Flora A. Gallert
Innamorarsi a Londra UUID: f7696fc2-9860-11e5-aa5c-119a1b5d0361 Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com) un prodotto di Simplicissimus Book Farm
Indice dei contenuti
PROLOGO CAPITOLO 1 CAPITOLO 2 CAPITOLO 3 CAPITOLO 4 CAPITOLO 5 CAPITOLO 6 CAPITOLO 7 CAPITOLO 8 CAPITOLO 9 CAPITOLO 10 ALTRE OPERE "Chiedimi di restare" di Flora A. Gallert ALTRE OPERE "Outside" di Flora A. Gallert Diritti d'autore
PROLOGO
“John, hai capito? No, John! Non provare a riattaccare… Cazzo”. Mi mordo la lingua per non continuare a imprecare mentre sento la linea cadere. “Non si dice quella parola, mamma”. Sospiro e mi abbasso. I suoi grandi occhi blu, mi guardano con rimprovero. “Lo so amore, hai ragione”.
“Perché il papà ti ha fatto arrabbiare?” “No, non è stato lui. Ero già arrabbiata per conto mio. Che ne dici di truccarmi un po’?”. Questo è l’unico modo per tenere mia figlia calma e silenziosa… E per pensare. Sento le sue piccole dita che sfiorano la mia pelle e penso a quanto sia indifesa. Ciò mi rende ancora più arrabbiata e nervosa. Come sempre mi sono addossata la colpa: sono io quella che ha usato il tono sbagliato e non il padre che, a un mese dal Natale, ha deciso che passerà le vacanze con la suo nuova fiamma a New York e, per finire, toccherà a me dare la notizia a nostra figlia. “Fatto” mi dice soddisfatta Sarah, allontanandosi di qualche passo per vedermi meglio. “Sei bellissima” aggiunge poi passandomi uno specchietto di plastica principesco. Osservo il mio riflesso. Nonostante la mia immagine distorta mi saltano subito agli occhi i due pomelli rosa sulle guance, un neo sul labbro superiore, gli occhi pesti dalle palpebre blu e il rossetto fucsia. “Oh, amore…” dico, senza riuscire a trovare delle parole graziose per definirmi. Din-Don “Oh, cazzo” dico agitata, alzandomi con fatica dalla moquette e correndo alla porta. “Mamma, non si dice!” urla la bambina, è alquanto indignata. “Scusa, scusa, scusa” dico di rimando. Continuo a mordermi la lingua per non urlare altre imprecazioni: avevo dimenticato del colloquio con la nuova baby-sitter. Tra l’altro, se John rispettasse gli orari accordati insieme al giudice, io non avrei alcun bisogno di una babysitter. Tra l’altro, oggi doveva essere qui con me per valutare questa ragazza. Apro la porta e boccheggio per un attimo. Mi ritrovo davanti a un bell’imbusto che mi fissa con un sopracciglio alzato. È alto, molto alto. Ha le spalle larghe ed è moro con un paio di diamanti al posto degli occhi, è ben coperto ma percepisco che sia messo bene anche fisicamente. “Sì?” dico con voce roca. “Buongiorno signora Brown, sono Andrea”. “E… perché sei qui?” “Per il colloquio” dice lui con semplicità. “Il colloquio?”. Proprio non capisco. “Sì, signora. Ci siamo sentiti per messaggio e lei mi ha dato indirizzo, data e ora in cui potevamo vederci”. Ora capisco. Mi sono lasciata ingannare dal suo nome italiano, pensavo fosse un nome femminile. Eroconvinta che fosse un nome femminile perché… “Nell’annuncio ho specificato che cercavo una ragazza”. Lui, come se si fosse aspettato una risposta del genere, prende dalla tasca del suo giubbotto un foglio tutto stropicciato, lo stira per bene e me lo mostra. È il mio annuncio, l’annuncio che ho pubblicato su internet tramite
un modulo precompilato e che io ho stampato per velocizzare i tempi per poi affissarne ulteriori copie nel mio negozio e al supermercato. Nell’annuncio, in fondo alla pagina, in caratteri minuscoli, c’è scritto che tale offerta è rivolta a entrambi i sessi e a persone di tutte le età e tutte le nazionalità… ma io proprio non l'avevo notato questo particolare, allora che senso ha lasciarci uno spazio dove scrivere? È già scritto tutto nel modulo! Lui mi fissa con aria di sfida, come se osassi contraddirlo. Ma io sono più furba, più subdola e decido quindi di fare buon viso a cattivo gioco. “Oh!” dico, “Giusto. Entri pure e facciamo il colloquio”. Lo faccio accomodare in casa e gli offro del tè e i pasticcini con curd all'arancia e cannella preparati da mia sorella stamattina. “Lei è Sarah” dico quando la piccola ci raggiunge correndo verso di noi, i riccioli biondi che ondeggiano alle sue spalle. È così dolce. “Ciao piccola” dice lui ridendo e sollevandola in alto. Sarah urla di gioia e io per un attimo lo invidio perché non riesco più a farlo con così tanta leggerezza. “Beh vi lascio un attimo da soli che vado… in bagno”. “L’hai combinata tu così alla mamma?” sento lui che sghignazza. “Sì, ti piace?”. Rallento per sentire la risposta ma sono ormai in fondo al corridoio e non riesco a coglierla. Quando mi guardo allo specchio, scopro con orrore che sono anche peggio di quello che ricordavo. Ora capisco perché in certi momenti Andrea riusciva a stento a trattenere il sorriso. Sento le urla divertite della bambina provenire dal salotto e mi affretto a struccarmi. Sto per raggiungerli quando il mio occhio cade sulla pochette: un filo di trucco non guasta mai. Cinque minuti più tardi ho spruzzato anche del profumo sul collo e ho deciso di indossare un jeans al posto della tuta, non mi è mai piaciuto come mi sta. Mi guardo allo specchio per osservare l'effetto finale: una ragazza snella, pallida, con lunghi capelli castani e gli occhi color nocciola ricambia il mio sguardo. E' alta, con qualche lentiggine sparsa sul volto e le labbra carnose. Cerco di guardarmi da ogni angolazione. Sì, posso andare. Quando entro in salotto trovo Andrea seduto sulla moquette con gli occhi chiusi e mia figlia che gli sta applicando un ombretto viola su una palpebra. Lui mi guarda con l’occhio libero. “Cavolo signora Brown, volevo assomigliarle”. Sarah si volta verso di me. “Mamma, perché hai tolto il trucco?” mi dice indignata. “Adesso la mamma si fa truccare di nuovo” la rassicura lui. Io scuoto la testa, avevo bisogno di una baby-sitter e mi ritrovo con un altro bambino. Mi siedo a terra, di fianco a lui e lascio che Sarah ci trucchi un po’ ciascuno. “Fatto” dice dopo qualche minuto.
Io e Andrea ci guardiamo. È così ridicolo: ha anche il rossetto e posso solo immaginare il mio aspetto dal fatto che lui mi scoppia a ridere in faccia. Una risata contagiosa che fa ridere anche la piccola Sarah. È una situazione così ridicola che alla fine cedo anche io. Mi fa male la pancia e ho le lacrime agli occhi.
CAPITOLO 1
Sono Alexandra Brown, ho trent’anni e una figlia di sei. Sono divorziata da cinque anni, una decisione presa in seguito a un matrimonio fatto di tira e molla, delusioni e lacrime. Quando ho indossato l’abito bianco credevo nella famiglia, nel matrimonio. Ora, invece, penso che l’amore sia la più grande fregatura e, ad oggi, tutto ciò che conta è solo mia figlia. Visto che sono principalmente io ad occuparmi di lei, la mia vita si può definire frenetica: mi divido tra lei e il negozio in cui lavoro e di cui sono la proprietaria. Posso ritenermi soddisfatta di me: tra i mille impegni riesco a svolgere egregiamente anche il ruolo di padre, che da tempo ha perso interesse per la novità e che si ricorda di nostra figlia solo quando sono io che vado a prenderlo con forza a casa e lo porto in un parco giochi o la cinema insieme a lei. Lo so che non è molto, ma è tutto ciò che riesco a fare e, per fortuna, lei è così piccola che certe cose ancora non le può capire. Ho stabilito gli orari del mio negozio in base alle esigenze di mia figlia, ogni mezzogiorno, infatti, lo chiudo e vado a prenderla a scuola, per poi riaprire il pomeriggio, a volte ha il doposcuola, altre volte viene con me a lavoro e intrattiene i clienti. * È dicembre e penso che Londra in questo mese abbia qualcosa di magico: la gente, anche se va sempre di fretta, non può non rallentare il passo di fronte alle carole di Natale cantate da un gruppo di signori travestiti da folletti natalizi nelle metropolitane o non può sospirare felice dinnanzi agli addobbi e alle mille luci sfavillanti. Le vetrine dei negozi si sono rivestite di luci e decorazioni, londinesi e turisti si uniscono nella piazza di Trafalgar Square con i nasi arrossati dal fretto puntati verso l’alto, gli occhi colmi di emozione, a osservare il gigantesco albero di Natale, alto più di 20 metri. L’aria è fredda e mi avvolgo meglio la sciarpa intorno al collo mentre aspetto mia figlia che esce da scuola. Sento la campanella suonare e la riconosco in mezzo a tutti quei bambini: è tutta ben imbacuccata come le avevo ordinato e mi guarda con il viso radioso. “Ciao amore” le dico mentre lei mi salta in braccio. Cavolo, quanto pesa! Per un attimo penso ad Andrea, ai suoi muscoli e sento un formicolio sulle guance. Sono passati cinque giorni e da allora non l’ho mai chiamato per il posto, in fondo era un semplice colloquio.
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