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AMarchitetti Iscritta con l’autorizzazione del Tribunale di Bologna al numero 8079 del 7 maggio 2010

Direttore Editoriale Cesare Ricciuti

La Ditta ALBAFER S.r.l., fondata nel 2006 da persone con ultraventennale esperienza nel settore, si è già affermata come una delle maggiori aziende abruzzesi che commerciano prodotti siderurgici. Nonostante la sua recente fondazione, annovera una numerosa e qualificata clientela, alla quale offre un’ampia gamma di articoli decorativi in ferro battuto e in acciaio inox, comprendenti elementi per cancelli, porte, balconi, ringhiere per scale oltre ad una vasta gamma di prodotti riservati agli specialisti del settore.Tali articoli si distinguono per qualità e bellezza, essendo loro dedicata tutta la capacità e la passione che contraddistingue l’Azienda nello scegliere i prodotti. In un moderno capannone situato a Miglianico (Chieti), l’Azienda opera in un ambiente giovane e dinamico, così da poter offrire ai propri clienti un servizio rapido unitamente a prezzi vantaggiosi.Tutto questo grazie anche a costanti studi di mercato volti alla ricerca del prodotto migliore tenendo sempre d’occhio il rapporto qualità prezzo.

Direttore Responsabile Maurizio Costanzo Caporedattore Iole Costanzo Coordinamento di Redazione Cristiana Zappoli Art Director Laura Lebro Direttore Marketing Mario Pompilio Redazione Lorenzo Berardi, Mercedes Caleffi, Biagio Costanzo, Antonello De Marchi, Enrico Guerra, Angela Mascara, Marcello Rossi, Alessandro Rubi, Carlo Salvini, Federica Setti, Paolo Simonetto, Mercedes Vescio, Gianfranco Virardi Hanno collaborato Manuela Garbarino, Marilena Giarmanà, Emilia Milazzo, Marco Zappia Stampa Cantelli Rotoweb - Castel Maggiore (Bo) www.cantelli.net

Per la pubblicità su AM architetti RDM di Mario Pompilio Via S.Cresimata, 1 - 65012 Cepagatti (Pe) P.IVA 01616240683 Tel. 085.9152202 - 347.1614708

Federazione Ordini degli Architetti di Abruzzo e Molise c/o Ordine degli Architetti di Pescara Piazza Garibaldi, 42 - 65127 Pescara - Tel. 085.690530

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Dal 1995 la DGL COSTRUZIONI di DI GIORGIO LORENZO è iscritta regolarmente all’Albo delle Imprese Artigiane della Provincia di Pescara, con il n° 29582. L’impresa è specializzata nella realizzazione di fabbricati pubblici e privati, restauri, consolidamenti e perfori, ecc... La DGL COSTRUZIONI di DI GIORGIO LORENZO ha conseguito la certificazione di qualità aziendale secondo lo standard internazionale ISO 9001:2000 dall’Ente Certificatore ISE.CERT. Ha inoltre ottenuto da parte dell’Organismo di Attestazione ITALSOA S.p.A. l’autorizzazione all’esecuzione dei lavori pubblici SOA, OG1 – CLASSE IV.

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sommario 24

Intervista Massimo Gallione Giandomenico Amendola

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Tracce Libri, novitĂ , prodotti, notizie dal mondo

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Progettare Un padiglione tra cielo e mare

p.48

A Torino riparte la nuova stazione p.56 Luci e colori nel parco

p.66

Geometria monumentale

p.72

Una scatola fatta ad arte

p.80


88

History Un archivio dedicato a Sacchi

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Design Nina Bruun, Bacsac, Florian Gross, Natanel Gluska

101

Appuntamenti Architetture e design da vedere

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AM architetti - 2 Futuro sostenibile p.106 I limiti dell’architettura p.107 Ambiente e territorio p.108 Design Museum p.112 Progetto Feltrinelli per Porta Volta p.113 Blob VB3 p.114 Ponte pedonale p.115 Chu Hai College p.116 Bastard-store p.117 Fincube p.118



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AM editoriale

UNO STRUMENTO PER RIFLETTERE di Cesare Ricciuti

Nel trovarmi a presentare il numero iniziale della rivista di architettura “AM ” devo innanzitutto ringraziare la Kore Edizioni per aver dato la possibilità ad un territorio come quello Abruzzese e Molisano ricco di Architetture e di Cultura, di poter avere una rivista che possa rappresentare nei prossimi anni un “luogo” dove discutere e confrontarsi sui problemi degli architetti e dell’architettura, anche alla luce del particolare momento di criticità della professione di architetto e soprattutto per quella parte di territorio così duramente segnato dal terremoto dell’anno scorso. La ri-

vista vuole e deve essere una opportunità di crescita per aprire un confronto sui temi della professione e sul futuro dell’architettura. Le intenzioni sono tante e ritengo che per far sì che diventino cose concrete sia necessaria la partecipazione attiva dei colleghi alla crescita della rivista e che la sua presenza diventi il punto di incontro di diverse voci e di differenti pensieri. Per questo mi sembra necessario chiedere a tutti quelli che fossero interessati una collaborazione fattiva e concreta per questa iniziativa editoriale del nostro territorio.

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AM intervista

È GIUNTO IL MOMENTO DI ATTUARE NUOVE RIFORME Bisogna riformare subito il Codice degli appalti e avviare una riforma urbanistica condivisa da Stato e Regioni. Secondo Massimo Gallione, presidente del CNAPPC, questi sono i provvedimenti urgenti da attuare. Senza trascurare etica, innovazione e concorrenza qualitativa di Cristiana Zappoli L’attuale crisi economica presenta uno spettro d’interesse molto ampio. Si dibatte molto oggi sul tema del risparmio energetico e sulle possibili soluzioni da adottare per contravvenire a ulteriori sprechi e speculazioni. Lei, quale Presidente del CNAPPC, quali consigli si sente di dare agli architetti italiani? «Etica, formazione permanente, innovazione e concorrenza qualitativa: gli architetti possono tornare ad essere forza trainante e autentica classe dirigente del paese. Certo sono necessarie non poche riforme legislative quali quelle in materia urbanistica, sulla semplificazione responsabile, dei LLPP, delle professioni per ampliare ed innovare il mercato, ma gli architetti e il loro sistema ordinistico devono presto attuare riforme interne: non ci possiamo permettere di perdere altri treni della storia. Questa strada l’abbiamo già intrapresa e questa strada intendiamo percorrere». È trascorso un anno dal terremoto in Abruzzo. E le valutazioni negative non si sono dovute fermare soltanto alla triste costatazione dell’applicazione di inadeguate modalità costruttive in una regione ad alto rischio sismico. Anche durante la ricostruzione è emersa una gestione molto superficiale per ciò che concerne gli appalti, e le procedure d’emergenza. Insomma un’ennesima opportunità persa per una filiera trasparente e sicura. Contro la mancanza di etica professionale, a favore degli ovvii diritti civili quali la sicurezza degli edifici, cosa resta da fare? «Due sono le riforme improcrastinabili: la prima è una snella riforma urbanistica condivisa da Stato e Regioni per aggredire il fenomeno irrisolto della sicurezza dell’abitare: troppi fabbricati in Italia sono a forte rischio sismico o in precarie situazioni idrogeologiche. Le tecniche per affrontare il problema ci sono, ma occorre liberare ampie risorse private con incentivi edilizi e fiscali ragionevoli, dare nuove normative agili, ridare qualità agli interventi urbani e architettonici, introdurre il criterio della sostituzione edilizia per comparti tramite strumenti perequativi. La seconda riforma è quella di un Codice degli appalti che ha solo dato prova di non essere adeguato agli scopi di una evoluzione trasparente e positiva di questo mercato: impedisce la qualità del lavoro nella Pubblica Amministrazione e negli studi di progettazione, impedisce l’ingresso dei giovani talenti in un settore sclerotizzato tramite la richiesta di requisiti economici esorbitanti. La politica della procedura al prezzo più basso, sia nella progettazione che nella realizzazione, non solo è risultata inefficace a contenere i costi, ma anzi ha prodotto solo cattiva qualità degli interventi, aumenti considerevoli di tempi, dei costi, del contenzioso e spesso del malaffare». Cosa ne pensa della semplificazione burocratica dovuta al Decreto Legge 25 marzo 2010, n. 40, che consente di realizzare, senza alcun titolo abilitativo, interventi edilizi di manutenzione ordinaria e straordinaria?

È il nuovo Presidente del CNAPPC, il Consiglio Nazionale degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori. Ha svolto la professione di architetto a Novara nel campo dei lavori pubblici e in quello privato, principalmente nel settore dell'architettura civile e industriale. È stato Presidente dell'Ordine degli Architetti della Provincia di Novara e Presidente della Federazione degli Ordini degli Architetti del Piemonte e Valle d'Aosta Massimo Gallione


«Affronta un problema reale, quello della semplificazione, ma con modalità potenzialmente pericolose; mentre siamo d’accordo sulla eliminazione dei titoli abilitativi per alcune tipologie di intervento edilizio, queste comunque dovrebbero essere sempre attuate mediante il progetto e la direzione di professionisti. Demolire strutture portanti interne o modificare impianti sono operazioni delicate che necessitano di competenze professionali adeguate. La politica del “fai da te”, in un settore difficile come quello edilizio, è purtroppo un disastro annunciato che non faticherà molto a realizzarsi». La semplificazione per gli interventi sugli immobili purtroppo vanifica anche l'obbligo della presentazione del documento che attesti la regolarità contributiva di chi svolge i lavori (Durc). Non ci sarà ancor più da temere per ciò che riguarda la sicurezza nei cantieri? «La sicurezza dei cantieri è uno dei problemi principali dell’edilizia nel nostro paese e se forse questo è stato affrontato in modo eccessivamente burocratico nel recente passato, tutto ciò non autorizza a rimuovere regole fondamentali. Quello che manca però è soprattutto l’aspetto dell’impegno sui controlli da parte dell’amministrazione pubblica: meno tempo da passare su carte inutili e più visite nei cantieri, questo sarebbe un passo da compiere». Per gli architetti è cominciata una dura e complessa battaglia contro l'abolizione della Dia, perché in gioco non c'è solo la riduzione delle possibilità di lavoro ma anche la sicurezza degli edifici e l’importanza del progetto. In merito come si sta muovendo il CNAPPC? «Nelle proposte di riforma prima citate abbiamo affermato il ruolo di effettiva sussidiarietà della figura dell’Architetto nei confronti della Pubblica Amministrazione, capace di fatto di alleggerire le strutture pubbliche di tutta una serie di incombenze, soprattutto nel campo dell’edilizia. Si tratta di sedersi intorno ad un tavolo e ragionare: il tema dell’abolizione dei titoli abilitativi, senza introdurre regole semplificate ma chiare, di per sé non è certamente la soluzione. Lo ripeto: non siamo contrari a semplificare, anzi! Siamo invece contrari ad uno Stato che continua a rinunciare ai suoi compiti prioritari che sono quello di programmare e di verificare. Oggi continua a farlo senza abolire grandi parti ingiustificate di burocrazia. Mantenere regole certe ed agili sarebbe il compito della burocrazia e questo, ad esempio, avviene in Germania o in Francia. La domanda retorica è: perché non in Italia?». Il Piano Casa e le restrizioni regionali. Confedilizia chiede che le Regioni siano chiamate a disciplinare i titoli abilitativi nell'ambito dei principi direttivi stabiliti dall’attuale decreto-legge. Quali conseguenze potrebbe avere questa scelta? «Di fatto questa è una politica illusoria in quanto incapace di aggredire il problema. Nel nostro Paese esistono almeno 80 milioni di vani residenziali incapaci di essere efficaci in termini strutturali sismici o di contenimento dei consumi energetici; la soluzione non può essere quella del singolo ampliamento e con durata normativa di 18 mesi. Occorrono piani urbanistici pluridecennali, interventi per comparti urbani e veri incentivi al ricorso del finanziamento privato. E tutto questo al momento ancora non c’è. Nell’augurarci che si superi la dicotomia istituzionale tra Stato e Regioni, non ci resta che avanzare proposte costruttive in ambito urbanistico, concertando, come stiamo facendo, soluzioni con l’ANCI e con l’ANCE». Il tema della casa in Italia risulta difficile da trattare. Dopo gli storici esempi degli IACP non vi sono più stati molti interventi degni di nota. Cosa ne pensa dunque delle nuove esperienze di social housing o delle cohousing? «Oltre alle già evidenziate carenze normative vi è anche il problema di una industria edilizia, produttiva e realizzativa, arretrata e ripiegata sul modello condominiale del dopoguerra e quindi capace di proporre solo la semplice struttura in CA e tamponamenti leggeri in laterizio. Innovazione in campo architettonico significa invece utilizzo di nuove tipologie, nuovi materiali, nuove metodiche costruttive, ma anche il recupero di materiali e tecniche costruttive che, grazie a secoli di esperienza, hanno, nel nostro paese, disegnato città e quartieri tra i più belli. Innovare, in questo campo, significa recuperare qualità al progetto architettonico ed urbanistico incentivando nel contempo un’industria edilizia che in questo momento soffre di una profondissima crisi economica. L’attuale forte carenza di fondi pubblici del settore edilizio non può però giustificare l’abbandono di un mercato, quello del social housing, che potrebbe rappresentare il volano di una vera riforma urbanistica, tramite anche lo strumento del Concorso di progettazione inteso soprattutto nel suo più alto valore di ricerca architettonica. Non possiamo più limitare l’intervento del pubblico solo sulle grandi infrastrutture, peraltro necessarie. Occorre ripartire fondi anche ad altre opere, altrettanto necessarie e che potrebbero essere di incentivo e di volano per interventi privati di più ampia scala». Molte realtà europee sembrano garantire maggiore continuità nella realizzazione di alloggi sociali e risultano essere interessanti esempi da studiare. Uno per tutti, le abitazioni economiche di Villaverde a Madrid, progettate dall’architetto Chipperfield nel 2005. Perché oggi l’Italia, con le sue lente e inadeguate scelte politiche, ottiene tristi e inadeguati risultati architettonici ? «Una industria edilizia ripiegata su modelli costruttivi a basso costo ma con un’alta rendita fondiaria è stato il modello costruttivo – speculativo degli ultimi sessant’anni. Il disastro urbanistico delle nostre periferie compiuto nel dopoguerra è tutto in questo assunto. Occorre pertanto che l’auspicata riforma urbanistica possa introdurre elementi di riequilibrio del mercato, quali ad esempio i modelli compensativi e provvedimenti fiscali già sperimentati con successo in qualche regione e soprattutto attuati più ampiamente in altre parti d’Europa».

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AM intervista

METTERE IN SCENA LE CITTÀ E I CITTADINI Partecipazione dei cittadini. Collaborazione tra progettisti e sociologi. Conoscenza e creatività come condizione indispensabile in architettura. Intervista a Giandomenico Amendola, professore di Sociologia Urbana all’Università di Firenze, che ci spiega, inoltre, come la progettazione sta cambiando in rapporto alla radicale trasformazione delle nostre città di Lorenzo Berardi Non ci è dato sapere quanto il barone Pierre De Coubertin si intendesse di architettura. Tuttavia, la massima che ha reso celebre il promotore dei moderni Giochi Olimpici non può accontentare i moderni architetti e urbanisti alla ricerca di un dialogo costruttivo con il pubblico dei non addetti ai lavori. Per un'architettura contemporanea fondata sulla collaborazione fra progettisti, sociologi, amministratori e cittadini, infatti, partecipare non basta, ma occorre raggiungere il successo della vivibilità. Una vittoria che è possibile conseguire non solo coinvolgendo chi non ha studiato architettura nelle diverse fasi della progettazione, ma anche attrezzandolo a comprenderle. Lo “user oriented design”, nato negli Stati Uniti negli anni ’60 ha introdotto la partecipazione della popolazione nel processo progettuale, ma in Italia questo strumento non è mai stato realmente compreso o sviluppato a dovere. «In architettura la partecipazione è ancora uno dei maggiori problemi» spiega Giandomenico Amendola, professore ordinario di Sociologia Urbana presso l'Università di Firenze. «Per un verso, fa sentire le persone protagoniste della progettazione del proprio habitat, dall'altro consegna al progettista informazioni maggiori di quante ne possa avere normalmente. Ciò che infatti distingue l'architetto odierno da quello del passato è che l'architetto del ventunesimo secolo è consapevole della possibilità di sbagliare ed è questo il fatto veramente nuovo. L'architetto oggi si deve misurare con la gente e con la propria capacità di giudizio». Un momento di confronto con i cittadini pare dunque indispensabile. In quali forme e in quali luoghi si è maggiormente evoluto questo rapporto? «Il rapporto fra architetti e cittadini è stato molto intenso soprattutto negli Stati Uniti, ma ha funzionato anche nei Paesi in via di sviluppo o in quelli di ritrovata democrazia, come il Portogallo. Negli anni Settanta e Ottanta vi è poi stata una forma ancora più estrema di questo rapporto, quella del "self made housing" o autocostruzione in voga in Egitto, in Algeria, in Messico, in Marocco e anche in Italia. Si tratta di una modalità che oggi sta tornando di moda. La partecipazione è stata molto praticata anche a livello urbanistico e, in questo senso, uno degli esempi più noti è quello di Pier Luigi Cervellati per il centro storico di Bologna. Il problema di questo approccio però è che di risultati veri, concreti ed efficaci ce ne sono stati pochi. Nel caso di Bologna si trattò di un'esperienza più politica che pratica perché al momento di passare all'interazione sul progetto vero e proprio, il cittadino si ritrovò come Renzo davanti al "latinorum" di Don Abbondio, impossibilitato a capire. A quell'epoca non si sviluppò nessuno sforzo per spiegare il progetto alla gente, ai non addetti ai lavori, in quanto vi era l'illusione ideologica che una persona potesse capire un piano regolatore dalle campiture di grande scala oppure che da una pianta potesse risalire all'immagine tridimensionale di un'abitazione. Adesso tutto questo discorso sulla partecipazione si sta riprendendo, ma ampliandolo in una direzione più attrezzata, fornendo cioè informazioni realmente utilizzabili. Questo nel campo della piccola scala e di una singola abitazione può significare assonometrie, kit di montaggio e renderizzazioni digitalizzate, mentre sui medi e grandi progetti può tradursi nel lavorare per scenari complessi. In questo modo il processo può funzionare anche se l'architetto italiano è ancora troppo spesso imbevuto di una cultura molto idealistica del progetto, come atto individuale e puntuale di sintesi creativa. Il processo ad attori multipli è un'idea che tarda a divenire realtà. Ci sono stati esperimenti, ma nulla che abbia realmente e profondamente cambiato la cultura del progettare. Sono usciti progetti con una maggiore base consensuale da parte dei cittadini. Ho descritto questo fenomeno nel mio libro “Il progettista riflessivo”». Perché questo dialogo non ha attecchito? È forse mancata la partecipazione dei cittadini?

Giandomenico Amendola Professore ordinario di Sociologia Urbana presso la Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze. Ha tenuto la stessa cattedra nella Facoltà di Architettura del Politecnico di Bari e nell’Università di Bari. Ha svolto attività di insegnamento e di ricerca in numerose università straniere tra cui il Massachusetts Institute of Technology di Cambridge, Usa. È stato Presidente dell’A.I.S. (Associazione Italiana di Sociologia)

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Foto Antonio Garbasso

Sotto: il Nuovo Villaggio Matteotti di Terni. Importante esperimento per la storia dell’architettura italiana perché si è ricorso alla metodologia partecipativa. Il progetto di Giancarlo De Carlo, prevedeva la demolizione del vecchio villaggio, la costruzione di diverse tipologie costruttive e la separazione dei movimenti automobilistici e pedonali. I lavori ebbero inizio nel 1972 e si conclusero nel 1975 lasciando incompleto il villaggio

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«Non è mancata in sé la partecipazione, quanto piuttosto una partecipazione "attrezzata". Il problema dell'architetto italiano, anche in confronto a quelli che operano oltreoceano, è che egli non sa comunicare il proprio progetto in maniera efficace. Soltanto oggi, grazie alle renderizzazioni al computer, qualcosa sta cambiando. Quando non si sa spiegare il progetto alle persone mostrando su quali aspetti esse possano realmente incidere, succede che vi è una fase di ascolto da parte dell'architetto che poi però torna nel proprio studio e lì lavora a modo suo. In Italia, inoltre, abbiamo una scarsissima conoscenza della domanda sociale sia delle città che delle abitazioni. Non c'è nulla di paragonabile alle ricerche periodiche condotte nel Regno Unito e negli Stati Uniti che ogni anno rovesciano sui tavoli degli addetti ai lavori una montagna di dati utili sulla domanda di abitazione, sul tipo di fruizione e di richiesta, sull'andamento dei prezzi e così via. Da noi, invece, gli unici che dispongono di dati simili sono i singoli grandi operatori del mercato immobiliare. La popolazione è cambiata profondamente in Italia come nel resto del mondo. Di questo fenomeno si sono accorti i costruttori di auto che hanno modificato radicalmente le vetture negli ultimi dieci anni, ma non gli architetti. E le nostre case, di conseguenza, sono rimaste più o meno le stesse. Se c'è una cosa che è cambiata profondamente negli ultimi 15 anni è la famiglia, con una crescita delle single parent family, così come della domanda di abitazioni temporanee. Sono cambiate le tipologie di lavoro con l’aumento di coloro che lavorano con il proprio computer da casa e non hanno di fatto un ambiente domestico adatto ad accogliere la propria attività professionale. Vi è poi l'enorme problema degli anziani che né il nostro sistema né quello nordamericano sono in grado di accogliere al di fuori delle proprie abitazioni. Vale ancora il principio dell'aging in place, ovvero dell'invecchiare nella propria casa e sono pochissimi gli studi dedicati alle nuove tipologie abitative per la terza età. E invece oggi, ancora, si chiede ai neo architetti di studiare abitazioni monofamiliari che rappresentano un modello del passato» Allargando il campo alla collaborazione fra progettisti e sociologi, imprenditori e amministratori, vi sono in Italia validi esempi di recente storia urbana da citare? «Questa collaborazione è qualcosa di molto importante e verso cui ci si sta muovendo da tempo anche se in Italia il rapporto non è ricco di capitoli felici e importanti. Vi sono alcuni validi esempi: come il Nuovo Villaggio Matteotti realizzato a Terni da Giancarlo De Carlo fra gli anni Sessanta e Settanta. De Carlo coinvolse un'equipe di sociologi anche se il loro rapporto venne consegnato all'architetto quando i cantieri erano già aperti. Il tentativo, comunque, resta lodevole. In seguito è stato tentato qualcosa di simile nei laboratori di quartiere che si inventò Renzo Piano per lo sviluppo urbanistico a Otranto e poi a Bari e ai quali io stesso collaborai. Vi sono state singole iniziative in Italia, ma non così numerose o significative da mutare il panorama generale della progettazione». Perché in Italia c’è questa mancata interpretazione dei bisogni dei cittadini? «Prima di tutto in Italia si costruisce molto meno nuovo di prima, in quanto spesso si riutilizzano o riadattano immobili già esistenti. Inoltre costruiscono sempre di meno i soggetti istituzionali pubblici che avrebbero per loro definizione la possibilità di accumulare conoscenza di novità come si provò e si riuscì a fare negli anni Settanta. Vi è poi una sorta di inerzia del mercato immobiliare che va avanti già da diversi anni. Tutto sommato si propongono sempre e ripetutamente gli stessi modelli come la casa di 60 metri quadri, quella da 90-110 ed eccezionalmente quella dai 150 metri quadri in poi. Né bisogna dimenticare che vi è una scarsissima applicazione delle nuove tecnologie nell'abitazione che oggi si concentrano in due spazi: la cucina e il soggiorno. Una volta la cucina era il focus tecnologico dell'abitazione mentre oggi ci si concentra soprattutto sul soggiorno-sala da pranzo-salotto dotato di home theatre, televisione lcd, al plasma e così via. Per il resto, le tecnologie in casa sono scarsissime. Si sta sì cercando di introdurne alcune, ma le cosiddette smart house sono talmente poche in tutto il mondo che anche negli Usa circola la battuta che siano di più le case abitate da persone intelligenti degli edifici intelligenti costruiti». Manca la capacità di rinnovamento e creatività? «Sì, ma non si tratta solo di un problema di


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Le due immagini sopra propongono il siteplan e una vista dall’alto di Soho, il famoso quartiere di New York che, in seguito a fenomeni di centrificazione, da polo economico e industriale quale era nei primi del Novecento, è divenuto, negli anni '60, con l’arrivo degli artisti che ricavarono dai grandi capannoni dei loft, un quartiere molto trendy

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creatività individuale. Sta venendo meno la capacità di ricerca e di accumulo della conoscenza e delle informazioni. Il settore delle costruzioni risente di un processo che sta investendo tutta l'Italia: vi è scarsa ricerca, non solo tecnologica e dei materiali, ma anche delle tipologie abitative. Non a caso le tipologie più avanzate si hanno nel settore commerciale e in quello dell'edilizia sanitaria e ospedaliera. Questo avviene perché il committente è il cliente educato, colto e che sa cosa vuole. Pensiamo ai villaggi outlet diffusisi anche in Italia negli ultimi anni e che vengono progettati per l'80% da progettisti francesi, inglesi e americani, non da italiani, perché da noi esiste pochissimo know how in tal senso. In Italia il problema è acuito dal fatto che non si fa alcuna ricerca nel campo delle costruzioni. Anche in Italia si realizzano sì buoni ospedali, ma la loro caratteristica è che tutti quanti sono segnati da una richiesta ben precisa da parte del committente che sa già come li vuole. La conoscenza è sul versante del committente non su quello del progettista». Come stanno cambiando le città e, quindi, i cittadini in questo lungo e profondo periodo di crisi economica? «La logica del riuso degli spazi tocca anche le nostre città. I centri abitati italiani crescono sempre di meno per espansione e sempre più modificando gli spazi già esistenti grazie anche al fenomeno della deindustrializzazione. Una volta esistevano il Lingotto e la Bicocca dove gli operai costruivano automobili e realizzavano pneumatici, mentre oggi questi ampi spazi riutilizzati ospitano centri congressi, fiere, università, teatri e abitazioni private. Vi è poi la trasformazione del contenuto sociale dei singoli quartieri interessati da fenomeni di centrificazione o degrado. Alcuni quartieri operai storici sono diventati di moda come Brera a Milano, il Testaccio a Roma, San Frediano a Firenze e così via. Questo è avvenuto sul modello di quanto accaduto per Soho a New York, Chelsea a Londra e il Marais a Parigi. Un altro importante elemento è che la città è impegnata nella competizione urbana con altre città, il cosiddetto marketing urbano. Un esempio per tutti è quello di Venezia che quindici anni fa rifiutò l'Expo e oggi invece si candida per le Olimpiadi. Ci si è resi conto che il megaevento o meglio il media-evento è importante per le città e questa consapevolezza conduce ad altre trasformazioni urbane. La città contemporanea e quella italiana non sono poi così diverse, anche se quella italiana è assai più inerziale e restia al cambiamento, in parte per motivi di salvaguardia del tessuto storico, in parte per la lentezza dell'iter burocratico e amministrativo. La città è diventata col tempo un bene sempre più prezioso e insostituibile per i cittadini. Negli anni Settanta si diceva che la città si spegneva di notte perché i suoi abitanti restavano a casa. Oggi, invece, le persone si dividono fra il restare in casa dopo l'orario di lavoro e la voglia di uscire e di godersi la propria città anche in orario serale e notturno come dimostra la popolarità delle notti bianche. La città odierna è la prima che è realmente fondata sulla domanda dei cittadini. La città si sforza sempre di più di assecondare la domanda dei propri abitanti, mentre in passato la città seguiva una propria rotta inerziale con microadattamenti legati alle richieste dei cittadini. Un tempo erano i cittadini che dovevano adeguarsi alla città, oggi sono le città ad adeguarsi ai propri cittadini ed è questo il vero fatto rivoluzionario in quanto non è mai accaduto nulla di simile nella storia. Per questo motivo, la cultura progettuale deve ripristinare una strategia di ascolto della domanda». A tal proposito, cosa pensa delle nuove esperienze di social housing o delle cohousing in Italia? «Sul social housing stiamo ancora assistendo a dei tentativi che forniscono risposte interessanti ma parziali. In Italia esiste un grosso problema: è il Paese europeo con la massima percentuale di abitazioni di proprietà, che in alcuni casi sfiorano il 90% del totale. Siamo proprietari di case e questo crea un problema grossissimo: come si può infatti pensare di rendere fluido il mercato del lavoro italiano quando quello immobilare è rigido? Le leggi del governo sulla casa vanno nella direzione dei proprietari di abitazione, mentre oggi in Italia occorre un segmento consistente dello stock immobiliare in fitto. Un ragazzo di Cosenza, Napoli, Palermo o Bari oggi non si sposta per lavoro perché da un lato sa che sarà precario anche al Nord, dall'altro sa che guadagnando 800 euro potrebbe non trovare casa. Restando invece in Calabria, Campania, Sicilia o Puglia, guadagnerà meno, ma potrà vivere in una casa di proprietà.


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Sotto: Villaverde a Madrid, il nuovo esempio di social housing progettato da David Chipperfield nel 2005. È un intervento riuscito sia dal punto di vista sociologico che architettonico. In Italia invece questo tipo di esperienza, per diverse ragioni, sembra sia alquanto difficile da realizzare

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A Bologna o Firenze un posto letto per uno studente arriva a costare 350-400 euro netti e con questi prezzi come si può pensare di avere un mercato del lavoro flessibile? Social housing e cohousing sono dei pannicelli caldi rispetto a un problema strutturale molto più ampio, quello di non avere un'offerta di abitazione in fitto temporanea». In quest'ottica, molte città italiane si ritrovano oggi ad affrontare e risolvere il problema dell’accoglienza. Cosa può fare l’architettura per essere d’aiuto in questo processo? «Questo è un campo di competenza più dell'urbanistica che dell'architettura. In Italia il governo centrale fa leggi su come arrestare o controllare l'immigrazione, ma nella realtà il problema viene lasciato ai Comuni e agli enti locali, i quali non hanno né i mezzi, né le competenze per affrontarlo. Si discute se sia meglio la concentrazione o la dispersione degli immigrati all'interno delle città senza tenere conto che questo è qualcosa che spetta alla libertà dell'individuo e alla cultura dei singoli gruppi. Gli asiatici, ad esempio, tendono a essere più compatti, mentre gli ucraini preferiscono non riunirsi in un unico quartiere. Il rapporto fra gli immigrati e gli italiani non è l'unico problema. Alcune criticità dipendono infatti dai difficili rapporti fra i diversi gruppi di immigrati che in alcuni casi vengono messi a contatto nelle stesse aree abitative senza tenere conto di problemi religiosi o sociali presenti fra due comunità. Noi stiamo imparando solo adesso a considerare questi aspetti in quanto siamo sempre stati un paese di emigrazione e non di immigrazione. L'architettura per sua natura tende a ibridarsi. Il problema è se chi abita negli edifici riesce a influenzare positivamente il progetto. Le case di Manhattan riflettono ancora la tipologia abitativa olandese, di quella che un tempo era New Amsterdam perché si tende sempre a portare il proprio modello abitativo anche all'estero. Questo si può vedere oggi in alcune zone di Prato dove la comunità cinese ha costruito in maniera simile a quella in voga nella madrepatria. Quando i figli di questi immigrati diverranno architetti allora vi saranno degli episodi di ibridazione davvero notevoli. Tuttavia, la forma degli edifici risente di questo fenomeno solo sul lungo periodo e quella della città addirittura sul lunghissimo periodo». Quanto la buona architettura può influenzare positivamente il benessere del cittadino? «L'architetto moderno, italiano ed europeo, si fonda ancora su una sua identità di origine rinascimentale formata da tre componenti: l'architetto come artista, tecnologo e ingegnere sociale. L'architetto si è di volta in volta interpretato come l'artista che crea e disegna, come il tecnologo che innova e come colui che contribuisce, attraverso la variabile spazio costruito, al benessere della gente. Quando si progetta una scuola o un ospedale, l'obiettivo è infatti quello di realizzare un edificio in cui si insegni o si studi, si curi o si venga curati meglio e lo stesso vale per le abitazioni civili. L'architetto moderno ha sempre avuto questi obiettivi metaprogettuali anche se a volte li ha persi per strada o se li è parzialmente dimenticati. Un buon architetto ha sempre come obiettivo la felicità, la salute, la volontà di educare o di divertirsi delle persone. Il problema è che perseguire questi obiettivi metaprogettuali in una società a fortissima accelerazione è sempre più difficile. Walter Benjamin in un noto passaggio del suo saggio "L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica" ha detto che l'architettura è un'opera d'arte fruita in condizioni di distrazione. Si tratta di una frase che era molto bella, ma adatta ai tempi di Benjamin. Oggi, invece, l'architettura e la qualità della città non sono più fruite in uno stato di distrazione, ma la gente le giudica. Si fanno referendum per stabilire se una porta o un'opera d'arte sono belle o non belle, si accende un feroce dibattito a Firenze sulla loggia degli Uffizi di Isozaki, a New York si rimuove una scultura perché ai cittadini non piace e così via. Tutto questo mette l'architetto a confronto con la sua capacità di raggiungere il proprio obiettivo che è sempre metaprogettuale per definizione».





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a cura di Cristiana Zappoli

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libri, novità, prodotti, notizie dal mondo I LUOGHI Le strade dell’arte

Le Gallerie di Piedicastello - Trento sono giunte al secondo posto al concorso nazionale "Ossigeno italiano", proposto dalla rivista «Abitare». E la premiazione è avvenuta il 15 aprile scorso presso il Salone del Mobile di Milano. Le Gallerie hanno una superficie complessiva di oltre 6mila metri quadrati che è letteralmente suddivisa in due tunnel: uno bianco e l’altro nero, aventi le entrate principali a poche decine di metri dalla piazza di Piedicastello. Sono due tunnel stradali che nell’ottobre del 2007, in contemporanea all’apertura delle nuove gallerie costruite per liberare Piedicastello dal traffico della tangenziale, sono state chiuse. L’apertura, anche se provvisoria, come spazio “altro” è avvenuta il 19 agosto del 2008 con la mostra “I trentini e la Grande Guerra”. Nel 2009, dopo alcuni lavori di adeguamento strutturale, il 5 dicembre, sono state nuovamente aperte, con il progetto di diventare uno spazio permanente. Sono spazi principalmente dedicati alla storia. Non sono spazi museali, anche se Le Gallerie sono gestite dalla Fondazione

Museo storico del Trentino. Sono spazi vissuti e partecipati dove la storia del Trentino e delle sue comunità può essere raccontata e rappresentata utilizzando i più diversi linguaggi. Il progetto è promuovere la conoscenza, suscitare la curiosità e sperimentare nuovi approcci alla storia e alla memoria. Le due Gallerie hanno colori tra loro diversi e opposti. La Galleria bianca è uno spazio dedicato all’invenzione del territorio. Un modo per accostarsi al Trentino e alla sua storia. Propone sezioni destinate alla didattica, alla formazione, all’approfondimento, agli eventi temporanei e vi si può anche ammirare un grande murales dedicato all’autonomia trentina. La Galleria nera è invece uno spazio aperto al racconto soggettivo di testimoni e alla selezione di oggetti appositamente scelti per rappresentare “provvisoriamente” il Trentino. Il progetto delle Gallerie, dal 29 agosto al 21 novembre 2010, sarà presente alla seconda edizione della Biennale di Architettura di Venezia e farà parte del Padiglione Italia curato da Luca Molinari.

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I ALLESTIMENTI Un Museo per Chopin

Lo Chopin Muzeum di Varsavia, in occasione del bicentenario della nascita del compositore, ha inaugurato, il 1° marzo 2010, i nuovi allestimenti permanenti che sono stati curati dallo Studio Migliore+Servetto Architetti Associati. Il Museo è stato concepito come centro di promozione di attività artistiche ispirate all’opera e alla personalità di Fryderyk Franciszek Chopin. Una struttura in grado di avvicinare alla musica classica e alla figura del maestro un pubblico esteso e variegato. Il museo vanta una selezionata collezione, fra gli oltre 5.000 pezzi dell’archivio dell’Istituto Fryderyk Chopin, relativa all’opera e alla vita del grande compositore che è stata inserita, nel 1999, nella lista Unesco del patrimonio mondiale, proprio perché beni da tutelare e proteggere per la loro unicità e il loro eccezionale valore culturale. Lo scopo principale del progetto è trasformare la visita in un’esperienza soggettiva di conoscenza e far cambiare la percezione tradizionale del museo perché spesso è considerato una monotona istituzione educativa. «Il progetto - dichiara Ico Migliore, co-fondatore dello Studio Migliore+Servetto Architetti Associati ha favorito lo sviluppo creativo dei contenuti attraverso l’integrazione tra musica, oggetti della collezione e sistemi interattivi. Definisce un messaggio multilayer e

Sopra e sotto: due interni del Chopin Muzeum di Varsavia. In basso: la facciata principale dello storico edificio che accoglie il museo. Il visitatore può interrogare e interagire con il museo in 8 lingue e secondo 5 livelli di approfondimento

multimodale, indirizzato a pubblici diversi e permette al singolo visitatore una libertà di fruizione unica». L'allestimento, creato pensando ad un “museo aperto”, spinge il visitatore ad esplorare liberamente il percorso creativo di Chopin come uomo, come compositore e come pianista, e lascia al visitatore la possibilità di scegliere i tempi e la modalità di lettura interagendo con i vari sistemi espositivi adottati per stimolare la curiosità attraverso i sensi. L’utilizzo della tecnologia RFID, Radio Frequency Identification, permette la customizzazione dei contenuti audio-video attraverso l’interazione del visitatore nelle oltre 70 postazioni interattive. In particolare sono previsti 5 differenti livelli di approfondimento, bambini, ragazzi, adulti ed esperti disponibili in ben 8 lingue diverse.

I FONDAZIONI Ricordare Magistretti

A coronamento di un lungo, e propedeutico, lavoro di riordino e inventariazione del fondo archivistico a gennaio 2010 è stata costituita la fondazione studio-museo Vico Magistretti. Promossa e presieduta da Susanna Magistretti, figlia del progettista, insieme a La Triennale di Milano, Artemide, Cassina, De Padova, Flou, Oluce e Schiffini Mobili Cucine, la fondazione studio-museo nasce proprio nello studio di Vico Magistretti dove l’architetto lavorò sin dal 1946, affiancando il padre, anch’egli architetto. Per rendere fruibile il luogo ai visitatori e idoneo alla conservazione dei materiali, è stato realizzato un intervento di ristrutturazione, curato dall’architetto Paolo Imperatori, collaboratore negli ultimi anni dello stesso Magistretti. Tutto lo studio è stato dichiarato di particolare interesse storico dalla Sovrintendenza Archivistica della Lombardia, che intende dunque tutelare e valorizzare l’archivio e con esso il lavoro di Vico Magistretti. La fondazione studio-museo soprattutto vuole essere “un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che compie ricerche sulle testimonianze materiali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, le comunica e le espone a fini

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di studio, di educazione e di diletto”, rispettando così la definizione di museo fissata dall’International Council of Museums (ICOM). Paolo Imperatori ha anche curato il progetto di allestimento che ha convertito in museo lo spazio principale dello studio, la grande stanza di ingresso, dove è esposta una selezione degli schizzi dell’archivio. In questo ambiente si trova anche un’installazione multimediale, una sorta di regesto figurato e interattivo che percorre l’intera carriera di Magistretti attraverso gli oggetti e le architetture disegnati tra il 1946 e il 2006. La sala riunioni è rimasta in gran parte integra ad eccezione di qualche sedia in più rispetto alle originali, esposte a rotazione intorno al tavolo, e della selezione di modelli di architettura apposti alla parete, mentre la stanza dell’ufficio di Magistretti, inalterata ma vissuta, accoglie adesso le postazioni di lavoro del curatore e del conservatore della fondazione. Gli spazi sotterranei hanno completamente cambiato funzione e vi trova posto l’archivio Vico Magistretti, comA sinistra, la Sala riunioni. Dopo la ristrutturazione è rimasta integra, invece la disposizione dei modelli di architettura è cambiata. In alto a sinistra: una foto di Vico Magistretti. Sopra: parte dello studio dedicata alla Mostra sedia Selene, Artemide, 1969

posto da documenti, disegni, fotografie e modelli, messi a disposizione di studiosi, studenti e visitatori interessati all’approfondimento del lavoro di Magistretti o di alcuni dei suoi progetti. La fondazione aprirà lo studio-museo al pubblico, dal marzo 2010, dal martedì al venerdì dalle 14 alle 18 e svilupperà la propria attività su più fronti. Proseguirà l’attività di archiviazione sia del fondo che della collezione, procedendo con la catalogazione che implicherà dunque un’ulteriore fase di ricerca e di studio e approfondimento sui progetti di Vico Magistretti. E procederà anche al ricondizionamento dei documenti in contenitori a norma ISO, in modo da preservarne la conservazione. Il museo si inserisce in un ideale piano urbanistico della città di Milano come polo globale del design. Esso intende espandersi nel territorio attraverso un circuito museale urbano che includa gli edifici più significativi progettati e realizzati da Magistretti a Milano.Verrà pertanto distribuita dal museo stesso una guida con l’indicazione del percorso e le schede descrittive dei singoli edifici. Al fine di incrementare l’accessibilità e mettere a disposizione il materiale catalografico digitale, la prima iniziativa del museo sarà quella di sviluppare anche il sito internet www.vicomagistretti.it, e di curare una mostra monografica che documenti in modo completo e scientifico il lavoro di Vico Magistretti.

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I NUOVI PRODOTTI Il prato verticale

Il prato cambia prospettiva. Tecology lo porta in verticale. Realizzare pareti verticali “d’erba” richiede un lungo percorso di ricerca e di studio. L’ obiettivo è stato quello di dare una risposta ecologica per il miglioramento dell’ambiente urbano utilizzando tecnologie architettoniche che rispettassero le necessità vitali delle piante. Il sistema 6.sesto punto è semplice da installare ma estremamente evoluto e ricercato che garantisce all’erba di vivere e crescere autonomamente in una condizione inusuale, in verticale. Adotta, per la prima volta, utilizzando un sistema agronomico brevettato per impianti erbosi orizzontali, un sistema innovativo per realizzare pareti o moduli di prato verticali su supporto ventilato per applicazioni per esterni o interior design. 6.sesto punto è costituito da un pannello alveolare, studiato appositamente per le necessità botaniche delle nostre essenze erbose, in polipropilene riciclato, modulare e di piccole dimensioni (60x40x6 cm), da una sottostruttura con profili verticali in alluminio, e da un impianto di irrigazione e fertilizzazione. Il pannello arriva perfettamente inerbito in cantiere, pronto a essere installato con semplicità garantendo un immediato effetto estetico. Il peso complessivo del sistema a pieno carico è di circa 37 kg a mq. 6.sesto punto è un rivestimento di facciata ventilata con spessori ridotti (minimo 6+6 cm) e consente di gestire

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Nelle foto alcuni esempi di prato verticale. 300 mq di prato producono in un anno la quantità di ossigeno necessaria alla respirazione di due adulti. Abbattono una quantità di CO2 pari a quella prodotta da un’auto di media cilindrata che percorre 20mila km

aperture presenti in facciata ed è accoppiabile con altri materiali di comune utilizzo nei rivestimenti di facciata. La cultura del manto erboso ha origini antichissime, ma soltanto negli ultimi decenni il settore ha avuto una forte espansione soprattutto nei paesi più ricchi. Importati nel Nord America nel XIX secolo come imitazione di una moda europea, i tappeti erbosi hanno visto accrescere enormemente la loro importanza parallelamente alla espansione delle città, fino a radicarsi profondamente nella cultura statunitense. Attualmente gli USA sono il paese “leader” del settore con il più alto numero di addetti, di ricercatori, di associazioni di settore e con una superficie complessiva a tappeti erbosi prossima ai 19milioni di ettari. In Italia fino a un recente passato, la modesta qualità di tappeti erbosi era imputabile al ridotto bagaglio di conoscenze degli addetti al settore. A partire dalla metà degli anni ‘90 la cultura dei tappeti erbosi si è gradualmente diffusa nel nostro Paese, promossa anche da una specifica attività di ricerca universitaria completamente assente in precedenza. L’attuale rilevanza raggiunta dai tappeti erbosi non è dovuta soltanto alla necessità di ricreare ambienti gradevoli, ma anche ai riconosciuti effetti positivi di protezione ambientale che essi apportano soprattutto nelle aree intensamente urbanizzate. Tipologie diverse di coperture erbose si sono nel tempo differenziate, con l’attribuzione di ruoli sempre più specifici che hanno comportato un affinamento delle tecniche di coltivazione, della scelta del materiale vegetale e delle tecniche manutentive.


I PREMI Il fascino di Dura Europos

Il Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino, istituito nel 1990, giunge nel 2010 alla sua ventunesima edizione. È forse l’unico al mondo a rivolgersi a un luogo. Sceglie ogni anno un caso che contenga patrimoni di memoria e di natura di particolare densità e che si presenti come significativo per la ricerca scientifica e per la sperimentazione di metodi e strumenti dei beni culturali. Viene conferito a un luogo, deciso da una Giuria scientifica internazionale che quest’anno ha scelto Dura Europos, presso Salhiyé, sulla riva destra del corso medio dell’Eufrate, in Siria, a circa 90 chilometri sulla strada che da Dayr az-Zawr porta al ponte di Abu Kamal, odierno confine con l’Iraq. È quanto resta di una città antica, per tre lati cinta da mura e con il quarto affacciato a Oriente, sul grande fiume, da un dislivello di oltre 40 metri che rende spettacolare la leggibilità simultanea della sottostante pianura alluvionale. Scoperto “per caso” da un reparto militare nel 1920, questo sito archeologico ha richiamato l’attenzione di eminenti studiosi europei e americani e, grazie a successive fasi di indagini, ha restituito uno dei più cospicui patrimoni di memoria delle civiltà che si sono radicate nell’arco di più di cinque secoli, dalla fine del IV a.C. alla metà del III d.C., in questo territorio aperto agli scambi tra il mondo mediterraneo e quello asiatico. Il Premio in sé consiste in una “campagna di attenzioni” che contribuisca a far conoscere la geografia e la storia del luogo prescelto, le sue condizioni attuali e le questioni relative alla sua salvaguardia.

Sopra e sotto: Dura Europos, città fortificata che si affaccia sulla riva destra del corso medio dell’Eufrate. È un luogo che costituisce un nodo peculiare nella geografia e nella storia della Siria, un limite tra mondi diversi: Ellenismo, Romanità, Oriente


I PREMI Le eccellenze del real estate

Mario Bellini, Frank Gehry, Alessandro Mendini, Karim Rashid, Matteo Thun, Tom Wright: sono questi i vincitori del TrE Number One Award 2010. Il riconoscimento premia ogni anno gli esempi più mirabili di progettazione consapevole e culturalmente fondata, sia per complessi di nuova realizzazione che per il restauro di edifici esistenti o per la progettazione degli interni. L’Award vuole diventare un punto di riferimento, in ambito nazionale ed internazionale, nella celebrazione dell’eccellenza nel settore real estate turistico e si propone come vetrina per architetti e progettisti la cui creatività sappia fondere, in un nuovo modo di concepire l’ospitalità, la propensione allo sviluppo sostenibile con la ricercatezza qualitativa della progettazione, oltre che con l’idea di architettura intesa come simbolo d’identità. Il tutto nell’ottica di una migliore e sempre più funzionale compatibilità delle soluzioni per la vacanza con i nuovi stili di vita e con le diverse categorie d’utenza. I sei big dell’architettura internazionale sono stati premiati per avere disegnato altrettanti alberghi proiettati nel futuro. Mario Bellini, per l’efficienza e il rigore del design del suo T Hotel di Verona, struttura destinata a soggiorni di lavoro. Frank Gehry, che con l’Hotel Marques de Riscal a Elciego Spain, realizza un nuovo GuggenA sinistra: Hotel Semiramis di Karim Rashid. Sotto: Byblos Art Hotel Villa Amistà di Corrubio di Negarine, curato da Alessandro Mendini. Sopra: Hotel Marques de Riscal a Elciego Spain, realizzato da Frank Gehry. Nella pagina a fianco: la “Vela” di Dubai di Tom Wright

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heim Museo di Bilbao, un oggetto architettonico scultoreo che accoglie l’ospite in un mondo straordinario dove l’architettura diventa emblema del nostro periodo storico. Alessandro Mendini, che con il Byblos Art Hotel Villa Amistà di Corrubio di Negarine (VR) crea un mondo quasi fiabesco fatto di arte, design e colore. Karim Rashid, che nel suo Semiramis Hotel, trasferisce il suo mondo di “Global Love”, portando l’ospite in un luogo in cui architettura e design vivono in simbiosi. Matteo Thun, che con l’Edel Weiss Residence di Katschberg (Austria) fa rivivere, in chiave moderna, lo stile di “fine secolo”. Infine, a Tom Wright, l’archistar della “Vela” di Dubai, è stato tributato il premio TrE Number One alla carriera, per il concetto di edificio-icona che la sua opera più famosa – il Burj alArab appunto- ha introdotto nel mondo dell’architettura. Il premio, ideato dall’Architet-


to Laura Villani, ha voluto valorizzare gli interventi di progettazione turistica derivanti da una committenza consapevole e culturalmente fondata; le visioni concretizzate in realizzazioni particolarmente significative per il settore. I premi sono stati consegnati in occasione di TRE – Tourism Real Estate, la fiera internazionale dedicata all’immobiliare turistico di qualità, che si è svolta presso l’Arsenale di Venezia dal 15 al 18 aprile scorsi. La fiera è la prima expo&conference italiana dedicata agli operatori del Real Estate turistico di qualità. Con i suoi 110 espositori e gli oltre 3.200 visitatori business, la manifestazione ha infatti riunito per quattro giorni la community formata dai top players del mercato, che si sono incontrati per sviluppare nuove idee, prospettare nuove strategie, costruire e consolidare il loro network, analizzare nuove tendenze e avviare nuovi business.

Isolamenti S.r.l nasce nel 1968 per la commercializzazione di materiali per l'edilizia e prende il nome del fondatore Rinaldo Cilli. Nel 1988 viene modificata dal figlio Vincenzo specializzando l’attività nella distribuzione di materiali per l’isolamento termico, acustico, l’impermeabilizzazione e per le opere in cartongesso. Cambia anche il nome che diventa “Cillisolamenti”. Nel 2000 l'attività, che nel frattempo prende il nome di Isolamenti S.r.l., viene ampliata anche allo sviluppo di servizi ed assistenza progettuale e di cantiere. Il continuo modificarsi del mercato di materiali per l’edilizia ha portato la ditta a fornire oggi, oltre ai servizi fondamentali, anche quello della posa in opera. Il punto di forza di Isolamenti è la qualità del servizio: operazioni di magazzino rapide (carico-scarico merci), gamma di prodotti completa ed altamente specializzata, consulenza progettuale, presenza costante nel mercato e tempestività nella posa in opera dei lavori richiesti. Via Prati, 27 - 65124 PESCARA Tel. 085.4156294/414576 Fax 085.4172781 - info@isolamentisrl.it


I PREMI Karo e Snøhetta i vincitori

Il Premio Europeo per lo Spazio Urbano è un concorso biennale organizzato da sei istituzioni europee con l'obiettivo di riconoscere e incoraggiare i progetti di recupero e la difesa degli spazi pubblici nelle nostre città. Il premio, creato nel 2000, celebra quest’anno la sua sesta edizione. Considerati il riduzionismo e l’eccessiva semplificazione di alcuni dei grandi progetti urbani realizzati in Europa negli ultimi anni, e il conseguente rischio di omogeneizzazione e impoverimento del paesaggio urbano, chi ha ideato questo premio pensa che promuovere lo spazio pubblico e far conoscere le diverse funzioni che esso può abbracciare è il modo migliore per stimolare i progetti urbani che mirano a reinventare e rinforzare il ruolo strutturale che questo spazio ha sempre avuto nelle città europee. Il Premio Europeo per lo Spazio Pubblico Urbano è un'iniziativa del Centro di Cultura Contemporanea di Barcellona (CCCB). È stato istituito a seguito della mostra "La Riconquista dell’Europa", che si è svolta nella CCCB nel 1999, al fine di offrire la testimonianza al processo di riabilitazione di spazi pubblici che sono stati presenti in molte città europee. Negli ultimi dieci anni, il Premio è diventato noto in tutta Europa e ha guadagnato il sostegno delle istituzioni al punto che ora costituisce un indicatore di livello delle principali preoccupazioni e delle iniziative europee nella pianificazione urbana. Dal 2000 ad oggi diverse istituzioni hanno aderito al progetto che, attualmente, è co-organizzato dalla The Architecture Foundation (Londra), l’Architekturzentrum Wien (Vienna), la Cité de l'Architecture et du Patrimoine (Parigi) , il Nederlands Architectuurinstituut (Rotterdam) e il Museo di Architettura Finlandese (Helsinki) e il Deutsches Architekturmuseum (Francoforte). Quest’anno il premio è stato vinto dalla Open - Air - Library di Karo con Architektur+Netzwerk,

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Nelle foto i due progetti vincitori del Premio Europeo per lo Spazio Pubblico Urbano. Sopra: Open Air - Library, progettato da Karo in collaborazione con Architektur+Netzwerk. Sotto: Den Norske Opera & Ballett di Oslo, progettata dallo studio Snøhetta

costruita a Magdeburg in Germania e dalla Den Norske Opera & Ballett di Oslo, progettata dallo studio Snøhetta. Quello di Karo è un progetto di design intelligente, che si è valso del supporto e la collaborazione dei residenti locali. Open - Air - Library è un centro culturale in un ex distretto industriale di Magdeburgo, dove si possono prendere e lasciare libri 24 ore su 24. Inaugurata lo scorso giugno, mette a disposizione degli abitanti un ampio spazio verde e riutilizza la facciata di un vecchio magazzino, favorendo l'uso di risorse condivise e contribuendo alla riduzione di risorse preziose. L’altro progetto vincitore, invece, la nuova Opera House di Oslo, realizzata da Snøhetta, è una costruzione di notevole interesse per la singolarità dell’obiettivo che si pone, che è quello di cercare un punto d’interconnessione tra l’identità formale del progetto e quella del paesaggio, della natura, del luogo. L’edificio testimonia la vivacità e la complessità creativa dell’architettura contemporanea norvegese e conferma, altresì, l’interesse internazionale suscitato da alcune recenti opere del dinamico e composito gruppo di architetti che si raccolgono sotto la sigla Snøhetta.


I PREMI Per un’architettura SANAA

Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa, partner dello studio di architettura SANAA, sono stati scelti come vincitori del Premio Pritzker per l’Architettura 2010. Il premio è riconosciuto in tutto il mondo come la più importante onorificenza in campo architettonico: ai due verranno consegnati 100mila dollari e due medaglie di bronzo. Annunciando la scelta della giuria, Thomas J. Pritzker, Presidente della Fondazione Hyatt promotrice del premio, ha dichiarato: «È la terza volta nella storia di questo riconoscimento che due architetti vengono premiati nello stesso anno. La prima fu nel 1988, quando furono premiati il brasiliano Oscar Niemeyer e lo scomparso Gordon Bunshaft; la seconda è stata nel 2001, quando furono selezionati Jacques Herzog e Pierre de Meuron». Lo scopo del Premio Pritzker è quello di onorare ogni anno un architetto vivente il cui lavoro mostri una combinazione di qualità quali talento, visione e impegno, che ha prodotto significativi contributi per l'umanità e l'ambiente. Le motivazioni che hanno spinto la giuria a scegliere i due architetti giapponesi sono state esposte dal Presidente di giuria, Lord Palumbo: «Per un'architettura che è allo stesso tempo delicata e potente, precisa e fluida, geniale ma non eccessiva o eccessivamente esibizionista; per la realizzazione di edifici che interagiscono con i contesti in cui sono costruiti e con le attività in essi contenuti, creando un senso di pienezza e ricchezza esperienziale; per un singolare linguaggio architettonico che nasce da un processo di collaborazione che è al tempo stesso unico e ispirato; per la realizzazione dei loro notevoli edifici e per la promessa dei nuovi progetti che faranno insieme, Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa sono i destinatari del Pritzker Architecture Prize 2010».

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quale siamo immersi. Non riusciamo nemmeno a di-

La muraglia ebraica L’impero eisenmaniano

Renato Rizzi Mimesis Edizioni 133 pagine, costo: 14,00 euro

stinguere gli apporti e i contributi diversi prove-

nienti da altri saperi, benché questi appartengano

ad uno stesso orizzonte: il

pensiero occidentale. L’ar-

chitettura contemporanea galleggia sopra questo in-

credibile abisso scavato proprio dalla nostra duplice inconsapevolezza. Cercare di penetrare nella cultura

ebraica attraverso l’opera di Peter Eisenman per comprendere il linguaggio formale del nostro tempo, significa non solo restituire a quella cultura l’importanza e

la ricchezza di senso che le compete, ma anche scio-

gliere l’ambiguità del sapere nichilista per comprendere i valori di un’altra grande tradizione: quella greco-

cristiana, fondamento dell’architettura occidentale. A scri-

vere questo è Renato Rizzi, professore di progettazione architettonica allo IUAV - Venezia. Architetto e teorico, ha appena concluso la realizzazione della Casa

d’Arte Futurista Depero a Rovereto e attualmente è impegnato nella progettazione del Teatro Elisabettiano di

I LIBRI Il valore estetico dei fiumi

Diana Balmori Bollati Boringhieri Collana: Oltre i Giardini 204 pagine, ill. colori Costo: 35,00 euro Tra fiume e città

Danzica, Polonia. E dopo diversi studi e diverse letture sul mondo eisenmaniano afferma: «scoprire che l’inconoscibile grandiosità del pensiero eisenmaniano ci co-

stringe alla decostruzione di molti pregiudizi. Un monito per noi, una promessa per l’architettura».

I LIBRI Teorico e progettista

Storico dell'architettura, Manfredo Tafuri è, innegabilmente, un’importante figura del mondo culturale italiano. Quel mondo che si è sviluppato nel trentennio che va dagli anni ’60 ai ’90. Ha offerto lucide analisi connotate da importanti accenni politici. Il suo metodo ha segnato molti architetti italiani ed esteri e ha fatto germogliare in molti il desiderio di mettere a nudo le false certezze allora definite borghesi. Tafuri ha visto la storia come una successione di crisi, di rotture da descrivere come in un’opera mai finita. A quindici anni dalla sua scomparsa, la sua copiosa opera viene analizzata attraverso gli scritti di Marco Biraghi, Massimo Cacciari, Francesco Dal Co, Benedetto Gravagnuolo,

46 AMarchitetti

Manuela Morresi, Giulio Pane, Sandro Raffone e Fabrizio Spirito. Il volume è anche arricchito di un'aggiornata bibliografia dei testi di e su Manfredo Tafuri, curata da Federico Rosa. In aggiunta è possibile anche leggere due suoi straordinari inediti: una lettera di Manfredo Tafuri a Roberto Pane, e un’autobiografia, scritta pochi mesi prima della sua morte, che assume il valore e la forza di un lascito testamentario. Ed è proprio di sua mano in questa autobiografia che scrive: «insieme ai suoi collaboratori egli ha tentato di fondare, fra polemiche non ancora sopite, l’autonomia assoluta della storia dell’architettura dalla progettazione. Il tutto, nella coscienza di una crisi che coinvolge arte, ideologie della modernità, ideologie politiche. Il che è trasparente nei suoi successivi libri, che lo segnalano al grande pubblico, con grande successo internazionale: Teorie e storia dell’Architettura e Progetto e utopia tradotti in più lingue. L’aspetto apocalittico che i lettori più distratti hanno attribuito a tali scritti non teneva conto del grande bisogno di rinnovamento che la cultura europea sentiva in quegli anni, al di là dei dogmatismi di gruppo di partito».

Manfredo Tafuri Oltre la storia

A cura di O. Di Marino Clean Edizioni 127 pagine, costo: 15,00 euro

Diana Balmori, architetto, paesaggista e urbanista riconosciuta a livello internazionale. Membro dal 1999 della commissione per la pianificazione urbanistica della Casa Bianca, ha con questo testo affrontato un tema più che mai attuale: i fiumi e la dimenticata connessione tra questi e le città. I fiumi oramai sono stati dimenticati, isolati, tagliati fuori, ridotti a mezzo di trasporto o a cloache urbane al punto da essere divenuti quasi irriconoscibili. Diana Balmori cerca nuove forme per infrangere la netta separazione tra città e fiume e creare tra i due una zona di passaggio dinamica e fluida. I progetti descritti in questo libro, frutto del suo lavoro degli ultimi dieci anni, rappresentano la linea di congiunzione tra fiume e città. Sono interconnessioni, dissoluzioni dei limiti geografici, forme alternative a quelle del passato. Contorni sinuosi, in continua evoluzione, che riguadagnano terreno con la vegetazione e la fauna fluviale. Ma, cosa ancora più importante, ripropone l'interazione tra le persone e il fiume fondata sul rispetto reciproco e l’interagire con esso in modo propositivo. La Balmori non vuole più un paesaggio come un sorta di “quadro”, fisso e composito. Come un oggetto bidimensionale adatto alla contemplazione. Vuole un paesaggio che nasca dall’inserimento della vita urbana nei processi naturali. E ritiene l’architettura del paesaggio un’arte che, a differenza di quanto avviene con i musei, le gallerie d’arte, i teatri e le sale da concerto, deve essere rivolta all’intera cittadinanza.


I DESIGN Trasformazioni in architettura

Con la stessa logica con cui Thomas Kuhn considera le diverse fasi dell’operare scientifico, il che vuol dire prendere in considerazione la formazione, durante il processo, delle anomalie, questo libro offre un viaggio negli ultimi 90 anni della nostra storia. Dal 1919 con l’avvento della macchina fino a dopo l’orrore del World Trade Center nel 2001, l’autore registra, con sguardo puntuale, quei diversi meccanismi di trasformazione che trovano modo di esprimersi e di rendersi manifesti nell’architettura. Il libro si articola in otto grandi capitoli, secondo un’impostazione cronologica. E di ciascuna di queste fasi storiografiche Antonino Saggio, professore di Progettazione architettonica e urbana della Facoltà di Architettura L. Quaroni di Roma La Sapienza ne avvia una lettura critica che abbraccia non solo l’espressività progettuale dell’architettura e dell’urbanistica, ma anche le eventuali connessioni con l’arte, la filosofia, la politica e l’economia. Dall’età della macchina ai movimenti di avanguardia, dall’internazionalità alla multidisciplinrietà degli anni Sessanta che ha condotto lo scibile verso plurisfaccettati linguaggi e contesti fino alle attuali interconnessioni informatiche.

Antonino Saggio - Carocci - 467 pagine - costo: 43,70 euro Architettura e Modernità

I LIBRI Architetture a Roma

Uno strumento per scoprire e capire la città da una prospettiva particolare. Una lettura di Roma attraverso l’architettura. La guida è indirizzata ad un pubblico ampio e non solo agli architetti e agli specialisti perché Roma città capolavoro svela la Capitale mediante una serie di itinerari tematici che in modo intuitivo e coinvolgente incentivano a inoltrarsi e percorrere la città. Dall’antichità classica all’architettura contemporanea, dalle basiliche paleocristiane ai palazzi rinascimentali, alle chiese barocche, ai complessi razionalisti. Comunque è una guida aperta anche a ciò che può essere un giusto corredo all’architettura, ristoranti, alberghi scelti.

a cura di Mauricio Uribe Gonzalez - Prospettive Collana: Itinerari Tematici - 303 pagine - costo: 20,00 euro Roma città capolavoro - Guida architettonica


AM progettare

UN PADIGLIONE TRA CIELO E MARE Atelier Jean Nouvel / Genova

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Il padiglione centrale del quartiere fieristico di Genova progettato da Jean Nouvel. È facile scorgere il rivestimento usato per l’intradosso della copertura: pannelli di acciaio realizzati con 8 stampi dal disegno diverso che, accostati tra loro secondo orientazioni diverse, evocano l’increspatura della superficie del mare

«Un immenso specchio blu rettangolare nel quale si riflette il blu del cielo». Con queste parole Jean Nouvel ha descritto il Padiglione B della Fiera di Genova. Linee e colori perfettamente integrati con l’ambiente circostante di Iole Costanzo

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enova, il porto e i colori del mare. No, l’articolo non affronterà l’argomento delle suggestioni cromatiche tipiche della costa genovese, bensì illustrerà il padiglione centrale del quartiere fieristico progettato da Jean Nouvel. Questo tipo di edifici solitamente ha un’impostazione formale molto simile tra loro. Il nuovo Padiglione B di Piazzale Kennedy è invece visibile e riconoscibile anche dall’alto della tangenziale della città perché si stacca con decisione dall’insieme gestaltico dei diversi padiglioni della fiera. La ragione? Il blu della copertura e non solo. Nella realtà è uno specchio blu che gioca con il cielo nella parte superiore e con il mare di Genova nella parte sottostante. È un autentico dispositivo di immaterialità e luce. È un contributo, come ha dichiarato l’architetto Jean Nouvel a “l’identité génoise”. La Fiera di Genova si estende su un'area che si affaccia direttamente sul mare nelle immediate vicinanze del centro città. La superficie complessiva supera i 300mila mq e ben 100mila sono d’acqua.

G

Il quartiere si compone di quattro padiglioni (S, C, B, D), un centro congressuale, diversi manufatti di servizio e due Marine che ospitano, durante il Salone Nautico, circa 430 imbarcazioni. Il nuovo padiglione è nato per raddoppiare le superfici espositive del padiglione preesistente. Il progetto consiste in un edificio semplice: due livelli espositivi più uno intermedio a quota +9.40 slm dove si trovano i ristoranti e le sale polifunzionali. Tutti gli ambienti si affacciano sul mare sotto la prospettica visione della grande copertura che aggetta di 12m oltre il filo della banchina. Mentre il livello superiore si trova a quota +14.125 slm, quello inferiore è in continuità con la banchina stessa. L’impostazione a più livelli non ha impedito di risolvere i problemi dei flussi delle merci e dei veicoli durante le fasi di allestimento e disallestimento che si riscontrano abitualmente nei padiglioni biplanari. La soluzione adottata consiste in un sistema di rampe, vere strade di classe A, cioè con le stesse caratteristiche delle strade statali, che permette, anche ai grandi articolati, di raggiungere

In alto a sinistra: sezione trasversale di tutto il padiglione. Di fianco: visione dall’alto del padiglione nel contesto nautico tipico dell’insieme fieristico. Sopra: il padiglione in una visione più ravvicinata tra la marina e le colline genovesi


PIANTA A QUOTA 5,55M SLM

PIANTA DELLA COPERTURA

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PROSPETTO FRONTALE

PROSPETTO RETRO

SEZIONE TRASVERSALE

SEZIONE LONGITUDINALE

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In alto: la facciata si presenta molto ampia e disegnata dai soli tagli delle ampie vetrate alte 12m, con portelloni scorrevoli di 12m x 6m. In basso: l’accesso alle aree espositive avviene in maniera fluida. È possibile godere della vista dei diversi livelli dell’edificio poiché la visualità non è ostruita

AMarchitetti 53


Nella foto sopra uno scorcio del camminamento di distribuzione interna posto nella parte più retrostante del volume. Sulla sinistra si distribuiscono i locali tecnici e i servizi. Sulla destra l’ampio finestrone offre una piena visuale sull’allestimento del salone espositivo posto al piano inferiore

È nato a Fumel in Francia nel 1945. Nel 1972 si diploma alla Scuola Nazionale Superiore di Belle Arti di Parigi. Nel 1983 è nominato Dottore honoris causa dalla Università di Buenos Aires. Riceve la medaglia d’oro dell’Académie d’Architecture nel 1998. Nel 2008 viene insignito del Premio Pritzker. Jean Nouvel

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sia il livello 0.90 sia il livello +14.125m, nonché di entrare direttamente all’interno dei livelli espositivi. L’edificio è accessibile da più punti lungo i lati e il traffico veicolare e quello del pubblico sono completamente separati, il che consente di allestire o disallestire una mostra mentre ce n’è un’altra in corso senza interferenze. Il movimento veicolare avviene lungo il fronte: la rampa con una sezione stradale di 11m raggiunge la quota di 14.125 slm e continua in piano lungo tutto il fronte sud dell’edificio. L’accesso all’edificio a questa quota avviene in maniera diretta. Inoltre, la facciata vetrata, alta 12m, si apre a tutta altezza, ogni 6m, con dei grandi portelloni scorrevoli di 12m x 6m, consentendo ai veicoli di entrare all’interno dell’edificio. A questo scopo il solaio di questo livello è stato strutturalmente studiato per supportare i carichi dei mezzi pesanti ed è completamente libero da pilastri così da consentire una circolazione veicolare senza intralci. Le modalità di accesso al livello inferiore non variano e lungo il fronte ovest il terreno passa dolcemente da quota

+5.50 slm a quota +1.00 tramite una strada larga 17m che, proseguendo lungo la banchina, crea un vero e proprio boulevard in grado di ospitare attività fieristiche all’aperto. I due livelli espositivi possono essere gestiti sia in maniera combinata che separata, e possono ospitare due o più mostre contemporaneamente. Lo spazio presenta diverse altezze che variano da un minimo di 6m ad un massimo di 12m proprio perché assecondano l’inclinazione della copertura verso sud. Tutti i livelli comunicano con il mare e la marina: quello superiore e quello intermedio attraverso le terrazze all’aperto che, protette dall’aggetto della copertura, si affacciano sulla marina. Mentre il livello inferiore, prolungandosi all’esterno dell’edificio, diventa una grande piazza lungo il mare. Il solidale e continuo rapporto con il mare non è solo diretto ma anche indiretto. La copertura, infatti, rivestita internamente da un controsoffitto in lamiera inox con finitura a specchio, si comporta come un cielo artificiale. La sua funzione più specifica è quella di riflettere la luce per creare


Parte terminale del salone espositivo. La pendenza della copertura si acuisce ed è possibile scorgere la modularità dei pannelli in acciaio che rivestono l’intradosso della copertura. Il disegno a rilievo evoca l’increspatura del mare e collabora nella rifrazione della luce

un’illuminazione d’ambiente indiretta. Questa grande superficie inclinata (20.365m²) è stata realizzata con un sistema di copertura impermeabile fatto di elementi piani autoportanti in alluminio preverniciato di colore blu, a finitura lucida, fissati con aggraffatura nascosta ad una struttura di supporto sottostante. Al di sopra di questo strato è stato montato un rivestimento in vetro smaltato blu, e la scelta di questo materiale è stata dettata dalle sue prestazioni: indeformabilità, inattaccabilità dagli agenti atmosferici e facile manutenzione. I pannelli di acciaio, invece, di dimensioni 1m x 1m, sono stati realizzati con 8 stampi dal disegno diverso i quali, accostati tra di loro secondo orientazioni diverse, ricreano un disegno a rilievo che evoca l’increspatura della superficie del mare, e collaborano con il sistema di illuminazione in quanto consentono di illuminare, per riflesso, tutti i piani espostivi e, nella parte esterna e verso il mare, anche la banchina. Ritornando agli accessi, c’è da precisare che in corrispondenza di ognuno di loro si trovano le reception che, messe in stretta relazione

con il sistema di scale mobili, avviano il pubblico direttamente ai due livelli espositivi. Il foyer dunque è concepito come una spina distributiva per le diverse attività e, proprio per questo tipo di organizzazione, dagli ingressi principali si accede a un corridoio distributivo. Da qui l’accesso alle aree espositive avviene in maniera fluida ed è possibile godere della vista dei diversi livelli dell’edificio. In corrispondenza dell’arrivo delle scale mobili, sul lato opposto, lungo la facciata sud si trova un altro collegamento verticale che è stato pensato appositamente per mettere in comunicazione il livello degli spazi espositivi con quello dei ristoranti e che può essere reso indipendente dal resto dell’edificio. L’edificio, dunque, risponde pienamente alle caratteristiche funzionali richieste. Pertanto Genova può tranquillamente investire anche per il prosieguo del progetto dell’Ateliers Jean Nouvel: l’espansione del padiglione B sulle superfici dell’attuale adiacente padiglione D, per una futura superficie complessiva (B+D) di ben 30mila metri quadrati espositivi.

CREDITI

Fiera di Genova Committente

Atelier Jean Nouvel Architetti

Arup

Ingegneria

Studio d’ingegneria acustica M. Brucola Acustica

31.000 mq

Superficie utile

36.000 mq

Superficie lorda

34.000.000 euro Costo dell’opera

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AM progettare

A TORINO RIPARTE LA NUOVA STAZIONE AREP - Silvio d’Ascia - Agostino Magnaghi / Torino

Per le foto AREP / Silvio d’Ascia / Agostino Magnaghi

Assonometria prospettica. L’interramento dei binari aprirà il dialogo tra la stazione e l’intorno. La torre è parte integrante del progetto ed è destinata a servizi, uffici, alberghi, commerci

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Acciaio e cristallo sono gli elementi che caratterizzeranno la nuova stazione ferroviaria di Torino Porta Susa. Luce, aria e ventilazione naturale faranno parte del progetto. L’obiettivo principale è la produzione di energia da fonti rinnovabili ai fini di una maggiore autosufficienza dalle reti di Iole Costanzo l cantiere della nuova Stazione di Porta Susa, progettata dal gruppo francese AREP insieme a Silvio d’Ascia e ad Agostino Magnaghi, ha finalmente ripreso, con enormi ritardi rispetto al programma iniziale, la sua attività lavorativa. In questi ultimi anni, fra Torino e Salerno, sono stati realizzati quasi 1000 chilometri di rete AV/AC che hanno permesso, ai cittadini italiani, di realizzare viaggi con tempi simili alle realtà francesi e tedesche. Ma, mentre nel resto d’Europa, per molte città quali Lille, Liegi, Lione, Barcellona, Rotterdam e Saragozza la proposta progettuale di realizzare nuove stazioni AV, è stata vista come opportunità per riprogettare ampie zone cittadine, nel nostro paese il piano di sviluppo delle linee AV per stazioni quali Roma Tiburtina,

I

Napoli Afragola, Reggio Emilia AV, Bologna Centrale ha riscontrato così tante complicazioni che alcune di queste stazioni sono ancora in fase di concorso, e nessuna sarà comunque completata prima del 2012. Tra queste, Porta Susa, che perderà l’occasione mediatica di divenire il simbolo dei festeggiamenti dei 150 anni d’Italia. Comunque vada, Torino, la vecchia capitale d’Italia, polo economico del Paese, ha i suoi piani di crescita. Tra questi anche quelli urbanistici che, con i dovuti tempi, sta seguendo. E sarà la Spina 2, una delle quattro suddivisioni che guideranno la crescita della città ad accogliere, tra il grattacielo del San Paolo-Imi e la sede della Provincia, la nuova stazione di Porta Susa, la nuova porta per l’Europa, di cui Torino si doterà nonostante i continui disguidi.

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Nato a Napoli dal 1993 vive e lavora a Parigi. Ha fondato il suo studio nel 2001. Parallelamente alla sua attività napoletana, con AREP ha partecipato a più concorsi internazionali in Europa e in Cina. Compreso il Concorso ad inviti per l’area della stazione di Bologna Centrale insieme a Jean Nouvel. Silvio d’Ascia

Pertanto è sembrato opportuno approfondire l’argomento e intervistare uno degli esponenti del gruppo: l’architetto Silvio d’Ascia. Domanda. Porta Susa sarà lo scalo ferroviario più importante del capoluogo piemontese. Secondo lei quali sono gli elementi architettonici che caratterizzeranno questa nuova stazione? Risposta. «La stazione è il luogo del viaggio e del sogno. Un luogo di vita e di passaggio. Il progetto contemporaneo della stazione ferroviaria deve rispondere simultaneamente a un duplice obiettivo: a) L’intermodalità: la stazione deve trasformarsi nel XXI secolo in una moderna e complessa macchina funzionale in grado di risolvere al meglio l’obiettivo della connessione tra i diversi modi di trasporto presenti in stazione (treni ad alta velocità, treni nazionali, regionali, metropolitana, autobus, tram, auto, taxi, biciclette...). b) L’urbanità: relegata nel corso degli ultimi 50 anni a luogo della marginalità sociale e del degrado urbano, un “non luogo”, la stazione deve recuperare un ruolo attivo di spazio pubblico, integrando funzioni che la adattino alla città del XXI secolo. Vero polo di scambio contemporaneo, la galleria in acciaio e vetro lunga 385 metri (la lunghezza del TAV), larga 30 con un’altezza variabile rispetto alla quota stradale esterna, tra i 3 e i 12 metri, al colmo della copertura, caratterizza l’immagine urbana del nuovo fabbricato di Torino Porta Susa. È il progetto di un vuoto urbano, di un vero e proprio spazio pubblico, dove la stazione diviene passage, luogo di una nuova urbanità. Il progetto si pone l’obiettivo di collegare diversi livelli della città creando delle continuità di percorsi urbani. La stazione diventa percorso urbano,

aperto e permeabile tanto in longitudinale, con l’asse inclinato della grande hall/strada che collega via Cernaia a Corso Matteotti e Corso Vittorio, quanto in trasversale, con un sistema di passaggi urbani ortogonali alla Spina e a Corso Bolzano. Il volume trasparente della stazione, rivisitazione moderna della galleria urbana ottocentesca e delle grandi halles delle stazioni storiche, è attraversato in trasversale, tra la parte est e ovest, da un sistema di percorsi attrezzati che ne riducono l’impatto longitudinale trasformando la galleria in uno spazio pedonale permeabile sia a quota della strada che a quota della hall, aperta ai flussi pedonali indipendentemente dal funzionamento della stazione. La città entra in stazione e la stazione diviene città». D. Come si integra questa futura galleria di vetro con il genius loci cittadino? R. «Il riferimento diretto è quello delle grandi gallerie urbane della città ottocentesca, veri e propri salotti urbani e luoghi che la città del XX secolo ha in parte rinnegato e contraddetto. Il tentativo di riproporre per una stazione un modello tipologico “tradizionale”, anche se inequivocabilmente contemporaneo per linguaggio e forma, ha come obiettivo quello di trovare una continuità con la città storica, con il suo genius loci, con i portici della Torino ottocentesca, con l’idea dell’attraversamento urbano dei grandi assi pedonali longitudinali ritmati dalle arcate dei palazzi, con l’atmosfera magica della luce filtrata dalla copertura vetrata della Galleria Principe di Savoia in pieno centro a Torino. L’integrazione non è mimetica ma critica e concettuale. Cerca di riproporre consonanze, corrispondenze di senso e di atmosfera tra passato e futuro, tra il genius loci della città storica

A destra: due rendering illustrano la nuova galleria di acciaio e vetro nel contesto della vita cittadina. In basso: schizzo prospettico della galleria, della torre e della vecchia stazione di Porta Susa, di cui sono stati fatti molti studi di fattibilità riguardo al riuso. Il vecchio edificio appartiene al patrimonio culturale e architettonico della città



In alto: la galleria di vetro e acciaio evoca le grandi stazioni storiche e ne ripropone la sapienza bioclimatica. Il progetto prevede anche la disposizione di numerose alberature all’interno. In basso: sezione trasversale della galleria in superficie e di quella ipogea a quota treni

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e la dimensione metropolitana del vivere quotidiano. I viaggiatori entrano nelle stazioni, le attraversano, le abitano: vi giungono per prendere il treno, ma anche per trascorrervi il tempo libero. A partire da questa immagine prende forma l’idea principale del progetto della stazione AV Torino Porta Susa: trasformare la stazione in un vero spazio pubblico urbano, in un luogo della città, ponte tra passato e futuro». D. La nuova stazione dovrà comunque relazionarsi con la cosiddetta Spina 2, uno dei piani progettati dalla Gregotti Associati. Secondo lei vi sono delle connessioni tra i due progetti? R. «L’edificio della Stazione è una sorta di edificiosimbolo. Simbolo del movimento, del viaggio e della presenza del mondo dei trasporti nella città contemporanea. La Torino del futuro nasce proprio dall’idea della Spina Centrale e dall’interramento della ferrovia, per circa 12 km, che permette di ricucire la città est con quella ovest, il centro storico ottocentesco della Torino classica con la città del XX

secolo cresciuta al bordo della ferrovia, on the wrong side of the railways. Il nostro progetto interpreta il processo di trasformazione urbana operato dalla Spina e cerca di adeguarsi alla scala dell’infrastruttura. Ma l’edificio della stazione è una sorta di simulacro urbano dell’oggetto treno, scomparso dallo scenario urbano al di sotto della Spina Centrale e trasformato in objet trouvé sulla scena della città attraverso il recupero di una forma architettonica: una galleria in acciaio e vetro». D. L’Italia si sta dotando di stazioni ad alta velocità: Roma Tiburtina, Torino Porta Susa, Firenze Belfiore, Napoli Afragola. La logica delle stazioni è cambiata. Così come è cambiato l’uso degli spazi comuni. Quali sono i concept progettuali alla base dei cambiamenti? R. «Credo che il carattere comune ai vari progetti delle grandi stazioni sia proprio il progetto del vuoto. Il progetto del vuoto, nella stazione di Porta Susa, assume un evidente carattere urbano di strada pedonale. Rappresenta il filo rosso di questa nuova


generazione di stazioni ferroviarie. Si tratta di una necessaria modifica all’approccio progettuale che consiste nel riflettere e progettare non con il parametro riduttivo e non esaustivo del metro quadro di superficie utile o di SLP (superficie lorda di pavimento), ma con un’unità di misura più complessa e più completa che è il metro cubo di spazio e di vuoto che può valorizzare enormemente il metro quadro di superficie utile se ben concepito e ha e deve avere anche, un valore economico. Tale approccio va promosso e difeso, affermando senza mezzi termini che l’obiettivo unico del metro cubo di vuoto è quello di restituire alle nostre città maggiore dignità, magia, sorpresa, emozioni e qualità. I grandi progetti di opere pubbliche sono sempre stati, e devono continuare ad essere, l’occasione di rivendicazioni culturali e di principio che permettano alle nostre società di andare avanti e di migliorarsi progressivamente». D. La copertura è l’elemento che caratterizzerà, dal punto di vista tecnologico, la nuova stazione. Ci illustra come funzionerà l’intero pacchetto? R. «Nel progetto di Porta Susa, grande importanza riveste l’involucro, inteso non soltanto come protezione e separazione tra interno ed esterno, ma come pelle attiva e “intelligente”, materia porosa attraverso la quale avvengono scambi di energia tra interno ed esterno. La pelle è composta da un sistema modulare di scaglie di vetro di lunghezza di quasi 356 cm, larghezza 90 cm, distanziate tra di loro da una lama d’aria alta circa 5 cm e filtrata da un lamierino microforato anti-uccello che protegge da eventuali entrate d’acqua. La scocca in acciaio e vetro a scaglie sovrapposte è composta da lastre vetro-vetro stratificato (esterno) e indurito (interno) con celle fotovoltaiche mono-cristalline inserite all’interno dello spessore del pvb del pannello di vetro. La geometria della disposizione delle celle fotovoltaiche di forma quadrata (125 mm x 125 mm)

ad angoli smussati a 45° segue un disegno a densità variabile aumentando progressivamente dall’alto in basso lo spazio tra cella e cella, sia in orizzontale che in verticale. Infatti i pannelli con le celle di FV hanno una densità variabile dal 70% al colmo al 30% a 3 metri di altezza dalla strada, variando gradatamente dalla quasi opacità al colmo della copertura - laddove il sole batte più forte e il pannello può produrre più energia - all’assoluta trasparenza in corrispondenza del pedone per permettere una porosità visuale tra esterno e interno della stazione. Oltre a regolare l’ingresso della luce filtrandola e producendo energia elettrica per l’autoconsumo e/o per la rete pubblica, le scaglie di vetro fotovoltaico della stazione hanno un ruolo attivo nel comportamento bio-climatico interno dell’edificio. Il disegno a scaglie aperte permette, infatti, di utilizzare i naturali moti convettivi dell’aria e, sfruttando il delta termico tra l’aria fresca in arrivo (sempre dal basso dall’enorme volume interrato del passante ferroviario) e l’aria calda in naturale elevazione, di assicurare un continuo sistema di ventilazione naturale. Il riferimento in termini di comfort sono i modelli tecnologici del passato, come le già citate grandi halles delle stazioni storiche e le gallerie urbane ottocentesche. Come Porta Susa, le gallerie urbane del XIX secolo erano concepite come grandi spazi pubblici non climatizzati e funzionano tutt’ora a meraviglia sfruttando i basilari principi della bioclimatica. Come allora le griglie di areazione o i lamierini forati per il passaggio dell’aria erano celati nel gioco sapiente della decorazione e del dettaglio, anche in Porta Susa il dettaglio del principio costruttivo del sistema a scaglie funziona con semplici elementi costruttivi che rivisitano in chiave contemporanea i modelli ottocenteschi degli spazi urbani pubblici. Infatti, attingendo certezze proprio dalla cultura tecnologica del passato, contro il modello iper-climatizzato ed energivoro dell’aeroporto contemporaneo, il sistema progettato

L’involucro della galleria in superficie è inteso non soltanto come separazione tra interno ed esterno, ma anche come materia porosa attraverso la quale avvengono scambi di energia. I pannelli di copertura avranno una densità variabile dal 70% in chiave fino al 30% a 3 metri di altezza dalla strada

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Jean-Marie Duthilleul e Etienne Tricaud, architetto e ingegnere che hanno fondato nel gennaio 1997 il gruppo AREP. Lo staff consta di 240 persone (progettisti, architetti, ingegneri). AREP si è specializzato nella progettazione di spazi per il trasporto, ma anche di centri d’affari, edifici pubblici e ristrutturazioni di edifici storici Arep

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non viene applicato in sovrapposizione all’organismo architettonico, bensì integrato alla sua struttura, divenendo esso stesso struttura, pelle e immagine finale dell’edificio. Risorse naturali rinnovabili come la luce, l’aria e la ventilazione naturale sono, infatti, i materiali del progetto stesso, con l’obiettivo di una riduzione dei consumi energetici e la produzione di energia da fonti rinnovabili ai fini di una maggiore autosufficienza dalle reti». D. La capacità osmotica della copertura garantirà un ottimo ricambio d’aria. Cos’è previsto invece per il riscaldamento invernale? R. «Per il comfort invernale è stato previsto un dispositivo di pannelli radianti al pavimento, incorporato nello spessore del massetto di posa dei rivestimenti orizzontali in pietra di Luserna (previsto per l’integralità degli spazi di circolazione ai vari livelli) e in doghe di legno (per le terrazze attrezzate di copertura al livello +1) per garantire un comfort di prossimità agli utilizzatori della stazione lungo tutto gli spazi pubblici della stessa. All’interno i volumi commerciali sono invece tutti trattati con un sistema di ventilazione meccanizzata tradizionale (alimentata dall’energia prodotta dall’impianto fotovoltaico in copertura) il cui utilizzo sarà regolato da un sistema domotico di riduzione dei consumi energetici». D. Le celle fotovoltaiche doteranno l’intera stazione di autonomia energetica? R. «L’impianto fotovoltaico in progetto ha una potenza di circa 800kW di picco e sarà realizzato con 3.753 pannelli fotovoltaici per una superficie complessiva di circa 13.500 m². I pannelli sono del tipo vetro-vetro con celle quadrate di 125 mm di lato al silicio monocristallino tra lastra e lastra nello spessore del pvb: il rendimento della cella è del 18%. Il fabbisogno energetico della stazione è stato calcolato in funzione del consumo medio annuale pari a circa 1.875.000 kWh. Il consumo medio giornaliero è invece in estate pari a 5.520 kWh ed in inverno pari a 4.800 kWh. Attualmente è in corso un incontro tra RFI e l’ente responsabile della distribuzione d’elettricità urbana per valutare le migliori condizioni di utilizzo dell’energia prodotta dall’impianto fotovoltaico della stazione, che risulta essere una centrale di produzione di energia elettrica in pieno centro». D. Dalle sezioni del progetto emerge che la galleria ingloba delle alberature. Collaborano anch’esse al raffrescamento ambientale? R. «Il progetto prevede la disposizione di numerose alberature di medio fusto in vasi all’interno degli spazi di circolazione ai vari livelli dell’edificio e l’ombreggiatura che esse portano collabora con il microclima interno. È una scelta architettonica quella di introdurre la presenza della natura e della vegetazione come elemento qualificante lo spazio pubblico. Il progetto prevede anche un sistema

di raffrescamento della temperatura mediante nebulizzazione ad acqua da mettere in opera per il trattamento degli spazi di circolazione e degli spazi bar/ristorazione al di sotto della copertura vetrata». D. Si dice sia incerto il futuro del grattacielo, parte integrante del progetto. Quali novità in merito? R. «La torre, è vero, è parte integrante del progetto della stazione che si completa, appunto, con un elemento verticale, una torre di servizi destinata ad uffici, alberghi, commerci, sin dalla sua ideazione per il concorso del 2001-2002. L’idea guida è stata quella di creare un continuum spaziale capace di collegare tra loro diversi livelli urbani, dall’ultimo livello interrato della metropolitana al ristorante panoramico all’ultimo livello della torre, mediante percorsi pedonali continui. Infatti la grande galleria vetrata al livello -1 della stazione si connette direttamente alla base della torre completando in verticale l’idea del lungo percorso pubblico orizzontale. La torre è stata concepita come una sorta di strada verticale e risponde all’obiettivo di realizzare al suo interno, lungo l’intero sviluppo verticale del volume stereometrico, un insieme di spazi semi-pubblici (sale riunioni, spazi ristoro, fitness center, ristoranti e lobby panoramiche, terrazze bar...). La Torre RFI di Spina 2, alta circa 150 metri con una superficie utile di circa 50mila m², si posiziona simmetricamente rispetto all’asse centrale della Spina con la sua gemella, la torre del banco San Paolo progettata da Renzo Piano. Le due torri si definiscono come gemelle a livello di tipologia compositiva, densità volumetrica, immagine architettonica, proponendosi in “coppia” come elementi primari in grado di raccontare la loro vita di urbanità verticale nello skyline rinnovato della città. La torre del San Paolo è attualmente in cantiere e spero che quella della stazione possa rapidamente avviarsi ad una prossima realizzazione». D. Il progetto ha coinvolto la vecchia stazione di Porta Susa. Cosa ne sarà una volta dismessa? R. «Una serie di ipotesi e di studi di fattibilità sono già stati prodotti con il Professor Magnaghi del Politecnico di Torino, membro dell’ATI Progettista, riguardo al riuso della stazione storica liberata dal suo uso ferroviario. Ci si orienta comunque verso una soluzione mista che possa integrare una serie di destinazioni d’uso a carattere commerciale, culturale e di servizio del nuovo Fabbricato Viaggiatori. Il comune di Torino e RFI sono estremamente sensibili alla valorizzazione dell’edificio storico che appartiene da sempre al patrimonio architettonico della città. Niente è ancora stato deciso. Approfondimenti saranno portati avanti nei prossimi mesi, anche in funzione degli sviluppi relativi alle procedure di gara riguardanti la valorizzazione commerciale degli spazi del nuovo Fabbricato Viaggiatori e alla realizzazione, auspicabile, della torre di servizi».


Celle fotovoltaiche inserite tra due lastre di vetro con ruolo di frangisole in copertura Lastre di vetro posate con sistema a scaglie, che permette la ventilazione naturale della galleria

Lucernario che permette l’evacuazione naturale dell’aria calda per tiraggio termico dell’aria fresca dal basso

Pannelli fono-assorbenti bloccano gli effetti dell’irraggiamento solare e della copertura vetrata sugli spazi delle terrazze ristorante APPORTO SOLARE

Solai con pavimentazione a irraggiamento termico reversibile (caldo-freddo) con aria raffredata a 14°C

VENTILAZIONE NATURALE

INERZIA TERMICA

Brumizzazione o nebulizzazione d’acqua

Volume climatizzato

CREDITI Progettisti: AREP (Jean-Marie Duthilleul et Etienne Tricaud), Silvio d’Ascia e Agostino Magnaghi / Cliente: RFI (Rete Ferroviaria Italiana S.p.A.) filiale delle Ferrovie dello Stato S.p.A. / Superficie netta a piano: 30.000 mq / Locali tecnici e parcheggi: 10.000 mq / Servizi: 10.000 mq / Commercio: 6.000 mq / Ristoranti: 2.500 mq / Costi: euro 39.000.000 / Lunghezza generale della struttura: 385,20 ml / Fine lavori: 2012

1. Celle fotovoltaiche inserite tra due lastre di vetro 2. Lucernaio che permette l’evacuazione naturale dell’aria calda per tiraggio dell’aria fresca dal basso

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3. Celle fotovoltaiche inserite tra due lastre di vetro 4. Lastre di vetro posate con sistema a scaglie che permette la ventilazione naturale della galleria 5. Pannelli fono assorbenti bloccano gli effetti dell’irraggiamento solare

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In basso: elaborato grafico, profilo e pianta, che mette in evidenza la totale permeabilitĂ spaziale della struttura. Una viabilitĂ completa che coinvolge anche la verticalitĂ della torre. Il progetto interpreta il processo di trasformazione urbana operato dalla Spina

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In alto: foto aerea dell’area subito dopo i lavori di interramento dei binari ferroviari. L’ampia area sarà l’elemento di raccordo tra le due parti di città. La stazione si trasforma in un vero spazio pubblico urbano, in un luogo della città, ponte tra passato e futuro

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LUCI E COLORI NEL PARCO 5+1AA Alfonso Femia Gianluca Peluffo / Milano


In queste pagine alcune foto del parco commerciale nell'Area D4 di Assago. Ha un perimetro compatto, caratterizzato da giochi di colori e dai grandi caratteri tipografici stampati sul basamento cementizio. In basso l’area filtro di uno dei prospetti, la cui pensilina è sorretta da alti ed esili pilotis

Ampio perimetro. Forma triangolare. Aspetto avveniristico. Trasparenze e giochi cromatici. Un progetto che va oltre la tipologia architettonica del centro commerciale. Con particolare attenzione all’uso creativo dei materiali

l nuovo parco commerciale nell'Area D4 di Assago, Milano, è stato realizzato su progetto dello studio 5+1AA di Alfonso Femia e Gianluca Peluffo. L’edificio, se così si può chiamare, è di forma triangolare. Ha un perimetro ampio, compatto e continuo, variamente caratterizzato da diversi materiali, giochi di luci e colori ed è anche fortemente connotato, almeno su due lati, da caratteri tipografici stampati in negativo sul basamento cementizio. A osservarlo bene evoca un codice a barre colorato. L’intervento è guidato da alcuni principi compositivi. Primo fra tutti il tentativo di dare alla struttura una certa monumentalità. E l’escamotage trovato è proprio l’uso di alcuni caratteri che, correndo in maniera continuativa sul basamento dei due prospetti maggiori, fanno risultare il tutto ironico e contemporaneamente aulico. L’insieme presenta una frammentata volumetria che si ha modo di scoprire solo percorrendo l’interno o grazie a una visione dall’alto. La composizione dei prospetti, infatti, non solo non rende visibile le diverse volumetrie concepite per una diversificazione funzionale, ma conferisce a tutta la struttura un’unicità di linguaggio che lo rende diverso nello scontato panorama dei parchi commerciali. Trasparenze e giochi cromatici disegnano una linea di confine, un limite ora netto ora confuso, al di là del quale si celano i diversi piani della struttura. L’identità stilistica è cercata attraverso l’uso di materiali artificiali in grado di risolvere anche molti aspetti tecnici. La piattaforma fa parte di un progetto molto più ampio che coinvolge tutta l’area, contraddistinta nel PRG, con la sigla D4 e si estende tra l'autostrada MI-GE, il Naviglio Pavese, l'ex Euromercato (oggi Carrefour) e il comune di Milano, per un totale di 362.794mq. È un’area conosciuta come Milanofiori 2000 (controllata per più dell’ 80% da Brioschi Sviluppo Immobiliare e il 17,14% da Bastogi). Sono 360mila mq di terreno su cui sono previsti 218mila mq di edifici con destinazione terziaria, commerciale e residenziale, un cinema multisala, un parco

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Per le foto © Riolzi: copyright Paolo Riolzi

di Mercedes Caleffi

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Alfonso Femia e Gianluca Peluffo nel 1995 fondano lo studio 5+1 e nel 2005 creano l'agenzia di architettura 5+1AA. Tra il 1998 e il 2007 realizzano il Campus Universitario di Savona, le direzioni del Ministero dell’Interno di Roma, vincono il concorso per il Nuovo Palazzo del Cinema di Venezia e sviluppano il Master Plan per l'Expo 2015 di Milano. Nel 2009 vincono i concorsi per le riqualificazioni delle Officine Ferroviarie di Torino e del Castello Orsini di Torino 5+1AA Alfonso Femia Gianluca Peluffo

commerciale, un hotel, un residence e un centro fitness e benessere. Dettagliatamente per l’area il piano prevede 118mila mq di uffici, 15mila mq per la residenza, 7mila mq per strutture alberghiere e 20mila mq per il paracommerciale. Anche l’area prevista per i parcheggi dovrebbe essere molto ampia e aggirarsi intorno a 163mila mq. Alla base di tutto ciò vi è un Masterplan, realizzato dallo studio EEA - Erick van Egeraat Associated Architects di Rotterdam, un prestigioso studio di architetti noto per gli interventi a basso impatto ambientale. A questo punto sorge spontanea una domanda: la progettazione guidata da un Masterplan sente di far parte di un unicum o comunque ne resta completamente indipendente? «L’obiettivo di un masterplan - ci spiega l’architetto Alfonso Femia - è quello di stabilire regole e strategie compositive. Incentivare il dialogo tra le parti, ma lasciare sempre delle giuste libertà di evoluzione nelle diverse dialettiche e invarianti. Il caso di Assago è particolare. Il progetto del nuovo parco commerciale risponde, così com’era specificatamente richiesto dal committente, ad alcune criticità presenti nel sito. Il parco, nonostante fosse, rispetto a tutto il piano, l’edificio meno importante, per l’impronta che ha sull’area e per l’affaccio sulla zona di sviluppo, è diventato un importante elemento di raccordo che risponde ai diversi principi di organicità». Un’organicità nata da una serie di concetti su cui il progetto ha avuto modo di crescere e arricchirsi fino a darsi una spiccata identità volumetrica. Elenchiamone alcuni: l’attacco al suolo (l'edificio come

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unicum, prima di essere definito volumetricamente, si articola come successione di linee naturali e artificiali che si relazionano con il suolo); il perimetro (perché il progetto sceglie l'enfatizzazione dell’angolo acuto attraverso una deformazione-stratificazione del perimetro stesso); i volumi (la scelta progettuale è stata quella di appoggiare un disegno orizzontale come sovrapposizione di piani contro una possibile sequenza di volumi che difficilmente avrebbero potuto dialogare e formare un unicum); le promenades (la progettazione di un percorso che non sia soltanto area di accesso agli edifici ma un “luogo pensilina” sorretto da alti pilotis che raffigurano un peristilio continuo o una passeggiata sotto un volume che comprime lo spazio e inquadra il paesaggio dinamico e cinetico della tangenziale); il bordo (la ricerca di una "curva" di livello naturale che in maniera organica

definisca il limite del parcheggio del centro commerciale come la sovrapposizione di un sistema naturale/artificiale in grado di creare un paesaggio). Il progetto del parco commerciale è stato pensato e gestito con la piena consapevolezza di influenzare anche il modus vivendi dei futuri abitanti. E non solo. «La tipologia del centro commerciale in tutta Europa continua Alfonso Femia - presenta un’unica logica distributiva e d’immagine. È considerata un pacchetto chiuso. Una scatola preconfezionata che purtroppo risponde a una vera e propria pigrizia commerciale. Il nostro progetto invece è un pezzo urbano. Non è solo a servizio di varie correnti commerciali. Oggi, rispetto agli altri centri commerciali della zona, questo edificio sembra avveniristico e tra vent’anni non potrà che risultare comunque attuale. La nostra scelta è stata quella di rendere monumentale e diverso un modello

Nuovo parco commerciale nell'Area D4 di Assago, Milano Progetto

Viale Milano Fiori, 20090 Assago (MI) Luogo

Milanofiori 2000 srl Committente

5+1AA Alfonso Femia Gianluca Peluffo Progettisti

IQuadro ingegneria

Ingegneria strutturale

41.000 mq

Superficie lorda

30.000 mq

Superficie di vendita

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Image courtesy of 5+1AA

In alto: le planimetrie del parco commerciale. In basso visione dall’alto della struttura nella neo maglia urbana. Ăˆ un rendering che mostra come, grazie soprattutto alla sua forma triangolare, questo edificio concluda e definisca i contorni di tutta la nuova Area di progetto D4 di Assago

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In alto: visione notturna dello spazio aperto progettato all’interno del triangolo. In basso: particolare tecnologico del sistema facciate. La sezione focalizza l’attenzione sull’attacco a terra e l’attacco a cielo dei pannelli prefabbricati e stampati in policarbonato con ottimi valori di trasmittanza

tanto in uso nel mondo del commercio, e che spesso ha segnato negativamente le periferie e ci auguriamo apra nuove strade in questo campo». L’intero edificio risponde ad alcuni parametri di sostenibilità: la copertura, che assicura nel tempo un adeguato controllo della dispersione termica, e la compattezza, che ha prodotto una cospicua riduzione dello sfruttamento del suolo. Difatti il triangolo contiene la superficie necessaria a ben otto padiglioni commerciali che, così compattati, non generano spazi dispersivi come solitamente avviene in questi casi. «Ciò che è importante quando si ha questo tipo di opportunità lavorative - precisa Femia - è riuscire a trovare delle risposte che risultino adatte sia al presente che al futuro. Ed è cosa certa che un adeguato risultato non lo si ottiene con la bravura di un solo architetto. Questo tipo di approccio progettuale necessita di coralità. Di mettere in campo diverse competenze». Cromaticamente l’edificio è alquanto curato e vario. È stato studiato in modo tale che le diverse sfumature presenti, relazionandosi con la luce, rendano piacevole la fruizione del parco ai diversi clienti e agli operatori che vi lavorano. Sono pannelli prefabbricati e stampati in policarbonato che hanno ottimi valori di trasmittanza. I materiali usati non sono diversi da quelli che canonicamente si usano in queste tipologie prefabbricate. «Questo edificio - conclude Femia - è la dimostrazione che in alcune situazioni la qualità estetica dipende da come si usano determinati materiali, e non da cosa si usa».

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GEOMETRIA MONUMENTALE Mecanoo Architecten / Catalogna

La Llotja de Lleida è un’architettura che sembra emergere direttamente dalla caliente terra spagnola. Deve queste sue diverse sfumature all’intuito dei progettisti che, interpretando il paesaggio circostante, hanno usato un rivestimento di pietra dalle tinte calde e ferrose

Foto de LAFOTOGRAFICA © (www.lafotografica.com)

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Ospita congressi e rappresentazioni teatrali. È imponente nella forma e semplice nella geometria. Il nuovo edificio polifunzionale progettato dallo studio Mecanoo caratterizza tutto il territorio circostante di Iole Costanzo l 23 marzo 2010 a Lleida è stato inaugurato il centro polifunzionale La Llotja. Nel 2005 lo studio olandese Mecanoo, in collaborazione con i Labb Arquitectura di Barcellona, ha vinto il concorso internazionale indetto dalla municipalità della città di Lleida e dopo 5 anni il loro progetto è diventato realtà. La Llotja de Lleida, centro congressuale polivalente, è oggi uno dei progetti più prestigiosi presenti in Catalogna. Il potenziale di questa struttura sicuramente apporterà importanti cambiamenti nella città di Lleida che, situata fra la montagna Seu Vella e il fiume Segre, ha sempre contato, per la sua economia, sull’apporto lavorativo che un certo tipo di turismo, quello legato all’enogastronomia, alle bellezze paesaggistiche e ai monumenti storici, riesce a creare. Con La Llotja però la città diverrà anche meta culturale. Difatti la stagione teatrale ha aperto

I Nella foto in alto: il grande atrio posto a piano terra. Da qui si accede, con una morbida rampa, alle diverse sale che si trovano ai piani superiori. È trattato con materiale fonoassorbente, per poter garantire così la polifunzionalità dell’edificio

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con il “Trovatore” e le sale congressuali presentano un ricco e interessante programma. Il progetto, nella sua composizione formale, si è espressamente ispirato al genius loci e ha fatto tesoro della gamma cromatica tipica dell’intorno della città. I progettisti hanno portato avanti la scelta di porre particolare attenzione alle diverse sfumature del paesaggio e hanno usato per questo progetto un rivestimento di pietra dalle tinte calde e ferrose. La Llotja dà così la netta sensazione di emergere direttamente dalla caliente terra spagnola. Lleida è la seconda città della Catalogna, dopo Barcellona, ed è storicamente famosa per la sua cattedrale Seu Vella, una delle più belle basiliche d’Europa. Un complesso monumentale in cui lo stile arabo si è sapientemente mescolato allo stile gotico, sovrapponendosi anche al linguaggio architettonico romanico-cistercense già presente.


PIANTA PRIMO LIVELLO

PIANTA SECONDO LIVELLO

PIANTA TERZO LIVELLO

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CREDITI

Committente Municipalità di Lleida, Centre de Negocis i de Convencions S.A. Architetti Mecanoo architecten Architetti Associati LABB architectura S.L Ingegnere Strutturale ABT, BOMA Esecuzione 2006-2010 Costi di costruzione 35 milioni di euro Superficie 37.500 m² Parcheggio 9.500 m² Sale interne 1000 posti, 400 posti, 200 posti


Nella pagina a sinistra: la finestra panoramica che si affaccia sulla città e sul fiume, situata nel foyer del secondo livello. A fianco: una rampa distributiva, elemento di raccordo tra il foyer principale e le sale poste ai piani superiori. Sopra e sotto: due sezioni dell’edificio

Fondato nel 1984 a Delft è composto da uno staff di oltre 90 professionisti e comprende architetti, interior designer, urbanisti. Tra i progetti più noti vi sono la Biblioteca della Delft Technical University (1998), la Chapel St. Mary of the Angels a Rotterdam (2001), il Palazzo di Giustizia di Córdoba, Spagna (2011). Il FiftyTwoDegrees dei Mecanoo nel 2008 ha ricevuto il Dedalo Minosse per la sostenibilità Mecanoo Architecten

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Sotto: decorazione lignea su fondo nero che caratterizza l’interno della sala-teatro. Evoca gli alberi da frutto di cui è tanto ricca la regione della Catalunya. Nella pagina a destra, in alto: una visione notturna dell’edificio; in basso: la planimetria de La Llotja. L’edificio è inserito nel lotto posto tra la città e il fiume Segre

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La nuova architettura de La Llotja presenta invece un’essenzialità linguistica quasi minimalista. La struttura si sviluppa su sei piani, diversamente articolati, che con la loro composizione offrono ai fruitori tre diverse chiavi di lettura. L’edificio difatti, su scala regionale, rappresenta l’anello di congiunzione tra il fiume Segre sulle cui rive è stato proprio costruito e la centrale formazione rocciosa erosa dal vento su cui è stata costruita la cittadella che avvolge la Seu Vella. A livello della città, La Llotja e il fiume creano invece una composizione equilibrata. Emergono le sfumature cromatiche ma lo skyline non si modifica. Mentre, a livello della strada, l’ampio sbalzo che caratterizza il centro conferenze acquista tutt’altra valenza. Funge da elemento di raccordo con la città e protegge i fruitori del centro dalle

piogge e dal sole nelle diverse stagioni. La scelta progettuale di prediligere lo sviluppo orizzontale dell'edificio ha permesso anche la realizzazione di un tetto giardino. Un terrazzo, un belvedere, che offre tutt’altro punto di vista. Questa soluzione si è comunque dimostrata felice non solo per l’organizzazione degli spazi di rappresentanza ma anche, da un punto di vista funzionale, per un’adeguata risposta ai canoni di sostenibilità oramai richiesti alle neo architetture. Al di sotto dello sbalzo, al piano terra, è stata pensata una piazza, per gli eventi estivi, con un’ampia tribuna che caratterizza l’edificio degli uffici. Il parcheggio previsto, di 9.500 mq di superficie, è sotterraneo ed è direttamente collegato al foyer centrale, mentre la zona adibita a carico e scarico per gli autocarri si trova, per


esigenze funzionali, al piano terra, allo stesso livello del palcoscenico, degli spogliatoi e della cucina del ristorante, e garantisce così un’immediata sistemazione dei materiali con minore dispendio di risorse per gli spostamenti. La Llotja ha una superficie di 37.500 mq. Presenta due aule congressuali rispettivamente di 1000 e di 400 posti che hanno anche funzione di teatro. Quella più grande è corredata di una macchina scenica molto complessa e lo spazio che la contiene è stato appositamente progettato. Nella corte pensata al centro dell’edificio si erge una scala che dal livello della strada conduce alla sala polifunzionale del primo piano e al foyer del secondo, dove una vetrata panoramica offre l’affaccio sulla città e sul fiume. L'ufficio stampa, le sale VIP e il centro congressi sono situati sul lato dell’edificio che affaccia sulla città e vi si accede da un corridoio interno. I ristoranti e i bar, invece, si trovano sul lato che fronteggia il fiume e la piazza. L'edificio monolitico nella realtà è composto da diverse parti collegate tra loro dall’ampio foyer del piano terra, matericamente trattato con materiale fonoassorbente per garantire la polifunzionalità dell’edificio. Tutti i materiali adottati partecipano attivamente alla differenziazione degli spazi e all’orientamento interno. Mentre l'esterno è in pietra, l'interno si connota principalmente per le pareti bianche intonacate e i pavimenti in legno o in marmo. Per l'atrio e la sala polifunzionale è stato pensato un pavimento di marmo, mentre per il foyer un pavimento di legno formato da diverse essenze. La sala principale, il teatro, con i suoi alberi luminosi intagliati nelle pareti di legno scuro, regala la suggestione di un frutteto. La gamma di colori legati alla frutta è un tema che ricorre, anche se in piccoli dettagli. È un riferimento ai ricchi frutteti presenti sul territorio, tradizionale coltivazione della regione di Lleida.

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UNA SCATOLA FATTA AD ARTE Stanley Saitowitz, Natoma Architects / Florida

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CREDITI

Stanley Saitowitz Natoma Architects Architetti

Tampa, Florida, USA Luogo

Skanska USA Building Cliente

Wilson Miller

Ingegneria Civile

Walter P. Moore and Associates

Ingegneria Strutturale


Avvolto da una pelle metallica, il Tampa Museum of Art si presenta come un’enorme scatola dal volume semplice e lineare. Progettato da Stanley Saitowitz, l’edificio funge da collegamento tra natura e arte di Mercedes Vescio l Tampa Museum of Art è una struttura neutra, appositamente pensata per le esposizioni d'arte. Uno scrigno, jewelbox com’è stato più volte definito, pensato per contenere arte. A progettarlo è stato l'architetto di San Francisco Stanley Saitowitz che lo ha pensato come un volume semplice a sbalzo, dalle linee nette e quasi assolute, avvolte da una pelle metallica perforata. Sulla progettazione di un museo le scuole di pensiero sono tante. C’è chi crede che il contenitore debba avere altrettanta capacità espressiva quanto le opere che contiene. C’è chi urla che tutta questa teoria è solo un pretesto usato dalle archistar per mettere ancora se stesse sotto i riflettori della notorietà e chi invece afferma che nel rispetto del contenuto la cosa migliore sia progettare uno scrigno dall’aspetto neutro, che sappia accogliere le opere senza arrecarvi alcun disturbo con la propria identità. Sembra che questi siano i propositi della nuova struttura del Tampa Museum. L’edificio si presenta diviso in due volumi proprio per rispondere formalmente alle due principali funzioni da assolvere: quella privata, propria del museo e che riguarda la gestione e gli aspetti curatoriali e la parte espositiva aperta al pubblico. Questo grande volume in aggetto, rivestito di metallo, poggia su un basamento di ridotte dimensioni caratterizzato da ampie pareti di vetro che circondano gli ambienti di relazione con il pubblico: il caffè, la libreria, il foyer. E la suggestione è fatta: un volume concluso e metallico. Ma questa scelta risponde anche a un’esigenza pratica, quella di porre le opere d’arte all’altezza giusta per la tutela dalle inondazioni.

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È giusto ricordare che in questa città, tra i mesi di aprile e ottobre, si possono verificare violenti temporali accompagnati da vento forte, grandine e soprattutto fulmini. Viste le diverse escursioni termiche il rischio più concreto è quello rappresentato dagli uragani che generalmente si formano nel periodo compreso tra giugno e novembre. Ma sembra che questo escamotage compositivo sia sufficiente come risposta al problema uragani. Tutto l’edificio si affaccia sul parco circostante e sul fiume Hillsborough. Aggetta al di là del basamento di quasi 10 metri e tale peculiarità è strutturalmente garantita anche dalla trave reticolare del solaio superiore, quello di copertura, che presenta una sezione di circa 4 m. Lo sbalzo così costruito fa da ampia veranda pubblica, da filtro tra la città e gli ambienti interni, da elemento di collegamento tra la natura e l’arte. Varia sui lati e nell’insieme funge quasi da portico che fiancheggia il parco e il fiume. Le pareti trasparenti consentono al progetto di collegarsi visivamente alla Performing Art Building a nord, e alle torri e alle cupole della University of Tampa sulla parte sud. Dal punto di vista geografico bisogna ribadire che la città di Tampa si sviluppa sulla costa occidentale della Florida lungo le rive di due baie: la Baia di Hillsborough, in cui sfocia l’omonimo fiume che attraversa la città, e la Old Tampa Bay, la cui unione forma la Baia di Tampa che, a sua volta, fa parte del Golfo del Messico. L’acqua per l'appunto non manca, e il Tampa Museum vi si trova proprio nel mezzo. Come questo edificio si relaziona con l’intorno richiede un duplice chiarimento. Di giorno la luce

Sopra: un particolare dei pannelli di metallo forati con cui è stato rivestito tutto il volume aggettante dell’edificio. A sinistra: il Tampa Museum e, sullo sfondo, le Performing Art Building. In basso: la planimetria generale dell’edificio

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1 Atrio. 2 Biglietteria. 3 Store. 4 CaffĂŠ. 5 Sala conferenza. 6 Aula. 7 Bagni. 8 Cucine. 9 Deposito. 10 Locali tecnici. 11 Carico e scarico. 12 Sicurezza. 13 Galleria. 14 Terrazzo. 15 Atrio. 16 Allestimento. 17 Laboratorio. 18 Segreteria. 19 Reception. 20 Uffici. 21 Cucina. 22 Sala riunione.


Professore emerito della Facoltà d’Architettura alla Berkeley University della California. Ha insegnato alla Graduate School of Design dell’Università di Harvard, all’Università di Oklahoma, all’Istituto di Architettura del Sud della California, UCLA, all'Università del Texas, all'Università di Cornell e Syracuse. Stanley Saitowitz

riflettendo sulle superfici del museo fa sì che il museo stesso si confonda e si unifichi con il paesaggio. Ne riflette il verde, vibra e scintilla con l'acqua del mare, e avvicina con la sua riflessione tremolante le nuvole ai visitatori del museo. Di notte invece è la luce dei led, inseriti tra il rivestimento di metallo, che la fa da padrona e che, emanata dalle stesse superfici, fa percepire l’esterno come una tela illuminata. Quasi a voler emblematicamente rappresentare l'arte che dall’interno per osmosi fugge nel buio. Dentro all’edificio ciò che domina è la luce filtrata dai fori dell’alluminio. Tutto è bianco. Dalle pareti al pavimento il colore è unico e indistinguibile. Le fughe del pavimento che richiamano quelle dei pannelli illuminanti disegnano l’ambiente. Il pavimento è di cemento bianco e i pannelli sono dei semplici grigliati rivestiti di un tessuto bianco riflettente che fungono anche da elementi occultanti la distribuzione dell’aria. Il bianco viene usato più come elemento che come colore. Tutto nel pieno rispetto dei numerosi oggetti d’arte, vista la ricca collezione che appartiene al museo. L’accesso avviene dal foyer attraverso una scala mobile che conduce immediatamente al primo piano, dove sono state organizzate ben sei diverse sale espositive nella sezione dedicata al pubblico. Il piano superiore è di dimensioni più piccole perché parte di esso è occupato dalla doppia altezza delle sale espositive sottostanti. È qui che si trovano gli uffici e la sala riunioni. La storia di questo museo

è comunque alquanto travagliata. La struttura precedente del Tampa Museum era troppo piccola per la sua cospicua collezione. E le proposte di ampliamento o di delocalizzazione sono state oggetto di polemiche e discussioni per quasi dieci anni. Diverse le strategie proposte dalla città di Tampa e dal consiglio del museo. L’architetto Rafael Vinoly nel 2001 ha presentato un progetto da 76 milioni di dollari caratterizzato da un’enorme tettoia a sbalzo in metallo, ma il progetto venne bocciato sia perché il costo era troppo alto sia per la non adattabilità formale dell’edificio alle sollecitazioni degli uragani. Successivamente la città pensò di trasferire il museo in uno dei tanti edifici abbandonati o sottoutilizzati del centro. La logica era quella del riattare una struttura già esistente. E venne preso in considerazione anche un vecchio palazzo di giustizia. Ma il comitato del museo si è dimostrato poco entusiasta circa la scelta proposta e per di più la conversione del palazzo di giustizia in spazio museale si rivelò comunque alquanto costosa. La città attese alcuni anni perché il museo, situazione insolita in America, è di pertinenza del comune. Ci sono voluti altri anni di dibattiti e giochi economici e politici per giungere alla risoluzione dell’annoso problema, ma alla fine del maggio 2007 è stato approvato un bilancio che prevedeva uno stanziamento di 33 milioni di euro. Per l'appunto la somma servita per realizzare il progetto di Stanley Saitowitz.


In alto: due sezioni longitudinali. L’edificio aggetta aldilà del basamento di quasi 10 metri e questa peculiarità è strutturalmente garantita anche dalla trave reticolare del solaio superiore, quello di copertura, che presenta una sezione di circa 4 metri. In basso: una foto del Tampa Museum che si affaccia sulle acque del fiume Hillsborough


AM history


UN ARCHIVIO DEDICATO A SACCHI Modelli, disegni, fotografie e documenti per testimoniare l’attività creativa di uno dei più importanti modellisti italiani: Giovanni Sacchi. A Sesto San Giovanni un archivio a lui dedicato per ricordare le sue collaborazioni con Rossi, Nizzoli, Castiglioni, Sottsass e molti altri di Biagio Costanzo he cosa possono avere in comune una macchina da cucire e un televisore? Nulla apparentemente! Eppure un uomo, per alcuni un maestro, per altri semplicemente un artigiano, ha trovato una connessione tra i due oggetti, fatti dello stesso materiale e perciò suscettibili di modellazione. Stiamo parlando di Giovanni Sacchi, designer italiano, fecondo artista che trova spazio nuovamente in una mostra, definita storica per la portata delle sue opere, che si terrà negli spazi dell'Archivio Giovanni Sacchi dal 14 aprile al 30 giugno 2010. In questa occasione, verrà riproposta la sezione fotografica di Giovanni Sacchi & Italian Industrial Design, che si svolse originariamente presso il Seibu Departement Stores Tokyo-Shibuya, tra il 21 aprile e il 3 maggio 1983. L’Archivio Giovanni Sacchi, realizzato grazie al contributo della Fondazione Cariplo, era stato voluto in origine dal Comune di Sesto San Giovanni e dalla Fondazione Isec - Istituto di Studi del Novecento specializzato in storia e archivi del lavoro e d’impresa. In esso sono raccolti numerosi materiali, provenienti dalla bottega di Giovanni Sacchi, attiva fino al 1997 a Milano in Via Sirtori. Si tratta di modelli, prodotti, disegni, fotografie, documenti, macchinari e attrezzature, in definitiva testimonianze della creatività dell’artista. Un laboratorio di modellistica che ha rappresentato un importante punto di riferimento per molti designer e architetti. Aldo Rossi, Marcello Nizzoli, Achille Castiglioni, Ettore Sottsass e Marco Zanuso, hanno potuto sviluppare le loro idee trovando in Sacchi l’interlocutore ideale con il quale confrontarsi per tradurre tridimensionalmente idee progettuali. Un archivio che consiste in una copiosa documentazione di ben 67 modelli di architettura, 366 modelli, prototipi e pezzi in lavorazione di oggetti di design, 8mila disegni (riguardanti 1000 progetti), 110 prodotti, oltre 9mila fotografie e filmati, 250 fascicoli con documenti, senza tralasciare ovviamente una ricca biblioteca, e numerosi macchinari e attrezzature per la lavorazione meccanica e del legno. Come a volerne coniugare il virtuale con il reale, l’archivio espone

Nella pagina a sinistra: una sala espositiva dell’archivio Giovanni Sacchi, collocato all’interno del Museo dell’Industria e del Lavoro di Sesto San Giovanni. A fianco: una foto di Giovanni Sacchi, designer italiano morto nel 2005

C

artefatti e documenti rilevanti per la storia del disegno industriale e dell’architettura persino on line, ordinati e consultabili all’indirizzo www.archiviosacchi.it. Interessante il percorso didattico disegnato all’interno dell’Archivio che segue di pari passo il processo di realizzazione di un oggetto, completato da un’area attrezzata con nuovi macchinari dove sono previsti workshops di modellistica con docenti, studenti e professionisti. Nato a Sesto San Giovanni, in provincia di Milano, il 27 agosto 1913, il giovane Giovanni Sacchi, dopo una breve esperienza di fabbrica, presso la Ercole Marelli, appena dodicenne inizia un periodo di apprendistato come modellista meccanico presso la bottega Ceresa & Boretti di Milano. Poco più che ventenne, nel ’36 decide di mettersi in proprio aprendo un laboratorio per modelli meccanici. Un progetto, causa lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, destinato ad essere sospeso. Non mancano nella vita di Sacchi fervori giovanili che si tramutano in un’attiva partecipazione alla resistenza sulle montagne piemontesi, subito dopo l’armistizio del 1943. In seguito a questa sua pagina personale di partecipazione alla lotta di liberazione italiana

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ottiene il riconoscimento della Croce al Merito di Guerra. Bisognerà dunque aspettare il secondo dopoguerra perchè la sua vena artistica possa creare nuovamente. L’occasione gli viene offerta da una commessa da parte del Comando alleato che gli commissiona la progettazione e la realizzazione di alcune piccole stufe elettriche e di ferri da stiro portatili. Una svolta importante per la sua vita che gli permette finalmente di riavviare la propria attività. Le tappe che segnano la storia della sua vita, e della sua creatività sono riconducibili a pochi episodi. Certamente il primo fu l’incontro nel ’48 con Marcello Nizzoli, che lo convince a intraprendere la strada della modellistica per design e architettura, collaborando per la prima volta alla progettazione della macchina da scrivere Lexikon 80 per Olivetti. Quello stesso Nizzoli amico e collaboratore prezioso che diventerà un’interlocutore privilegiato di più generazioni di illustri designer e architetti, tra cui Franco Albini, i fratelli Achille Castiglioni e Piergiacomo Castiglioni, Marcello Nizzoli, Aldo Rossi, Ettore Sottass, Marco Zanuso, Giotto Stoppino. Il secondo episodio risale al 1951 quando acquisisce uno spazio, un vecchio laboratorio di fonderia, che sarebbe divenuta poi la bottega di Via Sirtori a Milano. In questo laboratorio si crea, si sviluppano idee che diventano prototipi per numerose aziende che hanno fatto la storia del design italiano, come Olivetti, Brionvega, Kartell, Alessi. Così come prendono vita progetti di importanti edifici come lo Stadio San Nicola di Bari di Renzo Piano o il Museo d'Orsay di Parigi su progetto di Gae Aulenti. Oppure

la realizzazione di oggetti che rappresentano la storia di un paese e forse anche di un’epoca, come la celeberrima Lettera 22 della Olivetti: la macchina da scrivere che divenne compagna inseparabile di tanti inviati speciali e non, poggiata sulle ginocchia di generazioni di giornalisti, o come la macchina da cucire Mirella di Marcello Nizzoli, il telefono Siemens Grillo, la radio TS502 e i televisori Brionvega Doney e Algol di Marco Zanuso e Richard Sapper, la serie di calcolatrici elettroniche Olivetti Logos e Divisumma, le caffettiere la Conica e la Cupola di Aldo Rossi per Alessi. I suoi modelli sono stati esposti nell’edizioni dell'Expo di Tsukuba in Giappone nel 1985 e di Siviglia nel 1992, per ben due volte all’edizioni di Exempla a Monaco di Baviera nel 1980 e nel 1992, nell’esposizioni di Brisbane in Australia nel 1988, di Parigi, Stoccarda, Nagoya e Aspen negli Stati Uniti l’anno seguente, senza tralasciare le mostre monografiche dedicate ai suoi modelli dalla Triennale di Milano nel 1983 e nel 2000. La sua attività si ferma al 1998 anno in cui gli viene conferito il premio Compasso d’oro alla carriera. Muore a Sesto San Giovanni il 25 gennaio 2005. Di lui Ettore Sottsass ha detto: «Fuori da ogni lode generica, la sua grande capacità va oltre il "fare" i modelli: è il capire gli oggetti che poi, lui, con i modelli racconta... Con Sacchi si va oltre il volume: lui fa sentire cosa succede veramente, tattilmente: produce una sensazione evoluta, tanto che un suo modello può soddisfare completamente il designer. Con un modello così, in verità, non si ha quasi più voglia di fare l'oggetto».

Sopra: esposizione all’interno dell’Archivio. Numerosi gli artefatti e i documenti a disposizione di ricercatori e studenti. È presente un'esposizione permanente dedicata all'iter progettuale di alcuni oggetti di design

1- Modello in legno di un particolare a vite continua per macchina di Leonardo da Vinci, 1983. 2 - Modello di un particolare d'angolo per la nuova sede Banca Popolare di Bergamo, 1980. 3 - Modelli in legno non verniciato di tre sedute diverse. 4 - Prototipo in legno della sedia di Anna Castelli Ferrieri per Kartell, 1970. 5 - Modelli in legno di edifici per il progetto di trasformazione dell'area Motta a Genova, Gregotti Associati, 1988-1989. 6 - Modello in legno di un pupazzo disegnato da Fortunato Depero per Campari, 1925 - 1986. 7 - Modelli in legno di sveglie da cucina di Richard Sapper per Terrailon e Ritz-Italora, 1971-1973. (Tutte le foto sono di Federico Pollini).

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AM report design

LE SUE ULTIME DUE CREAZIONI SONO ORIGINALI NELLA FORMA E SOPRATTUTTO NELL’UTILIZZO DEL MATERIALE. NINA BRUUN, GIOVANISSIMA DESIGNER, INTERPRETA LE NUOVE ISTANZE DELLA MODERNITÀ CON CALDE, SINUOSE ED EQUILIBRATE CREAZIONI In questa pagina: la designer Nina Bruun e la Nest Chair, poltrona in strisce di betulla intrecciate tra loro. Nella pagina, a fianco: la sedia Fold, rivestita con feltro di lana

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È una giovane designer danese di 26 anni. Nina Bruun ha concluso l’anno scorso gli studi alla Danish School of Design di Copenhagen, dove ha anche frequentato un master. Il suo ambito di interesse sono principalmente i mobili, fatti a mano e caratterizzati da un design dall’espressione vivace e spesso evocativa. La sua ultima creazione è la Nest Chair. «Per la quale - spiega la designer - mi sono ispirata alla natura e alla stagione primaverile». La poltrona, come è intuibile dal nome che la Bruun ha voluto darle, si rifà ai nidi degli uccelli. «La mia idea - spiega Nina Bruun - era di creare un caos vivace che apparisse come un tutto unificato». La struttura consiste in una base, un sedile e quattro piedini che

danno stabilità all’insieme. Per evocare al meglio il più classico dei nidi d’uccello, la designer ha giocato con una serie di strisce di legno di betulla di diverso spessore, intrecciate fra di loro e avvolte intorno al nodo portante della struttura. Per non distrarre l’attenzione dalle strisce di betulla, elemento caratterizzante di questo oggetto, è stato scelto per la seduta un cuscino imbottito, molto semplice, di un color marrone opaco molto simile al colore del cioccolato. Un colore che si sposa al meglio con il colore del legno di betulla. Il morbido e accogliente cuscino al centro della struttura richiama il cuore del nido, dove uova e pulcini vengono adagiati. La Nest Chair ha da poco vinto il primo premio Sydform,


concorso a cui partecipano designer della Svezia e della Danimarca. Questa poltrona, insieme ad un’altra creazione della Bruun, la sedia Fold, saranno esposte fino a settembre in una mostra itinerante tra Svezia e Danimarca. «Per quanto riguarda la Fold, ho voluto sfidare me stessa», racconta Nina Bruun. «Durante la creazione, infatti, ho incontrato diversi ostacoli. Ho voluto usare il rivestimento in una maniera diversa dal solito ed estremamente moderna». Ciò che Nina Bruun ha voluto realizzare è una sedia pieghevole il cui design ricordi lo stile scandinavo e quello giapponese. Il telaio è costituito da compensato di 10 mm tagliato in sei profili che sono legati fra di loro con delle cerniere. Il rivestimento consiste in sei fogli di plastica dura imbottiti con 3 mm di gommapiuma su entrambi i lati. Infine, la sedia è rivestita con feltro di lana. Tutte le cuciture sono fatte a mano e sono costate alla designer 105 ore di lavoro. Sono cuciture visibili, quasi a voler dare l’idea che siano industriali, mentre i bordi taglienti conferiscono alla sedia una maggiore luminosità: ciò che la creatrice definisce “light expression” e che considera importantissima per questa creazione che non deve richiamare in niente le vecchie sedie ricoperte di pesante tappezzeria. Tutt’altro. Il risultato è una sedia profondamente ispirata alle tecniche degli origami giapponesi, leggera e luminosa. Non a caso la traduzione del verbo inglese “to fold” è piegare o piegarsi.


AM green design

HANNO UNA FORMA SEMPLICE E SONO ADATTI AD AMBIENTI INTERNI ED ESTERNI. I VASI BACSAC SONO FACILMENTE TRASPORTABILI E PERMETTONO DI CREARE UN GIARDINO NEGLI SPAZI PICCOLI

Nelle foto, i diversi modelli di borse BACSAC. In tessuto geotessile e riciclabile, sono resistenti ai raggi UV e permettono al terreno di respirare

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Dietro l’aspetto di semplici shopping bag si nascondono contenitori per piante. Sono i vasi ecotessili, griffati BACSAC, il marchio francese lanciato nel 2008 dal designer Godefroy de Virieu e dai paesaggisti Virgile Desurmont e Louise de Fleurieu. L’idea di questo che si può definire un progetto ecologico e, nello stesso tempo, decorativo, nasce quando i primi due si incontrano e insieme cercano una soluzione per aggirare tutti quegli ostacoli che normalmente si devono affrontare per creare un giardino pensile in città: per esempio le difficoltà di trasporto, il peso di ciò che deve essere trasportato, i costi elevati. L’idea di creare un impianto all’interno delle borse nasce dal desiderio di cambiare le comuni abitudini e valorizzare le piante. Cominciano così a studiare come creare borse in tessuto geotessile permeabile e poroso, per permettere alla terra di respirare. Nel 2007 cominciano le prove di coltivazione nelle borse e, un anno dopo, possono appurare che la buona circolazione dell’acqua e dell’aria nella borsa favorisce la crescita delle piante, similmente a quello che accade quando sono piantate nella terra. La leggerezza delle borse, inoltre, libera la terrazza dal peso di vasi o altri contenitori. Nel 2008, dopo l’incontro con Louise de Fleurieu, nasce BACSAC come azienda e come marchio che vuole rappresentare una nuova filosofia. I primi modelli di BACSAC sono stati presentati alla manifestazione “Jardins, jardins” presso i Giardini di Tuileries a Parigi. Il successo di stampa e pubblico è stato notevole, tanto da diventare una delle attrazioni principali della mostra. Gli addetti ai lavori sono rimasti molto colpiti dalla semplicità

del concetto che sta alla base di queste borse - vaso, mentre il pubblico è stato subito attratto dalla leggerezza, dalla facilità di spostamento, dalla flessibilità degli oggetti. L’ambizione dei tre BACSAC è quella di rivoluzionare il mondo del giardinaggio. Le borse sono costruite in tessuto geotessile, permeabile e riciclabile al 100%. Hanno forme e misure diverse proprio come le comuni shopping bag e possono essere anche ordinate su misura (www.bacsac.fr). Sono ugualmente adatte ad ambienti esterni e interni e sono leggerissime. Il peso è determinato solo dalla quantità di terra contenuta nel sacco. Sono resistenti ai raggi UV e agli strappi. Grazie al perfetto equilibrio che si crea tra aria, terra e acqua, il terreno può respirare e l’aria non evapora del tutto, proteggendo e nutrendo le radici. Nel 2009 l’ultima novità: il BACSQUARE, un giardino vegetale che ricorda quelli del Medioevo. Adatto alla città come alla campagna, consente di impugnare la natura come si impugna una borsa! È un giardino ecologico dove crescere frutti di bosco o fiori. In pratica il giardino dei sogni: erbe profumate da annusare e verdure da mangiare!



AM creative design

DIVERSI MODULI CHE SI POSSONO VARIAMENTE COMBINARE FRA LORO. MULTIFORME E CREATIVA, LA LIBRERIA DI FLORIAN GROSS SI ADATTA AD OGNI AMBIENTE E SITUAZIONE

Il prototipo di Konnex, la libreria modulare disegnata dal designer tedesco Florian Gross, è stato presentato per la prima volta a febbraio di quest’anno in occasione della Fiera Ambiente di Francoforte, dove ha riscosso un notevole successo nella sezione Talent. Konnex è stata ideata per le persone che si divertono a creare e organizzare l’ambiente in cui vivono o lavorano. Con questo nuovo sistema di connessioni di cubi avranno la possibilità di sbizzarrirsi. Il set base comprende tre cubi in scala che possono essere assemblati da chi li acquista in modi differenti. Al set di cubi base si possono aggiungere tutti i cubi che si vuole. Ogni modulo

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quadrato, infatti, ha una serie di tagli lungo la superficie che si possono incastrare alle pareti di un altro modulo, in modo da poter unire i moduli fra loro senza bisogno di viti o altro. È possibile quindi creare un piccolo elemento d’arredo da affiancare alla scrivania, oppure una piccola libreria, oppure una libreria a parete, affiancando cubi grandi e piccoli a piacimento. La configurazione di Konnex può cambiare per ogni evento ed occasione, adattandosi quindi ad ogni ambiente o situazione. È un vero e proprio sistema di ripiani variabile pensato per persone flessibili e dinamiche e che hanno la necessità di trasferirsi in luoghi diversi.


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DESIGN ARTIGIANALE. PEZZI UNICI DALLE FORME GROSSOLANE. SEDIE, POLTRONE, TAVOLI CREATI LAVORANDO IL LEGNO CON LA MOTOSEGA

Nelle foto alcuni pezzi unici di Natanel Gluska, ricavati da ceppi vergini di castagno, faggio, quercia

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Natanel Gluska è nato in Israele ma vive e lavora a Zurigo. Ha concluso gli studi alla Rietveld Academy di Amsterdam nel 1989 e da allora si è guadagnato una reputazione internazionale di tutto rispetto, dovuta ai suoi mobili di design caratterizzati da uno stile divertente e da un taglio grossolano. È entrato a pieno titolo nel modo del design alla fine degli anni Novanta grazie al SaloneSatellite di Milano, un evento a margine del Salone del Mobile della città lombarda, dove vengono esposti i lavori di talenti emergenti. Nel 2000 ha partecipato ad un’esibizione di oggetti di design contemporaneo da Sothesby’s, a Londra, e nel 2007 è stato il protagonista di una retrospettiva del SaloneSatellite dedicata al successo dei designer che avevano trasformato le loro idee e i loro prototipi in una realtà commerciale. I mobili creati da Natanel Gluska sono decisamente originali e ognuno è un pezzo unico. Il designer trova l’ispirazione dal mondo che lo circonda e da alcuni schizzi disegnati a mano. La sua metodologia di lavoro è sicuramente singolare: lavora il ceppo vergine di un albero (castagno, faggio e quercia) con la motosega e, da qui, modella (in un unico pezzo, non in più parti) oggetti che sono sospesi tra l’essere sculture artistiche e l’essere oggetti funzionali. La maggior parte dei ceppi

diventano sedie o poltrone, a volte tavoli o librerie. Le inibizioni, secondo il designer, se creative o guidate dal mercato, sono la spinta che permette al suo lavoro di mostrare la libertà di espressione ormai persa nella produzione di massa del design. Gluska sottolinea spesso l’importanza, per la cultura che ruota intorno al mondo del design, della presenza di persone che ancora usano le proprie mani per realizzare gli oggetti e che hanno piccole ma importanti attività con le quali hanno ottenuto un notevole successo. In dieci anni Natanel Gluska si è assicurato, con i suoi lavori, un mercato di nicchia e le sue opere vengono collezionate in tutto il mondo. Fra i suoi estimatori si contano personaggi come Ian Schrager, Philippe Starck, Karl Lagerfield e Donna Karen. Parlano di lui le maggiori testate internazionali dedicate al design. Ha anche partecipato a diverse mostre collettive oltre ad aver esposto da solo più volte. Ultimamente il designer israeliano si è dedicato anche alla ricerca, sperimentando la fibra di vetro e sviluppando un innovativo sistema di illuminazione modulare.



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ARCHITETTURE & DESIGN DA VEDERE ANDREA PALLADIO CONQUISTA L’AMERICA

Alla Morgan Library & Museum il 2 aprile aprirà al pubblico Palladio ad His Legacy: A Trasatlantic Journey, la prima tappa americana di una mostra promossa dal Royal Institute of British Architects di Londra (RIBA) in collaborazione con il Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza (CISAAP). La sera precedente saranno la baronessa Tessa Blackstone, presidente del RIBA e Amalia Sartori, Presidente del

CISA a tagliare il nastro della nuova iniziativa congiunta delle due istituzioni culturali già coprotagoniste della grande mostra palladiana del 2008-2009, che a Vicenza, Londra, Barcellona e Madrid è stata ammirata da oltre mezzo milione di europei. Archiviata l’Europa, e con un successo decisamente inatteso, Palladio ora si presenta in America, il Paese dove la sua eredità è forse più evidente, dall’architettura delle ville nelle piantagioni di cotone di "Via col vento" fino agli edifici del potere civile, a cominciare dalla stessa Casa Bianca. Come esplicitato nel ti-

tolo Palladio and His Legacy: A Transatlantic Journey (Palladio e la sua eredità: un viaggio attraverso l'Atlantico) il tema della mostra palladiana negli USA a detta della co-curatrice Irena Murray, direttrice del RIBA di Londra - è "raccontare" Palladio architetto e insieme dimostrare come il "codice genetico" dell'architettura americana risalga al grande architetto italiano. Per questo, accanto a 31 nuovi splendidi disegni di Palladio, non presenti (per evidenti ragioni conservative) nelle edizioni europee della mostra, saranno esposti modelli architettonici realizzati per l'occasione e libri originali provenienti dalla British Architectural Library. Essi illustreranno il Palladianesimo britannico e, soprattutto americano, con particolare evidenza all'opera di Thomes Jefferson, il terzo presidente degli USA, che sulla sua copia dei Quattro Libri scrisse "Palladio is the Bible", Palladio è la Bibbia. USA, New York, Morgan Library & Museum / PALLADIO USA. "Palladio and His Legacy: a Transatlantic Jouney" / Dal 2 aprile al 1 agosto 2010

L’ARCHITETTURA DI PIERLUIGI NERVI

La sapienza di coniugare arte e scienza, tecnica ed eleganza, senza mai perdere di vista funzione e costi, è la cifra che ha contribuito a fare di Pierluigi Nervi uno dei più grandi architetti del Novecento italiano e internazionale. Sondrio, la sua città natale, rende omaggio a Nervi con una mostra nel trentennale della morte avvenuta a Roma nel 1989. A volere questo omaggio è il Credito Valtellinese che propone la mostra dal 15 aprile al 20 giugno presso la “Galleria Credito Valtelinese” di Sondrio.

La mostra mette in luce, attraverso fotografie e progetti, la complessa attività di Nervi che si manifesta in molteplici aspetti che vanno dall’ideazione alla realizzazione delle sue opere architettoniche. Da architetto-artista privilegiava materiali come il calcestruzzo e il ferro-cemento che riusciva a plasmare con grande abilità grazie alla sua profonda conoscenza delle tecniche costruttive.La mostra si sviluppa intorno a 120 riproduzioni in alta definizione di materiale documentario, fotografico, progettuale e grafico relativo all’opera e alla figura dell’architetto. Un percorso che illustra e documenta le opere più significative progettate e realizzate da Nervi: disegni originali di progetto e delle strutture, documentazione fotografica, materiale autobiografico. Sondrio, Galleria Credito Valtellinese / Pierluigi Nervi. L’architettura molecolare / Dal 15 aprile al 20 giugno 2010

70 OPERE DI MENDINI A CATANZARO

Il museo MARCA di Catanzaro apre le porte al design e all’architettura organizzando un’ampia retrospettiva dedicata a Alessandro Mendini, architetto e designer tra i più celebri a livello in-

ternazionale. La rassegna è curata da Alberto Fiz, direttore artistico del MARCA. L’evento è promosso dalla Provincia di Catanzaro Assessorato alla Cultura con il patrocinio della Regione Calabria, del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e della Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Calabria. La mostra rientra nel Piano Operativo Regionale Calabria Fondi Europei di Sviluppo Regionale 2007/2013. Sono oltre 70 le opere esposte sino al 25 luglio in un percorso che comprende dipinti, sculture, mobili, oggetti, schizzi e progetti con alcune testimonianze inedite o mai viste prima d’ora in Italia. Ne emerge un’indagine esaustiva dell’attività svolta negli ultimi quarant’anni dove, accanto alle opere più famose di Mendini, si evidenzia la componente maggiormente sperimentale e meno conosciuta del suo lavoro. Il progetto, poi, ha tra le sue peculiarità quella di sottolineare le collaborazioni tra Mendini e gli altri protagonisti del mondo dell’arte,

in particolare Mimmo Paladino, Francesco Clemente, Bruno Munari, Luigi Veronesi, Bob Wilson e Peter Halley. In mostra sono molti gli omaggi di amici e colleghi come i ritratti realizzati da Paladino, Mimmo Rotella, Michele De Lucchi e dall’artista giapponese Tiger Tateishi. Catanzaro, Marca / Alessandro Mendini: alchimie. Dal Controdesign alle Nuove Utopie / Fino al 25 luglio 2010

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AM appuntamenti RIPROGETTARE LA VIA DELLA SETA

Lo scenario dei viaggi di Marco Polo, l'antica via della Seta, era una straordinaria rete di percorsi commerciali, culturali e religiosi lunga circa 15.000 km che per oltre 2000 anni ha costituito l’unico collegamento tra le civiltà dell’est e dell’ovest. Da questo itinerario avventuroso e romantico ha preso il via l’idea messa a punto dall’architetto Luigi Centola, dello Studio Centola & Associati, per il concorso internazionale di idee bandito dall’OICE, collegato alla mostra su “Alto Design e Alta Tecnologia Italiana" che si svolgerà nel mese di settembre all'interno del Padiglione Italia all’Expo Universale di Shanghai. Il concorso invita i partecipanti a elaborare ideeprogetto innovative, materiali o immateriali, per “recuperare, reinterpretare, attualizzare e, se possibile, riconfigurare nell’immaginario collettivo la “Via della Seta”. Ai vincitori del concorso, andrà un Premio di 10.000 euro. Premio “Silk Road Map” Consegna materiali entro il 15 giugno 2010

A LONDRA, FESTIVAL DELL’ARCHITETTURA

Una celebrazione dell’architettura che coinvolgerà tutta la città. Il Festival ospiterà una serie di eventi che evidenzieranno lo status di Londra come centro internazionale dell’architettura. Curata da tre organizzazioni leader: LFA, The Architecture Foundation, New London Architecture e RIBA di Londra, si articolerà in tre fine settimana chia-

ve. Tra le sedi del Festival, che comprenderà mostre, conferenze, visite guidate e installazioni multimediali, rientrerà anche “un teatro costruito con materiali riciclati reperiti in loco, ideato dagli architetti tedeschi Köbberling e Kaltwasser”. Un’ampia sezione internazionale, promossa dal British Council, coinvolgerà ambasciate e istituti culturali nell’affrontare le tematiche del London Festival of Architecture, in riferimento alla produzione architettonica dei Paesi di appartenenza. Inoltre, studenti delle facoltà di architettura e dalle scuole di design di Australia, Austria, Italia, Libano, Turchia e Regno Unito presenteranno le proprie proposte per il programma High Street 2012 .

Londra / “The Welcoming City”: London Festival of Architecture 2010 / Dal 19 giugno al 4 luglio 2010

L’ARTE COME SPAZIO CONCETTUALE

Ancora una volta Annamaria Gelmi, artista di inesauribile vena creativa, è capace di mettersi in gioco in un nuovo progetto espositivo, dimostrando che è sempre possibile per chi fa questo mestiere con solida professionalità evolvere, cambiare, innovare se stessi. La capacità di reinventarsi non prescinde tuttavia da un solido legame con la propria storia personale, come il titolo stesso suggerisce. L’architettura è infatti la disciplina che più di ogni altra ha ispirato Annamaria Gelmi nel suo brillante percorso. Il suo lavoro pur, rigidamente geometri-


co, astratto- concettuale è allo stesso tempo fragile nella poetica, allusivo, capace di svelare un “oltre” denso di significato e sfumature, profondamente femminile. La varietà dei mezzi espressivi, delle soluzioni formali e dei temi proposti in questo ambizioso progetto espositivo sottolineano la ricchezza creativa di Annamaria Gelmi, le sue complesse sfumature e le molteplici correnti intellettuali e artistiche a cui si ispira.

sud, e da un padiglione ottocentesco. Nell’arco di circa sette anni, a partire dal 1971, Scarpa ebbe l’incarico di progettarvi diversi elementi, fra cui il muro di cinta. Dal 2005 Aldo Businaro e i figli hanno affidato l’esecuzione di una scala esterna all’architetto Tobia Scarpa, che nel proprio progetto si è attenuto in parte ai disegni del padre. Treviso, Centro Carlo Scarpa Archivio di Stato di Treviso / Scarpa e Il Palazzetto / Fino al 29 maggio 2010

UNA SERIE DI MOSTRE PER IL MAXXI

Rivara (To), Castello di Rivara / INARCHITETTURA. Annamaria Gelmi / Dal 12 giugno all’8 settembre 2010

IL PALAZZETTO DI CARLO SCARPA

La mostra è incentrata sulla figura di Aldo Businaro, committente di Carlo Scarpa per gli annessi alla villa “Il Palazzetto”. L’incontro tra Scarpa e Businaro ebbe luogo in occasione del viaggio in Giappone di una delegazione di architetti e designer italiani, nel 1969, cui parteciparono entrambi: esso segna l’avvio di un fortunato sodalizio che li terrà costantemente legati alla residenza seicentesca del committente. Situato nella campagna a sud-est di Monselice, il complesso della villa appariva costituito dal corpo dominicale, da una piccola costruzione adibita a casa del custode verso

Dopo l’architectural preview dello scorso novembre, ecco per il MAXXI il momento più atteso, con un programma ricco e internazionale. Le mostre inaugurali sono Gino de Dominicis: l’Immortale (30 maggio - 7 novembre 2010). Kutlug Ataman. Mesopotamian Dramaturgies (30 maggio – 12 settembre 2010). Luigi Moretti architetto. Dal Razionalismo all’Informale (30 maggio - 28 novembre 2010). Ma è Spazio che parla dell’anima del museo: il primo allestimento tematico delle collezioni d’arte e di architettura del MAXXI (30 maggio 2010 – 23 gennaio 2011). L’idea di SPAZIO prende avvio dagli stimoli suggeriti dalle forme fluide create da Zaha Hadid e interpreta appieno il carattere di interdisciplinarità del MAXXI. Roma / Apertura MAXXI 27, 28, 29 maggio 2010 / Apertura al pubblico: 30 maggio




INTERVISTA

FUTURO SOSTENIBILE

Pensieri. Commenti. Interviste. Schede di progetto

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«L’energia dovrebbe essere prodotta e consumata direttamente dalle famiglie», spiega Mario Cucinella. E sottolinea che per entrare in una nuova era ecologica ci vuole l’aiuto delle istituzioni di Antonello De Marchi

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Sono anni che si occupa di sostenibilità. Quale sensibilità ha avuto modo di riscontrare in chi amministra? «Negli ultimi anni la sensibilità e l’attenzione ai temi ambientali ha fatto crescere una nuova coscienza ecologica. È solo l’inizio, siamo ancora in un’era primitiva: dopo l’era industriale e post-industriale non siamo ancora entrati nell’era ecologica. Servono azioni forti da parte dei governi». Da dove è nata quella sottile diffidenza contro cui ha dovuto lottare l’architettura sostenibile? «Spesso la diffidenza non è poi così sottile. Credo che nasconda un peccato originale, dovuto a tanti anni di disattenzione verso l’architettura contemporanea che spesso si è però dimostrata distante dai luoghi. Inoltre sono convinto che la politica non ha visto, negli ultimi decenni, nell’architettura una forma di espressione della propria cultura. E la diffidenza la si supera con la cultura, con la pazienza di spiegare e comprendere i luoghi dove si lavora». Da dove parte il progetto della casa da 100K? «La casa da 100K nasce da una domanda che nessuno ha mai fatto: costruire case a basso costo che integrassero i temi energetici. A questo antefatto bisogna aggiungere il valore sociale dell’abitare, l’aspirazione e i desideri delle persone e le modalità del vivere, sempre più lontane dalle tipologie speculative. Quindi il tema proposto è un progetto tecnico di un edificio riproducibile industrialmente, fatto di spazi da contaminare e personalizzare e capace di rispondere alla sfida ambientale. Power to the people è un modo per dire che l’energia dovrebbe essere prodotta e consumata direttamente dalle famiglie». Un edificio energivoro può essere trasformato in edificio a basso consumo o produttore di energia? «Fondamentalmente è un aspetto tecnico: migliorare l’involucro, le prestazioni d’isolamento, utilizzare tecnologie nuove sia per riscaldare che per raffrescare e utilizzare fonti rinnovabili. Ma se fosse tutto qui avremmo risolto solo una parte del problema. Mettere mano alla cura del parco immobiliare esistente deve essere un’opportunità creativa, un’opportunità per migliorare la qualità estetica degli edifici e la qualità dello spazio pubblico». Per i materiali di scarto un progetto sostenibile cosa prevede? «L’architettura e in genere il costruire non è mai un’operazione ecologica. Si costruisce utilizzando materia che viene comunque sottratta alla natura. Detto questo il tema non è solo quello dell’inquinamento ma quello di utilizzare le materie nel modo più efficace. Costruire costa in termini energetici molto meno che mantenere in vita gli edifici e quindi le mie attenzioni sono rivolte più alle performance e alla possibilità del recupero delle materie. Lo sviluppo sta nel creare un utile scarto che potrebbe essere impiegato in altre filiere». Le nostre città di quali cure necessitano? «Oggi la città va vista come un organismo che consuma energia, si scalda, si consuma e ha bisogno di cure, di terapie intensive che vanno da una politica dei trasporti pubblici per migliorare e incoraggiare l’uso dei mezzi pubblici alle biciclette e alle aree pedonali. Servirebbe anche nuova visione del rapporto con il commercio, vitale per i nostri centri storici, e una politica di riduzione dell’inquinamento per migliorare la vita dei cittadini». Esiste ancora, nell’iter progettuale, l’attenzione verso il genius loci? «Nelle nostre città e nei nostri paesaggi è un aspetto fondamentale. Milano non mi sembra che abbia le stesse caratteristiche di Bologna e questo è un valore che deve essere scoperto e capito. Come diversi per vocazioni sono i territori e le culture che le abitano. Per troppo tempo abbiamo creduto che la diversità fosse qualcosa da appiattire mentre una nuova coscienza ecologica deve guardare alle diversità come a valori fondamentali». Qual è la strada da percorrere perché il ruolo dell’architettura, in ambito ambientale e climatico, venga completamente riconosciuto? «La strada è quella di non considerare l’architettura una disciplina a se stante, ma profondamente legata ad altre. L’architettura è la matrice dell’abitare e non esiste edificio che non debba confrontarsi prima di tutto con aspetti materiali e con principi di fisica e di resistenza. La maturità avverrà quando fonderemo tutto in un’unica grande disciplina. L’architettura contiene dentro di sé l’ingegneria, la filosofia, la cultura, la tecnica e il paesaggio, ed è ora di dare all’architettura e agli architetti il loro ruolo. Fondamentale e socialmente utile».


COMMENTO

I LIMITI DELL’ARCHITETTURA Nel nome della sostenibilità nascono progetti avveniristici, stupefacenti, di facile consumo mediatico. Si rischia una perdita di senso del linguaggio architettonico. Bisogna dare maggior valore all’architettura cosiddetta “minore” di Paolo Simonetto, presidente di Architettando In questo momento sembra inevitabile affrontare la questione della sostenibilità, circondati come siamo dai prefissi «bio» ed «eco» abbinati ormai a ogni manifestazione della nostra quotidianità, e svuotati molte volte di ogni significato. Ci troviamo a fare i conti con una molteplicità di definizioni: Ecosostenibilità, Ecocompatibilità, Bioarchitettura, Architettura passiva, Architettura bioecologica, Architettura bioclimatica, Architettura ecocompatibile, Architettura energeticamente efficiente. Per non perdere l'orientamento in questa varietà descrittiva è giusto soffermarsi su alcuni concetti chiave alla ricerca di un minimo comune multiplo. Primo fra tutti, la sostenibilità intesa come elemento intrinseco del costruire, trasversale rispetto ai vari temi dell'architettura. Una concreta ed effettiva necessità per la sopravvivenza stessa del fare architettura, un'irrinunciabile opportunità per ristabilire un nuovo tipo di relazione tra uomo e ambiente. Ciononostante, dietro il pretesto della sostenibilità, si cela un pericoloso paradosso in cui vengono persi di vista i protagonisti principali – l'uomo e l'ambiente – alimentando una speculazione intellettuale fine a se stessa, avendo come unico obiettivo il soddisfacimento dell'ego dei progettisti. Una volta presa piena coscienza dell'emergere di una questione ambientale, affrontando quindi il tema della sostenibilità come una scelta culturale non finalizzata esclusivamente ad alcune tipologie costruttive, dovrebbe maturare una proposta progettuale che conduca «naturalmente» a risultati sostenibili. A questo auspicio mi piace pensare prendendo a prestito il termine tedesco, che esprime l'idea di sostenibilità, Zukunftsfahig (letteralmente «capace di futuro») e che forse meglio di tanto argomentare racconta il senso profondo di questo approccio che, prima che progettuale, dovrebbe essere vissuto come una proposta intellettuale e morale. Una vera e propria sfida se pensiamo all'epoca in cui viviamo, alla società del consumo in cui vige l'imperativo categorico dell'«usa e getta». Un atteggiamento in qualche modo «anticonformista» che, unito all'attenzione a ciò che è bello e alla forza audace delle idee, dovrebbe divenire parte integrante della cultura del progetto. Questo ampio raggio d’azione, assieme all’ormai infinità di possibilità nell’uso di materiali e dispositivi, ha portato l’architettura verso limiti linguistici con conseguente rischio di una irreparabile perdita di senso, favorendo una massiccia produzione di architetture stupefacenti e di facile consumo mediatico, frutto di situazioni occasionali e a costi insostenibili, a discapito dell’architettura cosiddetta “minore”, che costituisce invece il tessuto delle nostre città e il reale ambiente di vita dell’uomo. Nonostante sia di moda, oggi parlare di “architettura locale” sembra un assurdo. La corrente High Tech ha liberato strutture e impianti rivestendoli solo di

trasparenze e leggerezza. Le correnti del Decostruttivismo hanno sciolto in forme liquide gli edifici, o li hanno plasmati secondo richiami fito e zoomorfici. Oggi, inoltre, attorno al tema della sostenibilità, nascono proposte avveniristiche di città verdi galleggianti, fluttuanti, sospese sopra un mondo che evidentemente non ci soddisfa. Poche sono le proposte urbane di riqualificazione secondo standard di sostenibilità effettivamente realizzate, episodici momenti nei quali istanze di riqualificazione urbana e interessi politici, sociali ed economici hanno trovato un’intesa reale. Ogni corrente e ogni linguaggio espressivo, ben inteso, porta con sé significati e contributi utili, almeno al dibattito, anche quando rasenta l’utopia. Ma si tratta per l’architettura di un momento storico delicato e rischioso, in bilico tra interessanti sperimentazioni e il rischio di un generale appiattimento culturale per l’accettazione incondizionata di ogni proposta solo in quanto “nuova”. Ma al di là di ogni linguaggio, sperimentale o meno, qual è il significato profondo del fare architettura? Forse siamo di fronte alla nascita di nuove forme espressive, ma non sono sempre architettura, dove per architettura si intenda quella disciplina nata ed evolutasi per creare spazi di vita per l’uomo. Se l’elemento di congiunzione di tutte le opere di architettura non è l’uomo, l’obiettivo finale dell’architettura viene a mancare. Se l’architettura non si occupa di creare l’ambiente di vita dell’uomo, ma si interessa solo di grandi opere stupefacenti, per un facile consumo mediatico, viene a mancare il motivo stesso della sua esistenza. In questo quadro, riteniamo indispensabile l’attenzione del mondo architettonico per vecchi principi consolidati e nuove proposte innovative, alla ricerca di soluzioni progettuali che favoriscano il benessere, la sostenibilità come rispetto per l’ambiente e risparmio energetico, l’utilizzo di fonti rinnovabili, l’impiego razionale dei materiali, la sostenibilità economica e, non ultima, la riqualificazione di ampie aree urbane dismesse per rigenerarne il tessuto fisico e sociale. Si tratta semplicemente di adottare criteri e metodi per far rientrare l’architettura entro i limiti che le competono, restituendole la dignità ed il prestigio di essere la massima espressione creativa necessaria per la vita dell’uomo. In altre parole, una questione ancora aperta. PER APPROFONDIMENTI

Martedì 27 Aprile: Trasformazione sostenibile del territorio, scenari possibili. Giovedì 13 Maggio: Il caso Alto Adige. Venerdì 28 Maggio: Nuovi orizzonti sostenibili dell’architettura e della città. Mercoledì 09 Giugno: La costruzione del paesaggio. Giovedì 17 Giugno: Oltre la sostenibilità. Giovedì 24 Giugno: Tecnologie appropriate. Mercoledì 30 Giugno: Sostenibilità ed etica. Le conferenze sono organizzate dall’Ass. ARCHITETTANDO, ore 20,45 presso la Torre di Malta a Cittadella (Pd). Info: www.architettando.org

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FOCUS

AMBIENTE E TERRITORIO L’Italia è il Paese europeo in cui si costruisce di più. Ciò comporta il deperimento del suolo e del paesaggio. La coscienza dell'ambiente è un'esigenza avvertita da una parte minoritaria della popolazione. Intanto con il Piano Casa si corre il rischio di deturpare maggiormente il territorio. Su questi temi riflettono Fulco Pratesi e Ilaria Buitoni Borletti di Lorenzo Berardi

Come si può conciliare il rispetto dell’ambiente, inteso nel senso più lato del termine, con la possibilità di utilizzarlo per la produzione di energia pulita?

Fulco Pratesi Come in ogni cosa, anche in questo caso occorre trovare la giusta misura. L'energia pulita è estremamente importante per il nostro pianeta e oggi rappresenta l'unica alternativa pratica rispetto a quella, estremamente inquinante e non illimitata, prodotta da combustibili fossili. Tuttavia, bisogna evitare che queste nuove forme di energia pulita prodotte da fonti rinnovabili vadano a cozzare con dei patrimoni insostituibili come il nostro ambiente e paesaggio. Per quanto possibile, occorre dunque proseguire la ricerca nel campo delle energie pulite calcolando nel contempo quali siano le esigenze reali di consumo dell'energia per evitare che se ne sprechi. Il tutto, tenendo conto che occorre tutelare anche il nostro paesaggio che, non va dimenticato, è legato a una importante fonte di reddito quale il turismo. Ilaria Buitoni Borletti Il fatto di produrre energia pulita è una delle forme per rispettare l'ambiente. Qualunque energia che non sia pulita va a danneggiare l'ambiente e gli ecosistemi. Direi che sino ad ora non si è mai affrontato il problema dell'energia globalmente, ma solo come necessità per rispondere al fabbisogno energetico dell'immediato. Oggi i tempi sono cambiati e anche in Italia, come nel resto del mondo, finalmente comincia a farsi strada la necessità di pensare all'energia anche in modo compatibile con l'ambiente. Un rapporto, questo, che va sempre tenuto a mente.

Se l’obiettivo è creare una coscienza civile e portare a conoscenza di molti il nostro patrimonio per poterlo tutelare, combattere il degrado e ribellarsi all’incuria, come mai molti cittadini chiedono, con il beneplacito di chi amministra, di poter edificare senza alcun rispetto delle regole?

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Fulco Pratesi In Europa, l'Italia è il Paese in cui si costruisce di più. Questo fenomeno, porta all'inevitabile deperimento di suolo e paesaggio. Ricordiamoci che ogni anno dai 50 ai 60mila ettari del nostro Paese sono cementificati. E i danni prodotti dalla cementificazione non sono paragonabili a quelli di un incendio, perché i terreni e le foreste che vengono edificati non sono più recuperabili tanto per la produzione agricola quanto per la tutela delle biodiversità. Ecco perché dobbiamo renderci conto di come suolo e paesaggio vadano tutelati maggiormente. Ilaria Buitoni Borletti Evidentemente perché molti ancora non hanno questa coscienza. Il fatto che il National Trust, la nostra organizzazione gemella nel Regno Unito, abbia 3 milioni di soci e noi come Fondo per l'Ambiente Italiano solo 75mila ne è una prova. In Italia la coscienza dell'ambiente e della necessità di tutelare il paesaggio e quindi i beni d'arte e della natura che ne fanno parte è un'esigenza ancora avvertita da una parte molto minoritaria della popolazione. L'educazione all'ambiente dovrebbe partire dalle scuole, occorrerebbe inoltre l'esempio delle istituzioni e, soprattutto, ci deve essere un lavoro coordinato di reti che faccia seguito a tutto ciò. Per fare questo, però, occorre che lo sforzo provenga da tutte le parti e in Italia nessuno ha mai pensato di insegnare davvero ai bambini cos'è l'ambiente e cos'è l'arte e perché bisogna rispettarli. Quindi è difficile pensare che gli adulti di ieri e domani avvertano come propri i temi legati all'ambiente. Il primo passo deve essere fatto dalla scuola, il secondo deve essere l'esempio delle istituzioni e pian piano la coscienza dei cittadini arriverà a capire che la strada sbagliata è quella di distruggere l'unico patrimonio sul quale non abbiamo concorrenza al mondo, quello naturale, artistico e culturale. La strada è ancora lunga, ma l'esempio fornitoci da una istituzione come il National Trust britannico dimostra che non è impossibile percorrerla.


Architetto, giornalista e illustratore, ha fondato il WWF Italia nel 1966 e ne è oggi il presidente onorario nonché il presidente del Comitato Scientifico Oasi. Dopo aver esercitato per anni la professione di architetto realizzando insediamenti abitativi, è divenuto un apprezzato progettista di parchi e riserve naturali Fulco Pratesi

Quali strategie ambientali bisogna implementare per riuscire a trasformare il problema dei consumi energetici degli edifici, soprattutto storici ma non solo, in un’opportunità creativa?

Dal novembre 2009 è la nuova presidente del Fondo Ambiente Italiano, dopo essere stata presidente regionale del Fai in Umbria. Da anni la sua attività principale si rivolge al no profit, collaborando a onlus come Amref, il Summit della Solidarietà e il Borletti-Buitoni Trust che promuove giovani concertisti nel mondo. Ilaria Buitoni Borletti

Fulco Pratesi Questo discorso si lega strettamente a un concetto che le associazioni ambientaliste e di tutela ripetono da anni. Bisogna sfuggire al paradigma delle grandi centrali elettriche da cui si diramano le condotte che raggiungono centri abitati e singole abitazioni. Va ribaltata l'intera concezione del sistema energetico. E a questo si può arrivare solo rendendo possibile una parcellizzazione e una democratizzazione tanto della produzione quanto del consumo dell'energia. In pratica ogni singolo edificio, laddove possibile, dovrebbe essere energeticamente autosufficiente. Riuscire a fare tutto questo su vasta scala, si tradurrebbe anche in una maggiore responsabilizzazione sul tema delle risorse energetiche da parte dei singoli utenti, diffondendo una migliore conoscenza dell'argomento e quindi creando una coscienza sul tema. Ilaria Buitoni Borletti Personalmente credo molto nel meccanismo degli incentivi, perché le persone si ingegnano soprattutto quando ritengono che farlo possa portare loro dei vantaggi concreti. In questo senso, qualcosa in Italia è stato già fatto. Se oggi si costruisce una casa ad efficiente risparmio energetico se ne ricava un vantaggio e credo che anche in futuro bisognerebbe insistere su questo punto. Ritengo infatti che questo sia l'unico modo per fare sì che tutti i cittadini italiani che intendono costruirsi una nuova abitazione o restaurarne una esistente comincino a ragionare in un certo modo. Ancora una volta, ad ogni modo, tocca in primo luogo alle istituzioni dare il buon esempio creando leggi e meccanismi che rendano possibili o facilitino tali processi.

Come ha influito la crisi economica di questo periodo sui sovvenzionamenti pubblici e privati per gli istituti di tutela? E, più in generale, cosa è cambiato negli ultimi anni?

Fulco Pratesi È innegabile che continuiamo a dibatterci in una situazione di grossa difficoltà economica. Per quanto ci riguarda, l'introduzione della possibilità di destinare alle organizzazioni come il WWF il 5 per 1000 è stato senza dubbio un fatto positivo. Eppure nell'insieme l'impegno del governo e dello Stato nei confronti degli enti e degli organismi di tutela si è ridotto rispetto agli anni passati, così come è avvenuto per la ricerca. Nel nostro settore si avvertono sempre maggiori difficoltà a gestire territori vasti sottoposti a tutela, come nel caso dei parchi nazionali e regionali. Questo perché ci troviamo in una perdurante assenza di fondi adeguati. Ilaria Buitoni Borletti Il grosso errore che viene fatto in Italia è quello di non pensare a uno sviluppo che veda la tutela dei beni del nostro patrimonio artistico e naturalistico come un motore di sviluppo per l'economia del Paese. Come Fondo Ambiente per l'Italia, ci accorgiamo benissimo di quanto sarebbe importante assumere questa consapevolezza. Nel momento in cui adottiamo un bene in uno stato di degrado, lo restauriamo e apriamo al pubblico, infatti, questo diviene un motore di sviluppo per il territorio. Si crea occupazione e si salvaguardano attività artigianali che altrimenti scomparirebbero. Si crea soprattutto un flusso di turismo consapevole. Si tratta di una serie di ricadute positive sullo sviluppo del Paese. E se venissero applicate a livello macro sull'intero patrimonio nazionale come scelta politica da parte delle istituzioni significherebbero un modo per uscire parzialmente dalla crisi, utilizzando una risorsa nella quale non abbiamo concorrenti. Parlerò più chiaro: con le macchine perdiamo, ma con il paesaggio no.

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FOCUS

Tutela del paesaggio e tutela del costruito storicizzato. Due forme di salvaguardia diverse, ma strettamente legate fra loro. Come trovare delle strette alleanze fra questi due settori per combattere sfruttamento del territorio e cementificazione?

Come vi siete attivati nella gestione del recente terremoto in Abruzzo?

Fulco Pratesi È assolutamente indispensabile trovare un connubio fra il recupero e il riuso di cubature e volumetrie già esistenti invece che andare a occupare territorio ancora vergine. Dovremmo seguire l'esempio di alcune contee inglesi in cui non si concedono licenze per nuovi edifici se si dimostra che parte del costruito in quella zona è inutilizzato. Occorre anche pensare al fatto che l'invasione della periferia sui territori ancora vergini danneggia l'economia rurale. La Pianura Padana, ad esempio, continua a perdere aree coltivabili e questo determina un aumento del costo dei terreni agricoli: una situazione che certo non contribuisce a implementare le coltivazioni. Ilaria Buitoni Borletti Credo che le due tutele vadano legate non a doppio, ma a triplo filo. Prendiamo un bene architettonico come il castello di Masino, di proprietà del Fai in Piemonte. Il castello si trova in cima a una collina che domina una valle nella quale ora si pensa di costruire un parco divertimenti e una serie di centri commerciali. Questo rovinerà completamente il bene in questione. Quindi il rapporto fra il bene artistico e architettonico e il paesaggio che lo circonda è assolutamente imprescindibile. È necessario che gli elementi di tutela che si estendono sul bene coprano anche il paesaggio ed ecco perché l'Italia si trova in una situazione così delicata. Tutti i nostri monumenti e tutte le nostre città d'arte avrebbero bisogno di essere tutelati non solo in quanto tali, ma anche per quanto riguarda il paesaggio che li circonda. Fare questo non significa fermare lo sviluppo, bensì optare per uno sviluppo che sia compatibile con il paesaggio. Se invece si prende una qualsiasi zona industriale di una città italiana, nessuna amministrazione ha mai pensato di mettere paletti per quanto riguarda la scelta dei materiali di costruzione, il colore, la disposizione, l'altezza e la volumetria degli edifici. Il risultato è che oggi l'Italia è una distesa di capannoni industriali bianchi. Se lo stesso scempio fosse stato fatto ponendo dei parametri, questo fenomeno avrebbe avuto effetti meno devastanti. Fulco Pratesi Noi ci occupiamo soprattutto di emergenze di tipo naturalistico, ma in questo caso ci siamo attivati ugualmente, aprendo le nostre oasi e i loro centri di accoglienza alle persone colpite dal sisma che avevano bisogno di un immediato ricovero. Ritengo che conservare, recuperare e restaurare il patrimonio artistico delle zone interessate dal terremoto sia importantissimo anche se molto difficile. In questo senso avere costruito degli edifici nuovi può rappresentare un rallentamento per l'attuazione del processo. Ricordo cosa accadde nel caso del sisma del Friuli nel 1976 quando si riuscirono a ricostruire case, chiese e centri storici in un lasso di tempo abbastanza breve anche grazie all'iniziativa dei privati. Gli esempi da seguire non mancano. Io sono stato presidente per diversi anni del Parco Nazionale d'Abruzzo e ho visto città che erano state distrutte dal terremoto del 1915 che hanno costruito nuovi quartieri dotati di abitazioni antisismiche, ma anche saputo recuperare i propri centri storici, come nel caso di Pescaserroli. Ilaria Buitoni Borletti Come Fai, ci siamo attivati in maniera molto rapida. Abbiamo adottato la Fontana delle 99 cannelle che è il simbolo dell'Aquila ed è oggi l'unico restauro del centro storico aquilano che sia già partito, tanto che contiamo di riconsegnare il monumento alla popolazione entro un anno. Dal punto di vista politico, invece, abbiamo subito sollecitato le istituzioni insistendo sul fatto che ricostruire una zona sconvolta da un terremoto significa ridare agli abitanti il senso della propria identità e quindi non si può prescindere dal ricostruire il centro storico. Ora le istituzioni paiono avere recepito queste sollecitazioni. Le dichiarazioni sono incoraggianti, ma va tenuto presente che il centro storico dell'Aquila è enorme e per ricostruirlo occorreranno anni, ma l'importante è che esso non venga abbandonato. Non dimentichiamoci mai che la Germania nel 1945 era un paese completamente distrutto eppure nel giro di pochi anni è stato ricostruito a partire proprio dai centri storici delle sue città. Bisogna però comprendere che non si può pensare che un abitante del centro storico ritrovi la propria identità in una casa costruita ex novo in un'altra zona della città. L'obiettivo finale deve essere quello di ridare vita al centro storico e restituire agli aquilani la propria città.

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Restiamo nell'attualità e parliamo dei nuovi Decreti Legge, noti come "Piano Casa". Gli architetti hanno intrapreso una dura battaglia contro queste norme. Quali contraddizioni o incongruenze riscontrate?

Fulco Pratesi Per gli architetti aumentare cubature e occupazione del suolo è sempre qualcosa di deleterio. Quando cominciai a fare l'architetto, negli anni Sessanta, ogni italiano in media aveva a disposizione mezzo vano, mentre oggi ne ha due. Questo rapporto si traduce in una mole enorme di edifici inutilizzati e non rimessi in commercio. Pensare di aumentare le cubature di alcuni edifici del 20 o del 30%, pur con le necessarie tutele del caso, significherebbe creare situazioni molto delicate. Già penso a quanti balconi diverranno verande e così via, modificando pesantemente il territorio e aumentando la presenza umana. Bisogna stare attenti perché alcune risorse sono insostituibili e irrecuperabili come il territorio, il paesaggio, l'ambiente e i beni storici o artistici che vi sono inseriti. Ilaria Buitoni Borletti Le incongruenze in Italia sono continue. Da un lato, il Piano Casa è stato avversato dalle grandi organizzazioni fra cui noi, il WWF e Italia Nostra, dall'altra bisogna tenere conto che è stato delegato alle singole regioni. Il risultato pratico è che alcune regioni hanno adottato il Piano Casa in maniera molto restrittiva, come quelle del Centro Italia, e altre lo hanno applicato in modo assai più allargato. Questo significa che ci saranno regioni che saranno profondamente deturpate dal Piano Casa e altre che invece lo hanno sottoposto a vincoli precisi. In Italia vi è confusione normativa di livelli, piani e competenze, con il risultato che tutto ciò che riguarda l'ambiente o i piani regolatori o il paesaggio è una giungla normativa nella quale è difficile orientarsi. Bisogna tenere conto che il tessuto di un Paese non è formato solo dai centri storici, ma anche da quella miriade di case coloniche disseminate nelle nostre campagne che è una delle cifre distintive del paesaggio italiano. Se ognuna di queste case può aggiungere il 20 o il 30% della propria volumetria senza che vi sia alcun controllo dal punto di vista estetico e di inserimento nel paesaggio è chiaro che al termine di questo intervento, l'ambiente circostante è modificato. Questa in alcune regioni ci pare una scelta del tutto dissennata, specie in aree devastate da un abusivismo incontrollato e in cui dare un ulteriore strumento di ampliamento per una situazione di illegalità è del tutto folle.

Come è cambiato negli ultimi anni l’interesse da parte dei cittadini sui temi da voi trattati?

Fulco Pratesi In generale si avverte un piccolo incremento di interesse nei nostri confronti. Ciò che è cambiato maggiormente in senso positivo è l'attenzione riservata alla fauna selvatica. Negli anni Settanta, animali come lupi, orsi, linci e aquile erano considerati soltanto dei predatori e dunque trattati come creature nocive da cacciare o sopprimere. Oggi, invece, grazie alle pressioni di associazioni ambientaliste come la nostra, questa concezione in Italia è profondamente mutata, tanto che chi uccide un lupo rischia il carcere. Per quanto riguarda la sensibilità verso il paesaggio, qualcosa è cambiato. Più in generale, i progetti di geometri e architetti sono migliorati per quanto riguarda l'interazione dei nuovi edifici con i territori in cui verranno inseriti. Molto in questo senso resta comunque da fare e continuano a esistere interi quartieri e borgate repellenti che andrebbero demoliti. È questa la sfida che dobbiamo vincere nei prossimi anni in Italia. Ilaria Buitoni Borletti Trovo che oggi vi sia una maggiore sensibilità e credo che se ne accorgano anche le altre associazioni che in Italia si occupano di tutela dell'arte e del paesaggio. Purtroppo, però, le istituzioni non aiutano perché non fanno della tutela del paesaggio un argomento centrale dei loro programmi per cui i cittadini che si avvicinano ai nostri temi vi si accostano soprattutto per iniziativa individuale. Manca quella spinta collettiva su questi temi che occorrerebbe in Italia considerato che abbiamo intere zone devastate dal punto di vista ambientale ed edilizio. Io amo la Sicilia e ogni volta che percorro la strada tra Gela e Agrigento vedo una sequela di case, fra le quali molte non terminate, costruite senza alcun criterio e che addirittura lambiscono e invadono una meraviglia come la Valle dei Templi. Ma esistono altre situazioni drammatiche, una su tutte quella dell'area vesuviana dove vivono milioni di persone. Il paradosso della situazione è che in Italia si costruisce senza alcun problema sulle faglie di vulcani attivi e poi magari si obbligano i teatri storici ad alzare le balaustre di 20 centimetri.

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SCHEDE Design Museum, Holon (Israele) Progetto: Ron Arad Linee sinuose e avvolgenti, incastonato nel contesto urbano di Holon. Così si presenta il nuovo Design Museum progettato da Ron Arad. Holon è una città costruita, nel 1935, tra le dune di sabbia a pochi chilometri da Tel Aviv. La scelta progettuale di Ron Arad è stata quella di dare, a Holon, il cui nome vuol dire sabbia, un’icona dall’aspetto futuristico, avvolgente e materico. Dei nastri, dalle tonalità calde, sovrapposti e continui, realizzati in acciaio CORTEN. Galit Gaon, direttrice creativa del museo israeliano ha dichiarato: «la struttura è in sé un grande oggetto di design, il cui compito non è solo quello di contenere oggetti belli, ma stimolare le industrie del Paese a usare i designer, a capire che il design è parte fondamentale del processo di ricerca e sviluppo e che non è solo una questione di cosmetica finale del prodotto». Ron Arad ci tiene a ribadire nelle conferenze di presentazione del progetto che i nastri in CORTEN non potrebbero esistere senza l’ausilio delle più avanzate ricerche industriali della ditta italiana Marzorati Ronchetti legata ad Arad già con il progetto dell’Opera di Tel Aviv. Il tutto risale al 2004 quando la municipalità di Holon ha invitato lo studio inglese per creare un edificio iconico, per l’innovazione nel design e che potesse essere rappresentato su un francobollo. Nulla di più adatto. La struttura è stata pensata come un vero oggetto di design, concluso, identitario, unico e assolutamente pronto a divenire l’icona della città di Holon. La richiesta è stata pienamente soddisfatta ed è già marchio dell’istituzione. Di solito il processo è al contrario: un edificio divenuto simbolo viene riconosciuto nella sua capacità iconografica con la trasposizione numismatica. In questo caso è l’edificio che è stato pensato come effigie di un cambiamento mediatico che la città ha scelto di fare. Il Museo è stato inaugurato il 31 gennaio.

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Le fotografie dell’esterno del Museo mostrano le caratteristiche fasce rosse d’acciaio corten, la cui particolarità è di formare una patina bruna superficiale compatta passivante, capace di impedire il progressivo estendersi della corrosione. In alto: spaccato assonometrico


Progetto Feltrinelli per Porta Volta, Milano Progetto: Herzog & de Meuron Porta Volta si può trovare anche un tributo a questo importante architetto milanese della seconda metà del XX secolo». Nell’edificio verrà collocato il patrimonio bibliotecario e archivistico della Fondazione Feltrinelli e anche 4.500 opere antiche e rare. L’edificio ospiterà una sala di lettura, un ampio spazio multifunzionale per convegni, conferenze ed esposizioni e una Libreria Feltrinelli specializzata. Il completamento degli edifici è previsto per il 2013. Alcuni rendering della nuova sede della Fondazione Feltrinelli, struttura lineare in acciaio e vetro che ripropone la tradizione lombarda degli edifici gemellari

Copyright © Herzog e de Meuron

Un nuovo progetto di riqualificazione è stato presentato alla città di Milano. La nuova sede della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, un progetto di Herzog & de Meuron fortemente ispirato alle linee architettoniche lombarde. Il progetto disegna una struttura edilizia composta da due corpi, due strutture gemelle, che esaltano gli elementi urbanistici e valorizzano l’antica Porta riproponendo la tradizione lombarda degli edifici gemellari. L’area interessata è quella tra Viale Pasubio e Viale Crispi, di proprietà della famiglia Feltrinelli da fine ’800, e quella tra Viale Montello e Porta Volta di proprietà del Comune di Milano. È un intervento urbanistico che unisce l’eccellenza culturale della Fondazione Feltrinelli all’azione di regia del territorio del Comune. Il piano di riqualificazione prevede anche la creazione di ampi spazi verdi, con boulevard, piste ciclabili e percorsi pedonali, affiancati da funzioni di servizio tra cui una libreria, una caffetteria, un ristorante e altre attività commerciali. I progettisti dell’opera hanno illustrato la loro idea architettonica osservando che «la forma longilinea, lineare della costruzione fa riferimento, da un lato, alla tradizione gotica che si esprime in importanti costruzioni della città di Milano, dall’altro alle cascine longilinee che costellano il paesaggio della Lombardia». «Il nostro antico maestro Aldo Rossi continuano - considerava queste strutture lineari il tratto caratteristico del suo lavoro, perciò nel nostro progetto Feltrinelli per

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SCHEDE Blob VB3, Kempen (Belgio) Progetto: Studio dmvA La Rini van Beek, rappresentante per l’Olanda di diversi marchi di design internazionali, si è rivolta agli architetti Tom Verschueren e David Driesen dello studio dmvA - il cui acronimo è “door middel van Architectuur”, che vuole letteralmente dire “per mezzo dell’architettura” - per la creazione di uno spazio per lavorare, un rifugio sulle sponde di un lago nella zona di Kempen nelle Fiandre. I due progettisti hanno pensato a uno strano oggetto, assimilabile a un’opera d’arte che non coprisse né compromettesse l’architettura della costruzione originale: una sorta di uovo in poliestere, un grande ciottolo, una forma che non ha alcuna direzione e la cui fruizione non è circoscritta a un luogo specifico. Blob VB3 ha un’area interna di circa 20mq, può essere trasportato su un camion e collocato in una foresta, in giardino o sul tetto. La costruzione ha richiesto 18 mesi di lavoro e tutti i servizi, doccia, wc, lavandino e fornitura elettrica sono stati pensati così da semplificarne l’allaccio. Oltre ad avere una porta e un lucernaio sul tetto, può essere aperto nella sua parte anteriore. Peccato che la commissione urbanistica di Kempen non abbia approvato il progetto.

In alto, schema progettuale e schizzo concettuale della struttura ovoidale Blob Vb3. Le immagini riprendono sia l’esterno che l’interno con le pareti attrezzate

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Ponte pedonale, La Roche-sur-Yon (Francia) Progetto: Bernard Tschumi Architects / Hugh Dutton Associates

Presso la stazione di La Roche-sur-Yon in Francia è stato costruito un ponte pedonale che scavalca la nuova linea dell’alta velocità (TGV). L’intento è rendere una struttura di servizio un landmark, un segno identitario della nuova realtà urbana, un’interrelazione concreta e simbolica tra le due parti della città, i nuovi quartieri e la città storica le Pentagone, fondata da Napoleone. Il prolungamento della linea ferroviaria ad alta velocità (TGV) fino a La Roche-sur-Yon è un momento molto importante per l’ammodernamento della rete ferroviaria europea e francese. La passarella, ispirata all’opera di Gustave Eiffel, sostituisce una precedente struttura standard delle ferrovie. Essa è basata sull’impiego di due doppie travi in ferro poste ai due lati dell’impalcato del ponte e collegate tra loro da montanti verticali e da un reticolo composto da fasce piatte incrociate diagonalmente. Il tema formale dell’intervento è quello di un cilindro cavo, realizzato con travi a T e ad H, incrociate in senso diagonale. La dimensione della sezione dei diversi componenti strutturali variano in funzione del carico per ottimizzare la conformazione dell’insieme e il colore rosso-arancio brillante è stato scelto per sottolineare il senso del movimento, perchè come Tschumi afferma, «non vi è architettura senza movimento». «Un ponte pedonale non è solo un oggetto statico, ma rappresenta un vettore dinamico sia nel suo utilizzo che nella percezione urbana». L’opera di Tschumi e Dutton si rifà anche alle strutture spaziali dell’ingegnere Robert le Ricolais, nato proprio a La Roche-sur-Yon.

A sinistra lo schema delle diverse sezioni trasversali. Le fotografie riprendono il ponte da vari punti di vista. È visibile l’intreccio delle fasce piatte che incrociandosi diagonalmente generano la maglia cilindrica autoportante che sorregge il piano di calpestio

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SCHEDE Chu Hai College, Hong Kong (Cina)

Una serie di rendering della nuova sede Chu Hai College di Hong Kong. Tra le due piastre, all’esterno, è stato pensato un altro spazio di relazione. In alto a destra, uno spaccato assonometrico della piastra di collegamento. Le ampie facciate sono caratterizzate dalla trasparenza del vetro e dal disegno dei collegamenti verticali degli otto piani

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Courtesy OMA

Centro universitario storico, fondato nel 1947 e oggi con più di 4mila studenti, il Chu Hai College di Hong Kong avrà un nuovo campus. Il progetto (OMA e Leigh & Orange sono gli studi vincitori del concorso), costituito da strutture per l'istruzione, accoglierà tre facoltà universitarie, Arte, Scienze e Ingegneria, ed Economia, 10 dipartimenti e due centri di ricerca e avrà una superficie di 28mila mq. Il team vincitore del concorso ha immaginato un campus ricco di spazi comuni, pensati per favorire e facilitare l’incontro. Infatti il progetto consiste in due lastre orizzontali parallele di otto piani ciascuna, per aule, studi e uffici, e collegate tra loro da un piano per i servizi sociali ed educativi. La piattaforma di connessione tra i due corpi principali ospita: una biblioteca, una mensa, una palestra, delle aule e, nella parte più alta, un sistema di rampe che unisce le diverse funzioni educative e sociali. Nel suo sviluppo l’impianto segue la topografia naturale del sito caratterizzata da un pendio collinare. In questo modo il nuovo campus appare saldamente inserito all'interno del paesaggio circostante. Le ampie facciate in vetro strutturale offrono la vista sul campus e consentono anche di osservare, dall’esterno, il funzionamento interno degli edifici. Orientate così da incentivare la ventilazione naturale interna riducono il bisogno di aria condizionata del 15-30 per cento. Il sito, caratterizzato da un’ampia vista sulla Baia di Castle Peak , fino a qualche anno fa ospitava sulle sue verdeggianti colline numerosi edifici dell’esercito britannico, alcuni dei quali verranno preservati per ospitare alloggi, associazioni studentesche e una mensa. La motivazione che la giuria ha addotto è: «la capacità di regalare una forte identità visiva al College, la flessibilità d'uso e la capacità di offrire un ambiente favorevole per la formazione multidisciplinare”.

By Frans Parthesius courtesy OMA

Progetto: OMA / Leigh & Orange Architects


Bastard-store, Milano Progetto: Studiometrico

Alcuni anni fa, Comvert produttore di articoli per skateboarders e snowboarders ha deciso che era giunto il momento di trovare un nuovo spazio dove trasferire la propria sede operativa e ha affidato a Studiometrico sia la ricerca dell’immobile, che la sua eventuale ristrutturazione. Il posto ideale doveva essere abbastanza grande da poter ospitare gli uffici di amministrazione, la produzione, un negozio, un magazzino, un accesso per le merci e una skate-bowl. Il Progetto recupera il Cinema Istria di Milano, un edificio con una superficie totale di 1.400 mq. L’ingresso principale, un ambiente regolare di 70 mq, è stato trasformato nel primo bastard-store. Gli elementi d’arredo sono montati su ruote in modo da poter essere disposti liberamente. Lo spazio a mezzaluna del vecchio foyer, abbracciato da due scalinate curve che conducono alla galleria è collegato attraverso una serie di aperture al volume della vecchia

platea. Si tratta del baricentro del cinema perché collega tutti gli altri ambienti principali e funziona come ‘cerniera’ tra l’asse principale dell’edificio e quello, ruotato, di Via Slataper. Il pavimento originale in marmo giace su di un piano leggermente inclinato, le scale hanno solidi corrimano in legno curvato. Gli uffici dell’amministrazione sono stati organizzati su una pedana in legno di larice che rettifica l’inclinazione del pavimento e risolve il problema della distribuzione degli impianti elettrici. La presenza di tre ‘contenitori-balaustre’ garantisce la necessaria intimità rispetto agli sguardi dei visitatori del negozio adiacente. All’interno del grande spazio, alto circa 15 m, della vecchia platea, a ridosso della parete di fondo dove un tempo giaceva lo schermo per le proiezioni, è stata costruita una struttura industriale in metallo verniciato su due livelli che viene utilizzata come magazzino per i prodotti.

Nella pianta in alto e nella sezione in basso si leggono le scelte progettuali fatte per trasformare la struttura del vecchio Cinema Istria di Milano nella prima sede del bastard-store: negozio, magazzino, skate-bowl per gli amanti dello skateboard e dello snowboard

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SCHEDE Fincube Progetto: Werner Aisslinger È un’unità abitativa compatta e completa, dotata di una facciata di vetro a pieno perimetro. Ha superficie utile di 47 mq e, grazie alla sua innovativa costruzione modulare, è facilmente trasportabile. Sia per le strutture portanti che per l’arredo interno è stato prevalentemente utilizzato il larice, uno tra i più tipici legni dell’arco alpino. Werner Aisslinger, designer berlinese di fama internazionale, è il progettista di questa particolare struttura minimalista che nella sua veste da “small + smart house” offre a chi la abita il massimo comfort residenziale. È un esclusivo appartamento per gli ospiti nel giardino della propria casa, è una casetta di villeggiatura in campagna o una dependance familiare. Ha un tetto piano variamente sfruttabile, che potrà essere usato per il verde o un impianto fotovoltaico per una propria produzione di corrente elettrica. La protezione esterna in legno lamellare che l’avvolge, oltre a renderlo un vero e proprio “landmark” architettonico, garantisce la necessaria privacy. I pannelli modulari utilizzati per le pareti e le superfici funzionali permettono di suddividere lo spazio interno secondo le esigenze personali. Il Fincube è un insieme tra architettura ecosostenibile ed esclusività di design e grazie all’impiego di materiali naturali come legno, pietra e vetro, e al metodo costruttivo a basso consumo energetico unito al minimo impatto col suolo rispetta tutti i criteri della ecosostenibilità.

Nella foto in basso: vista assonometrica dell’interno. Il Fincube è un oggetto concluso e minimalista. Un’abitazione prefabbricata realizzata, seguendo un metodo costruttivo a basso consumo energetico, con materiali naturali come legno e pietra

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