Scrittore innamorato nei guai

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Collana “Happy”

Mirko De Gasperis

Scrittore innamorato nei guai Romanzo

Butterfly Edizioni

Prima edizione cartaceo febbraio 2014 Prima edizione ebook febbraio 2016

ISBN 978-88-97810-31-5

Copyright © 2014 Butterfly Edizioni http://autoributterflyedizioni.wordpress.com http://butterflyedizioni.wordpress.com butterflyedizioni@yahoo.it


A mia nonna

1 E così il ragazzo finì per accecarsi di sua spontanea volontà, per non dover più guardare il mondo. Ma, mentre l’oscurità diventava la sua nuova realtà, la mente già gli si riempiva di domande. Quanto era giusto chiudere le porte al mondo? L’altruismo verso gli altri, verso le persone che per lui contavano, lo avrebbe aiutato a fare pace con il mondo? Il fatto che avesse fallito, dimostrava che lui era inadatto a vivere o che erano semplicemente un mucchio di bugie? Gli altri avevano fatto davvero tutto il possibile per andargli incontro? Quanto poteva dipendere da loro, da egli stesso? Era soltanto una stupida questione di fortuna? «Guarda che servono anche le risposte. Lo scrittore sei tu.» James Tripp rilesse quelle poche righe, sbuffando e grattandosi con forza fra i capelli scarmigliati. «Schifo.» sentenziò, aspirando dalla sigaretta che gli pendeva dalle labbra e che vomitava fumo nei suoi occhi arrossati. Stava scrivendo un romanzo o un questionario per aspiranti filosofi e sociologi? Se James non fosse stato tanto disperato, ci avrebbe riso su. Invece, rimase in silenzio, tirandosi indietro con la schiena, con le mani incrociate dietro la testa, fissando un punto a caso nella libreria, un tutt’uno con la scrivania dove era poggiato il suo portatile, col quale stava lavorando. Tornò a premere sui tasti, deciso a cercare qualche risposta. Chiese aiuto a Internet, il Dio del terzo millennio, colui che tutto sa. Ma appena mezz’ora di ricerche sulla parola “altruismo” gli aveva fatto gettare la spugna, dopo che era finito su un sito pseudo - religioso che diceva: “Aiutare il prossimo ci rende migliori”. Punto. Nessuna spiegazione, nessuna tesi. Prendere o lasciare. E James spense il computer. Così, mentre lasciava scorrere il suo sguardo annoiato su quegli scaffali stracolmi di libri, gli tornò alla mente la faccenda che gli aveva


provocato la gastrite per tutta la mattinata. Scattò in avanti, recuperando un libro adagiato davanti tutti gli altri. La copertina spiccava per i colori vivaci e al tatto dava la sensazione di qualcosa di gommoso. Era un perfetto libro per bambini. Peccato che fosse anche il suo di libro. E la storia all’interno non era per bambini. Vi mangerò tutti. James lesse il titolo della sua prima opera letteraria, per poi imprecare con un filo di voce. Girò il volume, leggendo la sua breve biografia, alla quale era stata aggiunta una frase, giusto per quell’edizione: “Da sempre amante dei bambini e dell’infanzia”. James scosse la testa, maledicendo l’ideatore di quella trovata. Aprì a caso una delle pagine, dove i caratteri stampati erano grandi, come si addice a un lettore infantile. “E fu così che Tyron sentì la propria intimità che cresceva, farsi forte sempre più.” «Oh merda…» si era messo a leggerlo dal punto di vista di un bimbo di sei anni e la cosa non gli piacque neanche un po’. D’istinto infilò il volume sostanzioso nella larga tasca, all’altezza del petto dell’accappatoio che indossava, mentre apriva la sua casella mail, ricercando il contatto dello staff della sua editoria. Cercava Stewart per la precisione. Era uno dei redattori dell’editoria che tre anni prima gli aveva pubblicato “Vi mangerò tutti”, il suo primo romanzo. Tanto James sapeva che l’idea era stata la sua. Aprì la pagina vuota, dove scrivere la mail, mordendosi un labbro, cercando di riacquistare la sua diplomazia, poi finalmente scrisse. Ma come accidenti ti è venuto in mente di pubblicare la mia storia in una collana per bambini??? Il fatto che ci siano scene di morte, sesso incestuoso e cannibalismo non ti ha fatto venire il dubbio che forse sarebbe un po’ troppo… “impegnativo” per lettori abituati a leggere Hansel e Gretel? Di tutte le tue idee idiote questa è davvero insuperabile, Alan! E prima che me lo chiedi, sì, sono molto incazzato! James James non rilesse neanche quelle righe, maledicendo se stesso per non averle scritte quella mattina stessa, quando aveva ricevuto il pacco con quella prima copia, quando gli era salito il sangue al cervello. Allora sì che avrebbe trovato termini più consoni per insultare Stewart. Invece, ora, si sentiva insoddisfatto e con la gastrite che pulsava nel suo addome. Si alzò, borbottando, deciso a sgranchirsi le gambe. Ma non appena raggiunse il soggiorno, il suo aspetto spoglio, senza alcun arredamento, lo fece pentire di aver abbandonato il romanzo che stava scrivendo e che doveva terminare al più presto. Sbuffò, mentre stringeva con un nodo l’accappatoio che indossava sopra una maglietta stinta e un paio di bermuda multicolore. Le pareti


bianche, candide, sembravano avere mille occhi minacciosi e una sola bocca, che continuava a sussurrargli: “Perché non sei al lavoro?” Aveva letto da qualche parte che il luogo migliore, dove uno scrittore poteva lavorare, era un ambiente senza alcun arredamento, senza nessun oggetto che poteva creargli delle distrazioni. Per quel motivo, nella casa di Tripp, c’erano soltanto un tavolino, quattro sedie e un divano in soggiorno, un altro tavolo, un frigorifero e i fornelli in cucina, e il minimo indispensabile nel bagno. Faceva eccezione la libreria stracolma di libri in camera, oltre al letto per dormire, quando non diventava il giaciglio per tutti i vestiti (non molti comunque) del padrone di casa. James si era reso conto ben presto che la mancanza di ispirazione non c’entrava un bel niente con pareti bianche e spoglie, ma la cosa gli stava bene lo stesso, dato che non aveva la benché minima voglia di mettersi a girare per arredare il suo appartamento. A ciò si aggiungeva anche il fattore non trascurabile di arrivare alla fine del mese sempre per il rotto della cuffia. Se non tornava dai suoi genitori a chiedere aiuti economici, lo doveva quasi esclusivamente al sussidio di disoccupazione, aiutato dagli spiccioli per le vendite del primo romanzo e dalla vita frugale che conduceva. Passò la punta della pantofola che indossava sul pavimento, scoprendo le mattonelle da sotto lo strato di polvere sempre più consistente col passare del tempo. Aprì la porta-finestra del soggiorno, uscendo sul balcone, accolto dal tempo soleggiato di una giornata primaverile. Gettò il mozzicone di sigaretta, ormai giunta al filtro, nel suo giardino incolto, per poi guardare quello impeccabile dei Chen, i suoi vicini di origine cinese. Cecilia, una delle loro figlie, annaffiava il giardino con il tubo, mentre Ximen, suo padre, sembrava intento a spostare un vaso poco più in là. James si distrasse ben presto da quella scena vagamente bucolica per osservare una figura che si avvicinava al cancello di casa sua. Il ragazzo indossò gli occhiali da vista, mettendo a fuoco il visitatore, che in realtà era sua nipote Kate. Abbozzò un sorriso, guardandola camminare con quegli stivaletti neri, tutta compunta come una piccola donna, prima che il suo viso si sollevasse, incrociando lo sguardo di James. Si sorrisero, prima che lo scrittore entrasse in casa e aprisse il cancello. Mentre attendeva che la nipote salisse fino al secondo piano, James si diresse in camera sua, sfilandosi i bermuda, per indossare in tutta fretta un paio di jeans, recuperati dal disordine sul letto. Il tempo di mettersi addosso la giacca di pelle e il ragazzo tornò in soggiorno, proprio mentre Kate faceva capolino dalla porta. «Ciao, zio!» lo salutò, cercando di non tradire un tono troppo squillante, com’era normale per la sua età, simulando una voce più adulta.


«Quante volte ti ho detto di non chiamarmi così?» la indicò il ragazzo, per poi scompigliarle i capelli a caschetto, trattamento che irritava parecchio la ragazzina. «Dai, andiamo a farci una passeggiata. Facciamo un salto al parco, ok?» Kate si voltò, sistemandosi meglio lo zaino sulle spalle, per poi adocchiare meglio il ragazzo. «Oddio… dimmi che quello non è il tuo accappatoio!» lo indicò, per poi guardalo, accigliata. James si finse meravigliato. «Non ci sto bene?» le chiese, fingendosi offeso. «Mi domando che figura ci faccio a farmi vedere in giro con te…» commentò Kate. Un commento sempre così adulto. «Essere alternativi non impone di vestirsi in modo osceno.» Attraversarono il giardino, mentre Kate dava una rassettata alla sua gonnellina scozzese e James si accendeva un’altra sigaretta. Cecilia si accorse di loro e si affrettò a salutare da lontano, come se avesse visto sbucare due star hollywoodiane. «Ciao!» emise un gridolino, proprio mentre il tubo le sfuggiva di mano. La corrente dell’acqua che fuoriusciva lo rese imbizzarrito, come un cobra con le convulsioni e, in un lampo, Cecilia fu raggiunta da diversi getti d’acqua, prima che riuscisse a bloccare il tubo indemoniato. James e Kate rimasero con la mano alzata, troppo presi dalla piccola tragedia. E mentre la ragazzina aveva uno sguardo in pena per Cecilia, a James sfuggì una piccola risata, interrotta sul nascere da un calcio di Kate. Il ragazzo saltellò, massaggiandosi lo stinco, ora di nuovo serio e fece per andare verso Cecilia. «E vieni!» lo bloccò Kate, afferrandolo per un braccio e conducendolo dietro di sé, fuori dal giardino e lontano dalla vicina, ormai fradicia. «Ma scusa, volevo soltanto vedere se stava bene…» «Non sta bene! Ha appena fatto una figura pietosa di fronte al ragazzo di cui è cotta!» lo sgridò la nipote, annoiata, come quando si deve spiegare qualcosa a un bambino. «Ma dai…» «Ma dai, cosa?» Kate era una dodicenne, con un visetto dai lineamenti dolci che, uniti a un colorito pallido, la facevano sembrare una bella bambola di porcellana, incorniciata da quei capelli scuri a caschetto. Soltanto in un caso si spezzava quell’armonia: quando la bambina veniva contraddetta, come in quel caso. Allora la


sua espressione si induriva e gli occhi dardeggiavano minacciosi, intimorendo qualsiasi malcapitato. «Se a te piace credere che lei non straveda per te, fa’ come ti pare… ma non provare a convincermi dello stesso, per favore!» tagliò corto, borbottando. «Essere rincorsi da una falciatrice non è un’esperienza che si dimentica in fretta…» James tornò all’episodio, mordendosi un labbro per non sbottare a ridere. Kate si riferiva a quell’estate, quando aveva portato la sua piscina gonfiabile e l’avevano messa nel giardino di James, per stemperare la calura estiva. Mentre lo attendeva, Kate si era messa a prendere il sole e, poiché James era stato trattenuto da una telefonata, aveva finito per appisolarsi. Quando poi il ragazzo aveva fatto la sua apparizione, in costume, non era sfuggito allo sguardo di Cecilia, che nel suo giardino stava usando per l’appunto una falciatrice elettrica, tenendola per i manubri. Ma, proprio in quel momento, era inciampata, cadendo a terra e perdendo il controllo del macchinario. James non si era accorto di nulla, giacché era intento a raccogliere dell’acqua con le mani, per lanciarla addosso a Kate, facendole uno scherzo. Quando era giunto il grido allarmato di Cecilia, la falciatrice aveva oltrepassato la siepe che divideva le due abitazioni ed era ormai a un soffio dalla sdraio di Kate, che era balzata come un gatto, ruotando di lato e tentando di fuggire a quattro zampe, terrorizzata e ancora assonnata. La falciatrice aveva colpito la sdraio, lisciando di poco Kate, e aveva finito per raggiungere la piscina, bucandola, con il conseguente straripamento di tutta l’acqua, che aveva invaso il giardino di James, mentre Cecilia correva, con le mani nei capelli, a staccare la spina. Il tutto si era concluso con le scuse di Cecilia e sua madre. E nessuna vittima, a parte la povera piscina gonfiabile. Una volta raggiunto il parco, Kate e James si sedettero su un paio di altalene, guadagnandosi le occhiate imbronciate di un paio di bambini, che dovettero ripiegare sugli scivoli. «Cecilia non è male, no?» commentò Kate, dondolandosi appena. «Non è male… e non è niente di che…» rispose James, vago. «Oh, invece Claire…» e pronunciò il nome come se avesse detto “bleah”. James sbuffò una nuvoletta di fumo, guardando altrove. «Sei ancora innamorato di lei?» e lo chiese come se sperasse di avere soltanto una risposta negativa.


«Purtroppo sì.» «Oddio, zio…» «Non dovresti imprecare…» le fece notare James, mentre un sorriso obliquo gli compariva in volto, guadagnandosi un’altra occhiataccia di Kate. «Tuo padre è ancora così credente?» e la domanda aveva lo stesso tono di quella della nipote riguardo Claire. «Fino a quando Dio esisterà…» rispose la ragazza, continuando a dondolarsi. «L’altra domenica ha litigato col prete.» «Ah, sì?» «Già… nel suo sermone ha fatto un elogio dell’amore fra adolescenti…» Kate si bloccò, sogghignando. «Poteva essere frainteso. Amore, sesso prematrimoniale… papà gli ha fatto questo appunto, alla fine della cerimonia, e il prete ha finito per dargli del bigotto.» I due ragazzi si guardarono, ridacchiando. «Dovevi esserci.» «Che scena! E Pat che diceva?» «Mamma si guardava intorno, tutta nervosa… aveva paura che ci fosse qualcuno a sentirci. Sai com’è fatta, no? È sempre stata terrorizzata da quello che la gente può pensare.» «Sì, lo so.» Non era un caso che non parlasse con sua sorella Patricia da ormai tre anni. Nonostante la grande differenza di età fra loro, erano stati sempre molto attaccati. Ma dopo la pubblicazione del libro, i litigi con la famiglia avevano travolto anche la sorella. «Dovresti riparlarci.» «Ah, non credo che ne sarebbe felice.» James buttò via il mozzicone. «Non è vero. Mi domanda spesso del suo fratellino e di cosa combini. Ed è anche per questo che è felice delle visite che ti faccio: è come se potesse continuare ad avere un occhio su di te.» «Quindi il fatto che nel romanzo l’abbia descritta come una squilibrata non le dà più fastidio?» «Odia quel libro. E continua a odiare tutta la cattiva pubblicità che ha portato sulla famiglia, però ti vuole bene.»


«Se davvero ci teneva, avrebbe capito, quando ho provato a spiegarle che era soltanto una finzione, che avevo usato la mia famiglia per comodità!» «Ma tu hai provato davvero a spiegarglielo?» «Certo! E poi che cavolo! Sono personaggi, non persone vere!» «Sì, se avessi almeno avuto il tatto di cambiare i nomi… sai, per mascherare un po’ la cosa…» fece notare Kate, mentre James sbuffava. «Sono una famiglia di provinciali. È questa la verità. Quando videro il libro per la prima volta, hanno pensato soltanto al prezzo in copertina e se avevano scritto bene il cognome! Fanculo… tu sei l’unica ad averlo letto!» James la guardò accigliato. Gli erano andati tutti contro, dopo aver sentito le voci che giravano, fra quelli che già l’avevano letto. Voci soltanto. «L’unica che non doveva leggerlo, tra l’altro…» «Oh, non rompere. Non ho più dieci anni.» «Eh, certo, sei un’adulta!» «Sono più matura di te, caro zio Jimmy. Anche se non è che ci voglia poi molto…» Kate inarcò un sopracciglio e James allungò una mano, scompigliandole ancora i capelli. «Uffa! Ah, ma a proposito: quando ci farai l’onore della nuova opera?» James si aggrappò all’altalena, quasi si fosse afflosciato e fosse sul punto di scivolare a terra. «Presto.» «Mmh.» Kate guardò a terra. «Questo “presto” è da un po’ che gira nell’aria.» commentò, senza ricevere risposta. Ammettere che si era bloccato, che si era svuotato, non passava neanche nell’anticamera del cervello di James. Se non ci pensava, magari neanche era vero. Eppure erano già passati tre anni e aveva già cominciato e abbandonato quattro storie. E la quinta non era proprio sulla buona strada. «Allora, Katie, te lo sei fatto il fidanzato?» «Stai cambiando discorso?» «Eh, sì.» «No, nessun fidanzato. Ti ho già detto che considero l’amore una baggianata per persone deboli.»


«Continui a leggere Nietzsche?» «Sono passata a Schopenhauer. In ogni caso, la relazione di coppia non fa per me. Aspetterò l’età giusta, affinché il mio corpo sia in grado di affrontare una gestazione e cercherò un donatore, possibilmente decente e con un buon quoziente intellettivo. Se la natura mi ha predisposto alla riproduzione, non sarò certo io a evitare qualcosa che esiste da sempre.» «Kate, tu mi preoccupi.» «Perché voglio affrontare una gravidanza?» «No, il tuo pensiero ha una sua logica e può essere anche condivisibile… ma non dovrebbe farlo una ragazzina…» il tono di James era esasperato, ma tornò subito sui suoi passi, dopo l’occhiataccia di Kate. «Ok, una ragazza…» sottolineò la correzione. «… di dodici anni…» il fatto che James avesse quasi il doppio dell’età della nipote, ma che non sentisse mai quella differenza, lo disorientava. «Il tempo è un inganno irreale.» si limitò a rispondere la ragazza. «Vorrei che lo fossero stati anche questi tre anni.» «Ma dai, perché?» «Quel libro mi ha portato soltanto guai… prima la mia famiglia, poi un successo a metà, che è stato più un fuoco di paglia e che mi ha regalato un contratto che è più una condanna che altro… e Claire…» James si passò una mano in volto, quasi potesse scrollarsi di dosso tutto. «Senti, diciamo pure che non è stato il libro, ma che sei stato tu, visto e considerato che i libri non sono amuleti.» specificò Kate. «E poi, tutto quello che ti ha portato, non è qualcosa di definitivo: è qualcosa ancora da definire, da completare, o no?» la ragazza fece spallucce, per poi guardare lo zio con i suoi occhi neri e penetranti, gli stessi della madre Patricia. «Ti basta fare pace con i nonni, finire il tuo secondo romanzo, mandare al diavolo Claire…» la ragazza gli fece l’occhiolino, regalandogli uno dei suoi rari sorrisi. «Hai davvero troppa fiducia in me, Kate.» «Dai, zietto…» chiuse gli occhi, assumendo una voce profonda. «Dio ti sta mettendo alla prova, ragazzo mio.» e sottolineò ogni parola, facendo ondeggiare


l’indice sotto il naso del ragazzo, per poi sbuffare una risata, annullando così la maldestra imitazione del padre. «Detto da un’atea non è molto convincente… il caro Maxwell lo sa?» «Per carità! Preferisco di gran lunga starmene un’ora alla settimana in chiesa, piuttosto che perderne mille per convincerlo delle mie idee… e poi un po’ di teologia non mi dispiace… il Vangelo è un libro così grazioso.» Kate tirò fuori un chewing-gum, offrendolo a James, che però declinò. La ragazza cominciò a masticare, guardando altrove. «E poi così ti sto coprendo da una bella sfuriata di tuo cognato.» «Che c’entro io?» «Sei stato tu a prestarmi tutti quei libri di miscredenti.» «Volevo darti una cultura!» «E per questo te ne sarò eternamente grata.» ribatté lei, indicando lo zaino, poggiato a terra, ai suoi piedi. «Ti ho riportato gli ultimi che mi hai prestato. Quando ripassiamo a casa, te li do.» Rimasero per qualche altro tempo a parlare, aggrappati all’altalena, prima di tornare verso casa. Kate recuperò lo zaino verde militare, rimettendoselo sulle spalle. «Come mai non porti lo zaino su una spalla? Ricordo che alle medie, portarlo su una spalla sola indicava che eri già grande, rispetto a chi lo portava su tutte e due.» raccontò James, con un sorriso. «Portarlo su una spalla aumenta vertiginosamente le probabilità di una scoliosi alla spina dorsale. Quindi, preferisco evitare di fare la figa, accontentandomi di una schiena meno rovinata, quando sarò vecchia.» «Kate…» James abbozzò un sorriso, continuando a camminare al suo fianco, in silenzio.

2 Dopo che Kate se ne fu andata, James rimase ancora una volta solo. Si preparò controvoglia un panino tristissimo, e tornò in camera, piazzandosi davanti il portatile, con un cipiglio di sfida in volto. Poggiò il panino sulla memoria esterna, bollente, che


risultava molto comoda come scaldino. Il groviglio di fili dietro il portatile era ormai inestricabile e formava quasi una superficie nera, più fitta della foresta tedesca. Il ragazzo sbuffò: qualsiasi particolare era ormai più interessante di quello che avrebbe dovuto scrivere. Eppure l’idea di partenza non era stata male: un ragazzo disadattato, frustrato, che continua a ricevere umiliazioni e soprusi dal mondo, e che come estremo gesto finisce per accecarsi, rendersi sordo e quant’altro, per non avere più contatti con l’esterno. E allora perché non gli veniva una sola immagine convincente, uno spunto valido alla mente? Recuperò il panino, addentandolo, mentre andava a riaprire la casella e-mail. Stewart gli aveva risposto e il tono era maledettamente amabile. Ehi Big J! Come vanno le cose? Il capolavoro come procede? Non ti piace l’idea di aprire un canale nell’infanzia? Guarda che in risvolti economici è una garanzia! Sono i bambini il futuro, per non parlare degli accordi con le scuole materne! Tu non devi preoccuparti. Lascia fare al buon vecchio Al. Ho già parlato col boss ed è d’accordo, anche perché devo distrarlo, Jimmy. Insomma, io lo so che tu lavori e che hai bisogno del tuo tempo, ma qui in redazione mi fanno pressione, vogliono leggere qualcosa di tuo. E io continuo a tranquillizzarli, ovviamente! Il resto della mail era tutta una sequela di come Stewart assicurava che stesse facendo nel miglior modo possibile per curare gli interessi del suo “gioiellino, del nuovo McEwan, che aveva scoperto e portato alla ribalta”. Come se avesse la fila di giornalisti sotto casa, ad assediarlo. James cancellò tutto e abbandonò ogni proposito di rispondere. Tornò a leggere le ultime righe che aveva buttato giù, proprio mentre il campanello suonava. Stretto nell’accappatoio rosso e lacero, la sigaretta pendente dalle labbra piene, il ragazzo si portò gli occhiali sul naso, sbirciando da dietro una tenda. «Judy… ci mancava anche lei, adesso…» aprendo la porta di casa, James poteva sentire i rapidi passi della ragazza sulle scale, finché non la vide apparire, sorridendogli, mentre entrava nell’appartamento. «Amore!» la voce era sempre squillante, così gioiosa. La nuova arrivata allargò le braccia, per poi gettarle al collo di James, parlandogli con i loro visi vicini. «Mi sei mancato, lo sai?» piagnucolò, mentre gli occhi verdi, così espressivi, si restringevano.


«Sì, anche tu…» rispose James, neutro. «Non ti avevo detto di non vederci per un po’?» «Eh, lo so… ma Billy oggi non c’era e Michael è partito!» spiegò la ragazza, per poi premere le sue labbra in tanti baci svelti, ruotando pian piano la testa. «Ho tanta voglia, sai?» «Eh, immagino…» sospirò James, provando a staccarsi da quell’abbraccio. «Tu no?» «Judy, devo lavorare… te l’avevo detto…» «Dai, facciamo subito…» «Non è questo… è che…» Judy intanto aveva già poggiato la borsetta, e con la mano gli tastava fra le gambe, con la serietà di chi esaminava qualcosa di importante. James abbassò lo sguardo, guardando quei gesti e scuotendo la testa. «Dai, spogliati. Vado a lavarmi i denti.» Judy prese a zompettare, battendo le mani, come una bambina il giorno di Natale. «Non di là… sul letto ho tutti i miei panni, facciamolo qui sul divano.» «Ma è stretto…» si lamentò Judy. «Senti, eh!» «Va bene, va bene.» obbedì la ragazza, abbassandosi la zip della tuta rosa, mettendo in mostra una maglietta dello stesso colore, con delle scritte argentate in risalto. Era innamorata di quel colore, motivo per cui spesso James la sfotteva, dicendole che se ne andava in giro vestita come un confetto. Quando il ragazzo tornò dal bagno, con l’accappatoio su un braccio, Judy era distesa nuda sul divano, intenta a giocherellare con una ciocca dei lunghi capelli. La osservava, la bocca semiaperta, quasi fosse intenta a cercare delle doppie punte. James si bloccò, fissandola. Era incantevole, con quella pelle chiara, senza però sfociare nel pallido, un rosa che il ragazzo non avrebbe saputo descrivere, così lontano da tutte quelle abbronzature volgari che la gente disperatamente ricerca. Il ragazzo spostò lo sguardo su quei seni non troppo grandi, ma ben proporzionati, il ventre asciutto, ma privo di accenno di muscolatura, la peluria bionda fra le gambe. Nonostante la sua riluttanza, James non poteva reprimere il desiderio che già gli stringeva un nodo in gola. Judy poteva avere qualsiasi uomo con quel corpo. E per una ninfomane era più che una fortuna. Non ne


parlavano mai e James dubitava che la ragazza se ne rendesse conto, ma a lui non era certo sfuggita la cosa. In una delle prime occasioni in cui avevano fatto sesso, il ragazzo ricordava ancora bene di come Judy non facesse altro che chiedergli di rifarlo ancora e ancora. Dopo le prime due volte, James si era dedicato a lei, praticandole del sesso orale, poi con le dita, una, due, tre volte. E lei ne voleva ancora. La cosa lo aveva un po’ stupito, tanto da fargli fare delle ricerche in internet. Nei casi di ipersessualità capita spesso nel soggetto di provare stress fisico, il deteriorarsi delle relazioni sociali, la continua ricerca di creare dei rapporti sessuali osceni. Judy infatti era solita farsi delle lunghe dormite a casa di James, dopo i loro incontri. Inoltre la ragazza gli parlava spesso dei continui litigi che aveva avuto con alcune amiche, che comunque cambiava in continuazione, senza averne nessuna fissa. James poi non si considerava un moralista, però aveva notato di come la ragazza cercasse spesso di apportare quella buona dose di stranezza in ogni rapporto, per poter variare. Il particolare che però gli aveva fugato ogni dubbio era uno solo: Judy non provava piacere nel rapporto. Ne sentiva il bisogno, ma non riusciva a trarne appagamento. Per quel che risultava, sembrava a tutti gli effetti frigida durante l’amplesso. Proprio per quel motivo erano molte le volte in cui James tentava di rifiutarsi, immaginando quanto potesse essere dolorosa la cosa, ma Judy insisteva fino allo sfinimento e arrivava a dare di matto, se non otteneva ciò che voleva: un’altra caratteristica per chi soffriva di ipersessualità. James aveva conosciuto Judy a una delle presentazioni del suo libro, circa tre anni prima. La ragazza lavorava per la ditta che si era occupata dei rinfreschi e, dopo che James aveva finito di leggere una parte del suo libro agli ospiti, intrattenendo le persone venute alla libreria, lei lo aveva preso da parte. Dopo un maldestro approccio, in cui gli assicurava di essere una sua grande fan, e svariati ammiccamenti, avevano finito per appartarsi nel retro della libreria. Nella cittadina non c’erano molti ristoranti che si occupassero di rinfreschi, così i due finivano spesso per incontrarsi, spostando i loro incontri nell’appartamento che James aveva appena preso in affitto. Gli raccontava, quando finivano di fare l’amore, di tutti gli altri uomini con cui si vedeva. Per il ragazzo era l’ideale: non voleva storie serie e Judy sembrava desiderare lo stesso. Anche perché la ragazza, oltre al fisico irresistibile, non aveva altri pregi, soprattutto a livello intellettivo: era molto infantile e i suoi due unici hobby erano i trucchi femminili e le favole per bambini. Infatti abbelliva sempre il suo viso con trucchi abbinati in modo ogni volta diverso,


sottolineando le labbra e il contorno degli occhi con rossetti e matite sempre nuove, in vere e proprie sperimentazioni continue. Inoltre costringeva sempre James a inventare per lei una favola diversa, dopo ogni rapporto. E il ragazzo aveva concluso che forse era quello l’unico motivo di rilievo per cui tornava spesso da lui, nonostante avesse un gran giro di amanti alternativi, con i quali stemperare i suoi desideri compulsivi. «A cosa pensi?» Judy si girò su un fianco, facendo scivolare il braccio sul petto del ragazzo, fino a stringersi a lui. I loro corpi nudi entrarono in contatto, ancora accaldati, dopo il rapporto appena concluso. «Al perché torni sempre da me.» James guardava il soffitto, mentre aspirava un’ampia boccata dall’ennesima sigaretta. «Perché sei bellissimo!» rispose lei, di slancio, con una vocetta da bimba, che James conosceva ormai fin troppo bene. «Sei il più bello…» confermò. «Ecco, il superlativo relativo già lo preferisco… più solido.» Judy non capì, guardandolo con le labbra dischiuse, come ogni volta che lui diceva qualcosa di oscuro, almeno per lei. «Anche Billy è coccoloso, con tutta quella ciccetta… però tu sei più bello!» «Sono più sexy di un obeso… era proprio la svolta che aspettavo da questa giornata.» commentò James, sardonico. Inutile dire che la sua ironia era incomprensibile a Judy. «Jimmy, mi racconti una storia?» domandò, muovendosi, tutta eccitata. «Quante volte ti ho detto di non chiamarmi così?» «Jimmy!» cinguettò lei, premendo l’indice sul naso del ragazzo. «C’era una volta una principessa che odiava i nomi delle persone…» cominciò James, lasciando andare il mozzicone nel posacenere, prima di poggiarlo sul bracciolo del divano, dove erano ancora sdraiati. «Di che colore ha i capelli, la principessa?» «Non è importante.» «Ma è bella?»


«Sì, è una principessa molto bella e bionda come te.» Judy annuì, soddisfatta. «Ma odiava chiamare le persone per nome.» «Perché?» «Perché era pigra e si stufava in fretta. Così chiamava tutti con “Ehi, tu!” oppure “Coso, vieni qua!”» Judy ridacchiò. «Che stupida!» «Anche se non li chiamava per nome, nessuno dei servitori nel castello osava rimproverarla e le ubbidivano lo stesso, perché, beh, perché era la principessa, no?» Judy annuì in fretta, le labbra socchiuse, in un’attenzione completa. «Un giorno arrivò un cavaliere al castello: il cavaliere senza nome. Si inchinò e le giurò di difenderla da qualsiasi pericolo, a patto che lo chiamasse con il suo nome segreto, perché in realtà uno ce l’aveva. Ma lo confidò soltanto a lei.» «E qual era questo nome?» James fece spallucce. «Non si sa… lo conoscevano soltanto il cavaliere e la principessa.» spiegò. «Poi, però, un giorno, arrivò un drago enorme a minacciare il regno della principessa. Tutti i suoi eserciti non potevano nulla contro quel mostro potentissimo. E dopo alcune battaglie perdute, il drago finì per arrivare al castello, assediandolo, perché voleva mangiare tutti quanti, compresa la principessa. Quando ormai le ultime difese stavano per cedere, la principessa sempre più disperata si ricordò del valoroso cavaliere e della sua promessa di difenderla: c’era ancora una speranza. Subito ordinò a tutti i servitori di rintracciarlo, ma i loro tentativi furono tutti vani. Del cavaliere non v’era più traccia. Soltanto nel momento dello sconforto, si ricordò del patto: doveva chiamare il cavaliere con il suo vero nome. Così, per la prima volta in vita sua, chiamò quel nome, lo gridò. E il cavaliere giunse. Dopo una lotta feroce, all’ultimo sangue, uccise il drago e liberò il regno dalla sua minaccia, salvando il castello e la principessa.» «E vissero felici e contenti?» «Certo, perché da quel giorno la principessa imparò a chiamare tutti col proprio nome. Infatti, la morale è: impara il nome di ognuno e chiamalo con quello giusto. Quindi», James si avvicinò al viso di Judy. «se il mio nome è James, mi devi chiamare


James e non Jimmy! Altrimenti la prossima volta che hai bisogno di me, non faccio mica come il cavaliere! Ti lascio mangiare dal drago!» e l’ultima minaccia l’accompagnò sporgendosi col viso sul collo della ragazza, mordicchiandola, mentre Judy rideva per il solletico. «Accidenti, sento freddo.» si lamentò James. Balzò giù dal divano, andando in camera, dove teneva un plaid arancione e tornò con quello indosso, neanche fosse un mantello. Ma Judy era ormai in piedi. «Che fai?» «Devo andare al lavoro.» rispose lei, ma senza guardarlo in faccia. Ancora nuda, sembrava intenta a guardarsi il ventre, o giù di lì. James si mise seduto, raggomitolato nella coperta. Era una giornata primaverile, ma lui sentiva freddo lo stesso, come al solito. Forse solo ad agosto non lo pativa. «Ma non è tardi?» «Stasera c’è una festa al bar e fanno un orario no-stop tutti gli altri negozi del centro.» spiegò Judy, sovrappensiero. Non lavorava più come cameriera nei buffet, ma come commessa presso Perfume, un negozio di profumi, trucchi e cosmetici, aperto in un centro commerciale. Inutile dire che Judy adorava quel lavoro. E c’era portata, nonostante le difficoltà che incontrava per via del suo problema sessuale. Ma a quello aveva posto rimedio. Fra gli amanti della ragazza c’era anche Michael Winterbottom, il padrone del Perfume, lo stesso che quel giorno non aveva potuto incontrare, perché partito chissà dove. «Il caro Mike come vi controllerà stasera? Vi farà una chiamata dai Caraibi?» Ma Judy continuava a ignorarlo, mentre cominciava a sbattere un piede a terra, come una bimba lamentosa. «Brucia!» si lamentava. James corrugò la fronte e intuì che si riferiva alla sua intimità, che doveva essere arrossata. Ma per fugare ogni dubbio, Judy aveva sporto in avanti il bacino, allargato le gambe e indicato col dito. «Vedi?» «Sì, Judy, è inutile che me la sbatti in faccia! Ci vedo!» si lamentò il ragazzo. Il pudore per Judy era praticamente inesistente. James continuò a osservarla, lì, tutta nuda, come avrebbe potuto stare una bambina di tre anni. E non dipendeva certo dalla familiarità che ormai si era creata fra i due. James era pronto a scommettere che Judy avrebbe potuto farlo senza problemi anche in una piazza gremita. Poi, però, se James gli parlava di faccende sessuali, magari nominando gli organi riproduttivi,


era capace di arrossire o tapparsi le orecchie. Niente parola “vagina”, eppure era lì a farsi aria con la mano, fra le gambe, proprio davanti a James, che, tanto per fare qualcosa, si accese un’altra sigaretta. «Devo venire lì a soffiartici sopra?» la verità era che si sentiva responsabile in prima persona. La cosa dipendeva sicuramente dal rapporto che avevano appena consumato. James cercava sempre di fare il più piano possibile, ma i risultati lasciavano a desiderare. Avrebbe dovuto negarle qualsiasi rapporto. Ma subire una sfuriata di Judy era un’esperienza traumatica. E poi James non era sempre così forte nel darle un secco rifiuto, anche perché conduceva una vita solitaria e la bellezza di Judy non era certo trascurabile. Così la colpa e la consapevolezza della propria debolezza lo rendevano parecchio nervoso. Per fortuna Judy smise presto di “arieggiare” la zona intima e si rivestì. Prima di andarsene, si chinò per baciarlo, ma James era distratto e finì per sfiorargli una guancia. Quando tornò a guardarla, lei era già uscita dalla stanza. La sera ormai già filtrava dalla finestra, quando James si alzò, nudo, con la coperta a mo’ di poncho, con le gambe come due stuzzicadenti, che sbucavano fuori, muovendosi sul pavimento. Il ragazzo si mosse nel corridoio, per tornare in camera, ma finì ben presto per fermarsi, appoggiandosi con la schiena a una parete, mentre il fumo di un’altra sigaretta lo avvolgeva, come una nube di pensieri fitti. Senza capire il perché, gli tornò alla mente la presentazione del suo libro, quella alla libreria Modern Book, nel centro commerciale dove lavorava anche Judy. Era stato un vero successo, almeno nell’ambito cittadino. Avevano sfiorato il centinaio di presenze, quando la media di tutte le altre presentazioni era stata di una decina scarsa di persone annoiate. James sapeva benissimo che, anche in quell’occasione, le persone realmente interessate erano state la metà della metà, giacché la maggioranza faceva parte della rete fitta di conoscenze del suo amico Francis e molte altre erano conoscenti del libraio, ma a James non era importato. Era stato al centro dell’attenzione. Ricordava che aveva avuto la trovata di giungere alla presentazione in boxer. Vestito di tutto punto, con giacca e camicia e poi sotto niente, se non i boxer neri e le scarpe da ginnastica, con un adesivo rosso sull’intimo con scritto “Vi mangerò tutti”, il titolo del romanzo. E così aveva letto davanti a tutti l’incipit del suo romanzo, mentre i presenti ridevano e lo applaudivano. Forse era quella la dimensione illusoria del successo: compiere idiozie, senza che nessuno te lo facesse notare. Vent’anni e sentirsi imbattibile. Un romanzo già pubblicato, complimenti a profusione, discussioni su di te, il centro del mondo, anche se si trattava soltanto della tua


cittadina pettegola. Un brindisi con il talent scout Alan Stewart, di una discreta casa editrice, la sua affascinante collaboratrice Claire, che sicuramente si sarebbe lasciata corteggiare, e portato in spalla da un paio di tossici, conoscenze di Francis, e poi un paio di quindicenni che si facevano fare una dedica, senza neanche sapere cosa avessero fra le mani. Niente sembrava poter fermare l’ascesa. Dopo la cittadina, quelle vicine, la regione, la nazione, il continente! Prendere in affitto una casa, anche se così scadente, lontano da quei parenti ingrati, non contenti di aver fatto parte del suo successo. E ritrovarsi tre anni dopo con la consapevolezza che tutti i soldi per i diritti del libro erano agli sgoccioli. James provava pena per quel ragazzo, che sembrava ormai un suo fratello più piccolo e ingenuo. Abbassò lo sguardo, fissando le sue gambe nude, che sbucavano da sotto la coperta, in una sorta di riproduzione di quella giornata in libreria. Si strinse a quel plaid, per poi affrettarsi verso il letto, recuperando al volo boxer, un paio di pantaloncini e t-shirt, oltre all’inseparabile accappatoio rosso. Se non scriveva qualcosa al più presto, era davvero rovinato.

3 E lei apparve nella stanza di nuovo illuminata. Forse era proprio lei a portare quella luce che ormai lui non poteva più vedere, accecato nella carne e nello spirito. Porse la sua mano e una carezza si diffuse sul viso martoriato dello sventurato. Un gesto d’aiuto? Un atto colmo di pena? James si massaggiò gli occhi, portandosi gli occhiali sulla fronte, prima di passare la mano sul naso aquilino, in un gesto nervoso. Il pensiero di Claire si era infiltrato anche in quelle poche righe che era riuscito a mettere assieme. E la frustrazione aumentava, al pensiero di come era lontana la ragazza dall’immagine angelica che aveva appena trascritto, pensando a lei. Si staccò dal foglio che stava faticosamente riempiendo di caratteri, per aprire la casella mail, dove Stewart gli aveva inviato un’altra mail, per ripetere le domande alle quali James non aveva risposto. Cancellò anche quella mail, prima che il telefono prendesse a squillare. Forse era proprio Stewart. Ignorò gli squilli e si alzò per andare a prepararsi qualcosa per pranzo. Il frigorifero però era vuoto e così James tornò a indossare il fidato giacchetto di pelle, sopra l’accappatoio, prima di scendere nella pizzeria sotto casa. Ignorò gli sguardi stupiti riguardo il suo abbigliamento e consumò il pranzo, immerso in tanti pensieri


pesanti. Si era deciso a telefonare a Claire, con la scusa di dover parlare del libro. Così avrebbe anche trovato il modo di tenere a bada Stewart e il suo voler ficcare il naso nel suo lavoro. Ma, già quando stava risalendo le scale, James era conscio di quanto fosse una pessima idea. Lei avrebbe senz’altro voluto sapere in ogni caso ciò che stava scrivendo e questo James non poteva permetterlo. Era una sorta di promessa, un giuramento che faceva con se stesso, ogni volta che cominciava a scrivere. Tutto doveva essere un segreto. Tutto era un segreto. Almeno fino alla fine. Un patto fra lui e la storia che modellava fra le mani. Lo aveva sempre fatto, da quando se lo ricordava. E non poteva permettere che qualcuno entrasse in quel circolo magico. Il suono del citofono interruppe il flusso di pensieri e buoni propositi, proprio mentre rientrava a casa. Così, senza fermarsi, attraversò la porta, per poi affacciarsi al balcone. Un ragazzo con un berretto fissava il giardino, tamburellando le dita sul cancello. Era il suo amico Francis. E neanche lui aveva rispettato la sua richiesta di essere lasciato solo, per un periodo, affinché potesse scrivere meglio. James spalancò la porta e si diresse in cucina. «Jamie?» «Ma qualcuno di voi se lo ricorda il mio nome?» sbottò il ragazzo, rivelando la sua presenza. Francis fece la sua comparsa, raggiungendolo e dandogli una pacca sulla schiena, mentre James era intento a riporre la bottiglia d’acqua in frigo. «Vuoi qualcosa?» «Oh, no, grazie.» «Meno male, perché ho il frigo vuoto.» Una zaffata raggiunse la cucina e già correva lungo tutta la casa. James inspirò, poi maledì i vicini. I Mitchell erano ormai tristemente famosi in tutto il palazzo per la loro cucina caratteristica, dall’odore pestilenziale, dove le spezie attaccavano senza ritegno l’olfatto degli occupanti dell’appartamento. Non c’era rimedio, se non l’affrettarsi a percorrere le scale o barricarsi dentro casa. In particolare, James aveva il privilegio di poter gustare quell’aroma con più intensità, avendoli proprio di fronte, sullo stesso piano. «Ma è gulasch?» «Non ne ho idea! Chiudi quella porta o non respiriamo più.» sbuffò James, mentre Francis obbediva, ridacchiando. L’odore di paprica già ristagnava nell’aria.


«Esagerato! Perlomeno loro sono più ospitali e mi hanno fatto trovare pure il pranzo pronto.» annuì Francis, spostandosi una ciocca di capelli da davanti gli occhi grigio-azzurri. James ciabattò in direzione della camera. «Eri venuto per qualcosa? Devo scrivere…» tagliò corto il ragazzo. Per chi lo conosceva, il carattere scontroso di Tripp era ormai una costante, specialmente se non doveva curarsi di mantenere rapporti ormai solidi. E dopo più di dieci anni che conosceva Francis c’era ben poco da curare: se la vita non aveva ancora trovato il modo di farli allontanare, forse avrebbero finito per rimanere delle presenze costanti, ognuno nella vita dell’altro, dopo tutte le esperienze che avevano condiviso. Per lo più esperienze allucinanti, ma quello era un altro discorso. James si sedette su uno spigolo del letto, l’unica parte libera dai vestiti sparsi, osservando Francis che camminava nella sua camera, curiosando nella scrivania e tamburellando le dita sul legno verniciato di bianco, in un suo gesto tipico. Affrontava la vita come un lettore disattento, che sfoglia in fretta le pagine di un libro e che, arrivato all’ultima pagina, dopo aver richiuso il volume, pretende di aver compreso, non solo la storia, ma anche il messaggio lanciato dall’autore. Ed eccolo lì, vestito come un rapper tredicenne, strimpellatore di chitarra, con l’aspirazione della rockstar, nell’inseparabile zaino le dosi d’erba da vendere, maggiori in quantità rispetto ai neuroni che gli restavano nel cervello. Una situazione, quella cerebrale, frutto di un sistematico bombardamento a base di pasticche, speed, chetamina e antidepressivi della nonna. Non era difficile trovare altri individui come Francis nella loro cittadina. Se James tornava con la mente alla classe delle medie, poteva affermare con certezza che almeno sette ragazzi su dieci avevano poi avuto problemi legali o erano finiti nel giro della droga, chi come spacciatore, chi come consumatore. Degli altri tre, due lavoravano sicuramente nel grande centro commerciale, una vera discarica per i curriculum dei giovani della zona, e uno provava a fare lo scrittore perdigiorno. James non aveva un’idea precisa di come Francis si guadagnasse davvero da vivere. Era sicuro che spacciasse, ma non era certo un pezzo grosso e non poteva decisamente viverci. Il fatto era che Francis aveva una rete così fitta di conoscenze che lasciava sempre sbalordito anche James, che lo conosceva da parecchio. Al suo posto, James, che aveva spesso bisogno di periodi solitari per ritrovare la concentrazione, sarebbe uscito pazzo, nel tentare di far perdere le proprie tracce. Infatti, durante le presentazioni del libro dell’amico, Francis non era mai potuto essere presente, proprio per i mille impegni, dai quali non era riuscito a liberarsi. Ma alla presentazione al centro commerciale c’era voluto essere a tutti i costi. E aveva


finito per riempire l’evento con una buona parte di amici suoi, o che si dichiaravano tali. Il particolare che erano per lo più tossici, poco propensi alla letteratura, era passato in secondo piano. «Cazzo, James! Ma qui dietro è un vero casino!» esclamò Francis, mentre con le dita sollevava il groviglio di fili del portatile. Lo spazio dietro il computer, prima della scrivania, era abbastanza largo, ma tutto invaso da quei cavi. «Dovrei dargli una sistemata…» rispose James, vago, prima che l’amico si voltasse, con un sorriso furbo in volto, disinteressandosi dei fili. «Indovina chi ho incontrato l’altro giorno?» James rimase in silenzio, attendendo che gli desse la notiziona. «Gibson!» «Chi?» «E dai! Il vecchio succhiacazzi!» James corrugò la fronte, poi una luce gli si fece largo nella mente. «Quel Gibson?» «Mica siamo a New York! Certo, il vecchio Gibson.» «Ma è ancora vivo?» «Bello arzillo, sì!» annuì Francis, con convinzione. Gli veniva da ridere e James non ne capiva davvero il motivo. Il pensiero di quell’uomo a James riportava soltanto ricordi poco felici e parecchio traumatici. Dovevano essere passati ormai quasi dieci anni, ma il ragazzo non avrebbe mai dimenticato le due canne del fucile che quel vecchio aveva rivolto contro il suo viso. Era l’ultimo anno delle medie, uno di quei periodi spartiacque per chiunque e per James lo fu in modo indelebile. Usciva con una comitiva poco raccomandabile, fra cui lo stesso Francis, insieme a un certo Jackson, che per quanto ne sapeva James poteva anche essere morto. E, quel giorno, proprio loro tre, in un pomeriggio in cui non avevano niente da fare, si erano intrufolati nella casa di quel Gibson, tanto per combattere la noia e magari sgraffignare qualche spicciolo o sigaretta. Avevano creduto che la casa fosse vuota, ma avevano fatto male i loro calcoli. Proprio mentre si aggiravano per la casa, aveva fatto la comparsa il padrone di casa. Aveva avuto paura di quei piccoli invasori e non aveva perso tempo. Doveva aver sentito dei piccoli rumori ed era subito corso a impugnare il suo fucile da caccia, per poter affrontare l’invasore ben preparato. E lo stupore aveva invaso anche lui, quando si era ritrovato di fronte a quei giovani


ladruncoli. Superato il primo shock, Jackson, il più scafato fra loro tre, aveva provato a convincere il vecchio che erano venuti lì per chiedere l’elemosina, magari facendo perno sul buon cuore e l’ingenuità di Gibson. Aveva finito per ottenere anche più di quello che aveva richiesto. Il vecchietto, che allora doveva aver già raggiunto i settant’anni, li aveva fatti mettere comodi, dando loro anche del tè. Poi aveva convinto Jackson a seguirlo di sopra, per fargli vedere la sua collezione di guerra, con tanto di elmetto della seconda guerra mondiale. Anche Francis aveva insistito per salire, ma il padrone di casa aveva tagliato corto, dicendo che bisognava salire uno per volta. Dopo un po’ di tempo, mentre James e Francis se la ridevano, soprattutto mentre pensavano a come si stavano riempiendo di tè, nella stessa casa di colui che stavano per rapinare, Jackson aveva fatto nuovamente la sua comparsa. Non aveva un bell’aspetto, ma gli altri due non ci avevano fatto granché caso. Avevano deciso di congedarsi e Gibson li aveva salutati con un gran sorrisone, porgendo a Jackson un bel pacchetto di sigarette, ancora da iniziare, come regalo per tutti e tre. Neanche una settimana dopo, Francis aveva rivelato a James la confidenza che gli aveva fatto Jackson. Col tempo il ragazzo aveva finito per rimuovere i particolari della vicenda, limitandosi a ricordare Gibson come un molestatore omosessuale e forse pedofilo. Ma, in quel contesto, il racconto dettagliato di Francis, specialmente l’idea di quanto erano stati vicini a subire quello stesso trattamento, avevano creato una rivoluzione in James. Se non avesse incontrato Gibson e la sua gentilezza viscida, forse avrebbe seguito la stessa corrente di Francis, ritrovandosi come uno spacciatore in erba. Invece, da quella volta, aveva finito per cambiare giro, anche in concomitanza con il cambio di scuola, mantenendo contatti con il solo Francis. «Ma che cazzo ti ridi?» sbottò James, guardando l’amico, che scuoteva la testa, senza smettere di divertirsi. «Era al supermercato a comprare del tè.» James sospirò, per poi accendersi una sigaretta. Fissò accigliato Francis, mentre continuava a ridersela di gusto, prima che i bei lineamenti del ragazzo tornassero a rilassarsi. «Tua nipote come sta?» chiese, sistemandosi il berretto, che portava sempre un po’ di traverso. «Sta bene.» rispose James, di malumore. «Troppo forte Kate.»


«Anche per te.» Francis lo guardò, fingendosi stupito e sbattendo le ciglia. James però non aveva problemi a fugargli ogni dubbio. «Il fatto che ti piaccia rimorchiarti bimbette delle medie è un problema della tua coscienza, nel quale non voglio entrare. Perciò fammi il piacere di lasciar stare Kate.» il viso e il tono di voce di James erano sempre imperturbabili, ma lo sbuffo di fumo che gli uscì dalle narici, quasi come un toro da cartone animato, non era un particolare rassicurante. «Ehi, che cavolo! Stavo solo chiedendo!» «E io ti stavo solo rispondendo.» «Senti un po’, ma tu non fumi più?» James sollevò un sopracciglio, mostrando la sigaretta appena accesa. «Ma no, dai, intendo roba seria.» «Francis, lo sai che non la tocco da anni.» Da adolescente aveva fumato marijuana e hashish, senza problemi. E non aveva smesso né per la paura dei problemi fisici che potevano procurare, né per brutte esperienze avute. Aveva finito per lasciar perdere, dopo che aveva notato di come influisse sul suo modo di scrivere. Non migliorava né peggiorava, ma modificava il suo modo di scrivere. E James non poteva accettarlo: sentiva quasi che il merito fosse tutto della droga e non il suo. A diciotto anni aveva fumato l’ultimo spinello. «Vabbé, chiedevo, tante volte avessi ricominciato…» «Oggi sei venuto per farmi una domanda più idiota dell’altra?» La suoneria del cellulare di Francis riecheggiò nella stanza. Era la sigla del telefilm Supercar. Francis sbuffò, guardando sullo schermo e poi spense il cellulare, senza rispondere. Da come traccheggiava, James aveva capito subito che c’era qualcosa che non andava, ma aspettava ancora che fosse l’amico a dirglielo. E lui doveva essere al lavoro con il manoscritto già da un pezzo… «Francis…» «Non è che potrei lasciarti la roba?» «La roba?» Francis indicò lo zaino, che in quel momento era ai suoi piedi. «Non so dove tenerla e…» «E la vuoi lasciare a casa mia?» chiese James, sgranando gli occhi.


«Si tratta soltanto di qualche giorno.» «Senti, Francis…» «È che è un periodo un po’ difficile… non posso più fidarmi a nasconderla nei soliti posti.» «Sì, ma io qua non posso tenerla!» ci mancava pure quello... «Ma cos'è successo?» «Forse è che… sto allargando troppo il mio giro e… a qualcuno non sta bene.» spiegò Francis, in modo vago. James sbuffò. «Ma quando ti deciderai a lasciare perdere questa roba?» Francis lo guardò, un’espressione strana in volto, come se pensasse che l’amico lo stesse prendendo in giro. «Mi è venuta sete…» disse, sovrappensiero. James si alzò e si diresse in cucina, prendendo la bottiglia d’acqua e un bicchiere che riempì, per poi tornare in camera. Ma prima che ci arrivasse, Francis era già in corridoio. «Io vado.» «Te ne vai? Ma l’acqua…» provò a dire James, con il bicchiere in mano. «Ci sentiamo… posso sempre contare su di te, no?» gli domandò Francis, con un sorriso in volto, fissandolo a lungo. «Se rispondo sì, a cosa vado incontro?» James si accigliò. «Ma hai le mestruazioni per caso?» Francis gli rifilò un pugno alla spalla, prima di scendere le scale. James bevve dal bicchiere, prima di tornare in cucina a poggiarlo. Francis doveva essere nei guai, o quantomeno in una situazione delicata e strana. Ma James non poteva aiutarlo. Ed era anche convinto di non voler entrarci.

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