Jerome K. Jerome TRE UOMINI IN BARCA(per non parlar del cane)
Feltrinelli
Traduzione di Katia Bagnoli © Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione nella collana “Universale Economica I Classici” marzo 1997 ISBN edizione cartacea: 9788807900297
Francesco Piccolo, nato a Caserta nel 1964, vive e lavora a Roma. Collabora con quotidiani e riviste e scrive per il cinema. Ha pubblicato Scrivere è un tic. I metodi degli scrittori (minimum fax 1994), L’Italia spensierata (Laterza 2007),La separazione del maschio (Einaudi 2008) e Momenti di trascurabile felicità(Einaudi 2012); con Feltrinelli, Storie di primogeniti e figli unici (1996, Premio Giuseppe Berto e Premio letterario Piero Chiara), Se c’ero, dormivo (1998), Il tempo imperfetto (2000) e Allegro occidentale (2003, finalista premio Strega). Cura il laboratorio di sceneggiatura al DAMS della terza Università di Roma. Katia Bagnoli ha tradotto romanzi di V.S. Naipaul, Jeffrey Eugenides, Charles Bukowski, Joyce Carol Oates, Bret Easton Ellis e racconti di Edith Wharton, Willa Cather, Charlotte Brönte, fra gli altri. Per Feltrinelli ha tradotto: È tutto grasso che vola di Richard Klein (1998), Le pietre degli avi di Aminatta Forna (2007), Messa di mezzanotte di Paul Bowles (2007) e, di Ma Jian, Tira fuori la lingua: storie del Tibet (2008) e Pechino è in coma (2009).
Per non parlar del cane di Francesco Piccolo Riguardo a certi libri – ma oddio, non è che è così per tutte le cose della vita? – che hai letto molti anni prima, non si sa perché, ma pensi sempre che è meglio non rileggerli più, perché ti deluderebbero. Pensi che non sarebbe più come prima: allora eri ingenuo, ti commuovevi o ridevi o ti emozionavi o in qualche caso ti trovavi di fronte a qualcosa che ti stava cambiando – forse dicevi “per sempre” – e ora di tutto questo ne sorrideresti; allora tieni questi bei libri – e tutte le altre cose della vita – in certi scaffali, li spolveri ogni tanto e sorridi loro mentre lo fai, pensando: miei cari, non posso rileggervi, è inutile, non rinnego niente di quel che ho pensato in passato, ma ora no, ora è diverso, ho addosso tutto il “bagaglio culturale” che vedete – e lo vedete, no? –, voi siete cose giovanili, adolescenziali anzi, e io ora sono così diverso da allora, ma così diverso; sono, come dire, smaliziato, ecco. E poi una volta mentre ne spolveri uno, lo apri e c’è una frase sottolineata, la rileggi, e ti sembra bella uguale. Allora cerchi una sedia intorno, la trovi, ti siedi e cominci dalla prima pagina, con stampato sul volto un sorriso pietoso, e sei già pronto per dire: com’ero stupido, com’ero ingenuo. Per esempio, a me capita di rileggere, che so, Tre uomini in barca (per non parlar del cane) e subito c’è il narratore che soffre di tutti i disturbi che il trattato di medicina descrive: tutti, uno dopo l’altro. Penso: come me lo ricordo! E rido. Dovevo scuotere bonariamente la testa, e invece pagina dopo pagina riaffiorano delle risate che sono le stesse risate di allora, le stesse emozioni; anzi no, non le stesse emozioni, no: sono raddoppiate! Perché intanto che rido di nuovo negli stessi punti dove ridevo prima – ma il bagaglio dov’è andato a finire? –, nello stesso tempo ricordo anche come ero prima, ricordo che la scena dell’uomo che distrugge la casa tentando di appendere un quadro la leggevo mentre stavo sul letto della camera di mia madre un pomeriggio che pioveva e allora viene a galla la coperta cucita a mano da mia nonna, quel lampadario orribile, la stanza intera e quello squarcio di città che si vedeva dalla finestra; e come pioveva, e come era meglio, così non avevo rimpianti e potevo continuare a leggere; perché ripercorrere certo linguaggio da galantuomini sfigati mi ha sbattuto in faccia quel pomeriggio intero e nitido com’era, e poi tutti gli altri, così man mano che vado avanti non solo quella comicità di Jerome è intatta e penetra la mia resistenza morbida nel modo e nel punto esatto di allora, ma intanto mi ricorda
perfettamente di come ero allora, cosa facevo e cosa pensavo, e sento il suono della risata poco meno che silenziosa, un po’ strozzata come adesso (ma non ridevo nemmeno in maniera diversa?), mentre chiudevo il libro e mi giravo sulla schiena e mia sorella diceva “ma perché ridi tanto?” e io tentavo di leggerle qualche passo ma lei diceva “no, non voglio sentire, voglio leggerlo anch’io, appena l’hai finito”. E poi mi stava sempre intorno per vedere a che punto ero, e mi chiedeva “pensi di finirlo per stasera?”, e io dicevo “non lo so”, ma non è che mi affrettassi tanto. E non lo finivo. Adesso invece faccio presto; ecco, adesso leggo più velocemente, mi pare sia tutta qui la differenza; per il resto, continuo ad andare avanti ora come allora, sperando che nessuno entri e che non squilli il telefono; guardo fuori e non piove: ma non importa, se mi concentro, ripenso ad allora con più forza, e forse ce la faccio a sentire il rumore della pioggia mentre sfoglio le stesse pagine, nemmeno di tanto più vecchie – non è passato poi tutto questo tempo. Mi arrendo: non è cambiato nulla. Mi piace ancora, e ora mi ricorda pure quel periodo quando mi piaceva. E quel periodo era l’adolescenza, quando tutte le cose della vita hanno un’importanza gigantesca e tutto è allo stesso tempo estraneo (il corpo, i sentimenti, la famiglia, la sessualità, i foruncoli e i movimenti scoordinati); in un periodo così quando ti sembra di essere un lillipuziano solitario in mezzo a un popolo di Gulliver, una storia insensata e quotidiana come questa è liberatoria; a meno che poi, scavando un po’, non si voglia attribuire ancora una volta a Montmorency il punto di vista adolescenziale, e in ogni caso esterno e soprattutto critico, sul mondo degli adulti – e va a finire che è proprio così: non puoi fare a meno di identificarti col cane, e guardare questi tre uomini adulti con aria superiore, e allora puoi tornare a sentirti un Gulliver. Per non parlar del cane, dice il titolo, ma a ben vedere è sempre del cane che si finisce per parlare. Ancora: nonostante sia un mondo di adulti, la gita in barca è fatta da uomini che non hanno mai messo il naso fuori di casa: ed è quindi una iniziazione (ritardata) alla vita; e qui può scattare l’ennesimo processo di identificazione dell’adolescente: tutto quel che bisogna fare lo si farà per la prima volta, è questa la chiave comica, e allora assomiglia alla prima gita da boy scout, e potrebbe essere la versione ironica del Manuale delle giovani marmotte, e i tre protagonisti assomigliano a Qui, Quo, Qua nei fumetti di commento del manuale (per non parlar del cane: Pluto?).
Tutto ciò che accade, e soprattutto ciò che riesce, è assolutamente casuale in questo libro. E del resto il libro stesso è casuale, perché Jerome voleva farne una vera guida turistica del Tamigi, ma quando cominciò a pubblicare le prime puntate su una rivista, si rese subito conto che le parti descrittive (geografiche e storicoletterarie) erano noiose e insopportabili, e allora si concentrò sui fatti, spingendo l’acceleratore su ogni gag. Aveva trent’anni – era il 1889 – faceva l’attore di varietà e scriveva commedie, quindi sapeva bene come gestire i tempicomici, e non poté resistere alla vocazione. Aveva da poco scritto un altro piccolo capolavoro, I pensieri oziosi di un ozioso, e il successo devastante di Tre uomini in barca lo avrebbe consegnato definitivamente alla scrittura umoristica. Dopo poco tempo divenne condirettore della famosa rivista “The Idler” (L’ozioso), poi scrisse ancora altro, ma tanto la sua fama sarebbe rimasta per sempre legata a Tre uomini in barca, che del resto è uno di quei libri che si ricordano più facilmente del loro autore. Nella gita sul Tamigi, c’è una comicità universale: sia nel senso che è fruibile da tutti e a ogni età, e per questo motivo cambia poco col passare degli anni; sia nel senso che viene usato ogni mezzo, dal linguaggio (che arriva sino alle freddure) alla plasticità dei gesti – appena qualche anno prima dell’avvento del cinema. E infatti è un catalogo, una messa in moto, un condensato primitivo di tutto quello che verrà: padre naturale di Wodehouse, ovviamente; ma poi di Chaplin e Buster Keaton e di tutte le comiche dei tempi del muto; finanche di Woody Allen, a causa di certe sterzate dall’universale al pratico – come quando, dopo aver approvato il progetto della gita in barca, i tre si abbandonano con linguaggio aulico e rarefatto a sognare le delizie della natura lungo il corso del fiume, e all’improvviso Harris se ne esce con: “E quando pioveva?”. C’è già un bel po’ della filosofia di Snoopy e c’è l’animazione di Walt Disney nell’irresistibile cane Montmorency (non ci vorrebbero le musiche di Fantasiadurante la battaglia tra lui e il bricco del tè?). Ci sono pure i prototipi di certe leggi di Murphy: “di norma sul fiume il vento è sfavorevole da qualunque parte si vada”. E per quanto riguarda il filone degli sfigati-perseguitati, almeno Fantozzi tocca ricordarlo. La modernità del romanzo di Jerome non finisce qui. L’inseguimento della situazione comica costringe l’autore a concertare continue digressioni, e questa forza centrifuga si impadronisce della storia, che è tutta qua: il narratore, George, William Samuel Harris e Montmorency decidono di fare (ma il cane, più avveduto, aveva votato contro) una gita in barca lungo il Tamigi; la progettano, si preparano e la
fanno. Quel che capita sono piccoli incidenti, contrattempi, ma nemmeno gravi – non è certo la traversata del Mississippi di Huckleberry Finn,questa: lui si affrettava, viaggiava di notte mentre di giorno si nascondeva, mentiva, scappava, insomma passava da un’avventura all’altra, e ogni volta con un obiettivo preciso, fuggire da qualcuno o cercare qualcuno; qui è esattamente il contrario: “i nostri eroi” filosofeggiano sul lavoro, si impappinano nel montare una tenda, decretano la superiorità di Montmorency, e intanto avanzano placidi e intoccabili, soffermandosi anche ad ammirare le meraviglie naturali della campagna inglese. Insomma, come tutti i libri veramente comici, Tre uomini in barca è un libro sostanzialmente inutile e che non vuole “insegnare” niente di niente; ed è bello per questo. Così è la comicità: senza conseguenze. Se Totò insulta qualcuno o fa qualche guaio, dopo viene perdonato o nessuno ne tiene conto; se Fantozzi fa una telefonata minatoria al megadirettore con mille accorgimenti di alterazione della voce, aggiunge un imbuto e dice “pronto” in tedesco e il megadirettore risponde “Fantozzi, è lei?”, tutto questo è comico, ma il giorno dopo in ufficio si riparte come se non fosse successo niente: né il megadirettore chiede spiegazioni, né Fantozzi le teme. Nessuna conseguenza. E qui, non ne parliamo: dopo tutto quel che succede in questo libro, gli stessi personaggi (senza il cane, stavolta), più tardi, in Tre uomini a zonzo, avranno addirittura il coraggio di riorganizzare una vacanza insieme e saranno protagonisti di un tour in bicicletta in una regione della Germania. Ma questa è un’altra (inutile) storia.
Primo capitolo Tre invalidi – Le sofferenze di George e Harris – Vittima di centosette malattie fatali – Ricette utili – Cura per i disturbi epatici nei bambini – Conveniamo di aver lavorato troppo e di aver bisogno di riposo – Una settimana in alto mare? – George propone il fiume – Montmorency muove un’obiezione – La mozione di George viene approvata per tre voti contro uno. Eravamo in quattro: George, William Samuel Harris, io e Montmorency. Fumavamo, seduti nella mia stanza, e parlavamo della nostra pessima situazione, pessima da un punto di vista medico voglio dire, ovviamente.
Eravamo tutti depressi, e la cosa cominciava a renderci nervosi. Harris disse che a volte lo assalivano certi capogiri che quasi non si rendeva più conto di quello che faceva; e George disse che anche lui aveva attacchi di vertigine, e che anche lui quasi non si rendeva più conto di quello che faceva. Per quanto riguardava me, invece, era il fegato a essere in disordine. Sapevo che si trattava del fegato perché avevo letto di recente il foglietto illustrativo di alcune pillole per il fegato dov’erano descritti con dovizia i vari sintomi dai quali ci si rende conto se si ha il fegato in disordine oppure no. Io li presentavo tutti. È una cosa straordinaria, ma non ho mai letto la pubblicità di un prodotto medicinale senza dover giungere alla conclusione di soffrire della particolare malattia di cui vi si tratta nella sua forma più virulenta. La diagnosi sembra sempre corrispondere esattamente alla sensazione che provo io. Ricordo che un giorno andai al British Museum a cercare la cura per qualche leggero malanno che mi aveva appena sfiorato, febbre da fieno, credo che di questo si trattasse. Presi il libro dallo scaffale e trovai quello che ero venuto a cercare; ma poi, in un momento di distrazione, girai con noncuranza le pagine e diedi un’occhiata distratta alle malattie in generale. Non ricordo quale fu il primo disturbo in cui mi immersi – un flagello spaventoso e devastante – ma prima di essere arrivato a metà dei “sintomi premonitori” ero più che certo di essermelo beccato. Rimasi seduto per qualche tempo impietrito dall’orrore; poi, con l’incoscienza dei disperati, voltai ancora una volta pagina. Arrivai alla voce “febbre tifoide” – ne lessi i sintomi – scoprii di averla, di averla avuta per mesi senza saperlo – mi chiesi da cos’altro fossi affetto; andai alla voce “ballo di San Vito” – scoprii, come previsto, di avere anche quello – cominciai a interessarmi al mio caso, decisi di passare al vaglio tutte le voci fino all’ultima e perciò ricominciai in ordine alfabetico – lessi la descrizione della malaria e seppi di averla in pieno, e che la fase acuta sarebbe cominciata entro un paio di settimane. Il morbo di Bright, scoprii con sollievo, l’avevo solo in forma lieve, e per quanto lo riguardava potevo campare per anni. La peste l’avevo, con gravi complicazioni, e con la scarlattina sembravo esserci nato. Procedetti coscienziosamente lungo le ventisei lettere dell’alfabeto e conclusi che l’unica malattia dalla quale non ero affetto era il ginocchio della lavandaia. Dapprima la cosa mi ferì; in un certo senso sembrava un affronto. Perché non avevo il ginocchio della lavandaia? Perché quest’antipatica eccezione? Dopo qualche tempo, tuttavia, ebbero il sopravvento sentimenti meno avidi. Siccome avevo tutte
le altre malattie note alla farmacologia potevo essere meno egoista, e decisi di fare a meno del ginocchio della lavandaia. La gotta nel suo stadio più maligno, a quanto pareva, mi aveva assalito senza che me ne rendessi conto; e di zimosi soffrivo fin dall’adolescenza. Dopo la zimosi non c’erano altre malattie e quindi conclusi di non avere nient’altro. Restai seduto a riflettere. Che caso interessante dovevo essere da un punto di vista medico, che acquisto sarei stato per una classe di medicina! Gli studenti non avrebbero più avuto bisogno di “praticare negli ospedali” se avessero avuto me a disposizione. Ero un ospedale ambulante. Tutto quello che dovevano fare era girarmi intorno e laurearsi. Poi mi domandai quanto tempo mi restasse da vivere. Cercai di visitarmi da solo. Sentii il polso. All’inizio non riuscivo a sentire alcun polso. Poi, all’improvviso, sembrò mettersi in moto. Tirai fuori l’orologio dal taschino e lo cronometrai. Centoquarantasette battiti al minuto. Cercai di auscultare il battito del cuore. Non batteva. In seguito mi convinsi del fatto che anche allora fosse al suo posto e funzionasse, tuttavia non posso darne diretta testimonianza. Mi palpai su tutta la parte anteriore del corpo, da quella che chiamano la vita fino alla testa, e mi spinsi anche un po’ sui lati, e un po’ sulla parte posteriore. Ma non riuscii a sentire né a udire alcunché. Cercai di esaminarmi la lingua. La tirai fuori il più possibile, chiusi un occhio e la studiai con l’altro. Ne vedevo soltanto la punta, e non potei che ricavarne la certezza di avere la scarlattina. Era entrato in quella sala di lettura un uomo sano e felice. Ne usciva strisciando un decrepito rottame. Andai dal mio medico. È un vecchio amico che mi tasta il polso e mi guarda la lingua e mi parla del tempo, tutto gratis, quando credo di essere ammalato; pensai quindi di fargli un grosso favore andando da lui nello stato in cui mi trovavo. “Quello che occorre a un medico,” mi dissi, “è di fare pratica. Lui avrà me. Farà più pratica con me che con millesettecento malati normali qualsiasi, affetti da un paio di malattie ciascuno.” Perciò ruppi ogni indugio e mi precipitai nel suo studio. “Dunque, che cosa ti senti?” mi chiese. Gli dissi: “Non ti farò perdere tempo, mio caro ragazzo, con il resoconto di quello che mi sento. La vita è breve e potresti andartene all’altro mondo prima che io abbia finito.
Ma ti dirò che cosa non ho. Non ho il ginocchio della lavandaia. Perché non abbia il ginocchio della lavandaia non so dirtelo, ma rimane il fatto che non ce l’ho. Tutte le altre malattie, invece, sì”. A quel punto mi auscultò e guardò in gola, poi mi afferrò un polso e quando meno me l’aspettavo – una cosa vigliacca da fare, dico io – mi colpì sul petto e immediatamente dopo mi diede una zuccata. Dopo di che sedette e compilò una ricetta, la ripiegò e me la porse, e io la ficcai in tasca e me ne andai. Andai senza nemmeno aprirla dal più vicino farmacista e l’affidai a lui. Dopo averla letta il farmacista me la restituì. Disse che non erano prodotti di sua pertinenza. Domandai: “Ma lei non è un farmacista?”. “Sono un farmacista. Se avessi una drogheria e una pensioncina per famiglie potrei accontentarla. Ma il fatto d’essere soltanto un farmacista me lo impedisce.” Lessi la ricetta. Diceva: 1 bistecca da una libbra, con 1 pinta di birra ogni 6 ore. 1 passeggiata di dieci miglia tutte le mattine. 1 buon sonno tutte le sere dalle undici in punto. E non ti imbottire la testa di cose che non capisci. Seguii le indicazioni, con il felice risultato – dal mio punto di vista – che la mia vita fu risparmiata e che tiro ancora avanti. Nel caso attuale, per tornare al foglietto illustrativo delle pillole contro il mal di fegato, ne presentavo tutti i sintomi, senza possibilità di errore, e il principale era “una generale avversione nei confronti di qualsiasi tipo di attività”. Nessuno può immaginare quanto io soffra a causa di questo problema. Ne sono stato un martire fin dalla prima infanzia. Nell’adolescenza la malattia non mi abbandonava neppure per un giorno. Non sapevano, a quei tempi, che era colpa del
fegato. La scienza medica non era avanzata come oggi, e in genere mi accusavano di pigrizia. “Lavativo che non sei altro,” dicevano, “perché non ti alzi e non cerchi di combinare qualcosa?” Non sapevano, ovviamente, che ero ammalato. E non mi davano pastiglie, mi davano scapaccioni sulla testa. E, per quanto possa sembrare strano, quelle botte spesso mi curavano, per un po’. Ho ricevuto alcuni colpi in testa che hanno agito sul mio fegato e mi hanno fatto sentire ansioso di rigare dritto, e di compiere il mio dovere senza ulteriori perdite di tempo, più efficacemente di quanto faccia oggi un’intera scatola di pillole. Sapete com’è, succede spesso che quei semplici rimedi antichi si rivelino più efficaci degli ultimi ritrovati della farmacopea. Restammo lì seduti per un’ora a descriverci l’un l’altro le rispettive malattie. Feci a George e a William Harris la descrizione di come mi sentivo al risveglio, e William Harris ci raccontò come si sentiva al momento di coricarsi; e George, in piedi sul tappeto davanti al focolare, ci diede una divertente ed efficace rappresentazione di come si sentiva durante la notte. George ha la fissazione di essere ammalato: ma in realtà non ha mai niente di serio, capite. A questo punto la signora Poppets bussò alla porta per sapere se eravamo pronti per la cena. Ci sorridemmo l’un l’altro con tristezza dicendo che forse sarebbe stato meglio mandare giù un boccone. Harris osservò che spesso una cosetta nello stomaco rallenta il decorso della malattia; e la signora Poppets tornò con il vassoio. Noi ci avvicinammo al tavolo e mangiucchiammo qualche bistecca con cipolle e una torta di rabarbaro. Dovevo essere molto debole, perché ricordo che dopo la prima mezz’ora circa persi interesse nel cibo – una cosa insolita per me – e rifiutai il formaggio. Compiuto quel dovere riempimmo nuovamente i bicchieri, accendemmo le pipe e riprendemmo la conversazione sul nostro stato di salute. Nessuno di noi sapeva con certezza che cosa non andasse, ma l’opinione generale era che – di qualsiasi cosa si trattasse – fosse provocata dal troppo lavoro. “Ciò di cui abbiamo bisogno è il riposo” disse Harris.
“Riposo e cambiamento d’aria” precisò George. “L’esorbitante sforzo mentale compiuto ha prodotto una depressione generale di tutto l’organismo. Il cambiamento d’aria e la non necessità di pensare ristabiliranno l’equilibrio.” George ha un cugino che si fa ancora mantenere dai suoi con la scusa di studiare medicina, e da lui ha preso un certo modo di esprimersi da medico di famiglia. Mi dichiarai d’accordo con George e suggerii di cercare un luogo appartato e remoto, via dalla pazza folla, dove trascorrere una settimana di sogno e di sole lungo i vicoli sonnacchiosi – in qualche cantuccio nascosto dalle fate, lontano dal frastuono del mondo – qualche nido d’aquila appollaiato chissà dove sui dirupi del Tempo, un luogo dove il fragore delle onde impetuose del diciannovesimo secolo giunga debole e distante. Harris dichiarò che in un posto come quello saremmo diventati nevrastenici. Disse che sapeva di che genere di posto stavo parlando; uno di quei buchi dove tutti vanno a dormire alle otto e non si riesce a trovare una copia dell’“Arbitro sportivo” né con le buone né con le cattive, e per comprare un po’ di tabacco si devono fare dieci miglia. “No,” disse Harris, “se vogliamo riposo e cambiamento d’aria, non c’è niente di meglio di un viaggio in mare.” Mi opposi con forza all’idea di un viaggio in mare. Un viaggio in mare funziona se si hanno due mesi a disposizione, ma per una settimana rischia di diventare addirittura pericoloso. Parti di lunedì con l’idea fissa di divertirti. Saluti con disinvoltura i ragazzi sul pontile, ti accendi la pipa più grossa che hai e cammini sul ponte con aria tracotante neanche fossi il capitano Cook, Sir Francis Drake e Cristoforo Colombo tutti in uno. Martedì vorresti non essere mai partito. Mercoledì, giovedì e venerdì vorresti essere morto. Sabato sei in grado di sorseggiare qualche cucchiaiata di brodo ristretto, e di sederti sul ponte, e di rispondere con un sorriso languido ed esangue alle persone di buon cuore che ti domandano come va. Domenica ricominci a camminare e a ingurgitare cibi solidi. E lunedì mattina, mentre con la valigia e l’ombrello, in piedi davanti al parapetto, aspetti di scendere a terra, incomincia a piacerti davvero. Ricordo che una volta mio cognato fece un breve viaggio in mare per motivi di salute. Acquistò un biglietto di andata e ritorno da Londra a Liverpool; e quando
arrivò a Liverpool la sua unica preoccupazione fu di riuscire a trovare qualcuno che gli comperasse il biglietto di ritorno. Venne offerto in tutta la città con una riduzione incredibile, mi dicono, e alla fine fu venduto al prezzo di diciotto pence a un giovanotto dall’aria biliosa al quale il medico aveva appena consigliato di recarsi al mare e fare del moto. “Mare!” esclamò affettuosamente mio cognato ficcandogli in mano il biglietto: “Ne vedrete abbastanza per tutta la vita, e in quanto al moto, poi! Avrete più moto seduto su quella nave che non facendo i salti mortali sulla terraferma”. Quanto a mio cognato... lui tornò in treno. Disse che le Ferrovie del nordovest erano più che salutari. Un altro tizio di mia conoscenza partì per una crociera di una settimana lungo la costa e, prima della partenza, il cameriere gli chiese se preferisse pagare i pasti di volta in volta oppure fare un abbonamento a prezzo ridotto. Il cameriere raccomandava quest’ultima soluzione perché molto più economica. Disse che tutti i pasti della settimana sarebbero costati due sterline e mezzo. Prima colazione a base di pesce, seguita da carne ai ferri. Il pranzo, servito all’una, consisteva di quattro portate. La cena era alle sei: minestra, pesce, piatto di mezzo, arrosto, pollo, insalata, dolce, formaggio e frutta. E alle dieci uno spuntino. Il mio amico scelse la formula del tutto compreso al prezzo di due sterline e mezzo (è una buona forchetta) e pagò subito. Il pranzo venne servito appena al largo di Sheerness. Lui non era così affamato come avrebbe dovuto e si accontentò di un boccone di manzo bollito e di qualche fragola con la panna. Rifletté molto durante il pomeriggio: in alcuni momenti gli sembrava di non aver mangiato altro che manzo bollito da una settimana, e in altri di essersi nutrito per anni di fragole con la panna. Nemmeno il manzo e le fragole sembravano felici, anzi erano in preda a una certa agitazione. Alle sei vennero ad annunciargli che la cena era servita. L’annuncio non risvegliò in lui alcun entusiasmo, ma convinto che una parte di quelle due sterline e mezzo andasse consumata, scese sottocoperta aggrappandosi dove capitava. Un piacevole aroma di cipolle e prosciutto caldo misto a quelli di pesce fritto e verdure lo accolse alla fine della scaletta. Avvicinandosi con un sorriso untuoso il cameriere domandò:
“Che cosa desidera il signore?”. “Uscire subito di qui” fu la fievole risposta. E in gran fretta lo alzarono di peso, e dopo averlo appoggiato sottovento al parapetto ve lo lasciarono. Nei successivi quattro giorni il mio amico condusse vita semplice e morigerata nutrendosi di qualche galletta del capitano sottile (le gallette erano sottili, non il capitano) e acqua minerale; ma verso sabato si sentì meglio e osò avvicinarsi a una tazza di tè leggero e a una fetta di pane tostato, e lunedì già gozzovigliava con del brodo di pollo. Sbarcò martedì, e mentre la nave si allontanava dal pontile sputacchiando fumo la guardò con rimpianto. “Eccola che se ne va,” disse, “se ne va con il valore di due sterline e mezzo di cibo che mi appartiene e che non ho consumato.” Dichiarò che se gli avessero concesso un altro giorno sarebbe potuto andare in pari. Dunque io mi opposi al viaggio in mare. Non pensavo a me, spiegai. Non sono mai stato delicato. Ma avevo paura per George. George disse che lui se la sarebbe cavata, e che gli sarebbe anche piaciuto, ma che consigliava a me e a Harris di non pensare nemmeno ad andar per mare, perché era sicuro che ci saremmo sentiti male. Harris dichiarò che per quanto lo riguardava gli era sempre sembrato un mistero il fatto che la gente soffrisse di mal di mare – disse che pensava lo facessero apposta, per affettazione – e che spesso aveva desiderato provarlo senza però mai riuscirci. Poi ci raccontò di quando aveva attraversato la Manica con un mare così grosso che i passeggeri dovettero essere legati alle cuccette, mentre lui e il capitano erano gli unici esseri umani a bordo a non avere il mal di mare. A volte erano lui e il secondo a resistere; ma comunque quasi sempre lui e un ufficiale. Quando non si trattava di lui e di un altro uomo era lui da solo. È curioso come nessuno soffra mai di mal di mare sulla terraferma. Al largo si incontrano molte persone in pessime condizioni, interi carichi anzi; ma non ne ho ancora conosciuta una, sulla terraferma, che avesse la più pallida idea di che cos’è il mal di mare. Dove si nascondano sulla terraferma le migliaia di marinai che affollano le navi resta un mistero.
Se fossero tutti come un tizio che vidi un giorno sul traghetto per Yarmouth, potrei forse dare una spiegazione del presunto enigma. Avevamo da poco lasciato il Southend Pier, ricordo, e l’uomo si sporgeva da uno degli oblò in una posizione molto pericolosa. Mi avvicinai nel tentativo di salvarlo. “Ehi! Tornate dentro” dissi scrollandogli una spalla. “Cadrete fuoribordo.” “Oh mio Dio! Magari” fu l’unica risposta che riuscii a ottenere; e non potei far altro che lasciarlo dov’era. Tre settimane più tardi lo rincontrai nel bar di un albergo di Bath: intento a parlare dei suoi viaggi, dichiarava con entusiasmo il suo grande amore per il mare. “Un buon marinaio!” rispose all’invidiosa domanda di un dolce giovanotto. “In effetti una volta mi sono sentito un po’ strano, lo ammetto. Ci trovavamo al largo di Capo Horn. L’indomani la nave era affondata.” Dissi: “Non eravate così scombussolato al largo di Southend Pier, un giorno, da volervi buttare fuoribordo?”. “Southend Pier!” ripeté lui con un’espressione interrogativa. “Sì, in direzione di Yarmouth, un venerdì di tre settimane fa.” “Oh, ah... sì,” rispose illuminandosi, “adesso ricordo. Quel pomeriggio avevo l’emicrania. Per colpa dei sottaceti, sapete. I peggiori sottaceti che abbia mai assaggiato su un’imbarcazione rispettabile. Li avete provati anche voi?” In quanto a me ho scoperto un modo eccellente per prevenire il mal di mare, che consiste nel restare in equilibrio. Si sta nel mezzo del ponte, e quando la nave rolla e beccheggia si muove il corpo di qua e di là in modo da tenerlo sempre diritto. Quando la prua si alza ci si piega in avanti fin quasi a toccare il ponte con il naso; e quando è la prua a salire ci si inclina all’indietro. Funziona benissimo per un’ora o due, però restare in equilibrio per una settimana è impossibile. “Andiamo sul Tamigi” propose George. Disse che avremmo avuto l’aria fresca, l’esercizio e la quiete; il continuo cambiamento di scenario avrebbe occupato le nostre menti (compreso ciò che restava di quella di Harris) e il duro lavoro ci avrebbe procurato un buon appetito e garantito un buon sonno.
Harris dichiarò che George non doveva fare qualcosa che lo inducesse a dormire più di quanto già non dormisse, perché avrebbe potuto essere pericoloso. Disse che non capiva bene in che modo George avrebbe potuto dormire più di quanto dormisse già, visto che in estate come in inverno le giornate erano di ventiquattro ore; tuttavia riteneva che se malgrado tutto ciò George fosse riuscito a dormire ancora più del solito, tanto valeva che morisse e risparmiasse le spese per l’alloggio. Harris concluse dicendo che comunque il fiume gli calzava a pennello. Non so che cosa voglia dire esattamente quest’espressione, comunque calza a pennello a tutti, il che le rende proprio onore. Calzava a pennello anche a me, e quindi Harris e io dichiarammo che George aveva avuto una buona idea, e lo dichiarammo con un tono che sembrava in qualche modo sottintendere come tanta ragionevolezza da parte sua ci sorprendesse non poco. L’unico a non essere ben impressionato fu Montmorency. Il fiume non gli è mai interessato, povero Montmorency. “È tutto perfetto per voialtri,” dice, “a voi piace, ma a me no. Non c’è niente da fare per me sul fiume. Il panorama non mi interessa e non fumo. Se vedo un topo voi non vi fermate; e se mi addormento cominciate ad armeggiare con la barca, e mi scaraventate fuoribordo. Se volete la mia opinione, tutta questa storia mi sembra una grossa stupidaggine.” Eravamo tre a uno, comunque, e la mozione fu approvata.
Secondo capitolo Si discute dei piani – I piaceri del “campeggio” nelle belle notti – Ovverosia nelle notti piovose – Si arriva a un compromesso – Le prime impressioni di Montmorency sull’argomento – Timore di essere troppo buono per questo mondo, timore in seguito fugato perché privo di fondamento – L’incontro viene aggiornato. Tirammo fuori le carte geografiche e incominciammo a discutere dei piani. Stabilimmo la partenza per il sabato successivo, dalla stazione di Kingston. Harris e io saremmo partiti al mattino per andare a prendere la barca e portarla a Chertsey, e George, che poteva lasciare la City solo nel pomeriggio (George va a dormire in una
banca dalle dieci alle quattro tutti i giorni eccetto il sabato, quando lo svegliano per buttarlo fuori alle due), ci avrebbe raggiunti lì. Dovevamo dormire all’aperto o nelle locande? George e io eravamo per il campeggio. Era così libero e selvaggio, così patriarcale. Lentamente il ricordo dorato del sole morente impallidisce nel cuore delle fredde nuvole tristi. Silenti, come fanciulli addolorati, gli uccelli sospendono il loro canto, e soltanto il grido malinconico della gallinella acquatica e il lugubre richiamo stridulo del re di quaglie muovono la sgomenta quiete che circonda il giaciglio delle acque dove il giorno morente esala il suo ultimo respiro. Dal folto lungo le rive immerse nell’oscurità lo spettrale esercito della Notte, le grigie ombre, striscia con passo felpato all’inseguimento della retroguardia della luce che indugia; e passa, con piedi silenziosi e invisibili, sopra l’erba ondeggiante dei cigli e tra i giunchi; e la Notte, issata sul suo trono tenebroso, dispiega le ali nere sul mondo che s’oscura, e regna immobile dal suo spettrale palazzo illuminato dalle pallide stelle. Allora scivoliamo con la nostra barchetta in qualche cantuccio tranquillo, e la tenda viene montata, e la cena frugale è cucinata e consumata. Poi si riempiono e si accendono le grandi pipe, e il piacevole chiacchiericcio assume cadenze musicali mentre nelle pause della nostra conversazione il fiume giocherella intorno alla barca e ciangotta antiche storie e segreti, e canticchia la vecchia canzone del fanciullo che ha cantato per migliaia di anni – e canterà ancora per migliaia di anni a venire, prima che la sua voce divenga vecchia e roca – un canto che noi, che abbiamo imparato ad amare il suo volto mutevole, che spesso abbiamo trovato rifugio sul suo petto accogliente, pensiamo in un certo senso di capire, sebbene non potremmo ripeterlo in parole. E restiamo seduti sugli argini del fiume, mentre la luna, che l’ama anch’essa, si china per mandargli un bacio sororale e stringerlo tra le sue argentee braccia; e restiamo a guardarlo scorrere, mentre con canti e sussurri va incontro al suo re, il mare – fino a quando le nostre voci muoiono nel silenzio, e le pipe si spengono – fino a quando noi, giovanotti come tanti, ci sentiamo stranamente pieni di pensieri, in parte tristi, in parte dolci, e non proviamo più il desiderio di parlare – fino a quando ci alziamo con una risata, scuotiamo le ceneri dalle nostre pipe spente e ci auguriamo la buonanotte, e cullati dallo sciabordio dell’acqua e dallo stormire delle fronde ci
addormentiamo sotto le grandi stelle immobili e sogniamo un mondo ancora giovane – giovane e dolce com’era prima che tanti secoli di fretta e di ansia solcassero di rughe il suo bel viso – dolce com’era nei bei giorni andati quando come novella madre la terra ci nutriva, noi, i suoi figli, all’ampio seno – prima che gli inganni di una finta civiltà ci allontanassero dalle sue calde braccia, e i venefici dileggi dell’artificio ci facessero provare vergogna della semplice vita che conducevamo, e della semplice e dignitosa casa dove tante migliaia di anni or sono vide la luce l’umanità. Harris disse: “E quando pioveva?”. Non si può mai suscitare qualche entusiasmo nell’animo di Harris. In lui non c’è poesia, nessun appassionato anelito verso l’irraggiungibile. Harris “non piange mai, e non sa il perché”. Se gli occhi di Harris si riempiono di lacrime potete scommettere che ha mangiato cipolle crude, oppure che ha messo troppa salsa Worcester sulla braciola. Se una notte vi accadesse di trovarvi in riva al mare in compagnia di Harris, e diceste: “Ascolta! Non le senti? Sono le sirene che cantano nella profondità degli abissi, o spiriti tristi che intonano i lamenti funebri per i pallidi cadaveri imprigionati dalle alghe?”. Harris vi prenderebbe per un braccio e direbbe: “So io che cos’è, vecchio mio: ti sei preso un’infreddatura. Vieni con me. Conosco un posto dietro l’angolo dove si può avere un goccio del miglior whisky scozzese che tu abbia mai assaggiato, e che ti rimetterà in sesto in men che non si dica”. Harris conosce sempre un posticino dietro l’angolo dove ci si può procurare qualcosa di eccezionale nel campo dei beveraggi. Credo che se vi accadesse di incontrare Harris in Paradiso (cosa poco probabile) verreste accolti immediatamente con un: “Sono felice di vederti, vecchio amico; ho trovato un bel posticino dietro l’angolo dove hanno un nettare di prima classe”. Nella situazione presente, tuttavia, per quanto concerneva il problema del campeggio, il suo punto di vista pratico giunse opportuno. Campeggiare sotto la pioggia non è divertente.
È sera. Siete bagnati fino al midollo e ci sono un paio di pollici d’acqua sul fondo della barca, e tutto è umido. Trovate un posto sulla riva meno paludoso di altri già perlustrati e, dopo aver attraccato, tirate faticosamente fuori la tenda e due di voi procedono al montaggio. La tenda è zuppa d’acqua, pesante, e vi casca addosso attorcigliandovisi intorno alla testa e facendovi ammattire. La pioggia intanto cade scrosciante. Se montare una tenda all’asciutto è gia abbastanza difficile, quando piove la fatica diventa erculea. Avete l’impressione che invece di aiutarvi il vostro compagno stia facendo lo scemo. Appena avete sistemato il vostro lato perfettamente, lui dà uno strattone dalla sua parte e rovina tutto. “Ma guarda che cosa stai combinando!” gridate. “Che cosa combini tu, piuttosto?” ribatte lui. “Molla, hai capito?” “Non tirare; l’hai presa dalla parte sbagliata, stupido somaro!” “Nemmeno per sogno” grida lui di rimando. “Lascia andare tu, piuttosto, dalla tua parte!” “Ti assicuro che l’hai presa dalla parte sbagliata!” ruggite provando un unico desiderio, quello di mettergli le mani addosso; e date alle funi uno strattone che strappa tutti i pioli dalla sua parte. “Ah, il brutto scemo!” lo sentite borbottare; e segue uno strattone selvaggio che strappa la tenda dalla vostra parte. Appoggiate la mazzuola e vi dirigete verso di lui per dirgli quello che pensate di tutta la faccenda, e contemporaneamente lui viene nella stessa direzione per spiegare a voi le sue ragioni. E vi inseguite in tondo, coprendovi di insulti, fino a quando la tenda non si affloscia in un mucchio informe lasciandovi liberi di affrontarvi sulle sue rovine. E allora entrambi esclamate all’unisono con indignazione: “Eccoti lì! Che cosa ti avevo detto?”. Nel frattempo il terzo uomo, che sgottando la barca si era riempito una manica d’acqua, e aveva imprecato contro se stesso per dieci minuti ininterrotti, vuole sapere che cosa diamine state combinando e perché quella stupida tenda non è ancora su.
Alla fine in un modo o nell’altro la tenda sale, e si sbarcano le cose. Cercare di accendere un fuoco con la legna è un’impresa disperata, quindi accendete il fornello ad alcol denaturato e vi ci stringete intorno. L’ingrediente principale della cena è la pioggia. Il pane è per due terzi composto d’acqua, il pasticcio di manzo è esageratamente ricco d’acqua, e la marmellata, il burro, il sale e il caffè si sono uniti tutti al pasticcio per formare una zuppa. Dopo cena scoprite che il tabacco è umido e che non potete fumare. Per fortuna avete una bottiglia di quella roba che rallegra e inebria, se presa in modiche quantità, e questo vi restituisce sufficiente interesse nella vita per farvi arrivare fino al letto. Dormendo sognate che all’improvviso un elefante vi si è seduto sul petto, e che il vulcano è esploso scaraventandovi sul fondo del mare, sempre con l’elefante addormentato tranquillamente sul petto. Vi svegliate e vi assale l’atroce sospetto che sia accaduto qualcosa di tremendo. La vostra prima impressione è che si tratti della fine del mondo; riflettendo giudicate che non è possibile, e che deve trattarsi invece di ladri e assassini, oppure di un incendio, ed esprimete quest’opinione nel solito modo. Nessuno si precipita in vostro aiuto, comunque, e l’unica cosa che sapete per certo è che migliaia di persone vi stanno prendendo a calci e che state per morire asfissiato.
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