Note di veritĂ
Trilogia Essenze III
Marta rei
Romanzo
note di verità Copyright © 2016 Marta Rei Cover art and design by © Manuela Castaldo http://adanayart.blogspot.it/ All rights reserved.
Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questo libro è un'opera di fantasia. Ogni somiglianza a persone reali, vive o morte, imprese commerciali, eventi e località è puramente casuale.
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Io scrivo sempre e solo per chi mi legge, non ho altro che voi Dedico questo ultimo romanzo della trilogia a te, che ami Efrem e Luce.
Prologo
Sette anni prima. Efrem Strinsi una sigaretta tra le dita e la fissai, indeciso se infilarla tra le labbra e fumarla. Quella fottuta risposta era lĂŹ, a portata di mano, e io mi facevo scrupoli per fumarmi una paglia. Porca puttana! Avevo il cervello in pappa. Invece di accenderla, la masticai, quasi che il tabacco potesse darmi sollievo soltanto dopo aver disintegrato il filtro con i denti. La mente aveva iniziato ad affollarsi di pensieri senza senso da quando lei era entrata nel mio inferno personale. I suoi occhi, quel bellissimo culo a mandolino, il visetto pulito e i seni morbidi, burrosi al punto giusto. Anche ora, adesso, avevo il cazzo duro a causa del desiderio di scoparmela. Farmi una sega non sarebbe servito a migliorare la situazione e sapevo, con avvilente chiarezza, che far sesso con altri non mi avrebbe soddisfatto. PerchĂŠ non lo aveva mai fatto, dannazione! Appoggiai il capo dietro di me, reclinandolo. Dovevo avere lei! Il buio era la soluzione migliore, come sempre, mi faceva stare bene
rimanere nascosto, rintanato in un cantuccio a leccarmi le ferite, da gran bastardo qual ero. La luce si accese all’improvviso, accecandomi. Non volevo nessuno nei miei spazi, in casa mia… nessuno. Spostai la testa di lato, per vedere chi avesse osato minacciare la mia serenità. Lei se ne stava lì, un piede all’interno della camera, l’altro fermo sulla soglia. Le sue cosce… le sue bellissime cosce bianche e sode, che nella mia immaginazione avevo aperto tante volte per infilarmici in mezzo, e quel suo portamento da ragazzina innocente, degno di una intemerata verginella incallita. Luce. Mi aveva fottuto la testa quella ragazzina; quindici anni di vita contro i miei… troppi, non potevo neanche prendere in considerazione la differenza d’età tra noi. «Mamma, papà!» urlò, gioviale, la mia ossessione proibita. «Fuori di lì, non devi entrare in quella stanza!» vociò la madre per trattenerla. Sì, perché altrimenti la bestia l’avrebbe presa e poi ne avrebbe fatto poltiglia. Sentii gorgogliare nel petto una risata amara, ma avevo perso memoria dell’ultimo giorno in cui avevo aperto bocca per parlare con qualcuno. Mi riusciva difficile comunicare articolando suoni, perché la consideravo una banale perdita di tempo. Ero uno che aveva creato il suo destino basandosi sulle proprie capacità intellettive e imprenditoriali in un Paese che temeva il genio creativo. In poche parole: ero un fottutissimo cervellone. «Dai, devo parlare con la mia migliore amica e non voglio che stiate ad ascoltarmi.» Ansimai, in preda al delirio. Con la tipica avventatezza della sua età lei entrò, senza dare ascolto agli ammonimenti della madre, ma non mi vide, concentrata com’era a far partire la telefonata. «Ehi» disse poi, emozionata, quando l’amica le rispose. Ridacchiarono entrambe. Luce saltellò eccitata sui piedi e si morse le labbra a sangue. Io invece sniffavo il suo profumo e mi sentivo più morto che vivo. Volevo proprio farmela, nella mia mente svanirono i problemi sull’età; immaginai il visetto di lei se l’avessi afferrata e gettata sul mio letto. Mi godetti la scena: avrebbe urlato, io le avrei tappato la bocca; le avrei abbassato i bei jeans e… «Non porta i boxer?» rimase a bocca aperta e io mugolai piano quando pronunciò quella parola.
Annuì con la testa più volte, mentre io fissavo i miei occhi sugli short improponibili che le mettevano in mostra il culo. L’avrei anche inculata, decisi, e la volgarità con cui lo pensai mi fece fremere l’uccello nei pantaloni. «Be’, gli uomini che non li indossano sono sexy» cinguettò lei, scoppiando in una sonora risata. La mia mente registrò il particolare, assetata di conoscenza riguardo a quella ragazzina. Non avrei più infilato un paio di boxer finché lei non mi avesse detto di farlo. Un QI come il mio era raro. Fin da piccolo avevo dimostrato di possedere un’intelligenza intuitiva incredibile, fuori dal comune, e per questo avevo sofferto di forti complessi psicologici. Ne avevo ancora, con l’aggiunta di un grosso problema che ora mi sculettava praticamente in faccia. «No, lui a me non interessa. Non mi piacciono proprio i bambocci.» Luce piegò la testa di lato, per controllare che i genitori non l’avessero scoperta mentre si intrufolava in una camera dove le era stato espressamente detto di non entrare. Mi dava sempre le spalle e io morivo dal desiderio di mettere le mani sul suo corpicino fasciato da un top rosso chiaro. Diedi qualche colpo di nuca alla parete bianca dietro di me. Lei era troppo impegnata a chiacchierare per accorgersi di non essere sola. «Luce?» la chiamò la madre. Brava donna. Lavorava per me insieme al padre. Permettevo loro di usare la mia villa per organizzare eventi particolari e per vedere la figlia, ovviamente. Amavano il teatro e io ne avevo approfittato. Venivo roso dai rimorsi, ma li ignoravo, pensando che non avrei mai e poi mai toccato una ragazzina di quell’età, ma nessuno mi impediva di guardarla e immaginare di farlo. Giusto? La società mi avrebbe definito in vari modi, tra cui c’era una parolina poco simpatica per sottolineare un divario d’età come il nostro. Non era la verità, io non ero attratto dalle ragazzine: io volevo lei, soltanto lei, nessun’altra. «Mamma, arrivo!» replicò prontamente. Sentii i passi della mia dipendente correre verso la camera da letto. La donna aveva capito che la ragazza aveva appena infranto un divieto e si era gettata nella tana del mostro.
«Cosa fai?» Fece capolino nella stanza, l’espressione terrorizzata. «Sto solo parlando con Silvia» rispose lei. E io mi stavo godendo tutta la scena delle sue belle tette che facevano su e giù, con tanto di culo in bella vista. Be’, ero un cazzone fortunato. La sorte mi voleva bene, ma mi faceva sempre altrettanto male. «Fuori di qui.» «Ma perché?» piagnucolò la ragazza. La prese per un braccio e la trascinò via. Anche lei non si soffermò a vedere se fossi presente o meno. Di solito lasciavo detto che ero uscito e di non immischiarsi nelle mie cose, quindi nessuna delle due adocchiò il corpo rigido accanto alla tenda blu scuro della camera. Avrei dovuto cambiare casa, pensai, perché ora la sua immagine mi avrebbe perseguitato. Qualcuno avrebbe definito la vita che vivevo una pallida imitazione di quella di un umano normale, ma io ignoravo le opinioni della gente. Avanzai verso la porta da cui era appena uscita e il suo odore mi colpì forte le narici: un misto tra gelsomino e bagnoschiuma. Chissà quale colonia utilizzava… l’avrei scoperto, decisi. La sentii urlare contro la madre, quando mi accostai allo stipite, e allungai la mano per spegnere la luce. Quando lo feci capii subito di aver commesso un grosso errore, perché Luce se ne accorse. «Ehi, qualcuno ha spento la luce!» «Ma finiscila» la rimproverò la madre. «Niente scuse. Ti avevo espressamente detto di non mettere piede dove non potevi.» Non era una stupida e io le avevo appena dato sul piatto d’argento la possibilità di scoprirmi. «No, mamma, è vero!» continuò imperterrita. Uno schiaffo risuonò per il corridoio. Non avrei voluto che la donna arrivasse a tanto. Avere Luce anche solo per un secondo accanto a me, a portata di mano, mi aveva fatto eccitare come un matto. Non credevo che le sarei mai stato abbastanza vicino da poterla toccare; dovevo ammettere a me stesso che era stato dannatamente eccitante poterla immaginare nuda sul mio letto, mentre si muoveva all’unisono col mio corpo dentro il suo.
Il pensiero mi fece trattenere il respiro e dolere l’inguine. «Queste stupide bugie» la rimproverò anche il padre. Nessuna risposta. Mi rilassai contro lo stipite, spalla contro durezza, e appoggiai la fronte contro la parete. Ascoltare il suono della voce di Luce mi faceva girare strane idee per la testa, pensieri che dovevo assolutamente combattere. Mi disgustavo ed era giusto punire la parte malata di me. Ero consapevole dall’infanzia di avere qualcosa di profondamente differente dagli altri “normali”, tuttavia non credevo di poter provare sensi di colpa per questo. Il suo profumo mi colpì di nuovo con una potenza disarmante. Sgranai gli occhi che si erano persi nel vuoto, a causa del rimuginare continuo del mio cervello. Non mi ero reso conto che si fosse avvicinata alla porta e che avesse sporto la testa per guardare all’interno. Quasi mi sfiorò e io indietreggiai per un attimo, preso alla sprovvista. La parte animale in me gioì della vicinanza e mi ordinò di farmi notare, di scioccarla; l’altra, invece, che ancora manteneva un minimo di morale, mi imponeva di starle alla larga. Dovevo farlo, merda, era soltanto una ragazzina, un esserino indifeso che non aveva niente a che vedere con i mostri nella mia testa. «Che strano…» mormorò. In me si alternarono l’istinto e la ragione. Il cazzo nei pantaloni mi chiese pietà. “Ho bisogno di lei,” sembrava gridare. Non potevo dargli ascolto, Luce aveva quindici anni, quindici! Più ci riflettevo più appariva impressionante il divario e lo sbaglio. Eppure il mio corpo non volle saperne: la mia mano corse ad afferrarla. Lei si irrigidì, quando si sentì agguantare da qualcosa nell’oscurità. I suoi occhi non si erano ancora abituati al passaggio dalla luce all’ombra, così ne approfittai per attirarla verso di me e stringerla forte tra le braccia. Solo questo, mi consolavo, non avrei fatto altro che abbracciarla e annusarla. Mi sarebbe bastato. Invece no, l’attrazione per lei divenne insopportabile, e dovetti chinarmi per appropriarmi delle sue labbra: dio, erano così morbide! Il contatto la fece sobbalzare. Mi respirò addosso e io mi inarcai contro di lei, come una bestia affamata del suo sesso. Volevo scoparmela e volevo che lo sapesse, desideravo che capisse e ne fosse schifata. Infatti Luce boccheggiò in cerca di ossigeno quando le morsi il labbro inferiore e iniziò ad ansimare di paura. «Oddio» borbottò, quando ripresi a baciarla.
Superati i trent’anni, gli adolescenti avevano smesso di attrarmi, soprattutto i maschi. Mi piacevano giovani, ma non così giovani come Luce. Amavo fottere, sentire l’uccello entrare nei loro corpi mentre godevano nel vedermi dominante, diverso… mi dava alla testa la sensazione di potere. Con le donne non era lo stesso: erano nate per accogliere il corpo di un uomo, ma per i maschi era una vera violazione fisica. Io collezionavo violazioni nel mio bagaglio sessuale, eppure l’orgasmo per me era una meta difficoltosa da raggiungere. Avevo provato di tutto, ma dover ammettere che il coinvolgimento mentale non era una mia prerogativa, faceva male. Esplodere, sentire il corpo tendersi e andare in mille pezzi, non mi era permesso. Fin da piccolo io avevo dovuto tenere ogni cosa sotto stretto controllo per non perdere me stesso. Eppure da quando avevo scorto Luce correre verso di me non avevo pensato ad altro, convinto che lei avrebbe saputo farmi smarrire. Purtroppo l’intuizione era stata giusta: il mio cazzo aveva preso il sopravvento sul resto, il mio cervello continuava a fare lunghe pause di funzionamento. Altro che quoziente intellettivo fuori dalla norma! Non si scostava, lei rimaneva ancorata contro di me, le sue labbra schiuse contro le mie. Ero tentato di affondare la lingua nella sua bocca e pretendere una risposta, ma il combattimento era ancora in corso dentro di me. Le braccia si mossero da sole a stritolare quel corpicino morbido. «Chi… chi sei?» farfugliò ansimante, mentre io mi riappropriavo delle sue labbra e decidevo di sconvolgerla del tutto. Parlare era inutile. Il novanta per cento delle persone si basava sulle espressioni altrui per capire gli stati d’animo, perciò ritenevo che comunicare con la voce fosse una perdita totale di tempo. Tuttavia lei non poteva vedermi e io ringraziai la mia fortuna sfacciata perché in quel modo non avrebbe mai potuto riconoscere in me il mostro che la stava seducendo. Non le risposi e mi limitai a infilarle la lingua in bocca. Le mie mani scesero sui glutei, fasciati dagli short, e la attirarono proprio contro l’erezione. Lei gemette, costretta dalla mia forza a starmi addosso e a sentirlo tutto. All’inizio parve sconcertata dalla sorpresa, ma poi si fece curiosa, e fu proprio quello a farmi capitolare. Era femmina, puramente donna in quel corpo da bambina cresciuta, e aveva intuito quanto la desiderassi: le dava alla testa, e anche a me.
Luce trattenne il respiro. Sì, era bello essere desiderate da uno sconosciuto; avrebbe avuto qualcosa da raccontare alle sue amichette. Lo stava pensando, era un libro aperto per me, e io ne approfittai per infilare una mano tra noi e risalire sul suo stomaco. Volevo stringerle il seno nel palmo, sentirlo mentre si modellava a me e si sottometteva al mio tocco. La sentii mentre riprendeva fiato e cercava di non soccombere al battito forsennato del suo cuore. Anche il mio era fuori controllo. L’ombra mi piaceva, il buio mi permetteva di non farmi guardare per quello che ero. Valutai l’oscurità. Scopare senza poter vedere di solito mi eccitava, ma adesso aveva assunto un significato nuovo a causa sua. «Luce!» la chiamò suo padre. «Luce, non sarai uscita in cortile a fumare, vero?» Si irrigidì quando assorbì le parole del genitore. Io lo maledissi per la prima volta da quando lo conoscevo. Le morsi di nuovo le labbra, per non farla distrarre, ma ormai si era spostata su un altro mondo, lontano da me. Scivolò via dal mio abbraccio e io le permisi di farlo, anche se dovetti fare leva sul mio buon senso. «Stammi alla larga» la sentii mormorare prima di uscire dalla stanza. «Hai capito? Ti denuncio se ti avvicini un’altra volta a me.» Sorrisi, ma lei non poté vedere il mio sorrisetto divertito. E così la bimba aveva voglia di sfidarmi. Non sapeva che potevo averla quando volevo, mi sarebbe bastato schioccare le dita per farle aprire le sue belle cosce e tuffarmici dentro. Un moto improvviso di rabbia per quella minaccia mi fece vedere rosso. Cazzo! Non ero proprio abituato a essere rifiutato, soprattutto quando si trattava di sesso. Uomini e donne smaniavano per potermelo succhiare, viste le dimensioni, e quella ragazzina si permetteva addirittura di darmi ordini. Da quando non desideravo più parlare con un essere umano? Forse dalla fine dell’università, che avevo finito in largo anticipo rispetto agli altri. Studiare all’estero ti dava buoni margini di crescita intellettuale. «Ti scoperò lo stesso» sussurrai, sorpreso dal sentire la mia voce. Avevo quasi dimenticato il tono. «Vaffanculo, brutto pervertito» rispose lei. Il mio uccello era ancora sveglio là sotto e quando lei mi parlò in quel modo ebbe solo l’effetto di farmelo indurire di più con una contrazione dolorosa. I boxer me lo
stringevano e congestionavano, dovevo darle atto che un uomo senza intimo aveva il suo fascino. «Ti voglio» ripetei. Allungai la mano verso di lei e la agguantai. Luce si guardò alle spalle, nella speranza forse di vedere qualcuno, poi tornò a fissarmi. Sbatté le palpebre, disperata perché la luce esterna non era sufficiente per riuscire a mettermi a fuoco. Ero soltanto un’ombra. «Sei un maniaco, ecco cosa…» Non la feci finire. Aveva ragione lei: ero uno sporco maniaco ossessionato dalla sua bocca che immaginavo sul mio corpo in ogni minuto della giornata. Mi rifiutavo di avvicinarla e ne soffrivo. Scopare aveva perso il suo gusto da quando desideravo lei. Ogni uomo o donna che mi portavo a letto aveva il suo odore e la sua immagine. Socchiudevo gli occhi e fantasticavo sui modi in cui l’avrei posseduta e fatta gridare di piacere. La riportai contro di me e le affondai il viso tra i capelli, inspirandone la fragranza di gelsomino. Cercò di divincolarsi ma, quando le chiusi i polsi tra le mani, smise di muoversi convulsamente e attese. Le portai il dorso sulla mia bocca e la baciai. «Sono il tuo schiavo» bisbigliai, sconvolto io stesso da ciò che le avevo appena detto. «Non… non capisco» sbottò. «Io non… non ti conosco» terminò a fatica. Ed era meglio per lei non conoscermi, non sapere nulla di me. La bestia affamata stava prendendo le redini della ragione. La volevo e questo mi faceva superare i confini del lecito, com’era sempre stato per me. La mia mano tremò, quando mi resi conto del modo in cui la stavo trattando, e riuscii a rintanarmi in quello sprazzo di lucidità che mi diceva di stare sbagliando. Rimasi in silenzio e la lasciai andare. Mi immersi di nuovo nel buio della camera da letto, sperando che lei non accendesse la luce. Tuttavia non lo fece, era troppo spaventata per pensare di farlo, e scappò via da me. Respirai forte, dandomi dello sciocco. Era uno sforzo per me trattenere gli impulsi fisici inarrestabili. Ero un fottuto genio, ma gli istinti rappresentavano la mia unica
debolezza, perché erano rari, e io ricercavo il genere di sensazione capace di farmi uscire fuori di testa. In Luce c’era tutto ciò che avevo sempre desiderato, ma ancora non ne capivo bene le ragioni. «Si può sapere dove ti eri cacciata?» la rimproverò la madre. «Fatevi gli affari vostri. E poi… di chi cazzo è questa casa? Perché siamo venuti qui?» Chiusi gli occhi quando pronunciò la parola “cazzo”. Dio, riconobbi di essere malato di lei, perché la immaginai con la mia erezione tra le mani, mentre pronunciava proprio quella parola. «Non è casa tua, questo sembri non averlo capito» riprese la madre. Erano persone rispettose, non come la loro figlia, che amava ribellarsi e fare di testa propria. Nell’oscurità della mia camera da letto decisi che per niente al mondo l’avrei dovuta incontrare una seconda volta, quantomeno trovarmi con lei in un minuscolo spazio vitale per non rischiare di commettere imprudenze. Questo non aiutò affatto la mia ossessione per lei a venire meno. Con gli anni divenne un mostro pronto a inghiottirmi. Non c’era più sapore nella mia vita di merda, perché lei era lontana, ma abbastanza vicina per poterla tenere sotto controllo. Questo mi distruggeva. Così presi una decisione… l’avrei avuta, ma non alle solite regole, perché smaniavo che lei mi conoscesse, tuttavia non volevo essere io l’uomo di cui si sarebbe innamorata. Quello, decisi, doveva essere migliore. Stavo cadendo in un baratro, un assordante vuoto dove la mia voce era scomparsa e l’uomo che ero diventato camminava per la strada come l’ombra di se stesso. Esistevo, ma in realtà avevo smesso di vivere. Luce, però, continuava a perseguitarmi. Dovevo aspettare che lei crescesse e fosse abbastanza grande per poter mettere da parte il cocente senso di colpa che mi dilaniava ogni volta che immaginavo di scoparmi quel corpicino morbido e invitante. Combattere contro i miei desideri fu un’esperienza nuova ed esasperante. Feci in modo che lei non si avvicinasse mai a nessun uomo e non fu difficile. I suoi genitori morirono a distanza di poco tempo e lei rimase orfana. Come un cavalier servente della peggior specie mi presi cura di lei, da lontano, senza mai intervenire direttamente, ma giocando con la sua vita. Se avesse saputo, ero certo che mi avrebbe odiato. La osservavo con maniacale costanza. Avrei persino nascosto una telecamera nella sua camera da letto, se
all’ultimo momento non mi fossi reso conto di quale tormento avrebbe rappresentato per me vederla spogliarsi senza poterla avere. Quella era una malattia mentale da curare, una perversione che mi sarebbe costata cara agli occhi della società e di chiunque ne fosse venuto a conoscenza. Per la prima volta avevo pietà di me stesso, ma non sarei più riuscito a rinunciare a lei.
1
Oggi. Luce
Sparito. Dio come lo odiavo quando si comportava così! Non riuscivo a capirlo. Battei i piedi come una bambina sul pavimento, per sfogare il cattivo umore. Se n’era andato, immaginando chissà cosa di quegli stramaledettissimi fiori di cui non sapevo neanche il mandante. Provai a chiamarlo, ma non rispose. Ero decisa a uscire di casa e correre da lui, ma un pensiero tra i tanti mi bloccò. Efrem non era un uomo qualunque e mi sfuggivano le sue reazioni. Era geloso? Di me? La felicità mi esplose nel petto quando realizzai che probabilmente aveva pensato il peggio. Sedetti prima di poter cadere come un sacco di patate sul pavimento; le ginocchia mi tremavano. Il possesso era un sentimento pericoloso, perché poteva rappresentare un coinvolgimento maggiore da parte sua. La testa prese a girarmi quando ricordai il suo sguardo sconvolto e sofferente. Le sue parole mi avevano distrutta. Non poteva credere che ci fosse spazio per altri, quando mi ero innamorata perdutamente di lui. Sospirai, stancamente. «Mi ucciderai» sussurrai al cellulare che aveva appena ricomposto il suo numero. Lo amavo così tanto! Sentivo il cuore sanguinare nel petto all’idea che potesse odiarmi; avevo bisogno di lui, un bisogno che andava oltre la razionalità. Ero pazza di Efrem Rossini, e non solo a parole.
Pensai a quando avevo scoperto chi si celava dietro l’uomo nell’ombra. Sì, sarei dovuta scappare via, lontano da un malato simile; l’idea era stata rifugiarmi in qualche Paese dove non avrebbe potuto raggiungermi e dimenticarmi di lui. E poi… ero tornata. Dopo una breve vacanza trascorsa in Messico, ero ritornata in Italia. «Volevo te. Io volevo soltanto te» bisbigliai. Stavo piangendo. Non mi ero resa conto che le lacrime avevano preso a scendere copiose sulle mie guance. Non ero abbastanza forte per allontanarmi da lui e questo mi destabilizzava. Era amore, inutile rifiutarlo, ma c’era dell’altro: Efrem mi aveva contagiato con la sua malattia. La mia vita era un disastro di dimensioni cosmiche da quando ne faceva parte. Tutto ciò che lui viveva era diverso. Non era un’esistenza normale la sua. Il solo fatto che non parlasse – se non con me – rappresentava una delle cose più strane in lui; senza considerare le sue relazioni con uomini e donne indifferentemente. Mi portai una ciocca di capelli dietro l’orecchio, mentre premevo di nuovo il pulsante della chiamata. L’avrei tormentato fin quando non mi avesse risposto. Rispose, ma non disse niente. «Efrem» lo chiamai, nella speranza di sentire la sua voce, ma lui non fiatò, segno di quanto dovesse essere furioso. «Efrem» ripetei. «Non c’è nessun altro.» Stavo piangendo, oddio, e lui stava ascoltando in diretta la mia disperazione, la mia disfatta. Volevo dirglielo di nuovo… ne avevo bisogno. Tirai su col naso, ma non servì, perché respirare era diventato faticoso con le narici tappate. Le lacrime, intanto, non mi lasciavano tregua e i singhiozzi erano piuttosto rumorosi. «Io sono innamorata di te» gracchiai e la mia voce ne uscì roca e sofferente. «Non può esserci nessun altro. Tu…» Smisi di parlare per riprendere fiato con la bocca. Fui tentata di asciugarmi il naso col lenzuolo, ma rinunciai. Solo da bambina l’avevo fatto due o tre volte e mia mamma mi aveva sempre sgridata. «Tu sei tutto per me» sbottai e il pianto aumentò, proruppe fuori di me come uno tsunami, ma di emozioni, per quello che stavamo vivendo insieme e che non potevo capire di lui: gli scatti d’ira, la violenza rabbiosa, gli spettacolini con altri uomini o
donne, la gelosia immotivata, il suo carisma dominante, i silenzi assordanti. Tutto insieme era diventato insopportabile per me: ero solo una ragazza, in fondo, che fino a qualche anno prima sognava ancora il principe azzurro e credeva nelle favole. «Io…» proruppe lui, finalmente. «Voglio solo te» lo interruppi. «Dimmi come posso dimostrartelo, perché non ce la faccio più. Capisci? Sono un essere umano anche io e non capisco cosa vuoi davvero da me.» Ecco, glielo avevo detto. Io avevo messo in chiaro i miei sentimenti, ma lui si comportava spesso come se fossi un oggetto, oppure una proprietà di cui sbarazzarsi a tempo debito. Sospettavo che fosse confuso riguardo ai suoi sentimenti e che metterlo alle strette non fosse la cosa migliore, ma ora non ero dell’umore adatto per ragionare. In me si alternavano angoscia e tristezza. «Luce» pronunciò e io chiusi la bocca, dopo un ansito roco di sofferenza. «Lo sappiamo entrambi» mormorò. «Io non vado bene per te.» Se qualcuno mi avesse pugnalato al cuore in quell’esatto istante, mi avrebbe fatto meno male delle sue parole. Lui, cosa? Dopo tutto quello che aveva fatto per farmi avvicinare a sé, dopo avermi ricattata, pretesa, scopata, lui… «Sta’ zitto» lo accusai. «Dimmi piuttosto che non mi vuoi più e non trovare scuse di merda.» Ero furiosa. La disperazione si stava trasformando in incredulità. Non ero stupida e odiavo il fatto che lui credesse di sapere cosa fosse meglio per me, cosa dovessi fare per stare bene. «Aprimi.» Cosa? Quando chiuse la chiamata, la confusione mi sommerse. Efrem poteva entrare nel mio appartamento; se fosse stato fuori si sarebbe di certo arrogato il diritto di entrare. Forse non avevo compreso l’ultima parola o forse ero impazzita e mi aveva sbattuto il telefono in faccia per non starmi più a sentire mentre blateravo stupide frasi d’amore per lui. Perché di questo si trattava, puro e semplice amore. Mi alzai, barcollante, decidendo di dare una sbirciatina dallo spioncino della porta. Ero bravissima a rendermi ridicola, ma almeno non ci sarebbero stati spettatori ad
applaudire la mia stupidità. Così accostai l’occhio alla porta, per vedere se Efrem fosse davanti all’ingresso. Non lo vidi. Abbassai lo sguardo sul cellulare e scoppiai a piangere. Io… io… oh, quanto lo amavo! Ma perché doveva essere così difficile! Era un uomo splendido sotto tanti punti di vista e proprio mi sfuggiva il motivo per cui doveva complicarsi la vita in modo tanto assurdo. Feci per ritornare in camera mia con la coda tra le gambe, quando sentii bussare. Mi precipitai sulla maniglia come se non avessi mai voluto altro dalla mia esistenza che aprire una dannata porta, e la spalancai. Efrem era lì, fuori, ansimante, come se avesse appena finito di correre. Ed era l’uomo più bello che io avessi mai visto. Mi gettai contro di lui, sperando non mi rifiutasse, ma non lo fece: mi abbracciò stretta e affondò il viso tra i miei capelli. Avrei voluto prenderlo a pugni. «Ti prego» gli dissi, sulla camicia bianca inamidata. «Non parlare più a sproposito. Non è da te.» Sussultò quando lo accusai di ciarlare a vanvera e poi mi aggrappai alla sua giacca, ora stropicciata. Non era un uomo perfetto, rappresentava ciò che di più lontano avrei pensato per me, ma volevo amarlo, e tanto bastava per farmi impegnare in quella relazione mai noiosa. Lo presi per mano e lo portai dentro, richiudendo la porta. Forse avrei dovuto spiegargli che quei fiori non erano il regalo di un amante, ma, dal modo in cui stringeva le sue dita nelle mie, avevo la sensazione che avesse capito. Provai a frenare le lacrime e riuscii a tranquillizzarmi grazie al silenzio di Efrem. Lui rimase solido vicino a me, con le sue vibrazioni tranquille, e io mi acquietai. Tornai a guardarlo, per sincerarmi che stesse bene, ma no, mi stavo sbagliando: era visibilmente provato e distrutto. Il suo viso, di solito sempre così calmo da farmi quasi rabbia, era un fascio di tensione. Sembrava un uomo che non dormiva da giorni e che si era lasciato andare, dimenticando persino di vivere. «Sai che…» Ma non mi fece terminare. Mi strinse a sé e mi cercò la bocca. Gli permisi di baciarmi, anche se dentro di me speravo non si spingesse oltre. Non potevo farmi sedurre da lui ancora una volta, avevamo bisogno di chiarirci. Il sesso era fantastico,
ma non sufficiente a farci prendere atto di ciò che stava accadendo. Ero stata travolta da Rossini ed ero pronta a tutto pur di poter dire al mondo che quell’uomo mi apparteneva. Mi morse il labbro superiore, succhiandolo, ma io, per la prima volta da quando cercavo di resistergli, ero lontana, persa nei miei pensieri. Presi una decisione difficile, tuttavia era l’unica soluzione possibile dopo quanto successo. Non c’era altro modo per far entrare Efrem nella mia vita. «Sposami» borbottai quando si scostò per respirare, pronto a divorarmi. La mia frase lo fece bloccare di colpo. Il suo respiro mi solleticava la fronte, mentre io mi abbassavo sui talloni e tornavo alla mia solita altezza. Scosse la testa, come per schiarirsi le idee, e io mi ripetei, per non lasciare adito a dubbi. «Sposami, Efrem. Se non credi a me, credi a questo. Sposami e io sarò tua. Non dovrai dividermi con nessuno… e io non dividerò mai te con altri.» Lui impallidì. Non fu un buon segnale e la voglia di piangere tornò a farsi sentire. Lo scrutavo negli occhi glaciali e lo sentii forte dentro di me: si stava allontanando. Non era una persona a cui piaceva essere messo alle strette e io l’avevo appena fatto. Mi morsi a sangue l’interno della guancia, sperando di non vederlo scappare via di nuovo: questa volta non avrei sopportato il duro colpo. Non parlò, ma si chinò verso di me e fece spallucce, senza staccare lo sguardo dal mio. Mi fece “no” con la testa, senza però rispondere. La sua espressione valeva più di quell’unica parola: non aveva alcuna intenzione di legarsi a me. Altra pugnalata. Il mio cuore stava grondando dolore adesso, non erano più soltanto gocce, ma un fiume in piena. Era così facile per lui rifiutare il nostro “per sempre”? Allora non era coinvolto come pensavo. Cercai di allontanarlo, per riprendere fiato dopo la delusione. Ero ancora confusa. Forse aveva ragione: non eravamo adatti per stare insieme. Lui era un uomo dagli appetiti notevoli e anche alternativi rispetto ai miei; sempre alla ricerca dell’estremo, dell’esagerazione, e poi i suoi modi dominanti, così illogici e insopportabili… probabilmente ora continuavo a esserne attratta perché non li comprendevo appieno, ma una volta assorbiti mi avrebbero portato a un inevitabile allontanamento esasperato.
Sì, mi convinsi, Efrem aveva ragione, eravamo ciò che di più illogico potesse esserci in una coppia. La consapevolezza fu dura da sopportare. La differenza di età, poi, non aiutava certo a farmi credere di poter diventare la sua donna ideale. Ero una ragazzina in confronto a un uomo navigato e con tante esperienze come lui. Scioccata dal flusso di coscienza distruttivo che mi aveva travolta, mi irrigidii, prima di prendere coscienza di trovarmi stesa sul letto, mentre le mie mani scorrevano sulla sua schiena fino a stringergli i glutei stretti nei pantaloni. «Non voglio giustificarmi» mi disse all’orecchio, mentre altre lacrime scendevano sulle mie guance. Non potevo umiliarmi a tal punto. Non gli avrei lasciato il potere di distruggermi. Anche se lo amavo… anche se avrei fatto di tutto per lui… non potevo perdere la dignità così. «Certo, per quale motivo dovresti farlo» lo accusai. Il suo profumo mi piaceva da morire. Lo annusai prima di fare leva su tutto il mio coraggio per allontanarlo. Efrem rimase stupito da quella presa di posizione e ignorò la spinta. Mi bloccò contro le coperte e prese a baciarmi il collo: passionale, lascivo, dominatore, proprio come mi faceva perdere la testa. Un brivido di desiderio mi scosse tra le cosce. Mi stavo bagnando per lui. «Basta, smettila!» Urlai. Maledette lacrime! Mi rendevano così debole. Non mi meritavo un trattamento simile, gli avevo donato tutta me stessa e continuavo a farlo. Non riuscivo a credere che lui non comprendesse quanto stessi soffrendo. Efrem si mise in ginocchio e si tolse la giacca. Prese a sbottonarsi la camicia e a guardarmi come se non desiderasse nient’altro sulla faccia della Terra. Doveva finirla di fissarmi in quel modo, capace di farmi sciogliere e dimenticare perché stavo soffrendo tanto. «Sei completamente pazzo, tu sei malato» lo insultai, piegando le braccia sul viso per coprirmelo e celargli il mio dolore. Lui si alzò, giusto il tempo per togliersi i pantaloni: prima la cinta che li chiudeva, poi i calzini, infine sentii il rumore della stoffa scendere sulle gambe, poi più giù. Non mi mossi, ancora stesa sulle coperte, non avrei mai trovato la forza per farlo. Alla fine tornò da me e prese a spogliarmi.
Avevo ancora addosso la camicia da notte, mi ero svegliata tardi, vista la notte insonne. Speravo fosse soltanto un incubo, ma non lo era: Efrem voleva scoparmi. Ecco la verità, voleva solo scoparmi, senza pensare alle conseguenze. Mi sollevò il cotone sulle cosce e, ignorando volutamente le mie deboli proteste, mi tolse gli slip di pizzo. Lo volevo, ma allo stesso tempo l’idea di abbandonarmi al desiderio mi faceva provare disgusto verso me stessa. Provavo uno sconforto disarmante, perché Efrem non riusciva ad aprirsi davvero con me. Era tutta un’illusione, anche il fatto che mi rivolgesse la parola lo era: un’esca per tenermi con sé fino al momento in cui si sarebbe stancato di avermi attorno. Trattenni a stento altre lacrime, per non mostrargli quanto mi avesse ferita il suo rifiuto. Ogni sua più piccola reazione aveva il potere di farmi male. «Luce» sussurrò il mio nome, mentre le sue mani mi accarezzavano le cosce e risalivano sulla curva dei fianchi. «Sta’ zitto» mormorai, furiosa con me stessa. Quell’uomo aveva troppo potere su di me, troppo. Mi schiuse le cosce e, senza neanche un minimo dei preliminari consolatori, si sistemò tra queste. Era facile per lui penetrarmi, mi trovava sempre bagnata. Dopo una spinta in avanti si fece largo dentro di me con la sua grossa erezione. Il mio corpo esultò, mentre la mia anima invece venne dilaniata dell’ennesima dimostrazione che lui fosse il diavolo in persona per una stupida come me. Non un gemito di soddisfazione, non un ansito… oh, che stronzo! Avrei voluto picchiarlo e dirgli quanto mi facesse soffrire questo suo essere sempre distaccato e tutto d’un pezzo. Lo volevo animale, così da provare ribrezzo per lui e nausea mentre mi violentava l’anima con il suo cazzo. «Ti odio» bisbigliai. Pensai di dover sopportare le sue spinte e arrendermi all’orgasmo. Era bellissimo il modo in cui si muoveva dentro di me, mi faceva impazzire. La semplicità con cui si prendeva ciò che voleva, con una decisione tutta virile, avrebbe fatto vergognare qualsiasi altro uomo di avere lo stesso organo genitale tra le gambe. Efrem era un cultore del sesso e lo usava come arma. Tuttavia non si mosse. Mi tesi quando mi accorsi che lui non stava affondando dentro di me. Le mie braccia corsero a stringerlo forte, il panico mi fece boccheggiare
in cerca di ossigeno, così lo cercai… i suoi bellissimi occhi mi fissarono da sotto le ciglia. L’espressione seria con cui mi fissava ebbe il potere di farmi contrarre l’esatto punto in cui i nostri corpi si univano. Socchiuse le palpebre quando quello spasimo di piacere mi fece rabbrividire: lo aveva sentito. Si sistemò in modo da non pesare sopra di me; impossibile, ma riuscì comunque a permettermi di respirare e tanto mi bastava. Percepire il suo corpo marmoreo contro il mio, morbido, mi faceva provare uno strano senso di protezione, e in quel momento ne avevo bisogno. Dopo due minuti, mi chiesi il motivo per cui Efrem non si stesse prendendo niente da me. Gli portai il palmo sulla curva della schiena nuda, infine sul gluteo. Erano rare le volte in cui si spogliava tutto, ma il suo corpo era nato per essere ammirato. Quando lo toccai si irrigidì, ma non disse niente, si fece semplicemente esplorare da me. Mi feci più ardita e mi mossi sotto di lui, andandogli incontro. Nemmeno in quel momento lui decise di spingere. Allora gli passai le unghie sulla pelle della schiena, arrivai fino alle spalle e gliele artigliai. «Scopami» gli ordinai. Accusarlo di insensibilità sarebbe stato facile a quel punto. Tuttavia Efrem non fece niente, affondò la testa nel cuscino, dove anche io ero appoggiata, e sembrò smettere di respirare. Le mie dita corsero tra i suoi capelli e glieli tirarono per farlo reagire, ma lui, no, lui niente, rimaneva fermo, come se io non ci fossi. Non parlava, non reagiva, era un corpo dentro il mio. Lo morsi, con tutta la rabbia che avevo verso quell’amore ingiusto; lo morsi sulla spalla, affondai i denti nella sua carne. Sussultò, tuttavia non fiatò. Avrebbe potuto lamentarsi dal dolore, ma non lo fece. “Efrem,” pensai. “Non farmi questo.” Le sue stranezze si moltiplicavano e il mio amore per lui cresceva. Leccai subito la ferita inferta, baciandola, facendomi perdonare per essermi permessa la libertà di fargli male, ma lui ne aveva fatto altrettanto a me. Mi concentrai sulla sua erezione, dura, dritta, ancora dentro di me. Nessun uomo sarebbe mai riuscito a controllarsi in quel frangente, ma Efrem non era come gli altri. L’avevo capito dal primo istante che mi aveva toccata, il mio uomo nascosto
nell’ombra, dal primo momento in cui mi aveva guardata davvero, mentre si scopava uno dei suoi amichetti. «No, non ti odio» sussurrai, sconfitta. «Ma vorrei tanto riuscire a farlo.» Respirai il suo odore ancora e ancora, fino a pensare che non avrei più potuto farne a meno. Continuai a leccarlo, la pelle marmorea, glabra della spalla, fino a che lui non mosse piano la testa e io mi fermai. Un movimento finalmente. Adocchiai la sua guancia, ora rivolta verso di me. Mi piegai per arrivare a dargli un bacio. Gli stava ricrescendo la barba. Lo trovai sensuale, perciò strofinai il naso sulla sua pelle. Ci respirammo e fu un’emozione unica unire i nostri respiri. Soffermai lo sguardo sulle labbra e poi risalii verso le iridi ghiacciate che mi stavano osservando. Sistemai le spalle meglio sul cuscino e sentii la sua erezione fremere nel mio corpo. Socchiusi le palpebre e sostenni il suo sguardo. L’immobilità in cui mi costringeva stava iniziando a innervosirmi. Così mossi il bacino verso di lui e questo mi strappò un ansito piacevole. Il bastardo sapeva come mi sarei mossa e premeva proprio nel punto che mi piaceva di più. Sorrise quando notò il mio sconforto. Stavo per esplodere dalla frustrazione. Premetti di nuovo le unghie nella sua carne e gemetti, stavolta rumorosamente. Volevo gridargli contro di finirla di tormentarmi e concludere quello che aveva iniziato, ma l’unica cosa che uscì dalle mie labbra fu un singhiozzo stravolto. Chiusi gli occhi, sconfitta. Rilasciai il respiro, sapendo che non avrei mai potuto competere con lui, e in un istante mi ritrovai a dover trattenere l’aria. «Oddio!» sbottai, quando affondò fino in fondo dentro di me, con una spinta violenta. Le mie unghie divennero un tutt’uno con il muscolo del suo avambraccio. Mi premette la bocca sull’orecchio e col suo alito caldo mi fece quasi venire. «Non posso portarti all’inferno con me.» “Muoviti, ti supplico” avrei voluto dirgli, ma ero senza fiato. Volevo che continuasse, che mi dichiarasse con i fatti quanto a parole non riusciva ancora a fare con sincerità: avevo bisogno di sentirmi necessaria per lui.
«Ci sono già» gli confessai. «Da quel giorno nel camerino, ci sono già. Perché non vuoi capirlo?» Lui non diede segni di voler continuare a muoversi e io iniziai a dargli pugni sulla schiena, forse per sfogare il desiderio insoddisfatto, forse per punirlo. Efrem si sollevò di scatto, uscendo da me, e io quasi ricominciai a piangere. Si sedette sul letto, il cazzo paonazzo e bellissimo, proprio come lui. Era a causa di Efrem se osavo esprimermi in quel modo, mi aveva tolto ogni inibizione, mi aveva insegnato l’amore, strappandomi poi la speranza del lieto fine. Ero andata a letto con altri soltanto per dimenticarlo… e in ogni uomo c’era sempre stato lui. Come mi sentivo patetica! «Scopami e basta, fallo come fai sempre» proruppi, pur di non sentire la vergogna cocente dentro di me. Mi ero umiliata per lui, avevo dimenticato cosa significasse il dono prezioso dell’essere donna, di poter scegliere. Gli amanti che avevo avuto non erano un orgoglio per me, perché io ero stata sua dal primo istante, e anche chiedergli di sposarmi non era stata una mossa vincente: l’avevo lasciato, poi rivoluto per me, e trovavo impossibile capirlo appieno. Efrem, però, non mi diede ascolto. Si alzò e mi lanciò un’occhiata carica di un sentimento che non riuscii a decifrare. Mi ero abituata a sentirlo parlare e quindi quel suo ritorno al silenzio mi spiazzava. «Non mi vuoi più?» gli domandai, con voce flebile, per paura di conoscere la risposta. Mi prese il mento tra le dita. Avevo la sua erezione poco lontana dalla mia bocca, avrei potuto chinarmi e… ma lui mi alzò il viso verso il suo e mi guardò con una tristezza tale che minacciò di farmi scoppiare di nuovo a piangere. Mi passò il pollice sulla guancia, poi chiuse gli occhi. Non riuscivo più a respirare. «Efrem, se non mi parli, non ti posso capire.» Prima distese un ginocchio, poi fu il turno dell’altro. Il suo volto ora era poco più in alto del mio, sprofondata ancora sul letto. Lo osservavo affascinata, perché sapevo che non avrei mai più visto in vita mia un uomo simile se lui mi avesse lasciata. Mi strinse le ginocchia tra le mani e poi si piegò per abbracciarmi le cosce. La sua fronte toccò la mia e, quando inspirò, mi parve più di sentire un fremito.
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