Le mamme non mettono mai i tacchi Antiguida al mestiere di mamma
Luana Troncanetti Copyright Š 2015 Luana Troncanetti Tutti i diritti riservati
A mio figlio Alessandro, senza il quale la mia vita sarebbe un guscio vuoto. Ogni attimo passato con lui è come un giro sulle montagne russe: splendido, spaventoso e divertente.
A mio marito Stefano, che non a caso vanta il nome di uno dei Santi piĂš famosi del calendario.
A tutte le mamme alle quali sarò riuscita a strappare un sorriso, con la certezza che vivano pienamente felici anche in scarpe da ginnastica.
PREFAZIONE
Ho conosciuto Luana per lavoro. Stavo cercando una mamma blogger per il programma che conduco su Radio Capital. Non mi ricordo per quali strani giri sono arrivata a lei. Il suo blog ha un nome che mi aveva incuriosito: La Staccata. Avevo pensato che si riferisse a un distaccamento dal mondo, all'isolamento, alla voglia di estraniarsi da tutto. Solo dopo aver letto l'introduzione ho capito il vero senso e soprattutto l'ironia che rende Luana speciale. Staccata si riferiva ai tacchi delle scarpe. Lei è una mamma che va sempre di corsa dalla mattina alla sera e che per farlo e stare dietro al figlio ha bisogno di scarpe comode. Proprio come me! Fa parte di quella schiera di madri che arrivano all'ultimo secondo davanti al portone della scuola, con i capelli scompigliati, guardate male da quelle mamme curate, sempre perfette, con la piega precisa e le unghie laccate. Poi ho parlato al telefono con lei. Sono stata travolta dal suo tono allegro, da quella voce vivace e simpatica che la contraddistingue. E alla fine ho avuto modo di incontrarla. Era in un gruppetto di altre mamme blogger ma l'ho riconosciuta al volo. Un sorriso aperto e sincero in mezzo ad una nuvola di capelli neri e morbidi. Mi ha colpito il suo fare gioviale. Mi sembrava un'amica che non vedevo da tanto tempo. Le sue storie, i suoi racconti arrivano subito al centro. Nessuna bugia, nessun giro di parole. Luana riesce a smascherare sÊ stessa e di conseguenza anche chi legge. Quante volte mi sono ritrovata nei suoi affanni di madre, nelle sue preoccupazioni. E,
grazie al suo modo di raccontare, ho riso delle sue cronache quotidiane. Rendendomi conto, in un secondo tempo, di riuscire a sorridere anche delle mie. Non è facile essere mamme. Si parte con le più belle intenzioni del mondo. Si ricorda la nostra infanzia e ci si ripromette di non essere uguali alle nostre madri e di fare meglio. Poi ti ritrovi da sola con questo batuffolo di carne e ti senti spaesata in un mondo in cui tutti ti sembrano perfetti. Parenti pronti a giudicare, pseudo amiche che ti raccontano di avere bimbi ubbidienti, madri che incontri al parco e che ti osservano con uno sguardo di disapprovazione perché tuo figlio è l'unico che fa i capricci. Ti accorgi che nessuno ti premia quando compi un'azione giusta mentre sono tutti pronti a rimproverarti al minimo sbaglio. E a volte ti senti davvero sola. Per fortuna c'è un movimento meraviglioso di queste mamme blogger che non hanno paura a scrivere sul Web che delle volte sei così disperata e stanca che regaleresti tuo figlio alla tua vicina di casa pur di avere un minuto di silenzio. Mamme che con le loro parole ti fanno sentire meno “strana”, che comprendono che basta un po' di riposo per farti tornare sana di mente, che sanno darti una pacca virtuale sulla spalla in un momento in cui il mondo sputa sentenze sul tuo essere madre. Voglio ringraziarle tutte queste mamme blogger. E soprattutto grazie a Luana che ci insegna che l'ironia e il prendersi meno sul serio sono la ricetta giusta per essere una madre “staccata” ma comunque sempre presente con i propri figli. Nei momenti neri basta leggere le sue righe per riprendere a sorridere e avere la forza di andare avanti. Evviva le mamme staccate di tutto il mondo.
Silvia Mobili
INTRODUZIONE
Dove sono andate a finire quelle incantevoli mamme con i capelli cotonati, la gonna a ruota e gli occhi truccati di eye-liner, che indossavano i tacchi alti anche per andare a buttare la spazzatura? Sono pezzi da museo, come la televisione in bianco e nero orfana di telecomando o le improponibili buste del latte triangolari. Si nascondono in qualche angolo polveroso della nostra memoria, avvolte da un impalpabile odore di torta di mele e cera per pavimenti. Si affacciano ogni tanto da qualche vecchia fotografia ingiallita, le belle bocche rosse sorridenti e un bacio sempre pronto a fior di labbra. Sono out, passate di moda, obsolete, si sono estinte. Sì, ma quando? È successo sessantacinque milioni di anni fa, quando qualcosa le ha fatte sentire improvvisamente ridicole, quando qualcuno ha stabilito che tutte le donne “devono” lavorare. Anche quelle che in realtà non ne avrebbero alcun bisogno. O alcuna voglia. L’affermazione «Non lavoro, sono solo una casalinga» scatena un senso di vergogna incontrollabile; sembra quasi l’ammissione di un fallimento. Alcune troverebbero meno imbarazzante confessare in pubblico che sotto la camicetta nascondono tre seni. Vi siete mai chieste quante doti manageriali richiede l’essere “solo” una casalinga? Sono requisiti che non tutti possono vantare: predisposizione allo stress, costituzione fisica robusta e indole stacanovista, votazione al sacrificio e, all’occorrenza, rinuncia al diritto alle ferie con il vantaggio, però, di poter amministrare una certa quantità di tempo a propria disposizione. Se svolto con intelligenza e capacità, quello della “solo” casalinga è un mestiere che offre soddisfazione al pari di molti altri lavori. Senz’altro è più dignitoso delle attuali offerte di impiego che prevedono stipendi da fame e contratti ridicoli. E a tutte quelle che, a conti fatti, non trovano poi questa gran realizzazione nel proprio lavoro, propongo un coming out spiazzante: dichiarate apertamente che adorate fare i tortellini a mano, che non vi spaventa organizzare una cena per trenta persone o che trovate divertente tirare a lucido l’argenteria. Confessate senza remore che la vista dei vostri pavimenti sfavillanti vi procura sensazioni seconde soltanto all’orgasmo multiplo e che catalogate i maglioni in religioso ordine cromatico. Dieci a uno che tenteranno di farvi internare alla Neuro, ma se la vostra vera natura è questa, che male c’è ad ammetterlo? Anche se non appartenete alla specie delle casalinghe per vocazione, non abbiate timore di ridimensionare lo spazio che normalmente riservate al lavoro, soprattutto
quando diventate madri. Esiste una via di mezzo fra l’angelo del focolare anni ‘60 e la rampante donna in carriera degli anni ‘90. Questa sorta di anello di congiunzione fra le due specie è la Donna habilis, cioè “donna che sa lavorare”, comunque e in ogni luogo, un soggetto capace di muoversi con agilità fra le scartoffie di una scrivania così come fra pannolini e biberon. Quando decide di prendere una pausa per occuparsi dei figli, difficilmente è condannata a subire danni irreversibili alla materia grigia. Il cervello è un organo profondamente democratico, se si ha la fortuna di possederne uno: di solito i neuroni non migrano verso lidi ignoti quando si passa dall’ufficio alle quattro mura domestiche. Basta non fossilizzarsi nel proprio ruolo, dedicarsi ai passatempo abbandonati da tempo imprecisabile, amministrare in modo intelligente il proprio tempo e magari reinventarlo, creando pian piano le basi per costruire una nuova professione. Non dover sottostare per un po’ agli ordini di un capo nevrotico, custode di appena un decimo della tua intelligenza, può rivelarsi un’esperienza fantastica e anche produttiva. Trasformarsi in una Donna habilis è tutto sommato semplice: chi vuole tentare l’esperimento può iniziare a scrivere un libro, rileggere la Divina Commedia, studiare una lingua mediorientale, imparare a giocare a curling o più semplicemente godersi un intero pomeriggio con i figli senza l’incubo di dover cronometrare il tempo a propria disposizione. L’immagine della ciabattona ossessionata dalla quotidiana lotta contro i pericolosi nemici dell’igiene è materiale da barzellette: il moderno angelo del focolare ha gettato da tempo bigodini e pattine alle ortiche. La scopa, ora, la usa soprattutto per spazzare via lo stereotipo della casalinga disperata. A tutte quelle che, per necessità economica, sbrigano quotidianamente l’enorme mole di lavoro che comporta gestire un impiego a tempo pieno e l’essere madri, va tutta la mia solidarietà. Alle altre, che hanno il privilegio di poter scegliere, lancio un appello: lavorate solo se ciò vi rende felici, se confondete la spugnetta per lavare i piatti con quella per pulire il water, se non siete in grado di bollire un uovo senza farlo esplodere, se le istruzioni della lavatrice vi sembrano macchinose come i comandi dell’Enterprise, se uno stipendio supplementare vi salva dallo sfratto esecutivo e non perché “così fan tutte”. Noi donne ci siamo disabituate a godere del nostro tempo libero, a gratificarci con piccoli spazi magici da riservare a noi stesse e ai nostri figli, a godere di soddisfazioni
forse esigue, ma immediate e tangibili. Soprattutto non sempre ci accorgiamo che la maternità non è affatto un punto di arrivo, ma di ripartenza. Sono sempre più frequenti i casi di donne che incanalano le proprie abilità in settori legati alla loro nuova condizione di madre: nascono perciò professioni utili a migliorare la qualità della vita delle famiglie, realtà che si occupano di tutelare l’ecologia con particolare attenzione ai prodotti destinati a mamme e bebè, associazioni a tutela delle madri lavoratrici, consultori che “fanno” informazione, in modo totalmente nuovo, sui più svariati campi legati all’universo “mamma”. Il concetto di madri che si reinventano dal punto di vista lavorativo, un po’ più indulgenti verso se stesse, meno invischiate nella smania di voler apparire perfette a tutti i costi e soprattutto multitasking per dovere è piuttosto nuovo, ma non così raro. Non tutte possono permettersi il lusso di riorganizzare la propria vita ottenendo un part-time, lavorando a collaborazione o magari da casa, questo è pacifico. Però, se le condizioni economiche lo consentono, perché non provarci? È proprio questo il punto: troppo impegnate a liberarci dal pesante cliché di “mantenute”, siamo il moderno prodotto di una vita frenetica raramente capace di regalarci serenità. Dobbiamo, quindi, pagare il prezzo della nostra emancipazione con il fiato corto e la costante sensazione di non riuscire mai a fare abbastanza: ma ne vale davvero la pena? Mutano le mamme e cambiano anche i figli. Adesso navigano in internet a tre anni, imparano le lingue alla scuola materna, sono smaliziati, svegli, impossibili da infinocchiare. Diversi anni fa, mio figlio mi ha chiesto di aggiustargli il cellulare della Chicco perché non inviava più gli sms; aveva da poco spento la sua seconda candelina. Se sapesse che il bisnonno dava del “voi” al padre o che ha trascorso buona parte della sua primissima infanzia per capire come liberarsi dalle fasce, penserebbe che gli stia raccontando una delle favole strampalate che m’invento ogni sera per farlo addormentare. Qualunque sia la sua occupazione, la mamma d’oggi deve essere veloce, attenta, aggiornata, fare tutto presto e bene. Più lenta è, meno possibilità ha di mantenere il suo ruolo. Altrettanto sembrano dover fare i figli. La nuova tendenza è stimolare i bambini con attività “indispensabili” per la loro crescita. L’intento di non far rimanere indietro i propri figli rispetto agli altri è per alcune una seconda religione.
I nostri bimbi vivono quindi l’entusiasmante prospettiva di poter scegliere fra svariate soluzioni per impegnare il pomeriggio: corsi d’ikebana, découpage, solfeggio con il flauto di Pan, scuola di giapponese e russo, seminari di cultura araba antica e contemporanea. Le nuove mamme devono perciò ottimizzare il tempo, cronometrare al centesimo di secondo ogni attimo disponibile, gestire un’agenda d’appuntamenti fitta di impegni, appiccicare post-it in ogni dove per ricordarsi di andare a riprendere il figlio a scuola di origami, una volta uscite dall’ufficio, stirato quattro lavatrici, passato lo straccio per terra e aver fatto un salto al supermercato per lo spesone settimanale. Non conosco mamme che indossano i tacchi. Mai. In nessuna circostanza. I deliziosi sandali gioiello, acquistati in occasione del matrimonio di mio cugino, hanno trovato precoce sepoltura in un sacchetto della spesa a metà celebrazione, quando mio figlio ha deciso fosse cosa buona e giusta appiccare il fuoco allo strascico della sposa. Le mamme sono spesso delle ex donne. Solo quelle veramente tenaci riescono a conservare un briciolo della loro antica femminilità, perché ciò richiede l’acquisizione di strabilianti abilità, tipo riuscire a farsi la ceretta durante il sonno. Le unghie laccate, il completino Chanel e il tacco dodici sono lussi inimmaginabili se si ha a che fare con uno o più bebè. A meno che tu non sia Sarah Jessica Parker, intenta a scribacchiare articoli in una pittoresca mansarda al centro di Park Avenue, i tacchi alti non te li puoi proprio permettere. Sicuramente non prima del compimento del diciottesimo anno d’età di tuo figlio. È sempre più gravoso conciliare la cura della casa con il lavoro, mantenere un rapporto decente con il proprio compagno e crescere teneramente dei figli. Lo spauracchio del collasso nervoso ci aspetta dietro l’angolo. Non ha fretta. Sa che prima o poi crolleremo fra le sue braccia premurose, in cerca di un po’ di meritato riposo. Essere mamma, oggi, corrisponde a correre. Sempre. Senza soluzione di continuità. A questa corsa sfrenata gareggiano tutti i tipi di mamma, dall’apprensiva alla distratta, dall’igienista alla donna manager. Non importa la categoria d’appartenenza, il requisito fondamentale per partecipare è l’essere state ospiti di una sala parto almeno una volta nella vita. Siamo tutte impegnate a tagliare il faticoso traguardo del donare il meglio di noi stesse ai nostri figli, in assoluta buona fede, più o meno consce del fatto che molti dei nostri comportamenti trasformeranno la prole in potenziale materiale da lettino psichiatrico. Coraggio sorelle, uniamoci in un abbraccio universale per ridere insieme dei limiti, delle fisime, degli ostacoli che avvelenano il nostro mestiere di mamma. Non
ostiniamoci a voler somigliare a quelle madri impeccabili, le uniche che all’alba imbandiscono la tavola con i cupcakes fumanti già perfettamente truccate, profumate, pettinate e soprattutto “taccate”, che ammiccano sorridenti dagli spot pubblicitari. Le donne autentiche, alle sei del mattino, è già un miracolo se riescono a trascinarsi in bagno per fare pipì senza centrare con la fronte lo stipite della porta. Eliminiamo la nostra sete di perfezione e sfrecceremo verso il traguardo, libere da un’inutile zavorra: alla fine i nostri cuccioli cresceranno e la grande corsa finirà, lasciandoci soltanto un vago ricordo di tenerezza mista a orrore. Un giorno, potremo gettare via le scarpe da ginnastica e riconquistare il diritto a infilare un paio di sandali con il tacco. Ma allora, devastate dall’osteoporosi, non saremo più in grado di camminare, se non con l’ausilio di un deambulatore.
CAPITOLO I
LA FELICITÀ PER UNA MAMMA? ESSERE ANALFABETA E ORFANA DI TV Il titolo di questo capitolo vi sembrerà un filino estremista, ma leggendo di seguito vi accorgerete che l’analfabetismo, in certi casi, può costituire un ottimo salvavita. La televisione, poi, si rivela sporadicamente una splendida alleata, ma la maggior parte delle volte diventa la peggior nemica di una mamma.
LIBRI & RIVISTE SPECIALIZZATE
Una donna in stato interessante è un’insaziabile divoratrice di carta stampata, perché desiderosa di documentarsi sul come crescere un figlio carino e coccoloso che susciti meraviglia e giubilo nel vicinato. Gli scaffali delle librerie pullulano di opere di autorevoli psicologi i quali, dopo anni d’attenta e professionale osservazione dell’universo infantile, si sentono in dovere di donarti la loro onniscienza. Poi vanno a godersi i diritti d’autore in un hotel esclusivo alle Bahamas, rigorosamente senza bimbi fra le scatole, perché cinque volte su dieci non ne hanno mai visto uno da vicino. Lo strafamoso Estivill, tanto per citare un nome a caso, non è neanche un pediatra come pensano in molti, ma un medico specializzato nei disturbi del sonno. Non mi risulta che abbia dei figli e, se li ha, immagino abbiano richiesto asilo politico all’Unicef ancora in fasce, subito dopo aver subito il metodo nazista descritto nel suo Fate la nanna. Se davvero una di queste menti eccelse avesse scoperto come crescere in scioltezza i bambini e quindi diffondesse la lieta novella tramite rotativa, sarebbe canonizzata all’istante senza neanche chiedere il parere di Sua Santità. Né lui né il suo editore conoscerebbero più miseria. Le pubblicazioni specializzate nell’addestramento alla maternità sortiscono molteplici effetti, che si susseguono in questa sequenza:
1.
Iniziale fiducia nelle teorie esposte.
2.
Frustrazione per la tua incapacità di metterle in atto.
3.
Dubbi sull’efficacia dei consigli prospettati.
4.
Certezza che tali teorie non funzionino.
5.
Relegazione del volume nell’angolo più recondito della tua libreria.
Nessuno può insegnarti come fare il genitore, perché i bambini sono pezzi unici e non nascono con il libretto delle istruzioni attaccato al cordone ombelicale. Anche se fosse, questo verrebbe via con un taglio di forbice e si rimarrebbe comunque fregati. L’unica regola valida da adottare quando ti assumi la responsabilità di crescere un figlio è convincerti che non esistono regole valide. E se decidi di mettere in pratica un suggerimento, fallo con il beneficio del dubbio. Se non funziona, vuol dire che non va bene per tuo figlio. Non significa che non funzioni tu.
Ogni bambino è un mondo a sé, un’assoluta e destabilizzante scoperta giornaliera. L’escamotage che funziona con la docilissima nipote del pescivendolo, difficilmente potrà rivelarsi utile con il tuo demonio scatenato. Ho provato ad adottare il suggerimento di un eminente pediatra americano (T. Berry Brazelton, nel suo Il bambino da zero a tre anni) un giorno in cui mio figlio ha iniziato a dare di matto in un centro commerciale: Cercare un modo per prendere tempo o tenerlo in braccio stando seduti su una sedia a dondolo per cullarlo e interrompere la tensione accumulata. Questo aiuterà anche i genitori. In questo momento di rilassamento sussurrare al bambino: «Scusami, io ti voglio bene, ma non mi piace affatto quello che stai facendo. Ti devo frenare almeno fino a quando non imparerai a fermarti da solo. Sorvolando per il momento sulla difficoltà oggettiva di reperire una sedia a dondolo nel parcheggio di un centro commerciale, chiarisco come mai il consiglio del buon Brazelton sia fallito miseramente. Dopo avermi fatto pronunciare le prime due sillabe dell’illuminante discorsetto, mio figlio ha ricominciato a scalciare e a lanciare grida così lancinanti da indurre buona parte dei presenti a pensare che lo stessi scuoiando vivo. Non appena mi sono accorta che una zelante signora stava dettando il numero di targa della mia auto a un operatore del Telefono Azzurro, ho trovato più efficace minacciare il piccolo isterico di sequestrare, torturare e quindi decapitare il suo dinosauro preferito. Ha smesso subito. Diseducativo, ma rapido. Alla faccia del pediatra americano. E della zelante signora. È a mio avviso decisamente più costruttivo ascoltare le esperienze di quelle donne che all’inizio della loro carriera erano spaventate dalla maternità, insicure, subissate di consigli inopportuni, martellate di doveri e di “si fa in questo modo”. Donne che ancora oggi, magari con figli che vanno già alle elementari, hanno tanti, tantissimi dubbi. Condividendo le loro paure, magari con un pizzico di ironia che non guasta mai, diffondono in giro la consapevolezza che spaventate lo siamo un po’ tutte. Il che è un conforto mica cavoli. Mi associo a ciò che scrive Barbara Sgarzi nella prefazione del libro Hai voluto la carrozzina? Spunti di sopravvivenza da 15 mamme che pedalano sul Web, soltanto un esempio fra le tante testimonianze di donne che raccontano la maternità autentica, quella vissuta da ciascuna di noi: Se servirà a tranquillizzare o a fare sorridere anche solo una neomamma che si sta guardando allo specchio con il pupo in braccio chiedendosi: «E ora cosa faccio?», avrò raggiunto l’obbiettivo.
Questo è anche lo scopo del libro che state leggendo, che si prefigge l’unica missione di abbracciarvi con un confortante «Coraggio, cara. Capita anche a me».
IL RUOLO DISEDUCATIVO DELLA TV Premetto che io sono di Roma. Non dormo all’ombra del Colosseo da sette generazioni, perché quello è un pedigree che può sfoggiare soltanto uno spaurito gruppetto di trasteverini, ma la mia famiglia si è installata nella capitale da un numero di decenni sufficienti a fare di me una romana d’adozione D.O.C. Appartengo a una tribù bizzarra: mezzosangue calabrese-marchigiano ed è forse questo mio essere meticcia che mi porta, da sempre, a saltare sulla sedia ogni volta che qualcuno dice quella parolaccia. È di pessimo gusto, ma nell’immaginario collettivo associarla alla romanità è diventata una triste consuetudine. Dobbiamo ringraziare i film di Bombolo e “der Monnezza” o quelle pellicole di cassetta dove il romano ti saluta con un buongiorno intramezzato da un paio di morta...tua tanto per gradire, se no la notte non dorme sereno. Peccherò nel dire che ho un intelletto che va oltre, ma le parolacce non mi hanno mai fatto ridere. Sono e rimangono quelle: parolacce, fini a loro stesse. Qualche mente lucida ha pensato di introdurre quella parolaccia capitolina in uno spot qualche anno fa. Andava in onda anche in fascia protetta, e ho potuto constatarne i risultati. Ale, mio figlio, stava lavando i dentini. Gli è caduto il dentifricio nel lavandino e, sereno come se stesso cinguettando “perdindirindina”, ha tuonato un sonoro «Ma li mort…tua!» con un vocione da baritono. Sono caduta a faccia avanti nel bidet, chiedendomi come accidenti fosse possibile che un bimbo che vive in una famiglia dove lo si rimprovera anche se gli scappa uno “stupido”, potesse esprimersi come un coatto della peggior sottocategoria. La risposta me l’ha fornita qualche ora dopo una mia amica, durante una telefonata. «L’hai vista la pubblicità?».
«Quale?». «Quella dove alla fine dicono ma li morta…tua». «Scherzi?». «No, sono serissima». «Avrai capito male…». «A Lua’, so’ de Roma, come faccio a’ ave’ capito male?». Già. L’aveva compresa e registrata anche Alessandro quella garbata espressione. E per lungo tempo ho tremato ogni volta che gli scivolava qualcosa dalle mani o che sbatteva contro un mobile. Lodi e squisitezze al genio che ha elaborato quello spot, e a tutti quelli che ancora oggi non si fanno problemi a partorirne di simili. Mi verrebbe da esclamare «Ma l’anima de li mejo morta… vostri!». Se necessario, so sdoganarmi dalla mia signorilità. Fatico di brutto, ma se mi impegno posso tranquillamente farcela.
LA PUBBLICITÀ L’ambientazione è sempre la stessa: ora di cena, TV accesa su un cartone animato, bimbo accomodato sul seggiolone, minestrina fumante nella ciotola e mamma impegnata in un’operazione seconda soltanto alla scissione dell’atomo a mani nude: convincere il figlio che vale la pena di ripulire il piatto fino all’ultima zucchina. Il pupo la guarda con la tipica espressione “Guarda che sono piccolo, mica scemo!”, sul tavolo si accatastano caffettiere smontate, chiavi a brugola, uno spremi-aglio, trapani a batteria, pennarelli colorati, puntine da disegno, un reggiseno da allattamento e almeno un paio di pannolini ( non necessariamente puliti). Finalmente il piccolo si decide: APRE LA BOCCA! Sììì! La mamma infila fulmineamente il cucchiaio nella boccuccia spalancata, con la stessa felicità di chi ha appena recuperato cento euro dimenticati nella tasca di un cappotto. Dopo un paio di cucchiaiate, però, in cucina si materializza improvvisamente Belzebù. Il bimbo ha un guizzo demoniaco negli occhi, agita le braccine, serra le mascelle, investe la madre con uno spruzzo di minestra e fissa lo schermo con cupidigia. Indica,
speranzoso ed esultante, l’oggetto del suo desiderio con il ditino puntato: «Vojo quello, compami quello!». La mamma sprofonda nella desolazione più cupa e maledice il giorno in cui ha deciso di mettere il televisore in cucina. A nulla vale spiegare al piccolo che sono le otto di sera, che i negozi sono chiusi e che, per di più, abitate in una baita isolata di uno sperduto paesino della Valle d’Aosta. Due sono le soluzioni: la prima, più drastica, consiste nel far urlare il bambino fino a quando, in preda alle convulsioni, si accascia privo di forze sul seggiolone con un preoccupante colore violaceo sul volto. La seconda, più dolorosa, è fare in modo di accontentarlo. Anche se fuori nevica e la strada è interrotta a causa del ghiaccio, dovrete infilare un paio di sci e andare a comprare la merendina/balocco/bambola/bicicletta o qualsiasi altra stronzatella abbiano pubblicizzato in quel momento, vendendo anche il vostro corpo, se necessario, al direttore del centro commerciale più vicino per far riaprire il reparto giocattoli. Avrete a quel punto rischiato l’osso del collo perché non sciavate da quindici anni, e avrete di certo cornificato vostro marito con il suddetto direttore (magari anche con un pizzico di sana soddisfazione), e avrete sicuramente infranto senza pietà ogni regola dettata dalla logica, ma accontentato infine il baby consumista e assicurato una serata tranquilla a voi e al vostro ignaro compagno.
I CARTONI ANIMATI Come mai considero i cartoni animati un ostacolo alla vita di mamma? Semplice. Basta guardarli, narrano in genere di esistenze miserrime e sfigatissime. In più, sono spesso violenti e diseducativi. Anche quelli dall’apparenza più innocente celano significati difficili da spiegare ai bambini. Un altro motivo è perché sono un pizzico scaramantica. Nei cartoni animati i genitori non hanno vita facile, o meglio, vengono sterminati in massa come se una crudele entità suprema avesse deciso un genocidio della categoria. Non mi stupirei se un giorno mio figlio mi chiedesse candidamente: «Mamma, ma perché tu e papà vi ostinate a rimanere vivi?». I personaggi dei cartoons non hanno mai i genitori, ma proprio mai. Vi cito esempi ormai antidiluviani, lampanti solo per chi è nato negli anni Settanta come me. A partire da Lady Oscar, che una madre più o meno ce l’ha, ma viene tirata su a colpi di
fioretto da un padre misogino, si arriva a un nutrito elenco di sfortunate signorine che popolano più o meno allegramente gli orfanotrofi: Anna dai capelli rossi che vola e va come una rondine/ però un nido non ce l’ha/ non ha una mamma né un papà, Peline, e la più famosa Candy Candy che, senza uno straccio di amica, confida le sue pene d’amore a un procione, perché di meglio il convento non passa. Remì, senza cena però che allegria /tu non hai un tetto su te/ basta però un ponte per voi (sì, me la immagino che allegria), porta a casa la pagnotta (“a casa” si fa per dire) mendicando spiccioli con la sua attività di artista di strada. Anche i genitori di Heidi passano a miglior vita. La piccola, una volta ripudiata pure dalla zia, viene affidata a un nonno misantropo, costretta a mungere caprette e a dormire su uno scomodo pagliericcio per il resto della sua grama esistenza. Ma lei è contenta, sì. È decisamente contenta, perché quella dell’orfana tutto sommato è una gran bella professione. Ride, tenacemente. Anche quando pesta una cacca addormentata nei verdi pascoli, lei ride. E mentre si rotola nel fieno, le caprette le fanno ciao e le sorridono i monti. Ride, perché per reggere una vita così grama e quel ridicolo taglio di capelli sicuramente si fa di crack, e pure in modo pesante. Anche il padre del suo amichetto Peter non si vede mai negli episodi (ne deduco che abbia fatto una brutta fine anche lui) e quindi nella sua poverissima famiglia si sopravvive grazie ai magri ricavi della pastorizia. La nonna di Peter, tanto per regalare un tocco di rosa all’insieme, è cieca, sdentata e affetta da misteriosa malattia. Il picco massimo della sua felicità consiste nel dissolvere a colpi di gengive i panini bianchi rubati da Heidi nella ricca casa di Francoforte. Un istante idilliaco destinato a durare poco: dopo essere rimasti per settimane in una sacca, sono ormai pietrificati come il pane di segale che la povera vecchina è abituata a mangiare ogni giorno. L’ingenua pastorella, infatti, ignora i processi chimici che fanno indurire e ammuffire il pane. Sarà perché, visto che nella sua bella valle nevica dieci mesi l’anno, non riesce mai a mettere piede a scuola? Può essere un’ipotesi. Neanche il mondo degli animali è risparmiato dalle stragi familiari: l’Ape Maia e l’Ape Magà (certo che agli sceneggiatori l’originalità je spiccia casa!), orfane di razza, combattono ogni giorno contro mantidi religiose e calabroni assassini. Mai che incontrino una garbata coccinella, una coppia di lumachine in vena d’adozione, un branco di innocui e pacifici lombrichi pronti ad accoglierle nella loro comunità. Mai. E Simba? Anche lui in quanto a situazione familiare non è messo benissimo. Ha uno zio bastardo che gli fa fuori il padre facendo ricadere su di lui la colpa
dell’omicidio, quindi è costretto ad abbandonare il branco per andare a vivere con un facocero canterino, a trasformarsi in un vegetariano goloso di larve e insetti, e a vivere un’esistenza pseudo felice sulle note di Hakuna Matata.Quando ritorna a casa in età adulta, trova la savana un tempo rigogliosa trasformata in una steppa sterile e il suo branco alla mercé dello zio bastardo e dei suoi fidi scagnozzi. Soltanto un istante prima di lasciare l’intero stipendio allo psichiatra, non essendo mai riuscito a superare il senso di colpa per il presunto parricidio, scopre che è stato lo zio a scaraventargli il padre giù da una rupe. Ed ecco che Simba s’affretta a disdire l’appuntamento con lo strizzacervelli, riacquista fiducia in sé stesso, riconquista il suo regno e, mentre lo zietto finisce sgranocchiato dalle iene, si limita a limarsi gli artigli con noncuranza. Ora ditemi voi quale bimbo guarderebbe suo zio con gli stessi occhi dopo essersi sciroppato un simile esempio di amore fraterno. Roba che Caino e Abele, al confronto, sembrano Garrone e il piccolo scrivano fiorentino del libroCuore. E come non citare il povero Ryu, una sorta di albino in un mondo popolato da uomini con la pelle ambrata? Nel cartone, ambientato in un’ indefinibile era preistorica dove gli esseri umani convivono con i dinosauri, è ovviamente anche lui privo di genitori. Perciò, viene accolto ancora in fasce dall’amorevole scimmia Kitty. Per tutta la serie è inseguito da Tirano, il T-Rex orbo che non ha altro scopo nella vita se non quello di riempirsi la pancia con lo sfortunato ragazzotto e, all’occorrenza, anche con la sua mamma adottiva. Come se non bastasse, tutti lo schifano e lo odiano per il colore della sua pelle. I preziosi insegnamenti per la vita che se ne traggono sono due:
1)
Se sei diverso, nessuno ti vuole bene.
2)
Il razzismo ha radici ataviche.
I cartoni animati sono pieni di orfani, al 90% privi della madre. Le mamme vengono falcidiate da malattie fulminanti, eventi violenti, detenzioni ingiuste, che le trascinano verso una lenta morte per crepacuore. Sconvolgono il dato statistico che attribuisce alle donne un periodo di vita più lungo di quello degli uomini e spesso si compiacciono di mostrare il momento in cui le poverette escono per sempre di scena. Il cartone più esplicativo in questo senso rimane da sempre quello di Bambi,
che inizia proprio con la confortante immagine della mamma presa a schioppettate dal cacciatore. Ha traumatizzato generazioni di bambini; anche il cinquantenne più insensibile ha fissa nella memoria la sequenza di quegli spari e non può fare a meno di singhiozzare in ricordo dello choc subìto in tenera età. Non vorrei apparire esagerata, ma tutto questo parlare di genitori morti temo possa convincere i bambini che mamma e papà debbano precocemente passare a miglior vita. Il che, facendo le corna, è purtroppo un’eventualità plausibile, ma… perché angosciarli con un’evenienza che ci auguriamo tutti si compia con la massima serenità e, possibilmente, nel calduccio del nostro letto, dopo aver spento la nostra centunesima candelina?
LE FIABE Avete un bambino che la sera non vuole andare a dormire neanche con una flebo di Tavor ben avviata in vena? Il consiglio più comune, gentilmente offerto da chi ha figli affetti da narcolessia irreversibile, è quello di raccontare una fiaba fino a quando sicurameeente il piccolo sprofonderà in un sonno tranquillo. Un sonno tranquillo? Ma avete mai letto attentamente le favole? Pensate sul serio che raccontare ai bambini quel genere di storie possa conciliare il sonno e addirittura assicurare un riposo sereno? Cito, ad esempio, la fiaba Pelle d’Asino. Narra di una principessa rimasta orfana in tenera età. La madre, una donna di rara avvenenza, in punto di morte fa promettere al re di risposarsi soltanto a patto di trovare un’altra moglie bella quanto lei. Dopo il trapasso, il re viene preso da una depressione acuta. Non riesce a trovare nessuna donna graziosa come la moglie defunta. Un bel giorno si accorge che la figlia, ormai adolescente, somiglia alla madre come una goccia d’acqua e viene colto da un dissennato desiderio di sposarla. La figlia, per fuggire alla follia del re, chiede aiuto alla fata madrina, che le consiglia di accettare il matrimonio a patto che egli riesca a esaudire dei desideri impossibili da realizzare. Il re riesce a soddisfare tutte le sue richieste. La stessa fortuna che scorazza nei cartoni animati esiste anche nelle fiabe. L’ultima carta da giocare per salvarsi dal suo insano volere è chiedergli di uccidere il suo asino preferito e di regalarle la sua pelle. Nonostante il somaro sia in grado di
trasformare l’acqua in monete d’oro, il re non esita a far uccidere e scuoiare il povero animale. Ovviamente. La ragazza, allora, fugge lontano, indossando la pelle d’asino in modo da non farsi riconoscere da nessuno; poi, trova lavoro in una fattoria come guardiana di porci e vive per anni nascosta come una delinquente. Il suo unico conforto è dato dall’indossare, lontana da occhi indiscreti, i gioielli e gli splendidi vestiti che ha portato con sé al momento della fuga. Malgrado lo scontato finale a lieto fine (il solito principe azzurro che la salva e se la sposa) la fiaba contiene nell’ordine:
1) fa più
La consueta dipartita precoce di uno dei genitori (nello specifico: la mamma,
audience). 2)
Il concetto di vanità.
3)
La follia portata dalla depressione.
4)
L’incesto.
5)
La violenza sugli animali.
6)
L’esilio.
7) delle
Il mito del principe azzurro (un personaggio capace di rovinare l’esistenza
donne dalla preadolescenza alla menopausa).
Ditemi, ora: questi sono argomenti da snocciolare con serenità mentre si tenta di far addormentare un bambino? A sentire queste storie verrebbero gli incubi anche a me, che non ho più tre anni da un pezzo. Ma le tematiche inquietanti non finiscono qui. Come per i personaggi dei cartoni animati, anche alle varie Cenerentola e compagnia bella la vita non regala nulla. Il requisito fondamentale per essere un personaggio da fiaba è quello di aver perso entrambi i genitori o, nella migliore delle ipotesi, di vivere in condizioni di schiavitù sotto le grinfie di matrigne crudeli. Possibile che i papà delle fiabe, solitamente facoltosi mercanti o sovrani di territori smisurati, capaci di gestire
immense ricchezze, rincoglioniscano improvvisamente tanto da non riuscire a trovare una seconda moglie decente? Perché le principesse rimangono orfane di madri bellissime, dolcissime e amorevoli e, prima ancora di riuscire a metabolizzare il lutto, devono per forza ritrovarsi in casa delle orribili megere pronte a uccidere in scioltezza le figliastre a roncolate? Va bene che senza un pizzico di pathos in più la fiaba non riuscirebbe a intrecciare una trama avvincente, ma perché dipingere questi poveri padri come dei deficienti e, soprattutto, perché decidere sempre di far secche le mamme? Altra qualità essenziale per essere un personaggio da fiaba è quella di essere povero o di avere genitori (nel caso più unico che raro in cui siano ancora vivi) che, non potendo permettersi il tuo mantenimento, decidono di sperderti nel bosco. Ma non un bosco comune, nooo! Mammina e papino scelgono con cura una foresta fittissima di alberi tutti uguali, con un dedalo di sentieri intricati e un fiume non navigabile che non ti consentiranno mai di ritrovare la strada di casa. Pollicino e i suoi fratelli ne sanno qualcosa, ma anche Hansel e Gretel, fra un’iniezione d’insulina e un’altra, potrebbero raccontare la loro. Le foreste, anche se vengono utilizzate per abbandonarci i bambini, sono luoghi meravigliosi, popolati da uccellini cinguettanti, teneri cerbiatti dagli occhi di velluto, fiorellini multicolori e funghi a pois; ma sono anche dimora abituale di orchi puzzolenti, gnomi dispettosi, trolls dall’aspetto orrendo, lupi malvagi golosi di bimbe e nonne sprovvedute. Quindi, ricapitolando: se vivi nelle fiabe sei orfano, povero, maltrattato dalla matrigna, alla costante ricerca della strada per ritornare a casa, inseguito da lupi, orchi e gnomi malefici. Se sei un tipo davvero fortunato, potresti anche assistere in diretta allo sparo che rende orfano Bambi o al taglio cesareo del lupo cattivo che dona nuova vita a Cappuccetto Rosso e alla Nonna. Se sei il personaggio di una fiaba, sei destinato, prima o poi, a una lenta morte per denutrizione. Non puoi mangiare il risotto con i funghi perché sono avvelenati, non ti puoi avvicinare alla casetta di zucchero e marzapane perché ci abita la strega cattiva, non puoi addentare le mele rosse altrimenti cadi stecchito e vegeti in una bara di vetro a sperare che alla fine passi di lì un principe pomicione a salvarti dal sonno eterno. Quindi, ricapitolando, sei orfano, povero, maltrattato, alla ricerca della strada per ritornare a casa e senza tom-tom sono cavoli, inseguito da loschi personaggi,
testimone di pratiche truculente e anche perennemente affamato. Eccheccacchio! Alla faccia del sonno tranquillo!
S.O.S. TATA Come avrete modo di apprendere leggendo i capitoli successivi, il buon Dio ha voluto omaggiarmi di un bimbo che per lungo tempo avrebbe preferito gettarsi in un vulcano attivo piuttosto che regalarmi la soddisfazione di ubbidire almeno una volta durante gli anni bisestili. Per rallegrare il quadretto specifico che era cronicamente insonne, mangiava soltanto se costretto con la forza e ha iniziato a correre come una pallina impazzita da quando aveva poco più di nove mesi. Ho combattuto, perciò, per anni contro insonnia, disubbidienza, capricci, logorrea irrefrenabile e una vivacità a tratti sfiancante senza possibilità alcuna di vittoria. Credo che in cuor suo fosse sinceramente convinto che cedere alle richieste della mamma avrebbe comportato la liquefazione istantanea della sua collezione dei Gormiti, tragica eventualità che nessun bimbo in età prescolare sarebbe in grado di superare senza riportare danni cerebrali irreversibili. Le riflessioni che leggerete di seguito sono state scritte diversi anni fa, quando gestire la vivacità di mio figlio era un’operazione strettamente riservata ai supereroi. Allora ero ancora alla disperata ricerca di un sistema per risolvere qualche “problemino” che mi ha dato il suo bel da fare: «Confesso una mia imperdonabile negligenza: non ho mai preso in considerazione una possibilità fantastica per riuscire a risolvere questi annosi problemi: rivolgermi a S.O.S. TATA! Dovrò farlo, prima o poi, perché a quelle strabilianti educatrici è sufficiente attaccare dei cartelli con le regole da seguire per trasformare dei grizzly inferociti in mansueti agnellini. Come ho fatto a non pensarci prima? Ingenuamente, io ho adottato sempre lo stupidissimo sistema di spiegare per ore a mio figlio il perché sia necessario seguire determinate regole, senza mai stancarmi di ripetergli che a volte è sfiancante rincorrerlo dal terzo piano fino in cantina perché non vuole saperne di
asciugarsi i capelli. Me ne rendo conto solo adesso: sono inequivocabilmente una madre inetta. Subito dopo aver attaccato un bel manifesto sulla porta della cameretta con su scritto Si va a dormire alle nove di sera e l’immaginetta di un bimbo che ronfa beato, sono certissima del fatto che Alessandro sprofonderà istantaneamente in uno stato di narcolessia perenne. Non avrà neanche la forza di andare a lavarsi i denti: cadrà disfatto ai miei piedi come la Bella Addormentata e io non potrò fare altro che ammirare con commosso stupore la magnificenza della donna dei miracoli che è riuscita in un’impresa che io, protozoo celenterato, non ero mai riuscita a compiere. Ringrazierò con una letterina accorata la Tata che, in una sola settimana, sarà riuscita a convincerlo che è bene ubbidire sempre alla mamma: morire falcidiata da un infarto prematuro, vista la sua ancora tenera età, non è carino per niente. Al mattino, l’ex demonio si risveglierà dopo otto ore di sonno filato, con un radioso sorriso sulle labbra, impaziente di lavarsi e vestirsi per andare a scuola. Quindi, metterà a posto con entusiasmo i suoi giocattoli, mi aiuterà a preparare il caffè e non pretenderà più che gli cerchi il micro Gormita disperso nella cesta dei giocattoli, senza il quale non si può assolutamente uscire per andare all’asilo. A ogni sua buona azione, dovrò premiarlo con una stellina adesiva. Perciò, impecettato da capo a piedi, gironzolerà orgoglioso di mostrare ai suoi compagni di asilo il frutto del suo nuovo modo di essere e li esorterà perfino a emularlo, diffondendo così come una benefica epidemia il virus dell’ubbidienza. Nel pomeriggio, quando andrò a riprenderlo, non mi chiederà più di rimanere un’ora a giocare nel parco della scuola sotto la pioggia, non pretenderà più di girare la chiave nel quadro della macchina e magari di insegnargli i rudimenti della guida sportiva, non vorrà più andare a giocare a casa di Andrea anche se sa benissimo che quel pomeriggio il suo amichetto deve andare a kung fu. Mi seguirà, docile, dopo essersi sfilato da solo il grembiule e aver aiutato la maestra a risistemare l’aula semidistrutta dal gioco degli altri venti delinquenti, che si comportano male perché la loro casa è orfana di una delle Tate dispensatrici di consigli illuminanti e miracolosi. Poi, mi sveglierò da questo sogno impossibile, alzerò la cornetta, comporrò con calma il loro numero telefonico e le manderò a cagare. Tutte e tre.»
Poi i consigli dispensati in tv sono diventati un manuale da leggere e da consultare nei momenti di necessità, in cui i genitori troveranno sia risposte pratiche e immediate ai singoli problemi sia un vero progetto educativo. Tutto ruota intorno alla felicità, con l’obiettivo di creare un clima domestico sereno e gratificante per bambini, ragazzi e adulti. Questo il contenuto del fantastico libro che racchiude la saggezza della Capa Tata Lucia, la geniale donna che con il suo grembiulino nero a pallini bianchi riesce laddove noi, povere amebe decerebrate, non riusciremo mai. Preciso, a scanso di eventuali querele da parte della signora Rizzi, che sono assolutamente convinta del fatto che sia un’esperta in materia, e che alcuni bambini si possano effettivamente addomesticare. Alcuni, non tutti come dice lei. Ma le domande sorgono spontanee: 1)
Cosa succede quando le telecamere si spengono e lei abbandona i genitori ai mostriciattoli che ha così abilmente trasformato in mansueti agnellini?
2)
Chi ci garantisce che dopo il suo intervento l’esorcismo non sia reversibile?
3)
È davvero convinta che siano i bambini a beneficiare dei suoi servigi oppure sono i genitori che, sotto i suoi suggerimenti, rinsaviscono improvvisamente e realizzano che non è sano far bere la birra ai proprio figli oppure farli giocare con le seghe circolari?
A voi non sembra che nella trasmissione siano più i genitori ad aver bisogno della Tata piuttosto che i figli? Mi spiego meglio: ho seguito diverse puntate del programma dove alcune mamme e papà permettevano l’impossibile ai bambini (giornate intere davanti ai videogiochi, caffè al mattino e birra ai pasti, trapani elettrici in sostituzione dei giochini di plastica morbidosa). Ovvio che genitori così crescano dei piccoli sciagurati, ma come la mettiamo con quelli che, come me, tentano da secoli di applicare delle sane regolette? Perché una mamma che ha sempre adottato le tecniche più svariate per farsi ubbidire dal proprio figlio (assolutamente identiche a quelle prospettate dalla Tata) si ritrova comunque un bambino irrimediabilmente disubbidiente? Mio figlio, non lo faccio giocare con i seghetti alternativi, io, non mi sono mai sognata di dargli il caffè (ci mancherebbe altro, finirei col ritrovarlo attaccato al
lampadario del soggiorno più frequentemente del solito), ho provato per quattro anni a metterlo a nanna alle nove, ma continuava a saltellare nel lettino fino a mezzanotte nonostante lo avessi tramortito di camomilla e fiabe, gli ho spiegato fino allo sfinimento il “perché” e il “per come” certe cose non vadano fatte, ma lui, imperterrito, continuava a strafottersene. E allora? Come la mettiamo? «Grazie lo stesso, Tata Lucia. I suoi consigli sono preziosi, ma forse per farci ubbidire dai nostri figli è più costruttivo attendere i miracoli. Sono rari, ma accadono. Con la massima cordialità, s’intende.».
Ed ecco cosa vi racconto oggi, a miracolo avvenuto: Tata Lucia non me ne voglia, non ho mai considerato i suoi consigli errati in senso assoluto. È errata la convinzione che funzionino con qualsiasi bambino, il che è una sfumatura non da poco. Io quello che racconta lei in tv l’ho sempre messo in pratica, molto prima che qualcuno realizzasse l’illuminante format S.O.S. Tata. Non ci vuole una scienza infusa per comprendere che piazzare un bambino davanti al televisore a vedere il wrestling fino a mezzanotte non concilia il sonno, mentre la cerimonia di addormentamento con bagnetto caldo, camomilla come se piovesse, luci soffuse e la lettura interminabile di fiabe teoricamente sì. Non serve una laurea in pedagogia per comprendere tutto ciò. L’unico elemento indispensabile per riposare sereni è beneficiare di una discreta botta di culo che ti regali un figlio che non solo abbia la bontà di addormentarsi a un orario decente, ma che la notte non si svegli ogni due per tre. Mio figlio non dormiva, punto e basta. Neanche un esercito di Tate Lucia armate di Nopron sarebbero riuscite a compiere il miracolo.
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