’anima, un saluto olezzante che il Nuovo Mondo invita al vecchio. La madreperla, il gentile prodotto della gentile conchiglia è sempre più di moda… pei bottoni. Il colore preferito è quello maggiormente tendente al bianco: fra le ultime novità in fatto di bottoni, vi sono anche quelli incrostati, o scolpiti, e quelli damaschinati… come una “bonne lame de Tolde” d’un eroe spagnolo del signor Dènnery o del signor Sèjour.
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a moda che regna su tutto, estende la sua influenza ed il suo impero anche sulla papeterie. E avei da dire molto sui colori a sfumature delicate, della carta per letterine eleganti, sulla nuova forma delle buste… ma non lo consentono il tempo e lo spazio. Rimettendo ad altra occasione questi importanti ragguagli, mi limiterò, terminando, a constatare come l’abuso delle cifre colorate, in oro e in argento, abbia creato una moda affatto differente, una moda, per dir così, agli antipodi, che consiste in una cifra piccolissima, collo stemma o senza, in mezzo al foglio.
Quella volta che La Nazione regalò la “tuta” di Thayaht
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i chiamava Ernesto Michahelles, ma preferiva farsi chiamare Thayaht, ed ha conquistato un posto di rilievo nella storia dell’abbigliamento per aver inventato e dato nome ad un capo di vestiario unico nel suo genere, la tuta appunto. Ovvero il più semplice, il più economico, il più facilmente riproducibile e intramontabile abito “unisex”. Lo fece negli anni Venti, ed il successo fu enorme. Thayhat era fiorentino, anche se lavorò soprattutto a Parigi e nel resto d’Europa, e per questo La Nazione lo seguì con particolare attenzione durante il suo lavoro, con ciò dimostrando la particolare sensibilità che il nostro giornale sempre ha rivolto al settore della moda, dalle origini ad oggi. E proprio questa sensibilità portò La Nazione a realizzare un successo editoriale senza pari negli anni Venti. Prese a pubblicare, assieme al giornale, modelli di carta degli abiti più in voga, così che ogni donna si poteva ritagliare e cucire il proprio stando a casa. Lo fece, ovviamente, anche per la Tuta, ed il successo fra i lettori fu enorme.
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Vittoria, Gelso, Giulietta, Campo così battezzavano le acque Nel 1922 furono censite 57 sorgenti ma erano già usate e conosciute da secoli di Roberto Pinochi
Risale al 1700 l’utilizzo costante e turistico delle sorgenti termali. Inizialmente ogni proprietario dava nome alla sua acqua e cercava di trarne vantaggio economico. Fu però nella seconda metà dell’Ottocento che la città prese ad utilizzare in modo sistematico e organizzato le proprie capacità termali.
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Un elenco stilato il 21 aprile 1922 dal Commissario Prefettizio dei Bagni di Montecatini, (l’appellativo Terme arriverà solo nel 1928) faceva ascendere a 57 le acque rintracciabili nel campo minerale della città. Il proliferare quasi incontrollato delle sorgenti confermava la ricchezza ormai storicamente accertata del sottosuolo montecatinese, dal quale sia il demanio che i privati attingevano abbondantemente per soddisfare le richieste sempre più pressanti del pubblico.
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pecialmente i privati proprietari cercavano di sfruttare le acque che scaturivano dai loro terreni, e che per lo più non erano che blande ripetizioni e copie sbiadite delle più rinomate e secolari fonti termali. Tutto questo succedeva nel ristretto ambito del perimetro
urbano della città, cioè nei “parchi” storici (quelli del Tettuccio, della Torretta, il Gabbrielli, cioè l’attuale Salute), o lungo le strade, i Viali Manzoni e Bicchierai, il Corso Vittorio Emanuele (ora Matteotti), la Via delle Saline.
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on ci sarà bisogno di rammentare i nomi delle acque più famose di Montecatini, richiamate in centinaia di trattati medici e opuscoli turistici. Un’infinità sono poi quelle che solo raramente vengono ricordate in qualche cronaca: nel parco del Tettuccio, le ottocentesche acque del Cipollo, usata per bagni, di Papo, della Lavandaia, Savi; in quello della Torretta nascevano le acque Media, del Villino, Rinfrescante, Giulia, racchiusa nel suo tempietto classico, di proprietà delle Nuove Terme; nei terreni di Gabbrielli vedevano la luce sorgenti della stessa Società denominate Masso, Grotta, Mandorlo, Campo. Nei dintorni delle Tamerici vi erano le acque dell’Olivo, scoperte in mezzo a un oliveto, e dell’Angiolo, dal nome del fattore che le aveva ritrovate poco dopo la metà dell’800.
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ltre la metà delle acque appartenevano a privati, che si sbizzarrivano a inventare nomi accattivanti e di pronta presa sul pubblico: non bisogna dimenticare che il business maggiore riguardava la commercializzazione delle acque in bottiglia, e la provenienza montecatinese era di per sé sinonimo di garanzia e di efficacia. Così i proprietari (per citarne alcuni, Guglielmo Del Rosso, Giulia, Modesto ed Egisto Simoncini, Penelope Guiducci, Ezio Silvestri, i Tacconi, i Ghilardi) chiamavano le loro acque Vittoria, Rinfrescativa, Giulietta, Gelso, Imperia, Reale, Salus Montecatini. E spesso per esaltarne ancora di più le proprietà evocavano le più antiche e celebri sorgenti di Montecatini, al cui appellativo anteponevano “Tipo”, “Nuova”, “Simile”, moltiplicando così denominazioni classiche, e provocando anche una qualche incertezza tra i consumatori. “Tipo Tettuccio”, “Simile Tamerici” o “Nuova Torretta” facevano la fortuna di chi le smerciava, un po’ meno del demanio e della Società Nuove Terme costretti a fronteggiare un’invasione e una
concorrenza sleale. I proprietari qualche volta legavano il loro nome a quello della sorgente, così si conoscono le acque Martinelli, Lazzerini, Zanni; il campo minerale si allargava alle strade contigue, in via della Torretta vi era una cosiddetta Nuova Sorgente, in via Trieste un’Acqua Regina Elena, in via Montebello le Acque Favorita e Soave. La ricchezza del sottosuolo montecatinese acquisiva sempre nuove conferme e certificazioni, e anche i moltissimi pozzi ancora esistenti negli orti e nei giardini privati della città ne sono testimoni inoppugnabili.
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ontecatini, Città delle Acque, non è quindi solo uno slogan, visto che le acque sono il patrimonio su cui camminiamo tutti i giorni, e dal cui sapiente sfruttamento bisogna ripartire per risollevare le sorti della città.
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Giorgio Batini si racconta
“Facevo la cronaca e poi me la scrivevo” Ho sempre voluto partecipare agli eventi, anziché limitarmi a raccontarli Cosa feci per il Vajont. Un grande giornale dalla centenaria tradizione d’indipendenza
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on sono stato un gran giornalista (pochi, del resto, sono quelli che riescono a vivere con l’autoelogio incorporato), però me la sento di dichiarare che sono stato un giornalista particolare, forse un esemplare in estinzione nell’odierna “fauna” della carta stampata, cioè un personaggio che viveva la vita piuttosto che limitarsi a raccontarla. Stiamo parlando, grosso modo, dei lontani anni CinquantaSessanta, quando io mi sentivo appassionatamente cronista non mi imbarcavo sulla bananiera diretta verso porti esotici, ma inforcavo la bicicletta, una scarcassata bicicletta che aveva ancora avvolto alla canna nera del telaio un argenteo bollo da dieci lire. E come fanno i grandi inviati di ritorno dall’Orinoco, anch’io scrissi un libro di ritorno dal viuzzo di Monteripaldi, uno dei miei libri ormai introvabili – “Uomini per Madama” – e se Beppe Pegolotti parlava inglese e il vecchio Renzo Martinelli anche il bantù, io parlavo correttamente in gergo e invece di pistola dicevo la “ribattina”, la “rabbiosa”, la “baiaffa”, invece di polizia la “giusta”, la “madama”, e invece di prigione la “buiosa”. Sapevo meglio dello Smilzo come si fa lo “sfilo”, magari il “tappeto” sotto il letto della Maresca per prendere il portafogli al cliente indaffarato, quelli della banda del
buco erano come di famiglia, sapevo dei furti di Veleno quasi in tempo reale, andavo e venivo in casa di Palle Secche (una porta d’entrata, tre possibili vie d’uscita), a volte arrivavo nel vicolo dove c’era il morto prima del brigadiere, e un giorno trovai nei boschi e caricai in macchina un pezzo d’uomo che aveva fatto a fette la moglie con la scure, lo tranquillizzai (“sono cose che succedono in tutte le famiglie”) e lo portai fino alla prima stazione dei Carabinieri; in altra occasione – per avere la foto di una vittima che la “giusta” aveva già portato via – mi feci fotografare sdraiato in terra con sopra un lenzuolo, dal quale però spuntavano le mie scarpe, mentre nelle foto dei giornali concorrenti la vittima era scalza.
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ndagavo come uno della “mobile” (proprio come in certi libri di detectives americani che però non leggevo), riferivo ai lettori della Nazione anche i risultati delle mie personali indagini, e poteva succedere che – domandando in questura cosa avesse confessato l’autore di un delitto – mi si rispondesse “quello che lei ha scritto ieri sul giornale...”. “Invece di scrivere la cronaca – mi diceva un direttore (Alfio Russo), tra il corrucciato e il compiaciuto – tu fai la cronaca, insomma partecipi…”. Era vero, stavo più in giro che in ufficio, e questo accadde ancora di più quando il proprietario del giornale mi comprò la prima “Vespa”, e poi una moto Gilera, il che fece scalpore tra i colleghi, tutti ciclisti.
Nel tondo: Giorgio Batini alla stazione di Santa Maria Novella di Firenze dopo il ritrovamento delle due tavole del Pollaiolo, rubate dai tedeschi e recuperate da Rodolfo Siviero.
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Giorgio Batini si racconta
Giramondo e giraregione H o scritto centinaia di articoli per difendere la natura, le tradizioni, le memorie storiche, l’arte. Poteva accadere che nello stesso giorno ci fossero nel giornale tre o quattro articoli miei, uno firmato Giorgio Batini, un altro Giobat, un altro ancora Bat, oppure Carlo Lienzi ch’era di tutti e di nessuno. A quei tempi il salotto buono del giornale era “la terza”, la famosa terza pagina, la quale ospitava pezzi letterari, grandi servizi, inchieste, finestre aperte sul mondo, ma consentiva anche di nobilitare piccole realtà locali. In quella pagina - dove in quegli anni Sessanta apparivano illustri firme di scrittori italiani - ho fatto per anni sia il “giramondo” che il “giraregione”, sempre inguaribilmente cronista, e sempre affamato di spazio, perché secondo me le cose da raccontare sono come le ciliegie che una tira l’altra, cosicché a volte – per dire proprio tutto – bisogna scrivere un libro invece di un articolo. Dicono che ne ho scritti troppi, ma sono di più quelli che avrei voluto scrivere.
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e notizie non mancano mai. Sono nell’aria come le farfalle di Papillon, importante è nascere con una reticella sempre pronta, mai stanchi di vedere, di ascoltare, di sapere. Quando raccolsi una voce che
CRONACHE DI ALTRI TEMPI Certe storie andrebbero riferite in ordine cronologico, ma io le racconto come vengono vengono. Ricordo per esempio, che quando ci fu la sciagura del Vajont, tutte le strade per Longarone erano bloccate dall’esercito mandato in soccorso. Ebbi l’idea di andarci “col treno”, mi feci cioè a piedi quattordici chilometri di binari e questo mi permise non solo di arrivare tra i primi dei trecento-quattrocento inviati, ma anche di vedere un particolare forse sfuggito ad altri: infatti un ponte ferroviario (l’ultimo prima del paese distrutto dallo tsunami della diga) scavalcava un torrente che aveva ricevuto l’ondata e dove ormai l’acqua si era ritirata. Orrendamente indimenticabile ciò che vidi: nel letto del torrente c’era uno “sformato” di melma, mani, braccia, teste umane. Restai a lungo nel Vajont, anche perché il giornale ebbe l’idea (e forse fu la prima volta che accadde una cosa del genere) di distribuire i soldi raccolti dai lettori del giornale direttamente ai superstiti, con tanto di libretto bancario, tenendo conto dei danni personalmente subiti.
l’amico Rodolfo Siviero era riuscito a recuperare in America due celebri tavole del Pollaiolo rubate dai tedeschi, feci una corsa fino a Le Havre, riuscii a salire sul transatlantico di Siviero, lo intervistai, detti per primo la notizia del recupero, e tornai in redazione con l’amico Rodolfo il quale mi concesse di portare la valigetta nera che custodiva i Pollaiolo.
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ndimenticabile. Quando in Russia un georgiano mi raccontò che nel Caucaso c’erano (come nel caso dei mustang delle praterie americane) dei branchi di cavalli selvaggi, feci di tutto per riuscire a ottenere dalle autorità sovietiche (erano i tempi di Kruscev) il permesso di raggiungere quelle regioni lontane, dove giunsi dopo essere stato in Georgia e a Tiblisi. Girai a lungo per monti e foreste, e infine un giorno potei scoprire - e fotografare – un branco di cavalli selvaggi che si era riunito sulle sponde di un piccolo lago salato, una piccola gemma azzurra al fondo di una verde forra boscosa. Uno spettacolo straordinario, un momento della mia vita che di tanto in tanto la memoria mi regala. Un momento, voluto, cercato, in mezzo a tanti altri fortuiti, occasionali, dei quali spero di essere riuscito a comunicare l’emozione ai lettori della Nazione.
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Quella prima redazione affacciata sul viale Verdi Cominciò nel dopoguerra la presenza quotidiana de La Nazione a Montecatini I colleghi che si sono succeduti negli anni
grande appassionato di orologi, che poi avrebbe proseguito e concluso la sua brillante carriera al “Giornale” di Montanelli.
F di Mauro Lubrani
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ome il primo amore, anche la prima redazione non si dimentica mai. E quella dove ho mosso i primi passi della professione della mia vita, non solo è stata la mia prima redazione, ma in assoluto la prima nella città di Montecatini. La ricordo bene ancora oggi: un locale piccolo ed elegante, al piano terra dell’Azienda di cura e soggiorno, affacciato sul prestigioso viale Verdi, quello che porta dalla piazza agli stabilimenti termali e che fu così disegnato dagli architetti del Granduca Leopoldo nella seconda metà del ‘700.
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ll’interno un arredamento in legno fatto su misura con l’aggiunta di alcune vetrine illuminate su cui erano disegnati il palazzo, la redazione e la tipografia della sede di via Paolieri a Firenze. Uno spettacolo, specie di sera. L’arrivo di una redazione vera e propria voleva essere un riconoscimento, da parte della proprietà del giornale, all’importanza internazionale raggiunta nel dopoguerra
da Montecatini. La fama delle sue Terme ormai si era diffusa in tutto il mondo e venivano a curarsi con le acque e a rilassarsi re, principi e capi di stato, le più celebrate stelle di Hollywood, politici e industriali.
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u quel viale, davanti alla redazione de La Nazione, aperta agli inizi degli anniSettanta, sfilavano i personaggi più importanti del momento. Una pagina intera di cronaca esisteva già dal 1950. A lungo la corrispondenza fu curata da Gino Magnani, che tanto contribuì con la sua attività a diffondere il nome di Montecatini (fu lui che creò la definizione “Colle lunato” per Montecatini Alto), e dal figlio Leandro, storico maestro elementare alle scuole “Pascoli”.
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l primo professionista arrivò quando ancora non c’era una redazione (lavorava nell’appartamento di viale Baccelli) e fu l’indimenticato Egisto Squarci, che fece tappa per qualche anno a Montecatini (veniva da Rosignano) prima del trasferimento definitivo alla redazione province
di Firenze. Egisto fu protagonista di molte battaglie ancora oggi ricordate: la chiusura delle cave di Monsummano Alto per bloccare una ferita alla collina e soprattutto il salvataggio di Casa Giusti, che doveva essere abbattuta per fare posto ad un supermercato. Squarci si innamorò della città e vi rimase legato per tutta la vita. Continuò a curare i convegni scientifici con una straordinaria capacità divulgativa e il concorso delle mascherine, organizzato per quasi mezzo secolo dal nostro giornale, la cui finale regionale si svolgeva ogni anno alle Panteraie.
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opo il trasferimento di Squarci a Firenze, la corrispondenza del giornale fu curata da Loris Lenzi e da Vasco Ferretti e fu in quel periodo che cominciai le mie prime collaborazioni. Era davvero affascinante vedere i propri pezzi pubblicati sul giornale. All’inizio degli anni ’80, la redazione cambiò sede e passò sulla Passeggiata pensile del Monte dei Paschi con affaccio sulla piazza del Popolo. Arrivò a lavorare da Milano un nuovo professionista, Giampiero Negretti,
inalmente venne anche la prima sede di proprietà del giornale – quella attuale in via Don Minzoni – di cui ero e sono il responsabile. Piano piano sono aumentate le pagine di cronaca (da una sola grande alle attuali otto tabloid) e naturalmente i giornalisti. Oltre a Ferretti, furono assunti Marco Innocenti e Gabriele Galligani. Sono passati da Montecatini colleghi come Beppe Nelli, Vittorio Scutti, Gigi Paoli, Francesca Cavini, Maurizio La Ferla, Luca Cecconi, Gianni Bechelli… Poi Cristina Privitera, che oggi ricopre l’incarico di vice, Giampaolo Marchini e Alberto Andreotti, responsabile al posto di Lubrani (trasferito a Pistoia) dalla fine del 1999 al giugno 2007.
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uindi, il mio ritorno nella stessa stanza lasciata per quasi dieci anni, dove ho ritrovato quasi tutti gli stessi colleghi e soprattutto ho potuto riprendere un dialogo con i lettori della città e della Valdinievole che idealmente non si era mai interrotto. La storia de La Nazione a Montecatini prosegue oltre il 150° del giornale verso nuovi importanti traguardi. Senza dimenticare collaboratori preziosi come la Foto Goiorani, da sempre al nostro fianco a seguire i più importanti avvenimenti di cronaca, e Foto Rosellini. Due aziende storiche che hanno immortalato le più importanti pagine della vita di questa città, dalla fine dell’800 ai giorni nostri.
Nella foto: una festa con giornalisti, collaboratori e amici del nostro giornale. Si riconosce al centro (in seconda fila da basso) Mauro Lubrani responsabile della redazione.
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Gli anni ‘50
Montecatini il simbolo dell’Italia che torna a sperare L’autostrada, il Palazzo del turismo, il nuovo Kursaal per una località termale sempre più alla moda
Bongiorno a incollare milioni di persone alle prime traballanti immagini in bianco e nero.
È È la vigilia del boom economico, l’Italia si risolleva dalle ferite della guerra e Montecatini diventa uno dei simboli della rinascita. L’Ippodromo Sesana, rinnovato nel 1952, accoglie campioni da tutto il mondo. I grandi alberghi sono frequentati dai vip, primi fra tutti Grace (nella foto) e Ranieri di Monaco.
il momento di riscoprire, o per molti di scoprire per la prima volta, il gusto della vacanza: così si riempiono soprattutto le spiagge, ma anche le città d’arte, le stazioni climatiche di collina e montagna, e i centri termali che solo la fase acuta della guerra aveva costretto alla chiusura. Dalle regioni del sud comincia l’emigrazione verso le città industriali del nord Italia, dal 1955 al 1971 saranno nove milioni i cittadini meridionali a cercare lavoro e benessere nelle fabbriche di Torino, Milano, Genova.
M di Roberto Pinochi
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a seconda guerra mondiale è finita da meno di dieci anni. L’Italia comincia ad intraprendere la strada che la porterà verso il boom economico degli anni ‘60. La ricostruzione, dopo gli scempi del conflitto, sta faticosamente avanzando, e gli italiani cominciano ad assaporare il gusto delle comodità che il progresso garantisce. Nelle case entrano i frigoriferi che soppiantano i vecchi contenitori del ghiaccio, negli uffici le macchine da scrivere sostituiscono penne e calamai.
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el 1958 circolano in Italia quasi un milione e mezzo di automobili, dieci
volte quelle del 1946. Inizia in questi anni la produzione della Seicento, un’utilitaria per la quale gli italiani firmano pacchi di cambiali, considerato che costa il triplo di una Vespa, e quindi lo stipendio medio di un intero anno. Sul mercato arriva subito dopo la Cinquecento, proprio nel 1957, che assumerà il suo appellativo dal prezzo di vendita: 480.000 lire. Sono di questi anni i primi Supermercati, enormi bazar nei quali le aspirazioni consumistiche degli italiani trovano terreno fertile. Dall’America arriva poi la televisione. Il piccolo schermo apre agli italiani nuovi mondi sconosciuti, ora a portata di mano dentro le case ed i bar, anche se poi sono i quiz di Mike
ontecatini è già tornata fieramente in sella. Le difficoltà dell’immediato dopoguerra hanno aguzzato l’ingegno degli amministratori locali. Il Sindaco Marchetti, così come altri suoi colleghi di città turistiche, riesce a far fronte all’emergenza grazie agli introiti di una Casa da Gioco, che rimane aperta per quattro mesi, dal 19 febbraio al 21 giugno 1946. Nei saloni del Grand Hotel La Pace (mentre al Kursaal si stanno effettuando lavori di sistemazione dei locali) una folla di giocatori di roulette e chemin de fer portano diecine di milioni nelle esauste casse comunali. Con queste risorse si riparano strade, fogne e condutture idriche, si ripristina la pubblica illuminazione, e si assistono con elargizioni di circa tre milioni le famiglie bisognose del paese.
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a città è lo specchio dell’Italia che vuole rinascere. Un giovane Franco Zeffirelli ambienta nello scenario delle terme uno dei suoi primi film, “Viaggio di piacere”, con Nino Manfredi e Marisa Allasio. Sempre nel 1957 anche il Giro ciclistico d’Italia conclude una sua tappa, la Siena-Mon-
tecatini, all’ippodromo Sesana sotto la pioggia. La città termale è la meta obbligata per gli attori di Hollywood e per i regnanti di tutta Europa, con Grace e Ranieri di Monaco in prima fila. L’autostrada Firenze-Mare, nel 1954, rende Montecatini raggiungibile con facilità da ogni parte della penisola.
È
in questi anni che i fermenti dell’imprenditoria privata si manifestano più visibili, accompagnati da interventi pubblici in settori nevralgici dell’economia montecatinese. Gli alberghi rinnovano la loro immagine, senza però rinunciare al fascino liberty delle origini. Si inaugura il Palazzo del Turismo sul Viale Verdi, il cui progetto era stato ideato da Ugo Giovannozzi, l’architetto del Tettuccio e delle nuove Leopoldine; si realizza la nuova Sta-
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alberghi e ristoranti con 1874 unità.
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ono tutti segni evidenti che la città comincia a privilegiare un profilo alto nei servizi all’utenza termale e turistica, mentre gli imprenditori introducono nelle proprie attività ricettive figure professionali di sicuro affidamento. L’Istituto Professionale Alberghiero sforna a getto continuo competenze inarrivabili che si faranno le ossa nelle aziende montecatinesi per conquistare poi posizioni di prestigio nel range dell’ospitalità e della ristorazione internazionale. Questo fervore di iniziative e modernizzazione necessita di concrete basi finanziarie su cui poter contare. Nel 1951 Montecatini presenta solo quattro istituti di credito con 32 addetti a fronte di esigenze estremamente lievitate.
zione per le Autolinee, opera di Valerio Cresti e Cirano Fei, che è considerata la più moderna e attrezzata d’Italia. Nel bosco delle Panteraie, un toponimo vecchio di centinaia d’anni, sorge un locale d’intrattenimento e spettacolo con annessa piscina che diventa il fiore all’occhiello della città, e che potrà vantare l’attenzione di De Chirico in un celebre disegno.
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i inaugura il nuovo Teatro Kursaal dell’Ingegner Gino Grossi al posto dell’angusto locale vecchio però di soli cinquanta anni. Nell’atrio, cinque grandi pannelli ricordano personaggi dell’Opera “I Pagliacci”, del montecatinese ad honorem Ruggero Leoncavallo. Anche l’ippodromo, inaugurato a Montecatini fino da 1916, e rinnovato nel 1952, aggiunge alle sue dotazioni una vasta tribuna
e il parterre. Il Gran Premio che si corre in Agosto vanta già una dotazione di cinque milioni.
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el 1959 un Piano Regolatore Generale ipotizza lo sviluppo di una città futura, nell’esaltazione del “comune sentire” che dovrebbe animare la totalità della popolazione montecatinese. La “specialità” della città privilegia i servizi pubblici, la cura dei parchi e delle infrastrutture, assegna allo sviluppo edilizio parametri compatibili con la sua vocazione turistica. Nuovi alberghi e l’ampliamento degli esistenti fanno da contraltare a un dilatamento di un comparto residenziale che aveva raggiunto negli anni post bellici livelli d’attenzione. Prima del nuovo Piano Regolatore dell’Ingegner Messeri sono stati costruiti quasi cinquemila vani ad uso d’abitazione, mentre
i residenti nel 1955 raggiungono quasi le sedicimila unità.
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ià nel 1951 le attività di albergo e ristorante nel Comune di Montecatini Terme ammontano a 325 unità, il commercio al dettaglio conta 420 esercizi, con rispettivamente 835 e 1140 addetti. Le industrie manifatturiere raggiungono quota 276, con punte d’eccellenza garantite dalle quattro imprese impegnate nell’editoria e nella stampa, le 22 del tessile, le 106 dell’abbigliamento e delle calzature. Nel decennio successivo, questi dati (eccettuato il numero degli alberghi, saliti a 341) crescono in maniera significativa. I negozi diventano 627, con un incremento quasi del 50%, così come gli addetti che salgono a 1689, mentre più che raddoppiati risultano gli impiegati di
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a vita economica di Montecatini ruota da sempre attorno alle terme. La gestione dello Stato impone in quegli anni (1957-58) il passaggio della proprietà delle aziende termali al nuovo Ministero delle Partecipazioni Statali, e poi all’EAGAT, un ente che ne dovrebbe favorire lo sviluppo insieme con la ricerca scientifica.
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onostante le nebulosità di un avvenire tutto da scoprire, si tratta di un periodo di crescita per tutta la città. In pochi anni nascono nuovi stabilimenti, nuovi esercizi pubblici e strutture ricettive di pregio, Montecatini si riempie di celebrità del cinema, della politica, dell’arte, che ne diffondono il nome e la fama in ogni angolo del mondo.
Nelle foto grandi: Il nuovo Teatro Kursaal (a sinistra) e il Palazzo del Turismo (a destra). Questi due edifici furono il simbolo della ricostruzione urbanistica di Montecatini negli anni Cinquanta.
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Il cavallo rapito
Wayne Eden, il purosangue per 23 giorni in mano ai banditi Per riaverlo fu pagato un riscatto di appena 12 milioni Dai prati dell’Ohio all’ippodromo del Sesana
Wayne Eden, per due volte vincitore al Sesana del premio “Città di Montecatini” fu vittima, nel 1975, di un fatto di cronaca nera che finì nelle prime pagine dei giornali di tutto il mondo.
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ayne Eden è un trottatore nato cinque anni prima sui prati dell’Ohio. i raccomando capiNella sua carriera negli Stati Uniti tano... il mondo ci sta guardando». Così ha un rendimento un po’ alterno, ma un grande uomo di cavalli, il il ministro dell’Interno Luigi Gui chiuse la telefonata con il giovane ferrarese Vincenzo Gasparetto, ufficiale che comandava la compa- manager della scuderia Mira II, ne intravede le enormi potenzialità e gnia carabinieri di Montecatini. È il 16 agosto del 1975 e tutta l’Italia intavola una trattativa. è in vacanza per il ponte di Ferrali americani sparano una gosto, cercando di dimenticare la cifra improponibile, 500 striscia di sangue del terrorismo. milioni. Gasparetto si ritira Nella città termale stracolma di in buon ordine. Qualche mese turisti gli investigatori sono alle dopo il cavallo viene portato in prese con uno strano caso, nella Europa per tentare l’avventura notte c’è stato un rapimento, era il quarantesimo dall’inizio dell’anno. nella corsa più importante del trotto continentale e forse del Però stavolta a finire nella mani dei rapitori era un cavallo, Wayne mondo, il prix d’Amerique che si disputa all’ippodromo parigino Eden, uno dei più forti trottatori di Vincennes. Ma sugli infernali del momento. saliscendi della pista nera, Wayne Eden appare smarrito e finisce l figlio dello stallone Speedy nelle retrovie. Gasparetto a quel Rodney e della fattrice Rebecpunto capisce che quella debacle ca Eden aveva appena vinto l’ennesimo gran premio della sua può essere un affare per lui. Così riesce a strappare un forte sconto carriera, il «Città di Montecatini», sul prezzo di vendita. la prova più importante che si corre all’ippodromo del Sesana el giro di pochi mesi Waye che ha una ricorrenza fissa, la ne Eden diventerà uno dei notte di Ferragosto appunto. Un più forti cavalli che abbia evento mondano oltre che ippico. mai calcato le piste italiane. Nel Per i banditi il colpo è stato tutto sommato facile. L’accesso alle scu- suo palmares finiscono le corse derie dell’ippodromo è abbastan- più prestigiose. In ogni ippodromo è sempre la stessa scena: a za agevole: telecamere e sistemi fine corsa il suo driver Anselmo d’allarme sono di là da venire, i Fontanesi scende dal sulky ed rapitori tagliano la recinzione e vanno a colpo sicuro alla scuderia effettua il giro d’onore a piedi, a fianco di Wayne Eden, per sottolidove sta dormendo il cavallo. neare che il merito è tutto di quel cavallo minuto che per gli appassionati è ormai diventato «Farfallino» per quella sua particolare
di Gabriele Galligani
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andatura, un trotto leggero, quasi un volo di farfalla. Il rapimento avrebbe dovuto avvenire nei primi giorni di agosto all’ippodromo di Montegiorgio, nelle Marche. Ma in quel caso il piano non andò in porto. L’eco della vicenda fu enorme. La notizia finì in prima pagina su tutti i giornali nazionali e per alcuni giorni fu l’apertura dei telegiornali.
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ella storia dell’ippica il suo caso è secondo solo a Shergar, il purosangue dell’Aga Khan, rapito dall’Ira, negli anni ’80 e mai ritrovato. Pochi giorni dopo il proprietario del cavallo Piero Giudici, venne raggiunto da una telefonata dei rapitori che chiedevano un riscatto per rilasciare Wayne Eden. La cifra richiesta dopo una fitta trattativa scese fino a diventare 12 milioni, «poco più di un compenso», per usare le parole dello stesso imprenditore. Wayne Eden venne ritrovato 23 giorni dopo, all’alba dell’8 settembre legato ad un ulivo dietro al cimitero di Montescudaio, un paesino in provincia di Pisa. Uno dei carabinieri, inviato sul posto per le indagini, notò lo strano nodo con cui il cavallo era stato fermato ad un ramo dell’albero. Era il nodo che viene usato dagli allevatori sardi. Da quel piccolo particolare gli investigatori riuscirono a risalire agli autori del rapimento che vennero arrestati e condannati. Dopo la prigionia a Wayne Eden venne trovata un’infezione ad un piede. Una volta guarito tornò a correre e e vincere.
In sedicimila per ammirare Delfo Wayne Eden e Delfo sono stati protagonisti di grandi duelli sulle piste di tutta Italia. Entrambi hanno legato il loro nome anche all’ippodromo del Sesana. Ma se Wayne Eden ha realizzato una doppietta, Delfo è l’unico tra i big del trotto a non figurare nell’albo d’oro del gran premio montecatinese. Ma la sua presenza nel 1977 è passata ugualmente alla storia. Per ammirarlo arrivarono in 16mila, primato assoluto per un evento ippico. Delfo pochi giorni prima aveva vinto a New York l’International Trot, una sorta di campionato del mondo. La sua vittoria sul francese Bellino II, un normanno considerato imbattibile fece impazzire di gioia l’Italia sportiva. Così tutti vollero ammirare il cavallo cresciuto in un allevamento di Altopascio. Ma Delfo, da autentico prim’attore non si concesse alla platea. Pochi metri dopo lo stacco della macchina era già in un furioso galoppo. Nel dopo corsa il suo guidatore Sergio Brighenti lo giustificò dicendo: «Voleva strafare ne sono sicuro. Ha sbagliato perché voleva vincere, sentiva che tutta quella gente era venuta per lui».
Il mitico Delfo, crescuto in un allevamento di Altopascio, corse al Sesana dopo aver vinto a New York l’International Trot, una sorta di campionato del mondo della categoria.
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Leoncavallo: cronache di una occasione perduta Il compositore visse e morì nostra città ma nessuna iniziativa è stata presa per ricordarlo a novant’anni dalla scomparsa. Dal 1994 le sue spoglie trasferite in Svizzera
Nella foto: i funerali di Leoncavallo con Puccini e Mascagni commossi davanti alla bara. Inizialmente il musicista fu sepolto al cimitero delle Porte Sante di Firenze. Le sue spoglie mortali, assieme a quelle della moglie Berthe furono poi traslate a Brissago nel 1994.
di Marco A. Innocenti
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Dal 1994 i resti mortali di Ruggero Leoncavallo giacciono sotto una piccola arcata esterna della chiesa della Madonna di Ponte presso la svizzera Brissago, sul Lago Maggiore. Il confine italiano è a pochi metri di distanza. Accanto a lui, come recita la modesta lapide in pietra, la moglie Berta, scomparsa nel 1926. Qui, sulla sponda nel Verbano, solo il placico rumore delle onde avvolge la memoria del grande compositore napoletano. Ma non fu così nell’ottobre 1989, quando, a sorpresa, la sua salma fu trasferita in Canton Ticino dal cimitero delle Porte Sante di Firenze, dove riposava dal 1919. A nulla servirono le proteste giunte da Montecatini e dalla Toscana, anche se soprattutto Firenze fece ben poco, vent’anni fa, per bloccare l’operazione “orchestrata” (è proprio il caso di dire) dal musicista Graziano Mandozzi, uno svizzero che nel 1988, per la notevole somma di 1,2 milioni di franchi svizzeri, aveva venduto il ricco archivio Leoncavallo al Canton Ticino, oggi conservato alla biblioteca regionale di Locarno.
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utta la documentazione, si disse allora, era stata ceduta a Mandozzi dall’ultimo erede del compositore. Nel “pacchetto” era molto probabilmente compresa anche l’urna con le spoglie di Leoncavallo, che fu tenuta nascosta per parecchi giorni – si disse addirittura nel caveau di una delle tante banche ticinesi – per poi riapparire a fine ottobre 1989 durante una conferenzastampa in cui l’amministrazione comunale di Brissago annunciava il “ritorno a casa” dell’autore dei Pagliacci. Dal 1904 al 1914 infatti Leoncavallo aveva soggiornato a più riprese nella cittadina svizzera, in quella splendida Villa Myriam incredibilmente demolita nel 1978, nel generale disinteresse, per far posto a un qualunque condominio. Dieci anni dopo ecco invece esplodere l’improvvisa Leoncavallo-mania nel sonnolento Locarnese. “In occasione dell’attribuzione della cittadinanza onoraria di Brissago – fu detto dal sindaco a giustificazione del trasferimento dell’urna – il maestro Leoncavallo affermò che nel vostro cimitero modesto voglio trovare la mia ultima quiete”.
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a vicenda aveva però ben più pratiche motivazioni. Annualmente, dal 1996, qui viene organizzato un festival musicale in suo onore. Nel 2002 è stato creato il Museo Leoncavallo a Palazzo Branca-Baccalà di Brissago. Con il contributo del comune è stata realizzata una fondazione che non solo sostiene il museo, ma organizza simposi e conferenze e promuove studi sulla figura e l’opera del maestro. La realizzazione del museo è stata resa possibile finanziariamente dalla baronessa Hildegarde von Münchhausen, facoltosa anziana tedesca che per motivi di salute aveva spostato la propria residenza in Ticino.
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ome appassionata di musica – disse alcuni anni fa – mi sono particolarmente interessata a Leoncavallo. Dal maestro Graziano Mandozzi, conoscitore dell’opera di Leoncavallo, comprai negli anni ‘90 una parte del lascito, con l’intenzione di fondare un Museo a Brissago. Ciò vuole essere un ringraziamento a Brissago per i bei 30 anni che vi
ho trascorso”. Ancora Mandozzi e ancora compravendite di cimeli leoncavalliani. E negli anni ‘90 comparve persino a Montecatini, dove nel 1993 organizzò e diresse la rappresentazione della semisconosciuta opera minore Pierrot au cinéma. Anche i resti della consorte di Leoncavallo, sepolta nel cimitero di Montecatini, hanno poi preso la strada per la Svizzera. Per Montecatini l’ennesima occasione perduta: nessun festival, nessun archivio, nessun legame con il celebre compositore, se si eccettua la lapide in Via Giannini che ricorda la villa dove visse e morì il 9 agosto 1919.
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ersino il comune calabrese di Montalto Uffugo, dove Leoncavallo visse un paio di anni della sua giovinezza, ha istituito un “Anno Leoncavalliano” nel 2007, per i 150 anni della nascita, realizzando anche un gemellaggio con Brissago.
Nel tondo: Ruggero Leocavallo ritratto con un amico alle terme in una foto di inizio Novecento. Il compositore visse gli ultimi anni nella nostra città dove morì il 9 agosto 1919.
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Quel giorno che entrammo nell’Olimpo del basket italiano L’incredibile rimonta di Pavia e il successo al Palasport di Firenze Le grandi annate dello Sporting Club
Nella foto grande: La formazione rossoblù che nell’anno 1991-92 conquistò la seconda promozione in serie A1 sotto la guida di “Cacco” Benvenuti, dopo la prima storica del 1988-89 sotto la guida di Masini.
di David Ignudi
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6 aprile 1987 e 21 maggio 1989. Queste due date sono scolpite nella memoria degli sportivi che amano il basket a Montecatini. Il 26 aprile 1987 un canestro da 27 metri di Andrea Niccolai, il golden boy rossoblù, a Perugia regala alla serie A2 di basket il più piccolo centro d’Italia nei campionati professionistici, in cui Montecatini rimarrà ininterrottamente per 14 stagioni.
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uella di Perugia è la vittoria che completa un opera iniziata un decennio prima con l’acquisizione della società guidata magistralmente da Raoul Bellandi, allora in C, da parte di Vito Panati. Pur rimanendo una gestione praticamente familiare, Montecatini scala i gradini, si dà un assetto con ex giocatori come Gino Natali nel ruolo di manager e Massimo Masini in panchina e riesce a cogliere quel traguardo che mai nessuno avrebbe immaginato. Dal 26 aprile 1987 inizia un’altra storia con lo Sporting Club che, non avendo un palazzetto proprio, si trasferisce a Lucca e affronta l’avventura della serie A tesserando due stranieri di prestigio: Andro Knego e Rod
Griffin. L’inizio della nuova avventura è traumatico: quattro ko in altrettante gare. Ma nessuno si abbatte, anzi piano piano la squadra riesce a tornare in careggiata, vince a Firenze davanti a quasi 7000 spettatori il derby (111-100) con i cugini di Pistoia e alla fine riesce a qualificarsi ai play-out. Nella post season vince tutte le gare casalinghe e l’ultima giornata a Treviso avrebbe addirittura la possibilità di fare il salto nella massima serie. Ma sulla sirena il tiro da tre di Carletto Marchi si stampa sul ferro e i sogni devono essere rimandati. Nuova stagione e un nuovo straniero accanto ad Andro Knego: si tratta di Otis Howard. Il colored americano arriva all’ aeroporto di Pisa ed appena sceso dall’aereo pronuncia questa fatidica frase: “Io dire solo due parole: A1”. Il campionato regolare si svolge fra alti e bassi, con Howard che non brilla ed anzi nel derby casalingo, a Lucca, col Pistoia sbaglia una clamorosa schiacciata che costa la sconfitta ai rossoblù. Qualcuno parla addirittura di “taglio” ma la società termale tira dritto. La formazione di Masini arriva quinta ed accede ai play-out. Non è un girone facile con squadre di prestigio come Firenze, Torino, Brescia e Pavia. I rossoblù vinco-
no in casa e perdono fuori. Il 14 maggio col Pavia a poco più di un minuto dalla fine Montecatini è sotto di 11 punti e praticamente fuori dalla lotta per il passaggio in A1, con molti sportivi che già hanno abbandonato il palazzetto. Qui Howard si ricorda della promessa, diventa l’assoluto eroe mettendo dentro tre canestri dai 6,25, di cui l’ultimo con un passo indietro dall’area. Quei tiri permettono ai rossoblù di acciuffare l’overtime, dove ottengono la vittoria.
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iovedì 18 Montecatini deve giocare a Firenze, contro la già neopromossa Neutroroberts. Si organizza un treno speciale e quasi 2000 tifosi sono sui gradoni del palasport fiorentino. La partita si gioca punto a punto, poi nel finale una bomba di Niccolai e due liberi sbagliati dai fiorentini regalano il successo a Montecatini e in pratica spalancano le porte dell’A1. Si arriva a domenica 21 maggio in un Palatagliate di Lucca già colmo due ore prima della partita con la Filodoro Brescia. La gara si mette subito bene per i ragazzi di Masini, che arrivano ad avere anche 20 punti di vantaggio. La festa è nell’aria, ma Brescia rimonta e mette paura. Nel finale però i rossoblù controllano e
a pochi secondi dal termine il capitano lombardo prende palla in mano ed inizia ad applaudire. È il segnale che la partita è finita e Montecatini può festeggiare l’ingresso trionfale nell’Olimpo del Basket. La città è letteralmente impazzita, in piazza del Popolo sembra di essere tornati ai festeggiamenti per la vittoria nel mondiale di calcio del 1982.
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er Montecatini è l’inizio di un grande periodo che passa dall’inaugurazione del proprio palasport, il Palaterme, nel 1991 per arrivare al 5° posto, sotto l’egida Snai diventata proprietaria al posto di Panati, nel 1999/2000. Ma proprio allora Montecatini per la prima volta rischia la sparizione per problemi economici. A salvarla, in una notte di accordi con i compagni, è Andrea Niccolai che però non farà parte del nuovo Sporting Club 2000 guidato dall’imprenditore italo-americano Guizzetti. I rossoblù partecipano alla coppa Korac, si salvano ma, al termine della stagione 2000/2001, spariscono dalla geografia cestistica. La rinascita è il 4 agosto del 2002 con la nuova Rb Montecatini, ma quella è storia di oggi.
Nei tondi: Vito Panati, l’imprenditore di successo che, come presidente dello Sporting, ha guidato la società dalla serie D alla A1.
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Masini, Niccolai, Boni tre campioni nella storia Sono alcuni dei giocatori che hanno portato Montecatini ai più alti livelli nella pallacanestro. Una passione che dura ormai da sessant’anni di David Ignudi
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assimo Masini, Andrea Niccolai, Mario Boni. Basterebbero questi tre nomi per capire quanto Montecatini abbia dato al basket italiano. Tre giocatori che hanno fatto la storia non solo della palla a spicchi montecatinese ma anche di quella nazionale, ottenendo traguardi incredibili e togliendosi soddisfazioni insperate.
Nella foto: Mario Boni e Andrea Niccolai, i “gemelli” del canestro, con l’allenatore Massimo Masini, che li aveva scoperti e valorizzati, e Raoul Bellandi, indimenticato fondatore dello Sporting club nel 1949.
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assimo Masini è stato il primo grande prodotto dello Sporting Club e, se questa società è riuscita ad espandersi, è stato anche grazie alla sua cessione alla storica Simmenthal Milano, dove è riuscito a vincere di tutto e a raggiungere anche la maglia azzurra, partecipando a più Olimpiadi.
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ndrea Niccolai è stato invece la scoperta più bella, operata proprio da Masini. È stato l’ex scarpetta rossa a farlo esordire in rossoblù a 16 anni e Andrea lo ha ripagato con una salvezza, la convocazione in nazionale (il primo giocatore di serie B della storia) a 18 anni e il canestro promozione del 1987 a Perugia, entrato anch’esso nella storia del basket. Niccolai è stato anche il primo giocatore di basket ad essere ceduto a cifre calcistiche (13 miliardi) nel 1990 al Messaggero Roma e se il basket di Montecatini ha continuato a vivere anche nei momenti bui è stato grazie al suo impegno.
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ario Boni è il montecatinese acquisito ma il più amato. Arrivato nella squadra che conquisterà l’A2, ha svolto prima il ruolo di sesto
uomo, poi all’addio di Niccolai ha preso per mano Montecatini e trent’anni dopo Dado Lombardi è riuscito, nel 1992, a riportare un italiano sul trono dei marcatori. È stato, purtroppo, il primo famoso sportivo al centro di una vicenda di doping, ma da quei momenti bui si è risollevato andando a giocare all’estero e riuscendo nell’impresa, primo giocatore italiano della storia, di vincere una coppa europea (la Korac) con una formazione straniera (l’Aris Salonicco). E oggi, a quasi 46 anni, continua a segnare a raffica in serie C dilettanti con la maglia di Piacenza, con cui aveva iniziato a giocare oltre un quarto di secolo fa. Ma Montecatini nelle sue fila ha avuto giocatori italiani e stranieri di grandissimo valore. Fra gli italiani indimenticabili sono i fratelli montecatinesi Gino (che
svolgerà poi anche le funzioni di general manager) e Franco Natali, Francesco Cantamessi, Mario Martini, German Scarone, Roberto Chiacig, Marco Sambugaro, Giovanni Grattoni, Fausto Bargna e l’oriundo George Bucci.
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ra gli stranieri hanno vestito la maglia rossoblù campioni Nba come Mark Landsberger e Clemon Johnson, ma nel libro dei ricordi ci saranno sempre Andro Knego, Rod Griffin, Otis Howard, Cris Mc Nealy e negli ultimi anni Reggie Slater, Maceo Baston e Marc Salyers. Una storia, quella del basket termale, lunga 60 anni e che proprio in occasione di questa sua ricorrenza sta vivendo momenti non certo esaltanti. Ma Montecatini, nel basket, si è sempre rialzata quando sembrava spacciata e ci riuscirà anche stavolta.
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