L'alba del sacrificio 13 (giallo, thriller & noir)

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Giancarlo Ibba

L’alba del sacrificio

EEE-book

Giancarlo Ibba, L’alba del sacrificio © Giancarlo Ibba

Prima edizione: ottobre 2013

Edizioni Esordienti E-book

ISBN: 9788866901600


Cover: elaborazione grafica di Stefano Puddu. Tutti i diritti riservati, per tutti i Paesi. Questa è un’opera di assoluta fantasia. Tutti i nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in modo fittizio. Ogni somiglianza a eventi o luoghi reali o a persone realmente esistite o esistenti è casuale.

Per Antonella, che mi ha detto “provaci ancora” quando io dicevo “no, basta”.

“Ci spiegò i segreti delle stelle. Era un mattino di primavera. Dall’alto di un colle vedevamo, nella pianura lontana, sorgere il sole là dove all’orizzonte ancora brillava una luminosa costellazione. Passano le costellazioni, disse Gesù, dopo l’Ariete i Pesci. E poi verrà l’Acquario. Allora l’uomo scoprirà che i morti sono vivi e che la morte non esiste.”

Dal Vangelo secondo Tommaso, (Rotoli del Mar Morto)

PROLOGO


Sulcis, Sardegna, 719 a. C.

L’Alba del Sacrificio era vicina. La lunga processione di torce uscì dall’intricata boscaglia di querce da sughero e si snodò nel sentiero sabbioso tra le colline, un percorso tracciato dal continuo viavai di pellegrini. Le scabre alture di trachite, sommerse dall’umida foschia notturna, erano disseminate di anfratti. Cespugli di mirto, lentisco, rosmarino e ginestra ricoprivano i pendii rocciosi. Il profumo aromatico della vegetazione mediterranea si mescolava con quello solforoso della palude. Proveniente dal golfo, un gelido maestrale staffilava le lingue di fuoco delle primitive fiaccole. Luce e ombra guizzavano. Giunto in una radura isolata ai piedi di un oscuro dirupo, dal corteo di uomini e donne s’innalzò una monotona litania. Tutti puntarono lo sguardo su un grosso macigno alla base della collina. In tempi perduti vi era stato scolpito un Volto. I suoi lineamenti erano deformati da millenni di vento, sole, pioggia. Tuttavia, nella sua espressione arcigna persisteva una traccia di ieratica solennità. Il canto aumentò d’intensità. L’uomo alla testa della processione si allontanò dal resto del gruppo. Indossava una grezza tunica e un mantello di lana. Il suo aspetto, anche in quella tenebrosa atmosfera, non aveva niente di speciale. Tarchiato, gambe robuste, sporchi capelli grigi arricciati sulle ampie spalle. L’unica cosa che lo distingueva dal resto dei partecipanti alla cerimonia era che non stringesse tra le mani una torcia impregnata di grasso animale, ma una cesta di giunchi. Nella radura, una depressione a forma di ferro di cavallo con la cavità rivolta a oriente, i seguaci salmodianti si disposero intorno all’uomo con il mantello. Le pulsanti lingue di fuoco sprigionate dalle torce rischiaravano le orbite vuote del Volto nella roccia. Sciami di scintille, disperse dal vento, si smarrivano nel limpido firmamento. In cima alla collina retrostante, stagliato contro il disco butterato della luna, lo scuro profilo a tronco di cono di un nuraghe. Era diverso da tutti gli altri dell’Isola. Questo era stato costruito con pesanti blocchi di roccia nera, levigati e sgrossati, sovrapposti uno sull’altro con maestria. A causa della colorazione uniforme delle sue pietre, era denominato “su Nuraxi Nieddu”: il Nuraghe Nero. Nella tradizione orale tramandata dagli abitanti dei villaggi circostanti, la memoria della sua primitiva funzione, come quella del Volto, si era persa nella notte dei tempi.


Ciononostante, il periodico rituale a essi collegato, proseguiva nei modi previsti dagli Iniziati e dalle “Tavole”. Interrompere un’usanza che andava avanti dall’inizio del tempo era un sacrilegio e fonte di sventura. L’uomo con il mantello sollevò la cesta, tenendola in equilibrio precario sulle palme callose e mormorò alcune formule segrete nel linguaggio dei suoi avi, che avevano dominato l’isola prima della “Grande Onda”. Subito dopo, la depositò sul terreno ciottoloso. Al suo interno c’era un neonato addormentato. La pelle nuda, violacea, avvizzita e ancora imbrattata di placenta, esalava vapore. Nonostante il gelo pungente della notte era caldissimo. Per tenerlo calmo, era stato drogato con l’infuso di un’erba che cresceva solo in quel luogo. Per gli adulti era un potente allucinogeno capace di provocare terribili visioni e un’incontenibile risata nevrotica. L’uomo estrasse il bimbo dalla cesta e lo mostrò ai seguaci. Il canto cessò. Una folata di vento s’incuneò nella conca e sferzò le torce. Ignorando quel turbine, dopo aver esposto il neonato, l’Iniziato si girò verso l’effigie sgretolata cesellata sulla pietra. Ai piedi del Volto c’era un altare, una specie di dolmen in miniatura, fatto con la stessa pietra del nuraghe. L’uomo depositò con cura il neonato, supino, in corrispondenza di un apposito incavo. Sul margine esterno della solida lastra, correva una scanalatura in pendenza che terminava in due fori circolari in ambedue i pilastri dell’altare. Lo sbocco sotterraneo di quei condotti era sconosciuto. A quel punto, come rispondendo a un segnale, l’uomo con il mantello e i suoi fedeli indossarono grezze maschere di legno che fino a quel momento avevano tenuto nascoste sotto le tuniche. Le maschere riproducevano le fattezze del viso scolpito sul macigno. Senza solennità, l’uomo con il mantello estrasse dalla semplice cintura di cuoio che gli serrava la tunica un aguzzo pugnale di ossidiana. Le scheggiature riflettevano il bagliore delle torce. Circondato da un improvviso silenzio, l’uomo lo impugnò con entrambe le mani e lo elevò al cielo. Poi restò immobile, in attesa del momento esatto. Il rito richiedeva precisione assoluta.


Con il viso celato dalle bieche maschere, silenti e immobili, le persone alle sue spalle parvero trattenere il fiato per tutto il tempo, mentre le torce si esaurivano, sfrigolando nelle raffiche di vento. Al primo tenue raggio di sole dell’alba, che s’infilò dritto nella conca, insinuandosi tra le frastagliate colline all’orizzonte, l’uomo strillò una parola e calò il pugnale nel cuore del bambino assopito. La parola, pronunciabile solo in quell’occasione, era: “Cik-al!” Il sangue sgorgò nell’incavo dell’altare, lo riempì e defluì nella scanalatura, da cui venne convogliato verso i buchi nei basamenti. Da quel punto sgocciolò, lento e denso, nel buio delle due cavità. Al termine del sacrificio rituale, l’uomo con il mantello infilò il pugnale nella cintura e sollevò il cadavere dissanguato dall’altare. Con il neonato che gli si freddava tra le braccia, quasi cullandolo, si diresse verso l’uscita della radura. La folla che lo circondava si aprì al suo passaggio, sussurrando timide invocazioni e spegnendo quel che restava delle fiaccole sui sassi ancora bagnati di brina. Dopo un cammino di cinquanta passi, nel luminoso fulgore del giorno nascente, l’uomo si fermò davanti a un profondo pozzo preistorico, racchiuso da una cornice di massi squadrati, incrostati da licheni rossi, marroni e ocra. Dal fondo, esalava una nebbia che odorava di salgemma e muschio. Intorno, neanche un filo d’erba. In quella quiete, l’uomo con il mantello allungò le braccia e sospese il corpicino sopra l’apertura, senza mai guardare dentro. Era proibito. Come molti altri Iniziati avevano fatto prima di lui, per secoli e secoli, l’uomo lasciò precipitare il cadavere nelle umide tenebre della voragine. La caduta non provocò nessuno sciabordio liquido. Subito dopo, l’uomo diede le spalle al pozzo e si girò verso i seguaci. Rivolse uno stanco sorriso al sole nascente e proclamò la conclusione della cerimonia. Tutti levarono le maschere di legno e le riposero sotto le tuniche. L’uomo era prostrato. L’età avanzava. Presto, molto presto, avrebbe dovuto lasciare in eredità il fardello dei suoi terribili segreti. Trovare un discepolo adeguato non era facile. Il rituale necessitava di autocontrollo, spietatezza e spirito di abnegazione assoluto. Un consanguineo era il candidato ideale.


Rimuginando su questa e altre questioni, con gli occhi che gli si chiudevano per la stanchezza, l’uomo con il mantello si rifugiò nella sua tana, una grotta scavata sul fianco orientale della collina.

“Sull’orlo dell’Abisso, nell’ora della disfatta del demonio ecco che io giungo quale trionfatore...”

“Libro dei Morti”, capitolo 64

PARTE PRIMA - Frammenti di Terrore

1. L’incubo

All’inizio, nel buio, ci sono solo le urla. Poi, in sottofondo, come una malinconica colonna sonora, emergono le note elettroniche di un carillon che riproduce la sonata “Al Chiaro di Luna” di Beethoven. Passi riecheggiano nell’oscurità. Corridoi. Lampi. Tuoni. Gelo. La canna di una pistola. Una rampa di scale. L’ululato del maestrale. Raffiche di pioggia. II cadavere deturpato di una ragazza. Lampadari di cristallo oscillanti. Una porta chiusa. Una chiave. Una donna, stravolta, si contorce su un letto matrimoniale. Una biblioteca illuminata dal bagliore arancione di un fuoco. La sagoma di un uomo immerso nella penombra. Il luccichio delle sue pupille. Angoscia. Silenzio. Buio. Qualcosa affiora dall’oscurità.


Un bambino? Capelli corti, neri e lisci. Vestito antiquato. Gracile. Fissa il nulla con infelici occhi castani. Il sorriso è sottile. Si avvicina, rischiarando le tenebre con la sua arcana luminescenza. Con un apatico movimento, il bambino protende il braccio destro, come per indicare qualcosa. Il suo pugno sembra una macchia di latte in un lago d’inchiostro. L’indice, immobile come quello di una scultura, esibisce un’unghia sudicia e smangiucchiata. Nell’altra mano, avvolta come una frusta, stringe una vecchia corda per saltare. I manici di legno sono verniciati di rosso. Il carillon si ferma e cede il posto a un silenzio sepolcrale. Il bambino parla. Le sue labbra, tuttavia, non si muovono. Una disperata supplica riecheggia nel vuoto. “Liberami.” Un instante dopo... L’incubo finisce. 2. Strani risvegli

Carbonia, 19 marzo 1991, ore 07:25

“Liberami...” bisbigliò Tommaso Cannas, nel sonno, con la voce di un bambino spaventato, contorcendosi nel letto sfatto. La sua stanza, nonostante il riscaldamento fosse acceso, era fredda. I termosifoni disperdevano calore nell’aria, ma questo si dileguava chissà dove, senza mitigare il gelo. Lame di luce filtravano dalle tapparelle, bucherellate dagli enormi chicchi di una recente grandinata, disegnando strisce bianche e nere sulle pareti. Durante la notte, rigirandosi, Tommaso era riuscito ad arrotolarsi lenzuola e coperte intorno ai piedi. Gran parte della trapunta giaceva sul pavimento. La radiosveglia sul comodino lampeggiava impazzita le 00:00, a causa dell’ormai consueto blackout notturno. Le cifre verdi del display illuminavano il volto gonfio e arrossato. Una profonda increspatura solcava la fronte del ragazzo. Una chiazza di saliva inumidiva il guanciale. Toc! Toc!


“Tommaso? Sei sveglio?” Francesca Farci (in Cannas), settantatré anni, vedova da sei mesi, tentennò dietro alla porta chiusa a chiave della camera di suo figlio. Non sopportava quella nuova, strana e angosciosa ossessione di barricarsi del suo secondogenito. Era inquieta. Bussò ancora. “Tommaso! Sono le sette e mezzo! Alzati! Farai tardi!” Un brontolio scocciato al di là del legno sottile. Cigolio di molle scariche. Strisciare affievolito di pantofole. La porta si aprì verso l’interno ruotando sui cardini. Tommaso comparve sulla soglia, scarmigliato, stropicciandosi gli occhi arrossati. “La colazione è già pronta?” esordì. Non diceva mai buongiorno, mamma. In questo e in parecchio altro, assomigliava a suo padre. Michele, da giovane, era fantasioso, distratto e spontaneo. Francesca non mancò di constatarlo, per l’ennesima volta dal funerale. Il dolore della sua perdita era ancora insopportabile. “È pronta. La tua sveglia non ha suonato, stamattina?” “Come al solito...”, commentò Tommaso, grattandosi la testa arruffata. “Pazienza. Dopo una nottata del genere ho bisogno di una overdose di zuccheri, carboidrati e vitamine assortite.” “Perché?” domandò subito Francesca, preoccupata, anche se conosceva la risposta a quella domanda. “Non hai dormito?” Tommaso glissò. “Macché. Il solito incubo. Sono a pezzi.” Ciabattando lungo il corridoio, il ragazzo si avviò verso le scale, massaggiandosi il collo rigido e sbadigliando. Il pigiama spiegazzato gli pendeva sulle spalle come su una stampella. Nelle ultime due settimane, era dimagrito di almeno dieci chili. Francesca attribuiva al lutto il deperimento del figlio. Per Tommaso era stato atroce trovare il padre, quel brutto mattino del 23 settembre 1990, riverso dietro la sua scrivania ingombra di fotocopie. Quell’immagine indelebile era impressa nella sua memoria. Il tavolo, su cui spiccavano un fermacarte di granito a forma di piramide e una lampada da lettura, occupava buona parte del bugigattolo che la madre definiva “il suo antro”. Era il suo rifugio. Nessuno era


autorizzato a utilizzarlo. Tre pareti su quattro erano tappezzate di scaffali colmi di libri. Altri volumi erano accatastati, come torri, in ogni angolo disponibile. L’aria profumava di legno vecchio, carta e colla. L’unica apertura era una minuscola finestra a ghigliottina sopra la porta d’ingresso. Sulla parte interna di quest’ultima, visibile soltanto quando era chiusa, chissà per quale ragione, il padre aveva attaccato con delle puntine colorate la bella riproduzione di un enigmatico dipinto di Nicolas Poussin intitolato: I pastori in Arcadia. Michele giaceva, irrigidito, sul pavimento. La mano sinistra contratta ad artiglio sul petto. La destra stretta intorno a una matita spezzata. Le pagine di quello che stava scrivendo, la notte prima di morire, erano sparpagliate sul suo corpo. I suoi occhi, rimasti aperti, erano congelati in un’ultima espressione di orrore, dolore e stupore. Come se, negli estremi istanti della sua vita terrena, avesse colto qualcosa che fino a quel momento gli era sfuggita. Stroncato da un improvviso infarto fulminante, dichiarò, contrito, il medico di famiglia. Da quel giorno, Tommaso non era più entrato in quella stanza. Il misterioso manoscritto, della cui segreta stesura notturna Michele non aveva informato neanche la moglie, era stato raccolto in tutta fretta e infilato in una semplice cartella di plastica. Nessuno lo aveva mai letto. Era finito in un cassetto. L’antro, da allora, diventò zona off limits. “Ma almeno sei riuscito a riposare un pochino?” s’informò Francesca, seguendolo sugli scalini, attaccata al corrimano. “Un paio d’ore.” “Non pensi che, forse...” azzardò l’anziana donna, allarmata per la sua salute. Aveva un pessimo presentimento. “Lasciami in pace, mamma...” ribatté Tommaso, spazientito. “Sono un po’ stressato. Devo soltanto riabituarmi a dormire nella mia vecchia stanza. Non ho bisogno dello psichiatra.” Fine della discussione.

Quindici minuti dopo, in una cucina ordinata, profumata e scintillante – anche troppo da quando Michele non interferiva più con il suo disordine quotidiano –Tommaso travasò le solite tre zollette di zucchero nel suo caffè macchiato, poi cominciò a


mescolarlo con la fronte corrucciata. Per un intero minuto il cucchiaino sbatté contro l’orlo della tazzina producendo uno sgradevole tintinnio. La vecchia radio a transistor, posata in cima al vibrante frigorifero, era sintonizzata su RadioTre. In quel momento diffondeva una nostalgica melodia jazz-blues. Francesca spalmò burro e marmellata di fragole su cinque fette biscottate delMulino Bianco. Conclusa l’operazione, le ripose in un piattino e lo spinse premurosa verso il figlio. “Mangia.” Tommaso sollevò appena lo sguardo. “Grazie.” Calò il silenzio. Con la usuale voracità, rumoroso come al solito, Tommaso ingollò fette e caffè. A dispetto dell’evidente dimagrimento, mangiava come un disperato. Francesca, talvolta, aveva quasi l’impressione che le sue energie vitali venissero risucchiate all’esterno del suo corpo. Era un’idea assurda, naturalmente. Un sintomo della demenza senile galoppante? Probabile. Finito di ingozzarsi, Tommaso si sollevò di scatto dalla sedia per andare al bagno. L’espressione del suo viso era pensierosa. Mentre usciva dalla cucina si voltò verso la madre e le sorrise. “Non preoccuparti per me...” disse, serio. “Ho fatto soltanto dei brutti sogni. Prima o poi, questa sciocca insonnia passerà.” Poco convinta, Francesca socchiuse le palpebre e lo fissò. “Ha a che fare con la morte di tuo padre?” domandò. Lui esitò. Trascorse un secondo di silenziosa attesa. “No...” rispose alla fine, scrollando le spalle magre. Tommaso scosse il capo, sorrise senza convinzione e uscì. Rimasta sola, Francesca scoppiò in lacrime. Mezz’ora dopo, Tommaso depositò la sua ventiquattrore di cuoio sul pavimento dell’ingresso e staccò il cappotto pesante dall’attaccapanni. Lo indossò e controllò il


contenuto delle tasche. Fuori l’attendeva un clima piuttosto insolito, almeno per il normale standard di Carbonia. Le temperature minime erano molto sotto la media stagionale. Probabile che, come dicevano gli “esperti” alla televisione, tutto fosse dovuto a una corrente d’aria fredda proveniente dal Circolo Artico. Qualcosa del genere. La meteorologia non era sua materia preferita a scuola. Raccolse la valigetta e si voltò verso la cucina. Gridò: “Ciao mamma! Sto uscendo!” Francesca rispose, quasi subito, con voce roca: “Ciao.” Come sempre, prima di uscire di casa, Tommaso lanciò uno sguardo affettuoso e commosso alla fotografia del padre, posata su una mensola nell’ingresso. La cornice era listata a lutto. Un cero funebre acceso si rifletteva sul vetro lucido, illuminando l’immagine color seppia di Michele. Quando era stata scattata quella foto, lui aveva la sua stessa età. Sorrideva all’obiettivo, ignaro del futuro, felice di avere trovato un lavoro all’ospedale. Tommaso aprì il portone, osservò il cielo nebbioso e indugiò qualche attimo sullo zerbino, meditabondo. La mamma aveva pianto. Piangeva, senza farsi vedere, ogni giorno e ogni notte. Tommaso temeva che potesse avere un infarto anche lei. Era irrazionale, lo sapeva perfettamente, tuttavia non poteva farci nulla. Certe volte non si può proprio fare a meno di avere brutti pensieri. Era insito nella natura umana farsi del male gratis. Con queste meste considerazioni nella testa, si incamminò verso la sua Vespa, parcheggiata nel vialetto davanti alla casa, sotto l’ombra frusciante di un salice. Era il suo unico mezzo. L’aria del mattino era pungente, la luce del sole smorzata dal compatto strato di nuvole che offuscava il cielo. Il vicinato era desolato e silenzioso, come succedeva tutti i giorni lavorativi. Prima di mettere in moto, immerso in quel gelo tonificante, Tommaso pensò: che senso ha la vita? Era un interrogativo che si poneva spesso, quando si svegliava di malumore. In pratica, quasi ogni giorno del calendario. La sua risposta era desolante. Nessuno. Ecco la cruda realtà dei fatti.


Tommaso sospirò, montò sulla Vespa e andò al lavoro. 3. La telefonata

Carbonia, 19 marzo 1991, ore 10:00

Contraddicendo le previsioni meteo, il cielo si era rasserenato e dalla finestra entravano dolci barbagli di luce dorata. La radio era spenta. Il frigo ronzava. Francesca lavò le stoviglie, le asciugò e le ripose con cura nella credenza. Rimuginava sul “brutto sogno” di Tommaso e quell’assurdo infarto che aveva ammazzato il marito. Un circolo vizioso di riflessioni. Pensava, sospirava e piangeva. Calde lacrime gocciolavano nel lavello pieno di schiuma. Non poteva proseguire così, doveva farsi coraggio e tirare avanti... La vita continuava. In un modo o nell’altro. Certo. Facile a dirsi. Tuttavia, Francesca non riusciva a farsene una ragione. No! Non è giusto! Non me lo merito, cosa ho fatto di male? Infilò la destra nella schiuma e cercò il tappo di plastica che chiudeva il lavello. L’afferrò e tirò con rabbia. L’acqua sporca mulinò dentro lo scarico. Francesca osservò pensosa quel gorgo spumoso fino a che l’ultima goccia non venne inghiottita con un gorgoglio che le ricordò uno stomaco vuoto. La similitudine le strappò un fiacco e falso sorriso. Aprì il rubinetto dell’acqua fredda e pulì il lavello dai batuffoli di schiuma. Infine, tolse gli appariscenti guanti di plastica giallo vivo e li gettò sul ripiano. Chiuse il rubinetto. In quel momento, in salotto, squillò il telefono. Francesca andò a rispondere, camminando lungo il corridoio dove non penetrava quasi mai la luce diretta del sole. Pensò: tranquilla, non è successo nulla. Il telefono non squilla solo per comunicare disgrazie... È Tommaso che chiama per dirti che stasera farà tardi in ufficio. Non tormentarti, vecchia sciocca. Il salotto era immerso in una piacevole ombra, creata dalle tende fatte a mano che coprivano le due finestre. Una guardava verso l’orticello posteriore, l’altra su uno


stretto passaggio che confinava con il giardino della vicina. Il telefono era collocato su un basso tavolino quadrato, davanti a due comode poltrone. La parete sulla destra era occupata da una libreria componibile dall’equilibrio precario. Accoglieva tutti i romanzi, tascabili ed edizioni economiche, che il marito non era riuscito a stipare nel suo antro. Per montarla aveva impiegato una intera settimana. Con un nodo in gola, sollevò la cornetta al terzo squillo. “Pronto?” disse, cercando di mantenere un tono neutro. “Sono sempre pronto, mamma.” “Marco!” Sollievo immediato. “Come stai?” “Abbastanza bene. Tu?” Pausa. “Sì, anch’io sto bene.” “Tommaso?” “Non so. È strambo in questi giorni. Dice di avere fatto dei brutti sogni. Non mi ha detto altro. Tu cosa ne pensi?” “Sai com’è fatto. Ha sognato papà?” “Non credo.” “Magari è solo cattiva digestione. Quel musone non è mai stato famoso per la sua dieta. Adora patatine fritte e wurstel!” “Ha preso tutto da suo padre...” La voce le s’incrinò. “Scusa, mamma. Vorrei esserti vicino, ma sai... il lavoro.” “Non preoccuparti. C’è Tommaso con me. È stato molto gentile a mollare il suo appartamento e venire qui per farmi compagnia. Convivere con una mamma vedova e scorbutica non è il massimo della vita per un ragazzo...” Francesca tirò su con il naso e si tamponò gli occhi con il dorso della mano. La solita piagnucolona. Doveva smetterla. “Come sta tua moglie?” “Sta bene. Proprio questa mattina ha un colloquio. Cercano una commessa per il nuovo centro commerciale che apriranno a Sassari. Personalmente non sopporto quell’ambiente, vorrei che cambiasse lavoro, però lei non sente ragioni. E poi abbiamo bisogno di soldi extra per affittare una casa più grande...”


“Più grande? Perché?” “Ops! Non te l’ho detto? Stai per diventare nonna.” Il cuore di Francesca saltò un battito. “Oh, io... Marco, sono sbalordita... felicemente sbalordita! Ma ti pare questo il modo per annunciarmi il lieto evento?! Gesù, aspetta che lo dica a tuo fratello! Un nipotino tutto da coccolare! Quando? E... Gianna? Immagino sarà al settimo cielo! Devo chiamarla al più presto!” “Tranquilla, nonna, mancano ancora otto mesi. Hai tutto il tempo che occorre per confezionare quei ridicoli calzini di lana, cuffiette e copertine. Tutti quantiunisex, mi raccomando.” “Quindi non sapete ancora se...” “Noi non vogliamo saperlo. Anche se questa è la moda del momento. Siamo preistorici: preferiamo goderci la sorpresa.” “Non riesco a crederci, Marco. Sono rimasta senza parole.” “Evento straordinario. Oh, scusa un momento... Sì, sì, ora arrivo. Devo lasciarti, mamma. Hanno bisogno urgente di me in cantiere. Quei maledetti ingegneri! Ti richiamo io, ok? Ciao.” “Aspetta un attimo. Marco! Marco?” Il segnale intermittente della linea interrotta la informò che il figlio maggiore, Marco Cannas, aveva riagganciato. Sempre di corsa e indaffarato quel ragazzo. Fin da piccolo faceva tutte le cose a precipizio, desideroso di intraprendere sempre nuove avventure, coinvolgendo spesso l’introverso fratellino nelle sue scorribande. La vitalità di Marco era contagiosa. Bastava la sua semplice presenza in una festa per ridare verve alle serate più noiose. A differenza dell’irrequieto marito, invece, Gianna era la calma incarnata. Proprio vero che gli opposti si attraggono. Muovendosi come in un sogno, Francesca abbassò la cornetta bollente e si lasciò cadere nella poltrona prediletta da suo marito. Accarezzò il tessuto dei braccioli, sovrappensiero, assaporandone la morbida familiarità. Non si accorse di aver smesso di piangere. I suoi due figli erano bravi ragazzi e ne era davvero orgogliosa.


Tra non molto avrebbe avuto anche un bellissimo, o bellissima, nipote da viziare e riempire di regali. L’idea di diventare nonna la riempiva di una strana, euforica e inaspettata voglia di vivere. C’è ancora speranza per me? si domandò. 4. Il compleanno

Solus, 19 marzo 1991, ore 12:20

A pochi chilometri in linea d’aria da Carbonia, circondata da un alto muro di cinta, sorgeva una solitaria villa dall’aspetto imponente e misterioso. Era stata costruita nella conca alla base di una desolata collinetta. Una delle tante che punteggiavano le squallide campagne di Solus. L’edificio, sproporzionato in quel contesto, era contraddistinto da uno stile architettonico unico in Sardegna: elementi caratteristici tipici del gotico, neoromanico, liberty e barocco, erano amalgamati senza logica costruttiva o estetica. Il tutto immerso in un oscuro paesaggio composto da stentata macchia mediterranea e scabri affioramenti rocciosi. La gente del luogo, da secoli, la chiamava Villa Massidda.

Nell’enorme salone delle feste la lunga tavolata era allestita con il servizio migliore. Stoviglie di pregiata porcellana cinese, posate d’oro e argento lucido, bicchieri di cristallo sfavillante. Decorazioni originali, fiori freschi e frutta esotica a profusione. Ogni particolare era perfetto. Giovanni Massidda, l’uomo accigliato seduto a capotavola, discendente di una antica casata in decadenza, in contrasto con tutta quella fastosità, spiccava come un bruco tra le farfalle. Negli ultimi giorni era parecchio smagrito. Pallido, occhiaie profonde, guance incavate. Sgocciolante di sudore. Poco prima di mettersi a tavola, aveva regolato il climatizzatore a 18 gradi, nonostante il freddo esterno. Eppure continuava a sentire caldo. Gli sembrava di essere imprigionato dentro una serra tropicale. Era insopportabile. Vistose chiazze umide ornavano le ascelle della sua camicia di cotone leggero. Si sentiva quasi soffocare.


Un bel modo di passare il giorno del suo compleanno. Insofferente, Giovanni rimboccò le maniche e sbuffò. “Stai male, caro?” domandò, preoccupata, la donna seduta all’altra estremità del massiccio tavolo di quercia. “Cosa hai?” Era la prima e unica moglie di Giovanni: Katia, trentadue anni, bellezza statuaria di prima categoria e cervello di seconda. In compenso, era una madre premurosa, spendacciona, abile organizzatrice di tornei di scopone scientifico, feste di beneficenza e ricevimenti. Una first lady fatta e finita. Giovanni abbozzò un mezzo sorriso, ma gli venne fuori un brutto sogghigno storto. Il suo viso era refrattario all’allegria. “Vuoi saperlo? Le Voci sono tornate...” sibilò a denti stretti. Katia sgranò i suoi occhioni azzurri, stupita. “Eh?” “Sto cercando di non ascoltarle...” aggiunse lui. “Credimi.” In quel momento, sfrecciarono attraverso l’ingresso ad arco del salone delle feste due dei tre figli di Giovanni: Matteo e Samuele. Tredici e undici anni. L’altro figlio, Giuseppe, aveva appena sei mesi. Il piccolo dormiva tranquillo e sazio nella sua culla, al secondo piano, in un angolo della camera dei genitori. Dopo una puntata veloce al bagno di servizio per lavarsi le mani, Matteo e Samuele appesero i giubbotti agli alti schienali delle loro sedie e presero posto. Per tutta la mattinata avevano giocherellato, riempiendo di grida e schiamazzi il silenzio, nell’inselvatichito parco di querce da sughero che attorniava la villa. I due ragazzini quel giorno non si trovavano a scuola poiché le medie di Solus erano chiuse, a causa del riscaldamento guasto. Una buona scusa per festeggiare e pranzare tutti insieme. “Allora, mà, si mangia?” esclamò Matteo, volgendosi verso la madre, ancora perplessa, con un sorriso allegro stampato sulla faccia arrossata dal sole e dallo sport. Era un ragazzino in perenne equilibrio instabile tra il “vivace” e il “rompipalle”. Katia assentì, ricambiando il sorriso del figlio senza alcuna convinzione. Matteo si era spezzato un incisivo cadendo dalle scale, la sera precedente. Per giustificarsi, sosteneva di essere stato sgambettato da qualcuno. In ogni caso, l’atteggiamento e l’aspetto trasandato del marito l’avevano messa di pessimo umore. Negli ultimi


tempi, Giovanni era stato più scontroso, taciturno e sprezzante del normale. Dopo tutta la fatica che lei aveva fatto per farsipreparare quel “Pranzo di Compleanno”. Era quello il modo migliore di ringraziarla? No di certo. “Sbrighiamoci!” intervenne Samuele, prendendo in mano forchetta e coltello. Portava ancora il berretto da baseball, unto di sudore. “La partita non è ancora finita. Posso recuperare!” “L’unica cosa che puoi recuperare sono tutte le palline che hai fatto ruzzolare vicino al pozzo...” ironizzò, perfido, Matteo. Come tutti i fratelli non perdevano occasione per accapigliarsi. “Cosa?” sbottò Katia. “Quante volte vi ho ripetuto di non giocare mai vicino a quel dannato pozzo! È pericolosissimo!” Infastidito dalla voce della moglie, Giovanni roteò gli occhi. “Non ci siamo nemmeno avvicinati, mà...” ribatté Samuele, nervoso. “Lo sai che ho paura di vedere di nuovo quella donna impiccata. Per questo non sono andato a riprendere le palle. Matteo mi prende in giro, dice che ho sognato a occhi aperti!” Katia scosse la testa. Andare a vivere in quella orribile villa, per quanto il marito l’avesse ricoperta d’oro e gioielli, era stato il più gigantesco sbaglio della sua vita. Deglutì il rospo che le bloccava la gola, ricacciò indietro le lacrime, poi si alzò e andò in cucina a prendere il vassoio degli antipasti. Erano tutti degli stupidi maschi egoisti e irriconoscenti. Dal primo all’ultimo. Giovanni la seguì con lo sguardo, febbricitante e allucinato, mostrando alle spalle della moglie un fugace ghigno sarcastico. Poi si alzò e ciondolò fuori dal salone. “Dove vai, papà?” s’informò Matteo, curioso come al solito, masticando un pezzo di pane. “Oggi non devi lavorare, no?” Con voce piatta, Giovanni rispose: “Torno subito.”

Giunto nello studio, dopo aver aperto l’armadietto blindato, camuffato dietro un solido pannello di tek, Giovanni ne estrasse una lunga, lucida e odorosa custodia di pelle. L’aprì e ne sfilò un fucile da caccia. Come tutto quello che possedeva, l’aveva


ereditato dal defunto padre, l’architetto Raffaele Massidda. Era un automatico, cinque colpi, quasi senza rinculo. Sul metallo brunito era inciso un marchio: BERETTA. Gli italiani sono un popolo di ottimi armaioli e pessimi soldati, rifletté Giovanni. Come tanti altri nella sua vita, soprattutto durante l’infanzia, anche quello era un pensiero estraneo alla sua vera personalità. Schiuse il primo cassetto della scrivania e trovò una scatola piena di cartucce Winchester, calibro 12, doppio zero. Caricò il serbatoio dell’arma con precisione e meticolosa calma, sicura inserita, la canna puntata verso il soffitto. Il metallo era lustro e puzzava d’olio lubrificante. Il calcio di legno, zigrinato, offriva una tenuta perfetta. Quando ebbe terminato, Giovanni s’infilò il resto delle cartucce nelle grandi tasche anteriori della camicia. Richiuse il cassetto, l’armadietto blindato e il pannello. Disinserì la sicura e regolò l’alzo del mirino. Soppesò il pesante fucile con gesti esperti, anche se non ne aveva mai maneggiato uno. Fino a quel momento. Dopodiché, sorrise, soddisfatto dal perfetto bilanciamento dell’arma. Imbracciò il fucile con decisione e uscì. Con passo lento e misurato, percorse il corridoio, superò l’atrio dello scalone a doppia rampa e si diresse verso il salone delle feste. I suoi occhi, adesso, erano vuoti, spenti e privi di volontà. Gli occhi di un sonnambulo. O di un pazzo. Eppure, fino a quel momento, Giovanni era stato un padre severo ma affettuoso e un consorte quasi ineccepibile. Un uomo riservato, amministratore coscienzioso di un patrimonio ragguardevole.

Senza dire una parola, con una innaturale apatia, Giovanni transitò sotto l’arco e rientrò nel salone delle feste. Il fucile spianato. Un colpo in canna. Quattro nel serbatoio. Era pronto. Matteo lo vide e scattò in piedi come una molla. “Papà ho freddo! Puoi alzare il riscaldamento? Ehi, cosa...?” Giovanni gli puntò contro il fucile e schiacciò il grilletto.


La testa del figlio esplose come un piattello del tiro a segno. Sangue, capelli e ossa sbriciolate si sparsero sulla tavola, schizzando piatti, fiori e decorazioni. L’eco dello sparo rintronò sulle pareti. I cristalli a prisma del lampadario tintinnarono. Frattanto anche Samuele, l’idiota di famiglia, era balzato in piedi. Urlò, le mani intorno alla faccia pallida, proprio come il tizio dipinto da Munch. La sua maglia delle Tartarughe Ninja era impiastricciata da coaguli di cervello del fratello maggiore. La canna del fucile ruotò. “Basta, papà! Ti prego! Non sparare più!” Ignorando la preghiera del secondogenito, il padre sparò. Dal petto incavato di Samuele eruppe un potente spruzzo di sangue arterioso. Il bambino barcollò, cadde indietro agitando le braccia a mulinello, rovesciò due sedie, tirandosi addosso la tovaglia ricamata e un po’ di stoviglie. Non era ancora morto. Avanzando verso il centro del salone, per dargli il colpo di grazia, Giovanni esibì un ghigno da teschio sulle labbra tirate. Gemendo e singhiozzando, Samuele cercò di trascinarsi sotto il tavolo. Senza esitare, con occhi asciutti, lui lo finì con un’altra scarica in mezzo alla schiena, spezzandolo quasi in due parti. Katia oltrepassò la soglia di corsa, senza portare gli antipasti. E si arrestò di botto vedendo cosa lui aveva fatto, come se le avessero incollato i tacchi al pavimento di marmo. Portò un pugno alla bocca, gridò terrorizzata, quindi svenne e si afflosciò come l’attrice alcolizzata di un melodramma hollywoodiano anni ‘30. Giovanni si avvicinò al corpo privo di sensi della moglie. Abbassò la canna rovente e fumante del fucile. La posò sulla nuca esposta della moglie e aspettò con calma che rinvenisse. Appena Katia dischiuse gli occhi, Giovanni fece fuoco. Il sangue di lei schizzò altissimo, imbrattandogli la camicia e la faccia. Non ci fece caso. Aveva molto da fare e poco tempo.


Scavalcò il corpo di Katia e lasciò il salone delle feste, con l’espressione di chi ha appena consumato un discreto pasto, fumato un sigaro e schiacciato un breve pisolino sul divano. Passò attraverso la grande biblioteca e girò a destra. Percorse un lungo corridoio, arrivò nell’atrio e salì le scale. Raggiunse il secondo piano, svoltò a sinistra ed entrò nell’angusto vestibolo della sua stanza matrimoniale. Qui, come se fosse indeciso sul modo giusto di procedere, si fermò un paio di minuti. Scrutò la massiccia doppia porta. Quella, un tempo, era stata la camera di sua madre. Malata di mente, prima di essere internata aveva trascorso gli ultimi tormentati anni della sua vita segregata tra quelle spesse pareti. Adesso, oltre quella soglia c’era il piccolo Giuseppe, assopito nel suo sfarzoso lettino. Ignaro di tutto. La lampadina sul soffitto sfrigolò, si spense, poi si riaccese. L’elettricità e quella villa non erano mai andate d’accordo. Alla sua sinistra, la vecchia pendola era bloccata. Le lancette a freccia, sovrapposte, puntavano sul numero romano XII. Titubante, Giovanni sfoggiò l’ennesimo sorriso deforme. Alla fine, roteando gli occhi febbrili, prese una decisione. Appoggiò il fucile contro il muro, la canna in alto, accanto ai battenti. Allungò le mani, afferrò le maniglie e indugiò qualche minuto, la fronte posata sul legno gelato. Il cervello in fiamme. La bocca asciutta. Un fischio acuto gli trapanò il cervello. Lo stomaco gli si contrasse in un grumo velenoso che minacciò di risalire nella gola. Non si era mai sentito così male e bene. Non nello stesso tempo. Era una specie di dolorosa catarsi. Ignorando il dolore e i crampi, Giovanni spinse i battenti e spalancò la doppia porta della stanza, cercando di non produrre rumore. Dall’interno esalò un soffio d’aria ghiacciata, odorosa di talco mentolato, olio idratante per neonati Johnson e acre fumo di candela. Quest’ultimo odore, persistente, era peculiare di quel locale. Impregnava in profondità le pareti. La rilassante luce azzurrina dell’abat-jour/carillon colorava l’aria stantia e faceva ruotare le ombre di un branco di unicorni sopra i mobili e le pareti. Giuseppe adorava quel giochino made in China. La triste melodia, emessa da un meccanismo elettronico, era la sonata Al chiaro di luna di Ludwig van Beethoven. Ipnotica nella sua ripetitività, lo teneva calmo tra una poppata e l’altra.


Trattenendo il respiro, Giovanni entrò. C’era sempre una pesante atmosfera lì dentro. Un’aura di disperazione e malattia. Ma la notava soltanto lui. Le veneziane erano socchiuse. Nella penombra, la culla barocca di Giuseppe assomigliava a una bizzarra gabbia di pizzo. Un breve colpo di vento gelido gonfiò le pesanti tende di velluto bordeaux. Nulla di strano se la finestra fosse stata spalancata... ma era chiusa. Abituato alle stranezze che si verificavano in quella villa fin da quando era lattante, Giovanni si accostò tremante alla culla. Giuseppe riposava in posizione fetale, il viso arrossato e il pollice in bocca. Urla e fucilate, al piano terra, non l’avevano svegliato. I neonati hanno il sonno profondo. Per fortuna. Dopo un po’, papà Giovanni si chinò sulla culla e prese in braccio il piccolo Giuseppe. Non aveva nessuna idea di quello che avrebbe fatto da lì a poco. Era come se stesse seguendo una sceneggiatura di cui non conosceva trama e finale. La forza che si era impossessata della sua mente non gli dava più tregua. Mentre l’angosciosa sonata Al chiaro di luna proseguiva imperturbabile alle sue spalle e le sagome eteree degli unicorni danzavano sulle pareti, Giovanni se ne andò dalla stanza.

Il bagno era pulito, scintillante e vi aleggiava un vago odore di disinfettante. Giovanni si accostò all’enorme vasca da bagno. Con delicatezza, piegando la schiena irrigidita, vi depositò il neonato sul fondo bombato e liscio. Giuseppe dormiva sempre succhiandosi il pollice destro, ormai consumato sulla punta. Con calma soprannaturale, Giovanni si curvò su di lui e gli baciò con tenerezza il capo quasi calvo. Poi andò al lavandino, apri il rubinetto dell’acqua fredda e si strofinò via dal viso il sangue di Katia. Non si asciugò, restò bagnato, i capelli scuri imperlati di gocce. Esaminò con cautela e disgusto l’immagine deformata che lo specchio gli rimandava. La faccia qualunque e spettrale di un uomo di quarantasei anni: alto, discreta forma fisica, capelli neri, grandi occhi castani, naso sottile e diritto. Rimboccandosi più in alto le maniche sopra i gomiti, fece dietrofront e si avvicinò di nuovo alla vasca da bagno. Sul fondo, avvolto in una morbida tutina, il lattante non accennava a svegliarsi, nonostante avesse la testolina nuda posata sulla ceramica.


Non percepiva quel gelido contatto? Le sue sottili palpebre, violacee, fremevano. Le lunghe ciglia tremolavano. Giovanni distese il braccio destro sopra la vasca. La sua mano, ferma e decisa, si chiuse attorno al pomello dorato del rubinetto e aprì a metà l’acqua calda. Il flusso, per il momento freddo, cominciò a riempire la vasca. Lo scroscio e il bacio umido del liquido destarono Giuseppe. Spalancò gli occhi. Il bimbo si guardò attorno, agitandosi sul fondo della vasca, disorientato dal quell’ambiente candido e per lui inconsueto. Non vide il padre, Giovanni, perché era già uscito. La porta laccata sbatté alle sue spalle. L’acqua continuò a sgorgare dal rubinetto, sempre più calda e fumante. Giuseppe fissò sgomento il fiotto bianco. Agitò più forte braccia e gambe. La sua tutina era già zuppa. L’enorme specchio ellittico sopra il lavandino cominciò ad annebbiarsi. Il vapore iniziò a saturare l’ambiente ristretto. Gocce di condensa presero a colare dalle costose piastrelle blu cobalto alle pareti.

Nel vestibolo, arcuando di nuovo la schiena indurita dalla tensione dei muscoli, Giovanni raccattò il fucile dal pavimento. Nello stesso istante, dentro il bagno, ad appena due metri di distanza, Giuseppe si mise a frignare e singhiozzare disperato. Come se non udisse quel piagnucolio, Giovanni cominciò a scendere le scale. Uno scalino alla volta. Il fucile posato sulla spalla sinistra. Fissava un punto indefinito. Dieci secondi più tardi, il pianto di Giuseppe, dopo un sinistro gorgoglio, cessò. Giovanni posò i piedi sul pianerottolo e si bloccò. I suoi lineamenti non tradirono nessuna emozione umana. Sollevò lo sguardo vacuo al soffitto, scosse il capo e annuì un paio di volte, come se avesse risposto a una domanda inudibile.


A quel punto, per un brevissimo istante, ebbe una specie di allucinazione. Gli sembrò di vedere un ragazzo scarmigliato, a piedi nudi e in pigiama di flanella, che saliva i gradini di corsa. Quando passò accanto a lui, l’immagine si dissolse nell’aria. Perplesso e contrariato, Giovanni sbatté le palpebre. Attese qualche momento, poi riprese a scendere le scale. Ritornò nel salone delle feste. Perplesso, Giovanni indugiò sulla soglia per alcuni minuti, facendo scorrere lo sguardo sui cadaveri disseminati sul lucido pavimento, costellato di schizzi, macchie e pozze scarlatte. Entrò nel salone, facendo molta attenzione a dove metteva i piedi. Non voleva scivolare. Evitò con cura di pestare il sangue delle sue vittime. Un indistinto chiarore cinereo filtrava dalle strette finestre a forma di ogiva. Giovanni si fermò vicino alle gambe tornite della moglie. Curvò la schiena e, ansimando per la fatica, agguantò il cadavere per una caviglia e lo trascinò con fare distratto verso la parete più vicina. Il corpo si lasciò alle spalle una strisciata rossa. Una delle scarpe restò indietro. Silenzioso, mollò la caviglia e depose il fucile da caccia. Contemplò la parete, color avorio antico, per qualche secondo. Le mani sui fianchi, come un pittore davanti alla tela immacolata. Ispezionò la tinta con i polpastrelli, poi allargò le braccia e annuì. Subito dopo, si inginocchiò accanto alla testa sfondata di Katia. Le rotule schioccarono. Le sue articolazioni, con il passare del tempo, erano sempre più rigide. Scosse il capo e fissò affascinato la nuca distrutta della moglie. Le inclinò il mento e, attento a non tagliarsi con le schegge d’osso, infilò indice e medio della mano destra nello squarcio. Intinse per bene fino alla seconda nocca. Il sangue, tiepido e denso, defluiva lento nella cavità spugnosa. Raddrizzandosi, Giovanni si rivolse di nuovo verso la parete. Guardò le dita sporche di sangue, il muro, il cadavere. Bisbigliò qualcosa in una lingua perduta e iniziò a tracciare sbavate lettere scarlatte. Per finire la scritta, dovette intingere l’indice nel cervello spappolato di Katia altre quindici volte.


Più tardi, Giovanni strofinò le dita sporche sui jeans sbiaditi e osservò la sua opera. Decise che poteva andare bene così. Soddisfatto, raccattò il fucile da caccia e andò al telefono, un grosso apparecchio posato su una antica cassapanca di ciliegio intarsiato, accanto a una lanterna di duecento anni prima. Sollevò la cornetta e formò un breve numero. Da qualche parte, a Carbonia, un telefono squillò. “Polizia. Buongiorno. Posso aiutarla?” “No. Nessuno può aiutarmi, ormai. Mi ascolti. Sono Giovanni Massidda. Il proprietario di Villa Massidda. La conosce, no? Ho appena sterminato tutta la mia famiglia. Non so perché l’ho fatto.” “Un momento. Cosa ha detto?” “HO STERMINATO LA MIA FAMIGLIA!” “Non sta scherzando, signore, vero?” “Oggi è il primo aprile, forse?” “Può attendere un attimo in linea, prego?” “No.” Giovanni riattaccò, indirizzò la canna sul telefono e fece fuoco. Il vecchio telefono di bachelite si sbriciolò. Cinque colpi. Il fucile adesso era scarico. Si accucciò per terra e lo ricaricò, estraendo le cartucce una ad una dalle tasche della camicia, fradicia di sudore. Quando ebbe finito, Giovanni depose il fucile al suo fianco. Poi slacciò e tolse la scarpa destra. Sfilò pure la calza. Il suo piede era di un pallore smorto, simile a un pesce avariato. Aveva sempre provato un’istintiva repulsione per le sue estremità. Le trovava disgustose. Per tutta la vita aveva cercato di non esibirle troppo. Distolse lo sguardo, raccolse il fucile e si rialzò di scatto. Senza tergiversare con considerazioni inutili, appoggiò il calcio dell’arma sul pavimento e si curvò sopra la canna. La afferrò con la mano sinistra all’altezza del mirino e indirizzò il foro d’uscita dritto al suo cuore. Con l’alluce del piede destro, era già pronto a premere il grilletto. L’aveva visto fare in un filmaccio horror.


Esternò un ultimo sorrisetto maligno. “Buon compleanno.” Schiacciò il grilletto. Dopo la detonazione, un silenzio abissale riempì il salone. La “festa” era finita. Al secondo piano dell’ala ovest di Villa Massidda, l’acqua bollente traboccata dal bordo della vasca, dopo aver inondato il bagno, filtrò sotto la porta e si allargò nel corridoio. Molto presto avrebbe iniziato riversarsi sulle scale. All’esterno, un’improvvisa raffica di vento sibilò tra le ossidate grondaie di rame, le torrette sgangherate e i comignoli anneriti dalla fuliggine. Le querce del giardino, ormai quasi prive di fogliame, gemettero come vecchie comari in lutto. Corposi riccioli di foschia salmastra esalarono dall’antico pozzo. Il sole scomparve dietro una coltre di fitte nubi. Sulla parete in fondo al salone delle feste, cosparso di morti e macchie di sangue, attorniata da dipinti a olio raffiguranti i visi severi e corrucciati di innumerevoli generazioni di Massidda, con carattere sgocciolanti, era stata tracciata una sconcertante parola:

LIBERAMI 5. Maria Sanna

Carbonia, 19 marzo 1991, ore 15:45

Drizzando la testa dalle braccia informicolite, Tommaso si svegliò di soprassalto. Sbatté le palpebre frastornato e si ritrovò immerso nell’acerba luce al neon del suo ufficio. Fuori dalla finestra al terzo piano, affacciata verso le disadorne alture di Serbariu, il cielo era coperto di spesse nuvole grigie stratificate. Più sotto, il solito traffico pomeridiano di autobus F.M.S., auto e furgoni, congestionato intorno a Piazza Roma. Un concerto di clacson, sgommate e frenate. L’abituale caos del pomeriggio.


“Come ho fatto ad addormentarmi sul lavoro?” mormorò, guardandosi attorno smarrito. L’orologio analogico appeso alla parete indicava le 12:00. La lancetta dei secondi era immobile. Batterie scariche? Ad ogni modo, quanto tempo poteva aver dormito? Sessanta secondi. Due minuti al massimo. Era davvero molto strano... Le troppe notti insonni cominciavano a fare sentire il loro peso? Qualcuno bussò. Ancora rintronato, Tommaso spostò lo sguardo verso l’unico ingresso dell’ufficio. La testa gli pulsò sul lato sinistro, quasi come se gli avessero sparato alla tempia, presentimento di una imminente emicrania. Attraverso il cristallo smerigliato, dietro la scritta ribaltata del suo nome, poté intravedere la silhouettedi una donna. Tommaso si pettinò rapido con le dita, raddrizzò il nodo allentato della cravatta e verificò che la scrivania fosse più o meno in ordine. Non lo era. Sistemò in un angolino la semplice cornice di peltro che racchiudeva una bella fotografia dei genitori: il papà e la mamma, sposi novelli, abbracciati e sorridenti davanti alla loro prima e unica casetta. Giovani, belli e innamorati. La dedica, scritta a mano in stampatello, recitava: MICHELE & FRANCESCA CANNAS, Via Solferino, Carbonia, 1310-1959! Nove mesi dopo nacque Marco. Un bel ricordo. Tommaso si schiarì la voce, tossicchiò e disse: “Avanti!” La porta si spalancò e si richiuse alle spalle di una bellissima ragazza. Meravigliato e agitato, Tommaso tossicchiò ancora. “Signor Cannas? Buon pomeriggio. Disturbo?” Lui scosse il capo. “No. Si accomodi, prego.” Indugiando, la giovane donna lo scrutò, assorta. “Grazie.” Tommaso le indicò una scomoda poltroncina di fronte alla sua scrivania ingombra di pratiche, faldoni e raccoglitori. La ragazza si accomodò compita, accavallò le gambe e tenne la gonna corta del tailleur ben tirata sulle ginocchia rotonde. Intrecciò le mani sul grembo e incrociò aggraziata le caviglie. Calzava scarpe elegantissime, lucide, con tacco 12 a stiletto. Ammirato, Tommaso la esaminò con interesse e discrezione.


Dimostrava pochi anni meno di lui ed era molto, molto carina. Alta pressappoco un metro e settanta, tacchi esclusi. Capelli sciolti, lunghi oltre le spalle, castani e ondulati. Grandi occhioni color caramello dall’espressione un po’ malinconica. Labbra carnose. Corpo ben proporzionato. Caviglie sottili. Al termine di questa approfondita perlustrazione anatomica, Tommaso rivolse alla ragazza la consueta garbata domanda. “Cosa posso fare per lei?” “Niente.” Tommaso sorrise: un sorriso stupido e imbarazzato. Anche lei sorrise: un sorriso aperto e rassicurante da brava ragazza, cresciuta con rigore morale e pochi grilli per la testa. Una razza in via di estinzione, secondo il pensiero della madre. “Mi scusi...” disse Tommaso, sorpreso, allungando le gambe sotto la scrivania. “Non vuole un’assistenza legale?” Imperterrita, la ragazza spiegò: “No. Non sono una cliente, signore. Mi chiamo Maria Sanna. La nuova tirocinante dello Studio. L’avvocato Orrù mi ha detto di presentarmi da lei, oggi, per organizzarci. Mi dispiace molto... non è stato preavvisato?” Tommaso scrollò le spalle. “Non si preoccupi. Sono sempre l’ultimo a sapere le cose qui dentro. A quanto pare sono stato nominato suo tutor dal grande capo. Sono Tommaso, piacere.” Si protese sopra la scrivania e tese la mano. La stretta della ragazza era morbida, fredda e asciutta. “Da quanto tempo lavora per questo studio legale, signore?” s’informò Maria, scavallando le gambe con la leggiadria di una principessa inglese. “È l’avvocato più giovane che conosco.” “È solo una questione di fortuna. Ho passato tutti gli esami al primo tentativo e i professori non mi hanno preso di mira.” “Beato lei! Io ho dato Diritto Civile quattro volte.” “Come mai?”


“Non lo so. Non mi entrava in testa. Studiare a memoria non è cosa per me... C’è mancato poco che andassi fuoricorso.” “Università di Cagliari o Sassari?” “Sassari.” “Come mai è arrivata qui a Carbonia?” “Problemi in famiglia.” Tommaso richiuse la cartelletta su cui aveva sonnecchiato e la depositò sul vertice di una traballante catasta d’incartamenti inevasi. “Beh, comunque... io lavoro qui da due anni e mezzo.” Maria Sanna annuì e non si sbilanciò in commenti. “Torniamo a noi, signorina”, disse lui, a disagio, cambiando argomento. “Le hanno già detto qualcosa a proposito della sua sistemazione? Che io sappia, non ci sono più stanze libere.” “Infatti...” Maria sembrò contrariata. “L’avvocato Orrù mi ha già illustrato la difficile situazione logistica. Farà aggiungere una scrivania in questo ufficio. Per lei sarà fastidioso, lo so... Mi scuso per l’invasione del suo spazio. A quanto pare inizierò il mio praticantato domani. Sempre che per lei vada bene.” Fece una breve pausa, come per riordinare le idee, poi dichiarò: “Per scongiurare spiacevoli episodi ci terrei a sapere subito se lei ha qualcosa in contrario a condividere l’ufficio con una donna. La prego di essere brutalmente sincero con me. Non mi offendo.” Tommaso sorrise, divertito e anche un po’ risentito. Rispose però con voce seria e tranquilla. “Non ho proprio nulla in contrario. Assolutamente, no. Le assicuro che sono un ragazzo moderno privo di qualsiasi presunzione maschilista.” “Davvero?” “Davvero. Parola d’onore.” Dopo questo rapido scambio di battute, restarono in silenzio per alcuni secondi. Lo sguardo di Tommaso indugiò a lungo sui luminosi occhi di Maria, prima che lei distogliesse lo sguardo. Osservò l’orologio fermo sul mezzogiorno. Si era creata una


di quelle strane situazioni uomo-donna dove è complicato trovare le parole giuste e facile uscirne fuori con una frase sbagliata. All’improvviso, Maria si rianimò, balzò in piedi e infilò la borsetta sotto il braccio sinistro. “È tardi. Adesso devo proprio andare, signor Cannas. Ci vediamo domani. Buona serata.” La ragazza aveva già la mano chiusa sulla maniglia, quando Tommaso la raggiunse con un atletico guizzo sulla soglia. “Aspetti, ancora una cosa...” Lei si voltò a guardarlo, cauta, tenendo la porta socchiusa. “Sì?” “Volevo chiederle...” biascicò Tommaso, restando a qualche passo di distanza, per non allarmarla. “Perché non ci diamo del tu? Da domani. Non mi piace la formalità inutile tra colleghi.” Ragionando su quella proposta, Maria si aggiustò una ciocca indisciplinata con rapido gesto della mano destra. “Va bene.” Detto questo, voltò le spalle e uscì senza aggiungere altro. Ansimando, come dopo una corsa in salita, Tommaso chiuse la porta e riprese fiato. Sentì il cuore martellargli nelle orecchie. 6. Scena del crimine

Solus, 19 marzo 1991, ore 17:00

Secondo una leggenda locale le fondamenta di Villa Massidda erano state costruite con le pietre riciclate dai ruderi di un nuraghe diroccato. Nel corso dei secoli successivi, poi, la sua struttura era stata ampliata a dismisura, modificata più volte e restaurata senza seguire alcun progetto coerente. Il prodotto di questo disordinato accumulo era una sorta di obbrobrio. L’impressionante massa di Villa Massidda, inframmezzata da una miriade di insoliti dettagli stilistici, appariva come un pasticcio di forme e proporzioni.


Le persone che vi passavano davanti, percorrendo un’angusta sterrata che finiva poco più avanti, affermavano di non riuscire a guardarla per più di cinque minuti senza farsi venire la nausea. Molte generazioni di Massidda, i facoltosi e sfuggenti proprietari, avevano vissuto in quasi totale isolamento in quella improbabile e opprimente costruzione di trachite, tegole d’ardesia e mattoni rossi. Il vero motivo per cui si erano insediati in quella zona dimenticata da Dio, in mezzo a campi incolti, era ignoto. La volante della Polizia Stradale frenò, facendo scricchiolare gli pneumatici sul pietrisco, proprio davanti al solido cancello di ferro battuto. I due poliziotti, chiusi al calduccio nell’abitacolo, esaminarono con nervosismo l’interno tenebroso della proprietà. “Questa villa fa proprio cagare...” borbottò il poliziotto dietro al volante, dopo aver comunicato alla centrale operativa il loro arrivo nella zona. “Come cazzo fanno ad abitare in un postaccio del genere? Ho sentito dire che questi Massidda farebbero parte della massoneria. Devono essere proprio persone eccentriche!” Scrutò ancora una volta il profilo irregolare della villa. Anche chi la osservava per la prima volta, senza sapere nulla della sua storia, avvertiva che, in quell’edificio disarmonico, c’era qualcosa di anormale. Le ombre affastellate dietro l’inferriata rugginosa sembravano sempre più fitte, oscure e mobili del solito. La brulla collina alle sue spalle, inoltre, era spesso sommersa in una densa e statica foschia bigia. Un luogo per nulla invitante. “Tutti i miliardari sono eccentrici, collega, la gente normale resta povera!” replicò sarcastico il secondo poliziotto. Passò la mano sulla parte interna del parabrezza ed eliminò un ventaglio di condensa. “Porca... Là fuori ci dev’essere un freddo boia!” “Già. Gli anziani dicono che pure il sole evita questa strada.” “Cavolate. Chi te l’ha detto? Il padre della mia ragazza è di San Giovanni Suergiu. Ha dei terreni da queste parti. In estate, credimi, volendo si potrebbe friggere un uovo su una pietra.” “Scusa... ma non eri fidanzato con una tipa di Perdaxius?” “Sì. Anche. Perché?” “Nulla.”


“Mmmh. Ehi... hai visto la targhetta del numero civico?” Il poliziotto al volante spostò subito lo sguardo verso uno dei due massicci pilastri di mattoni che sostenevano il cancello. “2160?” sbottò, incredulo. “Ma se la casa più vicina sarà ad almeno quattro chilometri di distanza! Che stronzata è questa?” “Non ne ho idea. Questi ricconi sciroccati sono così pieni di soldi che possono farsi mettere il numero che preferiscono.” “Senti anche tu questa puzza?” “Dev’esserci la carcassa di qualche animale nei paraggi.” Per un attimo calò il silenzio. Il motore borbottò al minimo. “Allora, collega, dobbiamo muoverci. Vai tu o vado io?” “Vacci tu. Io ho guidato fin qui su quella sterrata di merda.” “Tu lo chiami guidare? Potevi scansare almeno una buca?” “Senti chi parla... Nicky Lauda!” Alla fine, per decidere chi dovesse uscire dall’autopattuglia e suonare all’antiquato citofono, incastonato nello spesso muro di pietre, i due agenti dovettero ricorrere alla monetina. Cento lire volteggiarono in aria. Il caso o il destino scelse l’uomo che, col cuore in gola e lo stomaco in subbuglio, dopo aver gironzolato a vuoto nei meandri della villa per un quarto d’ora, avrebbe scoperto la terribile carneficina racchiusa in quello che in un tempo remoto era stato il salone delle feste di Villa Massidda. Un minuto più tardi, lo stesso uomo chiamò i rinforzi. Poi, ai piedi di quella nebbiosa collina, scoppiò il caos.

Mentre il crepuscolo avviluppava Villa Massidda, bagliori intermittenti di luce bianca, blu e rossa spazzarono la macchia mediterranea, i grovigli di rovi e gli spessi filari di fichi d’india che assediavano quel tetro edificio solitario. Auto e ambulanze sobbalzarono sulla sterrata. Imprecazioni. Portelli sbattuti. Voci concitate risuonarono lungo l’inclinato viale d’accesso e i flash bianchi dei fotografi


rischiararono l’orrida facciata della villa. Una successione di ignoti personaggi in uniforme o in borghese vennero, videro e se ne andarono. Paramedici in camice bianco e portantini sostarono in attesa al riparo di una tettoia, fumando e tremando, appoggiati alle tre costose automobili che vi erano parcheggiate sotto: una berlina BMW nera ultimo modello, una station wagon Volvo e una Lancia Aurelia dei primi anni ‘50. Nel frattempo, gli agenti presero delle misurazioni, stesero i nastri biancorossi e tracciarono dei segni con il gesso. Appena arrivati sulla scena del crimine, con automobili diverse, Medico Legale e Pubblico Ministero procedettero al sopralluogo. Poi, visibilmente scossi, restarono in disparte e parlottarono. Intorno a loro, come bimbi in un luna park, tutti gironzolavano a bocca aperta per gli insoliti ambienti di Villa Massidda. L’atmosfera era intrisa di stupore e tensione repressa. Era una faccenda bella grossa. I mass media locali e nazionali, come avvoltoi su una carogna, ci avrebbero banchettato per giorni, settimane o mesi.

L’ispettore della Polizia Piero Diana, un uomo pelato, basso e cicciotto, stretto in una giacca infeltrita che pareva di una taglia troppo piccola per la sua corporatura, taciturno e scontroso, spuntò nel bel mezzo di quella frenetica baraonda organizzata. Ignorando l’inconcludente agitazione e i quattro cadaveri che lo circondavano, attraversò il salone delle feste e si piazzò davanti all’orribile murale tracciato dallo psicopatico pluriomicida-suicida Giovanni Massidda. Le mani sui fianchi abbondanti, in una posa plastica che lo faceva assomigliare al Duce, contemplò la scritta dondolando ogni tanto il testone. Restò in quella posizione per dieci minuti. Piero Diana osservò ogni singola lettera di quella enigmatica parola, sgocciolante e sbavata come nella locandina di un film dell’orrore, sentendosi sempre più sconcertato. Eppure, anche se l’istinto gli urlava tutt’altro, non riuscì a distogliere gli occhi da quel terribile messaggio. Era un enigma piuttosto oscuro. Non capisco. Perché quel genio del Commissario Castangia mi ha affidato questo caso? È una mossa che non mi piace... Aggirando i cadaveri disseminati sul pavimento ed evitando di guardarli, un giovane poliziotto gli si avvicinò di soppiatto.


“Is-Ispettore?” balbettò, con il pomo d’Adamo impazzito. “Cosa c’è?” replicò Diana, infastidito dall’intrusione. “Mi ha chiesto un rapporto preliminare, signore.” “Parla.” La recluta tirò fuori il suo taccuino nuovo di cartoleria e lo consultò per un attimo. Poi recitò: “Cinque vittime accertate e identificate. Un’intera famiglia. Il padre, Giovanni Massidda. La moglie, Katia. I tre figli: Samuele, Matteo e... Giuseppe.”

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