The woden's day

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Copyright © 2015 Tania Paxia


Pubblicato in digitale il 17 marzo 2016 Foto in copertina: Oneinchpunch Licenza 2015 Bigstockphoto Progetto grafico di Tania Paxia

Questo romanzo è un’opera di fantasia. Personaggi, istituzioni, luoghi ed episodi sono frutto dell’immaginazione dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi, organizzazioni o persone, vive o scomparse, veri o immaginari è del tutto casuale.

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Mercoledì, 3 settembre 2008

“E che cavolo, però. Carter!” gli tolsi di mano il foglietto sul quale aveva appuntato il nome da dare al giorno in cui, d’ora in poi, ci saremmo rivisti fuori dall’orario scolastico. Adesso che lui si trasferiva da suo padre dall’altra parte della città, perché i


suoi stavano divorziando, non avremmo più avuto occasione di rimanere ogni sera l’una a casa dell’altro fino a tardi a fare i compiti, a guardare la tv o a giocare ai videogiochi (corse di auto, soprattutto). E neanche tutti i pomeriggi al parco o in biblioteca oppure al cinema di mio padre. “Wod, ridammelo”. Mi ordinò, agitando i suoi capelli di un biondo scuro dorato, un po’ lunghi a forma di scodella rovesciata, con la riga in mezzo. Me lo strappò dalle mani con una velocità impressionante. I suoi riflessi erano eccezionali, dato che era abituato a correre con i go-kart. Non c’era verso di sorprenderlo con qualche gesto improvviso. Mai. “Devo ancora modificarlo”. Sbuffai. “Vorrei ben vedere”, con un gesto stizzito raccolsi le braccia al petto, incrociandole. “Audrey’s Day”, scossi il capo, facendomi sbattere le lunghe trecce castane sul volto e sul collo, “è orripilante”. “Ti ho detto che lo devo modificare, testaccia dura”. Tirò fuori la lingua per farmi una smorfia accompagnata da un mugolio, più simile a un grugnito, in realtà. Sospirò, guardandomi negli occhi castani inumiditi da un leggero velo di lacrime. Era tutto il pomeriggio che piangevo. Non volevo darlo a vedere, ma senza di lui nella casa a fianco, per me sarebbe stato un incubo. Carter era il mio amico del cuore. Però quando mi chiamava testaccia dura, mi saliva l’odio, così lo spintonai, facendolo quasi cadere sul prato di fronte a casa mia. Il nostro gioco preferito, oltre alla Play era l’azzuffamento. Di solito iniziavo sempre io, maschiaccio com’ero. Mi lanciò un’occhiataccia delle sue, con tanto di broncio e scattò verso di me, togliendomi per dispetto il berretto rosso con la visiera al contrario. Dei ciuffi di capelli sudati mi si scompigliarono sulla fronte. Non mi presi la briga di metterli in ordine, perché ero talmente arrabbiata con lui che gli mollai un pestone sul piede destro. “Ahhhhiiiiii”, cominciò a saltellare sul posto poggiando tutto il peso sul piede sinistro, stringendosi la scarpa destra con entrambe le mani. Aveva gli occhi chiusi e una smorfia di dolore sul volto paonazzo per via della corsa che avevamo fatto dal parco giochi. Quando lo prendevo a pugni, il più delle volte, era per dimostrargli il mio affetto, ma non quel giorno. Lo avevo colpito con rabbia, quasi volessi sfogarmi con lui per una cosa della quale non aveva colpa. Avrei dovuto prendermela con i suoi genitori, per quella stupida decisione improvvisa: con sua madre perché aveva preferito la sua carriera di paramedico alla famiglia, mentre con suo padre perché non usciva mai dalla sua officina e dal garage della scuderia per la quale lavorava. Il meno impegnato dei due era sicuramente suo padre, con il quale Carter trascorreva la maggior parte del tempo. Questo anche quando i suoi vivevano sotto lo stesso tetto. Raccolsi il mio cappellino da terra e me lo rimisi in testa. “Così impari a fare lo scemo”.


Carter digrignò i denti, coperti dai fili metallici dell’apparecchio. “Sei diabolica, Wod”. La sua voce ancora fine e infantile era più acuta del solito. Aveva quasi le lacrime agli occhi dal dolore. Cominciò a guardarmi in cagnesco, dopo che gli avevo risposto con una smorfia trionfante. “Hai cominciato tu, con quel nome del cavolo. Perché non lo chiamiamo Fitzpatrick’s Day?” mi strinsi nelle spalle. “Sei tu che tornerai qui ogni mercoledì, non io”, feci la voce grossa. “Sì, dovremmo chiamarlo così”. “Non credo proprio. Ci pensiamo un altro po’ e poi decidiamo”, sbuffò. Con un movimento fluido si rimise in piedi, ma si vedeva che era ancora dolorante. “E smettila di pestarmi i piedi. Mi servono per le gare”. Mi lanciò un’occhiata fulminante con i suoi occhi di un celeste intenso, quasi blu. “Carter, andiamo!” la voce potente, ma gentile di suo padre lo stava chiamando dall’altro lato della staccionata bianca di legno, dove poco prima aveva parcheggiato a ridosso del marciapiede l’auto di servizio con scritto sulla fiancata ‘Officina Fitzpatrick’, per caricare nel bagagliaio gli ultimi scatoloni. E così era arrivato il momento dei saluti. Osservai il signor Fitzpatrick mentre gli faceva segno di raggiungerlo: indossava la tuta da lavoro grigia coperta da macchie d’olio e grasso di motore. Doveva essere venuto direttamente dalla sua officina solo per prendere Carter e le sue cose. Aveva il volto tirato in un’espressione stanca e arcigna, con la fronte corrugata coperta da qualche ciuffo sudaticcio di capelli di un biondo cenere scuro, anneriti dallo sporco. “Devo andare”, a Carter tremò il labbro inferiore per il pianto in grande stile che era riuscito a trattenere dopo il pestone sul piede. Annuii. Di solito ci salutavamo battendo un pugno contro l’altro, oppure con una pacca sulla schiena. Quando eravamo più piccoli ci abbracciavamo anche, però. E quella era proprio l’occasione da abbraccio. Quindi, dopo averlo guardato in cagnesco, con gli occhi appannati dalle lacrime, mi lanciai per abbracciarlo forte. In un primo momento rimase fermo, quasi sorpreso, ma poi anche lui dovette cedere e stringermi con le sue braccia esili. “Sarai sempre la mia migliore amica, Woden”, mi sussurrò all’orecchio. “Anche tu il mio”, lo dissi con un soffio di fiato, con una vocina dolce, rotta dalla tristezza. Mi schiarii la gola con un colpo di tosse e mi discostai, prendendo le distanze. Carter aveva il broncio, con le labbra strette e protratte in fuori. Prese un gran respiro, fissandomi negli occhi e poi, all’improvviso, si impettì, baldanzoso, ignorando del tutto gli sbuffi di suo padre. “Io Carter Fitzpatrick, prometto di incontrare la mia amica Woden Audrey Doolittle, ogni mercoledì sera. Giuro solennemente di rispettare questo accordo, anche se mi trovassi in punto di morte, rapito dagli alieni, trasformato in un vampiro, in uno zombie…”


“Carter”, cercai di fermarlo, perché quando incominciava a parlare – a dire fesserie – non la finiva più. “O alle prese con una gara di go-kart…” continuò, senza darmi retta. Sbuffai. “Carter”, lo richiamai di nuovo. “O con la febbre…” non c’era verso. Quindi lo presi per le spalle e cominciai a scuoterlo. “Carter, ho capito”, gli urlai. Tossicchiai, per poi calmarmi. “Continua”. Mi fissò per un attimo, sbattendo le ciglia contrariato. “Dicevo”, sospirò. “Che giuro di incontrarti ogni mercoledì sera”. Dopodiché raschiai la gola e sputai la saliva sulla mano e gliela porsi, affinché suggellassimo l’accordo. Carter contrasse il volto in un’espressione schifata, con la bocca tutta storta, pronta a pronunciare un sonoro “Bleah”. Ma alla fine fece spallucce e scaracchiò sulla mano, o meglio sbavò sulla mano con una quantità industriale di saliva, e mi strinse la mano ancora con le labbra contratte per il ribrezzo. Io gli offrii un gran sorriso di rimando. “Beh”, si strofinò ben bene la mano sui pantaloni che gli arrivavano fino al ginocchio. “Almeno non hai proposto un patto di sangue”, sghignazzò con la sua risatina intermittente, che finiva con un grugnito. “Carter, ultima chiamata! Tra dieci secondi me ne vado. Dieci…” suo padre, in effetti, aveva avuto sin troppa pazienza. Carter abbassò lo sguardo, rattristato anche lui, come me. Perché sapeva che niente sarebbe stato come prima, anche se avremmo continuato a vederci comunque a scuola. Ma non sarebbe stata la stessa cosa. “Allora ci si vede, Wod”, fece qualche passo indietro, senza perdere il contatto con i miei occhi. “Ci si vede, Saetta”. Gli piaceva un sacco quando lo chiamavo con il soprannome che si era dato da solo. Come avevo previsto, riuscii a strappargli uno dei suoi sorrisi metallici. Poi si voltò e cominciò a correre tagliando per il vialetto, per poi uscire dal cancello in legno. Presi un gran respiro dopo averlo visto entrare in auto. Il signor Fitzpatrick agitò la mano verso di me per salutarmi e io feci lo stesso, dopo averla pulita sulla maglietta. Fu in quel preciso istante, che capii davvero che Carter mi sarebbe mancato, più di quanto avessi immaginato. E forse anche di più.

Venerdì, 4 dicembre 2015


WODEN

“Allora, ci vai alla festa di Felicia?” sentivo lo sguardo di Georgiana scrutarmi con i suoi occhi profondi di un castano nocciola, come la sua carnagione caffèlatte, da quando ci eravamo avvicinate al mio armadietto nel corridoio principale della scuola. La sua voce profonda era titubante, come se fosse indecisa se chiedermelo o meno. Con la storia della festa di Felicia Hadley, Lisha per gli amici, stava mettendo a dura prova i miei nervi. Erano settimane che non faceva che parlare di uno degli eventi dell’anno organizzati nella casa stratosferica di Felicia, la Diva del nostro liceo. Diva, perché era considerata la cantante più brava della scuola e se la tirava come nessun’altro, neanche fosse Beyoncé. Era un periodo che la sentivo nominare in ogni dove. Felicia di qua, Felicia di là. E che cavolo! Tirai fuori dall’armadietto il libro di chimica con il quaderno degli appunti e richiusi con un sonoro tonfo lo sportello dipinto con la stessa tonalità di blu elettrico dei Middletown Cavaliers. Quando sbattevo le cose ero arrivata al limite della sopportazione e Georgiana – Georgiana Cruz Fernandez, detta Georgie o più semplicemente G. – lo aveva già capito seppure ci conoscessimo da qualche mese, da quando si era trasferita in questa minuscola cittadina dello stato del Delaware e aveva iniziato l’ultimo anno alla Middletown High School. Mi voltai e tirai indietro il capo perché Georgie era alta quasi un metro e ottanta, ovvero quindici centimetri più di me. Forse venti. Okay, forse ventuno. “No, non ci penso neanche”. Feci una smorfia con le labbra piene, ravvivate da uno spesso strato di rossetto color melanzana. Quel giorno poi non ero affatto dell’umore giusto e mi ero vestita da dark-emo tra il gotico e il punk, con tanto di jeans neri strappati e giaccone di pelle con le borchie. Mia madre si era spaventata vedendomi arrivare in cucina per fare colazione. Ovviamente c’era un perché. Facevo parte del gruppo di teatro che si esibiva anche nelle recite e nei musical scolastici e per quel giorno era in programma una prova di Macbeth in versione moderna in stile gotico. Idea del professor Foster, un tipo piuttosto alternativo e rivoluzionario. Mi aveva praticamente obbligata a presentarmi a scuola già bardata di tutto – parrucca corvina compresa – in modo da immedesimarmi meglio nella parte. “Dai, è stasera”, si appoggiò con la schiena a uno degli armadietti di fianco al mio, incrociando le braccia al petto. “Se non vai tu, non posso andarci neanche io, perché non ho ancora la macchina e mio padre di sicuro non mi presterà mai la sua”, sbuffò dal naso, grande e schiacciato, muovendo la testa. E la sua folta criniera rasta danzò di qua e di là come mossa da un vento invisibile. Quando G. era arrivata a Middletown avevano cominciato a prenderla in giro per la sua pettinatura strana e arruffata. Non l’aveva presa benissimo, ecco. Quindi le avevo


consigliato di fregarsene di quello che diceva la gente, dopo che mi ero offerta di sedere allo stesso tavolo con lei, insieme a Finley Sullivan e Stacy McFerson, i miei migliori amici. “Stasera do una mano ai miei genitori al cinema, ricordi?” strinsi le spalle, come a volerle far capire che non era colpa mia se ai miei serviva aiuto e non potevano permettersi di assumere altro personale. Sì, i miei genitori avevano un cinema: lo Starlight Theatre. Era di mio padre, in realtà, tramandato di padre in figlio da due generazioni. Ero fortunata? Beh, dipende. Vedevo sempre i film in anteprima e avevo i popcorn gratis, quindi in un certo senso sì. Però andare al cinema con i tuoi amici è un po’ diverso da lavorare al botteghino o alla macchina dei popcorn del cinema e vedere i tuoi amici che si divertono senza di te dopo avergli venduto persino i biglietti di ingresso. Quindi da questo punto di vista non ero fortunata. Per niente. Ero sfortunata, pur nella fortuna, anche se poteva andarmi peggio: potevo essere l’addetta alle pulizie. Cosa che peraltro facevo, quando ero in punizione. “Ah già”, alzò gli occhi al cielo. “Quindi stasera non ho speranze di incontrare Nathan Larson”, protrasse in fuori le sue labbra carnose. “E lo sai quanto io abbia bisogno di vedere Nathan stasera”. Il suo tono si fece perentorio. Con questo Nathan Larson mi stava facendo andare fuori di testa. Perché, beh, Nath piaceva anche a me. Da anni ormai, ma non mi si era mai filato. Se devo dirla tutta, non ci avevo mai provato con lui, non direttamente, almeno. A mala pena avevo scambiato qualche parola con lui a scuola e al cinema, del tipo: “Su quei popcorn puoi mettere più formaggio?” e io, “ma certo”. I dialoghi erano stati pressappoco come questo. Feci una smorfia con la bocca. “Mi dispiace, ma non posso farci niente”. Le puntai un indice contro, “Puoi vederlo dopo gli allenamenti e metterti d’accordo direttamente con lui”. Tentai di proporle. Non lo avessi mai detto. Georgiana strabuzzò gli occhi e stava per urlarmi le peggiori offese contro ma si bloccò appena in tempo. Ancora non riusciva a capire subito quando scherzavo e quando ero seria. “Ah-ah”, mi offrì uno dei suoi sorrisi finti, che rifilava sempre al suo gruppetto di giocatrici di basket del quale faceva parte – anche se con l’abbonamento in panchina – quando si salutavano in corridoio, in classe o agli allenamenti. “Divertente”. “Cos’è divertente?” mi voltai appena udii la voce felice e spensierata di Finley. Come avevo previsto, spalancò i suoi occhi verdi e vispi dal taglio piccolo e allungato. Quel giorno erano decorati da delle linee spesse di matita sulle palpebre. Fece un passo indietro, tirando un urlo strozzato. “Porca miseria. Fai spavento”. “Parli tu!” lo squadrai dalla testa ai piedi, osservando il suo abbigliamento da punk con le cicatrici e le occhiaie da zombie. Aveva eseguito esattamente gli ordini di Foster. “Ma ti sei visto?” Si ingobbì. “Sì, purtroppo sì. E mi vergogno da morire”. Si guardò intorno furtivo, in seguito a delle risate che cominciavano a diffondersi dalla parte opposta del corridoio


dai gruppetti di ragazzi e ragazze riuniti davanti agli armadietti. “Possibile che nessuno abbia niente di meglio da fare che guardare me?” alzò il tono progressivamente, ad ogni parola, digrignando i denti contro i ragazzi che ci stavano fissando. Alcuni scoppiarono a ridere ancora più forte, mentre altri scuotevano la testa come a voler dire “Voi di teatro siete tutti scemi”. Finley, con il suo fisico mingherlino, era perfetto nel ruolo di zombie, soprattutto grazie a quella camicia strappata e verniciata a chiazze rosse, per imitare il sangue rappreso. Era abbastanza credibile, peccato che fossero le sette e venticinque di mattina e che stesse per iniziare la prima ora di lezione. Saremmo dovuti rimanere in quello stato fino alle due del pomeriggio. Stavo per sentirmi male. “Stavolta il signor Foster la pagherà cara per averci fatto vestire così già dalla prima ora. Peggio di quella volta che mi sono vestito da vampiro. Te lo ricordi?” storse la bocca in una smorfia disgustata. Scoppiai a ridere, ma prima di riuscire a rispondergli, Stacy mi anticipò. “E come dimenticare la reinterpretazione di Dracula per la recita di Halloween?” i suoi capelli rossi si vedevano da lontano un miglio, ma quella mattina tra il sonno arretrato, il trucco e le lenti a contatto, avevo la vista meno acuta del solito. “Ti prego non chiamarla recita. Fa troppo scuola elementare”, Finley si voltò verso di lei, dopo aver sbuffato. “Chiamalo che so…” alzò le braccia per farle ricadere sui fianchi. Poi fece spallucce. “Spettacolo”. “Era tutto fuorché uno spettacolo”, Stacy si mise a ridere con la sua risata argentina, tappandosi la bocca con la mano chiusa a coppa. Finley la zittì con un’occhiataccia assassina. “Okay, va bene”, alzò le mani in alto, “non ti si può dire niente in questi giorni, Finny”. “Non chiamarmi Finny”, ringhiò. E devo dire che stava entrando molto bene nella parte. “Oh adesso basta, voi due”, mi intromisi. “Smettetela di punzecchiarvi”. Stacy e Finley non lo volevano ammettere, ma l’amicizia che c’era tra di loro era diversa da quella tra Finley e me o tra Finley e Georgie. Stacy era persino gelosa quando Fin usciva con qualche ragazza del gruppo di teatro. Era piuttosto intimorita di rimanere delusa dal ricevere una risposta negativa di Fin, soprattutto per via del suo aspetto fisico, non propriamente da top-model, perché aveva qualche chilo di troppo e proprio per questo aveva la fissa di non piacere a nessuno. Per quanto mi riguarda le invidiavo i fianchi sinuosi e il decolleté generoso, gli occhi azzurri, i capelli rossi e le lentiggini, perché io ero tutto l’opposto di lei: bassina, piatta come uno skateboard, occhi e capelli di un castano normale e nessun segno particolare, a parte un dente scheggiato per colpa di una caduta sull’asfalto da piccola e il vizio di tingermi le ciocche di capelli di colore diverso quando ne avevo voglia. Per il resto ero una normalissima e anonima diciassettenne, un po’ maschiaccio, che ogni tanto d’estate si


dilettava ancora a correre sui marciapiedi con lo skate. Collezionavo montature di occhiali da vista stravaganti e non ero il massimo della bellezza, ma a me andava bene così. Quello che mi ripeteva sempre mia madre era: “Devi piacere prima di tutto a te stessa, poi agli altri. Non puoi vivere per compiacere la società, altrimenti dovremmo essere tutte quante modelle”. O come Felicia Hadley. Colei che invadeva i pensieri di ogni persona al solo sentire il suo profumo alla ciliegia ancora prima che entrasse in una stanza. Colei che osservavano tutti con ammirazione e invidia. Colei che comandava tutti con uno schiocco di dita. Colei che attirava l’attenzione su di sé, come nessun’altra in quella scuola. E lo stava facendo anche in quel momento, perché tutti i ragazzi erano voltati verso di lei, per godersi lo spettacolo del suo ingresso ancheggiante e della sua camminata a grandi falcate, con lo zaino in pelle chiara in spalla, lo sguardo cristallino fisso davanti a sé, il sorriso perenne sulle labbra e i capelli perfettamente lisci e di una tonalità biondo dorato. Anche Finley ne era incantato. E Stacy lo osservava con le braccia conserte, scuotendo il capo di tanto in tanto. “Oddio, ci risiamo”, Georgie si discostò dall’armadietto con un colpo di reni e con la mano diede una pacca sul collo a Finley, facendolo rinsavire. “Dico, ma devi farlo per forza? Tutte le volte?” Fin si voltò verso di lei, ma dovette inclinare la testa per guardarla negli occhi e G. quando sfidava le persone a muso duro faceva paura. “Okay, non fa niente”. Stacy le sfoggiò un sorriso riconoscente e mimò la parola “Grazie” con le labbra, senza farsi sentire. Nel frattempo seguii Felicia con lo sguardo, per tutto il corridoio fino a quando si fermò, come avevo previsto, ad un armadietto che non era il suo, ma di quello che tutti definivano il suo ‘non ragazzo’, perché ufficialmente non stavano insieme, anche se in realtà lei si considerava la sua ragazza e si comportava come tale. Come in quel preciso istante, quando lo abbracciò da dietro le spalle e lo costrinse a voltarsi per schioccargli un bacio sulle labbra. Peccato che il ragazzo dai capelli biondi le diede il ben servito, voltando di scatto il viso verso la sua sinistra per offrirle la guancia. Fu in quel momento che incontrai i suoi occhi di un azzurro intenso, quasi blu. Il ragazzo aggrottò la fronte e non riuscì a trattenere un sorriso, dopo aver esaminato il mio abbigliamento. Poi scosse la testa, prima di tornare con lo sguardo concentrato su Felicia. Le urla di protesta della Diva non si fecero attendere e riuscii persino a sentire qualche parola nonostante la distanza, il chiacchiericcio e il caos generale. Ma quelle parole furono sufficienti a farmi capire il senso della frase che più o meno suonava così: “Attento che poi potrei restituirti il favore quando hai certe voglie”. Bleah. Avevo anche sentito troppo. Fortuna che un gruppetto di amici della squadra di lacrosse e alcune Cheerleaders si erano avvicinati a loro, mettendo fine a quella conversazione privata ma di pubblico dominio. Il ragazzo dagli occhi azzurri ne approfittò per tirare fuori il cellulare dalla tasca dei jeans scuri che indossava. Non trascorse molto tempo prima di sentir vibrare il mio cellulare nella tasca destra della mia giacca di pelle. Così ignorai i continui battibecchi tra Stacy e Finley


riguardanti la maglietta troppo aderente di lei e gli occhi dolci a Felicia di lui e lo presi all’istante per leggere il messaggio che mi era appena arrivato, da parte di una certa Saetta. Come cavolo ti sei vestita, Wod? Sei troppo buffa!

CARTER

Macbeth gothic-punk-zombie. Ne abbiamo parlato mercoledì, ricordi? Cavolo. Lo avevo dimenticato. Ed ecco arrivare anche il secondo messaggio da parte di Sally Carrera. Non c’era quasi bisogno di leggerlo, perché già avevo immaginato la sua reazione.Ma certo che no. Troppo impegnato con donne e motori, il signorino. Strizzai gli occhi e feci una smorfia con le labbra, perché mi ero appena ricordato qualche particolare della chiacchierata di due giorni prima. Sono un pessimo ‘amico del mercoledì’. Mi dissi. “Carter?” mi sentii chiamare da Felicia. “Hai sentito cosa ti ho detto?” No, non ho sentito cosa mi hai detto. Mi sarebbe piaciuto urlarle contro, proprio come stava facendo lei in quel momento solo perché non la stavo degnando di uno sguardo. È che nell’ultimo periodo mi stava fin troppo appiccicata, perché a febbraio avrei ripreso con le corse in auto e non avrei avuto molto tempo da dedicarle. Una fullimmersion di Felicia, però, era devastante. Era più di un mese e mezzo che non mi mollava un minuto, tranne il mercoledì perché era il giorno dedicato a mia madre e a Woden, ma quest’ultimo dettaglio non lo sapeva nessuno. “Carter!” Lisha alzò il tono di voce, che risultò essere quasi minatorio. Sbatté anche un piede sul pavimento, il che voleva dire che era arrabbiata sul serio. Driiiiiiiiiinnnnnn! Salvato dalla campanella. Scattai di lato, facendomi spazio tra Tyler e Brianna che si stavano sbaciucchiando come se non si vedessero da una vita. “Ma insomma Carter! Che ti prende?” Tyler non l’aveva presa bene, ma pazienza. Dovevo assolutamente svignarmela prima che Lisha avesse avuto il tempo di continuare il discorso che non le avevo sentito pronunciare. Lo avrebbe ripetuto fin quando non avessi acconsentito ad ogni suo ordine. Non avevo ancora capito il perché continuavo a frequentarla, ma mi bastava guardarla per ricordarmelo: bionda, slanciata, con le tette abbondanti, disinibita, disponibile – sempre e comunque – a fare sesso e…cos’altro? Ah sì! Baciava benissimo, con tantissima lingua. E sembrava non stancarsi mai. Delle volte


era un po’ tonta e rompiscatole, ma la prospettiva di rimediare del sesso facile mi frenava dal mollarla all’istante. Lo so. Non era un bell’atteggiamento, ma diamine i diciassette anni arrivano una volta sola e non ricapitano più. Poi, modestamente, ero una celebrità a scuola da quando in prima superiore ero passato dal go-kart a roba più seria. Poi anche l’aspetto fisico, nel crescere, si era evoluto, facendomi assomigliare più a un bel ragazzo e non più a un ranocchio. Il primo passo era stato togliere l’apparecchio. Poi mia zia Harriett mi aveva fatto una pettinatura da superfico e mio padre, per farsi perdonare del trasferimento, mi aveva comprato dei vestiti nuovi e anche tante tute da pilota da sfoggiare alle gare. Continuai a correre alla velocità della luce per il corridoio e sulle scale che conducevano al primo piano, incontrando qualche altro studente-zombie dello stesso gruppo teatrale di Woden. Era come essere in uno di quei film dell’orrore che ci piaceva vedere ogni tanto durante il Woden’s Day. Erano buffi, comunque. Il signor Foster non aveva tutte le rotelle a posto per farli vestire così già dalla prima ora di lezione. Beh, almeno erano un diversivo dalle solite giornate noiose, tra una lezione e l’altra o in pausa a parlare con dei ragazzi di uno sport che non mi interessava – tipo il lacrosse – e con le Cheerleaders che non facevano altro che lodarmi e dirmi: “Ehi, Carter, oggi sei davvero uno schianto. Chiamami quando ti è passata la voglia di uscire con Felicia”. Questo, quando lei non c’era. Quando lei era insieme a noi, invece, si rivolgevano a me in questo modo: “Ehi, Carter, ti stanno bene i capelli così, sai?”, oppure, “State davvero bene, tu e Lisha. Siete una bellissima coppia!” viscidi. Viscidi, tutti quanti. Avevo nostalgia dei miei vecchi amici, quelli con cui ero cresciuto, come Finley e Stacy, per esempio. Non ci parlavamo più dal primo anno delle superiori, cioè da quando ero entrato nel gruppo dei cosiddetti popolari, super-fighi, stra-fighi. L’unica che ancora mi rivolgeva la parola – non in pubblico – era Woden. Sopportava sempre tutte le mie lagne, anche se avevo tradito lei e gli amici più cari per passare al ‘nemico’, togliendo loro persino la parola quando eravamo a scuola o in qualche altro luogo di Middletown dove ci incontravamo per caso in compagnia dei nostri rispettivi amici. Il signor Jensen era seduto alla cattedra a scrivere degli appunti sull’agenda, ignorando quasi del tutto il fatto che nella classe-laboratorio regnasse il caos più totale. Mi misi seduto al bancone in fondo all’aula, insieme a Phil, il mio migliore amico ufficiale, un giocatore di basket con il talento per la chimica e per la matematica. Era ovvio che facesse coppia con me al bancone degli ‘esperimenti’, da quando non era più Woden a risolvere e a mettere in pratica tutte le formule chimiche e a mischiare quei tutti quei liquidi colorati. “Ehi, amico, ti senti bene?” Phil mi diede una pacca sulla spalla a mo’ di salutoincoraggiamento. In effetti no, non stavo bene. Corsa per il corridoio e per le scale a


parte. Cavolo, però, ero fuori forma. Sul serio. Ma non era per quello che avevo il morale a terra. “Hai una faccia!” “Ti sei guardato la tua?” gli risposi senza pensarci, dopo essermi seduto sullo sgabello, di fianco a lui. “Sì ho la faccia da culo. Come sempre”, sghignazzò con una risata sguaiata e buffa che fece voltare persino la fila davanti a noi. Non si smentiva mai. Tanto che gli importava. Era il playmaker della squadra di basket della scuola e tutti lo adoravano soprattutto per le labbra sporgenti e i denti bianchissimi e un po’ distanziati l’uno dall’altro – da castoro – che ormai erano diventati il suo marchio di fabbrica. I suoi fan gli avevano persino fatto una serie di magliette con la sua caricatura da indossare alle partite. Si passò una mano sulla bocca e cercò di reprimere ancora la voglia che aveva di ridere. Sospirai. “Eh sì hai ragione”. Il mio amico fece spallucce. “Ah ti ringrazio. Comunque era una battuta per farti ridere un po’. Sei la tristezza in persona”. Mi voltai verso di lui e lo vidi mentre mi osservava lisciandosi la testa con la sua mano enorme, a mo’ di palla di cristallo. Si era tagliato da poco i folti capelli biondi scuri, che di solito teneva legati in un codino, e non aveva ancora fatto l’abitudine ai capelli corti che all’aria aperta nascondeva sotto a un orrendo berretto di lana blu elettrico con il simbolo dei Cavaliers. Poi il mio sguardo fu catturato dall’ingresso in aula di Woden. Mi salutò appena con un cenno del capo e tirò dritto per raggiungere l’altro lato del laboratorio, insieme a Georgiana, la sua nuova amica. Wod era l’unica dell’ultimo anno nella classe di scienze del signor Jensen ad essere vestita da zombie. Diciamo che la baraonda generale da inizio lezione, si placò ben presto, trasformandosi in un chiacchiericcio più sottomesso con l’aggiunta di qualche risolino. Perché diamine continuava a partecipare a quelle stupide recite teatrali, poi? Si metteva in imbarazzo da sola. Più del dovuto. Trattenni a stento un sorriso involontario quando Wod rispose a una battutaccia di Jade Morrison, mostrandole il dito medio dopo essersi seduta nel bancone in prima fila. Era evidente che a lei non interessassero le prese in giro o il fatto di mettersi in imbarazzo. Lei era libera. Faceva ciò che voleva, il più delle volte, senza stare a sentire nessuno o seguire la moda del momento, come facevano le altre ragazze della nostra età. Era semplicemente se stessa: Woden. “Signorina Doolittle è in ritardo per i suoi standard”, il professor Jensen alzò la testa, in direzione della prima fila, alla sua sinistra, vicino al muro, proprio in direzione di Woden. Woden si schiarì la gola, con il suo consueto attacco di tosse nervosa. “Mi dispiace…” Jensen la fissò con più attenzione, togliendosi gli occhiali da lettura. “Quel suo abbigliamento è dovuto alla lezione di teatro con Foster?” sbatté le sopracciglia


indignato. Poi alzò le sopracciglia folte e grigie da scienziato pazzo, in attesa di una sua risposta. “Sì, ehm”, riuscì a pronunciare con la sua vocina, prima di essere interrotta da Jade ‘la simpaticona’. “Non era vestita così anche ieri?” produsse un risolino fastidioso che echeggiò nel silenzio dell’aula. Jade si aggiustò i capelli ricci dietro una spalla e batté il cinque alla sua compagna di laboratorio. Venni assalito da un certo prurito alla lingua, ma dovevo cercare di trattenermi dal rispondere alla battuta, altrimenti sarebbe saltata la mia copertura da ‘non amico’ di Woden. Sarei dovuto essere abituato a questa cosa, ma quando eravamo in aula insieme si complicava tutto. Avrei tanto voluto dare una lezione a Jade, ma continuai ad assistere alla scena a denti stretti, con la mascella serrata. Woden, non si perse d’animo e come al solito rispose con eleganza, con il suo solito humor pungente. “No, ho cambiato la parrucca. Tu faresti bene a dare una strigliata alla tua, invece”. Ahahahahahah! Woden sei la migliore! Pensai. Dopo aver sentito Phil sghignazzare, mi presi la libertà di ridere anche io. Stavano ridendo tutti, quindi non avrebbe avuto senso trattenersi. La scena stava diventando troppo comica perché Woden si era aggiustata la parrucca e aveva iniziato ad attorcigliare una ciocca di capelli con le dita, come faceva sempre Jade. “Come hai detto, scusa?” dalla voce acuta di Jade, si poteva dire che Woden avesse fatto centro, ancora una volta. “Okay, okay”, il signor Jensen scattò in piedi, facendo stridere la sedia sul pavimento, per poi alzare le mani in alto nel tentativo di acquietare la situazione. “Silenzio, silenzio. Abbiamo capito. Avete entrambe la battuta pronta. Ah, ah, ah”. Era inquietante quando provava a ridere, pur rimanendo serio. Il suo faccione si contraeva in una smorfia strana. “Ora aprite il manuale al punto in cui avevamo lasciato la scorsa volta e cominciamo questa lezione, per favore”, dopodiché, senza farsi notare, fece l’occhiolino a Woden, accompagnandolo a un lieve sorriso compiaciuto. Lei rispose con un sorriso a sua volta, ma si sbrigò a sfogliare il libro di chimica. “Chi sa dirmi il nome di alcuni agenti chimici pericolosi e i rischi correlati alla salute di ognuno di essi?” Da quel momento staccai il cervello e piantai lo sguardo fuori dal finestrone panoramico che dava sul parcheggio anteriore. C’era il sole, ma il cielo grigio non prometteva niente di buono. Come anche il pomeriggio e la serata che mi aspettava. Avrei dovuto decidere del mio futuro nelle prossime gare nella Nascar K&N Pro Series dell’Est ma non avevo ancora ben chiare le idee. Era la mia occasione per farmi notare ed essere ingaggiato da una scuderia della Sprint Cup, la categoria maggiore, e diventare così un pilota professionista a tutti gli effetti. Mio padre aveva già visto qualche auto da assettare per la nuova stagione, anche se io non volevo dividermi da


quella con cui avevo corso per due anni. L’avevo distrutta più di una volta, ma andava che era una meraviglia. Ero elettrizzato, ma triste allo stesso tempo, perché quel pomeriggio, forse, mi sarei separato da un’altra cosa alla quale tenevo. E io non andavo affatto d’accordo con le separazioni. Proprio per niente.

Domenica, 6 dicembre 2015

CARTER

Perfetto. Era domenica sera e invece di essere nel mio letto a baciare – e altro – Felicia, dato che mio padre aveva lasciato la casa libera, mi trovavo sì con Felicia, ma al cinema, in fila al botteghino per comprare i biglietti. Altro piccolo dettaglio da non trascurare: non eravamo soli. C’erano anche Jade e i suoi riccioloni, Brianna e il suo bel faccino, ma anche la meravigliosa Hannah con il suo fisico da paura e Jessica, rattristata per essersi lasciata con Cole alla festa di Lisha, dove aveva scoperto che il suo ragazzo se la faceva da tempo con Veronica, non presente con noi al cinema per ovvie ragioni. Avevo insistito per andare al multisala dall’altro lato della città, dove avremmo potuto vedere Creed con Sylvester Stallone ancora nei panni di Rocky in versione trainer di Apollo Creed. E invece niente. Eravamo allo Starlight Theatre, il cinema vintage del padre di Woden, per vedere la replica de ‘Il Grande Gatsby’, nella versione con Di Caprio. Nulla contro Di Caprio o contro gli altri attori, ma preferivo la versione del ’74. Nelle altre due sale dello Starlight venivano proiettati un film di Natale ‘Love the Coopers’, e l’ultimo film di 007. Sicuramente sarebbero stati meglio quelli di un film che avevo già visto e rivisto in tutte le salse. Avevo anche letto il libro. Ed ero talmente preparato da poter elencare a memoria le differenze tra il libro e le sceneggiature delle varie versioni. Nonostante ciò, eravamo partiti da casa di Felicia con la monovolume della madre di Felicia e avevo fatto da tassista a tutte quelle donne in piena crisi di nervi. Jessica piangeva a singhiozzo, Brianna sbuffava e messaggiava al telefono con Tyler, Jade si arricciava una ciocca di capelli con il dito, Hannah continuava a fissarmi, mentre Felicia consolava la povera Jess dicendole che il suo ragazzo era uno stupido e bla bla bla. Avevo smesso di ascoltarla quando, a un certo punto, mi ero concentrato sugli occhi furbetti color verde chiaro di Hannah. Anche lei la pensava come me. Avrebbe voluto essere in un altro posto, con qualcun altro, a fare altro. Me lo confermò il suo lieve sorriso compiaciuto. Le sue labbra erano carnose e quella sera erano evidenziate dal rossetto rosso e mi venne voglia di prenderla in braccio, sbatterla contro il muro e baciarla ancora e ancora. Ah, pensa a


qualcos’altro, pensa a qualcos’altro! I suoi capelli scuri così setosi…Scossi la testa più di una volta, nel tentativo di liberarmi di quelle immagini in cui ero avvinghiato ad Hannah e mi concentrai sulla fila di persone davanti al bancone di legno del bar. Quella sera Woden lavorava come addetta alla macchina dei popcorn. La divisa rossa con il cappellino giallo a barchetta le donava. Sì, come no! Trattenni una risata. Era troppo buffa con un paio dei suoi famosi occhiali rotondi, dalla montatura di plastica di un bel fucsia fluo, che le scendevano sul naso. Era impegnata a riempire un paio di secchielli con i popcorn e rovesciarvi sopra delle dosi abbondanti di burro fuso. “Vero Carter che parlerai con Cole?” appena sentii Lisha pronunciare ‘Carter’ e ‘Cole’ a distanza ravvicinata mi venne il dubbio di non aver ascoltato l’intero discorso. Eh no. Infatti. Mi ero distratto con Hannah. Accidenti! Lei e il suo golfino aderente. Carter, non guardarle le tette. Non guardarle le tette. Non. Guardarle. Le… Okay solo un’occhiata e poi basta. “Cosa?” mi rivolsi a Lisha che si trovava alla mia destra. Il suo sguardo furioso non mi piacque per niente. Sospettava forse che non l’avessi ascoltata per tutto il tempo? Diamine, sì. Eccome se lo sospettava. Lo capiva subito quando la ignoravo e poi si incazzava di brutto. “Non hai sentito una sola parola di quello che abbiamo detto, non è così?” si era incazzata. E anche parecchio. Le pulsava persino la vena tra le sopracciglia fini e curate. Serrò gli occhi con fare minaccioso e incrociò le braccia al petto. Scenata fra tre, due uno… “Sei sempre il solito. Non cambierai mai. Jessica sta soffrendo per colpa di Cole e Veronica e a te non te ne frega niente”. Sbuffò, eseguendo alla grande una delle sue migliori smorfie di disgusto. “Vatti a fidare dei ragazzi. Siete tutti uguali”. Si voltò verso Jess che si stava asciugando le lacrime con i dorsi delle mani. Jess aveva il viso contratto e triste. Lei, che di solito era la prima a scoppiare a ridere anche per cose insignificanti. Il mio animo buono si fece strada, risalendo dal cuore fino alla bocca. “Okay, Jessica. Non ti preoccupare. Parlerò io con Cole”, un barlume di speranza aleggiò in quegli occhi coperti da un pasticcio di trucco e lacrime. “Adesso basta piangere”, le ordinai. “Hai tutto il mascara sulle guance”. Forse potevo tacere ed evitare quest’ultima considerazione. Perché si sa, le ragazze quando sentono le parole ‘mascara’ e ‘guance’ in una sola frase vanno nel panico. Dovevo imparare a contare fino a dieci prima di sputare parole a caso. Ormai, però, era troppo tardi. Jess sgranò gli occhi azzurro ghiaccio e cominciò a guardarsi intorno in cerca di qualche sguardo rassicurante delle sue amiche. Io ne approfittai per fare qualche passo avanti e procedere nella fila, ma il coro di grida di Felicia, Brianna, Jess, Jade ed Hannah mi perseguitò fino al mio turno. “Sei un deficiente”, furono le ultime parole piene di odio da parte di Lisha, prima che io mi avvicinassi al bancone per chiedere sei biglietti de Il Grande Gatsby. “Tieni un fazzolettino, Jess”, si addolcì con lei, ma continuò a guardarmi storto. “Non è così grave, è solo un po’ sbaffato”. Un po’ sbaffato, aveva detto? Ah ah ah! Jess aveva la pelle chiara come la Luna e sembrava le fosse


scoppiata una penna stilografica sul volto da quanto rimmel si era messa.Dico io: ma usare meno trucco, no? Nessuna di loro ne aveva bisogno, perché erano belle anche senza. Se lo avessi detto ad alta voce, mi avrebbe preso per un leccaculo e se invece non lo avessi detto, mi avrebbero dato dello stronzo. In entrambi i casi avrei sbagliato di sicuro. Nel dubbio, tacqui. Mi sarei risparmiato tante grane e non avrei aumentato il livello di incazzatura di Felicia.

WODEN

Stavo rileggendo una parte del copione di ZombieMacbeth sgranocchiando di tanto in tanto i popcorn, scuotendo la testa a ritmo della musica che usciva dagli altoparlanti disposti in più punti della sala, collegati al televisore fissato al muro, dietro di me, sintonizzato su Mtv. Ormai erano tutti impegnati nelle visioni dei film spaparanzati sulle poltrone. Di tanto in tanto qualcuno sarebbe uscito dalle sale per una tappa al bagno o per fare rifornimento al bar con altri popcorn o altre schifezze varie, tipo liquirizia in tutte le misure e forme, dolcetti, zuccherini colorati, marshmallow, panini, tramezzini, birre, Coca-Cola, aranciata e chi più ne ha più ne metta. Più leggevo le battute scritte dal signor Foster e più mi sembravano orrende. Non si salvava neanche l’inizio. Atto primo Scena I (Luogo aperto. Lampi e lamenti) Entrano gli zombie. 1° Zombie – Quando inizieremo a mangiare un po’ di cervello? Dopo i lampi o i lamenti? Quando? 2° Zombie – Quando sarà finito tutto questo casino e avremo catturato qualcuno. 3° Zombie – Stasera. 1° Zombie – Dove? 2° Zombie – Nella foresta. 3° Zombie – È lì che si trova Machbeth. 1° Zombie – Vengo, per la miseria! 2° Zombie – Ci chiama qualcuno! 3° Zombie – Veniamo subito, dacci un minuto! TUTTI E TRE – Per noi è bello il cervello, il cervello è bello! Fra la nebbia arranchiamo e zoppicando ci dileguiamo.


Per la miseria! Era ancora peggio di quello che mi aveva detto Finley. Non era orribile. Era tremendo. Ecco perché Foster aveva lasciato l’inizio da provare per ultimo. Superava in stupidità persino il dialogo degli Zombie insieme a Macbeth che avevamo provato due giorni prima. “Uno Zombie bello come questo io non lo avevo mai visto”, al posto della classica battuta di Macbeth “Un giorno brutto e bello come questo non lo avevo mai visto”. Mi sarei vergognata come una ladra a recitare la parte dello Zombie 3, ma mi sarei divertita un sacco a provare con Finley e gli altri, un po’ meno sul palco durante lo spettacolo, ma, forse, con tutto quel trucco e il travestimento da zombie, nessuno mi avrebbe riconosciuto. Anche Carter si sarebbe fatto quattro risate a leggere e far finta di recitare le battute. E a proposito di Carter, eccolo spuntare da dietro la porta della sala 1 in fondo al corridoio e, dopo essersi assicurato che non ci fosse stato qualcuno che conosceva nei paraggi, si avvicinò al bancone con fare furtivo. “Ehi Wod!” sussurrò, guardandosi ancora intorno. “Perché tutta sola?” allungò il braccio per rubarmi qualche popcorn dal mio secchio extra-large personale. Se ne ficcò una bella manciata in bocca e cominciò a sgranocchiarli rumorosamente, appoggiandosi con un gomito sulla superficie levigata e lucida del bancone, con fare svogliato. Cominciò a fissarmi, con lo sguardo da cane bastonato che mi faceva sempre tenerezza. “Simon”, gli indicai il botteghino vuoto dall’altro lato dell’ingresso, “è andato in pausa e Jeff sta cercando di convincere mio padre a dargli un aumento, nella stanza delle proiezioni”, sorrisi, perché già sapevo che non gli avrebbe concesso alcun incentivo sullo stipendio.Cranch, cranch, cranch. Sentirlo masticare a bocca aperta era ormai diventata una prova per testare il limite della mia pazienza. “E mia madre vaga tra le sale per sorvegliare le coppiette come te e Felicia che disturbano la visione dei film con le effusioni troppo evidenti”, mi rialzai gli occhiali che erano scesi sul naso e allontanai da lui il secchio dei popcorn, altrimenti sarebbe stato capace di finirseli tutti. “Se li vuoi, li devi pagare”. “Sbiloccia”, parlò a bocca piena. Poi, dopo aver ingoiato il boccone di forza, ripeté. “Spilorcia”. Sbuffò, sventolando una mano in aria, come a voler dire “Ah, lascia stare, mi hai fatto passare la voglia”. “Perché non sei rimasto a vedere il film? È il tuo preferito, no?” sghignazzai, dato che gli avevo fatto venire un esaurimento nervoso da quante volte lo avevo obbligato a vederlo in dvd e anche qualche volta durante le proiezioni a cinema chiuso. Sì, questo era uno dei vantaggi di avere un cinema tutto per me. “Non infierire”. Fece una smorfia per poi serrare le labbra ben delineate e carnose, tutte da baciare, come diceva la maggior parte delle ragazze e io, quando lo prendevo in giro. “È stata una giornataccia”, si corresse, “anzi è da venerdì che è una giornataccia unica, senza fine. Mio padre non mi ha fatto quasi dormire per via della macchina nuova”.


Sgranai gli occhi. “Dici sul serio? Raccontami tutto, che aspetti?” mi aveva accennato a un cambio auto voluto da suo padre per l’inaugurazione del nuovo campionato Nascar, ma volevo, anzi, esigevo, i dettagli. Seguivo le sue gare da quando correva in go-kart e avevo visto qualche gara dal vivo in incognito, senza che lui lo sapesse e, soprattutto, senza che mi vedessero i nostri compagni di scuola o una delle sue ragazze. Da quando partecipava alle gare della Pro Series, però, seguirlo mi era più facile perché trasmettevano le gare anche in tv sui canali sportivi. “Venerdì io e mio padre siamo andati a vedere il motore di una Toyota e dei pezzi della carrozzeria che mancavano”, dal suo tono di voce poco entusiasta compresi che non era affatto soddisfatto del nuovo progetto di suo padre e del team che lavorava per la scuderia. “Il motore è molto più potente dell’altro e ci occorrerà più tempo del previsto per l’assetto e tutto il resto”, fece spallucce. “Credo che abbiano fatto il passo più lungo della gamba e che mi abbiano sopravvalutato come pilota”. Wow. Era proprio con il morale sotto i piedi. Non lo vedevo così da qualche mese, dopo una gara in cui nella batteria decisiva di metà campionato, un’auto gli si era schiantata addosso, accartocciando la sua Saetta – oltre ad essere il suo soprannome, era anche il nome che aveva dato alla sua auto – contro il muro. Dovevo fare qualcosa per farlo sorridere perché con quel muso lungo, oltre a perdere il suo fascino, faceva deprimere anche me. “Il grande Carter Saetta Fitzpatrick ha dei dubbi sulle sue capacità?” finsi un’espressione allibita. E siccome Carter sapeva sempre quando lo stavo prendendo in giro, alzò lo sguardo e mi offrì uno dei suoi sorrisi più grandi, che però ritirò all’istante. “Grazie per il tentativo, Wod”, mi guardò negli occhi in cerca di sostegno, “ma credo di aver perso tutto il mio entusiasmo. Non lo so. Fino ad ora ho gareggiato per divertimento, adesso che so che sono tenuto sott’occhio dalle scuderie del campionato nazionale, non so se sono pronto. E tutti si aspettano grandi cose da me. Mi sento sotto pressione”. Rimanemmo a studiare l’uno lo sguardo dell’altra, in attesa che uno dei due si decidesse a riprendere il discorso. Ma nessuno di noi ebbe il coraggio di infrangere il silenzio placato dalla voce di Hayley Williams dei Paramore. Ad un certo punto Carter scoppiò a ridere, con la sua sempiterna risata buffa e strozzata a perdifiato. E io lo imitai poco dopo, perché avevo capito il motivo per il quale era scoppiato a ridere dopo aver sentito quella canzone intitolata ‘The only exception’. “Te la ricordi, Audrey?” dopo aver pronunciato il mio secondo nome in modo sdolcinato, non riuscì a trattenersi e continuò a ridere a crepapelle. “Come potrei dimenticarmi una situazione imbarazzante come quella, mio caro Fitz!” ridacchiai, con un po’ di imbarazzo. Perché cavolo era spuntato fuori quell’argomento? Dannata canzone! Eravamo in seconda superiore e in quel periodo avevo una cotta spropositata per Carter. Ma proprio una di quelle cotte che non riesci a dormire la notte. Perché,


cavolo, aveva fatto un cambiamento mostruoso, in senso buono. Lo aveva già dimostrato a dodici anni quando si era tolto l’apparecchio e si era tagliato i capelli alla moda, poi però era anche cresciuto e aveva forgiato un fisico niente male per la sua età. E dato che trascorrevamo tutti i mercoledì sera insieme, beh, alla fine c’ero caduta anche io nella trappola del pilota biondo con gli occhi azzurri. A lui non riuscivo mai a nascondere nulla, quindi lo aveva scoperto subito e avevamo continuato a far finta di niente, fin quando un mercoledì sera, mentre stavamo ascoltando quella canzone, Carter mi aveva detto che anche a Fitz piaceva Audrey. In un primo momento non avevo inteso, ma poi aveva aggiunto: “Alla metà di me piace la metà di te”, e allora avevo capito, anche senza il bisogno di quel mezzo bacio ad un angolo della bocca. E di nuovo sulle labbra, perché poco prima aveva preso male la mira. Poi si era allontanato e dopo esserci guardati negli occhi per un momento, Carter era scoppiato a ridere e io dopo di lui. Aveva commentato con un “sai di popcorn, Wod!” Quello era stato il mio primo bacio in assoluto. Mentre per Carter…beh, non era stato molto chiaro su questo punto. “Dai è stato carino”, che romanticone! “Dovevo ancora prenderci la mano”. Si grattò la tempia, coperta da un ciuffo più lungo. “Con il tempo sono migliorato”, gli si formò un sorriso furbetto sul volto. “Vuoi provare, Wod?” Gli feci la linguaccia e stavo quasi per rispondergli “No, grazie!” quando la vocesoave – più incazzata che mai – di Felicia irruppe nel corridoio insieme a una Jess in lacrime. “Mi spieghi perché sono quasi dieci minuti che sei venuto a prendere da mangiare? Quanto ti ci vuole?” Felicia si portò una ciocca di capelli biondo miele dorato dietro l’orecchio. Carter si era irrigidito e aveva sgranato gli occhi, come se non si aspettasse un’incursione così improvvisa della sua ‘non ragazza’ e della sua amica con due fontane al posto degli occhi. Singhiozzava come una bambina a cui avevano tolto il giocattolo più bello. Dopodiché Carter si schiarì la gola e mi indicò i cilindri di vetro dei dispensatori pieni di caramelle gommose. “Oltre al secchio medio di popcorn, puoi darmi un sacchetto di quelle e anche due stecche di liquirizia rossa?” Sbattei le palpebre più volte, allibita. Ah già, siamo in pubblico! Sveglia, Woden!Pensai. Annuii all’istante muovendo il capo con gesti frenetici e mi adoperai subito a riempire dei sacchettini di carta bianca, lasciando scivolare le caramelle gommose dal carrellino del dispenser. “Noi andiamo in bagno”, continuò Felicia, “Jess non si sente bene. Ma tu raggiungi le altre”. Dopo aver riempito il sacchettino con due stecche di liquirizia, lo posai sul bancone e mi soffermai a osservare Jess che cercava di asciugarsi il volto con le mani. Alzai gli occhi al cielo, ma non mi ero accorta di avere lo sguardo di Felicia puntato su di me. “Vedi di farti gli affari tuoi, Woody”. Odiavo quando mi chiamavano


Woody. Era il soprannome che mi aveva dato lei alle elementari perché il mio nome, secondo lei, somigliava molto a quello del cartone animato Woody Woodpecker. Mi morsi la lingua e la ignorai, come facevo di solito quando ero costretta a vederla alle prove di teatro per i musical, ai quali collaboravo come comparsa. Mi avvicinai alla cassa e cominciai a preparare il conto a Carter per quello che aveva preso. “Andiamo, Jess”, Felicia le avvolse le spalle con un braccio e, insieme, fecero dietrofront per raggiungere la porta dei bagni, in fondo a destra del corridoio. Nel frattempo presi un secchio a strisce bianche e rosse medio dalla pila dietro il bancone e lo riempii con i popcorn e aggiunsi una dose massiccia di sale, come piacevano a Carter. Ci andai piano con il burro fuso, perché sennò non li digeriva. “Ecco tutto quanto. Fanno dieci dollari”. Avevo assunto un’espressione seria e risoluta, nel caso Felicia uscisse fuori dalla porta all’improvviso. Carter non era della mia stessa opinione, dato che si era un tantino rilassato e si era appoggiato con un gomito sulla superficie del bancone. “Dai, mi fai pagare sul serio?” alzò le sopracciglia, evidenziando la vena pulsante proprio al centro della fronte. “Sbaglio o siamo amici?” sussurrò. “Siamo amici solo il mercoledì sera e quando non siamo in pubblico”, sottolineai con un sorriso birichino. “E tu hai ordinato tutta questa roba quando eravamo in pubblico”, inclinai di lato la testa con fare compiaciuto, “quindi adesso la paghi”. Carter serrò gli occhi fino a farli diventare due fessure. “Metti tutto sul mio conto”. “Tu non hai un conto”. Gli risposi senza pensarci. Allora alzò gli occhi al cielo e si infilò una mano nella tasca destra dei jeans non troppo stretti e con il cavallo un po’ basso. “Ho otto dollari”, mise la mano nella tasca sinistra per poi tirar fuori qualche spicciolo e cominciò a contare le monetine. “Dovrebbero essere nove dollari e cinquanta”. Li poggiò sul bancone e fece spallucce. “Non ho altro. Ma se vuoi, posso pagarti in natura”, sghignazzò, dopo avermi fatto più volte l’occhiolino. Che scemo. Esplosi in un gran sorriso. “Con i quattro e cinquanta della pizza che non mi hai pagato mercoledì, mi devi ancora cinque dollari. Quindi mi aspetto che tu la prossima volta ti presenti a casa mia non solo con una pizza gratis, ma anche con una lattina di Coca-Cola”. Carter fece una smorfia con le labbra e annuì con scatti veloci e quasi impercettibili del capo. “Si può fare”, dopodiché prese il secchio di popcorn mettendoselo sottobraccio e il sacchetto dei dolciumi con l’altra mano. “Quasi quasi ne approfitto per provarci con Hannah”, parlò a bassa voce, guardandosi in giro per controllare che Felicia non fosse nei paraggi. “Ma perché non vi lasciate, così puoi provarci con chi ti pare senza fare così”, imitai il suo guardarsi intorno, voltandomi prima a destra e poi a sinistra. Tanto le amiche di Felicia lo sapevano che Carter non era, come dire…fedele. Perché una dopo l’altra


avevano ceduto al suo fascino. Tutte, tranne Hannah, che ancora resisteva perché stava con Nathan Larson. “Ma io e Felicia non stiamo insieme”. Sorrise sornione. Il problema era che Felicia aveva accettato la situazione con la certezza di convincerlo del contrario. “Quindi perché continui ad uscirci insieme?” scoppiai in una risata isterica. Carter prese un gran respiro e ispirò fuori l’aria dal naso. “Mia cara Woden, la risposta la sai già”. Ridacchiò a bocca chiusa. “Sesso facile”. Mosse qualche passo indietro con quel suo stupido ma affascinante sorriso storto. “Ci si vede”. Poi si voltò e percorse il corridoio per raggiungere la sala 1 fischiettando allegramente. Nel frattempo io avevo continuato a scuotere la testa senza accorgermene. Perché continuo ad essere amica di un tipo così? È assurdo. Poi mi vennero in mente le risate che ci facevamo tutti i mercoledì sera e quanto mi faceva divertire con i suoi messaggi stupidi e allora la risposta fu semplice: perché era Carter. Nonostante fosse un puttaniere e un decerebrato come tutti i maschi della sua età, gli volevo bene.

Lunedì, 7 dicembre 2015

WODEN

“Per mercoledì sera è tutto confermato?” mi stavo facendo deliberatamente gli affari miei, quando la voce rombante di Georgie si infiltrò nelle mie orecchie. Avevo sentito bene? Mercoledì sera? No che non è confermato. Pensai. E cos’è che dovrei confermare? Eravamo sedute a uno dei tavoli lunghi della mensa, semivuoto, perché il resto della scuola preferiva sedersi dall’altro lato dell’ampia sala illuminata dai grandi finestroni panoramici e vicino alla porta di emergenza che davano sul cortile, il più vicino possibile ai più ‘popolari’ che erano pur sempre un bel vedere e una gran fonte di gossip. Fissavo il mio piatto di maccheroni al formaggio – ormai diventati una colla informe – da una decina di minuti buoni. In effetti la cucina della mensa lasciava un po’ a desiderare per quanto riguardava i piatti caldi o a base di verdure lesse e salutari. Di solito stavo lontana da tutto ciò che conteneva formaggio o fosse a base di verdure, ma quel giorno quando avevo ordinato la pasta al formaggio (più formaggio fuso che


pasta) avevo la testa da un’altra parte, perché avevo sentito dire che Nathan Larson si era lasciato quella mattina stessa con Hannah, dopo mesi di tira e molla. “Era l’ora”, aveva gridato Georgie appena avevamo saputo la notizia. Era tutta la mattina che aveva stampato un sorriso a trentadue denti sul volto. Sembrava fosse in preda a una paresi facciale, ma almeno le toglieva l’aria arcigna che aveva sempre per via dello stress che sopportava ogni giorno tra adattamento ai nuovi corsi dell’ultimo anno e i duri allenamenti di pallacanestro nella squadra femminile, che non le aveva riservato un gran comitato di benvenuto. Stavo riflettendo sul motivo scatenante della rottura tra Nathan e Hannah e la prima cosa che mi era venuta in mente era una frase che aveva pronunciato Carter la sera prima al cinema: “Quasi quasi ci provo con Hannah”. Non è che la mia cara Saetta era riuscita nel suo intento? Cercai Carter con lo sguardo, fino al tavolo dove si sedeva sempre insieme alla sua banda di amici, ma non lo vidi. E neanche Hannah. Felicia però era sorridente e impeccabile come ogni giorno da quando la conoscevo. Quindi o lei non sapeva niente, oppure l’assenza di Carter e Hannah era soltanto una coincidenza. Vediamo chi altri manca all’appello. Feci un elenco mentale delle amiche di Felicia e degli amici di Carter. Jade ‘la riccia’ era seduta di fianco a Felicia e Brianna, che a sua volta faceva agli occhi dolci al suo Tyler che era seduto dall’altra parte del tavolo. Tyler era una gran bella visione con le sue spalle larghe e i capelli spettinati fino all’inverosimile. La cosa più bella che aveva, secondo me, erano gli occhi: di un verde intenso. Aveva anche un sedere sodo e gli addominali scolpiti, ma queste cose le avevo soltanto sentite dire, non le avevo testate di persona. Le labbra sporgenti di Phil, il migliore amico ufficiale di Carter, si potevano vedere da un miglio, quindi anche lui era presente, seppure stesse fissando il nostro tavolo: nel particolare notai che il suo sguardo era abbandonato proprio in direzione della mia amica Georgiana. Ma forse si era soltanto incantato con lo sguardo in un punto a caso, perché poi tornò a scherzare con gli altri suoi compagni della squadra di basket. Cole e Vanessa erano seduti vicini, ma erano praticamente incollati e avvinghiati sulla panchina, mentre si stavano divorando a vicenda con quei baci appassionati. Erano scandalosi, davvero. Quella era pur sempre una mensa, accidenti! Per fortuna Jessica non c’era, altrimenti sarebbe scoppiata in lacrime, come la sera prima al cinema. Lo sapevano tutti che Cole e Vanessa si vedevano in gran segreto e non era questa gran novità. Anche Jess forse lo sospettava, ma forse non voleva ammetterlo a se stessa. Alla festa di Felicia, però, li aveva colti sul fatto. Nei corridoi non si parlava d’altro. “Woden? Ehilà? Pronto?!” Georgie mi stava sbandierando davanti agli occhi la sua manona per attirare la mia attenzione, perché aveva capito che mi ero persa nei miei mille – peraltro inutili – ragionamenti. Sbuffò alzando gli occhi al cielo. E aveva ragione, perché l’avevo del tutto ignorata. Come anche Stacy e Finley, che erano seduti di fronte a me e mi stavano fissando come a voler dire “A cosa cavolo stai pensando?” Mi schiarii la gola. “Il mercoledì sera non posso, lo sai…”


“È il giorno di chiusura del cinema e tu devi aiutare i tuoi a sistemare tutto per il giorno dopo, lo sappiamo”, mi anticipò Stacy, prima che potessi dire la mia solita scusa del mercoledì sera. Non era vero che aiutavo i miei al cinema. “Però se per un mercoledì non li aiuti non succede niente. Non so quante volte dovrò ripetertelo. Parlerò con tua madre e le dirò di farti lavorare di meno, perché voglio dire, anche tu hai il diritto di divertirti ogni tanto”. I miei genitori erano complici miei e di Carter da anni, quindi anche loro avevano imparato a gestire la cosa, anche se mio padre si era stufato di tutta quella messinscena. “A scuola fate finta di non conoscervi, ma in realtà non avete mai smesso di parlarvi. Che senso ha?” diceva ogni mercoledì sera. Per lui non aveva senso perché si era dimenticato com’era avere la nostra età ed essere costantemente osservato o criticato per ogni cosa, anche solo per il colore delle scarpe. Insomma, si era dimenticato com’era la vita al liceo. Soprattutto se si parlava di Carter Fitzpatrick, giovane promessa delle gare automobilistiche. Era successo tutto così in fretta che io Stacy e Finley non ci eravamo neanche accorti dell’allontanamento di Carter dal nostro gruppetto. Non ci aveva semplicemente più rivolto la parola, perché da un giorno a un altro, in prima superiore, era stato risucchiato nel vortice degli sportivi e delle cheerleaders. Aveva continuato a parlare e a vedersi con me di nascosto perché avevamo quel patto stretto da bambini, il quale lo obbligava a trascorrere il mercoledì sera con me. Era stupido, lo so, ma per lui era l’unico momento in cui potesse essere di nuovo il vecchio Carter, quello con l’apparecchio e i capelli tagliati a scodella rovesciata. “Woden?!” mi richiamò Stacy. “Lo stai facendo di nuovo”. “Ci stai ignorando di proposito?” fu il commento secco e deciso di Finley, che era rimasto in silenzio soltanto per finire il suo pezzo di pizza ai peperoni. Come facesse a mangiare la pizza ai peperoni, lo sapeva solo lui. Non la prendeva mai nessuno. Nessuno…tranne lui. Si lasciò scappare un singhiozzo e le sue spalle graciline sussultarono per lo spasmo involontario. “E poi mercoledì pomeriggio abbiamo anche le prove di teatro. Non ci darai buca, spero!” Scossi la testa. “No, vi stavo ascoltando”. Come no! “E alle prove vedrò di esserci”. Non mi avevano creduto neanche un po’. Lo potevo capire dalle loro espressioni dubbiose. “Sul serio”, continuai. “Stavo proprio pensando alle battute del copione di ZombieMacbeth”, che bugiarda! Ma almeno quel mio disperato tentativo di risultare credibile sembrò funzionare, perché Finley parve interessato all’argomento. “Anche io ci stavo riflettendo in effetti”, annuì con convinzione e il volto serio, “faremo una grandissima”, si interruppe, “ma che dico?” sgranò gli occhi allargando le braccia, “megagalattica figura di merda di fronte a tutta la scuola. Le nostre battute fanno pietà: cervello, oh quanto è buono il cervello! Qualcuno ci chiama? Veniamo subito, dateci un momento!” recitò a memoria facendo la voce aspirata, quasi asmatica, da zombie. Poi schioccò la lingua, scocciato. “Che cazzo di battute sono?”


Stacy scoppiò a ridere sovrastando persino il chiacchiericcio generale della mensa. “Interpretate degli zombie, idiota!” rise, dondolandosi sul posto. “E gli zombie parlano solo di mangiare cerveeeeelliiii!” si avvicinò a Finley per urlargli quell’ultima parola all’orecchio. Finley strizzò gli occhi e si allontanò subito, portandosi una mano sull’orecchio. “Ma sei scema?” le urlò ancora con gli occhi chiusi. “Mi hai stordito con la tua vocina dolce”, Georgie scoppiò in una risata asmatica e cominciò a scuotere il cespuglio di capelli. Per fortuna anche quella volta l’avevo scampata bella. Si erano già dimenticati della mia temporanea assenza mentale ed erano troppo occupati a ridere per accorgersi di me che avevo lo sguardo rivolto verso l’ingresso della mensa. Hannah e Nathan fecero il loro ingresso trionfale dalla porta con le ante blu spalancate, stupendo tutti quanti i presenti che interruppero i loro discorsi per scambiarsi le teorie e delle battutine sarcastiche. Per non parlare dei risolini che aleggiavano nell’aria. Hannah anche se fingeva di sorridere, non sembrava affatto felice, anzi pareva preoccupata perché ogni tanto guardava la porta come se si aspettasse di vedere comparire qualcuno da un momento all’altro. Come Nathan, del resto. Soltanto che lui continuava a guardare un punto fisso nel vuoto, strofinandosi il pugno destro con l’altra mano. Aveva la mascella serrata e i suoi occhi scuri come il carbone erano incendiati da un fuoco di ira funesta. I capelli castani erano tutti spettinati, soprattutto sulla fronte. Per non parlare del maglioncino a v celeste che indossava, tutto stropicciato sul petto, come se qualcuno lo avesse…Oh mio Dio. Pensai. C’erano tutti quanti al tavolo. Tutti tranne Carter. Ingoiai a stento la saliva e afferrai subito lo zaino per prendere il cellulare dalla tasca esterna con l’intenzione di mandare subito un messaggio aSaetta per capire dove fosse. Ma non ce ne fu bisogno, perché trovai già un suo sms ad attendermi. Fine dell'estratto Kindle. Ti è piaciuto?

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