Tutta colpa del cuore

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TUTTA COLPA DEL CUORE


di Elisabetta Rossi

Colophon Foto di copertina Shutterstock

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Le vicende raccontate in questo romanzo sono frutto della fantasia dell’autore. I luoghi citati nella storia in alcuni casi sono immaginari, mentre ve ne sono alcuni realmente esistenti, ma costituiscono solo uno spunto narrativo, tuttavia, ogni coincidenza con situazioni e persone reali è puramente casuale.

Sinossi Emma e Daniele sono molto diversi e vivono vite molto diverse. Le loro strade, però, si incrociano grazie ad una canzone: Tutta colpa del cuore. Lei è una grafica dal lavoro precario, onesta e sincera, anche troppo. Lui è il manager di un cantante famoso adorato dalle teen-ager che è anche suo fratello.


Complici Roma e una inconsueta ed abbondante nevicata li costringerà, isolati dal mondo, a confrontarsi. Le loro vite così diverse subiranno profondi cambiamenti non privi di colpi di scena: scambi di persona, vendette e tradimenti. Ma si sa, il destino non fa mai niente “a caso”...

TUTTA COLPA DEL CUORE di Elisabetta Rossi

1 L'aria profumava di pioggia. Quell’odore avrebbe condizionato la mia giornata, scandito le ore, accompagnato i pensieri e seguito fedele i tratti veloci della mia matita. Sperai che oltre ai miei capelli che con l'umidità erano diventati una foresta impenetrabile di ricci, ispirasse anche la mia creatività. Ma forse il profumo della pioggia, così deciso, era solo un’indicazione, rafforzata dal mio personale 'barometro' olfattivo di tempesta e a quella ero abituata, quindi conclusi che anche oggi non sarebbe cambiato molto rispetto alle altre giornate. Per un attimo, a quel forte odore di terra bagnata si sovrappose il profumo della fragranza della pasta sfoglia, dello zucchero caramellato e della crema cedevole dentro ai bomboloni. Avrei potuto fare quel percorso senza aprire gli occhi e sarei giunta senza problemi alla mia quotidiana destinazione: il posto di lavoro. A poche decine di metri dalla fermata del treno, semplicemente seguendo il profumo della crema, avrei oltrepassato l’entrata del bar pasticceria di Gino, l'avrei salutato e


lui mi avrebbe di sicuro fatto notare il tempo, avrebbe accennato ai giorni mancanti alle festività, poi sarebbe passato a elencare i suoi acciacchi, accompagnando la consueta 'ricetta' con un sorriso e qualche passo di danza. Poi avrei dedicato la mia attenzione al profumo del caffè appena macinato, al rumore dei cucchiaini dentro le tazzine e alle chiacchiere degli avventori. Avrei guardato il bancone pieno di paste invitanti, il porta salviette di metallo, un vero cimelio nell’era della plastica appariscente, avrei osservato ancora i mosaici di piastrelle che riproducevano un delfino in balia delle onde e mi sarei sentita protetta. “Ciao bella, cosa prendi?” era solito domandarmi, Gino. “Ho voglia di crema” gli rispondevo tutte le volte. Il nostro scambio di convenevoli sembrava un balletto che seguiva costante sempre lo stesso rituale. Lui sorrideva, prendeva le pinze di acciaio e mi metteva una pasta ancora calda dentro al sacchetto di carta bianca con il logo della pasticceria. Quella tappa giornaliera mi consentiva di affrontare le fauci dello 'squalo', era il mio ponte che attraversava audace un fiume dalle acque limacciose. L'altra sponda era fredda e non era costeggiata da ciliegi in fiore. “Veronica non si è fatta vedere neanche oggi…” mi disse, ma non sembrava molto dispiaciuto. “Manderà qualcuno dello staff a farsi portare il solito” gli risposi. “Mi chiedo come fate a sopportarla” disse con sincerità l'uomo. “Lei è molto brava a trovare i clienti e io sono solo una dei grafici dell'agenzia pubblicitaria che dirige”. “Come sempre sminuisci il tuo lavoro, senza di te o degli altri, lei potrebbe trovare tutti i clienti che vuole, ma venderebbe solo prodotti scadenti” poi con un gesto della mano mi indicò i dolci. “Vedi, questi sono il frutto della mia creatività, il resto è fumo” e con una mano spostò la mia attenzione sul locale.


Io l'avevo sempre considerato come un padre che tenta di scuotere il proprio figlio genio che mal si adatta alla vita reale. Sì forse l'immagine che davo di me era quella di una disadattata e non avevo, purtroppo, neanche la scusante della genialità. “Credo che tu sia sprecata a lavorare per Veronica, come gran parte del suo staff. Hai mai pensato di aprire un'agenzia tutta tua?”. Me l'aveva già suggerito altre volte, ma continuava a insistere. Se poteva, cercava di spronare tutti i suoi clienti a migliorare le loro condizioni di vita e in effetti, mi resi conto voltandomi e guardando le altre persone che anche loro avevano lo stesso sguardo sperduto che avevo io, consapevoli come me di vivere in un mondo parallelo, fuori dalla realtà, una condizione indispensabile per continuare ad alzarsi ogni mattina, fare le stesse identiche cose di ogni giorno e non impazzire. “Devo andare, stanotte ho fatto un sacco di bozzetti, speriamo che il cliente li approvi, perché il 'grande capo' avrà come suo solito da ridire” indicai la cartella che avevo appoggiato su uno dei tavolini di formica rossa, addossato al muro, che era ancora libero. Era presto quella mattina e se non avessi avuto quelle tavole da far visionare alla direttrice prima dell'arrivo del cliente, me la sarei presa molto più comoda. “Un cliente importante?” chiese incuriosito Gino, sporgendosi sul bancone. Il suo faccione era rassicurante. Guardai i suoi capelli, tagliati a spazzola completamente bianchi, sembrava che anche loro fossero ricoperti di zucchero a velo come le sue deliziose paste. “Sì”. “Posso vedere quello che hai fatto?”. “No, Veronica è di una paranoia assoluta, pensa sempre che ci sia qualcuno che possa rubarci le idee e non vuole che mostriamo i nostri lavori o parliamo di quello che stiamo facendo con nessuno... diventa simpatica come uno stormo di storni che ti ha preso di mira. Hai presente?”. Gino si tirò subito indietro, appoggiandosi al mosaico di piastrelle. Il delfino svettava tra le onde blu e azzurre, confondendosi con le creste spumeggianti di quel mare


immobile. L'espressione dell'uomo da curiosa era diventata sospettosa, poi sorrise di nuovo. “Mi stai prendendo in giro” e con una risata si allontanò, andando a servire un altro cliente, mentre io mi ero già diretta da Luisa, sua figlia, che era alla cassa. Via del Babbuino non era molto affollata, erano passate da poco le otto del mattino, faceva freddo e c'era solo qualche turista che percorreva la via per arrivare a piazza di Spagna, io mi fermai prima. Accidenti! Era evidente che si fosse già sparsa la voce… anche se non sapevo come. Una folla di ragazzine era assiepata attorno al portone del palazzo dell'agenzia dove lavoravo. Colorate, griffate, eccitate. Decisi di utilizzare l'entrata secondaria. Proseguii per via del Babbuino e poi, girai alla prima traversa, feci una decina di metri e suonai il campanello senza targhetta, sul citofono di un portone. Sentii lo scatto automatico subito dopo entrai nell'androne. Percorsi quasi al buio uno stretto corridoio che puzzava di metano o di fogna, non ero mai riuscita a dare una connotazione precisa a quell'effluvio maleodorante, ma visto da quanto durava, non doveva essere pericoloso. Arrivai fino in fondo e mi trovai in uno spiazzo interno circondato da palazzi. Andai dritta verso una porta, era chiusa. Mentre cercavo le chiavi nella borsa a tracolla, sentii il rombo di una moto. Mi voltai, il cancello di entrata per il parcheggio si aprì lentamente, permettendo al motociclista di varcarlo. Lo squillo del mio cellulare: un semplice 'drin' di antica memoria fu quasi coperto dal rombo della moto che sostò a pochi metri dalla porta che mi accingevo ad aprire. Trovai le chiavi prima del cellulare, mi voltai verso la porta, mentre il 'drin' diventava insistente.


La cartella che avevo sotto il braccio scivolò a terra e si aprì, mentre la chiave girava nella toppa. Guardai con disperazione i miei disegni sparpagliati a terra. Lasciai la porta aperta e tentai di raccoglierli, ma prima decisi di porre fine all'insistente suono del telefono e senza vedere chi era, risposi. “Pronto!”. “Allora, dove accidenti sei?” la voce isterica di Veronica mi trapassò un timpano. “Sto salendo!”. “Vedi di sbrigarti” e chiuse la comunicazione, senza darmi modo di dire altro. Rituffai rapida il cellulare nella borsa e mi inginocchiai a raccogliere i miei disegni. Stupendo! Uno dei fogli era finito sotto a un discendente della grondaia prolifico non solo di condensa notturna, ma anche di un certo quantitativo di muschio putrido che si era depositato con nonchalance sul mio bozzetto. “Serve una mano?” una voce profonda mi costrinse a voltarmi. Era il motociclista, non lo guardai in faccia, sconvolta per la catastrofe in cui ero appena incorsa: il mio progetto migliore era irrimediabilmente rovinato. “Credo di farcela” ma la mia voce era rotta dalla rabbia e dalla frustrazione. Il ragazzo si chinò e percepii un forte profumo che sovrastò l'odore di muffa del pavimento, della pioggia e persino della crema dentro ai bomboloni. Testosterone puro, non c'è che dire. Non alzai lo sguardo, convinta che le sue mani dalle dita lunghe e curate fossero già una bella distrazione insieme alla sua voce suadente. “Grazie!” gli dissi, quando riuscii a infilare di nuovo tutti i disegni dentro la cartellina, tranne quello bagnato. “Era il più bello!” disse lui, imprimendo alla sua voce un tono ancora più profondo e velato di tristezza.


Annuii e lo guardai, aveva sostituito il casco con un berretto da baseball e lo portava con la visiera talmente abbassata che impediva di vedere buona parte del suo viso. Inoltre, gettava un'ombra cupa sulla leggera barba che gli contornava il mento e la mascella. Le mie osservazioni furono di breve durata perché il ragazzo così partecipe della mia disgrazia si voltò verso la moto. Io mi diressi alla porta ed entrai nel palazzo. Lui mi seguì e premette il tasto di chiamata dell'ascensore: io avevo entrambe le mani occupate, una a sorreggere la cartellina, mentre l'altra tentava disperatamente di asciugare il disegno bagnato, sventolandolo come una bandiera. Attendemmo l'ascensore che sembrava non arrivasse mai. Il cellulare riprese a squillare e mi resi conto che non ero in grado di rispondere, lui mi prese il disegno dalla mano, aveva capito che ero totalmente in balia degli 'sfortunati' eventi. “Che vuoi?” chiesi scocciata ad Anna, la mia unica e migliore amica, quando riuscii a ripescare il cellulare dalla borsa. “E tu non mi dici niente?”. “Che ti devo dire?” le chiesi allarmata. “Che mestiere faccio?”. “Senti, sto per entrare in una tempesta perfetta. Veronica aspetta che le porti il mio lavoro e pensa un po'… ho appena rovinato il progetto migliore, sai quanto è tenera con i suoi collaboratori, quindi lascia da parte i quiz dementi per un altro giorno. Ci sentiamo dopo, se ci sarà un dopo. Veronica potrebbe decidere di mettere fine alla nostra collaborazione e sai che per me questo lavoro è tutto...” lei non mi diede modo di terminare il mio frustrante sfogo perché riprese a parlare, nel frattempo l'ascensore era arrivato e il ragazzo accanto a me aprì le porte, stando attento a non rovinare ulteriormente il mio disegno. Io con l’orecchio al telefono avevo gli occhi incollati al mio foglio che superò la porta di pesante metallo dell'ascensore e poi le due ante di legno dell'interno della cabina, sempre in mano allo sconosciuto. “So che Kail è a Roma e che...” riprese lei le fila della conversazione. “Senti, ne parliamo dopo, io...”.


“A che piano?” chiese lui. “Quarto” gli dissi e poi con noncuranza ripresi a parlare con Anna. “Hai presente lo squalo che mi sta per fare a pezzi? Cosa vuoi che mi importi se tu devi fare qualche foto e scrivere due righe demenziali sull'idolo delle ragazzine fuori di testa che non capiscono la differenza tra un testo scritto da un poeta vero e uno che ha successo solo perché sa stare su un palco? Ma… sei al corrente dei testi delle sue ultime canzoni? Lasciamo stare… te li risparmio, tanto fanno rima con cuore e amore, ma credimi, uno che ama davvero una donna non le dice certe minchiate e adesso ho da fare!” e chiusi la comunicazione. “Grazie! Non mi è mai capitato di chiuderle il telefono in faccia... si arrabbierà e diventerà una iena, lo so” ridacchiai in preda ad un attacco isterico e mi ripresi il disegno. “Cuore e amore” ripeté il ragazzo. “Sì, un genio: 'Amore ti leggo nel cuore', Leopardi gli sparerebbe con un fucile a pompa, ma lui poveretto non godeva di una bella presenza e non riusciva ad esprimere apertamente le sue profonde emozioni a causa della sua timidezza, però, era in grado di far viaggiare le sue parole come note musicali o come un profumo inebriante che si diffondeva nell'aria. Pioverà oggi, credo che lei abbia scelto il giorno sbagliato per andare in moto” gli dissi convinta. Lui iniziò a ridere di gusto e io lo guardai come se fosse di colpo impazzito.

2 “Veronica ha bocciato tutte le mie idee per gli slogan pubblicitari e quando ha visto i disegni di Robert si è messa ad urlare come una pazza. Andava avanti e indietro per l’ufficio” mentre pronunciava quelle frasi, Stefania si avvicinò a me che continuavo a guardare sconsolata il mio disegno. “Uno sfogo cubista?” mi chiese. “No, il discendente della grondaia, non avrei saputo rovinarlo meglio”.


Veronica non mi aveva ancora chiamato al suo cospetto, di certo per colpa del ragazzo che era con me in ascensore. Sperai che non la conoscesse bene, dato che mi ero lasciata sfuggire delle parole tutt’altro che lusinghiere su di lei. Quella giornata non era iniziata nel migliore dei modi. La fortuna sembrava avermi fatto dono di un biglietto di sola andata per l'inferno. Le mie cupe supposizioni furono poi confermate dal volto teso di Manuela, la segretaria dell'agenzia. “Veronica vi vuole tutti nella sala riunioni” e richiuse la porta, come se ci fosse stato bisogno di farlo, sapeva che l'ordine aveva un'esecuzione immediata. “A rapporto!” rispose Stefania. Mi incamminai dietro di lei, con l'aria bastonata di un cane randagio, inzuppato di pioggia. L'ufficio era composto da una serie di stanze, una dietro l'altra, divise da vetri, era impossibile sfuggire alla vista dei colleghi o della direttrice. Tranne l'ufficio di Veronica e la sala riunioni, tutto lo studio presentava delle ampie vetrate dove la luce spaziava senza ostacoli. Non mi aveva mai entusiasmato quella scelta, ma non perché fossi sempre sotto controllo: quando ero intenta a disegnare non avvertivo nulla, assorbita completamente dal mio lavoro. Le uniche cose che potevano distogliermi dal mio compito erano gli odori o la musica. Il fastidio che provavo era legato alla luce che entrava dalle finestre che nei giorni più caldi sembrava trafiggere le vetrate e io insieme ai miei colleghi eravamo costretti a spostarci quando qualche raggio più avventuroso si infilava tra la fine della veneziana e l'infisso di legno delle finestre. Sembravamo un branco di idioti che cercavano di evitare il raggio laser della spada di Dart Fener. Quella mattina invece, vista l’occhiata fulminante che Veronica mi aveva riservato, ero certa che se lei avesse avuto a disposizione un’arma jedi l'avrebbe usata contro di me. Il ragazzo che era salito con me sull'ascensore, ora era seduto su una delle poltrone disposte attorno al tavolo di legno ovale. Si voltò e per un attimo, desiderai di essere incenerita da un raggio laser o teletrasportata su un altro pianeta oppure diventare improvvisamente trasparente, ma niente di tutto questo si verificò e gli occhi di un azzurro scuro, magnetico che si posarono seri su di me, non mi diedero scampo e io


che mi sentivo avvampare e immaginavo di essere diventata dello stesso colore della formica dei tavolini di Gino, sostenni comunque il suo sguardo. “Vi presento Daniele Guerra, è venuto a vedere come procede il nostro lavoro per l'uscita del nuovo album di suo fratello Kail”. Per un attimo avevo creduto di avere davanti a me l'idolo delle folle di ragazzine scalmanate, data la somiglianza di quel ragazzo con suo fratello e mi ero sentita morire, poi mi resi conto che avrei dovuto sotterrarmi ugualmente, visti i commenti che avevo fatto su Kail in ascensore. “Vorrei che ci dessimo del tu, dato che lavoreremo per un po' fianco a fianco. Kail sta registrando, ma presto avrò bisogno di tutte le vostre competenze in campo di grafica e di promozione. Per quanto riguarda il lancio televisivo e radiofonico ho già preso contatti personalmente, ma per quanto riguarda manifesti, locandine e soprattutto la copertina del nuovo album ho voluto provare l'agenzia diretta da Veronica perché mi sono piaciute le vostre campagne pubblicitarie comparse su alcune riviste del settore” spiegò agli altri, disinteressandosi a me, dopo l'occhiata di disapprovazione che mi aveva riservato. Daniele non nominò quale pagina patinata l'aveva colpito di più, ma non aveva importanza, considerate le parole offensive che avevo rivolto a suo fratello, di certo avrebbe chiesto a Veronica di lasciarmi fuori dal progetto e questo voleva dire che sarei stata presto disoccupata. Ero certa che Veronica mi avrebbe fatto terra bruciata attorno e di sicuro non sarei riuscita a trovare lavoro in nessuna agenzia di Roma e dintorni. Rimasi in silenzio, seduta in disparte, attendendo che mi dessero il ben servito. Osservai Daniele che gesticolava con compostezza, spiegando quello che si aspettava dall'agenzia e da noi. Si era tolto il giubbotto di pelle e il maglione blu scuro gli si disegnava addosso. Maledii la telefonata di Anna e me stessa, soprattutto per non aver saputo tenere una volta in più la bocca chiusa in presenza di un estraneo. “Allora, sempre nel mondo delle favole?” la domanda mi sorprese improvvisa. Assorta nei miei pensieri non mi ero accorta a chi si stavano rivolgendo, ma afferrai la cosa rapidamente grazie a un calcio di Robert indirizzato a me sotto il tavolo.


“Sì, io ho fatto dei bozzetti, ma...” cercai di spiegare a Veronica che ancora non aveva visto il lavoro. Di solito, prima di presentarlo al cliente lei lo visionava con attenzione. Ora seduta sulla punta della poltrona, mosse con un energico scatto il suo compostissimo caschetto di capelli neri e lisci e poi, mi fissò da dietro gli occhiali con uno sguardo gelido. Capii senza ombra di dubbio che l'avrei pagata cara se non avessi avuto del materiale all'altezza delle aspettative del cliente. Daniele aveva già visto tutti i miei bozzetti, ma ora, dopo la mia infelice uscita sui testi delle canzoni di suo fratello, doveva avere un'idea ben diversa della persona che li aveva disegnati. “Ho pensato, di accompagnare il titolo dell'album 'Tutta colpa del cuore' con un pizzo nero come sfondo, in modo da rendere la copertina più sensuale e allo stesso tempo misteriosa. Ho fatto alcune prove e poi...” mostrai il disegno irrimediabilmente rovinato. “Stamattina, ho avuto un piccolo incidente, ma se ti piace l'idea lo farò di nuovo. Non amo lavorare al computer e tranne le foto di fondo che posso modificare, di solito uso pennelli e pastelli per dare un tocco di calore ad ogni mia creazione, successivamente rielaboro i miei disegni con Photoshop, cerco sempre di mettere un tocco di arte pura in tutto quello che faccio” ritrovai un po' di sicurezza, mentre esponevo i miei bozzetti. Daniele guardò con interesse e in silenzio tutte le tavole che gli avevo sparpagliato davanti. Veronica si agitava sulla poltrona che di rimando emetteva 'lamenti' di pelle sfregata, gommapiuma compressa e cigolii di metallo. Aveva sistemato ossessivamente le pieghe perfette, peraltro, del foulard attorno al collo, spinto gli occhiali con forza verso l'attaccatura del naso e lisciato con gesti maniacali i capelli neri dal taglio carré. Il suo viso era leggermente truccato, aveva un sorriso acido stampato sul viso che si ammorbidiva molto diplomaticamente ogni volta che Daniele si voltava verso di lei. Ora, dopo il mio dettagliato resoconto, anche lei come tutti gli altri, aspettava il verdetto del cliente. Non riuscii a decifrare né dal suo volto né dalla sua postura, di solito eloquente, se i bozzetti che avevo mostrato la soddisfacessero.


“Siamo sulla buona strada...” Daniele mi guardò e si rese conto che non sapeva il mio nome. “Emma” gli dissi, cercando di non esternare tutta in una volta la mia riconoscenza. “Bene Emma, vorrei vedere questo rifatto” mi disse, indicando il disegno ancora bagnato. “Sì, non c'è problema”. “Per quanto riguarda i contenuti della campagna?” chiese a Veronica. Io tornai al mio posto, come se avessi appena subìto un'interrogazione e avessi preso almeno la sufficienza. “Di solito è Stefania, ma...”. “Vorrei che Emma venisse con me in sala di registrazione, abbiamo parlato un po' quando siamo saliti in ascensore e vorrei sentire cosa ne pensa dei testi delle nuove canzoni. Mi piacerebbe le sentisse cantate da Kail, credo che la aiuterebbe a trovare una buona ispirazione per sviluppare altre idee per le copertine e forse, anche qualche contenuto che non sia incentrato sulle solite parole: 'amore e cuore'” guardò Veronica che nonostante una certa rigidità, diede subito il suo consenso. Rifilai un'occhiata preoccupata a Stefania che invece sembrava sollevata di potermi passare la patata bollente, mentre io maledissi ancora una volta il mio difetto di esternare qualsiasi opinione mi passasse per la testa senza preoccuparmi di chi fosse in ascolto.

3 Nel pomeriggio mi venne a prendere Daniele. Avevo mangiato in fretta e furia un panino e avevo rifatto di sana pianta il disegno che ora custodivo come una reliquia dentro la cartellina che non avevo voluto mollare sul sedile posteriore della sua Ferrari, visto il disastroso precedente di quella mattina.


Non me ne sarei separata per alcun motivo. Respirai con avidità l'odore dei sedili di pelle mescolato al profumo del proprietario dell’auto: l'abitacolo ne era impregnato e per un attimo pensai al canto delle sirene di Ulisse, altrettanto ammaliatore e pericoloso. Non riuscii a spiccicare una parola di scusa, ripensavo a quello che avevo detto in ascensore e continuavo a sentirmi un'emerita stupida. Per fortuna fu lui a rompere il ghiaccio. “Il tuo lavoro mi piace” disse Daniele senza tanti preamboli. “Kail non si interessa di queste cose, sono io che me ne occupo, da sempre. Inoltre, se può farti sentire meno a disagio, anche io penso che i testi delle sue canzoni siano superati. Kail non è più un adolescente e io gli ho ripetuto più volte di cercare argomenti più profondi da mettere in musica, ma i creativi hanno paura di tentare qualcosa di diverso, sai com’è… finché la vecchia formula funziona…” guidava piano, con sicurezza. Io trattenni il respiro fino alla fine del suo discorso e poi, non riuscii comunque a parlare, così Daniele proseguì. “Stamattina, si era sparsa la voce che Kail sarebbe venuto in agenzia. Il mio ufficio stampa lavora bene”. “Vuol dire che sei stato tu a...”. “Lavori in pubblicità, dovresti sapere che non bisogna perdere nessuna occasione per mettersi in mostra” mi sorrise. “Ma… hai lanciato il sasso e nascosto la mano. Dovevi almeno dare l'opportunità alle fan di tuo fratello di vederlo da lontano. Non trovi che questo atteggiamento sia scorretto?”. “Sì, scorrettissimo, ma avranno modo di deliziarsi della sua persona la prossima volta che lancerò il sasso. In occasione della sua partecipazione ad una serata di beneficenza per una nobile causa”. “Sai, non amo molto questo lato della pubblicità, a me piace disegnare, gli specchietti per le allodole non sono il mio genere”. “Sempre dritta al punto” sottolineò lui.


“Non mi piace girare intorno alle cose, credo che tu l’abbia già capito, vista la mia gaffe in ascensore… al posto tuo...” non mi riuscì di continuare perché lui mi sfiorò una mano, accarezzandola leggermente. Io rimasi paralizzata dalla sorpresa. “Voglio ringraziarti per la tua sincerità. Sai non è facile trovare persone che esprimono il loro parere in modo diretto. Te ne sono grato e sono certo che tu potresti aiutarmi a far cambiare idea a mio fratello, convincendolo a creare dei testi con un contenuto più profondo”. Quando mi resi conto che eravamo arrivati in prossimità del cancello di una villa, stavo ancora boccheggiando per quell'innocuo contatto che a me era sembrato uno dei più fugaci e sensuali che avessi mai sperimentato. Appartenevamo a due mondi completamente diversi e non era lecito neanche fantasticare su qualcosa che non fossero semplici rapporti professionali e poi, in quel momento non portavo di certo la biancheria giusta. Pensai alle mutande che indossavo e mi trovai a ridacchiare da sola. “Trovi la cosa ridicola?” mi chiese offeso. Per fortuna che il novanta per cento degli uomini ignora la capacità di noi donne di riuscire, in una frazione di secondo, a spaziare tra i pensieri, riuscendo a trovare spiegazioni sostitutive a pensieri imbarazzanti e inconfessabili. “Non sapevo chi fossi quando ci siamo incontrati dentro l'ascensore, inoltre, ero troppo preoccupata per la lavata di capo che mi attendeva sia per aver fatto tardi sia per aver rovinato il mio bozzetto migliore. Non ho proprio notato la somiglianza con tuo fratello. Credi che se mi fossi accorta sarei stata così sincera?” gli dissi e scesi dalla macchina, appena Daniele arrestò l’auto davanti alla villa. L'aria si era riscaldata un po', anche se ancora faceva molto freddo. “Però, non sei molto brava a predire il tempo: avevi detto che sarebbe piovuto”, ribatté lui appena mi si avvicinò. Eravamo passati al tempo, forse la pelle chiara dei sedili aveva assorbito un po' del mio odore e l'aveva sentivo anche lui.


Io annusavo l'aria per confondere i sensi, per condurli su un terreno meno pericoloso. Se li avessi lasciati liberi, si sarebbero concentrati ancora una volta su di lui. “Ho sentito il profumo della pioggia, si vede che si è fermata alle porte di Roma”. Lui non mi rispose, mi guardò soltanto, con quello sguardo serio e cupo che non riuscivo a decifrare. Si incamminò davanti a me, evitando l’ingresso della grande casa con mattoni faccia a vista e dirigendosi invece verso una costruzione più bassa, tinteggiata di rosa antico e posta sul lato destro dell’edificio principale. Dopo un attimo lo seguii. Un giardino pieno di pini circondava le due costruzioni. Il profumo di umidità e un altro odore che non riuscii a decifrare mi entrarono nelle narici. “Comunque, hanno detto che nevicherà” mi disse, un attimo prima di entrare nell'ombra proiettata dalla costruzione verso la quale ci eravamo diretti. “Strano, Gino non mi ha detto niente stamattina”. Lui mi guardò, ovviamente senza capire a chi o a cosa mi riferissi, ma io non gli fornii alcuna spiegazione, così lui si voltò e precedendomi di qualche passo aprì la porta e in un attimo mi trovai catapultata in una realtà che non conoscevo, dove la musica faceva da padrona. Un mixer di proporzioni gigantesche era gestito da un uomo che da dietro a un vetro dava indicazioni a Kail, gesticolando come un pazzo. Fermò una mano a mezz'aria e la band smise di suonare, mentre il ragazzo terminò la strofa da solo. In effetti, sentirlo cantare dal vivo era emozionante e anche se i testi non erano troppo originali, la sua voce riusciva a fare la differenza. Mentre Kail continuava, incoraggiato dall'uomo al mixer, io diedi un'occhiata fugace a Daniele e poi, a suo fratello dietro il vetro della sala di registrazione. Se stavano vicini la somiglianza diminuiva visibilmente. Kail si muoveva mentre cantava, sembrava fosse quasi un bisogno per lui. Daniele, rispetto a lui sembrava più compassato nei movimenti e questo gli faceva guadagnare in classe.


Si voltò come se avesse intuito che lo stavo osservando, ma non fece in tempo ad incrociare i miei occhi, io ero tornata a guardare al di là del vetro. La voce di Kail faceva da sottofondo alle mie idee, alla mia mano che con l'immaginazione scorreva sul foglio e disegnava. Disegnava colline verdi dalle curve dolci, color terra di Siena che si mescolavano. Il sole era basso e non infastidiva gli occhi. Avvertivo anche un profumo di legno e menta, ma poi capii che quello non era dovuto alla mia immaginazione: l'uomo al mixer si era messo in bocca una caramella. Si voltò con la scatoletta di metallo ancora in mano per offrirmene una. Io scossi la testa con vigore, come se lo implorassi di non picchiarmi. Lui mi guardò accigliato, ma non si scompose più di tanto, mi sorrise, forse era abituato alle stranezze, considerato che viveva a contatto con artisti famosi, sicuramente molto più eccentrici di me. Si voltò verso Daniele che invece accettò la sua offerta dalla scatola dorata. Kail smise di cantare, Daniele premette un interruttore sul mixer e la sua voce risuonò anche ad di là del vetro in un'eco strana. “Perché non fai una pausa? Ti voglio far conoscere una persona”. Kail spostò immediatamente gli occhi su di me e un sorriso gli illuminò il viso. Io mi voltai, aspettandomi di vedere qualcuno alle mie spalle. Forse Gino aveva ragione, anche Anna, e Mauro, il suo ragazzo mi dicevano che mi consideravo trasparente. A quel pensiero e mentre Kail usciva dalla sala di registrazione insieme ai ragazzi della band, mi vennero in mente dei versi. Fine dell'estratto Kindle. Ti è piaciuto?

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