La sera in cui trova il cadavere del figlio sulla soglia di casa, l’agente dell’FBI Aloysius Pendergast non ha idea di chi possa celarsi dietro quell’omicidio. Sa soltanto che il messaggio è diretto senza dubbio a lui. Per cercare il suo nemico, Pendergast si concentra sulla gemma rarissima rinvenuta nello stomaco della vittima durante l’autopsia; ma nei luoghi bui della miniera abbandonata dove la pista lo conduce sarà obbligato a fare i conti con un sinistro segreto di famiglia che credeva sepolto. È dunque la vendetta a perseguitarlo? Nella fitta trama in cui l’abile aguzzino stringe Pendergast, sembra intrecciarsi anche l’omicidio di un tecnico di laboratorio del Museo di Storia Naturale sul quale sta indagando il suo amico Vincent D’Agosta, tenente della polizia di New York. E mentre l’agente dell’FBI comincia a soccombere al peso del passato e la sua mente è trascinata in un mondo onirico da incubo, il compito di scoprire quale sia la connessione tra la gemma e i resti umani sui quali stava lavorando il tecnico del museo toccherà alla sua prediletta Constance e alla scienziata Margo. Ma l’enigma non potrà dirsi risolto finché l’ultimo e più importante elemento non avrà preso posto sulla scacchiera. Invischiato in un complotto crudelmente geniale, Pendergast giungerà a verità che mai avrebbe immaginato.
DOUGLAS PRESTON, giornalista del New Yorker, e LINCOLN CHILD, editor e saggista, sono tra le coppie di maggior successo nel panorama del thriller internazionale. I loro romanzi raggiungono regolarmente i primi posti delle classifiche americane e sono pubblicati in diciannove Paesi. Nel catalogo Bur sono disponibili, tra gli altri, Relic, da cui è stato tratto l’omonimo film, Dossier Brimstone, La danza della morte, Il libro dei morti, La ruota del buio e Il sotterraneo dei vivi. I loro ultimi romanzi, pubblicati da Rizzoli, sono L’isola della follia (2010), Sotto copertura (2011), La mano tagliata (2011), Due tombe(2013) e Nel fuoco (2014).
Douglas Preston Lincoln Child
Labirinto blu Traduzione di Barbara Porteri Proprietà letteraria riservata © 2014 by Splendide Mendax, Inc. and Lincoln Child This edition published by arrangement with Grand Central Publishing, New York, New York, USA. All rights reserved. © 2015 RCS Libri S.p.A., Milano eISBN 978-88-58-68020-9 Titolo originale dell’opera: BLUE LABYRINTH Prima edizione digitale 2015 da edizione Rizzoli maggio 2015 Per le citazioni all’interno del libro: © William Shakespeare, La tempesta, a cura di Rocco Coronato, traduzione di Gabriele Baldini, Rizzoli BUR, Milano 2008; © Sofocle, Antigone. Edipo Re. Edipo a Colono, a cura di Franco Ferrari, Rizzoli BUR, Milano 2004; © Edgar Allan Poe, Il corvo. La filosofia della composizione, a cura di Mario Praz, Rizzoli BUR, Milano 2008; © Lorenzo Da Ponte, Tre libretti per Mozart, introduzione di Luigi Lunari, a cura di Paolo Lecaldano, Rizzoli, Milano 2002. Questo libro è il prodotto dell’immaginazione degli Autori. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono fittizi. Ogni riferimento a fatti o a persone reali, viventi o scomparse, è puramente casuale. Realizzazione editoriale:Librofficina, Roma In copertina: fotografia © Keith Skelton Photo / 500Prime Art Director: Francesca Leoneschi Graphic Designer: Giovanna Ferraris / theWorldofDOT www.rizzoli.eu Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Labirinto blu Lincoln Child dedica questo libro a sua figlia Veronica Douglas Preston a Elizabeth Berry e Andrew Sebastian
1 L’imponente villa in stile Beaux-Arts che si trovava in Riverside Drive, tra la 137 e la 138 Strada, era in perfette condizioni ma sembrava disabitata. In quella serata di giugno, con il temporale che imperversava, nessuno passeggiava sul terrazzo affacciato sull’Hudson e dalle finestre a bovindo non proveniva alcun bagliore. L’unica luce era quella nel portico d’ingresso. Tuttavia, l’apparenza può ingannare – a volte di proposito. Perché l’891 di Riverside Drive era la residenza di Aloysius Pendergast, agente speciale dell’FBI, il quale teneva alla propria privacy più che a ogni altra cosa. a
a
Pendergast era seduto in una poltrona di pelle nell’elegante biblioteca della casa. Malgrado l’estate fosse cominciata, la serata era fredda e un debole fuoco scoppiettava nel caminetto. L’agente sfogliava una copia del Man’yoshu, la celebre antologia di antiche poesie giapponesi risalente al 750 d.C. Sul tavolino accanto a lui erano appoggiate una teiera di ghisa tetsubin e una tazza di porcellana quasi piena di tè verde. Nulla disturbava la sua concentrazione, solo il crepitio delle fiamme e il boato sporadico di un tuono al di là delle imposte chiuse spezzavano il silenzio. Sentì un leggero rumore oltre la porta, e subito dopo la figura di Constance Greene si stagliò sulla soglia della biblioteca. Indossava un abito da sera di taglio semplice, gli occhi viola e i capelli scuri, pettinati in un caschetto classico, accentuavano il pallore del suo viso. In mano teneva un fascio di lettere. «La posta» annunciò. Pendergast inclinò la testa di lato e chiuse il libro. Constance si sedette vicino a lui. L’agente sembrava tornato in forma dopo il rientro da quella che definiva «l’avventura in Colorado», ma le sue condizioni mentali erano state per Constance fonte di inquietudine, visti i terribili eventi dell’anno precedente. Iniziò a selezionare la corrispondenza per lui, mettendo da parte le lettere prive d’interesse: Pendergast non amava perdere tempo con i piccoli dettagli quotidiani. Si affidava a un vecchio e riservato studio legale di New Orleans, da tempo al servizio della famiglia, per il pagamento dei conti e la gestione di parte del suo notevole patrimonio, mentre una banca newyorkese, egualmente prestigiosa, gestiva gli altri investimenti, i fondi e i beni immobiliari. La corrispondenza veniva recapitata a una casella postale che Proctor, autista, factotum e guardia del corpo di Pendergast, controllava regolarmente. Al momento, però, Proctor era in partenza per l’Alsazia, dove vivevano alcuni parenti, e Constance aveva accettato di occuparsi della posta. «C’è un biglietto di Corrie Swanson.» «Aprilo, per favore.» «Ha allegato la fotocopia di una lettera del John Jay College: la sua tesi ha vinto il premio Rosewell.» «Lo so, ero presente alla cerimonia.» «Sono certa che Corrie ha apprezzato che ci fossi.» «Capita di rado che una cerimonia di laurea offra qualcosa di più di una soporifera sfilza di falsità e luoghi comuni sulle noiose note di Pomp and Circumstance .» Pendergast sorseggiò il tè. «Ma quella è stata diversa.» «E c’è una lettera di Vincent D’Agosta e Laura Hayward.» Con un cenno del capo la incoraggiò a proseguire. «Si tratta di un biglietto di ringraziamento per il regalo di nozze e per la cena. Di nuovo.» Pendergast chinò la testa di lato mentre Constance metteva da parte la missiva. Un mese prima, la sera precedente il matrimonio di D’Agosta, Pendergast aveva organizzato una cena privata per la coppia, occupandosi personalmente della 1
preparazione di una gran varietà di piatti che aveva accompagnato con vini pregiati della sua cantina. Era stato proprio quel gesto a convincere Constance che Aloysius si fosse ripreso dal recente trauma. La donna scorse le poche lettere rimaste, mise da parte le più importanti e gettò le altre nel fuoco. «Come procede il progetto?» le chiese Pendergast, versandosi un’altra tazza di tè. «Molto bene. Proprio ieri ho ricevuto un pacco dalla Francia, dall’Ufficio anagrafe di Digione, e sto cercando di integrarlo con il materiale arrivato da Venezia e dalla Louisiana. Quando avrai tempo, ho un paio di domande da porti su Augustus Robespierre St Cyr Pendergast.» «La maggior parte di quello che so proviene da racconti orali della storia di famiglia: favole, leggende e alcuni episodi raccapriccianti sussurrati a bassa voce. Mi farebbe piacere condividerne una parte con te.» «Una parte? Speravo mi raccontassi tutto!» «Temo che negli armadi della famiglia Pendergast ci siano alcuni scheletri che nemmeno tu dovresti conoscere.» Constance si alzò sospirando. Mentre Pendergast tornava al suo libro di poesie, la donna uscì dalla stanza e attraversò la sala dei ricevimenti, dov’erano allineate diverse teche piene di oggetti bizzarri, per entrare in un lungo ambiente buio con pannelli di quercia alle pareti. Un grande tavolo di legno occupava quasi per intero la stanza. L’estremità più vicina era ingombra di giornali, vecchie lettere, rapporti di censimento, fotografie e incisioni ingiallite, trascrizioni del tribunale, memoriali, ristampe di giornali da microfiche e altri documenti, tutto sistemato in pile ordinate. C’era anche un computer portatile, il cui schermo emanava un bagliore incongruo in quell’oscurità. Alcuni mesi prima, Constance si era assunta l’incarico di ricostruire la genealogia della famiglia Pendergast. Lo aveva fatto per soddisfare la propria curiosità, ma anche per aiutare Aloysius a riscuotersi dal proprio stato. L’impresa si era rivelata complessa e faticosa, eppure straordinariamente affascinante. All’altro capo del lungo stanzone, una porta ad arco immetteva nell’atrio che si apriva sull’ingresso principale della residenza. Qualcuno bussò proprio mentre Constance era sul punto di sedersi. La donna si fermò, perplessa: gli ospiti erano rari all’891 di Riverside Drive, e non arrivavano mai senza preavviso. Toc. Un altro colpo, seguito dal rombo di un tuono. Lisciando le pieghe dell’abito, Constance si diresse all’entrata. Esitò per un breve istante davanti alla pesante porta senza spioncino. Niente più colpi, perciò si decise ad aprire i due chiavistelli prima di socchiudere con cautela l’uscio. La figura che si stagliava contro la luce del porticato era quella di un giovane uomo. Aveva i capelli biondi fradici di pioggia incollati alla testa e i suoi lineamenti delicati,
spruzzati di gocce, erano indubbiamente nordici, a giudicare dalla fronte alta e dalle labbra cesellate. Indossava un completo di lino talmente zuppo da aderirgli al corpo. Ed era legato con corde spesse. Constance deglutì, facendo per accostarglisi. Ma gli occhi spenti non notarono il movimento, continuando a fissare il vuoto senza battere ciglio. In piedi, a tratti illuminata dal bagliore dei lampi, la figura oscillò leggermente, poi, come un albero abbattuto, cominciò a inclinarsi piano, fino a schiantarsi faccia in avanti sulla soglia. Constance arretrò cacciando un urlo. Pendergast si precipitò al suo fianco, seguito da Proctor. La afferrò e la spostò per inginocchiarsi accanto al ragazzo. Lo girò per una spalla in posizione supina, poi gli scostò i capelli dalla fronte e controllò il battito cardiaco. «È morto» disse in un sussurro forzatamente controllato. «Mio Dio!» esclamò Constance con voce strozzata. «È tuo figlio Tristram!» «No, è Alban, il suo gemello» disse Pendergast. Rimase ancora per un attimo vicino al cadavere, poi balzò in piedi con uno scatto felino e scomparve sotto la pioggia. _______________ 1 Si tratta della marcia di Elgar suonata negli Stati Uniti durante le cerimonie di consegna di laurea e diplomi. (N.d.T.)
2 Pendergast percorse correndo Riverside Drive e si fermò all’angolo, controllando entrambe le direzioni dell’ampio viale. Stava piovendo forte, poche auto e nessun pedone in vista. Il suo sguardo si posò sul veicolo più vicino, a circa tre isolati di distanza: era una Lincoln Town Car nera, come se ne vedevano a migliaia per le strade di Manhattan. La luce sopra la targa era spenta, perciò riuscì a distinguere soltanto che era di New York. Si lanciò all’inseguimento. L’automobile proseguì senza accelerare, superando una serie di semafori verdi e allontanandosi sempre di più. Quando le luci divennero arancioni, poi rosse, il veicolo procedette oltre a velocità costante. Continuando a correre, Pendergast tirò fuori il cellulare e chiamò. «Proctor, prendi la macchina. Sono su Riverside Drive, direzione sud.»
La Town Car era quasi sparita; riusciva a vedere soltanto la luce fioca e tremolante dei fanali posteriori, che però svanì appena l’autista svoltò all’altezza della 126 Strada. Pendergast correva ancora a tutta velocità, con la giacca nera che svolazzava dietro di lui e la pioggia che gli sferzava il viso. Scorse di nuovo la Lincoln, ferma a un semaforo dietro due automobili. Prese il cellulare e compose un numero. «Ventiseiesimo distretto. Agente Powell.» «Sono l’agente speciale Pendergast, dell’FBI. Sto inseguendo una Lincoln nera, targa di New York, diretta a sud su Riverside Drive, all’altezza della 124 . L’autista è sospettato di omicidio. Ho bisogno di rinforzi per fermare il veicolo.» «Dieci-quattro» comunicò l’agente via radio; per aggiungere subito dopo: «Abbiamo una pattuglia in zona, a due isolati di distanza. Ci tenga informati sulla posizione». «Chiedo anche assistenza aerea» aggiunse Pendergast, ancora correndo. «Signore, se è soltanto un sospettato…» «È un obiettivo prioritario per l’FBI» lo interruppe. «Ripeto, un obiettivo prioritario.» Una breve pausa, poi: «Uno dei nostri mezzi si sta alzando in volo». Mentre Pendergast metteva via il telefonino, la Lincoln sterzò e sorpassò le vetture in coda, poi salì sul cordolo e tagliò il marciapiede immettendosi in Riverside Park, dove recise una fila di aiuole schizzando fango, prima di imboccare la rampa di uscita della Henry Hudson Parkway contromano. Aloysius richiamò la polizia per comunicare la posizione del veicolo e subito dopo telefonò a Proctor; dopodiché tagliò per il parco, superò una bassa staccionata e corse tra le aiuole di tulipani senza perdere di vista i fanali della Lincoln, che sbandava verso la carreggiata tra lo stridore di pneumatici delle altre vetture. Saltò oltre il muretto di pietra che delimitava la strada e, mezzo correndo mezzo scivolando, avanzò lungo il terrapieno, tra rifiuti e vetri rotti, nel tentativo di intercettare la corsa del veicolo. Cadde, ruzzolò e scattò di nuovo in piedi, bagnato fradicio, con la camicia bianca appiccicata al petto e il fiato corto. La Lincoln fece un’inversione a U e si lanciò a tutta velocità nella sua direzione. La sua mano scattò alla Les Baer, ma trovò la fondina vuota. Allora si guardò intorno, e quando si ritrovò i fari puntati addosso, scartò di lato. Dopo che la macchina lo ebbe superato, si rialzò e la seguì con lo sguardo fino a vederla scomparire, inghiottita dal fiume di vetture. Un attimo dopo, una Rolls-Royce d’epoca accostò al marciapiede; Pendergast aprì la portiera posteriore e salì a bordo. «Segui la Lincoln» ordinò a Proctor mentre si allacciava la cintura di sicurezza. La Rolls accelerò senza scossoni. Pendergast sentiva le sirene, ma le pattuglie erano ancora lontane e sarebbero rimaste bloccate nel traffico. Estrasse una radio della polizia da uno scomparto laterale. L’inseguimento entrava nel vivo, la Lincoln a
a
sfrecciava tra le corsie a centosessanta chilometri orari, schivando le altre auto, senza rallentare neanche all’altezza di un cantiere stradale delimitato da barriere di cemento. Molte voci si accavallavano sulle frequenze della polizia, ma la Rolls era la macchina più vicina all’obiettivo. L’elicottero non si vedeva da nessuna parte. Più avanti dei bagliori accompagnati dal rumore di spari. «Hanno aperto il fuoco!» urlò Pendergast nel canale di comunicazione. Capì immediatamente quello che stava per succedere. Davanti a lui, le auto iniziarono a sterzare fuori controllo, schiantandosi l’una sull’altra tra stridore di lamiere, mentre altri colpi venivano esplosi e la strada si riempiva di telai ammaccati. Con grande abilità, Proctor riuscì a evitare i veicoli coinvolti nel tamponamento, tuttavia la Rolls colpì di striscio una barriera di cemento e finì al centro della corsia, dove un automobilista che sopraggiungeva a velocità sostenuta la prese in pieno. Pendergast fu sbalzato in avanti, ma la cintura di sicurezza lo trattenne e lo ributtò contro lo schienale. Malgrado lo stordimento, riusciva a sentire le urla, il rumore stridulo delle frenate e lo schianto di altre auto mescolati al suono delle sirene sempre più vicine e, finalmente, a quello delle pale dell’elicottero. Scrollandosi le schegge di vetro di dosso, cercò di sganciare la cintura di sicurezza, poi si chinò in avanti per controllare le condizioni di Proctor. L’uomo aveva perso conoscenza, la testa sanguinava. Pendergast cercò di afferrare la radio per chiedere aiuto, ma proprio in quell’istante un gruppo di paramedici aprì la portiera per soccorrerlo. «Toglietemi le mani di dosso!» gridò. «Occupatevi di lui!» Si liberò e uscì dall’auto sotto la pioggia battente, altre schegge di vetro caddero a terra. Fissava il groviglio di macchine e la distesa di luci davanti a sé, ascoltando le urla dei soccorritori, dei poliziotti e il rumore sordo dell’inutile elicottero che li sorvolava. La Lincoln era sparita.
3 Specializzato in Lettere classiche alla Brown University e con un passato da attivista ambientale, il tenente Peter Angler non era il tipico funzionario delNYPD. Tuttavia, aveva alcune caratteristiche in comune con i colleghi: gli piaceva risolvere i casi in maniera rapida e decisa e sbattere i criminali dietro le sbarre. Era stato designato al comando della propria unità a soli trentasei anni, grazie alla stessa determinazione che nel 1992, l’ultimo anno delle superiori, lo aveva spinto a tradurre la Guerra del Peloponneso di Tucidide e più tardi a piantare chiodi nei tronchi delle sequoie per scoraggiare i taglialegna. Impostava le indagini come campagne militari e
pretendeva che tutti i detective sotto la sua supervisione facessero il loro dovere con zelo. E i risultati della sua strategia erano per lui motivo di profondo orgoglio. Proprio per questa ragione, il caso che aveva tra le mani non gli piaceva per niente. Il crimine in questione aveva avuto luogo meno di ventiquattr’ore prima e la sua squadra non aveva di certo colpe se non c’erano stati progressi. Le procedure erano state applicate con scrupolo. I primi agenti a intervenire avevano messo in sicurezza la zona, raccolto le dichiarazioni e trattenuto i testimoni fino all’arrivo dei tecnici. Questi, giunti sul posto, avevano esaminato con grande attenzione la scena e predisposto i sopralluoghi e le ricerche utili a raccogliere prove, lavorando a stretto contatto con la squadra Omicidi, gli uomini della Scientifica, i fotografi e il medico legale. No, la sua inquietudine aveva a che fare con la natura insolita di quel crimine… e, per quanto assurdo, con l’identità del padre della vittima: un agente speciale dell’ FBI. Angler aveva letto la dichiarazione che l’uomo aveva reso: sintetica e priva di qualunque informazione utile. Pur non ostacolando apertamente il sopralluogo, si era dimostrato piuttosto restio a che gli agenti esaminassero la residenza, rifiutandosi persino di far usare il bagno a uno di loro. L’FBI non era coinvolta nel caso, ma se Pendergast avesse voluto, Angler era disposto a consentirgli di visionare i fascicoli relativi all’indagine. L’agente comunque non aveva avanzato alcuna richiesta in tal senso. Se fosse stato più ingenuo, Angler avrebbe pensato che non desiderasse catturare l’assassino di suo figlio. Ecco perché aveva deciso di interrogarlo di persona e lo stava aspettando – controllò l’orologio, mancava un minuto esatto. E precisamente allo scadere dei sessanta secondi, Pendergast fu accompagnato nel suo ufficio dal sergente Loomis Slade, braccio destro di Angler, nonché suo assistente personale e, all’occorrenza, confidente. Al tenente bastò una rapida occhiata per cogliere i tratti distintivi del suo ospite: alto, magro, capelli chiarissimi e occhi celesti. L’abito nero e la cravatta dalla fantasia sobria completavano l’immagine austera. Non aveva l’aspetto dell’agente dell’FBI, ma viste le sue proprietà immobiliari – un appartamento nel Dakota Building e la villa in Riverside Drive dove era stato scaricato il cadavere – Angler stabilì che la cosa non avrebbe dovuto sorprenderlo. Lo invitò a sedersi e tornò ad accomodarsi sulla sedia dietro la scrivania. Il sergente Slade si sedette in un angolo alle spalle di Pendergast. «La ringrazio per essere venuto, agente.» L’uomo vestito di nero ripose con un cenno del capo. «Prima di tutto, mi permetta di porgerle le mie più sentite condoglianze.» Pendergast non rispose. In effetti, non sembrava devastato dal dolore: il volto inespressivo non tradiva alcuna emozione. L’ufficio di Angler era diverso da quello degli altri tenenti della polizia di New York. C’erano sì pile di fascicoli e verbali, ma alle pareti niente onorificenze né foto che lo ritraevano con i superiori, bensì una decina di mappe antiche, che collezionava
con passione. Di solito, chi entrava nel suo ufficio veniva immediatamente attratto dall’atlante francese LeClerc del 1631, o dalla Tavola 58 dell’atlante della Britannia di Ogilby, che mostrava la strada da Bristol a Exeter, o ancora dal frammento ingiallito della Tavola Peutingeriana nella versione di Abraham Ortelius, il vero fiore all’occhiello della sua raccolta. Ma Pendergast non degnò la collezione di uno sguardo. «Se non le spiace, vorrei approfondire la sua dichiarazione iniziale. Devo però avvisarla che sarò costretto a porle alcune domande scomode e imbarazzanti, delle quali mi scuso sin d’ora. Data la sua esperienza, sono certo capirà.» «Naturalmente» replicò l’agente con un mellifluo accento del Sud che rivelava una nota dura, metallica. «Ci sono alcuni aspetti di questo delitto che trovo a dir poco sconcertanti. In base alla sua testimonianza, e a quella della signora Greene, la sua…» un’occhiata al verbale sulla scrivania davanti a sé «pupilla, alle nove e venti circa di ieri sera qualcuno ha bussato all’ingresso principale della residenza. Quando la signora Greene ha aperto la porta, si è trovata davanti suo figlio, legato con corde robuste. Lei ne ha accertato il decesso e poi si è lanciato all’inseguimento di una Lincoln nera su Riverside Drive, in direzione sud, chiamando nel frattempo la polizia. È corretto?» L’agente Pendergast annuì. «Che cosa le ha fatto pensare, almeno all’inizio, che l’assassino si trovasse in quell’auto?» «Era l’unico veicolo in movimento, e non c’erano pedoni in vista.» «Non le è passato per la mente che il criminale potesse essersi nascosto nei pressi della villa per poi allontanarsi con tutta calma per un’altra strada?» «Quell’auto ha passato diversi semafori rossi, è salita sul marciapiede, sulle aiuole, si è immessa nella rampa d’uscita della Henry Hudson Parkway contromano e ha fatto un’inversione a U. In altre parole, ha fatto di tutto per dare l’impressione che cercasse di sfuggire a un inseguimento.» Il sottile sarcasmo di quell’affermazione irritò Angler. Pendergast proseguì: «Posso chiederle perché l’elicottero della polizia è arrivato così in ritardo?». Angler era sempre più infastidito. «Non era in ritardo. È arrivato cinque minuti dopo la chiamata. Niente male.» «Neanche bene.» Nel tentativo di riprendere il controllo dell’interrogatorio, in tono più brusco di quanto non intendesse, replicò: «Torniamo al delitto. Malgrado abbiano passato al setaccio la zona, i miei agenti non hanno trovato alcun testimone, a parte quelli che hanno visto la Lincoln sulla West Side Highway. Non c’erano segni di violenza sul corpo di suo figlio, né tracce di alcol o sostanze stupefacenti nel sangue. Gli hanno spezzato il collo circa cinque ore prima che lo trovaste, secondo la stima preliminare del medico legale che eseguirà l’autopsia. La signora Greene ha dichiarato di aver
impiegato una quindicina di secondi ad aprire. Quindi abbiamo un assassino, o più di uno, che ha ucciso suo figlio, lo ha legato – non necessariamente in quest’ordine –, lo ha appoggiato alla porta in stato di rigor mortis, poi ha suonato il campanello, è salito sulla Lincoln e si è allontanato per alcuni isolati prima che lei avesse il tempo di inseguirlo. Come ha, o hanno fatto ad agire con tanta rapidità?». «Il delitto è stato pianificato ed eseguito alla perfezione.» «Può darsi, ma è possibile che lei fosse in stato di shock, peraltro comprensibile, date le circostanze, e abbia reagito più lentamente di quanto ha dichiarato?» «No.» Il tono non ammetteva repliche. Angler lanciò un’occhiata al sergente Slade, come al solito silenzioso, poi tornò a guardare Pendergast. «E c’è da considerare la natura drammatica, la messa in scena del delitto. Legato e depositato davanti alla sua porta. Tutto fa pensare a un crimine maturato nel mondo della malavita organizzata, il che mi obbliga a porle precise domande, che potrebbero risultare offensive o inopportune e per le quali, di nuovo, mi scuso in anticipo. Suo figlio era implicato in attività malavitose?» L’agente Pendergast ricambiò lo sguardo di Angler con la consueta espressione indecifrabile sul volto. «Non ho idea in quali attività fosse implicato mio figlio. Come ho affermato nella mia dichiarazione, io e lui eravamo due perfetti estranei.» Angler sfogliò il verbale. «La Scientifica e la mia squadra hanno esaminato la scena del delitto con estrema attenzione, ed è emerso che non c’erano tracce, evidenti o latenti, escluse quelle di suo figlio. Né capelli né fibre, eccetto quelli della vittima. Gli abiti erano nuovi, di fattura comune, e il cadavere è stato lavato con cura e poi vestito. Sulla strada non abbiamo rinvenuto bossoli, in quanto i colpi sono stati esplosi all’interno dell’abitacolo. In sintesi, possiamo affermare che i delinquenti conoscessero le tecniche d’indagine della polizia e pertanto siano stati ben attenti a non lasciare prove. Sapevano perfettamente come muoversi. Agente Pendergast, sono curioso di sapere lei come spiega la professionalità dei killer.» «Come ho già detto, si è trattato di un delitto pianificato nei minimi dettagli.» «Aver lasciato il cadavere sulla soglia di casa sua fa pensare che i criminali volessero mandarle un messaggio. Ha idea di cosa volessero dirle?» «Non sono in grado di formulare ipotesi.» Non sono in grado di formulare ipotesi. Angler studiò Pendergast con maggiore attenzione. Aveva interrogato molti genitori distrutti dalla perdita di un figlio. Capitava di frequente che fossero confusi, sotto shock. Le loro risposte erano incerte, contraddittorie, incomplete, invece Pendergast sembrava nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali. Sembrava non voler collaborare, o che non gli interessasse farlo. «Parliamo del… mistero che circonda la vita di suo figlio» riprese Angler. «Abbiamo soltanto la sua testimonianza per sostenere che si tratti effettivamente di lui, dal momento che non compare in nessuno dei nostri database. Niente in quello
del DNA, niente in quello delle impronte digitali, e nemmeno nell’archivio generale relativo ai crimini. Nessun certificato di nascita, patente di guida, numero di previdenza sociale o passaporto. Non c’è traccia di lui nei registri scolastici e neppure un visto d’ingresso nel nostro Paese. Le tasche erano vuote. Mentre aspettiamo il confronto del DNA, possiamo affermare che suo figlio non è mai esistito. Lei ha dichiarato che era nato in Brasile e che non era cittadino statunitense, ma non aveva neanche la cittadinanza brasiliana e risulta sconosciuto alle autorità di quel Paese. La città nella quale sostiene che sarebbe cresciuto non esiste, almeno ufficialmente. Non risulta che sia mai uscito dal Brasile né entrato negli Stati Uniti. Come spiega tutto questo?» L’agente Pendergast accavallò le gambe, flemmatico. «Non ne ho idea. Come vi ho già detto, sono venuto a conoscenza dell’esistenza di mio figlio, o meglio, del fatto che fosse mio figlio, soltanto un anno e mezzo fa.» «Vi siete incontrati all’epoca?» «Sì.» «Dove?» «Nella giungla brasiliana.» «E poi?» «Non ci siamo più visti né sentiti.» «Perché no? Perché non l’ha più cercato?» «L’ho già detto. Siamo… eravamo, due perfetti estranei.» «In che senso estranei?» «Avevamo caratteri incompatibili.» «Che tipo era?» «Lo conoscevo appena. Gli piaceva fare giochetti crudeli, era un maestro nell’arte dello scherno e dell’umiliazione.» Angler sospirò. Quelle risposte vaghe lo esasperavano. «E la madre?» «Come ho dichiarato, morì in Africa, poco dopo la sua nascita.» «Giusto, l’incidente di caccia.» Un altro episodio dai contorni incerti, ma Angler voleva affrontare un’assurdità alla volta. «È possibile che suo figlio si fosse cacciato in qualche guaio?» «Non ho alcun dubbio al riguardo.» «Che tipo di guaio?» «Non lo so, ma era perfettamente in grado di cavarsela in qualsiasi situazione problematica, anche la peggiore.» «Come fa ad affermare che fosse nei guai, se non sa in cosa si era cacciato?» «Perché aveva una spiccata tendenza al crimine.» Era solo una perdita di tempo. Angler non solo era convinto che Pendergast non avesse alcuna intenzione di collaborare con la polizia alla cattura dell’assassino del figlio, ma che stesse addirittura nascondendo informazioni rilevanti. Ma perché avrebbe dovuto farlo? Non c’era nemmeno la certezza che il cadavere fosse di Alban.
Certo, la somiglianza era notevole, ma l’unico a identificarlo era stato Pendergast. Sarebbe stato interessante incrociare il DNA e vedere cosa saltava fuori dal database. E confrontarlo con quello del padre era semplice, visto che in qualità di agente dell’FBI, i suoi dati erano già registrati. «Agente Pendergast» disse in tono secco. «Devo chiederglielo di nuovo: ha qualche idea o sospetto su chi possa aver ucciso suo figlio? Qualche informazione che possa chiarire le circostanze della sua morte? Qualche supposizione sul motivo per cui il cadavere è stato piazzato davanti alla porta di casa sua?» «Tutto quello che so l’ho detto al momento della mia dichiarazione.» Angler allontanò il verbale. Era solo il primo round, non aveva ancora finito con quell’uomo. «Non saprei dire quale sia l’aspetto più strano della vicenda, se le modalità dell’omicidio, la mancanza di reazioni da parte sua oppure l’assenza di informazioni sull’esistenza di suo figlio.» Pendergast rimase impassibile. «“O splendido mondo nuovo! che si contiene simili abitanti”» disse. «“È nuovo solo per te”» replicò Angler. Per la prima volta dall’inizio dell’interrogatorio, Pendergast mostrò segni di interesse, sgranando gli occhi, anche se di poco, e guardando Angler con un accenno di curiosità. Il tenente si sporse in avanti con i gomiti sulla scrivania. «Agente Pendergast, per il momento abbiamo finito. Ma mi premetta di lasciarla informandola di una cosa: forse lei non vuole che il caso sia risolto, ma lo sarà, e sarò io personalmente ad assicurarmi che sia così. Porterò avanti le indagini fin dove sarà necessario, fin sulla soglia di qualcuno poco collaborativo, se necessario. Sono stato chiaro?» «Non mi aspetto nulla di diverso.» Pendergast si alzò e uscì dall’ufficio in silenzio, salutando Slade con un cenno del capo. Tornato a Riverside Drive, Pendergast entrò nella biblioteca con passo deciso e si accostò a uno degli scaffali pieni di volumi rilegati in pelle. Spostò un pannello di legno dietro il quale si trovava un computer portatile. Digitò sulla tastiera con rapidità, inserendo le password quando necessario, ed entrò nell’archivio del NYPD, sezione Omicidi irrisolti. Annotò alcuni numeri di protocollo, poi passò al database del DNA, dove trovò subito i risultati dei test eseguiti sui campioni dell’uomo sospettato di essere il «killer degli hotel», che un anno e mezzo prima aveva terrorizzato la città con una serie di efferati omicidi in alcuni alberghi esclusivi di Manhattan. Anche se era autorizzato ad accedere al sistema, i dati erano protetti e non potevano essere cancellati né modificati. Fissò lo schermo per un momento, poi prese il cellulare dalla tasca e compose un numero di River Pointe, in Ohio. Risposero al primo squillo. «Che bello!» esordì una voce bassa e un po’ ansimante. «Il mio agente segreto preferito!» «Ciao, Mime.» 2
«In cosa posso esserti utile?» «Ho bisogno di cancellare alcuni dati da un database del NYPD. Con discrezione, senza lasciare tracce.» «Sono sempre felice di fare quello che posso per mettere i bastoni fra le ruote ai nostri ragazzi in divisa blu. Dimmi una cosa, la tua richiesta è collegata a… come si chiama? Operazione Wildfire?» Pendergast esitò. «Sì, è così. Ma basta domande, per favore.» «Sono curioso, che vuoi farci. Ma non importa. Hai i numeri di protocollo?» «Dimmi quando sei pronto a procedere.» «Ora.» Con gli occhi incollati allo schermo e le dita sul trackpad del portatile, Pendergast iniziò a ripetere i codici, lentamente e scandendo bene le cifre. _______________ 2
Citazione dalla I scena del V atto della Tempesta di Shakespeare. (N.d.T.)
4 Erano le sei e mezza del pomeriggio quando il cellulare di Pendergast squillò. Numero sconosciuto. «Agente speciale Pendergast?» chiese una voce che gli sembrò anonima e monotona, eppure familiare. «Sono io.» «Sono un amico.» «Parli, la ascolto.» Una risatina all’altro capo del telefono. «Ci siamo già conosciuti. Sono venuto a casa sua e siamo andati in macchina sotto il George Washington Bridge. Le consegnai un fascicolo.» «Ma certo. Riguardava Locke Bullard. Lei è il signore che lavora per…» Si fermò prima di pronunciare il nome dell’organizzazione. «Proprio io, e lei è abbastanza prudente da evitare gli acronimi governativi in una conversazione telefonica non criptata.» «Cosa posso fare per lei?» «La domanda giusta è cosa posso fare io per lei.» «Cosa le fa pensare che abbia bisogno d’aiuto?» «Due parole: Operazione Wildfire.» «Capisco. Dove possiamo vederci?» «Conosce il poligono di tiro dell’FBI sulla 22 ?» «Sì, certo.» a
«Tra mezz’ora, postazione numero sedici.» La conversazione venne interrotta. Pendergast superò la doppia porta del lungo edificio basso tra la 22 Strada e l’8 Avenue, mostrò il distintivo dell’FBI all’addetta alla sicurezza, scese le scale e lo mostrò di nuovo al responsabile del poligono. Una volta dentro, prese alcuni bersagli di carta e le cuffie protettive, superò agenti e istruttori e raggiunse la postazione numero sedici. Era vuota, e lo stesso la diciassette, accanto. Ogni due cabine una parete fonoassorbente attutiva appena il rumore degli spari, perciò, dato il suo udito sensibile, si mise le cuffie. Mentre appoggiava quattro caricatori vuoti e una scatola di munizioni sulla mensola, sentì una presenza alle sue spalle. Un uomo di mezza età, alto e magro, con un abito grigio, gli occhi infossati e il viso rugoso. Pendergast lo riconobbe subito. Forse i capelli erano più radi di quattro anni prima, ma per il resto non era cambiato: lo stesso aspetto anonimo di chi passa inosservato. Senza degnare Pendergast di uno sguardo, estrasse la Sig Sauer P229 dalla giacca e la posò sulla mensola della postazione diciassette. Non indossava le cuffie e, continuando a non voltarsi, fece segno all’altro di togliersi le sue. «Posto interessante per un appuntamento. Decisamente meno intimo di un’automobile parcheggiata sotto il George Washington Bridge» osservò l’agente. «La totale mancanza di privacy rende il luogo ancora più anonimo. Siamo soltanto due federali che si esercitano. Nessuna intercettazione telefonica, nessuna microspia. E con tutto questo chiasso nessuno può origliare la nostra chiacchierata.» «Ma il responsabile ricorderà di certo un agente della CIA in un poligono dell’FBI, soprattutto perché non portate armi nascoste, di solito.» «Ho diverse identità da sfruttare. Non ricorderà nulla di particolare.» Pendergast aprì la scatola delle munizioni e iniziò a riempire i caricatori. «Mi piace la sua 1911. Les Baer Thunder Ranch Special, vero? Bel pezzo.» «Magari vuole spiegarmi perché siamo qui.» «La tengo d’occhio sin dal nostro primo incontro» spiegò l’uomo, senza guardarlo negli occhi. «Quando ho saputo del suo ruolo nell’avvio di Wildfire, mi sono incuriosito. FBI e CIA che collaborano a una sorveglianza discreta ma continua per individuare un ragazzo che non si sa se si chiama Alban, se si nasconde in Brasile o in qualche altro Paese sudamericano, che parla correntemente inglese, tedesco e portoghese e che, soprattutto, è straordinariamente abile e decisamente pericoloso.» Invece di replicare, Pendergast assicurò il bersaglio rotondo con la X rossa al centro alla rotaia e premette il pulsante alla sua sinistra per allontanarlo di una ventina di metri. L’uomo accanto a lui agganciò uno dei bersagli usati dall’FBI – una sagoma grigia a forma di bottiglia senza segni né tacche – e lo spedì in fondo alla postazione diciassette. a
a
«E proprio oggi mi è arrivata voce di un verbale della polizia di New York nel quale lei afferma che suo figlio, che guarda caso si chiama Alban, è stato depositato sulla soglia di casa sua, morto.» «Vada avanti.» «Non credo alle coincidenze. Ecco il motivo di quest’incontro.» Pendergast prese un caricatore e lo inserì nell’arma. «Non vorrei sembrarle sgarbato, ma venga al punto.» «Io posso aiutarla. Lei ha mantenuto la parola sul caso Locke Bullard e mi ha evitato un sacco di guai. Credo nella reciprocità. E poi, come le dicevo, l’ho tenuta d’occhio. Lei è una persona piuttosto interessante, ed è molto probabile che un giorno possa essermi ancora d’aiuto. Definiamola una collaborazione, se vuole.» Pendergast non rispose. «Lei sa che può fidarsi di me» continuò l’uomo, mentre il rumore attutito degli spari continuava incessante. «Sono la discrezione fatta persona, come lei. Qualunque informazione vorrà darmi sarà al sicuro con me. E potrei avere accesso a risorse che a lei sono precluse.» Dopo un istante Pendergast annuì. «Accetto la sua offerta. Tanto per essere precisi, ho due figli, gemelli, della cui esistenza sono venuto a sapere soltanto un anno e mezzo fa. Uno dei due, Alban, è, o dovrei dire era, un assassino sociopatico della peggior specie. È lui il cosiddetto killer degli hotel, sul quale la polizia di New York sta ancora indagando. Vorrei che il caso rimanesse irrisolto, e mi sono mosso in tal senso. Subito dopo aver appreso della sua esistenza, Alban è sparito nella giungla brasiliana e da allora non l’ho più visto né sentito fino a ieri sera, quando è ricomparso sulla soglia di casa mia. Sapevo che un giorno o l’altro sarebbe tornato… e che sarebbe stata una catastrofe. Per questo motivo ho intrapreso l’Operazione Wildfire.» «Però Wildfire non ha portato ad alcun risultato.» «Esatto.» L’uomo senza nome caricò la pistola, prese la mira con entrambe le mani e svuotò il caricatore contro il bersaglio. Tutti i colpi andarono a segno. Il rumore nella cabina era assordante. «Fino a ieri, chi sapeva che Alban era suo figlio?» «Pochissime persone, perlopiù familiari e persone di fiducia che lavorano in casa mia.» «Eppure qualcuno è riuscito non solo a trovare il ragazzo e a catturarlo, ma anche a ucciderlo e a lasciarlo davanti alla sua abitazione, per poi scappare praticamente senza lasciare traccia.» Pendergast annuì. «In sostanza, il nostro uomo ha avuto successo laddove CIA e FBI hanno fallito, e ha fatto molto di più.»
«Proprio così. È un individuo di notevoli capacità. Potrebbe benissimo appartenere alle forze dell’ordine. È per questo motivo che non mi fido della polizia di New York, non credo che faranno alcun progresso.» «Mi risulta che Angler sia un bravo poliziotto.» «Ahimè, proprio qui sta il problema. È abbastanza in gamba da intralciare la mia ricerca dell’assassino. Preferirei che fosse un incompetente.» «È per questo che è stato così poco collaborativo con lui?» Pendergast non disse nulla. «Davvero non ha alcuna idea del perché l’abbiano ucciso o del messaggio che intendevano inviarle?» «Questo è l’aspetto più inquietante, non so chi sia il mittente e non capisco il messaggio.» «E l’altro suo figlio?» «Si trova all’estero, sotto protezione.» L’uomo caricò di nuovo l’arma, fece scorrere il carrello, svuotò il caricatore sul bersaglio e schiacciò il pulsante che azionava la rotaia. «E come si sente? Voglio dire, cosa prova per la morte di suo figlio?» Pendergast rimase in silenzio per qualche istante. «Come si suol dire, sono combattuto. È morto, il che è positivo, ma d’altra parte… era mio figlio.» «Cosa pensa di fare quando, e se, troverà il colpevole?» Pendergast non rispose. Sollevò la Les Baer con la mano destra, portando la sinistra dietro la schiena, e scaricò tutti i proiettili contro il bersaglio. In fretta ricaricò l’arma, la impugnò con la sinistra e riprese a fare fuoco, più velocemente, fino a esplodere tutti i sette colpi. Infine schiacciò il pulsante della rotaia. L’agente della CIA guardò il bersaglio. «Ha completamente distrutto la sagoma, con una mano sola, senza appoggi, usando sia la mano forte sia l’altra.» Fece una pausa. «Era la sua risposta alla mia domanda?» «Approfittavo solo per migliorare un po’ la mira.» «Lei non ha bisogno di migliorare nulla. A ogni modo, metterò subito le mie risorse al lavoro. Appena avrò qualcosa di interessante per le mani, l’avviserò.» «La ringrazio.» L’agente della CIA annuì, poi si mise le cuffie protettive, appoggiò la Sig Sauer e riempì di nuovo i caricatori.
5 Mentre saliva l’ampia scalinata in granito del Museo di storia naturale di New York, il tenente Vincent D’Agosta guardava l’imponente facciata, lunga quattro isolati, in
stile classico. L’edificio gli evocava ricordi molto sgradevoli… e sembrava davvero uno scherzo del destino doverci entrare di nuovo proprio quel giorno. Era tornato solo la sera precedente dalle due settimane più belle della sua vita: la luna di miele con la sua sposina, Laura Hayward, al Turtle Bay Resort, sulla favolosa costa settentrionale dell’isola di Oahu. Avevano preso il sole, passeggiato lungo le sterminate spiagge incontaminate, fatto snorkeling nella baia di Kuilima e, ovviamente, approfittato della vacanza per conoscersi più intimamente. Un vero e proprio paradiso. Perciò era stato un trauma rientrare al lavoro quella mattina – che come se non bastasse era domenica – e scoprire di essere stato messo a capo dell’indagine sull’omicidio di un tecnico del dipartimento di Osteologia del museo. Non solo non aveva avuto neanche il tempo di respirare, ma era costretto a recarsi in un edificio nel quale si era augurato di non mettere più piede in vita sua. Nonostante tutto, era ben deciso a chiudere il caso e assicurare il colpevole alla giustizia. Erano i delitti come quello che danneggiavano la reputazione della città: l’omicidio casuale, assurdo e crudele di un disgraziato che si era trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Si fermò per riprendere fiato. Maledizione, dopo due settimane di poi, maialekalua, opihi, haupia e birra, aveva bisogno di mettersi a dieta. Cominciò a salire ed entrò nell’enorme atrio del museo. Estrasse il tablet per rinfrescarsi la memoria sui dettagli del caso. Il delitto era stato scoperto la sera precedente, sul tardi, e il lavoro preliminare sulla scena era stato già completato. D’Agosta avrebbe iniziato con l’interrogare la guardia che aveva trovato il cadavere, poi avrebbe visto il responsabile delle pubbliche relazioni del museo, il quale senza dubbio sarebbe stato più interessato a evitare che la stampa si scatenasse in una campagna denigratoria che a risolvere il caso. La lista delle persone da ascoltare riportava altri cinque o sei nominativi. Mostrò il distintivo a uno degli addetti alla sicurezza, firmò e gli venne consegnato un tesserino per l’accesso temporaneo. Superò il padiglione dedicato ai dinosauri, un altro controllo, una porta senza targa e un dedalo di corridoi che terminava al centro di controllo – un percorso che D’Agosta ricordava anche troppo bene. Appena entrò nella sala d’attesa, una guardia in divisa balzò dalla sedia. «Mark Whittaker?» chiese D’Agosta. L’uomo annuì. Era alto un metro e sessanta scarso e tarchiato, con occhi scuri e radi capelli biondi. «Tenente D’Agosta, Omicidi. So che è già stato interrogato, perciò non la tratterrò più del necessario.» Gli strinse la mano molliccia e sudata. Secondo la sua esperienza, esistevano due tipologie di vigilanti: i poliziotti falliti, aggressivi e pieni di risentimento, e quelli che sembravano miti uscieri, spaventati e intimiditi dagli sbirri veri. Mark Whittaker apparteneva senza alcun dubbio alla seconda categoria. «Possiamo spostarci sulla scena del delitto?»
«Sì, certo.» Whittaker sembrava ansioso di compiacerlo. D’Agosta lo seguì nei meandri del museo, dai quali riemersero nella zona aperta al pubblico. Malgrado non mettesse piede lì dentro da anni, nulla sembrava cambiato. Entrarono nel padiglione dedicato all’Africa, su due piani, superando un branco di elefanti; poi passarono nella sala dei popoli africani, del Messico e dell’America centrale e infine del Sudamerica. Gli ambienti rimandavano il rumore dei passi e dappertutto c’erano teche con uccelli, oggetti d’oro, ceramiche, sculture, tessuti, lance, abiti, maschere, scheletri, scimmie… Aveva il fiato corto e si chiedeva come mai non riuscisse a tenere il passo con quella guardia piccola e sovrappeso. Giunti nell’ala dedicata alla Biologia marina, finalmente Whittaker si fermò davanti all’ingresso di una delle sale più lontane, sigillata con il nastro giallo usato per delimitare le scene del crimine. Una guardia del museo se ne stava lì in piedi a presidiare il luogo. «Gasteropodi» lesse D’Agosta sulla targa di ottone accanto all’entrata. Whittaker annuì. Il tenente mostrò il distintivo alla guardia, passò sotto il nastro e fece cenno al vigilante di seguirlo. C’era buio e l’aria era pesante. Vetrine piene di gusci di lumache e molluschi di ogni forma e dimensione coprivano le pareti; davanti, altre teche con conchiglie del tutto simili. D’Agosta annusò l’aria: era di certo il posto meno visitato di tutto il museo. Osservando una Strombus Gigas rosa e luccicante, per un attimo tornò con la mente a quella sera sulla spiaggia hawaiana, con la sabbia ancora calda e il sole appena tramontato, Laura sdraiata al suo fianco, i piedi accarezzati dalla spuma delle onde. Sospirò, cercando di concentrarsi sul presente. Sotto una teca, vide la sagoma disegnata con il gesso e alcuni cartellini per la classificazione delle prove, oltre a un lungo rivolo di sangue rappreso. «Quando è stato rinvenuto il cadavere?» «Sabato notte, verso le undici e dieci.» «A che ora aveva iniziato il turno?» «Alle otto.» «Questa sala rientra nel suo giro abituale?» Whittaker annuì. «A che ora chiude il museo di sabato?» «Alle sei.» «Ogni quanto tempo viene a controllare quest’ala, dopo l’orario di chiusura?» «Dipende. Tra la mezz’ora e i quarantacinque minuti. Devo strisciare un tesserino quando passo, e non vogliono che i giri abbiano frequenza troppo regolare.» D’Agosta tirò fuori dalla tasca una piantina del piano terra che aveva preso entrando. «Può disegnare il percorso, o il giro come lo chiama lei, che ha fatto sabato sera?» «Certo.» Whittaker tirò fuori una penna dalla tasca e tracciò una linea che toccava quasi tutto il piano, poi restituì la piantina al poliziotto.
D’Agosta la esaminò con attenzione. «Ho l’impressione che lei non entri spesso in questa particolare stanza.» Whittaker rimase un istante in silenzio, come se la domanda potesse nascondere un tranello. «No, in effetti non spesso. Visto che non ci sono altre uscite, ci passo davanti.» «E allora cosa l’ha spinta a entrare sabato sera alle undici?» Whittaker si picchiettò la fronte. «Il sangue era colato fino a metà del pavimento e quando ho acceso la torcia, la… luce lo ha illuminato.» D’Agosta ricordò il sangue nelle foto scattate sulla scena. Secondo la ricostruzione, la vittima – un vecchio tecnico di nome Victor Marsala – era stata colpita alla testa con uno strumento arrotondato in quella stanza appartata e il suo cadavere era stato nascosto sotto la teca. Mancavano l’orologio, il portafoglio e gli spiccioli che aveva in tasca. Il tenente consultò il tablet. «C’è stato qualche evento speciale ieri sera?» «No.» «Qualcuno che ha dormito qui dentro, feste private, proiezioni di film, visite notturne? Cose di questo tipo?» «Niente del genere.» D’Agosta conosceva già le risposte, ma per sicurezza preferiva comunque porle di persona ai testimoni. Il rapporto del medico legale riteneva che la morte fosse avvenuta intorno alle dieci e mezza. «Nei quaranta minuti intercorsi tra l’omicidio e il rinvenimento del cadavere, ha visto qualcuno o qualcosa di strano? Un visitatore che si era attardato e le ha detto di essersi perso? Un dipendente del museo fuori dalla sua abituale zona di lavoro?» «Non ho notato niente di strano. Solo gli scienziati e i curatori che lavorano fino a tardi.» «E quest’ala?» «Era vuota.» D’Agosta accennò con il capo oltre la sala in cui si trovavano, verso la porta poco visibile sulla parete opposta, sormontata dalla scritta rossa EXIT. «Dove sbuca?» Whittaker si strinse nelle spalle. «Nello scantinato.» Il tenente rifletteva. La sala con gli ori del Sudamerica era poco distante, eppure non era stato toccato nulla. Forse Marsala si era attardato a finire il proprio lavoro e uscendo aveva disturbato qualche pezzente appisolato in quell’angolo deserto del museo. Però D’Agosta dubitava che una storia tanto fantasiosa potesse essere credibile. L’aspetto più insolito della vicenda era che l’assassino fosse riuscito a lasciare l’edificio senza essere visto. A quell’ora, l’unica uscita praticabile era al piano terra, attraverso un varco ben sorvegliato. Forse l’assassino era un impiegato del museo? Il tenente aveva la lista di tutti i dipendenti che si erano trattenuti fino a tardi, ed era sorprendentemente lunga. D’altra parte, il museo era enorme e vi lavoravano alcune migliaia di persone.
Dopo qualche altra domanda sbrigativa, ringraziò Whittaker. «Darò un’occhiata in giro, può tornare alla sua postazione.» Trascorse una ventina di minuti a esaminare la sala in cui era stato rinvenuto il cadavere e quelle limitrofe, confrontandole con le fotografie della Scientifica che aveva scaricato sul tablet. Non c’era niente di nuovo da vedere, non era stato trascurato nulla. Sospirò, infilò l’iPad nella ventiquattrore e si diresse verso l’ufficio delle pubbliche relazioni.
6 Nella lista delle attività preferite del tenente Angler, assistere a un’autopsia era agli ultimi posti. Nei quindici anni di servizio, aveva visto tanto sangue e un gran numero di morti: ammazzati a colpi di arma da fuoco, accoltellati, massacrati di botte, investiti, avvelenati, sfracellati sul marciapiede, maciullati da un treno in corsa. Lui stesso aveva riportato parecchie ferite, e non era certo una mammoletta: aveva estratto la pistola almeno una decina di volte e l’aveva usata in un paio di occasioni. Era preparato ad affrontare la morte violenta, ma si sentiva a disagio di fronte alla freddezza sistematica con la quale il cadavere veniva smembrato organo per organo, fotografato, analizzato, descritto e reso oggetto di battute. E poi, ovviamente, c’era l’odore. Negli anni, aveva imparato a gestire il problema con spirito di rassegnazione. Tuttavia, quell’autopsia era più raccapricciante del solito. Ne aveva viste molte, ma nessuna alla quale avesse assistito anche il padre della vittima. Nella stanza, oltre al morto, c’erano cinque persone: Angler, Millikin, che era uno dei detective della sua squadra, il patologo incaricato dell’autopsia, il suo assistente, basso e gobbo come Quasimodo, e l’agente speciale Aloysius Pendergast. Quest’ultimo non ricopriva alcun ruolo ufficiale. Quando aveva ricevuto la sua strana richiesta, il tenente aveva pensato di negargli l’accesso. In fondo, si era dimostrato davvero poco collaborativo, ma poi Angler aveva fatto qualche ricerca e aveva scoperto che, nonostante i metodi poco ortodossi, l’agente era rispettato per l’incredibile numero di casi che aveva risolto. Il suo fascicolo era pieno di encomi e, in egual misura, di lettere di richiamo. Angler non aveva mai visto niente di simile. Alla fine aveva deciso che non era il caso di escluderlo dall’autopsia: dopotutto, era il padre della vittima. Inoltre, era certo che Pendergast avrebbe comunque trovato il modo di essere presente. Anche Constantinescu, il medico legale, conosceva la fama di Pendergast. Più che un patologo, il dottore sembrava un vecchio medico di campagna e la presenza dell’agente speciale lo innervosiva. Era teso come una corda di violino. Mormorava le sue osservazioni nel microfono appeso al soffitto, fermandosi di tanto in tanto a
guardare Pendergast, poi si schiariva la voce e riprendeva a parlare. Aveva impiegato quasi un’ora per completare l’analisi esterna; tantissimo, considerato che praticamente non c’erano prove da raccogliere ed etichettare. E ci aveva messo un’eternità a spogliare il cadavere, fotografarlo, fare le radiografie, pesarlo, eseguire i test tossicologici e cercare segni particolari. Forse temeva di commettere un errore, e sembrava riluttante a fare il suo lavoro. L’assistente, al contrario, era impaziente, continuava a spostare il peso da un piede all’altro e a sistemare gli strumenti. Pendergast, dal canto suo, se ne stava immobile, dietro tutti gli altri, con il camice che gli cadeva addosso come un sudario e l’espressione impassibile. Continuava a muovere gli occhi da Constantinescu al cadavere, senza dire niente. «Nessun livido evidente, ematomi, punture o altre ferite» stava dicendo il patologo nel microfono. «L’esame esterno e le radiografie indicano come causa della morte lo schiacciamento delle vertebre cervicali C3 e C4, associato alla possibile rotazione laterale del cranio, che ha portato alla rottura della spina dorsale e indotto lo shock spinale.» Il dottor Constantinescu si allontanò dal microfono e si schiarì la voce. «Agente Pendergast, noi… ecco… stiamo per iniziare l’esame interno.» Pendergast rimase immobile, tranne forse per un impercettibile movimento della testa. Era pallidissimo. Angler non aveva mai visto qualcuno con i lineamenti tanto tirati. Più lo conosceva, meno gli piaceva. Era davvero un tipo strano. Il tenente tornò a guardare il cadavere adagiato sul tavolo: da vivo, il ragazzo era stato in ottima forma. La muscolatura tonica e i lineamenti aggraziati, persino dopo la morte, gli fecero venire in mente le raffigurazioni di Ettore e Achille sui vasi antichi. Stiamo per iniziare l’esame interno. Il corpo non sarebbe rimasto così bello ancora a lungo. A un cenno del patologo, l’assistente prese la sega Stryker a lama vibrante. Constantinescu la azionò e cominciò ad armeggiare attorno al cranio di Alban, incidendo l’osso – con quello stridore tipico che Angler detestava – fino a rimuovere la calotta. Strano, però. Secondo l’esperienza di Angler, solitamente si praticava prima un’incisione a Y e solo alla fine veniva asportato il cervello. Forse l’anomalia nella procedura dipendeva dal tipo di morte del ragazzo, ma Angler intuiva che il vero motivo era legato alla presenza di Pendergast. Gli lanciò un’occhiata: era sempre più pallido e tirato. Constantinescu esaminò il cervello, dopodiché lo estrasse con cautela per appoggiarlo sulla bilancia e mormorò qualcosa nel microfono. Prelevò alcuni campioni di tessuto, li passò all’assistente e poi, senza guardarlo, si rivolse al padre della vittima: «Agente Pendergast… intende metterlo in una bara aperta?». Un attimo di silenzio, poi l’agente rispose: «No, niente cerimonie funebri. Quando mi restituiranno il corpo, lo farò cremare». La voce aveva lo stesso suono di una lama d’acciaio sul ghiaccio.
«Capisco.» Il patologo, incerto, rimise il cervello nel cranio. «Prima di continuare, devo farle una domanda. Le radiografie hanno evidenziato la presenza di un oggetto rotondo nel… nello stomaco. Tuttavia, non ci sono cicatrici che indichino vecchie ferite da arma da fuoco né interventi chirurgici. Le risulta che il ragazzo avesse qualche tipo di impianto?» «No» replicò Pendergast. «Molto bene.» Constantinescu annuì. «Adesso eseguirò l’incisione a Y.» Nessuno fiatò, quindi il medico afferrò di nuovo la sega e si accinse a praticare due tagli obliqui all’altezza delle spalle che si congiungevano sullo sterno, poi prese il bisturi e completò l’incisione con una linea che scendeva fino al pube. Infine, l’assistente gli passò un paio di forbici con cui Constantinescu completò l’apertura della cavità toracica, sollevando le costole rotte e i lembi di pelle fino a mostrare il cuore e i polmoni. Pendergast, alle spalle di Angler, rimase immobile mentre la stanza si riempiva di quell’odore inconfondibile che il tenente detestava quasi quanto il gemito della sega Stryker. Il patologo asportò il cuore e i polmoni, li esaminò, li pesò, prelevò alcuni campioni di tessuto, bisbigliò le sue valutazioni nel microfono e infilò gli organi in sacchetti di plastica dove sarebbero rimasti fino alla fase conclusiva dell’autopsia, ossia la ricomposizione del cadavere. Il fegato, i reni e gli altri organi principali subirono lo stesso trattamento, prima che il medico si dedicasse alle arterie centrali, incidendole per un rapido controllo. Lavorava con gesti rapidi, molto diversi da quelli esitanti della fase iniziale dell’autopsia. Dopo l’esame delle pareti esterne dello stomaco, afferrò un grosso bisturi e praticò un’incisione. Quella era decisamente la parte più raccapricciante per Angler, che si allontanò subito dal tavolo. Il patologo era chino sulla bacinella di metallo che conteneva l’organo e lo esaminava con le mani inguantate, aiutandosi ora con il bisturi ora con il forcipe che l’assistente gli porgeva con sollecitudine. Il tanfo diventava sempre più nauseante. A un tratto udirono un tintinnio: qualcosa era rimbalzato contro l’acciaio del contenitore. Il medico trattenne il respiro, poi bisbigliò alcune parole all’assistente, che gli passò un forcipe nuovo con il quale Constantinescu rovistò nella bacinella, sollevando un oggetto rotondo coperto di fluidi appiccicosi. Lo sciacquò nel lavabo. Quando si voltò, Angler fu sorpreso di vedere che si trattava di un sasso di forma irregolare, poco più grande di una biglia. Era blu scuro. Una pietra preziosa. Con la coda dell’occhio, vide Pendergast abbandonare la sua consueta impassibilità. Constantinescu teneva il reperto sollevato e lo osservava con attenzione, mormorando: «Bene, bene». Poi lo infilò in una busta che sigillò. Angler notò che Pendergast si era spostato di lato e fissava la pietra. L’espressione imperscrutabile e distaccata era scomparsa dal
suo volto; i suoi occhi adesso esprimevano una bramosia e un’urgenza che quasi spaventarono il tenente. «Quella pietra dev’essere mia!» Angler non era sicuro di aver capito bene. «Sua? È la prima vera prova che abbiamo trovato!» «Appunto! È proprio per questo motivo che devo averla!» «Agente Pendergast, capisco che per lei non sia facile, dal momento che si tratta di suo figlio, ma questa è un’indagine ufficiale, dobbiamo attenerci alle regole e rispettare le procedure. E dato che le prove sono così scarse, lei non può ignorare che…» «Dispongo di risorse che potrebbero esserci d’aiuto. Mi serve la pietra. Devo averla.» Pendergast si avvicinò e trapassò Angler con lo sguardo. «Per favore.» Il tenente dovette sforzarsi per non indietreggiare davanti all’intensità di quegli occhi. Qualcosa gli diceva che l’agente speciale era poco abituato a chiedere «per favore». Rimase in silenzio, in preda a emozioni contrastanti. Ma quella reazione lo aveva colpito, persuadendolo che l’agente volesse sul serio scoprire cosa fosse successo al figlio. Di colpo provò pena per lui. «Deve essere registrata tra le prove. Quindi fotografata, descritta, catalogata e inserita nel database. Quando avremo finito, lei potrà prenderne possesso, ma dovrà rispettare scrupolosamente le disposizioni relative alla custodia. E dovrà restituirla entro ventiquattr’ore.» Pendergast annuì. «Grazie.» «Ventiquattr’ore, non un minuto di più.» Ma Pendergast non lo ascoltava, aveva già infilato la porta e si allontanava a grandi passi, con il camice verde che svolazzava dietro di lui.
7 Il dipartimento di Osteologia del Museo di storia naturale di New York era un labirinto di stanze apparentemente senza fine, al quale si arrivava dopo aver superato una considerevole serie di doppie porte in fondo al lungo corridoio che ospitava gli uffici del quinto piano ed essere saliti su un gigantesco e lento montacarichi. Entrandovi, D’Agosta si era ritrovato a tu per tu con la carcassa di una scimmia stesa su un carrello, e di colpo aveva compreso perché quel dipartimento fosse così lontano dalle sale del museo aperte al pubblico: puzzava peggio di una fogna, come avrebbe detto suo padre. Quando il montacarichi arrivò in alto e le porte si aprirono, D’Agosta uscì e si guardò attorno, sfregandosi le mani con un gesto impaziente. Era lì per incontrare Morris Frisby, il direttore del dipartimento. Non si aspettava molto da quel colloquio,
visto che Frisby era appena rientrato da un congresso a Boston e non si trovava nel museo al momento del delitto. Contava di più sul ragazzo che gli stava andando incontro, un certo Mark Sandoval, un tecnico del dipartimento, assente da una settimana a causa di un brutto raffreddore estivo. Quando Sandoval si avvicinò e chiuse la porta alle loro spalle, D’Agosta notò che non sembrava stare molto bene: aveva gli occhi arrossati e gonfi, il volto pallido e si soffiava il naso in un fazzoletto. D’Agosta pensò che fosse fortunato a non dover sentire quell’odore terribile, ma probabilmente il tecnico ci era abituato. «Ho appuntamento con il dottor Frisby, ma sono in anticipo di dieci minuti. Potrebbe mostrarmi il dipartimento? Vorrei vedere la postazione di lavoro di Marsala.» «Ehm…» Sandoval deglutì, guardandosi attorno nervoso. «C’è qualche problema?» «Be’, ecco…» Abbassò la voce. «Il dottor Frisby… A lui non piace molto che…» Lasciò la frase in sospeso. D’Agosta capì al volo: Frisby doveva essere il tipico burocrate da museo, geloso del proprio regno e terrorizzato dalla pubblicità negativa. Se lo immaginava: un tipo pieno di sussiego, con la giacca di tweed, la pipa e il mento irritato dalla rasatura. «Non si preoccupi, non farò il suo nome.» Sandoval esitò un istante, ma poi fece strada lungo il corridoio. «Mi risulta che lei lavorasse a stretto contatto con Marsala.» «Come tutti gli altri, immagino.» Era sulla difensiva. «Era simpatico?» Sandoval si strinse nelle spalle. «Non voglio parlar male di un morto.» D’Agosta prese il blocco per gli appunti. «Risponda, se non le spiace.» Il tecnico si soffiò di nuovo il naso. «Era… be’, non era facile andare d’accordo con lui. Ce l’aveva con il mondo intero.» «Perché?» «Forse perché era uno scienziato mancato.» Passarono davanti a quello che sembrava un enorme frigorifero. «Continui.» «Si era iscritto all’università, ma non era riuscito a passare l’esame di Chimica organica, perciò niente laurea in Biologia. E allora era venuto a lavorare qui come tecnico. Era molto bravo con le ossa, ma senza un titolo di studio adeguato non puoi fare molta carriera. E la cosa era davvero un problema per lui: non gli piaceva prendere ordini dagli scienziati, ed era molto permaloso. Anch’io dovevo stare attento a parlare, nonostante fossi il suo unico amico qui dentro.» Sandoval superò una porta sulla sinistra e D’Agosta si ritrovò in una stanza piena di enormi contenitori di metallo. Sul soffitto una fila di griglie di ventilazione che aspiravano l’aria, ma senza troppa efficacia a quanto pareva, visto che l’odore era molto pungente. «Questa è la stanza della macerazione» disse Sandoval.
«Di cosa?» «Della macerazione.» Il tecnico si tamponò il naso con il fazzoletto. «Vede, una delle attività principali del dipartimento è ricavare le ossa dalle carcasse che arrivano.» «Carcasse? Intende umane?» Sandoval sorrise. «Una volta poteva capitare. Donazioni alla scienza, sa. Ma oggi esclusivamente animali. Gli esemplari più grandi vengono infilati nei tini per la macerazione pieni di acqua calda non sterilizzata. Se si lasciano abbastanza a lungo, il corpo si liquefà e rimangono soltanto le ossa.» Sandoval indicò il contenitore più vicino. «Lì dentro c’è un gorilla.» In quel momento, entrò un tecnico che spingeva il carrello con la scimmia. «Quello è un macaco giapponese che arriva dallo zoo di Central Park. Abbiamo un contratto con loro, ci portano tutti gli animali morti.» D’Agosta deglutì, a disagio. L’odore era così nauseante che gli aveva bloccato la digestione. «Era questa l’attività principale di Marsala: controllare il processo di macerazione. Ovviamente lavorava anche con gli scarafaggi.» «Scarafaggi?» «Venga da questa parte.» Sandoval tornò nel corridoio principale, superò altre porte ed entrò in un laboratorio pieno di vaschette di vetro che sembravano acquari. D’Agosta si avvicinò per sbirciare in uno dei contenitori e dentro vide quello che gli sembrò un topo morto brulicante di scarafaggi neri intenti a divorarne il cadavere. Poteva sentire il rumore della masticazione. Si allontanò di corsa soffocando un’imprecazione: stava per rimettere la colazione. Fine dell'estratto Kindle. Ti è piaciuto?
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