IL LIBRO È possibile che la vita viri dal grigio al rosso, passando per il rosa, nell’attimo di un respiro? A sentire Piera Aldobrandi, insegnante di inglese single, salutista e aspirante fotografa, la risposta è sì. Perché, quando incontra il cinico Jean, uno che segue le regole della statistica anche con le donne, l’amore esplode dentro di lei con il calore di una ballata irlandese, finendo per colpire, oltre la sua vita, anche il suo guardaroba che da grigio diventa rosso fuoco. Tutto inizia nel borgomilanese di Bang Bang. Tutta colpa di un gatto rosso, ma poi la storia si sposta in un’Irlanda che più romantica di così non si può, punteggiata da un coro di personaggi divertenti e improbabili e dalle canzoni eterne dei Beatles. Il gatto rosso? C’è anche lui, e se la ride sotto i baffi. L’AUTRICE Ex giornalista, milanese, amante dei bassotti e dei gatti rossi, Viviana Giorgi scrive per lo più commedie romantiche contemporanee, più speziate che sfumate, con eroine decise ma un po’ imbranate e non certo sofisticate, ed eroi gloriosamente da sballo. Tra una romantic comedy e l’altra, ogni tanto si lascia tentare anche dal lato più sorridente e vivace del romance storico, suo primo indimenticato amore. Il lieto fine per Viviana Giorgi? Obbligatorio e altamente glicemico, sia che la sua eroina vesta in jeans o in stile impero. Perché, come ripete spesso: se si deve sognare, meglio farlo alla grande, no?
Vuoi vedere che è proprio amore? Viviana Giorgi
Vuoi vedere che è proprio amore? Viviana Giorgi © Bookrepublic srl 2015 via degli Olivetani 12 – 20123 Milano, Italia www.emmabooks.com – info@emmabooks.com
ISBN EPUB 9788868930325 Questo testo è diventato un ebook nel mese di aprile 2015 Follow us on
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Alle Romance Blogger, lavoratrici instancabili solo per passione, con riconoscenza e affetto… comunque recensiscano questo romanzo :-)
1 Milano, una scuola media statale, maggio 2014 «Professoressa, è arrivato un altro genitore, sa, per il colloquio…» Piera alzò gli occhi al cielo e guardò l’orologio: undici e dieci minuti. Dieci minuti di ritardo e nessun appuntamento. Sospirò. Parlare con un altro genitore voleva dire perdere quasi completamente l’ora buca che di solito utilizzava per correggere i compiti o fare qualche piccola commissione. E, accidempolina, aveva visto quell’abitino nella merceria di viale Brianza. L’unica merceria ancora aperta a Milano e l’aveva beccata lei! Dio, non era forse patetico comprare i vestiti in merceria? Forse solo sua nonna e le sue diaboliche amichette novantenni lo facevano ancora. Ma l’abitino era a buon mercato, semplice come piaceva a lei e… color grigio topo. Possibile che si vestisse solo di grigio? E senza nessuna dannatissima sfumatura, per giunta! Sorrise amaro, pensando ad altre sfumature, anche se non era quello il momento di piangere sulla sua castissima vita di single. Ora doveva incontrare il genitore ritardatario, privo di buona creanza e di un accidente di appuntamento. Be’, per questa volta avrebbe chiuso un occhio, anche perché forse si trattava della mamma di Diamante De Braud che aveva convocato già da un paio di settimane, ma che ancora non si era vista. Secondo Diamante, che tutti chiamavano Didi, la madre era in Irlanda a risposarsi da qualche parte.
In Irlanda? A risposarsi con un leprechaun? Di certo un’altra frottola della ragazzina. Okay, era ora di vedere la genitrice inopportuna. «Le dica che arrivo fra cinque minuti, Flaminia» disse. La commessa la guardò con uno strano sorrisino sulle labbra. «Gli dica. È un papà. E non so se mi sono spiegata.» Non so se mi sono spiegata. No che non ti sei spiegata, Flaminia! Ora anche le commesse erano diventate petulanti? E quel sorrisetto ammiccante che diavolo voleva dire? Come se non avesse ricevuto nessuna gomitata metaforica nello sterno, finse di ributtarsi a capofitto sul compito che stava correggendo e con un che di acido rispose: «Gli dica, allora. Grazie». «Il genitore mi ha anche detto di dirle che lui ha molta fretta…» Piera alzò lo sguardo davanti a sé e sentì una fitta di rabbia trafiggerla. «È in ritardo e ha pure fretta?» Ora lo sistemo io, questo maleducato, pensò alzandosi con troppa foga e dirigendosi verso la porta con fare minaccioso. «Il registro, professoressa! Non dovrebbe portarlo con sé?» le ricordò Flaminia. Decisamente petulante. Trattenendo un’imprecazione, che in ogni caso non sarebbe stata molto più spinta di un perdindincibacco!, Piera si bloccò, girò su immaginari cardini e tornò sui suoi passi. Poi, a testa alta e col registro ben stretto in mano, passò di fianco a Flaminia che la guardava ancora con quello strano sorrisino. «Vedrà, professoressa, non se ne pentirà.» «Forse sarà lui, a pentirsene» mormorò lei tra i denti. Avrebbe detto il fatto suo a quel maleducato. Come no? *
Il maleducato era impegnato a parlare al telefono, con Obama probabilmente, o forse con il Santo Padre, visto che quando Piera svoltò l’angolo del corridoio e gli si materializzò davanti non ci pensò neppure a interrompere la conversazione e a scusarsi; l’unico gesto che fece fu di alzare l’indice della mano destra, come a dire: tieni chiuso il becco, carina, che al momento ho in ballo cose molto più importanti di te. Già tanto che non avesse alzato il medio, invece dell’indice. Alla villania di certa gente non c’era proprio rimedio. Sentendo il volto andarle in fiamme per non aver avuto il coraggio di replicare nemmeno con unba a quel gesto inqualificabile, si girò di scatto e a passo deciso entrò nella saletta dei colloqui, in quel momento deserta. Si sedette in uno dei banchi predisposti per le udienze e vi sbatté sopra il registro con troppa foga – boom! – lasciando esprimere a quel gesto tutto il suo disappunto. Nello stesso momento l’uomo si materializzò nell’arco della porta, sussultò alboom!, la ispezionò come avesse davanti un extraterrestre e in due falcate le fu davanti. Se crede di intimidirmi… Piera non era una stangona, ma neanche una donna minuta (il metro e sessantasei-barra-sessantasette lo raggiungeva tutto). Così però, sprofondata dietro a quel banco, ebbe la fastidiosa sensazione di essere uno scricciolo. In piedi davanti a lei c’era un metro e ottantacinque-barra-ottantasei di maschio in ottima forma. Che la guardava in modo strano. «Lei sarebbe la professoressa Ali…?» Piera alzò un sopracciglio. «Aldobrandi. Cosa glielo fa dubitare?» rispose senza dare il tempo alla sua timidezza di uscire allo scoperto. «Si accomodi» aggiunse subito dopo, togliendo un pelucco dalla manica dalla sua camicetta grigio topo. Doveva proprio smetterla di vestirsi come una suora di clausura. E poi perché non si era sistemata i capelli prima di scendere al colloquio? Il maleducato le sedette di fronte e sistemò un fantascientifico Blackberry sul banco, nel caso nei prossimi istanti lo avesse chiamato Putin. Non contento, si mise a digitare veloce come un teenager sulla tastiera, riuscendo nel contempo persino a
iniziare una specie di conversazione con lei. Piera fu impressionata da tale abilità. Lei era una che ci metteva una vita solo a scrivere un ciao. «Perdoni il mio tono stupito, professoressa, ma quando l’ho vista credevo che fosse una studentessa. Forse per via della coda di cavallo…» Piera nascose la sorpresa, ma non poté far nulla contro il rossore che all’istante la pervase. Maledetta timidezza. «Lo prenderei per un complimento, se non fosse che siamo in una scuola media» disse lei, più secca di un martini di James Bond. «Be’, magari per una studentessa di terza un po’ ripetente» scherzò lui, toccando il tasto dell’invio con disinvolta leggerezza. Il messaggio partì con unpffff, poi lui alzò lo sguardo su di lei e... le sorrise. Ecco. Occhi scuri, quasi neri nella penombra della stanza; per contrasto, denti bianchissimi e labbra… Meglio non fissarle, quelle labbra. Alla collera che le strisciava dentro e alla timidezza che si esternava in zona guance, si mescolò una sensazione sconosciuta che attorcigliò gola e stomaco nello stesso nodo. «Sono Jean De Braud» disse lui tendendole la mano. Il padre di Didi… Piera allungò la sua e, come sempre faceva quando temeva di apparire debole, strinse come se ne andasse della sua reputazione di wonder woman. Solo che lei non era wonder woman. Non c’era nulla di meraviglioso in lei; se lo avesse avuto, anche il suo costume da supereroe sarebbe stato color topo, grigio come si sentiva lei in quel momento. «Piacere, professoressa Aldobrandi» rispose, decisa a non abbassare lo sguardo. «Però» disse lui con uno strascico di inflessione française nella r e un risolino sarcastico. «Complimenti per la stretta.»
Non certo una frase compromettente, ma sufficiente perché uno tsunami scarlatto le invadesse di nuovo il volto. Caspiterina! Perché faceva di colpo così caldo, lì dentro? Dunque, Mr Blackberry, che le sue amiche femmine folli avrebbero già catalogato in cima alla categoria Dorian Gray – nel senso che sarebbero state pronte a vendersi l’anima pur di farselo – era il padre divorziato di Didi, la teppistella. Piera trasse un lungo sospiro, preparandosi ad affrontare dieci minuti difficili. Erano due settimane che chiedeva un colloquio alla famiglia della ragazza e finalmente qualcuno si era degnato di venire a parlarle. «Signor De Braud…» incominciò, evitando accuratamente di guardargli le labbra. Il Blackberry fantascientifico vibrò, e l’uomo non riuscì a resistere alla tentazione di dargli una sbirciatina. «Signor De Braud» ripeté Piera esasperata. «Mi sembra evidente che lei non abbia tempo da perdere e, visto che è arrivato senza appuntamento e fuori dall’orario di ricevimento…» Brava, va’ avanti così, determinata, dura, senza guardargli le labbra. Anche perché quello, per te, non appartiene neppure alla categoria dei Dorian Gray, ma a quella dei non-pensarci-nemmeno. «Mi scuso davvero, professoressa, è che questa mattina non ho avuto un attimo di tregua.» Già, Obama e il Santo Padre. Forse anche Putin. Quell’uomo non aveva un minimo di ritegno? «E poi, la mia segretaria si è scordata di mettermi l’appuntamento in agenda…» aggiunse scuotendo la testa e indicando il Blackberry. La segretaria. Ci voleva una segretaria, ora, per ricordarsi di andare a parlare con i professori della figlia? Piera non si trattenne e alzò gli occhi al cielo. «Veniamo al dunque, signor De Braud, perché in questo momento sono già in ritardo per un altro appuntamento.» Con la merciaia, per comprare il vestito grigio topo.
«Il profitto di sua figlia è ottimo; in inglese e francese, poi, è eccellente, visto che la ragazza è addirittura trilingue. Ma non è per il profitto che, nel mio ruolo di coordinatrice della classe, l’ho fatta convocare, anche se, in realtà, mi aspettavo che venisse sua moglie. La sua ex moglie» aggiunse, e subito se ne pentì. Lui alzò una mano per fermarla. «No, guardi, professoressa, non ha capito. Io non sono il padre di Diamante, sono solo lo zio» disse allentandosi la cravatta azzurro pallido di Hermès, come se il solo pensiero di essere padre bastasse a soffocarlo. «Mio fratello è il padre di Didi e attualmente vive a Bruxelles, mentre la mia ex cognata all’inizio del mese si è trasferita in Irlanda.» Dunque non era una frottola di Didi. «E la ragazza è stata affidata a lei?» chiese Piera visibilmente stupita. «Perché, lo trova tanto strano? Sono lo zio, in fondo!» Lo trovava strano, certo che lo trovava strano. Quello non era il tipo d’uomo che potesse occuparsi di una adolescente. «No, mi perdoni, non volevo dire che lei non sia in grado di badare a sua nipote. È che la signora De Braud non ci ha avvisato che se ne sarebbe andata» si affrettò a rispondere. Lui fece una smorfia, come se la cosa non lo stupisse più di tanto. «Con la partenza in ballo se ne sarà scordata. Dal momento che siamo già a maggio, mi ha chiesto di occuparmi di mia nipote sino alla la fine della scuola. Ma ha lasciato la tata con lei, non è che io abbia tanto tempo…» spiegò, il viso palesemente teso, lanciando un’altra occhiata al Blackberry. Piera rimase un istante a fissarlo, per metabolizzare quell’informazione. «Capisco» disse senza capire affatto. «Allora sta a lei affrontare questo problema.» Jean De Braud si passò una mano tra i capelli scuri, striati appena di bianco sulle tempie, e strinse gli occhi, forse per concentrarsi meglio, forse per assorbire la parola problema. Si sporse leggermente verso Piera, un vento di ansia sul viso, in palese attesa dell’inevitabile seccatura. «Di che problema stiamo parlando, professoressa?»
Piera inspirò profondamente e il profumo di lui le arrivò alle narici. Eau Sauvage, classico, coinvolgente. Micidiale. Una piaga biblica peggio delle locuste, che la faceva sternutire senza pietà. E difatti, appena il profumo transitò dalle sue cellule olfattive sino al cervello, questione di nanosecondi, Piera si alzò in piedi scaraventando la sedia a terra, fissò Mr Blackberry con aria terrorizzata, piroettò su se stessa e infine esplose. Ecciù! Ecciù! Ecciù! E poi ancora: Ecciù! Ecciù! Ecciù! Una serie di ecciùcosì devastante che al confronto quelli del nano Eolo erano robetta da dilettanti. «Professoressa, sta male?» chiese lui dimenticandosi per un istante persino del Blackberry e alzandosi per raggiungerla. «Stia fermo dov’è!» urlò lei, la voce rotta dal panico. Lui alzò le mani, come per arrendersi, e la fissò come si fissa una pazza. «Mi perdoni. È che sono allergica…» «A me?» chiese lui sempre più stupefatto. Piera si asciugò un paio di lacrime che stavano rotolandole sulle guance e scosse la testa. «Non a lei, perdincibacco, al suo dannato profumo: Eau Sauvage, vero?» Lui assentì, si passò una mano sul volto, quasi volesse toccare l’essenza e, come parlando fra sé, mormorò: «Perdincibacco. È straordinario, credo di non aver più sentito questa parola da quando mia zia Teresa è morta…» «Per carità!» lo interruppe Piera appiattendosi contro la parete di fondo e fissandolo come un portatore di Ebola. «Lasci perdere sua zia, non si muova da lì e torniamo a sua nipote. La prego di comprendere…» Lui assentì con aria preoccupata, ma invece di rimanere immobile come lei gli aveva chiesto, andò ad aprire l’unica finestra della stanza e vi si piazzò davanti. «Se rimango qui, a distanza di sicurezza, va meglio?» chiese preoccupato. Piera chiuse gli occhi, cercò di aprire la mente alla positività e mormorò un flebile sì grazie, poi, respingendo un altro attacco di sternuti, pensò che fosse meglio andare dritto al punto.
«Signor De Braud…» La voce le uscì ridicola e fastidiosamente nasale. «L’ho fatta chiamare berché sua nipode si comborta a scuola come se fosse l’erede legittima di Don Vito Corleone. Ora, a meno che qualcuno in famiglia non sia uncabo mafia…» Gesùgiuseppemaria! Come le era uscita una frase tanto stupida e inappropriata? E se quell’uomo fosse stato veramente un capo mafia? Piera si vide già immersa a testa in giù nel cemento di un nuovo condominio di periferia. Gli occhi dell’uomo si fecero più scuri, mentre il pallore sul viso di Piera cresceva in modo direttamente proporzionale. «Professoressa Aliberti…» disse lui facendo un passo avanti. «Aldobrandi» lo rimbeccò Piera, alzando una mano per fermarlo e appiattendosi un po’ di più contro la parete, più terrorizzata degli effetti dell’Eau Sauvage che dalla possibilità che Mr Blackberry fosse un boss della mafia. Lui si immobilizzò, ma fece un gesto spazientito, forse per invitarla a non interromperlo. «Professoressa Aldobrandi, con Don Vito Corleone intende dire quel Don Vito? Marlon Brando che parla con una patata in bocca? Mario Puzo eccetera eccetera?» «Esattamente» rispose Piera con un sospiro. «Anche se sua nipote una patata in bocca non ce l’ha di certo. Oserei dire che la ragazza ha una lingua biuttostoveloce, invece.» L’espressione sbigottita e preoccupata dell’uomo la rassicurò. Forse, dopotutto, Jean De Braud non era un mafioso. *** Jean uscì dalla scuola preoccupato. Arrabbiato, per la verità. Non con Didi, che in fondo era solo una vittima, ma con suo fratello e sua cognata che l’avevano lasciato in mezzo a quel casino. Poteva anche essere che quella prof, Miss Sternuto, avesse calcato un po’ la mano, perché più ci pensava, più gli pareva impossibile che sua nipote fosse una stalker, una bulla che se ne andava in giro per i corridoi della scuola a ricattare i compagni per una ricarica di cellulare. E per quale ragione, poi, dal momento che aveva un abbonamento flatsenza limiti di chiamata? Naaa, non aveva alcun senso. Era una ragazzina angelica, la sua Diamante, pura come una pietra preziosa. Eppure, Miss Sternuto gli aveva portato le prove delle bravate della nipote,
davanti alle quali aveva dovuto rimangiarsi ogni legittimo dubbio. Altro che presunta innocente! Sembrava proprio che Didi fosse una piccola criminale. «Se Diamante non cambia» gli aveva detto la prof, probabilmente l’unica donna al mondo allergica all’Eau Sauvage, «sarò costretta a raccontare tutto alla preside che dovrà prendere provvedimenti disciplinari. E a quel punto gli esami di terza media sarebbero a rischio.» Da quel che aveva capito, la Aldobrandi aveva fatto di tutto per calmare gli altri genitori e far ragionare la teppistella; e forse c’era pure riuscita, dal momento che, a quanto gli aveva riferito, era da almeno un paio di settimane che la piccola Corleone non terrorizzava nessuno. Da quando, cioè, sua madre era partita per l’Irlanda. Be’, non ci voleva Freud per fare due più due. Era evidente che il problema della ragazzina non fosse a scuola, ma a casa. Diamante era figlia di divorziati. Aveva un padre che viveva con una nuova famiglia a Bruxelles e una madre che stava per sconvolgerle la vita sposando un irlandese di almeno centocinquant’anni (secondo Didi; in realtà doveva averne una cinquantina). Non solo. Per chiudere quel disastroso cerchio familiare, aveva pure uno zio che passava diciotto ore al giorno in ufficio, weekend compresi. E che trascorreva spesso anche la notte fuori casa. Preoccupato, Jean si passò una mano sul volto. Be’, forse non avrebbe mai vinto il premio di zio dell’anno, ma avrebbe fatto del suo meglio per passare un po’ più di tempo con Didi nel periodo in cui la ragazzina fosse rimasta ancora sotto il suo tetto. L’avrebbe portata un po’ in giro, a un cinema o a fare shopping magari. Fare shopping con una ragazzina? Dio! Se gli avessero sparato sarebbe stato meglio. Che ne sapeva lui di ragazzine? Da tempo era intollerante a qualsiasi femmina al di sotto dei 21 anni e considerava indifferentemente bambini e animali una pericolosa calamità. Non che fossero la stessa cosa, bambini e animali, ma insomma, sempre seccature erano. Solo per sua nipote aveva rivisto – in parte – i suoi pregiudizi e fatto un’eccezione. Perché le voleva un bene dell’anima. Jean si infilò il casco e salì sulla sua Norton. La moto partì al primo colpo e il rombo del motore fu come musica celestiale per le sue orecchie. Musica che spazzava via ogni ansia, ogni problema, ogni decisione da prendere. Sì, per calmarsi avrebbe fatto un giro prima di rientrare in ufficio, per scaricare un po’ la tensione;
poi avrebbe telefonato a sua nipote e quella sera l’avrebbe portata a cena fuori. Un hamburger, magari, e un film. Cose che piacevano ai ragazzini. La moto rispose al tocco esperto delle sue mani e come un’amante urlò di piacere quando lui ingranò la marcia e diede gas. Proprio nello stesso momento vide la prof uscire dal portone della scuola, jeans, scarpe da tennis e una giacca informe e grigia come la camicetta. Non c’erano dubbi su quale fosse il colore preferito di Miss Sternuto, anche se, a guardare bene, c’era qualcosa di diverso in lei. Si era sciolta i capelli, forse? Non gli erano sembrati tanto lunghi e morbidi durante il colloquio, e neppure di una sfumatura castana così dorata e calda. Le passò davanti in moto proprio mentre lei scendeva dal marciapiede; i loro sguardi si incrociarono. Lei sternutì. Lui pensò a come sarebbe stato dare un po’ di gas anche a lei.
2 Milano, il borgo, lunedì 16 giugno Dopo una lunghissima giornata passata a scuola per gli scrutini, Piera si preparò a ricevere le amiche del borgo, la piccola via privata in zona Lambrate dove viveva. Definirlo borgo forse era un po’ pretenzioso, ma ormai era così che nel quartiere tutti lo chiamavano. Si trattava in realtà di una via privata con ben dieci-tigli-dieci, cinque per lato, su cui si affacciava una serie di villette a due piani adorne di gerani e rampicanti, piccoli edifici colorati e allegri che non assomigliavano più a quelli costruiti intorno al 1920 da una ditta farmaceutica per i propri operai. Il borgo era una piccola oasi di serenità che una cancellata di ferro battuto proteggeva dal resto del mondo, non troppo lontano dalla massicciata della ferrovia. Non che i treni fossero un problema. Non fischiavano più, come quelli della Via Gluck di Celentano, erano per lo più frecce veloci e silenziose che alla stazione di Lambrate al massimo rallentavano. Di giorno Piera non li sentiva neppure, ma tutte le notti, verso l’una, la sua attenzione correva, che lo volesse o no, ai binari, in attesa del simbolico ciuf ciuf di un treno che nella sua immaginazione vedeva trainato da una vecchia locomotiva a vapore; come quella che aveva ucciso Anna Karenina forse, o come quella che si portava dietro le lussuose carrozze dell’Orient Express o quelle magiche del Polar Express. Era un treno in bilico tra realtà e fantasia quello che sentiva
fischiare ogni notte (probabilmente nella realtà un pragmatico merci), il cui suono distante e carico di promesse esotiche le era ormai entrato nel cuore. Solo allora, quando il treno le aveva sussurrato eccomi, sono arrivato, dai, sali a bordo che se no faccio ritardo, Piera prendeva sonno, con la sicurezza che l’avrebbe trasportata all’interno di una meravigliosa avventura. Notte dopo notte. Almeno nei suoi sogni. Mancavano ancora quattro ore all’ora del treno e tra pochi minuti avrebbero fatto irruzione a casa sua per una serata-cinema le femmine folli, le amiche che vivevano nel borgo. Cascasse il mondo, una sera alla settimana si trovavano a casa di una o dell’altra per vedere un film o per leggere e commentare insieme un romanzo, rigorosamente romantico. Erano serate speciali, a volte allegre a volte tristi, alla fine delle quali, dopo aver sospirato sul grande amore dei protagonisti, essersi abboffate di trigliceridi ed essersi lamentate per questo o per quello, finivano a parlare di uomini e di sesso. Non che Piera potesse raccontare molto a questo proposito, soprattutto dopo aver rotto con Fabio, che fra l’altro era l’unico maschio ad aver avuto l’onore, in passato, di essere ammesso a una serata delle femmine folli. Fabio era stato il quarto uomo della sua vita, una storia breve e passionale la loro – oh, molto passionale! – che ancora provocava in Piera una serie di palpitazioni dolorose. Con Fabio aveva fatto zucchi zucchicome con nessuno dei suoi (tre) precedenti amanti. Zucchi zucchi, se non fosse ancora chiaro, era il modo in cui Piera definiva il sesso, e non che quel termine balzano non la facesse arrossire mentre lo diceva.Scopata, lo definivano le altre femmine folli, ma lei quella parola non riusciva proprio a dirla. Piera finì di sistemare sul tavolino di fronte al divano il tè freddo biologico, il succo di mela, pure biologico, e i suoi stuzzichini, tutti orribilmente sani – carote, sedani, rapanelli, fragole, ciliegie e mandorle – sapendo bene che le altre avrebbero portato alimenti molto meno salutari da spiluccare durante il film: birra, patatine fritte, pizzette, salame, salatini; insomma, qualsiasi cosa grondasse grassi saturi. Una pacchia per lo stomaco delle sue amiche, veleno puro per una salutista dalle tendenze igieniste e ipocondriache come lei. Si guardò intorno: sì, il salotto era in perfetto ordine, pronto a ricevere l’orda barbarica. Dopo cinque minuti dall’invasione, in ordine non lo sarebbe stato più.
Le femmine folli arrivarono una dopo l’altra: Nora, Francesca, Roberta, Camilla e l’ultima arrivata nel borgo, Celeste. Donne molto diverse l’una dall’altra che, oltre ad abitare nella stessa via, condividevano la passione per le storie d’amore. Nora, addirittura, le traduceva dall’inglese per una nota casa editrice. Le invasero la casa, in una girandola di colori e voci; depositarono i grassi saturi vicino a carote e ravanelli e si sistemarono sul divano e sulle poltrone in fremente attesa. La scelta del film era sempre a sorpresa e, nei pochi istanti che ne precedevano l’inizio, era una lotta all’ultimo sangue per cercare di indovinarne il titolo. Piera si accoccolò ai piedi di Nora e fece partire il dvd. «Se conosco Piera» sentenziò Roberta, con la sua solita punta di acido nella voce, «sarà ancora Piccole Donne, e magari neppure l’ultima versione, quella con Winona Ryder. Quando è lei a scegliere il film, non c’è una scena hot neanche a pagarla.» «Be’, questa sera non sarà così. Avrete la vostra dose di zucchi zucchi» rispose Piera un po’ offesa, pigiando il tasto stop sul telecomando. «Al massimo ci sarà una slinguatina» disse Camilla ridacchiando. «Altro che una!» protestò Piera, rifacendo partire il dvd. Le femmine folli fissarono il logo della Orion Picture comparire sullo schermo, poi… «Bull Durham!» urlarono tutte all’unisono, battendo le mani. «Kevin Costner al suo meglio! Dio quanto era figo!» gemette Nora. «E non è male neppure adesso. L’avete visto in Superman?» rispose Celeste. «Secondo me in questo film c’è la più bella scopa… Il più bel zucchi zucchi su un tavolo da cucina mai visto al cinema» dichiarò Francesca. «Ah no. Io preferisco quella tra Nicholson e Jessica Lange nel Postino suona sempre due volte, un po’ più dura, come piace a me» rispose Camilla. «Ma facci il piacere!» la rimbeccò Nora. «Non sono d’accordo» aggiunse Celeste. «Anch’io preferisco questa di Bull Durham, è più sana» si inserì Piera.
«Sana? Ma l’avete sentita, femmine? Tesoro, vuoi capirlo o no che su quel tavolo non fanno una seduta di yoga, ma quello che tu, a trentatré anni suonati, ti ostini a chiamare in quel modo assurdo?» la rimbeccò Camilla. «Zucchi zucchi!» esclamarono le altre all’unisono, facendo il verso alla padrona di casa. «Prendetemi pure in giro!» si difese Piera, tirando un cuscino addosso a Camilla. «Ora, se la smettete…» Il film ricomparve sullo schermo, i grassi saturi idrogenati si esaurirono e i ravanelli e le carote rimasero sui vassoi; e Kevin Costner e Susan Sarandon fecero sul tavolo della cucina ciò che tutte si aspettavano non una, ma, grazie al tasto rewind, almeno una dozzina di volte, tra esclamazioni e incitamenti divertiti. «Ecco il miglior uso possibile del telecomando» commentò alla fine Camilla, nel tripudio generale. * A mezzanotte Piera riuscì a liberarsi delle femmine. Di tutte tranne che di Nora, la traduttrice di romanzi rosa e sua amica più cara. «Piera, mi faresti un grandissimo piacere?» «Incontrare un uomo magnifico come Nick e farci subito un figlio, come hai fatto tu? Vada per il piacere.» Nora sorrise. «Non era proprio quello che avevo in mente, ma perché no? Mai dire...» «… mai! Lo so, grazie» la interruppe Piera prima che quella ricominciasse con la solita solfa. Nora prese un gran respiro e guardò l’amica con un sorriso colpevole. «La mia richiesta, veramente, ha a che fare con Red…» «Il gattaccio rosso?» «Già, proprio lui. Questo weekend dovremmo andare a Bellagio dai genitori di Nick e purtroppo non ho trovato nessun altro a cui affidarlo. L’ultima volta che l’abbiamo portato con noi è scappato e ci abbiamo messo un giorno a riprenderlo. Tu sei qui, per il fine settimana, vero?»
«E dove potrei essere altrimenti?» rispose Piera sollevando le spalle. Nora scosse la testa. «Non è che tu non possa uscire con qualcun altro, anche se con Fabio è finita…» «La festa appena cominciata, è già finita…» intonò Piera. «Più che essere finita, non è mai veramente cominciata, lo sai. In ogni caso» aggiunse senza nascondere la propria irritazione, «spero che Fabio si trovi bene, a Baltimora, e che ci rimanga a lungo!» «Non puoi biasimarlo, era un’occasione d’oro per lui. Capo della ricerca clinica in uno dei migliori centri al mondo di cardiologia.» «Già» commentò Piera per nulla convinta. «Comunque, al diavolo Fabio e, per quel che riguarda Red, è il benvenuto. Quasi il benvenuto. Domattina andrò a scuola per la consegna delle pagelle, e poi mi sbarrerò in casa con lui.» «Non devi rimanere in casa… Red non ha bisogno di una dama di compagnia ventiquattro ore su ventiquattro… Sta’ solo attenta che non scappi in strada.» «Appunto. Quel gatto è peggio di Houdini, è capace di fartela sotto il naso come nessun altro. Ma non ti preoccupare, non gli leverò gli occhi di dosso per un solo minuto. A zia Piera il malvagio non riuscirà a farla!»
3 Milano, scuola di Piera, venerdì 27 giugno L’atrio era affollato di ragazzi e genitori, impazienti di conoscere e commentare i risultati dell’esame. Tutti, quell’anno, erano stati promossi. Piera sorrideva con affetto ai suoi ex allievi – erano entrati in quella scuola bambini e ne uscivano ragazzi – e non si negava alle molte domande dei genitori. E stava proprio scambiando due parole con una mamma piuttosto ansiosa, quando al suo fianco si materializzò Didi. «Professoressa, ho preso nove all’esame!» disse la ragazzina con un gran sorriso. «Ciao Diamante, sì, sei stata bravissima, complimenti!» Piera si chinò e l’abbracciò, e quella le si attaccò al collo rischiando quasi di strozzarla, in perfetta tradizione corleonese. Non solo la piccola aveva fatto un
ottimo esame, ma la sua condotta era radicalmente cambiata. In meglio. E Piera supponeva che il merito andasse, almeno un po’, allo zio fuori-target-per-me. «Didi, mi vuoi strangolare?» Diamante la lasciò, ma le prese la mano, come se non volesse separarsi da lei. «Sei venuta sola?» le chiese. Non che sperasse di veder Mr Blackberry comparire all’improvviso... «Con la tata, eccola là» rispose la ragazzina, indicando una signora di mezza età che le stava osservando. «E ora cosa farai, raggiungerai la mamma in Irlanda?» «Sì, devo aiutarla per il matrimonio.» «Davvero? Deve essere eccitante.» Chissà se Mr Blackberry sarebbe stato tra gli invitati… «Si sposerà a… Be’, è un nome impossibile, che non ricordo. Ma devo dare una mano per i preparativi e studiare per il mio ruolo di damigella d’onore.» «Ma è meraviglioso, Didi, devi essere elettrizzata dalla notizia! Non sono mai stata la damigella d’onore di nessuno e mi piacerebbe tantissimo esserlo!» «Non preferirebbe essere la sposa, prof?» Che ragazzina impertinente. Piera finse di pensarci su, poi disse: «Al momento giusto, forse. Ma non è che muoia dalla voglia di avere un marito, adesso. Sto bene così». «Anch’io non mi sposerò da grande. Chi si sposa poi finisce per litigare.» Impertinente e saggia. «Hai ancora molti anni davanti a te prima di prendere una decisione al riguardo. Intanto goditi le tue vacanze irlandesi.» Diamante le puntò gli occhi addosso, come se volesse studiarla. Uno sguardo acuto che non presagiva nulla di buono. «Prof, domani mattina verrebbe con me a fare shopping?» Appunto.
«Didi, mi spiace, ma sono la persona meno indicata per lo shopping! Non sarei una buona compagna…» A meno che non si tratti di fare shopping nelle più tetre mercerie di periferia… «La prego, prof! La prego! La prego!» disse Didi, accompagnando ogni la prego con un saltello. Ora aveva preso a fissarla come se da un sì dipendesse la sua intera esistenza. «Tesoro, a essere proprio sincera, io odio fare shopping! Io e lo shopping siamo incompatibili, ti rovinerei la giornata.» «Con me non ti annoieresti. Vedrai, io sono una personal shopper bravissima, ti darei dei consigli iperfantastici.» La piccola sfrontata aveva cominciato a darle del tu. In fondo, non era più la sua professoressa. «Vedremo, Didi, ti prometto che ci penserò…» Era diventata possibilista sull’argomento shopping, adesso? No no no! Non doveva illuderla. «Facciamo così» intervenne la ragazzina con piglio da manager. «Ora vado a casa con la tata...» Una manager con la tata! «... poi ti chiamo sul cellulare e decidiamo, va bene?» Piera la guardò sorpresa. «Tu hai il mio numero?» «Certo!» rispose Didi con espressione a metà tra il diabolico e l’offeso. Sì, la piccola doveva avere agganci con la mafia. O con la CIA. «Non ti chiederò come l’hai avuto…» replicò senza speranza. «Prof, ti chiamo più tardi, così ci accordiamo» disse la piccola tagliando corto, poi si girò e correndo scappò dalla tata prima che lei potesse aggiungere un solobe. E va bene! Se l’avesse chiamata sarebbe stata inflessibile. Le avrebbe detto un bel no tondo tondo, che ad andare a far shopping con lei non ci pensava neppure. * Milano, sabato 28 giugno. Piazza San Babila
Piera si guardò intorno, perplessa e con un crescente senso di angoscia. Non amava il centro caotico della Milano che fingeva di essere ancora da bere, quello della moda e dei negozi super griffati, frequentati ormai solo dai turisti russi o orientali. Eppure, eccola lì. La piccola peste le aveva dato appuntamento alle undici di mattina al secondo piano del nuovo store Brian & Berry (guai a chiamarlo grande magazzino!), un palazzo di vetri, specchi e luci che pareva un inno al superfluo. Piera fu avvolta dal profumo di caffè e di soldi non appena varcò la soglia, mentre un tipo della security, molto nero e molto elegante, la salutava come fosse Paris Hilton. «Buongiorno anche a lei» gli disse con un sorriso, chiedendosi quante persone si disturbassero a rispondergli. Guidata dall’aroma del caffè, si addentrò nella caffetteria dove ammirò le torte esposte e sospirò più volte al pensiero che, forse, far scivolare un po’ di grassi saturi e di zuccheri giù per l’esofago non sarebbe stato poi così grave. Evitando accuratamente l’ascensore (un parallelepipedo di plexiglas poco rassicurante, a suo avviso), imboccò le scale e, prima ancora di arrivare al primo piano, le sue narici furono investite da altre fragranze, quelle dei cosmetici in vendita presso una nota profumeria. Una commessa, bella, molto truccata e sorridente, con una pronunciata inflessione slava, la fermò prima che potesse imboccare la seconda rampa di scale brandendo minacciosa uno spray profumato. «No, per favore non lo faccia!» la pregò Piera, allergica oltre che al dopobarba di Mr Blackberry a diverse fragranze. Ma quella ormai l’aveva irrorata tutta, faccia compresa. Piera si immobilizzò in attesa di una dirompente esplosione di sternuti, ma, con sua gran sorpresa, il naso se ne rimase tranquillo. Per questo sorrise e per questo, forse, incoraggiò a proseguire nel suo marketing face to facela commessa. «Profumo in offerta oggi. Tu vuoi?» «Grazie, è molto buono, ma non ne ho bisogno» rispose Piera con un altro sorriso. «Allora forse tu vuoi make up? È gratis, oggi. Vieni, Ivan fa te bellissima in cinque minuti.» Piera ci mise un po’ a comprendere che diavolo volesse quella matrioska dalla pelle perfetta, poi comprese.
«No, davvero, io non mi trucco quasi. E poi, neanche Ivan il Terribile riuscirebbe a farmi bella in cinque minuti. Vedrei meglio Sant’Antonio, sai, quello che fa le grazie…» La matrioska la fissò senza aver capito un accidente di quella arzigogolata risposta, tanto che, avendola probabilmente scambiata per un sì, afferrò Piera per un braccio e cominciò a trascinarla dentro al negozio, sorda alle sue proteste. «Tu fida di me, vieni…» Se in altre circostanze quella piccola prepotenza l’avrebbe infastidita, in quel momento la divertì. In fondo mancava un quarto d’ora all’appuntamento con Didi, e la matrioska, per quanto inflessibile, era simpatica e allegra. Con un sospiro e un’alzata di occhi un po’ troppo plateale, la seguì docile sino a… Ivan. Terribile, senza l’articolo il. Da Cesano Boscone, con ogni probabilità, non certo da San Pietroburgo. Un metro e sessanta di mossette e ammiccamenti. Camicia fucsia (aperta sul petto liscio cosparso di brillantini come i capelli del mago Zurlì) e pantaloni neri aderenti, forse strategicamente dotati di rinforzo, proprio lì. «Ciaoooo ammore!» esclamò lui, prendendola in consegna dalla matrioska. Dio Santissimo! «Siediti qui, comoda comoda, e affidati al tuo Ivan.» Tuo? Piera sentì qualcosa chiuderle la gola. Okay, era divertente giocare allasocialite per una volta, ma forse quello era davvero troppo. «Ciao Ivan, ti ringrazio, ma veramente non so se…» cominciò a protestare mentre quello la costringeva a sedersi su una poltroncina girevole. Davanti a lei si apriva un coloratissimo mondo di matite per occhi e labbra, rossetti, fard, fondotinta, eyeliner e altre diavolerie più terrorizzanti di un film di Wes Craven. «Ivan, grazie, io davvero non penso sia il caso…» «Tu non devi pensare, ammore, che ci penso io a te. Vedo molto, molto potenziale non sfruttato qui» continuò liberandole i capelli dalla coda.
Quando le ricaddero come a Veronica Lake sull’occhio destro, Ivan parve soddisfatto. Potenziale non sfruttato? Ecco un signor eufemismo. «Come ti chiami, tesora?» Sì, tesora, proprio con la «a» finale. Con un movimento sciolto, Ivan fece girare la poltroncina sino a quando Piera, sempre più terrorizzata, non fu di spalle allo specchio. «Mi chiamo Piera» bofonchiò. «Piera, ma che nome caruccio, insolito!» Piera? Insolito? Dimenticato semmai, per nulla glam! Erano anni che non aveva allieve che si chiamavano Piera. Pamela, Debora, Sarah con la «h» finale, Diamante, persino una Peggy Sue, ma nessuna dannatissima Piera. Ivan schioccò le dita in modo imperioso – aiuto! – e un’altra matrioska, pure lei dalla pelle d’avorio e dagli zigomi alti, si materializzò con una macchina fotografica e scattò un paio di foto, incurante della sua espressione sgomenta. «Pubblicale su Facebook, Ivan, e parte una denuncia» disse Piera tentando una battuta, ma lui parve non averla neppure sentita. «Una foto prima e una dopo la cuuura» spiegò invece soddisfatto, dandosi le arie di un primario di chirurgia estetica. «Vedrai che metamorfosi!» Metamorfosi? La mente le si popolò di insetti schifosi. L’allegro chirurgo, intanto, si metteva all’opera con l’aiuto della seconda matrioska che gli passava, al posto di bisturi e pinze, pennelli di ogni dimensione. Una pennellata di ombretto là, un po’ di mascara qua, un tocco di kajal – per dare profondità allo sguaaardo, sai. Il tutto per infiniti cinque minuti sino a quando, usando una specie di cazzuola da muratore, andò giù duro con il fard. «Quasi finito, tesora. Un filo di gloss, una sistematina ai capelli, et voilà!» Fine dell’intervento d’urgenza. La matrioska, inesorabile, scattò un’altra foto e, con un esperto movimento del braccio, ruotò ancora di 180 gradi la poltroncina. Piera serrò gli occhi e trattenne il fiato. Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame?
Non certo io. Aprì un occhio e vide un’immagine sfuocata di se stessa. Aprì anche l’altro e, pensando di essere su candid camera, si avvicinò allo specchio per vedere meglio. «Ochen krasivaia, molto bella» esclamò la matrioska con entusiasmo. «Magnifica» le fece eco Ivan. «Strana!» concluse Piera. Ma avrebbe voluto dire porca pupazza, una delle esclamazioni più forti che si era mai concessa. Perché, a dire il vero, con tutte le pennellate di colore che Ivan le aveva dato in faccia, era certa che sarebbe uscita da quell’incubo più simile a Barbara Cartland ultima maniera che a una trentatreenne in buona salute. E invece… Era sempre lei, ma… quasi bella. No, non quasi. Era il brutto anatroccolo diventato cigno e il trucco, come quello dei maghi, c’era ma non si vedeva. «Porca pupazza!» non riuscì più a trattenersi. «Come ci sei riuscito, Ivan?» chiese sempre più sorpresa, guardando il terribile con il rispetto che si tributa a un genio. Lui fece spallucce e quasi arrossì. Poi, con un grande sorriso aggiunse: «È il mio lavoro, tesora, ho solo messo in risalto quello che tu hai dentro. E se vuoi, qualche segreto te lo posso pure insegnare». * Con al braccio una borsa molto glam di plastica rosa straripante cosmetici – lo stretto necessario, tesora! aveva sentenziato Ivan – e, ad perpetuam rei memoriam, le due foto scattate prima e dopo l’intervento, Piera salì di corsa al secondo piano, sperando di non essere in ritardo per l’appuntamento con Didi. Si guardò intorno alla ricerca di un indizio: non sapeva dove l’avrebbe trovata, ma era sicura che la ragazzina avrebbe lasciato dietro di sé una scia del suo passaggio. Tipo terra bruciata da Attila, però, non briciole di Pollicino. Cercando di individuarla tra i clienti, a quell’ora non ancora numerosi, passò lentamente tra i banchi ammirando i capi alla moda drappeggiati sui manichini. Neanche a dirlo, di grigio, in giro, non c’era neppure l’ombra.
Sospirò. Erano tutti abiti troppo sexy e sfacciati per i suoi standard, ma sembrava quasi che la stessero implorando di comprarli. Quello, o quello, o quell’altro… Non avevano occhi che per lei. Chissà come le sarebbero stati addosso? Sarebbe stata ridicola o attraente? Il punto era che, anche se si fosse permessa la follia di comprarne uno, poi non avrebbe mai avuto l’occasione per indossarlo. Nella sua vita non c’era posto per abiti appariscenti e sexy, solo per abiti comodi e funzionali. Certo che… A disagio, abbassò gli occhi sul suo vestitino, quello della merceria di viale Brianza, e per un attimo le sembrò che tutti, ma soprattutto le commesse – per lo più alte, magre e con la puzza sotto il naso – la stessero fissando con aria di disapprovazione. Si lisciò l’abito grigio topo e si diresse decisa al banco delle sciarpe, dove, senza pensarci due volte, tirò fuori 30 euro per uno straccetto di cotone rosa pieno di farfalle colorate che subito si arrotolò intorno al collo. Si guardò in uno specchio e… sì, così era già meglio. Tra il trucco di Ivan e le farfalle intorno al collo si sentì all’improvviso meno roditore del solito. In quel momento suonò il cellulare. Mamma. Era la terza telefonata della giornata. «Mamma, ciao, cosa c’è ora?» Sua madre le voleva bene, ma aveva anche la brutta abitudine di deprimerla con tutte le sue ansie. Per lei, che era sempre stata bellissima, e che ancora lo era, avere una figlia che si confondeva nella folla era un insulto. Che poi la figlia fosse pure single e intenzionata a rimanere tale, era una minaccia al successo della sua missione di donna e di madre. «Tesoro, hai deciso quando venire a trovarmi al mare? Il prossimo weekend verrà anche tua sorella con i bambini.» Che Dio me ne scampi.
Non che non avesse voglia di vedere la sua perfetta sorella, madre e sposa dell’anno, con i suoi perfetti marmocchi, ma la scuola era finita e finalmente avrebbe avuto un po’ di tempo da passare in camera oscura. Aveva ancora molte foto da sviluppare. «Mamma, anch’io ho voglia di vederti, lo sai, e ti prometto che verrò. Ma non questo weekend. Il Circeo non è proprio dietro l’angolo…» «Va bene, non insisto. Ho capito» rispose con voce offesa. No, non aveva capito un bel niente. «Devo lavorare alle mie foto.» «Vuoi dire rinchiuderti in quel buco di cantina.» Piera alzò gli occhi al cielo. «Non è un buco e non è una cantina, mamma. È una camera oscura nel mio seminterrato.» Sentì la madre emettere il suo tipico sospiro di disapprovazione. «Non capisco perché, come tutto il resto del mondo, non mandi a sviluppare le tue foto da un fotografo o perché non le stampi direttamente col computer. Sabato sera ci sarà una festa, con molta gente interessante…» Quando sua madre diceva gente interessante, intendeva esseri umani dotati di cromosoma Y. «Mamma, io adoro stampare le mie foto e ormai dovresti saperlo che non amo le feste…» «Prof, prof!» Didi, alle sue spalle! Grazie al cielo la piccola peste era arrivata, salvandola dalle inevitabili raccomandazioni materne, quelle che chiudevano ogni telefonata. «Ci sentiamo domani, mamma, ora devo proprio andare, la mia amica è arrivata. Ti abbraccio.» Chiuse la comunicazione e rimise il telefono in borsa; poi si appoggiò al bancone della cassa come se volesse prepararsi a un attacco imminente. Didi era una che colpiva da dietro. «Prof!»
Le braccia della ragazzina le cinsero la vita e, nonostante l’istinto di sopravvivenza le stesse urlando a gran voce pericolo, sentire il suo affetto intorno a sé (in ogni senso) le riscaldò il cuore e la ricompensò per quella mattina di shopping compulsivo. Se l’acquisto di una sciarpa e di qualche cosmetico poteva definirsi tale. «Didi!» La piccola la liberò dall’abbraccio permettendole di ruotare su se stessa, poi la squadrò per qualche secondo con l’aria di chi la sa lunga, alla fine espresse il suo giudizio. «Come sei bella, prof!» Un complimento da Didi? «Lo pensi davvero? Grazie, tesoro! Anche tu sei molto carina oggi e sembri molto più grande! Ti sei per caso truccata? «Solo un pochino…» «Non sarai passata anche tu da Ivan, vero?» «Da chiiii?» «Niente, niente, dopo ti racconto. Allora, dimmi, perché siamo qui?» «Vorrei guardarmi in po’ in giro perché non credo che in Irlanda – dove mamma ha detto che tutti si vestono in modo orribile – troverò molti abiti firmati…» «E io che credevo che il tuo guardaroba fosse già abbastanza fornito… per i prossimi tre anni?» «Naaa, ho solo roba vecchia. E poi lo zio vuole farmi un regalo per la promozione.» Lo zio? Mr Blackberry? Si guardò intorno allarmata, ma per fortuna in giro non vide zii da sballo. D’altronde, quell’uomo non era certo il tipo da accompagnare la nipotina a fare shopping. Forse le aveva dato la sua carta di credito oro… «Dimmi, Didi, cosa cerchi in particolare?» Domanda ingenua e sbagliata. Sarebbe stato più rapido e indolore chiedere cosa non cercava perché, un quarto d’ora dopo, entrambe entravano in due camerini attigui cariche di capi da provare. La piccola doveva averla plagiata se non ipnotizzata
o drogata, perché anche lei si stava comportando come la protagonista di un romanzo della Kinsella e, a dire il vero, la cosa cominciava a divertirla. I love shopping? E da quando? Didi esprimeva il proprio parere negativo sulle scelte di Piera con una semplice scossa della testa e una frase lapidaria del tipo: Troppo serio, prof; Il giallo ti sta malissimo; Gonna troppo lunga; Non ci siamo proprio. Era invece molto meno severa con i capi scelti per se stessa, che finivano tutti nel mucchio dei possibili acquisti o, come diceva lei, nella sua wishing list, la lista dei desideri. «Questo come ti sembra, Diamante?» chiese Piera un po’ demoralizzata da tutti quei niet accumulati. «Non ci siamo ancora, prof!» rispose la piccola, sicura di sé. «Allora credo che darò forfait, comincio a essere esausta.» «No, è solo che non sai scegliere. Aspettami qua, vado io a prenderti qualcosa di giusto. Sai, da grande voglio fare la personal shopper» disse prima di partire in missione. Ecco. Non il medico, la scrittrice, la scienziata. Neppure la poliziotta o il vigile del fuoco. La personal shopper! Senza riuscire a replicare, né tantomeno a bloccare i piani della ragazzina, Piera si mise a gironzolare per il camerino in mutandine e reggiseno, in attesa che Didi ricomparisse con qualcosa di eccentrico e assolutamente inadatto a lei. Alzò le spalle e si disse che in fondo quello non era che un gioco e che, per una volta, sarebbe stato divertente giocare alla maniaca compulsiva dello shopping. Pochi minuti e Didi ricomparve parlando in modo concitato al cellulare – forse con un’altra personal client? –, cosa che non le impedì di spalancare la tenda del camerino e mostrarla al resto del mondo nella sua quasi totale nudità. En plain air… Perdincibacco! Un’occhiata fuori dal camerino e Piera fu certa che il resto del mondo la stesse osservando e che, in particolare, un tipo con una polo azzurra e un telefono schiacciato contro l’orecchio si fosse immobilizzato per godersi lo show. Non solo. Le parve anche che quel pervertito, mentre lei lottava con le tende del
camerino per richiuderle, stesse ora sorridendo sinistramente. Be’,porca pupazza, che sorridesse pure, il sipario si stava per chiudere, fine della commedia. Fu a quel punto che si accorse di Didi, che la fissava sorpresa. «Prof, te l’ha mai detto nessuno che hai un corpo fantastico? Perché ti camuffi sempre da zitella? Vedrai con questo addosso che figurone farai!» «Io non mi camuffo affatto da zitella, Diamante!» protestò Piera spazientita. «È che a scuola ci si deve vestire in modo appropriato, serio…» La piccola scosse la testa, sbuffando. «Serio? Noioso, direi, e per nulla sexy!» Che la piccola personal shopper avesse parlato con sua madre? Piera alzò gli occhi al cielo e le prese di mano il bottino del blitz: un abito più rosso del fuoco e un paio di sandali di vernice dello stesso colore, dal tacco impossibile. Rosso? Io non indosso mai nulla di rosso... «Vedo che mi hai portato una cosina per tutti i giorni» disse Piera ironica, ma Didi con un cenno della mano la zittì e riprese a parlare al cellulare. Sei già qui?furono le uniche parole che Piera captò, senza peraltro capire il dove, il come e il perché di quella domanda. Con un sospiro estromesse la ragazzina dal camerino e cominciò le grandi manovre per infilarsi l’abito di chiffon. Morbido, rosso e provocante. Identico a quello indossato da Marilyn inQuando la moglie è in vacanza, nella famosa scena in cui la gonna si solleva al passaggio della metro. Oddio, che follia di abito! Folle e bellissimo. Un po’ emozionata, si tolse il reggiseno e sistemò la scollatura, cercando di chiudere la lampo senza peraltro riuscirci completamente. Si infilò i sandali tacco 12 e si rimirò allo specchio. Chi era quello schianto di donna? Be’, sapeva benissimo che non lo avrebbe mai comprato, ma – perdincibacco! – le stava una meraviglia. Sottolineava le spalle, completamente nude, il seno, se non nudo poco coperto, la vita sottile e un paio di belle gambe che era solita mortificare dentro a un paio di jeans.
Divertita da quella versione sexy di se stessa, si sistemò i capelli in modo che le ricadessero su una sola spalla e con una pirouette fece ruotare la gonna plissettata come la corolla di un fiore. Con un risolino da teenager che la fece sentire davvero stupida, aprì la tenda e l’espressione estasiata di Didi quando la vide la illuminò come un caldo raggio di sole. «Sei bellissima, prof! Lo sapevo che questo vestito era perfetto per te.» «Grazie tesoro, devo dire che hai proprio ragione. Ora tirami su la lampo, per piacere.» Piera si girò di spalle e sentì un paio di mani sfiorarle la schiena nuda prima di posarsi sulla zip. Qualcosa non tornava. A incominciare dal brivido che le aveva attraversato il corpo da nord a sud a causa di quelle mani. Troppo grandi, troppo forti, troppo sicure per essere quelle della ragazzina. Stava ancora cercando una spiegazione che collegasse il brivido alle mani sconosciute, quando qualcosa accadde. Sternutì. Una, due, tre volte. Perdindirindina! Con una sensazione di crescente imbarazzo, ruotò su se stessa sino a quando il suo sguardo non si fermò in un paio di occhi scuri e divertiti, quelli del legittimo proprietario delle mani troppo tutto. Davanti a lei non c’era Didi, ma suo zio, Mr Blackberry, in Levi’s, polo azzurra e Timberland. Per non parlare degli occhi e del sorriso, tra il sorpreso e il divertito. Da toglierle il fiato. Polo azzurra? Un altro sternuto. «Professoressa... Sta bene? Dio, sono mortificato! Il dopobarba…» Piera fece un passo indietro e alzò una mano, come per tenerlo a distanza di sicurezza. «Sono io a essere mortificata…»
Ecciù! Lui fece un passo verso di lei, lei indietreggiò. «Starò bene, almeno sino a quando avrà la cortesia di rimanermi lontano.» «Se mi lavassi la faccia, professoressa Aliberti, andrebbe meglio?» Lei emise un gemito impaziente. «Al-do-bran-di» riuscì appena a scandire, mentre una paresi fulminante sembrava averla colpita. Nonostante volesse rinchiudersi nel camerino e non emergerne mai più, era come inchiodata al pavimento, trafitta da un presentimento. Che lui volesse lavarsi il volto per evitarle uno shock anafilattico era una proposta gentile, ma aveva forse intenzione di restare con lei e Didi per tutta la giornata? Il solo pensiero le provocò la solita sensazione di inadeguatezza che l’assaliva alla presenza di un uomo che le faceva battere il cuore a ritmo di rock & roll e non di minuetto. Si asciugò gli occhi che, tanto per rendere la sua situazione ancora più penosa, avevano cominciato a lacrimare (ma il mascara di Ivan il Terribile teneva!), e accettò il fazzoletto che lui le porgeva con un gesto galante che la fece pensare a Cary Grant. «Grazie» sussurrò prendendolo. Cielo! In un mondo dominato dall’usa e getta, De Braud usava ancora fazzoletti di cotone con tanto di cifre ricamate in un angolo! Forse aveva iniziali su tutta la biancheria, come un gentiluomo d’altri tempi? Si tamponò con delicatezza le guance per non rovinare l’opera del divino Ivan. Poi, non sapendo bene cosa farne, strinse il fazzoletto in un pugno e pronunciò la più banale delle frasi: «Glielo lavo e poi glielo restituisco». Lui sorrise, glielo prese di mano e, fissandola negli occhi, le asciugò un’altra lacrima, con delicatezza, con attenzione, standole il più lontano possibile. Come avrebbe fatto Cary Grant con Katherine Hepburn. «Detesto far piangere una donna» disse porgendoglielo di nuovo. Era chiaro a entrambi che in quel momento a nessuno dei due importasse un’acca del fazzoletto. E poi lui non smetteva di avere quello strano stupore negli occhi che le faceva crescere le palpitazioni come se avesse corso i 400 a ostacoli, anche senza gli
ostacoli. Era il momento di ritirarsi, prima di commettere o dire qualche sciocchezza. Così arretrò di un paio di passi, facendo ondeggiare la gonna plissettata di quel fantastico abito rosso e lasciando abbastanza spazio tra lei e Mr Blackberry affinché Didi potesse piazzarsi tra loro e reclamare l’attenzione dello zio. «Tonton?» disse guardandolo dal basso in alto. «Mi devi proprio chiamare tonton?» le chiese lui alzando un sopracciglio. «Preferisci la traduzione italiana, zietto?» «Zietto è orribile, anche tonton lo è, ma forse un po’ meno.» «Hai visto, zio Jean, come sta bene la prof con quel vestito addosso? L’ho scelto io per lei! Da grande voglio fare la personal shopper, te l’ho già detto?» «Veramente è la prima volta che te lo sento dire, ma da quel che vedo hai davvero della stoffa, Didi, e non è solo un gioco di parole. La professoressa Ali… Aldobrandi in rosso è davvero ravissante!» sentenziò, accarezzando ancora una volta Didi con lo sguardo, dalla testa ai piedi e ritorno. «Ravissante? Io? Non credo che quell’aggettivo mi descriva, signor De Braud» rispose lei scuotendo il capo e asciugandosi un’altra lacrima, rabbrividendo al ricordo di come lui l’avesse vista con la sola biancheria addosso. «Le assicuro che se al colloquio a scuola avesse indossato quest’abito, non l’avrei scambiata per una ragazzina di terza media!» A quel punto, il colore del volto di Piera si era fatto identico a quello dell’abito. «Se al colloquio avessi indossato questo abito, sarei stata probabilmente licenziata il giorno stesso, o internata alla neuro, signor De Braud» ribatté senza esitare. «Forse, ma ne sarebbe valsa la pena.» «Davvero? Non certo per me.» Lui sorrise ancora. «Forse non per lei» mormorò, senza concludere la frase. Lei rimase a fissarlo con la stessa espressione di una trota appena tirata fuori dal congelatore.
Aveva bisogno di sedersi. Subito, prima di afflosciarsi di fronte a quell’uomo come un soufflé venuto male e ricominciare a sternutire. Senza dire un’altra parola, rientrò in camerino, ruotò su se stessa e di scatto chiuse la tenda. Spettacolo terminato. Poi si accasciò sul sedile. Come il suddetto soufflé. *** Jean sentì lo scriteriato impulso di seguirla all’interno del camerino. Ovviamente non lo fece, primo perché la sua perspicace nipotina lo stava fissando con occhi indagatori, secondo perché non era stato invitato a farlo. Non che il rossore della Aliberti, okay Aldobrandi, non fosse un delizioso indizio di debolezza, magari anche un tacito invito. Ma c’erano donne e donne. E la prof non era il tipo da una botta e via in un grande magazzino. Un vero peccato. Con quell’abito addosso sarebbe stato un attimo. Si passò una mano sul volto cercando di nascondere a Didi quei pensieri vietati ai minori. Certo, sarebbe stato impossibile togliersi dalla mente l’immagine della prof in mutandine e reggiseno che lottava con le tende del camerino: una scena sexy come il peccato, ma allo stesso tempo talmente comica che non sapeva se esserne più eccitato o divertito. Notò lo sguardo di Didi, quello pericoloso, quello indagatore che conosceva bene. «Allora, principessa, cosa vorresti fare oggi? Sono a tua totale disposizione!» «Vuoi dire dopo aver acquistato questi?» gli chiese la ragazzina, indicando la sua strabordante wishing list. Lui corrugò la fronte. «Puoi prendere due cose, principessa, non tutta quella roba, okay?» A tutto c’era un limite, anche ai vizi di quella ragazzina. «Facciamo tre ed è fatta» gli rispose lei con aria manageriale, tendendogli la mano e aggiungendo: deal, affare fatto, come diceva sempre lui. Diavolo, la piccola sapeva come prenderlo per il naso! Scoppiò a ridere e, stringendole la mano, ripeté: «Deal!»
Poi la tenda del camerino si aprì e il riso gli morì sulle labbra quando vide Piera uscirne con un vestitino grigio come l’asfalto e una corolla di farfalle intorno al collo. Non perché l’effetto Marilyn fosse svanito insieme all’abito, come succede nei film. Era vestita in modo talmente semplice e casto da ottenere l’esatto contrario. Se possibile, era ancora più sexy di prima. Forse era vero, dopotutto, che gli uomini non facevano che pensare al sesso. Quante volte ci aveva già pensato da quando quella mattina si erano incontrati? Be’, certo la visione di lei con addosso solo la biancheria intima aveva dato una certa accelerazione ai suoi pensieri… «Prof, vieni a mangiare con noi alla Bakery? Ti piace il brunch?» La domanda di Didi alla prof gli diede il tempo di tirare il fiato e di liberare la mente da immagini impossibili. «Non saprei, non credo sia il caso, Didi…» La sua nipotina era un vero genio. «A me pare invece che la nostra personal shopper abbia avuto un’ottima idea. Prof, su, non si faccia pregare.» Non se ne spiegava la ragione, ma l’idea che lei rimanesse con loro dava nuova luce a quella giornata. *** Un brunch? Aveva detto di no in tutte le salse, adducendo scuse assurde pur di non andare. Devo lavorare, vedere un’amica, dare da mangiare al gatto (gattaccio, per la verità), fare il bucato, innaffiare le piante, correggere dei compiti (a vacanze iniziate?); e a ogni scusa Didi aveva replicato con la tipica espressione a chi vuoi darla a bere, carina? stampata sul suo bel visetto. Cosa che l’aveva a dir poco seccata. Durante la contrattazione con la piccola despota, lo zio era rimasto a osservare quella singolar tenzone con aria sorniona, sino a quando, alla scusa delle piante da innaffiare, le aveva zittite entrambe. «Ho fame, signore belle, quindi decido io; per prima cosa andrò a levarmi dalla faccia ogni residuo di arma chimica, così la prof non morirà per un attacco di dopobarba, poi andremo a mangiare, e lei, prof Al… dobrandi, verrà con noi. Se no
chi la sente questa peste?» aggiunse con un sorriso sleale che Didi accolse con un sìììì vittorioso e alcuni saltelli di gioia. Lo stesso sorriso provocò in Piera un terremoto interno di magnitudo considerevole, con annessa espressione oltraggiata sul viso. Oltraggiata… Non poi così tanto, visto che dentro di sé moriva dalla voglia di stare con lui, lapsus, con loro. E, a ripensarci bene, Didi non era più una sua allieva, non ci sarebbe stato nulla di male, in fondo.… Attraversando il cortile di Palazzo Reale giunsero in pochi minuti alla Bakery, dove una cameriera li accompagnò a un tavolo nel piccolo giardino sul retro, sotto un glicine ormai senza fiori. Piera e Didi sedettero a un lato del tavolo, Jean di fronte a loro. «Che buon profumo» mormorò Piera, inalando l’odore di terra bagnata. Negli occhi di Jean De Braud passò un lampo, ma l’uomo non disse nulla, forse perché già era alle prese col telefonino, forse perché sua nipote incominciò a parlare. «Peccato che tu non abbia comprato il vestito rosso, prof, eri uno schianto, non è vero tonton?» disse la ragazzina sfogliando il menu con piglio professionale. «Sono d’accordo con te, piccola, un vero schianto» commentò De Braud con aria distratta, senza staccare gli occhi dal Blackberry. Era di lei che stavano parlando quei due? Afferrò un tovagliolino e cominciò a sventolarsi. «Non credo che avrei avuto molte occasioni di indossarlo…» rispose, fingendosi indifferente ai complimenti. Per non parlare di quanto le sarebbe costato… Un intero stipendio, o poco meno. «Un’occasione speciale si trova sempre» commentò in modo sibillino De Braud, staccando questa volta gli occhi dallo schermo del cellulare e puntandoli come due riflettori, tipo terzo grado, nei suoi. In un raro momento di sfrontatezza, Piera mantenne il contatto visivo per qualche istante, chiedendosi che accipicchia avesse voluto dirle, poi preferì tentare di concentrarsi sul menu, nonostante il suo cervello galleggiasse in una nebbia
seducente. In quella foschia, persino scegliere tra un’insalata e un sandwich sembrava una missione impossibile. Mr Blackberry stava flirtando? Con lei? «Credo che oggi farò un’eccezione alla mia tristissima dieta e prenderò delle uova alla Benedict. Voi avete già deciso?» chiese, trovando infine il coraggio di alzare gli occhi dal menu. Quelli di De Braud erano ancora fissi su di lei. «Mi pare un’ottima idea, credo che la seguirò, professoressa» disse lui. «Tu cosa vuoi, Didi?» «Un club sandwich super, di quelli a otto strati!» «Beata te che non hai problemi di linea!» commentò sovrappensiero Piera. «Da quel che ho visto prima, non mi sembra che neppure lei ne abbia» ribatté lui convinto, lo sguardo una carezza imprevista che provocò all’apparato circolatorio di Piera un’accelerazione tipo shuttle in partenza. E al suo viso un’immediata sfumatura di un bel rosso acceso. Accidenti a lui. «Se era un complimento, la ringrazio» riuscì a rispondergli come se fosse abituata a riceverne a migliaia, ma poi una cameriera arrivò con tre bicchieroni di acqua gelata e una caraffa di succo di frutta e lei ne approfittò per nascondersi dietro al menu.
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