I figli dell'ombra

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I Figli Dell’ Ombra

Romanzo di Cassandra GREEN © Copyright 2016 Tranquilli Maria Donata. Tutti i diritti riservati a norma della legge del diritto d’autore e del codice civile la riproduzione di questo libro o parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, microfilm, registrazioni o altro. Queste è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o persone realmente esistenti è da considerarsi del tutto causale. ISBN: 9788893323987 Youcanprint Self-Publishing Licenza per l’immagine acquisita sul sito: http://www.shutterstock.com/index-in.mhtml contatti con l’autrice: https://www.facebook.com/mariadonata.tranquilli pagina facebook: https://www.facebook.com/I-Figli-DellOmbra-863639280419164/

“Pray to your God, open your heart Whatever you do, don't be afraid of the dark Cover your eyes, the devil inside” Night of the hunter

Prologo Giovedì 12 aprile Victor Bell aveva sfruttato il turno pomeridiano, che doveva affrontare quel giorno insieme al collega e amico Ozzy Ward sceriffo della cittadina di Whitesouls, per correre dal padre. Fermò la sua utilitaria nel parcheggio del centro anziani dove era stato costretto a ricoverarlo poiché, unico genitore rimastogli in vita, da qualche anno soffriva del morbo di Alzheimer. L’uomo, con già indosso l’uniforme, scese dalla vettura e si diresse velocemente al ricovero; entrò ed andò alle scale con le quali raggiunse i piani superiori. Svoltò a destra e proseguì fino alla fine del corridoio dove sapeva trovarsi la camera che ospitava il padre. Rammentava bene la promessa fatta allo sceriffo Ward, quel martedì mattina appena trascorso, ma quattro cadaveri in tre giorni erano il segnale che doveva agire alla svelta se voleva risolvere il mistero di Whitesouls. Entrò in camera e trovò James Bell seduto su una sedia a rotelle posizionata davanti alla finestra, dalla quale si potevano ammirare la grande collina e la chiesa che si trovava in cima.


«Papà sono tuo figlio… Victor…» afferrò una sedia di legno e la mise vicino all’uomo, con l’intenzione di sedersi dinnanzi a lui. «Ti ricordi di me?» chiese dispiaciuto di costatare che non vi fosse alcuna reazione da parte dell’altro «... gli omicidi in serie sono ricominciati a Whitesouls, proprio nell’anno che supponevi tu» gli raccontò, sperando di fare appello allo sceriffo dormiente che era in lui. «Abbiamo arrestato Marvin Dog e quelli che sembrano essere i suoi complici, ma non penso che abbiano veramente a che fare con questi omicidi» ammise, sicuro che Ward si stesse sbagliando sull’ex-mendicante giunto in città qualche tempo prima. «Papà… la tenuta dei Wood è stata venduta qualche giorno fa. Papà…» continuò a chiamarlo nella speranza di attirare la sua attenzione «hai idea di che fine abbia fatto il figlio di Ilean Wood?» «Lei è morta» biascicò James Bell, ex-sceriffo di Whitesouls. «Lo so, complicazioni nel parto. Ma il figlio?» incalzò, sicuro che fosse quella la pista da seguire. James Bell lo fissò per qualche istante, con un lampo di lucidità negli occhi, per poi tornare a guardare il nulla fuori dalla finestra. «Va bene non importa» si alzò dalla sedia, diede un bacio sulla fronte del padre e si diresse alla porta convinto di aver fatto un buco nell’acqua. «La famiglia Wood era composta dalla signora Holly Reyes e da Elliott Wood, all’epoca dei fatti sindaco della città. I due avevano tre figli: il maggiore Joshua di diciannove anni, la secondogenita Ilean di quindici anni e la più piccola Gwenda di otto» Victor tornò sui suoi passi e facendo attenzione a non distrarre il padre dai ricordi, sedette nuovamente sulla sedia di legno. «… in città non si parlava d’altro… di come il giovane Joshua fosse cambiato in seguito all’incidente stradale nel quale per poco non perdeva la vita… nelle indagini che seguirono scoprii che i genitori avevano raccontato le loro preoccupazioni a molti amici e conoscenti, persino al reverendo Tom Morales. C’era qualcosa di strano nella ricostruzione dei fatti, poiché tutto portava ad una conclusione ma la realtà sembrava essere un’altra…»

Cinquant’anni prima La notte era scesa nella piccola cittadina di Whitesouls e come sempre molti dei ventimila abitanti, dopo un pasto frugale, si erano recati ai rispettivi letti per riposare. Holly Reyes, moglie di Elliott Wood, dopo essersi assicurata che le sue due figlie Ilean e Gwenda si fossero coricate, era andata nella camera da letto alla fine del lungo e sfarzoso corridoio del secondo piano. Era venerdì e, come spesso capitava nelle ultime settimane, suo figlio maggiore era uscito nonostante la disapprovazione dei genitori. «Hai provato a parlargli?» chiese rivolta al marito mentre, seduta alla toilette, si spazzolava delicatamente i capelli.


«Gli ho già detto che non vogliamo che si comporti così» ribatté l’uomo dal grande letto, che occupava parte della stanza le cui pareti erano dipinte in un rosa pallido, abbellite da diversi fiori decorati a mano. «Hai visto? Ho anche tentato di coinvolgerlo nelle attività della chiesa. Ho persino scomodato il prete» proseguì. «Non direi scomodato» la donna si tolse i gioielli che indossava e li depose nell’antico portagioie ereditato, come l’intera tenuta, dalla suocera. «Il reverendo fa solo il suo lavoro» Holly si alzò dalla toilette, antica tanto quanto la maestosa casa e si diresse al letto. «Non è più lo stesso da quel giorno» l’uomo distolse lo sguardo dal libro che aveva in mano, leggere i passi della Bibbia era il suo modo di ringraziare Dio per la grazia ricevuta. Holly si tolse la vestaglia di seta, la depose sulla sedia rivestita in oro che si trovava vicino al comodino e infine si mise a letto. «...oggi sono andata anche a parlare con il reverendo» «Che ti ha detto?» «Le solite cose» mentì sebbene non ne avesse intenzione: rivelare però i suoi timori le sembrava così folle che solamente durante la confessione era riuscita ad aprirsi. «…e pensare che un’esperienza del genere avrebbe dovuto avvicinarlo di più a Dio» non riusciva a trovare una spiegazione plausibile che giustificasse come un ragazzo come suo figlio Joshua, ubbidiente e diligente, si fosse trasformato in una persona totalmente diversa. «La colpa è anche di quei suoi nuovi amici» le disse il marito dandole il bacio della buona notte sulle labbra; infine depose il sacro libro sul comodino e spense la luce desideroso di riposare. Era stata una lunga settimana per lui e per lo sceriffo, che all’epoca dei fatti era James Bell, impegnati a mantenere la calma tra i cittadini spaventati dagli omicidi ancora irrisolti. Holly, a differenza di suo marito faticò a prendere sonno; si sentiva sempre profondamente inquieta e quel senso di abbandono spirituale la faceva sobbalzare per ogni ombra che attraversava la stanza. Dispiaciuta per non aver trovato nel prete una spiegazione a quel senso di disagio che da quasi una settimana la perseguitava, si costrinse a mantenere la mente sgombra dai brutti pensieri. «Figliola se ti senti lontana da Dio prega di più e purificati dai tuoi peccati» le aveva detto il sacerdote. «Ma padre, io tento di essere una brava cristiana, faccio del mio meglio per onorare Nostro Signore, e sinceramente non vedo quale crimine io possa aver commesso per meritare il suo abbandono»


Il prete l’aveva convinta a non dare credito ai suoi timori, pensando che fossero innescati dai terribili eventi avvenuti quella settimana e che stavano sconvolgendo i cittadini di Whitesouls. Un rumore la fece sobbalzare. Guardò la sveglia sul comodino e vide che mancava poco alla mezzanotte. Pensando che il figlio fosse rincasato, trasse un profondo respiro nel tentativo di placare i battiti cardiaci accelerati per lo spavento e voltandosi su un fianco abbracciò il marito in cerca di un conforto che ormai non trovava più nella preghiera. Qualcosa si era insinuato nella sua vita, ne era sicura, e ne aveva parlato anche con il prete quel pomeriggio. «Non capisco come tu possa dubitare in questo modo, il Signore ti ha donato la grazia di riavere tuo figliolo con te» disse riferendosi al grave incidente nel quale il ragazzo era stato coinvolto. L’incrocio della morte, così lo avevano chiamato, aveva mietuto diverse vittime quell’anno. «Padre non dubito di Nostro Signore ma di ben altro...» Holly aveva fissato il reverendo con le lacrime agli occhi, il ragazzo che era miracolosamente sfuggito alla morte non era più il figlio che lei aveva cresciuto ed educato. «…l’ho sentito spesso bestemmiare e una volta l’ho sorpreso a palpare le sue sorelle insieme a quei suoi due strani amici…» il prete a quel punto aveva taciuto anch’egli impensierito. «con i quali spesso parla una lingua strana… Elliott dice che probabilmente è un loro gergo ma a me sembra una lingua antica!» concluse sempre più convinta che suo figlio fosse posseduto. «Perché domani non porti il ragazzo da me» le aveva suggerito il reverendo, prendendo in considerazione l’idea di chiamare qualcuno più competente di lui. «E come faccio, non vuole più venire a messa!» la donna era sconfortata «passa tutto il suo tempo con quei due ragazzi che ha conosciuto all’ospedale, gli stanno attaccati come una cozza allo scoglio» l’osservazione fece comparire un sorriso tirato sul volto dell’uomo. Holly si destò nuovamente, non si era nemmeno accorta di essersi momentaneamente assopita, sì irrigidì di colpo quando udì un mormorio giungere dal terzo piano. «Elliott, Elliott!» chiamò in un sussurro il marito che in risposta si girò dal lato opposto. Avvolta dall’oscurità della notte Holly rimase in ascolto di quelle voci a lei familiari. Stupita nel constatare che quella cantilena proveniva dal terzo pieno della tenuta, la donna si alzò da letto, indossò la vestaglia e uscì dalla porta della camera da letto. Raggiunse le scale a ventaglio che conducevano al piano superiore e rimase lì a contemplarle per qualche secondo indecisa se salire o meno. Per cinquant’anni nessuno della famiglia Wood si era più avventurato in quel lato della casa ribattezzato dai Wood la “zona proibita”.


Victor, ancora una volta ammaliato dalla bravura con cui il padre raccontava i fatti e per come era riuscito a ricostruirli fu costretto, dal tempo tiranno che l’obbligava a recarsi in centrale, ad interrompere l’uomo. «Papà conosco bene il racconto ma…» «No, nessuno conosce la verità, ma solo le menzogne che sono state raccontate per confondere e disorientare. È per questo che la polizia non ha mai capito cosa fosse realmente successo quella notte di cinquant’anni fa» lo corresse con fare burbero. Pretendeva che il figlio avesse un’apertura mentale più ampia, solo così avrebbe svelato il mistero di Whitesouls. «Forse hai ragione» convenne l’altro, pensando che c’era qualcosa di insolito nella ricostruzione degli eventi di quella notte. «Ma la mia domanda è un’altra» incalzò Victor «Dopo quella sera Ilean, unica sopravvissuta, fu trovata da te legata all’altare dove era stata seviziata e dove si presume concepì il bambino che nacque nove mesi più tardi. Tu sai dov’è ora questo bambino?» «E’ esattamente dove deve essere» «Dove?» «Con suo padre» Victor lo guardò perplesso, c’era qualcosa che ancora non riusciva a capire e per un attimo temette che la demenza di James Bell lo stesse confondendo. «Vuoi dire che è con Joshua?» «No, intendo dire che si trova con il vero padre» «Ma se il vero padre non è Joshua Wood allora chi ha ingravidato Ilean quella notte di cinquant’anni fa? Tu lo sai?» domandò Victor «No, in verità non sono mai riuscito a distinguerli» gli rispose. «MA CERTO!» Un fulmine a ciel sereno attraversò la mente di Victor Bell, e in quell’attimo ogni aspetto della vicenda ebbe finalmente senso.

1 Cinque giorni prima Sabato 7 aprile. Cassandra Hill aprì gli occhi, la luce solare pian piano inondò la stanza, si stiracchiò nel letto felice di vedere che un nuovo giorno era sorto. Sbadigliò con un’intensità tale che finì con il lacrimare, ed infine si sedette nel letto dove sbadigliò un altro paio di volte. «EVVIVA!» esultò balzando giù dal letto «è SABATO… è SABATO… è SABATO!» canticchiò davanti al gatto che le dormiva sui piedi «MAX!» lo chiamò urlando.


«E’ SABATO… è SABATO!» continuò a canticchiare tra sé, adorava il fine settimana per diverse ragioni, la prima, ovviamente, era che non c’era scuola. Nel weekend adorava praticare attività fisica e quel senso di gratificazione che raggiungeva quando riusciva a vincere la fatica. «MAX!» afferrò il suo gatto nero con il quale cominciò a cantare e ballare una delle sue canzoni preferite, sentita a scuola dal bidello Mike Boyd. La bestiola miagolò spaventata. «Pigrone di un felino!» lo sgridò deponendolo nuovamente sul letto. Si diresse all’armadio dal quale estrasse i pantaloni della tuta e una felpa che indossò per poi darsi una rapida occhiata allo specchio. «Passabile» si disse con tono giocoso, raccolse i suoi lunghi capelli in una frettolosa coda di cavallo ed afferrò l’Ipod. Uscì dalla camera, si diresse al piano inferiore dove sua madre Erika Bennett si stava preparando una rapida colazione. «Hai impegni dopo la corsa mattutina?» le chiese vedendola arrivare. «No, perché?» Cassandra andò a sedere vicino a suo fratello Sirio che, con già indosso la divisa da poliziotto, si stava sbrigando a mangiare i corn-flakes. «Potresti fare delle commissioni per me e per tua sorella?» il suo essere una donna in carriera non le aveva mai impedito di essere una brava madre, anche se come a cuoca e donna di casa lasciava un po’ a desiderare. «Non c’è problema» le rispose Cassandra iniziando a fare colazione; aveva sempre una gran fame di prima mattina. Erika accennò un sorriso, ben felice di avere il sostegno e l’aiuto di cui necessitava per portare avanti i suoi impegni di sindaco della città. «Buon giorno a tutti» Brian Hill entrò in cucina con passo svelto e le mani impegnate a tentare di annodare la cravatta. «Ci rinuncio» disse, afferrò rapido la tazza del caffè preparato da sua moglie che si prodigò a fare il nodo al suo posto. «Allora papà, come è andata la transazione di ieri?» chiese Sirio ansioso di saperne di più. «È stata molto interessante, ovviamente non è il mio campo, ma mi ha molto intrigato» Lo studio Hill, nel quale non lavoravano solo avvocati ma anche notai, si era trovato a dover concludere una difficile e particolare vendita quella settimana. «Ma questa famiglia conosce la storia?» chiese Sirio ancora perplesso dinanzi alla scelta dei nuovi arrivati. «Assolutamente sì, ed è proprio questo il motivo che ha spinto la signora Lillie Bailey ad acquistare la tenuta. Lei dice che economicamente è un affare ed ha ragione» bevve una lunga sorsata prima di riprendere il discorso «…se consideriamo il prezzo di vendita a fronte del valore dell’immobile notiamo che l’abitazione ha uno


sconto del cinquanta per cento, ve ne rendete conto?» chiese con tono meravigliato «Venduta a metà prezzo!» ripeté ancora esterrefatto da quanto appreso giorni prima. «Sarà anche un affare, economicamente parlando, ma io non ci andrei a vivere» «Ma sai, alla fine è pura superstizione» gli fece presente il padre. Sirio si alzò da tavola, stava rischiando di fare tardi a lavoro e, visti gli ultimi rimproveri da parte dell’attuare sceriffo della città il signor Ozzy Ward, il ragazzo non poteva proprio permetterselo. «Superstizione?» chiese Sirio incredulo «I Wood sono stati sicuramente ammazzati dal loro figlio uscito fuori di testa, che li avrà fatti a pezzi e nascosti in casa… in più di lui non si sa nemmeno che fine abbia fatto. Sai, si dice che viva ancora nella tenuta…» Ascoltare quella sciocca superstizione fece scoppiare a ridere la sorella minore Cassandra. «... Mi rendo conto che è una scemenza ma…» «Anche se fosse adesso avrebbe quanto? Settant’anni?» chiese la ragazza a nessuno in particolare. «Ma la Signora Bailey andrà a vivere da sola nell’ex-tenuta dei Wood?» domandò Sirio, ignorando l’osservazione della sorella. «No con i tre figli, credo. Perché?» «Mettiamo l’ipotesi che lo spirito disturbato di Joshua Wood si aggiri ancora per la casa, potrebbe impossessarsi di uno dei figli della donna e costringerlo a compiere altri omicidi. In fin dei conti i morti di quel periodo furono tutti attribuiti a lui, dico bene?» «Tu guardi troppi films dell’orrore» gli fece notare la sorella «Ma poi scusa non hai appena detto che forse è ancora vivo» lo prese un po’ in giro «Magari si è cibato dei cadaveri del cimitero, tanto la tenuta è proprio lì vicino» «Che è poi il motivo per cui questa casa è rimasta invenduta per cinquant’anni!» intervenne Brian, notando un’espressione di disappunto comparsa sul volto del figlio. «Comunque ho avuto modo di conoscerla e devo dire che è una donna molto intelligente ed affascinante… non volermene cara» si affrettò a dire rivolgendosi alla moglie «Tu sei mille volte meglio» ammiccò scherzosamente. «…però è una donna di città e credo che sia un’imprenditrice, almeno è l’impressione che ho avuto. Perciò dubito che gente così si lasci condizionare da leggende e timori popolari» «La cosa non mi dispiace anzi…» Cassandra afferrò la tazza della colazione e la mise nel lavello «…questa città ha bisogno di gente con vedute più larghe che cambi un po’ il modo di pensare di qui» «Non ci sperare, amore mio» le disse il padre «sono sicuro che più della metà delle persone starà già parlando male dei nuovi arrivati: “i forestieri” li chiameranno con sdegno. Che è poi quello che succede ogni qualvolta qualcuno arriva in città» Cassandra accennò un sì dispiaciuta «…conosco questa gente così bene che so già cosa andranno a raccontare»


«Beh, poco importa, qui la gente sparla per sparlare, invece io sono contenta che arrivino nuove persone, anzi non vedo l’ora di conoscere questa nuova famiglia e la loro storia» «Nulla in contrario, ma stai attenta» si raccomando il fratello di Cassandra. «Ti prego, Sirio, non lasciarti contagiare anche tu dal morbo della stupidità» ribatté lei infastidita per la troppa apprensione dell’altro. Non era la prima volta che suo fratello si dimostrava ostile verso nuovi arrivati ed il suo essere così simile agli abitanti di Whitesouls un po’ la infastidiva. «No, veramente…» farfugliò incerto su come esprimere le sue riserve in merito ai nuovi giunti «Insomma… vengono da Boston» «La città della perdizione» disse lei emulando il tono allarmato con il quale, durante i sermoni, il reverendo Adam Morales metteva in guardia i fedeli dalla dannazione eterna. «Ehy!» la chiamò Sirio «faccio il poliziotto da poco tempo, è vero, ma è abbastanza per dirti che di matti ce ne sono parecchi in giro, perciò stai attenta a non diventare amica di squilibrati!» «Su questo sono d’accordo con Sirio» intervenne il signor Hill «il mondo è pieno di gente cattiva. Fare attenzione non fa mai male» si rivolse in particolar modo alla figlia «Non dico che non devi avere nessun contatto con queste persone e sinceramente la signora Bailey mi ha fatto un’ottima impressione, però… ecco, prima di aprire il tuo cuore alla gente dovresti imparare a capire chi veramente lo merita» «Sì, certo» rispose, sentendosi accusata di ingenuità, «il fatto è che a me non importa fare a tutti i costi la buona samaritana» rispose ai presenti «Anzi, ad essere sincera non me ne importa proprio niente...» il suo ateismo l’aveva spesso messa in cattiva luce nei confronti della comunità e della famiglia Morales, con la quale aveva un legame di parentela. «Il fatto è che credo fortemente che anche se spesso le persone ci feriscono o deludono, questo non ci dia il diritto di dubitare della loro buona fede» Sirio scosse la testa, non poteva credere a quello che sua sorella stava dicendo, lui era credente e tutte le domeniche andava in chiesa e onorava Dio meglio che poteva, ma alcune persone erano cattive e diffidare era il modo migliore per tutelarsi. «Dillo ai Gonzales, sai che loro figlio è stato coinvolto in un incidente stradale? Il tizio alla guida non gli ha nemmeno dato soccorso, lo ha lasciato lì a morire. Di’ loro che, tutto sommato, quell’uomo non è malvagio» «Chi ti dà la sicurezza che nell’errore ci sia perfidia, magari è scappato spaventato da quanto accaduto!» sbottò sicura di quanto stava dicendo, non riusciva a concepire il male come scelta di vita, bensì solo come attimo di debolezza. «O magari se ne è fregato» «Sì, ma il cristiano sei tu. Dov’è la tua capacità di perdonare?» «L’ho persa per strada!» le rispose a tono.


«Okay, basta!» intervenne Erika, «si sta facendo tardi e noi tutti abbiamo degli impegni per la giornata» «Lei controbatte solo per il gusto di dissentire» Sirio fissò la sorella con espressione adirata. «Non è vero, io credo in quello che dico» replicò desiderosa di ricevere lo stesso rispetto che era sua abitudine dare agli altri. «E’ impossibile che tu ci creda» incalzò nuovamente il fratello. «Il tuo dover sempre diffidare di tutto mi rattrista Sirio» «E a me preoccupa il tuo dover dare sempre corda a tutti» «Se ti stai riferendo al povero Marvin sapp…» «Sì, parlo proprio di quel vagabondo!» esclamò, ripensando all’arrivo in città dell’uomo e a tutto ciò che ne era derivato. «E se fosse stato uno squilibrato?» «Ma per favore, è una bravissima persona! Gli serviva solo qualcuno che credesse in lui e gli regalasse una seconda occasione, tutto qui» «Ma perché quel qualcuno devi essere sempre tu?» ribatté il giovane poliziotto. «Se tutti ragionassero come te, nessuno farebbe mai niente» «Time out!» Brian si misi tra i due. «Io credo in quello che dico» puntualizzò la ragazza. «Buon per te» le disse il padre «però fallo per me. Vuoi che il tuo vecchio dorma sogni tranquilli?» lei accennò un sì «Allora fa attenzione» le disse parlando in generale. Non era quel tipo di persone che giudicava a priori e in questo forse sua figlia aveva preso da lui, ma, a parte gli omicidi di cinquant’anni prima, Whitesouls era una cittadina abbastanza tranquilla, dove il peggior difetto delle persone era quello di essere di vedute molto ristrette. Il suo timore più grande era cosa sarebbe accaduto una volta che Cassandra si fosse affacciata sul mondo reale; Sirio era tornato a casa dopo nemmeno sei mesi di università, Alexander sembrava molto propenso a fare altrettanto e Atene, la più grande dei suoi figli, non ci aveva nemmeno provato ad affacciarsi alla vita vera. Si era sposata con Isaac Morales, fratello minore del reverendo, e viveva la sua ingenuità in un contesto di vita ovattato, dove il massimo del crimine era saltare una comunione di tanto in tanto. «Vedrò che gente è… e se la reputo okay, ci farò amicizia» concluse sperando di aver trovato una soluzione che facesse piacere a tutti. «Allora vado» Brian salutò moglie e figlia con un frettoloso bacio sulla guancia, si allentò un po’ la cravatta, che portava con estrema difficoltà e con Sirio accanto lasciò la cucina. «Cassandra, queste sono le cose che devi comprare per noi» Erika porse la lista della spesa alla figlia, «E queste sono le cose che devi comprare per tua sorella» «Devi!» sbottò lei «Dovere è un gran brutto verbo, mamma» le disse, lasciando la lista e i soldi sul tavolo della cucina «Comunque farò prima una doccia»


«Ma sì certo» non pretendeva che la giovane rinunciasse ai suoi passatempi per anteporvi le necessità della famiglia; ognuno doveva trovare il suo spazio senza soffocare gli altri. «Andiamo?» le chiese e Cassandra accennò un sì seguendo la madre, e si diresse fuori dalla casa. «Hai le chiavi?» le domandò la donna con fare premuroso. «Nella tasca dei pantaloni della tuta» le rispose percorrendo con la donna il giardino di famiglia. «Allora ciao» Erika salì sulla sua auto, parcheggiata nel vicolo al quale si accedeva uscendo dal cancelletto. Cassandra, invece, cominciò la corsa con una camminata a passo svelto: voleva riscaldare bene gli arti inferiori prima di fare tutto il giro della città. Salutò con la mano Constant Young che si godeva l’aria mattutina, seduto sotto il patio della villetta dove viveva con la famiglia. «Buona giornata» la salutò la signora Erin mentre usciva dalla porta d’ingresso secondaria. «Buona giornata a lei» «Vai a correre?» le chiese la donna. «Sì signora, come ogni week-end» le fece notare Cassandra che rimise la cuffia dell’ipod e proseguì per la sua strada. «Constant, ricordi quando anche tu andavi a correre» la donna fissò suo figlio. «Io ci andavo ogni mattina» le disse con tono da fare svogliato. «Ma certo, me lo ricordo» convenne notando l’espressione malinconia dipinta sul volto di Constant intento a fissare Cassandra proseguire per il vicolo. «Sai, il Signore opera in modi misteriosi» gli disse sperando che quelle parole lo confortassero. «Direi sadici!» sbottò lui con fare insofferente. Erin preferì non controbattere. «Vuoi rientrare?» Constant non rispose: con la forza delle braccia spinse le ruote della sedia, sulla quale sedeva da otto mesi per rientrare in casa e, sempre aiutandosi con gli arti superiori, si andò a sdraiare sul letto. Coprì con fare frenetico le gambe, gli faceva orrore vedere come i muscoli, atrofizzati dall’inattività, avevano perso così tanto tono da rendere la pelle flaccida. Profondamente rammaricato dalla consapevolezza che nulla di quello che poteva fare avrebbe cambiato la situazione, Constant accese la televisione nel tentativo di distrarsi un po’. * Cassandra Hill seguì, correndo, la strada che la condusse alla periferia della città e proseguì verso sud così da sfruttare la discesa per risparmiare energie.


Raggiunse i piedi della collina sulla quale numerose villette a schiera erano state abilmente costruite, poi proseguì verso il centro della città diviso in due dal fiume Torrent, facilmente attraversabile grazie a diversi ponti. Corse verso sud superando la biblioteca e il comune dove sua madre lavorava, davanti al quale si trovava il parco cittadino. Giunse alla scuola, dietro la quale vi erano alcuni campi di allenamento e la piscina comunale, spesso usata dalla squadra locale di nuoto e pallanuoto; poi svoltò a destra. Ansiosa per la grande fatica che l’aspettava - odiava correre in pendenza Cassandra si diresse verso l’incrocio ad ovest, conosciuto anche con il nome di “Incrocio della Morte”. Da lì avrebbe proseguito a nord verso la cima della ripida collina, sulla quale troneggiava la chiesa cittadina. Il reverendo Adam Morales, che viveva nell’umile casa a poche decine di metri dalla chiesa, era il fratello maggiore del suo adorato cognato, nonché padre della sua migliore amica, Aleesha Morales. La ragazza corse verso la chiesa che superò senza grosse difficoltà, il suo fisico era abituato. Si fermò davanti al cimitero e imitando ancora una volta il tipico gesto di vittoria di Rocky Balboa – fu quasi tentata di gridare il nome di Adriana – Cassandra si congratulò ancora una volta con sé stessa per aver sconfitto la fatica. «Non sai che la superbia è un peccato capitale?» le ricordò la signora Euphemia Morales intenta a sistemare alcuni fiori. Non le era piaciuto affatto il modo con il quale il signor Sullivan aveva svolto il suo lavoro quella settimana. «Essere fieri dei propri successi non è superbia» «Invece sì» incalzò la donna. «Invece no» replicò Cassandra. La signora Morales si irrigidì di colpo «Supponi di conoscere una religione, nella quale affermi di non credere, meglio di me che sono la moglie del reverendo? Non è forse superbia questa?» domandò con tono autoritario. «Io non volevo…» balbettò risentita. «Se tu fossi mia figlia ti inviterei caldamente a fare ammenda per il tuo peccato» Cassandra si trattenne dal gridarle in faccia che se fosse stata sua figlia l’avrebbe denunciata alle autorità competenti. «Mi dispiace signora Morales non era mia intenzione offendere lei o il suo credo» concluse reprimendo a stento il turbinio di emozioni che stava provando in quell’attimo. Dopo un timido cenno di saluto, si allontanò dalla donna che tornò a controllare i fiori. Persino sua sorella Atene considerava eccessivo il modo in cui Euphemia viveva la sua religione. Cassandra salutò la sua migliore amica intenta a stendere i panni di famiglia. «Ti ha sgridata?» le chiese. «Mi ha dato proprio una bella strigliata, sì» Aleesha le sorrise.


«Sei tutta rossa, vuoi bere?» «No anzi scappo, sono sudata e non vorrei ammalarmi. Tra l’altro ho anche delle commissioni da fare» «Va bene, allora ci vediamo domani» Dopo averla salutata Aleesha afferrò il cesto ormai vuoto e tornò in casa. Sua sorella Chasity di quattordici anni stava pulendo le stanze da letto, mentre Beatrix di dieci anni si occupava dei fratelli più piccoli. La giovane, facendo attenzione a non inciampare nella lunga gonna che indossava per imposizione di sua madre, si recò al secondo piano dove si trovava la lavanderia. Caricò nuovamente la lavatrice ed occupò il tempo d’attesa a rassettare le altre stanze; ogni sabato lei e sua sorella Chasity si occupavano di pulire a fondo la casa, lasciata a se stessa durante la settimana. Euphemia non era solo a capo del primo gruppo di preghiera che si radunava ogni mattina verso le nove e trenta – il secondo gruppo, che si radunava intorno alle diciotto, era gestito da sua sorella Frieda Turner – ma si occupava, aiutata da molti altri fedeli, anche di mantenere pulita la casa del Signore. Ogni giorno, dopo aver dato un’occhiata ai fiori che abbellivano l’esterno e l’interno della chiesa, andava a controllare le cassette delle offerte sempre stracolme di denaro. Una volta recuperato il contante, Euphemia lo chiudeva in cassaforte. Dopo aver salutato il marito, impegnato a preparare il sermone per la messa della domenica, si diresse verso la piccola stanza vicino all’altare dove ogni mattina si riuniva con alcuni dei compaesani per pregare. «Buona mattina a tutti voi» alzò la lunga gonna che indossava per salire i due gradini. «Euphemia per fortuna sei qui» le sorelle Kally si avvicinarono alla donna. «Hai saputo la novità?» le chiese Essence, la moglie del fornaio Bob. «Parlate dei nuovi arrivati?» la donna si tolse il giacchetto sotto il quale un banale maglioncino nero accollato copriva anche più del necessario, poi si diresse alle tante sedie disposte lungo una parete. «Sì. E non possiamo fare a meno di chiederci che gente debba essere se hanno deciso di vivere lì» incalzò Evie visibilmente preoccupata dall’accaduto. «Non credo che sia compito nostro giudicare l’operato dei nostri fratelli» le fece presente la donna, invitando gli altri a sedersi sulle sedie. «No certo, ma ci vuole davvero grande coraggio se…» Geila Nelson moglie del preside della scuola si zittì. Lei nel gruppo era la più anziana e, quando il fatto accadde cinquant’anni prima Geila era già nata, sebbene all’epoca fosse molto piccola. «Si diceva che Joshua non fosse solamente impazzito ma che fornicasse con il demonio» molti tra i presenti si fecero il segno della croce spaventati dalla rivelazione.


«Per nostra sfortuna non è la prima volta che ci imbattiamo in cose come questa…» un pensiero collettivo volò alla chiesa sconsacrata vicino alla fattoria dei Gomez «… ciò non deve in alcun modo spaventarci, Dio è con noi e finché vive nei nostri cuori il male non può nuocerci, siamo noi con i nostri dubbi che diamo il potere a Satana di invadere la nostra città» «AMEN» risposero in coro. «Scusate il disturbo» Babette Perry entrò timidamente nella stanza «Signora Morales, sono venuta a prendere la lista, rammenta?» «Vai in casa, tesoro e chiedila ad Aleesha: lei sa dov’è» «La ringrazio» «Che Dio ti benedica» «Grazie anche a voi» Babette uscì dalla stanza e percorse la chiesa con passo svelto, si fece il segno della croce come d’abitudine ed infine uscì dal tempio di Dio. Con le sue inseparabili ballerine, dati i suoi numerosi impegni, erano un toccasana per i suoi piedi raggiunse la casa dei Morales che, per volere del reverendo, era sempre aperta per accogliere i fedeli. «Aleesha, sono Babette» chiamò, ferma sull’ingresso. «Un attimo» le rispose l’altra. Era già stata avvertita da sua madre quella mattina, ma chiunque avesse frequentato la Whitesouls-school, sapeva che Babette Perry era diventata l’organizzatrice di qualsiasi evento. «Eccoti la lista, se qualcosa non ti è chiara basta chiamare mio padre» Aleesha le passò il foglio di carta piegato. «No, figurati è già il secondo anno che organizzo questa festa, ormai so come funziona» le disse Babette. «Certo!» le rispose; sebbene tra le due non ci fosse un vero legame d’amicizia, le giovani si conoscevano sin da piccole. «Allora buon lavoro e che Dio ti Benedica» «Grazie, anche a te» rispose distrattamente; la lista era più lunga dell’anno precedente e questo la infastidì molto: non le piaceva dover organizzare eventi. Aleesha si diresse nuovamente in cucina dove stava lavando alcune pentole rimaste dalla cena; si arrotolò nuovamente le maniche della maglietta e infilò le mani nell’acqua calda e sporca. Sua madre si ostinava a non voler comprare una lavastoviglie, convinta che quel progresso fosse solo un inganno del Diavolo studiato con lo scopo di far peccare di inerzia le donne che ripiegavano su di esso. Sbuffando pesantemente - almeno i panni non doveva lavarli a mano, secondo Euphemia quello non era peccato perché lavare i vestiti alla vecchia maniera non garantiva un certo risultato di pulito - Aleesha cominciò a rassettare la cucina desiderosa di finire presto quel noiosissimo compito.

2


Come ogni giorno Babette Perry, che qualche ora più tardi si sarebbe recata a casa del reverendo Morales per recuperare la lista, aveva aperto gli occhi con estrema pigrizia, desiderosa di rimanere tutto il giorno a letto. Si costrinse a tirare fuori un piede dal caldo piumino, dove sarebbe rimasta accoccolata, non solo per quel giorno ma forse per la sua intera esistenza. La ragazza spostò lo sguardo verso la piccola finestra oscurata dalle tende, dove la luce del sole stentava a filtrare, si stiracchiò nel letto e infine trovò la giusta motivazione per alzarsi. Si diresse alla scrivania, che a stento entrava nella stanza, e recuperò la vestaglia. Percorse lo stretto corridoio che la condusse nell’angolo cottura dove un divano, in contrasto con il resto della mobilia, adibiva parte della stanza a soggiorno. Faith Sanders, madre della giovane, l’accolse con un caloroso saluto per poi recarsi frettolosamente al lavoro. Babette con una tazza di caffè bollente nella mano si recò alla finestra della cucina, spostò la tendina color bianco sporco e osservò sua madre parlare con il signor Sullivan e con il figlio di quest’ultimo. Il giovane Nikosi Sullivan di qualche anno più grande di Babette lavorava spesso con il padre nei fine settimana. La scenetta portò alla mente della sedicenne una vecchia lite avuta con Aggie, la maggiore dei figli del signor Sullivan. «Padre Morales è una brava persona, si è preso cura di mia madre sin da quando è rimasta vedova» le aveva detto a tono, rammentando perfettamente i racconti che Faith le aveva fatto sulle difficoltà economiche che si era trovata a dover affrontare. «Se non fosse stato per il reverendo che ha dato a mia madre questo lavoro…» le aveva detto con foga «... chi sa che fine avremmo fatto!» concluse pensando che sebbene lavorare e tanto più vivere in un cimitero non fosse qualcosa che le piacesse, l’alternativa di dormire in mezzo ad una strada l’allettava ancora meno. Babette si diresse in bagno strascinando i piccoli piedi ereditati dalla nonna materna. Piccola e con lunghi capelli neri che la giovane lasciava sempre sciolti e dei tratti somatici tipicamente indiani, dopo essersi data una leggera rinfrescata si diresse in camera sua per vestirsi. Uscì di casa che sua madre ed i Sullivan non erano più in vista, si diresse ad una delle quattro uscite del cimitero e raggiunse la cima della collina dove si trovava la chiesa. Recuperata la lista da casa Morales, si incamminò verso la pianura e, superate le tante villette a schiera, raggiunse il centro della città. Era sicura di poter coinvolgere i cittadini nella raccolta fondi. Come richiesto nella lista, si diresse alla pizzeria di Tony. Entrò nel negozio che di mattina vendeva pane fresco. Bob, il marito di Essence Kally lavorava lì da più di trent’anni ed aveva appreso l’arte di cucinare con il forno a legna da suo padre, che aveva lavorato in quel posto prima di lui.


Il locale, preso d’assalto dalle tante casalinghe impegnate negli acquisti di prima necessità, era anche traboccante di ragazzini che, smaniosi, aspettavano il loro turno per comprarsi un bel pezzo di pizza calda da mangiare al parco cittadino. La giovane ignorando la fila cercò con lo sguardo Tony che, essendo il proprietario, si assicurava che tutti i suoi clienti fossero soddisfatti del servizio. Babette entrò nel negozio, non le fu difficile individuare il proprietario nella folla. «So perché sei qui, ma non posso, mi dispiace!» gli sentì dire. Antonio detto Tony, stava spingendo un ragazzo verso l’ingresso del locale, «Veramente... mi dispiace, ma tuo fratello si è raccomandato» parlò rivolgendosi al ragazzo accanto a lui. Tony rammentava le parole con cui Norman Myers lo aveva supplicato di non vendere più panini e pizza a suo fratello Nolan, a dieta ferrea da una settimana. Le analisi avevano rilevato grandi quantità di zucchero e grassi nel sangue, motivo per il quale suo fratello maggiore, che era anche il suo tutore – entrambi i genitori dei ragazzi erano morti per complicazioni dipese proprio dall’obesità – aveva deciso di regolare l’alimentazione del giovane Nolan. «Vedi, io posso anche impedirgli di mangiare dolci» Norman aveva spiegato ad Antonio, riferendosi al fatto che era lui a gestire l’alimentari cittadino «ma se tu gli vendi pizza e panini…!» «Ma certo» gli affari dell’uomo andavano così bene che perdere per qualche periodo un cliente non sarebbe stato un grosso problema. «Ciao Nolan» lo salutò Babette che lo aveva facilmente riconosciuto. Sebbene con i suoi sedici anni compiuti da poco la giovane frequentasse corsi diversi da quelli del ragazzo, la stazza di Nolan e i continui scherzi che i Perez gli facevano lo avevano reso il nerd più popolare della scuola. «Ciao» la salutò l’altro rosso in volto per l’imbarazzo innescato dal modo accusatorio con cui i presenti lo stavano fissando. «Mi dispiace» gli disse Tony; in realtà non gli interessava poi molto se il ragazzo voleva mangiare fino a scoppiare, ma cosa avrebbe detto la comunità di lui, se lo avessero sorpreso a vendergli del cibo? Il giovane accennò un sì mortificato per l’accaduto e uscì dal locale lasciandosi alle spalle il mormorio dei numerosi avventori, che lo stavano già dipingendo come un giovane pigro e ingordo. «Allora, fammi indovinare, sei qui per la raccolta fondi che ci sarà a primavera?» chiese, rivolgendosi alla ragazza. «Ovviamente» rispose Babette recandosi nell’ufficio di Antonio Miglionico il quale, se pur cresciuto in America, discendeva da una lunga stirpe di italiani. * Cassandra, dopo aver salutato la sua amica Aleesha, si diresse a casa e mise in carica la batteria dell’ipod che intendeva usare per la corsa del giorno seguente. Non era più sua abitudine andare a messa la domenica mattina, motivo per cui i Morales l’accoglievano in casa loro con sorrisi tirati sulle labbra.


Nuda, si diresse al bagno dove intendeva lavarsi. Pensare alla freddezza con cui sarebbe stata accolta da Euphemia le fece rimpiangere di avere accettato l’invito. Insaponò i capelli rosso-rame e si diede una sciacquata al viso bianco, caratterizzato da un piccolo naso all’insù tipico di tutta la sua famiglia. Con gli occhi di due tonalità diverse - il sinistro celeste e l’altro viola - e una fronte importante, Cassandra era considerata di bell’aspetto da molti dei ragazzi che frequentavano l’unico istituto scolastico di Whitesouls. Si tamponò i lunghi capelli che iniziò subito ad asciugare con il phon, pensando alla sua amica e a quello che Aleesha aveva avuto il coraggio di confidarle qualche giorno prima. «Ti ha descritto come un’adoratrice del diavolo» le aveva detto Aleesha rammaricata per l’accaduto. «Sì, dille che ci faccio l’amore ad ogni luna piena!» le aveva risposto sarcasticamente. Aleesha rimasta sconvolta dalle parole dell’altra si era fatta subito il segno della croce. «Smettila, dai, sai che ho paura di queste cose» le rammentò. «Sei troppo condizionata, il che è abbastanza ovvio, visto come vivi» le aveva detto Cassandra; le metteva sempre tristezza vedere con che indumenti scialbi l’amica andava in giro e i suoi continui tentativi di nascondere la sua femminilità. «Cosa direbbe tua madre se scoprisse che non sono più vergine?» le aveva chiesto quel giovedì pomeriggio appena trascorso. «Che finirai all’inferno dove le donne promiscue come te meritano di stare» Cassandra scoppiò in una sonora risata che aveva lasciato l’altra di stucco. «Non scherzare» Aleesha l’aveva rimproverata «non bisogna mai abbandonarsi ai piaceri della carne» «Mai, mai?» le aveva chiesto tanto per giocare un po’. Lei aveva avuto un solo ragazzo in vita sua e, per come la loro relazione si era bruscamente interrotta mesi prima, non aveva avuto più voglia di frequentare qualcuno. «NO!» «Vuoi dirmi che in vita tua non hai mai pensato: Quanto mi piace quel ragazzo… quasi... quasi...» «No! Dio è con me, è lui che mi protegge dalle tentazioni» aveva affermato Aleesha con tono deciso. «Vuoi dire che non ti sei mai, nemmeno una volta, toccata pensando a qualcuno che ti piacesse?» «Non mi piaci quando parli in modo scurrile» le aveva risposto Aleesha con il volto paonazzo per la vergogna. «Veramente era solo una domanda» si era giustificata Cassandra. Sapeva che la mentalità di Aleesha era molto ristretta, ma non poteva fare a meno di meravigliarsene ogni volta.


«E poi, scusa, sentirsi attratte dai ragazzi è normale, non puoi farmi credere che non ti sia mai successo» «Questo sì» ammise. Al suono di quella rivelazione Cassandra le si era avvicinata con fare indagatore. «Ho l’impressione che il discorso si stia facendo interessante» «Niente affatto» aveva ribattuto Aleesha “Ho i miei metodi per farmi passare certi desideri terreni” «Ti butti nelle spine?» chiese ridendo; l’espressione seria che era comparsa improvvisamente sul volto di Aleesha Morales l’aveva esortata a tornare seria di colpo. «Non ti farai realmente del male?» le aveva chiesto allarmata, rammentando le tante voci che giravano in città. Cassandra usò l’asciugamano per togliere il vapore che aveva appannato il vetro; sarebbe voluta correre da Euphemia e dirle che era una persona molto disturbata e che non doveva coinvolgere sua figlia in pratiche autolesionistiche per espiare i propri peccati. Le avrebbe voluto fare presente che Aleesha era una brava ragazza, era buona e diligente e che non meritava di vivere in un contesto così primitivo e barbaro. Le aveva detto che non doveva farsi del male, che certi istinti erano naturali e se proprio non desiderava assecondarli doveva comunque trovare un’alternativa non autodistruttiva. Ma Aleesha era così ferma sulle sue posizioni che alla fine Cassandra dovette, se pur a malincuore, rinunciare all’idea di persuaderla a non continuare con quelle pratiche dolorose. Si vestì con jeans e maglietta, infilò una giacchetta leggera e, con la lista della spesa in mano, si diresse al centro della città. Rispettava la religione dei cittadini ma spesso dubitava che la conoscessero veramente. Sapeva, da storie raccontate per lo più per spaventare, che cento anni prima nella vecchia chiesa ormai sconsacrata, che si trovava vicino alla fattoria dei Gomez, erano stati praticati rituali satanici e che diverse vergini erano state uccise e infine mangiate dal reverendo di allora che adorava segretamente il Diavolo. La vicenda, una volta venuta alla luce, aveva così sconvolto gli animi dei pochi abitanti dell’epoca da portarli a ricercare con più dedizione Dio. Quello che era accaduto alla tenuta dei Wood, cinquant’anni dopo, non aveva fatto altro che portarli ad adorarlo con così tanto accanimento da essere entrati in un vortice di fanatismo religioso misto a ipocrisia. Cassandra si fermò in diversi negozi e comprò quanto riportato nelle due liste della spesa. Lei di religione sapeva poco o niente. Quello che aveva imparato le era bastato per capire che non poteva esserci un Dio fatto d’amore nella violenza. Sicura di dover fare qualcosa ma anche dubbiosa su come intervenire per aiutare la sua amica, passò davanti alla pizzeria di Tony.


Schivò la porta che si stava aprendo in quell’attimo, Babette indaffarata e con aria afflitta per i troppi impegni, uscì dalla pizzeria, salutò Cassandra con un gesto del capo e se ne andò in fretta. La ragazza, ripose al gesto e proseguì il suo cammino. Giunta dinanzi un piccolo incrocio Cassandra imboccò la strada di sinistra con l’intenzione di raggiungere il macellaio. Felice di aver incontrato una faccia amica, alzò una mano per attirare l’attenzione dell’altro. «Nolan, ciao!» lo salutò a voce sostenuta «Ciao!» rispose lui dirigendosi a passo svelto dalla giovane. «Che fai di bello?» domando appena si scambiarono un bacio sulla guancia. «Niente di che» rispose lui rimanendo sul vago. In verità si vergognava di dirle che stava disperatamente tentando di convincere qualche passante a comprargli da mangiare. «E tu che fai?» Cassandra mostrò le buste. «Sono appena stata da tuo fratello» gli fece presente, e il nome dell’alimentari riportato sui sacchetti ne era la prova. «Devo ancora fare un salto dal macellaio, e poi vado da mia sorella. Vuoi farmi compagnia?» Nolan accettò, incamminandosi insieme alla ragazza in direzione della macelleria che distava una decina di metri da loro. «Hai una mattinata impegnata» le disse tanto per evitare che tra i due calasse un imbarazzante silenzio. «Fa nulla, anzi ben venga. La tanta fatica mi fa godere meglio il meritato riposo. E tu che fai da queste parti?» «Tentavo di compare un pezzo di pizza da Tony» ammise dopo un attimo di esitazione, per quanto cercasse di tenere per sé i suoi fatti personali, non poteva fare a meno di confidarsi con Cassandra per la quale nutriva una forte stima e non solo… «Nolan, la tua assenza di spirito di sopravvivenza mi lascia esterrefatta» affermò, entrando in macelleria. «Ma io ci tengo alla mia salute è solo che mangiare… e la pizza poi...» arrossì mortificato per la sua mancanza di autocontrollo. «Birbone» si finse adirata; in verità era solo dispiaciuta per la dipendenza che l’altro aveva nei confronti del cibo. «Lo so, il reverendo non fa che dirmi che sono un peccatore e che la mia gola finirà con il mandarmi all’inferno» le disse rammentando con sgomento le parole dell’uomo. «Mi dia: tre etti di vitello, e un etto di prosciutto. Può fare due conti separati? Grazie» disse rivolta ad uno dei quattro commessi che servivano rapidamente i clienti. «Non so che dirti. Però, fammi un favore se dovesse consigliarti di picchiarti per respingere il desiderio del cibo, non lo ascoltare» si raccomandò pensando ad Aleesha.


Una parte di lei avrebbe voluto chiedere aiuto agli amici in comune, ma questo voleva dire raccontare il segreto della ragazza e Cassandra non aveva alcun desiderio di tradire la fiducia dell’altra. «Ma!» sbottò il commesso sorpreso «il reverendo non direbbe mai una cosa del genere» le fece presente infastidito dalle accuse sollevate dalla giovane; Cassandra si limitò ad ignorarlo. «Sai secondo me non dovresti tanto preoccuparti di dove andrai dopo morto…» proseguì la conversazione con Nolan, ripensando al modo poco carino con cui il reverendo lo aveva già condannato agli inferi, come se dipendesse da lui stabilire quale anima doveva salvarsi e quale no «…ma più che altro di andarci il più tardi possibile» gli disse dandogli qualche buffetto sulla pancia prominente. L’altro fece un cenno di assenso, anche se gli costava molta fatica controllare la voglia di mangiare tutto quello che, a suo dire, era gustoso. «Comunque, seriamente, fallo per tuo fratello. Pensa a come si sentirebbe se ti perdesse. Non vuoi che lui soffra» Nolan scosse il capo «Allora pensa a lui quando ti sentirai tentato di mangiare schifezze» gli consigliò uscendo con lui dal negozio. «Hai ragione, grazie» «Fammi sapere se funziona» gli disse dirigendosi al ponte costruito solo per il passaggio pedonale. «Puoi contarci» le andò dietro felice di poter stare in sua compagnia. Aveva una cotta segreta per Cassandra da diversi anni, ma sapeva che non avrebbe mai avuto il coraggio di confessargliela. «Ehi, ora che ci penso, hai sentito? C’è una nuova famiglia in città» le chiese, tanto per cambiare discorso. «Sì, lo so, mio padre ha detto che il contratto di vendita è stato firmato ieri nel suo studio» «Quindi li ha conosciuti?» «Sì, ha detto che la signora Bailey è una donna molto affascinante» gli raccontò, felice di parlare di qualcosa che non prevedesse la dannazione eterna «…ha detto che dovrebbe avere dei figli, ma non so se hanno la nostra età o no… magari servirà loro una babysitter» si chiese, pensando che poteva proporsi. Avere un lavoretto nel week end non le sarebbe dispiaciuto, non che necessitasse di soldi, ma tenersi impegnata facendo qualcosa di utile la divertiva sempre molto. «E che altro ti ha detto?» chiese con fare curioso. «Niente di che, a parte che sembra una donna importante. Forse in carriera, anche se non capisco perché una persona di successo dovrebbe trasferirsi qui. Magari scappa da un marito violento» Cassandra guardò l’altro «Speriamo di no» concluse, scartando subito quella triste ipotesi. «Quindi è sposata?» chiese Nolan «Non è detto» l’altro la guardò perplesso «Potrebbe anche essere separata» egli sgranò gli occhi «Che hai?»


«Il divorzio è peccato!» le fece presente il ragazzo «Respirare è peccato?» chiese temendo una risposta affermativa. «Che domanda, lo sai che non lo è» «Chi può dirlo!» esclamò Cassandra «Per padre Morales tutto è peccato, il fatto stesso di essere al mondo vi rende peccatori» gli disse avvicinandosi al palazzo dove viveva sua sorella, di fronte all’entrata principale del parco cittadino. «Sono arrivata» annunciò fermandosi davanti alla bassa palazzina. «Ti ho annoiata, vero?» chiese Nolan. «No» gli diede un bacio sulla guancia «La compagnia della gente non mi annoia mai» gli ripose salendo qualche gradino. «Meglio così, allora buona giornata e che Dio ti benedica» «Di più a te» rispose come era sua abitudine fare. Nolan salutò l’amica che, con le mani piene di buste, dopo aver suonato il citofono di Atene, entrò a fatica nel portone. Il ragazzo rimase un attimo a sognare di lui e Cassandra prima di decidersi a tornare a casa. Con la mente piena di pensieri, andò al ponte per passare il fiume che in quel periodo dell’anno era in secca; si era preso una cotta per la ragazza più o meno in concomitanza con Robert Sharman il quale, a sua differenza, era riuscito a fare breccia nel cuore di Cassandra. Sebbene una parte di lui aveva, soprattutto nei primi tempi, accusato molto la rivalità con l’altro, non era mai riuscito a considerarlo un vero nemico in amore. Il suono delle ruote di un’auto che inchiodano bruscamente strappò Nolan dal suo sogno ad occhi aperti, il ragazzo spostatosi goffamente nel tentativo di non essere investito incrociò per un attimo lo sguardo pieno di collera di Samuel Ortiz capitano della squadra di pallanuoto di Whitesouls. «Che cazzo, palla di merda guarda dove vai!» urlò Sam senza smettere di suonare il clacson. «Cacchio Sam!» replicò la fidanzata seduta al posto di fianco «datti una calmata!» Coline Cooper salutò con fare indifferente Nolan che, dopo essersi tolto dalla strada, chiese loro scusa. «Pensa se qualcuno che conosci ti sentisse» «Non me ne importa niente!» sbottò Sam che riprese a guidare. «A me importa, non voglio che la gente pensi: oh guarda la povera Coline, vittima del cattivo carattere del suo fidanzato dai modi spesso violenti» disse «Te lo immagini? Ci farei la figura della stupida, della sottomessa e non è questa la verità!» «Sei capace di stare cinque minuti senza rompermi i coglioni?» urlò il ragazzo a sua volta; tentando di fare appello agli insegnamenti della psicologa e dello zio, il signor Adam Morales, per tenere sotto controllo l’ira che già in passato lo aveva messo nei guai. Coline preferì lasciar correre, lei era la prima a chiedersi che cosa ci facesse con un perfetto idiota come Samuel Ortiz. Con la sua intelligenza, con la sua bellezza e


classe, sapeva di poter avere qualsiasi ragazzo della città e forse del mondo intero, ma alla fine si era accontentata di un semplice capitano della squadra di pallanuoto. Diede una sistemata al vestitino, ci teneva ad essere sempre impeccabile ma senza eccedere: mantenere un certo decoro era d’obbligo a Whitesouls se non si voleva finire nella lista nera della città. Spesso impegnata nel volontariato all’ospedale e tra gli anziani, la ragazza, con un quoziente intellettivo degno di nota era riuscita a diventare un esempio per le sue compagne di scuola e un vero modello per molti altri. Diede un’occhiata di sbieco al fidanzato impegnato nella guida, «Ti va di fare l’amore?» gli chiese avvicinandosi a lui con fare provocante. Samuel la guardò dubbioso. Una parte di lui lo voleva intensamente: Coline con le sue lunghe gambe accentuate da tacchi vertiginosi, sui quali sapeva camminare con estrema sensualità, era il sogno erotico di ogni ragazzo della scuola. La madre di Sam era la signora Frieda Turner, sorella di Euphemia e questo lo aveva sempre messo nella condizione di non riuscire mai a confessarsi apertamente, soprattutto dopo quello che era accaduto con i Sullivan. «Domani c’è messa» le rammentò. «Meglio. Avrò un pretesto per farmi assolvere dai miei peccati» «Come!” sbottò “Non dirai a mio zio che noi…?» «No, lo so che non vuoi che glielo dica, stavo scherzando» disse rinunciando all’idea. «Ma scusa, il prete non è vincolato dal segreto della confessione?» «Sì, però quando gli ho detto che ero stato io ad aver mandato all’ospedale Nikosi Sullivan è corso a dirlo a tutti» «Ma non dovrebbe essere scomunicato per questo?» domandò lei trovando l’atteggiamento che aveva avuto padre Morales molto scorretto. «Lui mi ha detto che, come prete, era vincolato al silenzio ma in quanto zio si sentiva moralmente obbligato ad intervenire» Coline annuì. Non le era mai piaciuta la famiglia Morales, le avevano sempre dato l’impressione di essere persone false e ipocrite. «Ma con quale faccia dice ancora la messa!» sbottò indignata. «Che vuoi dire?» le chiese continuando a girare nelle strade della città senza una vera destinazione. «Dai Sam… si scopa Faith, fa i favoritismi, sfrutta le confessioni a proprio vantaggio, ha una moglie che incita i figli a ricorrere all’autolesionismo per placare i loro istinti, impedisce al nuovo prete di fare il prete. Ma ti sembra bella gente? Capisco che sono tuoi parenti però… dai…» «Almeno mia zia e mia madre non sono due lesbiche!» sbottò lui «Ma vai a fare in culo!» esplose comprendendo bene a cosa l’altro si riferisse; tante volte in città si era insinuato che la madre di Coline adorasse il sesso saffico. «Bel modo di fare!» sbottò Sam «Tu puoi distruggere la mia famiglia ma io non devo toccare la tua» le disse, infastidito dall’atteggiamento di Coline.


«Io mi baso su cose vere, tu su stupide voci» «Anche quello che dici tu sono solo voci» ribatté furioso. «Col cazzo, Sam! Che le tue cugine si danno un sacco di botte lo sanno tutti! Loro lo negano, ma si sa. Soprattutto la più grande, ad Aleesha non le ci vorrebbe una frusta ma un bel pene da 38 centimetri vedi come le passerebbero certi bollori… ma l’hai vista, sbava dietro ad ogni ragazzo e guarda tutti con quell’aria che sembra voler dire: che aspetti a sbattermelo dentro!» Sam svoltò a destra con l’intenzione di raggiungere le villette a schiera dove sapeva esserci, oltre alla sua casa, anche quella dei Cooper. «Santo Dio, ma perché devi incazzarti in questo modo» replicò lei, intuendo il motivo per cui il fidanzato aveva imboccato quella via. «Non sono arrabbiato» «No, figurati! Con te non si può parlare» «Tu non parli, tu sparli! Io non ho mai visto le mie cugine picchiarsi, né mi risulta che tu o altri abbiate mai visto Faith e padre Morales avere rapporti sessuali, o sbaglio?» «No, ma lo sanno tutti che se Babette se la comanda è perché in realtà li ha visti» «Falla finita, Coline!» esclamò colpendo con forza il volante dell’auto «perché devi dare credito a queste cazzate!» «Ma fai sul serio?» gli chiese vedendo quanto era arrabbiato. Il giovane fermò l’auto davanti la casa della fidanzata. «Sei arrivata» la invitò a scendere con fare scortese. «Sai che c’è? Fottiti!» Coline uscì dalla vettura e senza perdere tempo raggiunse il basso cancelletto davanti a lei. Entrò nella proprietà e si diresse alla porta della villetta bifamiliare nella quale la famiglia Perez dettava legge. Superò i tre fratelli di diciassette, sedici e quindici anni, che si impossessavano spesso del lato del giardino che in realtà era di proprietà dei Cooper, e si diresse all’ingresso della sua casa. Zed, il più grande dei tre, non perse tempo e le lanciò un bacio, importunarla era uno dei suoi passatempi preferiti. I Perez avevano la curiosa abitudine di considerare un hobby recare danno alle altre persone, motivo per cui nessuno della famiglia era ben visto. I ragazzi avevano un unico amico al quale non sembrava importare della loro cattiva reputazione: Il giocatore della squadra di Baseball, Bill Fish. Era cresciuto insieme a loro e nonostante la popolarità ottenuta, dopo aver sostituito Constant Young nel ruolo di lanciatore, aveva continuato a mantenere i rapporti di amicizia ben saldi con i Perez. «Bacia il culo di Reed» rispose la giovane un attimo prima di entrare in casa; la provocazione fece ridere i due fratelli minori che furono zittiti dallo sguardo severo del maggiore. «Andiamo da nonna» disse loro, sperando di scroccare un pranzo.


Entrambi i genitori dei ragazzi lavoravano nella tavola calda di proprietà del signor Benny Young, padre di Constant. I tre uscirono dal giardino, attraversarono la stradina e usando il cancelletto sempre aperto entrarono nella casa di Tara e Andrew Bell, cugino di Victor Bell Senior. «Nonna, ci sei? Nonna?» «Venite pure» rispose loro la donna intuendo per quale motivo i nipoti fossero lì. I ragazzi si diressero alla sala da pranzo, dove il tavolo era in parte apparecchiato. Zed, invece, si diresse al piano superiore dove, chiuso nel bagno, si trovava Andrew intento a prepararsi. «Dai, Nonno sbrigati. Mi sto pisciando nei calzoni» gli disse invitandolo a non indugiare troppo a lungo. «Un attimo» ribatté l’anziano pensando che sua figlia avrebbe dovuto occuparsi di più dell’educazione dei suoi ragazzi. Zed fece per replicare ma un’idea, sopraggiunta come un fulmine a ciel sereno, lo portò a credere che poteva sfruttare quella situazione a suo vantaggio. Entrò nella camera lì vicino ed andò a frugare nel cassetto della nonna, dove già in passato lui e i suoi fratelli avevano trovato del contante. Fregare dei soldi da solo voleva dire non doverli dividere con gli altri due e questo pensiero gli piacque molto; Zed aprì lentamente il cassetto e disgustato infilò le mani sotto la biancheria della nonna, poi afferrò la cassetta di latta nella quale i Bell tenevano il contante. L’aprì e trattenendosi dal fischiare per la sorpresa, intascò i centocinquanta dollari che vi trovò dentro. «Merda!» pensò sentendo lo sciacquone. Ripose la scatola e richiuse il cassettone, superò l’uscio della stanza nell’attimo in cui la serratura del bagno scattava. «Ecco fatto» l’uomo accennò un sorriso al nipote giunto in corridoio prima che la porta si aprisse. «Grazie» rispose entrando nel bagno con ancora i battiti cardiaci irregolari; Zed chiuse la porta a chiave ed estrasse il contante dalla tasca dove lo aveva frettolosamente nascosto. Non poteva credere di avere ben centocinquanta dollari tutti per sé: a causa della pensione misera del nonno non erano mai riusciti a rubare più di cinquanta dollari che divisi per tre diventavano veramente una miseria. Mise il contante nel portafoglio e si avvicinò al water per urinare, pensando a come avrebbe potuto spendere quei soldi senza far insospettire i fratelli.

3 Dopo essere tornata dalla sua stanza, nella quale con gioia si era tolta le scarpe col tacco, Coline ciabattando per il corridoio si diresse in cucina, dove sua madre stava preparando il pranzo.


La signora Cecilia Jenkins era membro attivo del gruppo di preghiera; sposatasi in tarda età con il signor Trevor Cooper, per mettere a tacere le voci su una sua presunta inclinazione lesbica, aveva avuto un'unica figlia alla quale non aveva mai negato nulla. La giovane andò a sedere a tavola dove suo padre, ormai in pensione, aspettava trepidante di mangiare. «Coline, ho saputo che anche quest’anno si farà la festa per la raccolta fondi da destinare ai poveri» «Che bello!» esclamò con poco entusiasmo. «Non fare così» la donna la esortò ad avere più spirito cristiano. «Piuttosto so che anche stavolta sarà organizzata da Babette Perry, vero?» l’uomo, con lo stomaco brontolante, s’intromise nella conversazione, tanto per avere la mente occupata da qualcosa che non gli rammentasse la fame che stava fastidiosamente provando. «Sì, ma quella crede di poter fare tutto da sola, invece non ne è capace. Ricordate le feste organizzate da me? Quelle sì che erano super, modestamente parlando!» si complimentò per i suoi successi «Ma poi Babette ha cominciato a mettersi in mezzo e il reverendo ha spinto perché le venissero dati questi incarichi…» ripensò alle voci su di una possibile relazione tra Morales e Faith, la madre di Babette «…lui ha giustificato il tutto dicendo che la giovane stava soffrendo di depressione e che impegnarsi in qualche cosa le avrebbe salvato l’anima» «Se lo ha detto il reverendo deve essere vero» convenne Cecilia impegnata a ultimare il pranzo. «Sicuramente!» disse sarcasticamente la figlia certa che il reverendo avesse mentito solo per dare dei vantaggi a Babette, ma per evitare sciocche liti familiari preferì tenere per sé le sue congetture. Coline afferrò il piatto caldo che sua madre le stava porgendo, dopo aver servito il capo famiglia. «Oggi chi deve dire la preghiera?» domandò Cecilia dopo essersi seduta a tavola a sua volta. «Credo sia il turno di papà, ma lo faccio io» preferiva i suoi metodi che a differenza di quelli dei genitori erano più sbrigativi e diretti, i due invece le sembravano sempre sul punto di dire messa. «Amen» dissero i tre in coro concludendo la preghiera come si faceva in quasi tutte le case di Whitesouls. «Allora tesoro, dimmi, quando ci sarà la gara di scienze?» domandò Trevor. «Quest’altro mese» rispose Coline, subito dopo aver deglutito. «Sai già che progetto portare?» chiese fiero della capacità che la figlia aveva di vincere sempre in qualunque competizione si cimentasse. «Ho un paio di idee, poi vedremo…» concluse infastidita dalla conversazione. «Come... poi vedremo?»


«Non so nemmeno se quest’anno potrò partecipare» disse in quello che apparve più un sussurro che una vera confessione. “Che vai dicendo? Tu sei la migliore. Perché non dovresti farcela questa volta?» Coline scosse le spalle come se neanche lei conoscesse la risposta. «Sei troppo modesta» le disse la madre. «E’ vero» convenne con un falso sorriso. Trevor bevve un sorso d’acqua «Ora che ci penso, avete saputo della tenuta Wood?» domandò ai presenti. Cecilia, interessata alla conversazione, riportò quanto aveva sentito dire dalle sue amiche parrocchiane quella mattina in chiesa, mentre sua figlia, felice che il discorso su di lei si fosse concluso, continuò a mangiare con fare pensoso. Da quando Flo Gomez era arrivata alla scuola superiore per Coline continuare ad essere la numero uno era diventato sempre più difficile. Fu colta da un attacco di collera quando le tornarono in mente le parole della sua insegnante di scienze, la signorina Garnette Long. La donna le aveva fatto presente che quell’anno anche Flo Gomez aveva fatto richiesta per partecipare al concorso di scienze della contea. «È inaccettabile!» aveva urlato stizzita Coline, incoraggiata dalle amiche che, come lei si trovavano impegnate nel cambio di classe in quel mercoledì appena trascorso «vi ho preso sempre parte solamente io» Il concorso della contea prevedeva che ogni scuola superiore selezionasse un ragazzo o una ragazza: il prescelto aveva il diritto di scegliere un gruppo di studenti con i quali realizzare e presentare il progetto. «Sono tre anni che frequento questa scuola e ho sempre partecipato io!» incalzò. Conosceva già i nomi di coloro che, per la terza volta, l’avrebbero aiutata a vincere la sfida. «Me ne rendo conto, ma questo è accaduto solo perché oltre a te nessuno si era mai proposto» le aveva spiegato, trovando l’atteggiamento della ragazza troppo infantile «… quest’anno però Flo Gomez si è iscritta e come tutti merita una possibilità!» «Quella è una stupida troia!» le avrebbe volentieri urlato in faccia ma riacquistando il controllo di sé, Coline con un sorriso disse: «Che si può fare per risolvere questo spiacevole inconveniente?» «Venerdì porterete entrambe un progetto che sarà valutato da me: la ragazza che otterrà il voto più alto sarà quella che avrà accesso al concorso» «Coline… hai finito? Coline…» la ragazza si voltò verso la madre. «Sì mamma» rispose con fare preoccupato; quando venerdì aveva consegnato il suo progetto, aveva dato una sbirciata a quello realizzato da Flo Gomez e per un momento aveva temuto che fosse migliore del suo. «Sembri pensierosa?» «No è che…. Stavo pensando al compito di lunedì» mentì.


«Ma che sciocchezza, sei sempre la migliore della scuola. Perciò non ti impensierire» «Infatti, non ti affliggere, non ne hai motivo» le disse il padre «invece noi stavamo parlando della famiglia che si è trasferita da poco» «Ah sì!» afferrò il piatto con la bistecca e purè. Alle 15:00 doveva recarsi a scuola per sapere dalla segretaria chi, tra lei e la Gomez, avesse vinto la competizione e poi, dopo una visita breve al centro anziani che le era di strada, si sarebbe recata all’ospedale cittadino, dove ogni sabato pomeriggio faceva del volontariato. «Li ho visti ieri mentre uscivano dall’ufficio di Hill» «Come ti sono sembrati?» chiese Cecilia preoccupata «Si dice che vengano da una grande città» «Sicuramente! Hanno il tipico accento di Boston e non mi hanno fatto una brutta impressione, tutt’altro» «Se le cose stanno così perché non chiedi loro se hanno bisogno di aiuto? Sarebbe un atto cristiano» suggerì la donna a Coline che prestava ben poca attenzione alla conversazione dei suoi genitori. «Non credo sia opportuno» intervenne il padre. «E perché mai?» «La donna era in compagnia di tre bei giovanotti, sicuramente i suoi figli, uno avrà circa diciotto anni e gli altri due sedici al massimo, tre giganti, soprattutto il più grande» era rimasto molto colpito dall’aspetto dei ragazzi, non che la signora Bailey passasse inosservata, ma quel piccolo dettaglio il signor Cooper preferì tenerlo per sé. «Comunque non voglio che Coline vada a casa loro per svolgere delle mansioni, questo potrebbe portare le persone a sparlare» «Che Dio ce ne scampi» intervenne la donna che ben sapeva quanto tutto ciò potesse essere gravemente pesante da sostenere. «E poi non vorrei che Sam si arrabbiasse» concluse l’uomo ripensando al caratteraccio di Samuel Ortiz; non gli piaceva molto che la figlia si frequentasse con un giovanotto tanto violento. «Sam è innocuo» la ragazza afferrò il proprio piatto sotto lo sguardo perplesso del padre il quale, in quanto amico di famiglia, era andato a trovare Nikosi Sullivan all’ospedale. Al giovane, al quale nessuno aveva dato ragione – credere che fosse stato il nipote del reverendo a picchiarlo così selvaggiamente era impossibile per chiunque – non gli era mai stato chiesto scusa per essere stato considerato un bugiardo. «Non vi dispiace se vado in camera mia, vero?» chiese desiderosa di rinchiudersi in un ambiente dove poteva dare sfogo a tutte le sue preoccupazioni senza incappare in occhi indiscreti. I genitori assentirono con un cenno che Coline colse al volo. Si recò in camera sua, aprì la cabina armadio per scegliere abiti più consoni agli impegni che avrebbe


avuto da lì a qualche ora mentre l’ansia incominciò a prendere il posto della ragione. Non era la prima volta che perdeva contro Flo, e questo la rendeva dubbiosa sulle sue possibilità di riuscita. Un turbinio di emozioni contrastanti la invase di colpo: parte di lei aveva timore di quello che la gente di Whitesouls avrebbe detto se non si fosse dimostrata la migliore. Sarebbero cominciate a circolare delle voci, la gente sparlando avrebbe detto che Coline Cooper non era così intelligente come appariva e che i meriti ottenuti erano dipesi dalla mediocrità dei suoi avversari. In una città come Whitesouls, dove non conta ciò che sei ma solo quello che sembri, diventare seconda a qualcuno poteva trasformarsi in un incubo senza eguali e Coline questo lo sapeva bene. La giovane scosse la testa incapace di accettare l’idea di diventare la numero due. Lei era nata per vincere e, se qualcuno le soffiava il trofeo da sotto il naso, poteva voler dire solo una cosa: quel qualcuno aveva dovuto ricorrere all’imbroglio per aggiudicarsi la vittoria. * Dopo aver passato tutta la mattina nel suo letto, controllato a vista da un parente, Constant Young mangiò quello che gli fu portato dalla madre Erin che, dopo aver staccato dal lavoro – era la comproprietaria nella lavanderia di famiglia – si era diretta alla tavola calda del marito dove aveva preso il pranzo per sé e per il figlio. «Lasagne!» aveva detto appena rincasata, nella speranza di riuscire a tirarlo un po’ su di morale, aveva visto lo sguardo di suo figlio spengersi ogni giorno di più e l’essere impotente l’aveva avvicinata ancora di più a Dio. Aveva anche tentato, con l’aiuto di padre Morales, di coinvolgere il ragazzo in quel viaggio spirituale nel quale lei si era incamminata da sola. Suo marito si era completamente buttato nel lavoro, incapace di accettare la realtà. Ma la parola di un uomo, morto duemila anni prima, non riusciva a cancellare quella sensazione di sconforto che l’handicap aveva lasciato nel cuore di Constant. E se l’apprendere cosa fosse successo ai suoi amici, che erano con lui in auto quel giorno lo aveva profondamente scioccato, scoprire che mai più sarebbe tornato a camminare lo aveva distrutto psicologicamente. In quegli ultimi mesi, Constant si era trasformato lentamente, sotto gli occhi di amici e parenti, in un guscio vuoto; non era più il ragazzo allegro e pieno di vita dal sorriso contagioso che tutti ricordavano, ma un individuo pieno solo di amari rimpianti. Verso le quindici e trenta, come accadeva ogni sabato pomeriggio, Erin uscì di casa per andare ad aprire la lavanderia. Desiderosa di non lasciare il figlio da solo – su suo marito, purtroppo, non poteva più contare – chiese alla sua vicina di sorvegliare Constant in sua assenza poiché sua sorella, zia del giovane, era malata. L’anziana signora, ben felice di esserle d’aiuto, andò totalmente nel panico quando, dopo meno di un’ora che era in casa, si accorse che il ragazzo era sparito.


All’ insaputa di tutti, persino della madre, Constant era stato rapito per gioco dai suoi ex compagni di squadra che lo avevano condotto al parco per coinvolgerlo in un rituale di buona sorte per l’imminente partita del giorno dopo. «...e poi le ho detto: non mi importa se non sei più vergine basta che me la dai» il gruppo – la maggior parte seduti in terra, altri sulla panchina ascoltavano quello che il loro compagno di squadra stava raccontando, con fare da grand’uomo. «E Cassandra che ha fatto?» chiese Paul. «Come che ha fatto? Ha allargato le cosce» ci fu una risata di gruppo. «Perché ho sempre l’impressione che tu spari cazzate?» intervenne Jack. «Magari perché è vero» incalzò uno della squadra. «No… ma che cazzate…. quella me l’ha data veramente» Yuri tentò di farsi credere ma senza grosso successo, tutti in squadra conoscevano la sua immensa fantasia. «Stronzate, Cassandra piange ancora per il suo Robert» disse Constant con tono deciso e gli sghignazzi cessarono di colpo. «No, va beh!» il giovane guardò i presenti «Infatti me lo sono inventato» ammise per rispetto a Sharman. «Però è carina» cercò di riprendersi dalla pessima figura. «Sapete chi è carina?» intervenne Jack «Aleesha Morales» «Fottiti. Quella bizzoca non si può guardare» le risate ricomparvero nel gruppo. «Non è vero ha un bel viso, castana, occhi verdi… secondo me… se mostrasse un po’ di più…» «Sì, e cosa mostra? È piatta da far schifo» Paul fece un gesto con la mano come a segnalare che lì non c’era carne da toccare. «Ha la fascia» gli disse Mark. «Che?» «Porta la fascia di contenimento» «E che roba è?» chiese a nessuno in particolare. «Una specie di busto per contenere il seno. Lo so perché una volta le venne un livido su una tetta a causa della fascia e fu portata da mio padre» spiegò Mark che, in quanto figlio del medico, sapeva fin troppo bene i problemi di salute dei concittadini: la privacy non era un concetto conosciuto a Whitesouls. «Va bene ho capito, allora domani in chiesa mi siedo vicino a Coline Cooper. Tanto è l’unica che alla fine la dà a tutti» «Occhio a Sam, quello è matto come un cavallo!» ci furono altre risate tra i presenti. «Guardate chi c’è» «Ciao ragazzi» Cassandra si era avvicinata al gruppo spingendo la sedia a rotelle dove sedeva un’anziana signora. «Ciao» la salutò Yuri.


Collettivamente i ragazzi ripensarono alle menzogne dette dal loro compagno di squadra e in molti scoppiarono a ridere senza un motivo apparente. «Perché ho l’impressione che vi stiate prendendo gioco di me?» chiese Cassandra con tono allegro «Lei che ne dice? Fanno i birboni?» l’anziana accennò un sì deciso, che suscitò altre risa. «Spero solo che non raccontiate sciocchezze che mi vedono protagonista di una vostra fantasia erotica» ci furono altre risa e tutti fissarono Yuri, facendole capire di aver colto nel segno. «Almeno era una bella fantasia?» la domanda imbarazzò l’altro, il quale annuì, rosso in volto «Ne sono lieta» recuperò la carrozzina. «Ora sarà meglio che vada, non vorrei privarvi dei dettagli piccanti della fantasia di Yuri. Divertitevi» li salutò intenta a continuare la sua passeggiata. Aveva approfittato della bella giornata per portare alcuni anziani del centro a passeggio, visto che gli inverni da quelle parti erano spesso piovosi. I ragazzi la salutarono a loro volta. Cassandra aveva il grande dono di riuscire a mettere chiunque a proprio agio, ciò spingeva le persone a raccontarle ogni più piccolo segreto, senza alcuna riserva, e i suoi modi affabili portavano molti dei suoi coetanei a volerle bene. Ciò valeva in particolar modo per la squadra di baseball che aveva avuto un anno di tempo per scoprire le sue molte qualità; poi una domenica pomeriggio al ritorno da una partita, i freni dell’auto di Constant Young non avevano funzionato. Il ragazzo aveva fatto tutto ciò che era in suo potere per evitare di investire le persone che si trovavano sul suo cammino alla fine l’auto, che percorreva la strada in discesa a folle velocità, aveva sfondato il guardrail ed era finita nel fiume. I soccorritori erano riusciti ad estrarre i tre ragazzi intrappolati, prima che l’auto affondasse nelle acque gelide; due erano rimasti feriti, il terzo aveva riportato un grave trauma cranico, che gli aveva impedito di giocare per alcune partite. Fine dell'estratto Kindle. Ti è piaciuto?

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