Gioia, milanese, illustratrice di libri per bambini, è invitata nel piccolo villaggio di Cape Love, sulla costa dorata del Maine, dalla folle e adorata zia Arianna, che la vuole come damigella d’onore alle sue (quinte!) nozze. Anche se zia Ari è sinonimo di guai, Gioia accetta senza sapere che, dopo le strampalate nozze della zia, rimarrà bloccata a Cape Love e dovrà occuparsi dei due cani di zietta (una terranova e un bassotto scatenati), del bookshop di famiglia e del piccolo Jimmy, il figlio del suo nuovo vicino di casa, Sean, uno che farebbe girare la testa anche a una santa. Peccato che Sean abbia già una fidanzata, Grace, tanto bella e famosa quanto detestabile. Se solo zia Ari fosse così gentile da tornarsene a casa sua (che, per la cronaca, è uno stupendo faro sulla scogliera), Gioia potrebbe ripartire per Milano e dimenticare una volta per tutte la notte bollente trascorsa insieme a Sean. O no? La nuova, esilarante commedia romantica dell’autrice di Bang Bang, tutta colpa di un gatto rosso e di Un cuore nella bufera. Viviana Giorgi (aka Georgette Grig, lo pseudonimo con cui scrive romanzi storici) vive a Milano, dove lavora come giornalista freelance da molti anni, soprattutto nel campo dello spettacolo. Da qualche anno si è imbattuta nelromance ed è stato amore a prima vista. Dalla lettura alla scrittura il passo è stato molto breve, forse troppo. Per Emma Books ha pubblicato il fortunatissimo Bang Bang, Tutta colpa di un gatto rosso e Un cuore nella bufera, un romanticissimo racconto natalizio all’insegna dell’amore, ma anche della passione.
Alta marea a Cape Love Viviana Giorgi
Alta marea a Cape Love Viviana Giorgi © Digitpub srl 2013 via Adige 20 – 20135 Milano, Italia www.emmabooks.com – info@emmabooks.com
ISBN EPUB 9788897669463 Copertina di Boombang design – www.boombangdesign.com Questo testo è diventato un ebook nel mese di luglio 2013 Follow us on
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A mio figlio Pietro e alla sua salutare ironia. E a Wile E. Coyote. A modo suo, un eroe.
Un breve, forse non necessario, prologo sugli zii d’America Tutti dovrebbero avere uno zio d’America. Io, per esempio, ce l’ho. Veramente è una zia d’America e, a dirla tutta, non è neppure americana né una zia vera: è solo un’amica di mia madre che da piccola chiamavo zia. Zia Ari, Ari sta per Arianna. Una folle, se per questo, zia Ari. Ribelle, estroversa e controcorrente. Un’artista, niente meno. Una pittrice. Da bambina io fissavo ammirata i suoi quadri strampalati e coloratissimi e poi a casa cercavo di riprodurli con i miei acquarelli. Una volta pure sulle pareti del salotto. Non avevo ancora compiuto dieci anni che zia Ari, la mia zia preferita, lasciò l’Italia al seguito di Steven, un pilota della US Air Force di stanza a Vicenza. Molto coraggioso, bello e aitante, così lo descriveva mamma, sottolineando ogni singolo aggettivo con un gran sospiro e un’espressione sognante (fatto che già allora non mi sembrava gentile nei confronti di papà), un po’ come quando, raccontandomi una fiaba, arrivava al punto in cui faceva la sua apparizione il principe azzurro. Non che quel sospiro celasse chissà quale delusione, in fondo la vita di mamma non era tanto male, ma certo rifletteva i sogni non sopiti di una donna ancora giovane che aveva rinunciato alla sua carriera di musicista per dedicarsi alla famiglia. E forse al vero amore.
«Anche tu un giorno troverai il tuo principe azzurro, e ti porterà via dalla tua mamma» mi diceva allora, accarezzandomi e scuotendo la testa, cosa che immancabilmente mi faceva salire le lacrime agli occhi e mi terrorizzava perché, dietro alla sua facciata di principe azzurro, quel tipo mi pareva più che altro un orco che strappava le fanciulle innocenti alle loro mamme. Altro che “vissero tutti felici e contenti”! Da allora i principi azzurri mi sono sempre stati indigesti e ho fatto di tutto per evitarli. Come? Con la prova sospiro, naturale! Se, incrociando lo sguardo di un tipo da sballo, magari gentile, simpatico, intelligente e persino ricco, mi veniva da sospirare alla maniera di mia madre, insomma se almeno nella mia testa mi lasciavo andare a un «aaaaaaaahhh» senza soluzione di continuità, quel tipo finiva nel girone degli orchi travestiti da principe azzurro, e lì rimaneva. Come Steven. Perché Steven, bello, aitante e coraggioso top gun del cavolo, dopo avermi portato via la mia zia preferita, l’ha pure lasciata. Sola, al di là di un oceano che allora, dodicenne, fissavo impaurita sul mappamondo, di quelli con la lucina dentro, che proprio zia Ari mi aveva regalato prima di andarsene con Mr Air Force. «Vedi» mi diceva per farmi capire che in fondo non eravamo poi così lontane, «con l’aereo in un attimo arrivi.» Be’, il suo concetto di “attimo” non è mai stato molto attendibile. Come non lo è mai stata lei, attendibile. Zia Ari. Bellissima, simpatica, estroversa. Tanto folle e imprevedibile da influenzare la mia vita persino a distanza. Non perché io sia diventata una ribelle come lei. Magari! Sono timida, introversa e piuttosto incline a divorarmi il fegato per le preoccupazioni, invece di godermi la vita. Ma perché anch’io, forse grazie a lei, mi guadagno da vivere con pennello e tavolozza. Ho incominciato cercando di scopiazzare senza alcun successo le sue opere psichedeliche e sono finita senza sapere come o perché a illustrare libri per l’infanzia. E ciò la dice già lunga su di me. Sono un topolino, non un leone.
La mia vita ha imboccato una strada tranquilla che in fondo non mi dispiace. C’è stato persino qualche uomo lungo il percorso. Uomo rigorosamente beta, se non delta o gamma. Gli alfa fanno parte dei principi azzurri, no, degli orchi. Degli orchi principi azzurri. Insomma, avete capito. A proposito. Quasi mi dimentico di presentarmi. Mi chiamo Gioia. Gioia Rambelli. Ho trentadue anni, un piccolo appartamento a Milano, una famiglia che mi ama, alcuni amici e al momento nessun fidanzato. Ma ho zia Ari. La mia zia d’America.
1 Una notte d’Aprile Perché il telefono suona così, senza alcuna misericordia per le mie povere orecchie, nel bel mezzo della notte? Forse sto sognando. Mi metto un cuscino sulla testa, ma non c’è verso che quell’aggeggio infernale interrompa il suo odioso richiamo. Diavolo! Proprio ora che stavo sognando di quel tipo incontrato ieri sera a casa di amici, quello con cui mi sono sorpresa a flirtare nonostante fosse proprio uno da sospirone, il tipico orco travestito da principe azzurro insomma, uno da cui avrei dovuto stare lontana. Nel sogno il tipo mi chiede se mi piace andare per mercatini dell’antiquariato, come se mi stesse facendo una proposta indecente. Il tono della voce e le sue parole sono una continua allusione a qualcosa di molto più interessante di qualche scassato pezzo di brocantage. O forse sta parlando di bondage? «Io adoro i mercatini dell’antiquariato» dico nel sogno, mettendo l’accento sulla a di adoro e mentendo in modo spudorato, mentre le sue dannate labbra si avvicinano un altro po’ alle mie. Cavolo. Che faccio se mi bacia, ora?
Non fai niente, scema che non sei altro! È solo un sogno, e poi non senti che il telefono continua a suonare? Ora vibra, anche, irritato dalla tua indifferenza. In effetti… E se fosse qualcosa di importante? Forse devo rispondere. Mamma, papà, mio fratello. L’orco travestito da principe azzurro? In fondo gli ho dato il mio numero, no? E magari è sotto casa mia e vuole salire per finire quanto ha cominciato nel sogno. Impossibile più che improbabile, ma in ogni caso meglio verificare. Come se fosse facile. Dov’è finito il cellulare? Buttando cuscini e piumino all’aria, mi alzo di scatto e mi metto a caccia del dispettoso esserino rumoroso e vibrante. Niente sul comodino, niente per terra, niente sul letto. Il suono si fa più irritato e non smette, e finalmente mi rendo conto che è un suono lontano, ovattato, come se… Come se fosse finito sotto il piumone. Mi ci tuffo come un esperto subacqueo, esploro quell’universo sotterraneo caldo del mio sonno ed eccolo lì, una luce sinistra nel buio della notte. Lo catturo come fosse una cernia e fisso incredula il display. Ci sono un sacco di numeri sul display e i primi tre sono due zeri seguiti da ununo. 001, che non è un collega di James Bond, ma è il prefisso degli Stati Uniti. Diavolo! Zia Ari. Come non averci pensato prima? Per lei il fuso orario è un optional, o forse neanche quello. Non esiste e basta. Rispondo con aria seccata. «Zia Ari, sai che ore sono in Italia?» «Certo che no!» «Le cinque del mattino!» «Bene, darling! Non è ora di alzarsi? Di mettersi al lavoro? Il mattino ha l’oro in bocca.»
Forse la ucciderò. «Non proprio. A dir la verità ho un gran saporaccio in bocca...» biascico. Mr Orco travestito da Principe Azzurro aveva sempre una bottiglia in mano e versava, versava, con quelle sue belle mani che… «Su su, piccola mia. Alzarsi!» Zia Ari mi riporta alla mia triste realtà delle cinque del mattino. Alzo gli occhi al cielo e mi metto seduta sul bordo del letto, pronta a parare il colpo che di certo arriverà presto. Di solito zia Ari mi chiede piaceri impossibili che io, dopo aver brontolato a lungo, alla fine le faccio. «Sei pronta per la notiziona?» Sospiro, preparandomi al peggio. «Non lo sono mai, zia Ari, ma tu spara.» «Pronta pronta pronta?» «Ok, pronta pronta pronta.» Per un istante spero con un certo sollievo che la linea sia caduta perché, al di là dell’Atlantico, tutto tace. Ma naturalmente non è così. La “notiziona” arriva puntuale come un treno svizzero, e mi investe in pieno, neanche fossi Anna Karenina. «Mi sposo!» Che in fondo, a pensarci bene, non è poi questa gran novità. Respiro a fondo e senza neppure tentare di mascherare la mia irritazione chiedo: «Ancora? E non potevi aspettare a dirmelo a un’ora decente?». La sento sbuffare. «Non stavo più nella pelle, sei la prima persona a saperlo. John me l’ha appena chiesto e io ho detto di sì!» «Grazie zia Ari, sono commossa e lusingata» ribatto ironica. «Ma sei proprio certa di volerlo fare?» «Perché non dovrei? In fondo ho solo cinquantacinque anni…» «Sessantatré…»
«Ma ben portati! Sai quanto Pilates faccio per tenermi in forma?» E su questo non posso darle torto. Gli uomini si voltano ancora quando lei passa e la guardano con quello sguardo che a me certo non rivolgono tanto spesso. Forse perché, se ci provano, li incenerisco. «Preferirei non saperlo, zia, almeno non prima dell’alba. Non vorrei riaddormentarmi e poi sognare di te e di Mr Pilates avvinghiati sul quel suo lettino di tortura.» «Pilates è morto da un pezzo! Mentre il mio John è molto, molto vivo, se capisci a cosa mi riferisco.» Purtroppo lo capisco. «Sì zia, fin troppo bene. Ma, ti supplico, tralascia i particolari e in ogni caso lascia che ti faccia le mie congratulazioni! Se lo sei tu, anch’io sono molto, molto felice. Cos’è, il sesto marito?» «E che esagerata sei! È solo il quinto!» «Scusa, sai, ho perso il conto.» E dentro di me non dubito che ce ne sarà anche un sesto. «Stammi a sentire, darling. Questa volta non accetto scuse, devi venire alle nozze, anche perché sarai la mia damigella d’onore.» «La tua cosa?» «Dai che hai capito! La mia damigella d’onore. La mia testimone. Ti voglio al mio fianco, perché so che John è quello giusto…» «Davvero? Non era Peter quello giusto?» «Su, non essere acida con la tua zietta preferita.» «Quasi zia, per la verità.» «Quasi, hai ragione, perché sono molto di più di una semplice zia. Gioia,darling, ti voglio bene come a nessuno al mondo e voglio condividere la mia felicità con te. Ti prego, vieni. Devi venire. Il vestito è già qui che ti aspetta.» Ecco, questo sì che è un bel problema.
2 Lunedì 17 giugno, quattro giorni alle nozze Proveniente da Boston, il mio volo arriva puntuale a Portland, Maine. Lo sapevate che quasi tutti i romanzi di Stephen King sono ambientati nel Maine? Be’, se per quello anche i telefilm di quella menagramo della signora in giallo, Jessica Fletcher, lo sono e la cosa, detto fra noi, mi pare sinistra. L’aeroporto è grande e piuttosto affollato, ma il mio bagaglio, grazie al cielo, non tarda ad arrivare. Lo individuo subito sul nastro trasportatore: è l’unico trolley rosa shocking in una marea di valigie nere e blu. Trascinandomelo dietro con un certo orgoglio femminile, mi dirigo al banco del noleggio auto, dove una signorina tutta sorrisi mi fa firmare dei documenti e alla fine mi chiede se “Italy” si scrive col th. Le rispondo di sì. È la prima volta che visito questa parte degli States, ma non certo la prima volta che mi trovo in America perché ho trascorso con zia Ari molte delle mie vacanze estive. Grandi vacanze, devo dire. Per lo più a ovest, in California, dove zietta ha abitato per almeno venti anni prima di trasferirsi in Texas e poi in Virginia. Anche lì sono stata. L’unica volta che non mi ha chiesto di raggiungerla è stata quando si è trasferita nello Utah, al seguito del mormone Isaiah. Anche perché il loro idillio è durato giusto il tempo necessario per scoprire che quello, più di un matrimonio, sarebbe stato un illegale atto di poligamia. Da cinque anni zia Ari vive nel Maine che, se ancora non lo sapeste, è lo stato più a nord e più a est degli USA, al confine con il Canada. Vive a Cape Love, un villaggio di poche centinaia di anime che dista una sessantina di chilometri da Portland; un luogo magnifico, dove si rincorrono spiagge favolose, boschi incantati e porticcioli deliziosi. Certo, d’inverno fa freddino, ma per fortuna zietta ha avuto il buon gusto di sposarsi a giugno. La Chevy che mi danno è rossa e troppo grande, ma tanto qui le strade sono enormi e il navigatore satellitare, che afferma di chiamarsi George, sembra sapere il fatto suo. C’è una bella differenza tra George e Ugo, quello della mia Panda, che non solo parla con la voce meccanica di un robot di un film di fantascienza degli anni Cinquanta, ma continua a cannare le strade. E invece George… La sua voce è così dannatamente sexy che mi strappa un “Wow” e mi fa pensare che sia quella di
George Clooney in persona. Dico, avete presente quando fa la pubblicità del caffè e alla fine dice «What else»? In quel momento non è al profumo di caffè che tutte le femmine sane di corpo e di mente pensano, ma alla ventata di feromoni che si sprigiona dal Clooney. Anche attraverso lo schermo tv. «Dai, George, fammi sognare» mormoro ridacchiando verso il navigatore, sperando che mi risponda. Oddio, sono ridotta così male? Io, ridotta male? Sì, proprio tu, cara Gioia. Vorresti forse negare l’evidenza? Ammettilo che la tua vita sentimentale è una frana, anzi, che è praticamente inesistente! Guardo il navigatore e rispondo. Mi dedico al lavoro. Ecco perché. Mi piace il mio lavoro, e mi dà un sacco di soddisfazioni. Non ho tempo da sprecare, ma devi riconoscere che, dopo il mio fallimentare fidanzamento, qualche tentativo di socializzare con l’altro sesso in fondo l’ho fatto. Qualche tentativo? Chi vuoi prendere in giro? Con la scusa della “regola del sospirone”, dopo la rottura con Marco sei uscita solo con uomini che neppure la figlia di Fantozzi avrebbe frequentato. Ora dimmi, la cosa non è forse sospetta? Spazientita guardo ancora il navigatore e dico arrabbiata Ora chiudi quella bocca, George, ok? E poi, se non te ne fossi accorto, sto guidando, devo fare attenzione. George è così carino da interrompere questo monologo da schizzata sussurrandomi, come se ci stessimo rotolando su un letto, «turn right». Wow, che cosa hai in mente di fare, George? Quasi non avessi mai stretto un volante in vita mia, giro a destra e mi allontano con eccessiva prudenza dall’aeroporto e, senza mai schiodarmi dalle trenta miglia orarie, seguo le indicazioni per Bath. Accendo la radio e… Le note di Pink Cadillac del Boss mi investono. Se la mia vita fosse un film, la voce di Bruce sarebbe la colonna sonora perfetta. Mi metto a cantare a squarciagola e a saltare come un’invasata sul sedile, e di colpo il mondo mi sembra magnifico.
I love you for your pink Cadillac Crushed velvet seats Riding in the back Oozing down the street Waving to the girls Feeling out of sight Spending all my money On a Saturday night Honey I just wonder what you do there in back Of your pink Cadillac Bruce, ti adoro! Mi muovo verso nord, sulla 295, una strada a diciotto corsie – be’, forse qualcuna di meno – ad alto scorrimento. L’unico problema lì sono i camion: enormi, colorati, tutti una cromatura e pieni di fumaioli, hanno un muso minaccioso, un clacson inumano e mi tallonano da vicino. Forse non hanno neppure tutti i torti, perché, Pink Cadillac o no, sto guidando come una lumaca. Prendo un gran respiro e pigio un po’ di più sull’acceleratore in attesa che George mi indichi la deviazione verso est in direzione di Bath e poi quella verso sud per la penisola dove vive zia Ari: Heart Island. Non ridete, avete capito benissimo: zietta ha scovato non solo l’unico lembo di terra al mondo che, a causa della sua forma, è detto Isola del Cuore, ma per di più vive nel villaggio di Cape Love. Non mi stupirei se la contea fosse quella di Harmony. Un cuore pulsante, quello di Heart Island, per nulla domo, fatto di roccia rosa e di vegetazione selvaggia e verdissima, spesso battuto dal vento e circondato da un oceano blu come la notte che si infrange spumeggiante sulle sue coste tormentate. Spesso, da quel che ho letto, è un cuore immerso nella bufera. In questo punto la costa del Maine è frastagliata e irrequieta, fatta di fiordi, isolette e lingue di terra unite da numerosi ponti e bagnate dalle acque dell’oceano, ma anche da quelle di fiumi e laghi. Quando attraverso l’ultimo ponte, quello che mi porta sull’isola di Heart, abbasso il finestrino e respiro a pieni polmoni l’aria
profumata di oceano e di pino e per un istante il mondo mi pare perfetto, la mia vita mi pare perfetta. Poi penso a zia Ari e la magia di quel momento si riempie di crepe che corrono in tutte le direzioni, come su un parabrezza colpito da un sasso. Zietta, in questa mia metafora, è il sasso. Il parabrezza la mia vita. Prevedendo che prima o poi il vetro si frantumerà in mille pezzi, il respiro mi si blocca in gola e sono davvero tentata di fare dietro front, ma poi penso di essere sopravvissuta sino a oggi alle stranezze di Arianna e che ho una gran voglia di riabbracciarla e di conoscere il suo futuro sposo. Che deve essere, con ogni probabilità, più pazzo di lei. Riprendo a respirare e pigio sull’acceleratore. La strada declina dolcemente e ora segue più da vicino la costa che, man mano che ci si avvicina al villaggio, si fa più morbida. Alla mia destra gli scogli lasciano il posto a una lunga spiaggia rosata, illuminata dal sole, ormai allo Zenith. Il mare è calmo e al largo incrociano pescherecci e qualche barca a vela. Dio, sembra il paradiso! Potrei anche viverci in un posto come questo. Ingoio le preoccupazioni e mi sforzo di sentirmi felice. Le prime case del villaggio mi appaiono in lontananza, meravigliose ed eleganti, tutte di un delicato colore pastello. Mi sembrano lo sfondo ideale per un progetto che ho in mente, un libro per ragazzi di cui però ho scritto anche la storia. Il protagonista è un ragazzino dai capelli rossi che… Ma non è il momento questo di raccontarvela. Rallento per leggere sulla mia destra il cartello di benvenuto – a forma di cuore! – sistemato all’inizio del villaggio. Dopo il welcome di prammatica, mi informa che a Cape Love vivono 892 anime. Con me, penso, fanno 893. Percorro la Main Street lentamente, per essere certa che i miei occhi non si sbaglino. Tutto è vivace, lindo e perfetto, come in uno dei miei disegni: fiori e piante adornano le finestre e i portici delle case, mentre ghirlande di rami di pino bianco e pigne ondeggiano dai lampioni in puro stile liberty; la gente sembra presa dalle normali commissioni mattutine, dentro e fuori da deliziosi negozietti che non vedo l’ora di visitare. Forse sarà deformazione professionale, ma mi pare di essere finita in un disegno di Norman Rockwell, di quelli che raffigurano così bene la provincia americana degli anni Cinquanta.
Ok. Sono nella provincia americana, ma è il 2013 e diavolo! Chi è più abituato a gente che si sorride e che si ferma per strada a scambiare due chiacchere senza dover correre subito via, quasi che il mondo non ce la facesse ad aspettare? E dove sono i cellulari? Scruto i passanti – che mi fanno un cenno di saluto con la mano! – e noto esterrefatta che nessuno, dico nessuno, ha l’orecchio inchiavardato al cellulare! Che non ci sia segnale? Presa da un senso da angoscia, controllo il mio telefonino: il segnale c’è, ed è pure forte. Dio sia benedetto. Alla fine della Main Street, George mi invita ancora una volta a turn right, obbedisco e imbocco la pittoresca via che conduce al porticciolo, affollato di barche a vela, motoscafi d’altura e pescherecci. È proprio uno spettacolo. Sul molo i pescatori appena rientrati da una notte di lavoro vanno avanti e indietro con cassette piene di pesce e nasse contenenti aragoste e granchi ancora vivi. Un grande marlin penzola in modo miserabile da un palo e davanti a lui un uomo piuttosto grasso posa con la canna da pesca in mano per la foto ricordo, quasi fosse un eroe. Respiro aria salmastra, mi piace. Appena lascio il porto, la strada si inerpica per un centinaio di metri e il profumo del mare si dissolve in quello dei pini e della folta e selvaggia vegetazione che ricopre l’intera isola. Qui la strada si snoda lungo la scogliera stretta e tortuosa. Il paesaggio è da togliere il fiato. Passo davanti ad alcune grandi case in legno dalla struttura tipica del luogo, forse riveduta e corretta da qualche architetto di città. La vista che godono dell’oceano è strabiliante. Ma non è qui che vive zia Ari. Troppo borghese! Zia Ari ha bisogno di essere circondata dall’eccentrico, anche dentro le mura domestiche. È per questa ragione che vive in un vecchio faro, a picco sulla scogliera. Niente meno. Eccolo, lo vedo comparire da lontano e ancora una volta ho l’impressione di essere finita in un opuscolo pubblicitario che declama le meraviglie del Maine: scogliere impervie, romantici fari e zie fuori di testa. Questa volta però, devo ammetterlo, zia Ari ha fatto centro perché il luogo è di quelli che non si scordano. Il faro si erge alla fine di un promontorio a picco sull’oceano. La torre non è molto alta, ma è slanciata e ben proporzionata, rossa e bianca come la casetta una volta abitata
dal guardiano che le sorge a fianco. Tutto il complesso è circondato da un’allegra staccionata bianca. Spengo il navigatore – scusa, George – e giro nella strada sterrata che corre tra ciuffi di erba alta e compatta che ondeggiano al vento. Sulla mia sinistra scorgo una grande casa grigia e bianca, con un ampio portico che le gira tutt’intorno, straripante di vasi fioriti. Dei magnifici cespugli di ortensie blu e fucsia spuntano qua e là come li avesse dipinti Monet. Sul portico noto un dondolo e poltroncine in midollino bianco, ricoperte da un trionfo di cinz e volant dai colori pastello. C’è un bambino dai capelli rossi che gioca a calcio nel prato dietro casa: non appena scorge la mia auto, corre verso la strada e mi saluta con la mano, sul viso un grande punto interrogativo, negli occhi blu una tristezza che non comprendo. Ricambio il saluto con un sorriso e gli faccio “ciao ciao” con la manina. Una donna di mezza età lo raggiunge subito – la mamma forse – e lo riporta con dolcezza verso la casa. Proseguo con estrema lentezza per avere il tempo di abbracciare ogni particolare di questo luogo da cartolina e dopo neanche un minuto fermo l’auto. Scendo, prendo il telefonino e mi scatto una foto con il faro alle spalle. Ho un sorriso che mi va da un orecchio all’altro. In fondo ho tanti motivi per sorridere, no? Sorrido perché sarò la damigella di zia Ari, naturalmente, anche se l’abito che dovrò indossare… Be’, se pensate a qualcosa di tradizionale, siete proprio fuori strada. Sorrido soprattutto perché voglio bene a zia Ari e sono felice per lei e per me stessa, e perché passare un po’ di tempo in un romantico faro a picco sul mare non è poi così malaccio. Diavolo, sembra un faro di Edward Hopper! Sorrido, infine, perché all’improvviso mi sento come un vulcano di idee pronto a esplodere e sono sicura che qualcosa di importante stia per stravolgere la mia vita. Stravolgere ho detto? Sbagliato! Qualcosa sta per travolgermi! In senso letterale. Cosa? Ma il comitato di accoglienza, che altro? E al galoppo! Mi guardo intorno in cerca di una via di fuga, ma a meno di rientrare in macchina e barricarmici dentro – cosa che non ho il tempo di fare – non mi rimane che pregare.
Zia Ari, in testa, mi corre incontro a braccia aperte, seguita da un quadrupede basso e lungo che sembra un paraspifferi e che abbaia come un terranova. O forse è proprio un terranova ad abbaiare, perché ce n’è uno enorme, bianco e nero, che galoppa come un toro piuttosto incavolato verso di me. Supera con un gran balzo zia Ari e il paraspifferi mentre io fisso col terrore negli occhi la sua lunga lingua rosa ballonzolare piena di bava al lato della bocca. Non perché io abbia paura dei cani, sia chiaro, ma perché se la bestia pantagruelica non si fermerà in tempo finirò spiaccicata per terra e mi trasformerò in uno zerbino umano. Mi schiaccio contro la portiera dell’auto per parare il colpo un secondo prima che il terranova si erga in tutta la sua magnificenza e si butti con le sue zampone nere sulle mie spalle senza molti complimenti. Il contatto della mia faccia con la sua lingua rosa sgocciolante è previsto tra meno di… 3-2-1! Contatto avvenuto. Ancora in apnea cerco di chiamare in aiuto zia Ari, che arranca verso di me lanciando gridolini felici, mentre la bestia ci ha preso gusto e mi fa uno scrubcompleto al viso a colpi di lingua ruvida. Roba da estetista professionista. Nel frattempo il paraspifferi, che scopro essere un bassotto a pelo ruvido, arriva anche lui, si infila sotto il terranova e, forse invidioso della stazza dell’altro, per ripicca si attacca coi denti alla mia scarpa destra e incomincia a tirare, scambiandola forse per un suo acerrimo nemico. Mentre io fronteggio questo doppio attacco canino, zia Ari cinguetta il suo benvenuto come se tutto fosse normale, abbracciandomi insieme al terranova e al bassotto. Tutti insieme appassionatamente. Sorvolerò sulla sfilza di improperi che mi passano per la mente e che ingoio con un sorriso a ottantadue denti. Improperi rivolti a me stessa, non a zia Ari, per averle di nuovo permesso di intrufolarsi nella mia vita e di travolgermi, e questa volta in senso letterale. Ma nonostante tutto, malgrado la faccia bagnata di bava di terranova e il piede ancora ostaggio dei denti aguzzi di un bassotto, già so che fra pochi minuti cederò alla contagiosa joie de vivre di zietta e che le saltellerò intorno felice, insieme al terranova e al bassotto. A proposito. Riuscite a immaginare che effetto fanno un bassotto e un terranova insieme?
Il terranova è enorme, mattacchione e affettuoso, il bassotto petulante e altezzoso, convinto di essere un vip. Visto che il terranova è una lei – Armageddon, e non a caso – e il bassotto è un lui – Montmorency, come il terrier di Tre uomini in barca – mentre scarico il mio bagaglio chiedo per scherzo a zia Ari se non teme che quei due possano darsi alla pazza gioia e procreare una nuova razza, quella dei Terrabassa. Lei mi guarda come se non avesse mai pensato a questa sciagurata eventualità e da buona seguace new age mi risponde seria seria che non farà mai niente per ostacolare i piani di madre natura e padre destino. Ecco. «In ogni caso» sussurro al bassotto senza farmi sentire da zietta, «non credo proprio, caro Montmorency, che tu possa farcela.» Forse si è offeso, perché mi guarda male. *** Un paio di ore dopo ho il primo impatto con la verità. Siedo con zia Ari e Montmorency – Armageddon ha il buon gusto di accomodarsi per terra – su un divano che ha conosciuto tempi migliori, in cima al faro, trasformato da Arianna nel suo studio. Non è difficile capirne il motivo: la luce penetra senza ostacoli attraverso i finestroni di vetro e lo spettacolo dell’oceano che si infrange sulla scogliera una trentina di metri sotto di noi è da levare il fiato. Il sole, ormai al tramonto, sembra esibirsi solo per i nostri occhi. Su un cavalletto l’opera cui sta lavorando zia Ari è coperta da uno straccio bianco. Evito di chiedere di che cosa si tratti (so che non ama parlarne) e bevo il caffè lungo e forte che zia ha preparato in mio onore con una vecchia moca, che risale con ogni probabilità ai primi anni Sessanta. Il caffè è orrendo, ma mi sento bene. Almeno sino a quando zietta non dice: «Potrai lavorare qui, se lo studio ti piace». La guardo incuriosita. «Lavorare?» «Sì, al tuo libro.»
«E perché, dopo il matrimonio, dovrei fermarmi qui?» chiedo sempre più sospettosa. Lei mi dà un affettuoso colpetto sulla mano e mi risponde serafica. «Ma per tenere compagnia ai miei piccolini, naturalmente! Non possiamo mica portarceli in viaggio di nozze!» dice accarezzando il testone di Armageddon. Tenere. Compagnia. Ai piccolini. La belva e il paraspifferi. Naaa. Mi sta prendendo in giro. «Scherzi, vero?» «Certo che no!» «E cosa aspettavi a dirmelo, scusa?» «Pensavo che fosse ovvio!» «Ovvio? Ma se non sapevo neppure che tu avessi due cani!» «Non chiamarli cani. Sono i miei piccolini» continua offesa, chinandosi per accarezzare Montmorency. «Sono buoni come il pane, e sapranno difenderti dagli sconosciuti. Dovresti essere riconoscente.» E come no? Mi alzo in piedi scuotendo la testa e comincio a misurare in modo nervoso lo spazio. Per quanto il faro non sia più in funzione, nel centro della stanza è ancora presente l’affascinante sistema di ingranaggi, lampade e lenti che per quasi due secoli ha evitato a molte imbarcazioni di schiantarsi contro gli scogli. Fisso quella meraviglia sperando che guidi anche me e che mi aiuti a dominare la collera. Respiro a fondo una, due, tre volte e, mentre il sole scompare dietro l’oceano, mi convinco che forse per una settimana posso anche farcela. In fondo ho un biglietto open per l’Italia e qualche giorno in più per esplorare questo magnifico luogo e magari per buttare giù qualche schizzo per il mio libro non può certo essere tanto male. Anche se, a dire il vero, il vulcano di idee dentro di me sembra ora un lumicino. Mi giro verso Arianna e con fare minaccioso le punto addosso un dito. «Una settimana di luna di miele e tornate alla base?» «Sì, solo una settimana» afferma con una sicumera che dovrebbe insospettirmi.
Ancora non sono convinta. «Se tu non mi tieni i piccoli, non potremo andare in luna di miele…» mormora abbassando gli occhi e facendomi sentire una schifezza. Cedo. «Va bene, zia, ma che siano sette giorni, non uno di più!» «Giurin giuretta.» “Giurin giuretta”? Era dalle elementari che non sentivo più questa espressione. Si alza in piedi soddisfatta, va alla scrivania e prende da un cassetto un foglio di carta. Con espressione raggiante me lo porge. «Ecco il programma» mi dice. «Che programma?» Mi guarda come avessi fatto una domanda idiota. O forse come se io fossi idiota. Non ha tutti i torti, perché è così che mi sento.
3 18 giugno, martedì, tre giorni alle nozze Mi sveglio dopo otto ore di sonno e di incubi dovuti in gran parte a ciò che zia Ari, con un eufemismo, definisce “programma”. Programma… Trattasi di due fogli A4 fitti di appuntamenti, persone da incontrare, orari, numeri di telefono, commissioni da fare per conto di zietta prima e dopo il matrimonio. Fra le righe compare spesso la parola “libreria”, ma non si capisce cosa dovrei farci io in una libreria. Ho la certezza che alla fine di questa vacanza, che forse dovrei definire gulag, sarò più attenta ad accettare gli inviti di Arianna.Zietta cara, la chiamerò d’ora in poi, parafrasando la figlia di Joan Crawford. Mi alzo dal letto e mi stiracchio. La mia stanza, rosa, bella, spaziosa, con un letto a due piazze con tanto di baldacchino, è illuminata da un sole ancora basso e profuma di caffè. Un bel caffè mi ci vuole proprio.
Mi infilo sulla camicia da notte un golf pesante per ripararmi dal freddo, perché in questa casa-faro a volte sembra di stare nel bel mezzo della rosa dei venti, e apro la porta della mia camera con fare sonnolento. Le palpebre si sollevano quel tanto necessario per vedere, a pochi metri da me, uno sconosciuto alto, asciutto e con lunghi capelli corvini intento a sorseggiare un caffè. Indossa soltanto un asciugamano legato intorno alla vita. Un piccoloasciugamano. Sbatto gli occhi per capire se sto ancora sognando, poi mi rendo conto di essere sveglissima e tento di rientrare in camera e di richiudere la porta dietro di me, forse perché spero di essere ancora in tempo per fuggire dalla finestra. Illusa. La voce di Arianna mi blocca. «Gioia, tesoro, vieni che ti presento John!» John! John Cooper, il suo fidanzato poco vestito e dal fisico, a quanto ho potuto intravedere, davvero notevole. Capito la zietta? Non che lei sia da meno. Il Pilates su di lei ha fatto molti più miracoli che su di me. Forse anche perché io non ho mai fatto Pilates. Dissoltasi l’ipotesi della fuga, prendo un respiro profondo e mi faccio avanti cercando di non guardare ciò che quel dannato asciugamano, che ora mi sembra ancora più piccolo, non nasconde completamente. Mentre sorrido come un’imbecille alla coppia più disinibita e new age del momento, che certo è più in sintonia con il cosmo intero di quanto io sia con me stessa in quella stanza, vi spiego la ragione per cui alle nozze di zietta sembrerò la sorella formosa di Pocahontas. Perché, nel caso non l’aveste ancora capito, il matrimonio di zietta sarà un matrimonio alternativo. Molto alternativo. John Cooper, infatti, proviene dalla nobile famiglia di nativi americani Copchca, della tribù Penobscot, una delle tribù riconosciute dal governo degli Stati Uniti come “nazione”. Certo dubito che, come me, ne abbiate mai sentito parlare: primo, non si
è mai scontrata con quel simpaticone del generale Custer; secondo, il cinema americano ha dato spazio solo agli indiani del west, tipo Sioux, Cheyenne, Seminole. Non è un caso che ci sia un genere western e noneastern. Comunque sia, questa antica tribù, nemica giurata dei Mohawk, esiste realmente e ha la sua nazione in un’isola qui nel Maine, dove vigono regole e leggi approvate dal governo USA. John Cooper si gira verso di me e mi tende una mano forte, ben curata. Emana fascino, virilità, sicurezza e ha un bellissimo viso, nonostante sia solcato da rughe e cicatrici che forse, penso, si è procurato nel suo tempo libero dando la caccia agli orsi o agli squali, magari a tutti e due insieme, nel suo tempo libero. Con quel fisico statuario e quegli occhi neri dal taglio orientale potrebbe essere stato un divo del cinema negli anni Settanta e Ottanta e invece, scopro poco dopo, John è un neurologo affermato, laureato a Harvard. Mai lasciarsi ingannare dalle apparenze e soprattutto dai pregiudizi. Mi sento stupida e grezza. La sua stretta è forte e nello stesso tempo gentile e in pochi minuti con la sua voce vellutata mi fa sentire a casa, lui e il suo asciugamano, piccolo piccolo, stretto intorno alla vita. Zia Ari sembra il ritratto della felicità. *** Circa tre ore dopo, camminiamo tutti e tre per la colorata Main Street di Cape Love. Da quel che ho capito, John si è preso un giorno per sistemare gli ultimi dettagli della cerimonia insieme alla sua promessa, dettagli che comprendono la prova dell’abito della damigella d’onore. Moi. E così, poco dopo, mi trovo con zia Ari – John è andato non so dove – in casa di Jessie, una nativa Penobscot pure molto new age che prima mi squadra scuotendo la testa, poi sospira preoccupata fissandomi tette e fianchi, e infine mi abbraccia e mi bacia sulla guancia almeno una dozzina di volte mentre zia Ari mi fissa con la tipica espressione “tranquilla, è tutto ok”. Sarà. Passiamo tutte e tre in un salottino dove, appeso a uno specchio a piede, c’è l’indumento che fra tre giorni dovrò indossare. E non per una festa in maschera. Non riesco a trattenere un fischio di sorpresa. Perché è un abito bellissimo, che neanche Pocahontas si è mai sognata di avere nell’armadio, se avesse avuto un
armadio, naturalmente. Mi avvicino e lo sfioro con delicatezza. È una tunica, semplicissima, di una pelle che mi rifiuto di sapere a chi sia appartenuta, sottile e morbida come la seta e candida come una nuvola d’estate. Intorno allo scollo, un ricamo di perline azzurre e verdi mi ricorda le onde dell’oceano, mentre al centro una variopinta figura a forma di V rappresenta qualcosa che non capisco. Altre perline formano frange sulle maniche e adornano i calzari di pelle che dovrei indossare, ovviamente più piatti della pianura Padana. Se io indosserò un abito tanto bello, mi chiedo, che mai si metterà addosso zietta? «È l’abito di una principessa Penobscot, di fine Ottocento, un’antenata di John» spiega zia Ari. «Passa di generazione in generazione e viene utilizzato solo in occasioni speciali. Il ricamo…» «… simboleggia l’oceano» termino io. Arianna mi guarda sorpresa. «Già, è proprio così, e questi fregi colorati al centro del ricamo rappresentano lo spirito del mare.» Non che ciò sia altrettanto evidente, ma mi fido. Jessie interrompe la nostra conversazione e mi esorta a indossare la tunica perché afferma, senza usare eufemismi, di essere preoccupata che le mie curve siano troppo pronunciate per starci dentro. Onestamente sono preoccupata anch’io. Così non ho altra scelta che denudarmi davanti alle due signore e infilarmi nella tunica con molta circospezione, temendo a ogni secondo di sentire dei crack sospetti provenire da qualche cucitura. Tirando qua e tirando là, evidenziando tutto ciò che c’è da evidenziare, l’abito scivola invece sulle mie curve senza lamentarsi. Non troppo, per lo meno. «Zia Ari, non credo proprio sia il caso che io lo indossi…» dico decisa, scuotendo la testa. «Ma cosa dici? Ti sta benissimo, cara. E la tua aura, con questo abito, risplende più di prima.» Jessie conferma, facendo sì con la testa. La mia aura? Come nella Profezia di Celestino? La mia natura pragmatica per un momento oscilla e vorrebbe ribellarsi.
«Arianna» dico seria, «non ho nessuna aura.» Lei fa spallucce, e alza gli occhi al cielo. «Solo perché tu non la vedi, non è detto che non ci sia!» «È detto, credimi!» rispondo secca. «Almeno» continua lei, «lasciati dire che con quel vestito nessun uomo ti staccherà gli occhi da dosso!» «Oh» ribatto fissando nello specchio i punti dolenti. «Di ciò non ho alcun dubbio.» «E poi sono certa che Jessie farà di tutto per sistemarlo, vero cara?» Jessie, il mento stretto tra le dita, con la stessa gravità di uno sciamano continua a scuotere la testa. «Ci proverò» sentenzia alla fine. Se non me ne vado subito, divento matta. «Fate ciò che volete di me» borbotto sfilandomi l’abito, «ma ora vorrei uscire di qua.» In quel momento non me ne importa niente se qualche vecchio sporcaccione mi guarderà il sedere al matrimonio del secolo. Mi avvolgerò in uno scialle, penso, e coprirò ogni parte di me eccedente dalla taglia 42. E poi, quante persone saranno presenti alla cerimonia? Se non ho capito male si tratta di una cosa intima, in famiglia. È il concetto di famiglia di zia Ari e del suo nuovo fidanzato che mi terrorizza. *** Io e zietta riprendiamo il nostro giro nella Main Street e le preoccupazioni poco per volta se ne vanno. È tutto così perfetto, curato, rassicurante qui! Mi sembra di camminare in un film degli anni Cinquanta: tanto rétro che potrebbe esserci lo zampino di un art director. Dimenticato l’abito da Pocahontas, l’idea di poter utilizzare il villaggio come ambientazione della mia storia prende forma e mi regala un brivido di eccitazione. Il sole, ormai alto nel cielo, mi avvolge in un meraviglioso tepore, mentre il vento mi porta alle narici il profumo del mare e alle orecchie gli striduli richiami dei gabbiani. Se quella odiosetta della pubblicità ora mi chiedesse «cosa vuoi di più dalla vita?» sono certa che le risponderei «niente».
Sulla strada principale si affacciano deliziosi, piccoli edifici a uno o due piani, risalenti all’inizio del secolo scorso. Molti ospitano al piano terra boutique o botteghe d’arte e di artigianato locale, molto colorate e allegre. Altri, pochi per fortuna, sembrano essere disabitati. Chiedo a zia Arianna come mai. Scuote la testa e i suoi occhi si fanno indignati. «C’è qualcuno che vorrebbe trasformare Cape Love in un centro alla moda e per far questo sta tentando di far piazza pulita dei proprietari degli stabili.» Non ci capisco molto di speculazioni, quindi chiedo: «E come potrebbe riuscirci?». «Ingolosendo i proprietari con proposte così alte che non tutti possono rifiutare. Agli inquilini, poi, aumentano il canone dell’affitto e offrono incentivi per andarsene. Ma con la sottoscritta non avranno vita facile!» dice combattiva. La guardo sorpresa. «Parli del faro sul promontorio, zia? Mi sembrava di aver capito che lo avessi acquistato!» «No, non parlo del faro, ma della piccola libreria di cui di recente sono diventata socia.» «Una libreria?» esclamo stupefatta, ricordandomi del promemoria formato A4 di zietta come fosse una spada di Damocle. «Non che io ci lavori proprio, non per il momento, almeno. L’ho fatto solo per dare una mano a una cara amica in difficoltà, Joanna.» La guardo per indurla a spiegarsi meglio. Sono curiosa di saperne di più su questa sua ultima stranezza. «Come ti dicevo prima» continua, «qualcuno – si dice una holding di Boston – sta cercando di fare incetta di edifici storici.» «Sì, e non è un bene» le dico, facendole cenno di continuare. «Il proprietario dell’immobile che ospita la libreria per il momento si è rifiutato di vendere, ma come contropartita ha aumentato a Joanna l’affitto.» «Non mi pare una cosa carina da fare.» «Certo, ma non è illegale. È solo questione di mercato.»
«E tu cosa c’entri?» «Da sola Joanna non si poteva permettere di pagare una tale cifra, così sono entrata in società con lei. In una sola mossa ho aiutato un’amica a far sì che non chiudesse l’unica libreria rimasta a Cape Love e a combattere i misteriosi speculatori.» Ammetto di essere un po’ frastornata da queste notizie e di non capirci molto, anche se il ragionamento non fa una grinza. E poi, quando c’è una battaglia da combattere, nessuno è più agguerrito di zia Ari. Certo, non credo che una pittrice new age abbia la minima idea di come si gestisce una libreria, ma in ogni caso l’idea non mi dispiace affatto. Adoro le librerie, soprattutto quelle piccole e familiari cui non siamo più abituati da quando tutta la nostra vita si svolge on line. Quelle dove puoi sederti e sfogliare un libro prima di decidere di comprarlo, quelle dove puoi scambiare qualche parola e chiedere un consiglio a chi sta dietro al bancone. «Vieni» mi dice zia prendendomi a braccetto, «il negozio è proprio qui, in fondo alla strada.» Sono proprio curiosa di vedere in che impresa questa volta zia Ari si sia cacciata. La seguo in silenzio e, anche se sono ammirata dalla sua intraprendenza, tengo il becco ben chiuso: con lei la prudenza non è mai troppa. Avanza lungo la strada come una regina, saluta tutti con una parola gentile e mi presenta come la sua nipote prediletta. Forse perché, penso, non ne ha altre. Arriviamo davanti alla libreria. Si trova in un piccolo edificio in legno bianco, con tanto di portico sul davanti. La porta e le cornici di finestre e vetrine sono pitturate di un vivace rosa confetto. È la casa più deliziosamente frou frou che essere umano abbia mai concepito. «Al piano terreno c’è il negozio» mi spiega zia. «Sopra, invece, ci abita la mia socia con il marito: anche loro sono invitati al matrimonio.» Ai lati della porta di ingresso ci sono due vasi di ortensie già in fiore e un paio di cesti, rosa, contenenti alcune decine di libri in offerta a due dollari. La tentazione di frugarci dentro mi assale, ma zietta mi tira per il braccio. Alzo gli occhi e noto che sopra la mia testa ballonzola un’insegna su cui sono raffigurati un vecchio libro e il muso di un delizioso leprotto occhialuto che assomiglia a Harry Potter. Non a caso il negozio si chiama The Little Hare’s Bookshop. La libreria del leprotto. Mi avvicino alla
vetrina, mi riparo gli occhi dal riflesso del sole e cerco di capire cosa vi sia esposto. La prima sensazione è che di libri ce ne siano pochi. Rimango impietrita a fissare oltre il vetro. Sbatto gli occhi e cerco di capire. Voi, di solito, cosa ci trovate nelle vetrine delle librerie? Libri, forse? Pile di bestseller che ti chiamano a gran voce, che ti lusingano e ti invitano ad accoglierli a casa tua? Qui? Niente di tutto ciò. La piccola, graziosa vetrina mi appare come un delizioso mondo a parte, popolato dai piÚ celebri personaggi della letteratura di ogni tempo.
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