ORDINE DEGLI ARCHITETTI PIANIFICATORI, PAESAGGISTI E CONSERVATORI DELLA PROVINCIA DI VICENZA
ARCHITETTI VICENZA
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AVI architetti Iscritta con l’autorizzazione del Tribunale di Bologna al numero 8223 del 18 gennaio 2012
Direttore Editoriale Giuseppe Pilla Direttore Responsabile Maurizio Costanzo Caporedattore Iole Costanzo Coordinamento di Redazione Cristiana Zappoli Art Director Laura Lebro Consiglio dell’Ordine Stefano Battaglia, Arduino Busnardo, Laura Carbognin, Monica Castegnaro, Joelle De Jaegher, Marisa Fantin, Andrea Grendele, Marcella Michelotti, Manuela Pelloso, Giuseppe Pilla, Ugo Rigo, Enrico Tadiotto, Francesca Professione, Giuseppe Clemente, Miriam Scaramuzza Ha collaborato Manuela Garbarino Stampa ARBE Industrie Grafiche - Modena www.arbegrafiche.it finito di stampare in luglio 2012
Via Roma, 3 - 36100 Vicenza Tel. 0444.325715 - www.architettivicenza@awn.it
KOrE E D I Z I O N I
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sommario 17
Intervista Leopoldo Freyrie La rigenerazione urbana per sconfiggere la crisi
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Panorama Wienerberger Brick Award Ridare valore al restauro Libri Serpentine Gallery
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p.23 p.26 p.28 p.30
Progettare Si alza il sipario Kilden Performing Arts Centre, Kristiansand Progetto di ALA Architects
p.32
Semplice e imponente Museo Xinjin-Zhi, Cheng du Progetto di Kengo Kuma
p.42
Metamorfosi di un triangolo Vanke Triple V Gallery, Tianjin Progetto di Ministry of Design
p.50
La geometria che interseca la storia p.60 Milit채rhistorisches Museum der Bundeswehr, Dresda Progetto di Daniel Libeskind
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68
Eventi Sulle tracce di Alvar Aalto
72
No-profit Solidarietà senza confini
74
Approfondimenti La strada del cambiamento
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Appuntamenti Architettura, Arte & Design
91
AVI - Focus Il senso della creatività
p.92
Strategia del progetto
p.93
Riflessioni sulla sostenibilità
p.94
Basque Culinary Center Progetto di VAUMM architecture & urbanism
p.98
Museo Enzo Ferrari Progetto di Jan Kaplický, Andrea Morgante
p.99
Wolfe Center for the Arts Progetto di Collaborative
p.100
Kaap Skil Progetto di Mecanoo Architecten
p.101
Eye Film Institute Delugan Meissl Architects
p.102
Museo del Passo Progetto di Werner Tscholl
p.103
12 AVI architetti
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editoriale
C
i siamo finalmente! Né più né meno che una rinascita: AVI, la rivista degli Architetti vicentini, ritorna dopo un periodo di silenzio, di ripensamento e di rielaborazione.
Ripartire di questi tempi con una rivista non è cosa facile; eppure questa nostra sfida parte dalla consapevolezza che dobbiamo infondere ulteriore nuova energia alle nostre città, al nostro territorio e alla nostra professione. Tutto questo è quanto mai necessario nell’attuale fase, difficile da decifrare e allo stesso tempo importante e decisiva, in cui crescono responsabilità e compiti. Il momento storico che viviamo prelude a scenari nuovi, in larga parte ancora imprevedibili, ma che eserciteranno ripercussioni e attribuiranno nuovi ruoli alla nostra professione. E la rinascita di AVI è dovuta alla sincera volontà di affermare il valore civile e sociale dell’architettura e quindi del nostro lavoro di architetti. Ci siamo domandati se avesse senso in Italia – che è il Paese a livello mondiale con il più alto tasso di architetti per metro quadrato, a cui si accompagna forse il più alto numero di pubblicazioni settoriali specialistiche dedicate all’architettura – riproporre il sostegno ad una voce in un panorama così ampio e a volte troppo ripetitivo. È meglio scordarsi della rivista come contenitore di vari livelli di informazione. L’informazione ormai gira in altri luoghi e sono cambiati modo e tempo di percezione della notizia. Se i caratteri della rete sono addirittura la aperiodicità volatile, immediata, che non decanta e rimane in superficie e i suoi materiali sono una quantità alluvionale di immagini, una rivista stampata deve essere uno strumento altamente professionale e con un’identità e una funzione ben precise. È fondamentale la qualità di quello che si pubblica, qualità di immagine e qualità di contenuto su temi molto definiti che riguardano la contemporaneità del costruire, del progettare, dell’architettura. La risposta, quindi, sta tutta nel riuscire a costruire una rivista che rappresenti la voce della professione, attraverso le più elevate testimonianze di qualità culturale declinate all’interno del lavoro professionale. Per fare questo occorre il contributo assiduo, con la partecipazione attiva degli architetti, fatta anche di stimoli e di osservazioni critiche nei confronti della nuova attività redazionale. Nello stesso tempo continueremo ad aprirci alle collaborazioni esterne e ai contributi del mondo dei saperi, delle professioni, delle università, del lavoro e della produzione. L’obiettivo è quello di dare vita ad una vera e propria “comunità in rete” con cui rendere più dinamico e animato il confronto che sarà aperto, criticamente, anche a contesti non sempre locali che tutelano il territorio, investendo sulla ricerca della qualità e della sostenibilità che l’architettura può dare e che, di conseguenza, investono negli architetti e nelle loro capacità professionali. AVI vuole essere un periodico capace di portare alla luce le storie inespresse del nostro territorio e della nostra cultura architettonica e di sostenere le nuove potenzialità emergenti. Si potranno intervistare architetti, aziende produttrici, imprese costruttrici in ordine alla reciproca collaborazione, alle nuove forme di sviluppo integrato tra progettazione e produzione e in merito alla necessità di sviluppare modelli progettuali e produttivi sempre più sostenibili. Naturalmente ringraziamo autori, ospiti, sostenitori e sponsor, tutti coloro che hanno seguito con interesse i nostri sforzi e tutti quanti hanno creduto in questo progetto e hanno fatto in modo che esso potesse svilupparsi e che gli permetteranno di crescere ulteriormente.
Giuseppe Pilla
Presidente Ordine Architetti PPC di Vicenza
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intervista
La rigenerazione urbana per sconfiggere la crisi
Riqualificazione del patrimonio edilizio, incongruenze della riforma del lavoro, normativa sui lavori pubblici e garanzia della qualità. Leopoldo Freyrie, presidente del CNAPPC, riflette sull’attuale condizione professionale degli architetti e sulle ultime, e a volte poco chiare, normative di Iole Costanzo ’attuale crisi economica richiede un cambiamento radicale. Lei, in qualità di presidente del CNAPPC, che consigli si sente di dare in merito agli architetti italiani? «Gli architetti italiani stanno pagando un forte tributo alla crisi economica con vistosi effetti sui tempi di pagamento e sulle insolvenze che aggravano il già pesante crollo verticale del mercato della progettazione che, da tempo, si protrae sia nel settore privato che in quello pubblico, quest’ultimo di fatto ormai esautorato. La strada per porre rimedio allo stato di crisi del mercato e a quello della nostra professione e per offrire, allo stesso tempo, progetti utili allo sviluppo del Paese e alla salvaguardia dell’ambiente è quella di realizzare - nell’arco di vent’anni - un grande progetto di rigenerazione urbana. Partendo dai dati oggettivi sullo stato di degenerazione del patrimonio edilizio italiano e dalla richiesta di innalzamento della qualità dell’habitat, ma, soprattutto, di quella degli standard di sicurezza da parte dei cittadini, il Consiglio Nazionale degli Architetti ha elaborato – insieme ad Ance e a Legambiente - il Programma RI.U.SO (Rigenerazione Urbana Sostenibile) al fine di mettere in atto un piano per la riqualificazione delle nostre città e dell’ambiente. C’è da segnalare – e ne siamo orgogliosi - che i Ministri Passera e Ciaccia hanno individuato in RI.U.SO. il corpo principale del Piano Città, lanciato dal Governo, riconoscendone il valore in termini di sicurezza degli edifici, valorizzazione e difesa dell'ambiente oltre che di importante volano per l'avvio della crescita economica». Il 27 marzo scorso lei ha scritto una lettera al governo dichiarandosi contrario alla riforma del lavoro. Cosa le fa credere che potrebbe far aumentare la disoccupazione? «Non abbiamo mai espresso tout court la nostra contrarietà al progetto di riforma del mercato del lavoro. Abbiamo sottolineato come il provvedimento mostrasse una insufficiente conoscenza delle dinamiche e della realtà del nostro mondo professionale e come, alcune norme, allora in esso contenute, potessero aggravare le difficoltà di un settore - come quello del-
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la progettazione - così duramente colpito dalla crisi. Per questo motivo abbiamo chiesto di non equiparare la situazione degli studi professionali a quella di aziende e imprese. Una volta riconosciuta la peculiarità del nostro lavoro, il modo e i rapporti in cui esso si realizza, l'idea di rendere obbligatoria l'assunzione di chi collabora per 6 mesi con uno studio o di chi in un anno fattura il 75% del proprio fatturato ad un solo cliente, risulta, di per sé, un’evidente assurdità se applicata agli studi professionali. Necessario è invece migliorare le tutele di chi lavora nel nostro settore e, in particolare negli studi di architettura. A questo proposito voglio però ricordare che già ora le norme di deontologia permettono di perseguire comportamenti scorretti verso i propri collaboratori. È davvero importante allora che i colleghi segnalino agli Ordini di appartenenza eventuali comportamenti non appropriati». Cosa cambierà per gli architetti ora che la legge 27 del 24 marzo 2012 art 40 bis approva la competenza della protezione civile sulla gestione dei grandi eventi «Faccio una premessa. È il concetto stesso di “emergenza” che dovrebbe essere sradicato dalla nostra cultura, soprattutto quando esso diviene causa della incapacità del nostro Paese di dotarsi di una progettualità che riguardi ad esempio - per rimanere nell’ambito della nostra professione - il territorio e l’habitat. E il provvedimento che riguarda la Protezione civile è figlio di questa logica. Da tempo il monito del Consiglio Nazionale degli Architetti è invece proprio quello di dire basta a questa logica. Per questo ci è sembrato molto positivo che il ministro dell'Ambiente, Corrado Clini, abbia lanciato un piano nazionale per la sicurezza del territorio considerandolo “una priorità e una grande infrastruttura per il nostro Paese”». Se professionisti come gli architetti nelle gare pubbliche saranno considerati «imprese» e pertanto risulteranno sensibili alla libera concorrenza, più che la riduzione del guadagno, quali altre conseguenze potranno esserci? «Tutta la recente normativa sui lavori pubblici è ba-
Leopoldo Freyrie Milanese, 52 anni, nel 1993 fonda con Marco Pestalozza la “Freyrie & Pestalozza Architetti Associati”, realizzando in Italia e nel mondo edifici complessi e sedi di società e di attività commerciali. Consigliere del CNAPPC dal 1997, nel 2001 è rappresentante del Governo italiano al Comitato Consultivo per la Formazione di Architetto presso l’Ue. Nel 2004 è Presidente del Consiglio degli Architetti d’Europa ed è insignito della American Institute of Architects Presidential Medal. Attualmente è presidente del Consiglio Nazionale degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori, eletto il 16 marzo 2011.
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Pur con tanti buoni professionisti è sorprendente come in Italia, nazione con una grandissima tradizione di sviluppo della cultura urbana, negli ultimi decenni si sia perpetrata una sistematica devastazione di ampie porzioni del territorio nazionale. In quest’ottica RI.U.SO, il Programma Nazionale di Rigenerazione Urbana Sostenibile, può essere un importante elemento di riqualificazione
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sata su una visone assai burocratica delle procedure. Visione che, di fatto, è risultata incapace di garantire la qualità del prodotto architettonico ed edilizio. E non può essere altrimenti se si perseguono i massimi ribassi e se si giudicano i curricula dei progettisti dal punto di vista della “quantità”, piuttosto che per la qualità del progetto e delle realizzazioni dei lavori. La logica perversa del massimo ribasso ha prodotto negli ultimi anni una grave crisi del mercato della progettazione, con il paradosso di arrivare a ribassi del 100% operati da colleghi o da bandi di gara per progetti proposti con parcella a 0 euro. Il Consiglio Nazionale degli Architetti e l’intero sistema ordinistico si sono opposti - e sempre si opporranno - a questa logica che non ha in alcun modo garantito - e non può garantire - la qualità degli interventi da svolgere. Noi ci batteremo ancora perché si affermi il principio di procedure corrette che, anche attraverso i concorsi, promuovano progetti (e progettisti) di qualità. Anche in questo ambito il Paese deve fare un grande salto di qualità: e gli architetti italiani sono pronti a mettere a disposizione le proprie capacità e le proprie competenze affinché ciò si realizzi». La pianificazione è ancora lo strumento principale per governare il territorio? «È urgente varare una nuova e moderna legge urbanistica, per valorizzare il nostro territorio. È inverosimile doverci adeguare a quanto afferma la normativa vigente - che risale al 1942 - secondo la quale il territorio “non deve più essere ricostruito”. Oggi, invece, ci esprimiamo in termini della sua salvaguardia da inadeguate trasformazioni urbanistiche, ponendo un freno all’espansione edilizia, incentivando i temi del recupero, della riqualificazione e rigenerazione urbana. Nella consapevolezza che la riforma urbanistica debba essere preceduta dalla rideterminazione del contenuto della proprietà fondiaria il Consiglio Nazionale degli Architetti e il Consiglio Nazionale degli Ingegneri in cooperazione con Ance, Tecnoborsa e CeNSU, e con la consulenza del professor Paolo Stella Richter, hanno predisposto una bozza di disegno di legge sul regime dei suoli denominata "Nuove norme in materia di contenuto della proprietà fondiaria, di determinazione dell'indennità di esproprio e di perequazione urbanistica". Il testo rappresenta una proposta organica finalizzata a salvaguardare il principio di pianificazione, liberando il territorio dall'episodicità della contrattazione tra Comune e singoli proprietari. Consente altresì di avviare a soluzione l'annoso problema della determinazione dell'indennità di espropriazione». Quanto la buona architettura può realmente influenzare il benessere del cittadino? «La buona architettura, intesa come realizzazione di progetti responsabili e consapevoli del contesto nel quale si collocano è fondamentale per il benessere di chi abita un territorio. Da questo punto di vista il
paradosso del nostro Paese è la scarsa richiesta di qualità architettonica. Pur con tanti buoni professionisti è sorprendente come in Italia, nazione con una grandissima tradizione di sviluppo della cultura urbana, negli ultimi decenni si sia perpetrata una sistematica devastazione di ampie porzioni del territorio nazionale. In quest’ottica RI.U.SO, il Programma Nazionale di Rigenerazione Urbana Sostenibile, può essere un importante elemento di riqualificazione, non solo energetica o statica, ma anche ambientale e culturale delle nostre città e degli spazi che le costituiscono». Si parla molto di social housing e co-housing, ma ancora una volta in Italia gli esempi da citare sono pochi, eppure i tempi sarebbero maturi perché l’argomento si concretizzi. Cosa può fare il CNAPPC rispetto a questo argomento? «Compito del Consiglio Nazionale può essere quello di stimolare l'innovazione legislativa con il Governo rispetto a questo e ad altri argomenti. Proposte relative a temi quali l’housing e il co-housing riguardano però maggiormente gli ambiti di azione di liberi professionisti, quali pianificatori o progettisti che possono inserirle all'interno dei loro lavori. Ma non sarà mai uno specifico provvedimento di legge a far superare al nostro Paese il gap rispetto al resto d'Europa: potrà eventualmente essere superato solo nel momento in cui sul mercato esisteranno proposte di qualità e di facile applicazione». Dopo tre anni dal terremoto de L’Aquila, è purtroppo facile constatare che non solo durante la «ricostruzione» la gestione è stata superficiale, ma che anche la burocrazia ha bloccato nuove valide proposte. Cosa si può ancora fare per salvare una città che sembra destinata a morire? «La situazione de L'Aquila è complicatissima e sconta sia un contesto assolutamente complesso, quello di danni vastissimi, sia la mancanza di una visione strategica complessiva e capace di gestire la situazione successiva al sisma e quella della ricostruzione. Ma non vorrei addentrarmi in questo contesto in valutazioni di tipo più strettamente politico. Voglio, invece, ricordare il bando per il primo vero concorso internazionale per la ricostruzione de L’Aquila - e che riguarda Piazza D’Armi, importante via di accesso alla città - che il Consiglio Nazionale degli Architetti ha coordinato in collaborazione con il Comune, l’Ordine degli Architetti de L’Aquila, la Federazione degli Ordini degli Architetti dell’Abruzzo e del Molise, la rappresentanza dei cittadini aquilani, con il contributo di Inarcassa, Ance e Confcommercio. Un esempio che ci induce ad essere ottimisti affinché sempre più si affermi nel nostro Paese il ricorso all'utilizzo dello strumento del concorso di architettura. Consapevoli sempre che il territorio e l'ambiente sono dei beni non rinnovabili e le trasformazioni che vi vengono attuate non reversibili. Insomma. l'architettura non riguarda solo gli architetti o i costruttori, ma, soprattutto, i cittadini».
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PANORAMA
a cura di Cristiana Zappoli
Connessioni, riflessioni, segnalazioni. Su materiali, architetture e design
I PREMI Wienerberger Brick Award Il 3 maggio si è tenuta al Municipio di Vienna la cerimonia di premiazione della quinta edizione del Wienerberger Brick Award 2012, un premio organizzato da Wienerberger AG. Con 230 impianti in 30 paesi e 12000 dipendenti sull’intera rete mondiale, Wienerberger è il più grande produttore di laterizi nel mondo e il più grande produttore di tegole in Europa e il premio è una competizione internazionale di architettura rivolta a progettisti, architetti e ingegneri che vede protagonista l'uso del laterizio, materiale pienamente contemporaneo e tecnologicamente all’avanguardia. A livello globale, un numero sempre maggiore di progettisti dimostra grande attenzione per le caratteristiche funzionali e stilistiche offerte dai materiali in argilla cotta. Questa tendenza emerge in modo evidente dal numero dei partecipanti: 260 progetti provenienti da 28 paesi, di cui 50 hanno avuto accesso alla competizione finale. Tutti questi ultimi sono presenti nel volume Brick’12, che presenta ogni progetto attraverso una galleria di immagini e testi di critici di fama internazionale. Il premio Vincitore Assoluto è andato allo studio Peter Rich Architects insieme all’architetto Michael Ramage e all’ingegnere John Ochsendorf con il progetto Mapungubwe Interpretation Centre, situato nell’omonimo parco nazionale di Limpopo in Sud Africa, patrimonio dell’UNESCO dal 2003. Al progetto, realizzato in mattoni artigianali è andato an-
che il premio per la categoria Soluzioni Speciali in laterizio. Il Mapungubwe Interpretation Centre restituisce al visitatore un coinvolgimento particolare: l’argilla con cui è stato realizzato si fonde perfettamente con l’ambiente naturale circostante e, allo stesso tempo, sottolinea l’antica presenza umana nel territorio. «Il progetto Mapungubwe Interpretation Centre di Peter Rich Architects mostra, in maniera molto precisa, come possiamo contribuire a rendere il nostro tormentato pianeta
Sopra: The rabbit Hole (Belgio), vincitore della categoria “Abitazioni Unifamiliari”. Sotto: Primary Electrical Substation (Londra), vincitore della categoria “Edifici non residenziali”
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un posto migliore in cui vivere. La realizzazione fonde le antiche tecniche costruttive dei sistemi a volta con le più moderne ricerche scientifiche per la definizione della struttura. La struttura risulta essere così semplice che potrebbe essere stata costruita dalla popolazione locale, creando una splendida architettura dedicata alla pubblica utilità. Oltre a ciò, vengono utilizzati materiali locali, rendendo le performance a basso consumo energetico. L’equilibrio tra bassa e alta tecnologia, unito allo straordinario paesaggio locale, si traducono in un’architettura universale e intramontabile, mostrando la ricchezza del laterizio impiegato nell’architettura», con queste parole Hrvoje Hrabak, fra gli architetti che facevano parte della giuria del premio, insieme a John Foldbjerg Lassen, Zhan Lei, Plamen Bratkov e Rudolf Finsterwalder, elogia il vincitore assoluto del concorso. Il primo premio per la categoria Abitazioni Unifamiliari è stato assegnato al progetto The Rabbit Hole, realizzato in Belgio, a Gaa-
Sopra: Conversion of a ruin (Slovacchia), vincitore della categoria “Ristrutturazioni”. A sinistra: Home for the elderly (Portogallo), vincitore della categoria “Edifici residenziali”. Sotto: Mapungubwe Interpretation Centre (Sud Africa), vincitore assoluto e vincitore della categoria “Soluzioni Speciali in laterizio”
sbeek, da Bart Lens, che ha utilizzato mattoni faccia a vista prodotti da Wienerberger. Sulle rovine di un antico casolare l’architetto ha realizzato una zona residenziale e una clinica veterinaria separate da un luminoso spazio intermedio. Per quanto riguarda gli edifici residenziali, il premio è andato agli architetti portoghesi Francisco e Manuel Aires Mateus, progettisti di una dimora per anziani a Alcaler Do Sal, in Portogallo. I due hanno dato vita ad un complesso residenziale che combina temi regionali con un design architettonico contemporaneo. Home for the Elderly, questo il nome della struttura, dimostra come funzionalità e impiego sociale possano trovare nuova sintesi nella qualità architettonica. Lo studio Nord Architecture, con il progetto per cabina elettrica Primary Substation, realizzato a Londra in vista dei Giochi Olimpici, è salito sul primo gradino del podio nella categoria Edifici non residenziali. La combinazione di diverse tipologie di mattoni ha dato vita a un edificio dalle caratteristiche cromatiche inusuali dominato dai toni del nero. Per la categoria Ristrutturazioni, il vincitore è stato lo studio Pavol Panak, grazie al progetto per la riconversione di un’antica rovina in casa per il weekend in Slovacchia, utilizzando mattoni faccia a vista. L’intervento dimostra come sia possibile trasformare un rudere in un edificio contemporaneo altamente innovativo.
I PREMI Ridare valore al restauro La seconda edizione del Premio Internazionale “Domus Restauro e Conservazione” Fassa Bortolo, promosso dalla Facoltà di Architettura dell’Università di Ferrara, ha visto l’iscrizione al concorso di oltre 130 progettisti divisi nelle due categorie: opere realizzate e tesi di Laurea, Dottorato o Specializzazione. I partecipanti effettivi (una novantina) sono stati valutati da una giuria internazionale. Tra i partecipanti nella categoria Opere Realizzate troviamo interessanti nomi dell’architettura contemporanea come i portoghesi Magén arquitectos, gli spagnoli Barozzi-Vega e i già pluripremiati studi italiani Luciano Cupelloni architettura e C+S associati. Il premio è un’iniziativa volta a far conoscere a un ampio pubblico restauri architettonici che abbiano saputo interpretare in modo consapevole i principi conservativi nei quali la comunità scientifica si riconosce, anche ricor-
In questa pagina: progetto e intervento di restauro della Torre Bofilla a Bétera, Spagna, vincitore della Medaglia d’Oro
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rendo a forme espressive contemporanee. A testimonianza della buona espansione della manifestazione, anche all’estero troviamo per la prima volta esponenti del restauro asiatici con interessanti proposte provenienti dall’India e da Singapore. In questa categoria i partecipanti sono 39, divisi geograficamente in 26 dall’Italia e 13 da Svezia, Spagna, Svizzera, Austria, India, Singapore e Malta. Per quanto concerne la categoria Tesi di Laurea, Dottorato o Specializzazione i partecipanti sono 51 e per la prima volta la sezione presenta due proposte provenienti da Spagna e Austria, un risultato sicuramente da incrementare in futuro. La Medaglia d’Oro è andata all’intervento di restauro della Torre Bofilla a Bétera (Valencia) in Spagna, realizzato da Fernando Vegas e Camilla Mileto architetti. Il progetto interessa un monumento di particolare importanza per la comunità, per la storia della Spagna musulmana e per la gran-
Sopra e a sinistra: conservazione del complesso del Nagaur Fort, India, vincitore della Medaglia d’Argento. Sotto: intervento di restauro e musealizzazione nella basilica di Santo Stefano Rotondo a Roma, vincitore della Medaglia d’Argento
de difficoltà operativa trattandosi di un manufatto realizzato in terra cruda. L’intervento si fonda sulla consapevole accettazione del degrado raggiunto nel tempo dalla materia costitutiva della torre, contrariamente a più diffuse e corrive tendenze verso il ripristino. La consunzione del pisé diviene elemento di valorizzazione del significato storico e artistico della torre. La Medaglia d’Argento è stata assegnata ex equo alla conservazione del complesso del Nagaur Fort a Rajasthan in India di Jain Minakshi, e agli interventi di restauro e musealizzazio-
A sinistra: il vecchio Archivio Nazionale a Stoccolma, Svezia, l’altro vincitore della Medaglia d’Argento
ne nella basilica di Santo Stefano Rotondo a Roma di Riccardo d’Aquino, Mauro Olevano, Francesco Nardi architetti associati. Il primo intervento si segnala per il grande impegno culturale finalizzato alla conservazione di un complesso di straordinaria importanza. Di notevole interesse si rivelano gli sforzi per la conservazione del testo architettonico e quelli relativi all’inserimento di attività ricettive in grado di contrastare il rischio di ruderizzazione. Apprezzabile è il recupero della suggestione del luogo con il reinserimento di specchi d’acqua. Nell’intervento di Roma si riconosce, invece, una progettazione condotta con grande sensibilità, adesione al dato storico, volontà di favorire la “lettura” del monumento e le suggestioni provenienti dai pochi frammenti antichi superstiti, attenzione a restituire allo spazio interno una piena fruibilità come edificio ecclesiastico vivo. Gli interventi presentati hanno riguardato il pavimento, il sistema d’illuminazione interno, la copertura degli ambienti ipogei e il contenimento dell’umidità. Rispettosa ed elegante nella sua creatività si dimostra la definizione dei corpi illuminanti e, diversamente, l’integrazione pavimentale della Cappella di Santo Stefano.
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I LIBRI Rivalutare il patrimonio artistico L'Italia, un Paese ricco di cultura, è anche quello rimasto aggrappato a vecchi schemi come la distinzione tra salvaguardia del patrimonio artistico e produzione culturale contemporanea. Un patrimonio artistico che è diventato una tomba e imprigiona l’Italia da almeno trent'anni in una condizione di amnesia collettiva e di paralisi creativa. E per uscirne, secondo gli autori, serve innovazione, creatività e produzione culturale. Elementi che sarebbero in grado di rompere il blocco psicologico che tiene in scacco l'Italia anche sul versante economico. Preservare il patrimonio artistico italiano e farlo diventare una risorsa economica è ciò che questo libro esamina. E a dirlo sono Pier Luigi Sacco professore ordinario di Economia della Cultura presso l’Università IULM di Milano, e Christian Caliandro dottore di ricerca in storia dell’arte con attività di ricerca presso la Fondazione Università IULM di Milano.
Italia Reloaded. Ripartire con la cultura
Christian Caliandro Pier Luigi Sacco Il Mulino 146 pagine costo: 13,50 euro
I LIBRI Domani che oggetti compreremo Design 2029. Ipotesi per il prossimo futuro
Renato De Fusco Franco Angeli 131 pagine, costo: 19,00 euro
I LIBRI Ma di cosa è fatto il design? Design e materiali. Esiste tra loro un ovvio legame inscindibile e consolidato da sempre. La storia dell’uno è legata all’innovazione dell’altro. Non esiste il design senza i materiali. Ma l’ovvio legame non dà una risposta a tutte le domande, e questo libro è stato pensato per sensibilizzare sia giovani studenti che affermati designer sui materiali, in particolar modo sul tema della sensorialità, e vuole anche dimostrare come sia interessante indagare e introdurre gli strumenti per un’educazione sensoriale nel design. La ricercatrice Valentina Rognoli del Dipartimento di Chimica, Materiali, Ingegneria Chimica "Giulio Natta" e docente presso la Facoltà del Design del Politecnico di Milano e Marinella Levi, professore ordinario della Facoltà del Design del Politecnico di Milano, seguono e approfondiscono la ricerca dei materiali e il rapporto che essi hanno con l'innovazione, con le emozioni e con la sostenibilità e approfondiscono la progettazione e la caratterizzazione di nuovi materiali polimerici e ibridi. Il libro si propone di studiare gli artefatti privilegiando l’analisi di come essi determinino con le loro caratteristiche la personalità degli oggetti. Ma punta anche l’attenzione sulle reazioni che i cinque sensi hanno in relazione al colore, all’odore, alla superficie, al suono, alla morbidezza, alla lucentezza, alla temperatura e al peso. Per gli addetti ai lavori il libro fornisce indicazioni sugli atlanti espressivo-sensoriali che cercano di ca-
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talogare, con criteri di obiettività, gli aspetti tattili e fotometrici dei materiali, e sui sistemi iconografici usati per la comunicazione della morbidezza e sulle matrici usate per verificare le incongruenze sensoriali. Informa inoltre sulle materioteche, sviluppatesi soprattutto in Inghilterra, quali strumenti di lavoro e conoscenza.
Il senso dei materiali per il design
Valentina Rognoli Marinella Levi Franco Angeli 271 pagine, costo: 29,00 euro
È un saggio che cerca di capire cosa si produrrà e venderà nel campo del design e lo fa attraverso un’analisi storica, partendo dall’analogia tra storiografia e progettazione e sul fatto che la cultura del design è anche vista come soluzione di continuità con il passato. La tesi è che non esiste un solo design ma tanti quanti sono i campi merceologici e in base a ciò sono state proposte otto diverse previsioni: minimalismo, design come mass-medium, a tutto kitsch, il digitale salva tutto, l’usa-e-getta, gli inventori vs gli stilisti, l’ipotesi del grottesco, il brutto fa storia dell’arte, che evidenziano quanto diversa sia la specializzazione di chi produce dalla mentalità di chi compra. Ma vendere presuppone anche progettare e fabbricare, e non bisogna delegare solo al marketing ciò che è vendita ma far sì che se ne occupino anche critici e storici. Quindi che cosa si venderà? Per Renato De Fusco si può rispondere solo tenendo conto della figura, pensata già da Giovanni Cutolo, dell’edonista virtuoso.
I LIBRI Dallo stile vittoriano fino ad oggi Penny Sparke Einaudi 254 pagine, costo: 28,00 euro Interni moderni.
Il testo è stato diviso in due parti. La prima, Dall'interno all'esterno, è suddivisa in 5 capitoli: Gli interni privati, I Nuovi interni, Gli interni e il consumo di massa, Gli interni alla moda, Gli interni decorativi, e verte sull’analisi degli interni privati offrendo una suggestiva ricostruzione delle forze e dei dibattiti che hanno caratterizzato l'affermarsi di ciò che abitualmente chiamiamo interni moderni. La parte seconda, Dall'esterno all'interno è stata invece articolata in: Gli interni pubblici, Gli interni razionali, Gli interni prodotti in serie, Gli interni astratti e Gli interni progettati. Penny Sparke, docente di Storia del design alla Kingston University di Londra, accompagna il lettore attraverso la teoria e l'opera di designer internazionali descrivendo l'evoluzione che gli interni hanno subìto dallo stile vittoriano allo stile moderno e contemporaneo. Il volume è arricchito con 100 immagini che documentano, attraverso l’architettura, la storia della cultura e del costume, come gli interni abbiano assunto la fisionomia attuale.
ra al pubblico, entri direttamente nella sua collezione privata. «Siamo contentissimi ed emozionati - ha dichiarato - di poter finanziare il padiglione temporaneo della Serpentine Gallery proprio quest’anno che Londra ospiterà le Olimpiadi. Dopo il successo dello Stadio Olimpico di Pechino, pensiamo che non potevano esserci persone più adatte di Herzog & de Meuron e di Ai Weiwei per realizzare il padiglione». Il dodicesimo padiglione è stato costruito al di sotto del prato, scavando un buco profondo 5 metri e protetto da una piattaforma circolare a un metro e mezzo di altezza. La piattaforma è uno specchio d’acqua che riflette il cielo di Londra ed è stata pensata in modo da poter essere asciugata per ospitare eventi come spettacoli di danza. È sostenuta da dodici colonne che rappresentano i dodici padiglioni dal 2000 a oggi: i tre pro-
I INSTALLAZIONI Serpentine Gallery La realizzazione del nuovo padiglione estivo della Serpentine Gallery, aperto al pubblico dal primo giugno fino al 14 ottobre, è stato affidato, quest’anno, allo studio Herzog & de Meuron e all’artista cinese Ai Weiwei: lo stesso team che aveva realizzato lo Stadio Olimpico di Pechino per le Olimpiadi del 2008 e che per la prima volta si è trovato a lavorare insieme sul suolo britannico. Ogni anno dal 2000 la galleria londinese, che si trova all’interno dei Kensington Gardens, commissiona a un architetto diverso il padiglione, per poi smontarlo e rivenderlo all’asta. Quest'anno, però, la famiglia del magnate indiano dell'acciao Lakshmi Mittal, che ne finanzia la realizzazione, ha ottenuto che, dopo la sua chiusu-
Nelle foto: il nuovo padiglione. Il tetto ha una superficie d'acqua che riflette il cielo. Per occasioni speciali, l'acqua può però essere scaricata dal tetto direttamente nel sottosuolo e la sua superficie può essere utilizzata come piattaforma per spettacoli
gettisti vogliono fare riflette il visitatore sul senso di un progetto che da dodici anni vede impegnati i più importanti architetti al mondo e, come se fosse in un sito archeologico, vogliono accompagnarlo sotto terra alla scoperta della storia nascosta dei precedenti padiglioni: «dal 2000 per il progetto della Serpentine Gallery così tanti artisti si sono cimentati in forme e materiali diversi - spiegano - che abbiamo provato d'istinto a eludere il problema quasi inevitabile di creare un oggetto concreto e reale. Per fare questo la nostra proposta alternativa è stata di scavare sotto l'area del parco fino a raggiungere l'acqua». C’è anche un po’ di Italia nel padiglione di quest’anno: l’interno infatti è interamente rivestito in sughero fornito dall’azienda veneta Amorim Cork Italia. «Abbiamo scelto questa materia prima - spiegano gli architetti - perché il sughero è un materiale naturale con qualità tattili meravigliose ed è inoltre estremamente versatile per essere scolpito, tagliato, sagomato e formato».
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Si alza il sipario
FlessibilitĂ degli spazi interni e diversificazione delle sale. Il Kilden Performing Arts Centre di Kristiansand, in Norvegia, con il suo auditorium, sale da concerti e spazi polifunzionali, sarĂ un nuovo centro culturale e polo di attrazione per il turismo internazionale di Iole Costanzo
Foto di Marcel Lam
In questa foto: il foyer. La parete di vetro interseca il piano, ondulato e inclinato, realizzato con semplici doghe di legno di quercia. All’ariosa vista sul porto si oppone l’effetto schiacciante dell’obliqua parete sovrastante, simbolo del passaggio tra i due diversi mondi, quello reale e quello della rappresentazione. Gli accessi diretti alle sale sono ritagliati all’interno delle pieghe/onde e le porte sono state posizionate nella parte interna
cqua, vetro e legno. Sono questi i riferimenti materici che sintetizzano il Kilden Performing Arts Centre, il teatro con annessa sala da concerti, che è stato realizzato a Kristiansand, in Norvegia, su progetto degli ALA Architects Itd. Dalla Danimarca è facile giungere in questa città. Si attraversa il mare e con un viaggio di pochi minuti si è arrivati. Giungere da sud, in traghetto, vuol dire vivere la città diversamente: dopo l’attracco al porticciolo e prima di entrare in città per girovagare nell’accogliente e luminoso centro storico,“kvadraturen”, è possibile visitare il pittoresco mercato del pesce. Da quest’anno però la darsena offrirà una nuova opportunità: un nuovo centro culturale cittadino in cui assistere a spettacoli tersicorei, musicali e teatrali. La struttura, il Kilden Performing Arts Centre, invita e alletta, con la sua onda inclinata dalle movenze opposte a quelle del mare, ad entrare, vivere il foyer, e attraversare il piano inclinato, simbolo della voluttuosa separazione tra realtà e fantasia, per giungere nel magico mondo della rappresentazione. L’onda di legno interseca la vetrata d’ingresso e si proietta verso il mare. È un sistema, un unico ele-
A
mento geometrico costituito sia dal piano inclinato che dalla stessa copertura. È un cuneo, un oggetto monumentale, un diaframma dalla forma seducente. Conduce a sé, ma contemporaneamente separa il mondo reale da quello artistico. È una membrana calda e seducente, oltre la quale nasce lo spettacolo. Il cuneo influenza sia la distribuzione planimetrica dell’intera struttura sia l’acustica del foyer: le
In alto: tra le pieghe e gli accessi è stato organizzato un panoramico punto di ristoro che dà sul porto, inondato di luce e dominato dalla parete doghettata
SEZIONE TRASVERSALE
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PIANTA PRIMO LIVELLO
PIANTA SECONDO LIVELLO
A sinistra: particolare della struttura presente nell’ultimo livello, all’attacco tra la parete inclinata e la copertura. Le quattro planimetrie evidenziano, invece, come la struttura e la distribuzione interna si siano adeguate alle curvature delle pieghe lignee. Il nucleo centrale con servizi e salette fa da cuscinetto per le due sale principali, assicurando che non vi siano interferenze tra gli spettacoli. Così come i corridoi di collegamento fanno da separazione con l’esterno
PIANTA TERZO LIVELLO
PIANTA QUARTO LIVELLO
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Nelle tre fotografie: viste e particolari della sala posta a nord del secondo livello. Anche questo spazio, come gli altri, presenta particolari accorgimenti acustici. In basso particolare delle varie sfaccettature del pannello fono-assorbente. Le balaustre dei livelli, con le pieghe angolate, servono per spezzare le rifrangenze sonore
Progettisti ALA Architects Luogo Kristiansand, Norvegia Superficie 24.600 mq Destinazione sala da concerti, Teatro-Opera, sala multifunzione e piccolo teatro Cliente Teater og Konserthus for Sørlandet IKS Ingegneria strutturale WSP Multiconsult AS Acustica Brekke Strand Acoustics due pieghe più ampie accolgono al loro interno le sale da concerto, la Kristiansand Symphony Orchestra che può ricevere 1.200 spettatori, e l'Agder Theater, della compagnia teatrale locale, che ha una capienza di 700 posti e può essere trasformata per ospitare spettacoli d'opera. Per il teatro sperimentale è stato invece predisposto un palcoscenico, di piccole dimensioni, tra le due sale principali. A cuscinetto tra la saletta intermedia e le due grandi laterali sono stati ricavati anche alcuni spazi per l’organizzazione degli spettacoli e così sul retro, tra le sale e la facciata posteriore, lì dove la facciata perde la trasparenza e acquista una maggiore matericità, è stata predisposta un'unica fascia di ambienti di servizio direttamente collegati con l’esterno. L’accesso alla tre diverse sale è diretto, i percorsi sono indipendenti e dal foyer vetrato, con affaccio diretto
sul porto, è possibile entrare subito nel cuore, senza alcun impedimento o interferenza, per una totale immersione nello spettacolo. È il foyer con la sua precipua valenza di filtro, di luogo di “decantazione”, di pausa, e in questo caso di luce e riflessi notturni sul mare, il centro vivace del prima e del dopo spettacolo. È il luogo da cui andare incontro all’arte, ed è il luogo che prepara il ritorno verso la vita quotidiana, il mare, la città di Kristiansand e anche la vicinissima Danimarca. È uno spazio libero e luminoso che acquisisce anche valenza di porta, dell’andare verso, dell’attraversare e di tutto il pensiero filosofico che questo termine porta con sé. È il varco per i due mondi paralleli che rendono interessante la vita: la realtà e il sogno. Due condizioni imprescindibili e conniventi che abitano ormai da secoli - in questa come in altre nazioni - il mondo della cultura.
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SPACCATO PRIMO LIVELLO
SPACCATO SECONDO LIVELLO
I quattro spaccati evidenziano chiaramente quanto il Kilden sia stato appositamente progettato per far sì che la sala Kristiansand Philharmonic, l’auditorium del teatro Agder Theater, e l’Opera South siano indipendenti tra loro e servite in modo autonomo. Ogni sala è stata acusticamente progettata per accogliere diversi tipi di attività coinvolgenti più discipline artistiche. È una struttura estremamente flessibile, pronta a diventare un’attrazione internazionale. A destra: l’esploso delle funzioni: i 2 diaframmi/prospetti antitetici tra loro, e i 4 corpi scala centrali
SPACCATO TERZO LIVELLO
SPACCATO QUARTO LIVELLO
Gli spazi intermedi, di collegamento, tra le sale e i molteplici camerini e servizi, sono caratterizzati da colori molto accesi in contrasto tra loro ma mitigati da elementi colorati di nero. I diversi corpi illuminati sul solaio sono stati posizionati cosĂŹ da evocare una lineare deflagrazione
progettare
Semplice e imponente
Una moltitudine di piastrelle cangianti crea un rivestimento quasi tessile. Una maglia sottile, luminosa e riflettente garantisce la possibilitĂ di una schermatura solare diffusa. Xinjin-Zhi, il museo progettato da Kengo Kuma domina sulle preesistenze usando la discrezione e la tradizione di Iole Costanzo
Sotto: la facciata a sud del Museo Xinjin-Zhi è sfalsata e risponde a diverse angolazioni. La piastrella/tegola utilizzata per facciata è realizzata con un materiale locale lavorato con un metodo tradizionale tipico di questa regione
I
l Museo di Xinjin-Zhi progettato da Kengo Kuma per tutelare la cultura del Taoismo, costruito ai piedi del monte Laojunshan, a Cheng du in Cina, ha come pensiero fondante l’equilibrio che si crea tra la natura e l’animo umano. Tra gli opposti. L’equilibrio che lega il vuoto al pieno, l’interno all’esterno, la luce al buio, l’opacità alla trasparenza. L’edificio, particolare nella sua stessa essenza, ha l’acqua come elemento di congiunzione tra i diversi piani e tra il piazzale esterno e gli spazi espositivi interni. Presente sia fuori che dentro, l’acqua, specchia l’intorno, gioca con la luce e le ombre, fa vibrare le immagini dell’edificio e ne esalta l’aspetto etereo raggiunto grazie alla contaminazione tra tradizione e tecnologia. Il Museo di Xinjin-Zhi dal punto di vista planimetrico è ben distante dall’enfasi tipica dell’architettura classica cinese, dell’orizzontalità e della simmetria. È un padiglione in cemento armato realizzato su tre livelli diversi tra loro sia per gli
spigoli divergenti sia per la differente impostazione planimetrica. Influenze e contaminazioni hanno portato Kengo Kuma a elaborare nuovi elementi tecnologici che vestono e connotano l’edificio in modo inequivocabile e unico: filari di mattonelle a forma di coppo, realizzate con materiali locali, che smaltate e montate su cavi d’acciaio creano una fitta maglia inclinata con funzione di rivestimento per i prospetti dell’edificio. Una maglia che riflette e filtra la luce naturale negli spazi interni. Piastrelle, lavorate a mo’ di tegole che non solo riprendono un’antica lavorazione tradizionale, tipica di questa regione, ma che nella loro stessa fattura e montaggio sulla trama d’acciaio rendono omaggio alla natura e al concetto stesso di equilibrio e di respirazione: essenza del Taoismo. Sono la forma ricurva del coppo e la smaltatura a rielaborare l’idea di fusione con la natura circostante. Il museo risplende di luce riflessa e vibra insieme all’intorno, mentre all'interno la stessa luce, filtrata e soffusa, si compone di morbide e delicate tonalità. La capacità di fondersi con l’ambiente circostante questa nuova architettura la deve al pe-
SEZIONI TRASVERSALI
galleria inclinata
sala lettura
specchio d’acqua sala da the esposizione 3
specchio d’acqua
sala caffè
esposizione 2
esposizione 1
Cliente Fantasia groups Luogo Cheng du, Cina Progetto Museo Progettista Kengo Kuma & Associates Superficie sito 2.580 mq Area costruita 787 mq Struttura Oak Structural Design Office Ingegneria P.T.Morimura & Associates,LTD Costruzione gennaio 2010 - dicembre 2011
sala lettura esposizione 3
specchio d’acqua
esposizione 2
esposizione 1
culiare effetto ottico ottenuto grazie alla modalità di applicazione delle piastrelle che dinamizza entrambe le facciate dell’edificio e cambia con il variare del punto di vista. L'architetto giapponese ha più volte dichiarato di voler superare l’impostazione spaziale del movimento moderno e di voler condurre la progettazione verso il rispetto del contesto ambientale fino a giungere alla creazione della genesi progettuale proprio come elementi del sito. La sua architettura è povera di segni, monomaterica, dalle geometrie essenziali e in grado di nascondersi pur mantenendo dettagli semplici e sempre molto curati. I materiali anche in questo caso sono vetro, cemento e acciaio adoperati nella loro più pura essenza e denudati da qualsiasi sovrastruttura culturale e interpretativa. In molte situazioni Kuma ha dichiarato di non considerare il museo una situazione o una condizione pensata per incentivare l’attrazione di un luogo, bensì l’opposto, cioè ha sempre considerato l’architettura tutta, e il museo in particolare, come una finestra posizionata per evidenziare alcuni fenomeni naturali ma pur sempre nel pieno rispetto dell’ambiente. Con queste intenzioni è stato progettato anche il Museo di Xinjin-Zhi. La facciata sud sfalsata in diverse angolazioni raccorda i due discordanti livelli legati però tra loro dallo specchio d’acqua come elemento mitigatore del confronto, diretto, con il massiccio edificio che si trova sullo stesso lato. Ad est un grande schermo verticale unico e ritorto accompagna con dinamismo la strada che vi si trova di fronte, mentre la facciata nord, statica e piatta, si affaccia sulla piazza pedonale. All’interno invece l’attenzione è posta sul percorso che accompagna i visitatori, con un andamento quasi da giardino, dalla parte anteriore dell’edificio a quella anteriore, e dalle tenebre alla luce, dal basso ai piani superiori, lì dove è possibile godere della piena visione del Laoujunshan.
A sinistra: particolare scorcio dell’angolo ad est, tra il muro di sostegno rivestito con le piastrelle/tegole e uno dei quattro prospetti. Sopra: il prospetto principale, la facciata del lato nord. A destra: lo spaccato assonometrico con i tre livelli e la copertura
SPACCATO ASSONOMETRICO
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PRIMO LIVELLO
sala caffè
magazzino 1
esposizione 2
PIANO IPOGEO
esposizione 1 magazzino 2
SECONDO LIVELLO
TERZO LIVELLO
galleria inclinata sala the
esposizione 3 sala lettura
DETTAGLIO COSTRUTTIVO
Sopra: il secondo livello si relaziona con l’esterno grazie ad uno specchio d’acqua. Sotto: la facciata a sud, quella più articolata, è attorniata d’acqua. A sinistra: particolari del sistema di brise-soleil montato sui prospetti
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progettare
Metamorfosi di un triangolo
Corten e vetro. Spigoli vivi e angoli diversi. Ma anche tre differenti funzioni e tre prospetti che si alzano da terra per mettere a nudo il nucleo centrale. Queste le caratteristiche di Vanke, la galleria progettata dal gruppo Ministry of Design a Tianjin in Cina di Iole Costanzo
molto in voga in questo periodo far sì che una struttura edilizia, appositamente progettata, diventi il simbolo del cambiamento e rivalutazione di un territorio. È questo ciò che sta accadendo lungo la Baia Dong Jiang in Cina nel distretto della città di Tianjin. Il Vanke Triple V Gallery, il nuovo edificio simbolo della trasformazione di questo distretto, è stato progettato dallo studio Ministry of Design, mentre a finanziarlo è stato uno tra i più grandi promotori immobiliari della Cina: Vanke. È un’architettura iconica dalle fattezze graffianti e scultoree che si adagia sul lotto adattandovisi geometricamente. Il “gioco” progettuale si è basato principalmente sul numero tre, e ha fatto sì che della planimetria, un triangolo ovviamente, i tre spigoli si piegassero per trasformarsi in portali di accesso per i tre diversi spazi in cui è stato suddiviso l’interno. Tre funzioni, tra loro diverse, ma comunque strettamente legate al rapporto con il pubblico: la parte centrale ha vocazione espositiva, è una galleria d’arte, mentre gli altri due angoli sono stati organizzati per rispondere l’uno alla funzione di informazione turistica e l’altro come zona lounge o sala riunioni.
È
Tianjin è una città-distretto dalle caratteristiche anomale: come a Qingdao e a Shanghai anche qui si segnalano nuclei abitativi dalle impostazioni europee, non solo dal punto di vista sociale ma anche da quello urbanistico. Durante i primi anni del 1900, all’Italia come alla Francia e all’Austria, sono state riconosciute alcune concessioni che hanno influenzato interi quartieri, quello italiano infatti è completamente realizzato secondo lo stile liberty dei bagni di Viareggio. Oggi Tianjin, parallelamente allo sviluppo economico del Paese, si è trasformata in uno dei principali nodi economici del nord della Cina, si è dotata di porto commerciale per i traffici nazionali e ha incentivato gli investimenti immobiliari ed esasperato soprattutto quelli industriali. Allo sviluppo della Tianjin Economic-Technological Development Area negli anni seguì un massiccio incremento infrastrutturale degli assi ferroviari per Shanghai e Pechino che ha permesso alla città di entrare a far parte delle diverse manifestazioni olimpiche del 2008, l’occasione che ne ha determinato una svolta verso il contemporaneo per ciò che riguarda lo sviluppo urbano. È così che è nata l’idea di Vanke Triple V Galle-
A sinistra: dalla foto è possibile comprendere le reali proporzioni dell’edificio. Il rivestimento esterno è stato realizzato con pannelli rettangolari in Corten che sono stati montati, seguendo tutto il perimetro dell’edificio, secondo il lato lungo
1. galleria 2. unità abitative 3. pedana in legno 4. prato 5. marciapiede 6. acqua salata 7. mare 8. edificio già esistente
PLANIMETRIA GENERALE
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7
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4
1
5
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3 2
2
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SCHEMI PRELIMINARI DI PROGETTO
LA FORZA DEL NUMERO TRE I due schemi esplicativi chiariscono quale logica progettuale è stata applicata a tutta la struttura. Adagiato simbolicamente sul sito triangolare il blocco funzionale ne ha assorbito la geometria. Tre direzioni determinate dai flussi, tre accessi e tre spigoli. I tre spigoli dell’edificio si adattano e si modificano, piegano verso l’alto e liberano i portali d’accesso. Sono tre anche le funzioni. Tre spazi comunque legati al rapporto con il pubblico: la parte centrale ha vocazione espositiva, gli altri due sono stati invece organizzati per rispondere alla funzione di informazione turistica e come zona lounge. Il sito ha intorno alberature molto giovani e l’influenza della salsedine sarà pertanto diretta e immediata. Ragione che ha spinto i progettisti a scegliere per rivestimento il Corten, un acciaio patinato la cui caratteristica più saliente è l’autoprotezione mediante patina ossidante.
flusso pedonale per il centro informazioni turistiche
vista sul mare
sito
flusso pedonale per la reception/ galleria
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costa
Sopra: la zona lounge. Sotto: uno dei tre accessi. Le pareti e il soffitto delle tre sale sono rivestite con doghe lignee dai toni morbidi. I pavimenti di resina chiara mettono in risalto i toni caldi del rivestimento interno ed esterno. La nuance dell’ossidazione naturale del Corten e quella del legno creano un tutt’uno armonioso
ry. La piccola struttura, nuova nel linguaggio e nei materiali ha funzione promozionale. È un promemoria, un incipit per un’edilizia concettualmente diversa e vicina ai più attuali principi di comfort e di qualità di vita. La scelta del rivestimento esterno è caduta su alcuni pannelli rettangolari in Corten che sono stati montati, seguendo tutto il perimetro dell’edificio, secondo il lato lungo. Ai tre angoli dell’edificio, lì dove gli spigoli piegano verso l’alto e diventano i portali d’accesso, c’è il vetro a fare da raccordo tra l’esterno e l’interno. Le pareti e il soffitto delle tre sale, dall’aspetto ovattato e accogliente, e completamente rivestite con le doghe lignee di un’essenza dai toni caldi e morbidi, sono ulteriormente messe in risalto dalla resina chiara adottata per i pavimenti. Tra il dentro e il fuori l’effetto cromatico non cambia molto: la nuance dell’ossidazione naturale, tipica del Corten, in questa situazione scelto perché particolarmente adatto alla salsedine, e le calde sfumature del legno creano un tutt’uno armonioso, potenzialmente pensato per invogliare gli acquirenti e per incentivare il desiderio di un’ulteriore riqualificazione paesaggistica dell’area ancora condizionata dall’eccessivo sviluppo industriale.
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Progettisti Ministry of Design CittĂ Tianjin in Cina Gestione cantiere Annie Su, He Ting Superficie 16,850 mq Tempo di costruzione 4 mesi
PIANTA PIANO TERRA
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7 3 13 2 14
1
1. ingresso 2. reception 3. display 4. informazioni progetto 5. lounge bar 6. servizio banca 7. sportello 8. cabina elettrica 9. sala audio visiva 10. ufficio 11. sala riunioni 12. sala vip 13. servizi igienici 14. guardaroba 15. centro di informazione
In alto: la planimetria dell’intera struttura, con la distribuzione interna di tutti gli ambienti. Sotto: le due sezioni evidenziano quali parti del triangolo si alzano lasciando ancorato a terra un pentagono irregolare iscritto all’interno del triangolo. Le funzioni ricavate sono accorpate in tre blocchi anch’essi atipici distribuiti intorno alla sala centrale avente funzione di lounge/bar. Il resto della struttura poggia su pilastri a base tonda disposti secondo un ritmo binario
SEZIONE A - A
SEZIONE B – B
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SCHEMA ASSONOMETRICO
A sinistra: lo schema assonometrico chiarisce l’impostazione del progetto e delle sue peculiarità paesaggistiche e distributive. Sotto: diversi scorci dei prospetti, sia disegnati che fotografati. Il Vanke in realtà è un promemoria, un incipit per una edilizia concettualmente diversa e vicina ai più attuali principi di comfort e di qualità di vita
PROSPETTO NORD
PROSPETTO SUD
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Foto Andrea Morgante
Foto Bitter Bredt-courtesy of Halzer Kolber Architekturen
progettare
La geometria che interseca la storia
L’intervento che Libeskind ha realizzato nel Militärhistorisches Museum der Bundeswehr di Dresda non è un taglio. E neanche uno stravolgimento. È un nuovo “punto di vista” che non dimentica il dolore anzi lo enfatizza. Incontra la storia e la interseca negli stessi muri e negli stessi ambienti che un tempo ne hanno esaltato la potenza per guardarla con un occhio diverso di Iole Costanzo
Nella pagina a fianco e sotto: l’apice e la base dell’intervento progettato da Libeskind. Un cuneo di cemento, metallo e vetro che, attraversando l’ex arsenale sassone, offre ai nuovi visitatori una diversa lettura storica di tutto ciò che ruota attorno al tema della guerra
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Foto Hufton + Crow
ella geometria euclidea le intersezioni possibili cambiano con il cambiare degli oggetti geometrici implicati: due rette appartenenti allo stesso piano, una retta e un piano che non si appartengono, e due piani. L’affascinante situazione dell’incidenza o intersezione genera di volta in volta nuove risposte geometriche che, escludendo le figure curve e conseguentemente i solidi di rotazione, producono o un punto o una retta. Vale a dire infiniti mondi. Perché il punto o la retta generati da una intersezione sono formati da parti che appartengono ad entrambi gli enti geometrici. L’intersezione è contaminazione dunque. Ma è anche rottura, taglio e separazione. È cambiamento, compenetrazione e condivisione. E sono questi gli elementi geometrico - emozionali che l’architetto Libeskind ha usato, esaltato e potenziato per creare un nuovo spazio di cemento, vetro e acciaio: un cuneo, battezzato dalla stampa “ Libeskind's Wedge”, ossia “il cuneo di Libeskind”, che interseca e quindi muta lo storico edificio del Militärhistorisches Museum der Bundeswehr di Dresda. Un museo dalle diverse vicende storiche che da arsenale in stile neoclassico costruito nel 1876 è diventato prima museo della guerra e delle forze militari sassoni, poi di quelle naziste, in seguito museo della Germania dell’Est, della Volksarmee, l'esercito del popolo della Ddr, dopo aver assolto nel 1972 anche il compito di spazio espositivo per il piano di ricostruzione post bombardamenti per la città di Dresda, per divenire oggi il museo della guerra. Ma di una guerra affrontata dal punto di vista non solo di chi la conduce, ma anche di chi la subisce. E Libeskind, l’archistar della memoria e della guerra, il progettista dell’Imperial War Museum North di Manchester, del Jüdisches Museum Berlin, del Crystals at CityCenter di Las Vegas nonché della Freedom Tower di New York, con il suo decostruttivismo didascalico, pedagogico, estremamente comuni-
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PIANTA SECONDO PIANO
PIANTA PRIMO PIANO
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Progettista Daniel Libeskind Luogo Dresda Cliente The Military History Museum Struttura GSE Ingenieur-Gesellschaft Luci Delux AG Facciata Josef Gartner GmbH Paesaggio Dipl.-Ing. Volker von Gagern
Sopra: l’effetto che il cuneo crea all’esterno, visto ad altezza d’uomo dallo spiazzo antistante l’ex arsenale. Lo spigolo è netto e l’inclinazione del nuovo prisma destabilizza ancor più che la stessa forma geometrica. Sotto: uno degli ambienti triangolari progettati come passaggio tra la vecchia struttura e il nuovo volume
Foto nella pagina Hufton + Crow
cativo fino a divenire retorico, ha così interpretato la chiave di rottura per quest’opera. Dresda è simbolicamente la città martire della Seconda Guerra Mondiale: ha subìto il 13 e il 14 febbraio del 1945 un bombardamento aereo anglo - americano che provocò la distruzione del centro storico e la morte di più di 25mila abitanti senza che vi fosse alcuna motivazione strategica. Una tragedia nella tragedia. È guerra vista e subìta da vincitori e da vinti. Dresda è la città che ha conosciuto l’apogeo di entrambi gli aspetti. Ma è anche la città che dopo il 1989, dopo la caduta del muro di Berlino e di tutto ciò che quell’evento ha implicato, ha saputo ridare vita e forma all’antico centro storico ricostruendolo con antichi e nuovi palazzi realizzati con linguaggi e materiali originali e innovativi. Recentemente, dopo più di 22 anni di chiusura, il museo è ritornato alla città ampliato da un cuneo di vetro che si inserisce nella vecchia struttura e vi dona una forma nuova e rivoluzionaria. Il cuneo non è soltanto una bella struttura architettonica, è anche un percorso espositivo suddiviso in sezioni tematiche e cronologiche che illustra come la guerra possa sconvolgere le società. Missili e carri armati, messaggi della propaganda, lettere dei soldati, giochi per bambini pensati per sostenere le idee guerrafondaie naziste, sono questi gli oggetti che accompagnano i visitatori nella sezione dedicata alle città martiri come Dre-
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PIANTA QUARTO PIANO
PIANTA QUINTO PIANO
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Foto nella pagina Hufton + Crow
sda o Rotterdam, quest’ultima devastata dai bombardamenti tedeschi. E ancora elicotteri appesi, proiettili, bombe e schegge delle granate che gravitano in una caduta bloccata per sempre sulla testa dei visitatori. La guerra ha una sua consistenza. È paura, rabbia, violenza, sofferenza e dolore. È una schiera di soldatini di piombo d'inizio Novecento. È una triste mentalità che può pervadere la società. Il “nuovo” ampliamento del museo militare di Dresda, proprio perché vuole anche essere contro il revisionismo nazionalista, ha una parte della pavimentazione realizzata con resti di Wielun, la città polacca che nel 1939 a settembre fu invasa e distrutta dall’esercito nazista. Attraverso questi oggetti e scenari espositivi quali la ricostruzione della vita di Marlene Dietrich, le 30 paia di scarpe del lager di Majdanek, la giacca macchiata di rosso del ministro degli esteri Joschka Fischer, contestato in occasione della partecipazione tedesca all'intervento nella Nato per la guerra in Kosovo, e le schegge di granate che hanno ferito un soldato tedesco in Afganistan, le intenzioni del curatore Gorch Pieken sono quelle di offrire un percorso di riflessione che conduca anche alla valutazione di come è cambiato il compito di un esercito oggi: protezione civile e ambientale, interventi internazionali per la soluzione di conflitti e per contrastare, con ambigue “missioni di pace” compiute con i mezzi solitamente spiegati durante una guerra, il terrorismo in-
ternazionale. La rottura è ovunque. Il dolore è palpabile. E ciò è ancora più esplicitato all’interno del vertice del cuneo di vetro, alla fine del percorso strutturato all’interno del nuovo volume: è un punto alto 30 metri da cui il visitatore può godere della vista sulla zona ovest della città. È un belvedere posto in asse con la direzione percorsa, in quei drammatici giorni del 1945, dai bombardieri anglo-americani. Il nuovo volume “taglia” e passa da parte a parte lo storico edificio neoclassico in modo inequivocabile, creando situazioni geometrico-spaziali inusuali. La pianta a freccia attraversa letteralmente l’intero edificio mentre la nuova struttura supera l’altezza massima della preesistenza, lambisce la copertura senza entrare con essa in conflitto e lascia la facciata principale, dietro il prisma di vetro e acciaio, completamente intatta. È il contemporaneo che irrompe nella storia per accettarla, per fermarla, rivederla e criticarla attraverso un linguaggio nuovo, destabilizzante e decostruente, geometrico ed emotivo che non accetta di museizzare o spettacolarizzare la guerra fine a se stessa. È un’occasione per affacciarsi dal belvedere sulla nuova città. È un nuovo punto di vista che con la giusta distanza temporale e simbolica ridiscute la storia e getta le basi per un nuovo pensiero, una nuova logica che negli anni può, potenzialmente, allontanare l’uomo dall’ambiguità che lega armi, guerra e oggi, purtroppo, pace.
Sopra: uno degli allestimenti curati da Gorch Pieken. La guerra vista anche nei giocattoli dei bambini. L’esaltazione della forza e del potere usata anche per plagiare i giochi dell’infanzia. Sotto: le scale inserite all’interno di uno degli ambienti triangolari collegano tra loro il quarto e il quinto piano
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Foto nella pagina Bitter Bredt
Oggetti, elicotteri, missili inesplosi, carri armati, lettere dei soldati, giochi per bambini pensati per sostenere le idee guerrafondaie naziste. Oggetti comuni in una guerra, che sembrano lontani dalla vita reale e che in questo contesto comunicano quanto la guerra segni la storia, i popoli e la vita
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Sulle tracce di Alvar Aalto
Un convegno e un viaggio in Finlandia. Iniziative promosse dalla Fondazione dell’Ordine degli Architetti della provincia di Vicenza, per approfondire la conoscenza di uno dei piÚ grandi maestri dell’architettura del Novecento: Alvar Aalto
N
ell’anno in cui la capitale della Finlandia è stata decretata dall’ICSID (International Council Societies of Industrial Design) World Design Capital e in concomitanza con il viaggio studio in Finlandia, la Fondazione dell’Ordine degli Architetti della provincia di Vicenza ha organizzato venerdì 1 giugno, presso palazzo Bonin Longare in Corso Palladio, un convegno dal titolo “Sulle tracce di Alvar Aalto”. Il convegno ha avuto come relatore il professore Marco Mulazzani, docente di storia dell’architettura presso l’Università di Ferrara, che prendendo spunto dal titolo del convegno ha voluto iniziare con una citazione dell’architetto Alvaro Siza che definì così Aalto: “un finlandese con il desiderio di viaggiare, perché il viandante è un uomo dalle profonde radici”. Il titolo, ha poi proseguito Mulazzani, fa anche pensare alla grande capacità che ha avuto il lavoro di Aalto di riverberarsi nelle generazioni di architetti a lui successive. Ma bisogna ricordare che Aalto è stato anche un grande depistatore, nel senso che è stato accorto nel costruire l’immagine di sé, lasciando principalmente alle sue opere il compito di rappresentarlo. Aalto è entrato nel dopoguerra nella ristretta cinquina dei maestri dell’architettura del Novecento, assieme a Wright, Gropius, Le Corbusier e Mies Van Der Rohe. Ha iniziato a realizzare le sue opere alla fine degli anni Venti, nel clima coerente del Razionalismo internazionale, ed i suoi primi grandi capolavori sono stati costruiti nel momento in cui le condizioni favorevoli nel resto dell’Europa erano venute meno. Al contrario egli si era trovato ad operare in un momento storico di grande fervore per la Finlandia, che aveva raggiunto da poco l’indipendenza. Una nazione che aveva quindi bisogno di costruirsi una propria identità alla quale poteva concorrere anche l’architettura, e questo spiega il ruolo importantissimo che Aalto assume nel suo paese. Tuttavia, a proposito di depistaggi, non è proprio questa l’immagine che Aalto fornisce di sé, tanto che nel 1954 aveva denominato la propria barca “nemo propheta in patria”, quasi a suggerire di essere inascoltato e incompreso nella propria nazione, anche se in realtà era un architetto famoso nel mondo ma anche molto apprezzato in patria. Aalto aveva tra i propri clienti e amici alcuni tra i più importanti industriali finlandesi e attraverso di essi entrerà nei circoli culturali, arrivando poi spesso a vincere i concorsi pubblici. Volendo tracciare un profilo della sua carriera, partendo dagli esordi, dobbiamo ricordare alcuni temi “forti” che lo accompagneranno fino alla fine. Aalto si laurea nel 1921 e nel 1923 apre uno studio che denomina “studio di architettura e arte monumentale”: il titolo è indicativo del desiderio di contri-
A sinistra: Alvar Aalto (1898 -1976), architetto e designer finlandese, uno dei massimi esponenti dell'architettura organica. Sotto: Marco Mulazzani, docente di Storia dell’Architettura presso l’Università di Ferrara, e Ugo Rigo, presidente della Fondazione dell'Ordine degli Architetti di Vicenza, durante il convegno dedicato all’architetto finlandese. Nella pagina a fianco: una sala riunioni, all’interno dello studio di Alvar Aalto a Helsinki buire all’identità culturale del suo Paese. Il clima in cui Aalto esordisce è quello del Classicismo nordico, che si sviluppa anche in Svezia e Danimarca. Di questo clima è figlia la casa del popolo di Jyvaskyla (1924/25), che richiama alcune architetture italiane tra cui il palazzo Ducale di Venezia. Nel foyer di questo edificio c’è una grande parete curva che si rifà al sacello Ruccellai di Leon Battista Alberti a Firenze, dove Aalto era stato in viaggio di nozze. Questa influenza dell’architettura classica si può notare anche in alcuni progetti di chiese che egli realizza negli anni immediatamente successivi. Nel progetto della chiesa di Jamsa, cerca di interpretare i modelli delle chiese di San Sebastiano e Sant’Andrea a Mantova, sempre progettate dall’Alberti. Questa ossessione albertiana che troviamo nei primi progetti ci indica il valore fondativo che Aalto attribuisce alla storia. Nel progetto della chiesa di Toolo (1927) il tema della storia ritorna: lo troviamo nella scalinata di ingresso dove colloca un portale che richiama quello del cimitero di Stoccolma.
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APPUNTI DI VIAGGIO
Conoscere le architetture di Alvar Aalto. È la ragione del viaggio in Finlandia. Organizzato dalla Fondazione dell’Ordine degli architetti di Vicenza. Tra le opere visitate, il Municipio di Säynatsälo, la libreria Kirjapalasti, il Sanatorio di Paimio “Nemo propheta in patria” è la frase altisonante scelta da Alvar Aalto come nome per la sua amata barca, ora ingabbiata in una sorta di cassone adagiato sulle rive del lago Paijanne, a due passi dalla sua Casa Sperimentale. Ma durante il nostro viaggio “Sulle tracce di Alvar Aalto” questa frase ci è sembrata un poco immotivata. Nella regione dei mille laghi e a Helsinky tutto parla di lui: le sue architetture, i suoi arredi, il suo studio e le sue case, le guide che lavorano all'interno della Fondazione A. Alto o le numerose persone che ci hanno accompagnato durante le nostre curiose visite. Il viaggio, organizzato dalla Fondazione dell'Ordine degli architetti di Vicenza, in collaborazione con la Proviaggiarchitettura rappresentata dal collaudato collega Roberto Bosi, si è svolto dall'8 al 15 giugno ed è stato incentrato soprattutto sulla visita alle principali architetture del maestro finlandese, partendo dalla Finlandia centrale (Jyväskylä, Säynatsälo,Turku). È avvenuta in riva al lago la nostra iniziazione alla architettura rigorosa, ma nel contempo emozionante del grande maestro, visitando sotto la pioggia la Casa Sperimentale, immersa in un magico bosco di betulle e abeti rossi nel quale si confonde e integra. Altrettanto emozionante è stata la visita a quel capolavoro che è il Municipio di Säynatsälo, un edificio veramente a misura domestica, ma nel contempo con l'autorevolezza necessaria al-
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l'architettura pubblica, nella composizione preziosa delle capriate della sala consiliare. Altrettanto formale l'Università di Jyväskylä, dove abbiamo visitato anche l'Aalto Museum e il Museo della Finlandia Centrale. In una soleggiata mattinata abbiamo visitato, in un crescendo emozionale, Villa Mairea, dove la sola pensilina d'ingresso merita il viaggio fin là e la conseguente lotta ad armi impari con nugoli di zanzare accanitissime. Impavidi, abbiamo mangiato i nostri panini nel giardino della villa, nella completa armonia tra architettura e natura. Nel viaggio verso Helsinky abbiamo visitato, tra l'altro, il Sanatorio di Paimio, oggi trasformato in un efficientissimo ospedale davvero a misura di malato! Helsinky è stata la degna conclusione del tour: sulle tracce di A. Aalto abbiamo visitato la casa e lo studio dell'architetto, ancora ingombro di tubi di cartone, diligentemente catalogati con i riferimenti dei progetti. Abbiamo apprezzato le gradonate esterne dove Aalto amava sedere per vedere i film in una sorta di cinema all'aperto, e poi ancora numerose sue architetture, come la Finlandia Hall, la libreria Kirjapalasti, l'Istituto Nazionale per le Pensioni, ecc. Ma il viaggio non è stato solo “A. Alto”, abbiamo visto molte altre opere, di architetti contemporanei e non, ma tutte altrettanto interessanti: particolarmente interessante la “Turku City Library” di JKMM architects, una
biblioteca a tre piani con un ampio spazio centrale aperto, fruibile in tutte le sue parti e con uno splendido spazio dedicato ai bambini. Personalmente, la cosa che più mi ha emozionato è stata la cappella della Resurrezione (1933-41) di E.Bryggman a Turku: uno spazio a cavallo tra tradizione e innovazione e proprio per questo così moderno; uno spazio aperto all'esterno, dalla cui navata destra la natura penetra quasi a lenire le sofferenze umane. Che dire, poi, del Kiasma, Museo d'Arte Contemporanea di Steve Holl ad Helsinky, subito identificabile con l'ampia superficie vetrata che si affaccia su una bellissima parte di città tutta in ristrutturazione, dove i percorsi per le bici fanno da padroni (come in tutta la città, d'altronde!), accanto alla nuovissima Music hall. Ovviamente la proverbiale attenzione per le fasce deboli (ciclisti e pedoni) rende la visita della città estremamente semplice e sicura. Oltre all'architettura, per me la grande sorpresa è stata la natura, in questa stagione addirittura lussureggiante: i dritti boschi di bianche betulle e rossi abeti ti circondano, si aprono improvvisamente a mostrare quieti specchi d'acqua su un tappeto di profumati mughetti e fitti mirtilli. La natura ti entra dentro e si capisce veramente come “ la percezione di un luogo, sia esso naturale o artificiale, è indissolubilmente legata a un'esperienza culturale”(M. Treib). (di Grazia Finco)
Ma nel 1929 questi richiami classici lasciano il posto ad elementi dell’architettura più compiutamente moderni, come nel padiglione dell’esposizione di Turku. Nel 1928 realizzerà la sede del giornale Turun Sanomat, dalle linee tipicamente razionaliste. Tra i progetti più noti ricordiamo il sanatorio di Paimjo (1929/33), un esempio compiuto di rapporto tra architettura e natura. Nello stesso periodo realizza il progetto della biblioteca di Viipuri, con la vetrata “modernista” del vanoscale. Nel fabbricato particolare rilievo assume la soffittatura della sala conferenze, realizzata con un rivestimento ad “onde” di listelli di legno. Essa ci introduce in un altro tema, sviluppato negli anni Trenta, che sarà quello del ricorso a forme fluide, che richiamano modelli presenti in natura. Qualche altra indicazione sul procedimento di “astrazione” dei modelli naturali, la possiamo trovare nel padiglione della Finlandia che realizza a Parigi tra il 1937 e il 1939: negli interni troviamo i suoi mobili, le sue lampade, ma anche i suoi vetri, che richiamano nella loro forma gli isolotti e le anse dei fiordi. L’edificio più bello che Aalto progettò è sicuramente la villa Mairea a Noormarkku. La villa, frutto di una elaboratissima progettazione, sorge in un bosco. In essa mette a confronto diretto gli elementi costruttivi e gli elementi naturali come i tronchi d’albero. Nel padiglione per l’esposizione internazionale di New York del 1939, troviamo una straordinaria invenzione di spazio deformato da pareti ondulate che si piegano verso i visitatori, ma sarà nella realizzazione del dormitorio studentesco del MIT a Cambridge (1946) che il tema della “grande onda” troverà la declinazione alla scala urbana. Negli anni ’50 Aalto ottiene la consacrazione definitiva di “Maestro dell’Architettura”, e in quel periodo evolve nuovamente il tema del rapporto tra linguaggio moderno, natura e storia. Tra i lavori di quegli anni possiamo ricordare la casa sperimentale di Muuratsalo (1952/53) e il centro civico di Saynatsalo, ma è il politecnico di Otaniemi che più mostra questo modo di portare i riferimenti storici e naturalistici all’interno di un’opera di concezione moderna. La grande sala dell’auditorium richiama la forma degli anfiteatri
classici ed è uno spazio di straordinaria bellezza. Anche nel progetto del Kulturitalo di Helsinki (1952) ricompare la figura dell’anfiteatro, mentre nell’interno ritroviamo il tema delle pareti curve. L’ultima importante opera di Aalto è il Finlandiatalo di Helsinki (1962/71), che sorge sulle rive della laguna e contiene alcune sale da concerto. Qui più che in altri progetti i temi della modernità, della storia e della natura, si presentano uniti e convivono. Chiudiamo con una citazione tratta da un articolo di Aalto pubblicato nel 1954 su Casabella: «non voglio parlare di un viaggio particolare, perché nel mio spirito c’è sempre un viaggio in Italia. Forse un viaggio compiuto nel passato e che continua a vivermi nella memoria, o un viaggio che sto facendo o forse un viaggio che farò nel futuro. Un viaggio di questo genere è forse una condicio sine qua non per il mio lavoro di architetto». Un viaggio sulle tracce di Alvar Aalto se non è una condicio sine qua non è però sicuramente un contributo molto importante per la formazione degli architetti.
Sopra: il sanatorio di Paimio, situato nel sud della Finlandia e ritenuto una delle opere più importanti di Alvar Aalto. Sotto: particolare dei boschi che circondano il sanatorio. Pagina a fianco: Villa Mairea, commissionata ad Aalto nel 1937 da Harry Gullichsen, industriale del legno
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no-profit
Solidarietà senza confini A
Nata qualche mese fa l’associazione Architetti senza frontiere Veneto. Numerosi gli obiettivi e i progetti in cantiere. Già realizzata una piccola unità abitativa nel villaggio di Nanoro in Burkina Faso
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rchitetti Senza Frontiere Italia nasce a Milano nel 1998 come associazione non-profit dall’iniziativa di un gruppo di professionisti la cui ambizione era coniugare una forte finalità sociale a quella professionale. Dal 1999 prende parte al network ASF-International che raccoglie diverse organizzazioni in Europa e nel mondo attive nell’ambito della cooperazione e dello sviluppo. L’Associazione in maniera coerente e costante persegue finalità di solidarietà sociale nei seguenti ambiti di intervento: 1) nella cooperazione allo sviluppo, per promuovere una cultura basata sui valori del pluralismo e della partecipazione in un contesto nazionale e internazionale, finalizzati allo sviluppo sostenibile di aree territoriali critiche e alla riqualificazione di aree urbane degradate; 2) nella valorizzazione delle risorse locali, favorendo in ambito nazionale e globale una rete di cooperazione permanente transnazionale; 3) nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica sulle complesse problematiche relative ai Paesi in via di sviluppo, utilizzando appropriati mezzi di informazione e formazione. L’azione si concretizza attraverso la promozione e realizzazione di progetti di architettura che seguano programmi di sviluppo socio territoriale e ambientale, riconoscendo le comunità insediate come attori rilevanti dei processi di trasformazione. Architetti senza frontiere Veneto si inserisce nel contesto rodato di un’associazione legata a varie e diversificate professionalità, che pongono in essere il desiderio di mettere al servizio del prossimo le proprie conoscenze. In questo caso, alla nota dicitura,
Architetti senza frontiere, si aggiunge una frontiera, Veneto, prettamente locale, volta a circoscrivere un ipotetico bacino di utenti interessati a realizzare progetti nei paesi in via di sviluppo. Un manipolo di volonterosi architetti si riunisce per dar vita ad una nuova entità per la nostra regione, capace di offrire assistenza in svariati settori della disciplina, che vanno dalla formazione, alla progettazione, dalla consulenza alla costruzione. Formazione in loco, fornita convogliando le esperienze accumulate in ambiente universitario e lavorativo con le peculiarità dei diversi ambiti e ambienti operativi. Progettazione e costruzione quali vocazioni primarie dell’architettura, ovvero capacità di rendere esecutive le idee sensibili, dalla casa alla città. A questo si deve aggiungere la possibilità di offrire consulenze su tematiche legate all’approvigionamento energetico e di conservazione del patrimonio naturale esistente. Tre sono le figure di cui si compone inizialmente Architetti senza frontiere Veneto: Elisabetta Mioni, Manlio Michieletto e Luca Pavanello. I tre si conoscono dai tempi dell’università, lo IUAV di Venezia, che potrebbe diventare un importante veicolo per far conoscere, apprezzare e divulgare gli intenti e le attività dell’associazione. Dopo i passi iniziali il comitato dei referenti si è allargato coinvolgendo un’altra figura proveniente dallo IUAV, Chiara Castello. Sede del neonato gruppo è quella dell’Ordine degli Architetti Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori della provincia di Vicenza, dimostratosi fin dall’inizio interessato e coinvolto nell’offrire agli iscritti di tutto il
Veneto spazi, strumenti e supporto adeguati. Un ringraziamento appare dunque doveroso, in primis al presidente dell’Ordine, architetto Giuseppe Pilla e a tutte le persone che lavorano presso la medesima struttura per l’attiva collaborazione. Il 25 novembre 2011 il gruppo Veneto viene presentato a Vicenza, occasione durante la quale sono intervenuti, tra gli altri, il presidente nazionale di ASFItalia, architetto Camillo Magni, illustrando gli obiettivi e i progetti che negli anni l’associazione ha perseguito e raggiunto, oltre agli immancabili propositi per il futuro. I nostri progetti di partenza sono la continuazione di alcune attività già poste in essere, ovvero quei progetti che noi singoli abbiamo nel tempo avviato e che ora diventano patrimonio dell’associazione. L’obiettivo dichiarato è quello di costituire intorno a singole committenze dei gruppi di lavoro che in sintonia e sinergia cooperino alla definizione di adeguate soluzioni alle problematiche proposte. “Una casa minima per i Burkinabè”, ovvero progettazione e realizzazione di piccole unità abitative dal costo contenuto, è il tema di ricerca sia teorica che pratica intorno al quale sono scaturite le prime riflessioni e i primi passi del gruppo Veneto. Nel villaggio di Nanoro in Burkina Faso è stata realizzata un’abitazione pilota, utilizzando i mattoni di terra cruda pressati. Direttamente collegati al Burkina Faso sono le attività di installazione di pompe “Volanta”, pompe direttamente costruite nel Paese del Subsahariano e che si vorrebbe esportare anche in altre aree dell’Africa. In questi primi mesi si sono poi aggiunti i progetti per l’installazione di una cisterna d’acqua in Togo, lo studio per un ambulatorio nella capitale della Re-
pubblica Democratica del Congo e non ultimo la richiesta di seguire il disegno e la costruzione di un dormitorio scolastico in Costa d’Avorio. La presenza sul territorio regionale di Architetti senza Frontiere consente uno stretto rapporto di fattiva collaborazione con le associazioni impegnate nel sociale e nei progetti nei paesi in via di sviluppo, convogliando nel gruppo veneto la necessità di affrontare lo sviluppo di un progetto d’architettura e non solo, attraverso la professionalità e la competenza dei soci iscritti. Come detto, anche la formazione assume un ruolo fondamentale e in quest’ottica si inserisce il progetto di ricerca per un contributo alla tutela del territorio in Rwanda, in collaborazione con l’università Cattolica di Gitarama a Kabgayi. Tale formazione in loco non è da intendersi come prerogativa delle zone più critiche dei Paesi in via di sviluppo, ma come momento di studio, riflessione e sensibilizzazione anche nel nostro territorio. Questo vuol dire sostanzialmente portare il nostro messaggio alla popolazione attraverso conferenze, convegni e mostre, oltre a mantenere viva la componente dei professionisti dell’architettura con tirocini, corsi e workshop. A tal proposito sono stati di recente avviati contatti con lo IUAV di Venezia per poter organizzare un tirocinio in Burkina Faso e per poter svolgere un convegno internazionale. Altri obiettivi a breve termine sono rappresentati, inoltre, dalla volontà di camminare autonomamente nel volgere di questo primo anno di rodaggio, a cui si aggiunge la necessità di implementare il gruppo costituente con ulteriori figure di supporto oltre alla messa in opera di adeguati canali di visibilità per la neonata associazione. Per diventare soci di ASF-Italia gruppo Veneto non servono particolari caratteristiche o propensioni, se non il desiderio di lavorare di concerto per gli altri, a favore degli altri, con gli altri.
Sopra: installazione di una pompa “Volanta” nel villaggio di Boulpon - comune di Nanoro Burkina Faso. Sotto: workshop “Costruire con la gente. Tecnologie a basso costo per i paesi in via di sviluppo” in collaborazione con il Politecnico di Milano e ESEM - Ente Scuola Edile Milanese
PER SAPERNE DI PIÙ ARCHITETTI SENZA FRONTIERE ITALIA - GRUPPO VENETO www.asfitalia.org veneto@asfitalia.org tel 349 2853893 c/o Ordine degli Architetti, P. P. e C. di Vicenza, Viale Roma, 3 36100 Vicenza, tel 0444.325715 fax 0444.545794
approfondimenti
Navigando a vista Verrà presentato a settembre SPV - Strada Pedemontana Veneta. Mediometraggio ideato da Angelo Zanella, con l’obiettivo di registrare complessità sociali e stratificazioni culturali del territorio pedemontano vicentino. Un documentario su una strada e su come una strada cambierà questi luoghi
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Sopra: “Suoni e colori delle greenways pedemontane”. Foto di Martino Pietropoli, concessa da MainroadFilm
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e grandi opere e in particolar modo le infrastrutture a servizio della mobilità sono al centro dell’interesse della collettività. Generano passioni, conflitti e stimolano approfondimenti di natura culturale su paesaggio, territorio, economia e società. Il film documentario è il mezzo che più si adatta alla lettura, interpretazione e comunicazione di questa tipologia di infrastrutture. La narrazione per immagini, parole e suoni ha l’intrinseca capacità di fissare la complessità e di tradurne i contenuti in un linguaggio comune. Nel caso specifico è il racconto di un viaggio iniziato (e non concluso) tra le isole della terraferma pedemontana, che pensa in dialetto vicentino e trevigiano e spesso parla inglese e sceglie di continuare ad abitare all’ombra di rassicuranti campanili, senza tuttavia ripensare il modello di comunità locale. Nuclei di urbanizzazione sparsa, specchio di una società che ha costruito molto senza badare troppo alla qualità e ai reali bisogni. Territori di pedemontana ricchi di imprese e densamente popolati che si muovono su rotte non convenzionali, spesso difficili da ricondurre entro codificati portulani. Un bisogno di mobilità e di reti, intangibili in-
nanzitutto ma anche fisiche, per soddisfare i bisogni e i tempi del lavoro, dell’istruzione, del tempo libero. Ma anche i flussi della salute e della giustizia e di tutti i servizi in genere al cittadino. Ne viene direttamente interessato un pezzo del nordest storicamente operoso e proattivo. Ma ne sentono gli effetti anche i territori della vicina provincia padovana e del Friuli pordenonese. Un territorio in cui l’attività di impresa è nel corredo genetico, pur nei limiti di un individualismo che non risparmia neppure le associazioni di categoria e che fa dire ad una voce narrante: “... [il territorio pedemontano] è seduto su una miniera d’oro ma con un punto di estrazione molto piccolo...”. Un progetto di viabilità ipotizzato da cinquant’anni ed ora realizzato nell’era della finanza di progetto che sconta il ritardo accumulato perché va ad impattare con l’incremento di densità territoriale, nel frattempo avvenuto, e con le criticità sul trasporto locale e sul sistema integrato della produzione. La mancanza di un modello multimodale alle diverse scale (traffico locale e di attraversamento, logistica) si accompagna al tramonto del modello “piattafor-
ma produttiva a cielo aperto” in termini di impiego nelle aziende locali di forza lavoro residente richiesta. Lo sguardo laterale e le voci narranti dei protagonisti restituiscono, senza pretesa di esaustività, paure e sogni di una società che progetta e/o subisce le sfide della contemporaneità, tra istinti nimby, prove generali di decrescita felice o nuove forme di intrapresa. Dalla roadmap d’indagine, pianificata per luoghi come nelle migliori analisi di Koolhaas, manca (volutamente) il paesaggio, o sarebbe meglio dire mancano i paesaggi locali di riferimento. Mario Brunello, tra i protagonisti del docufilm, tenta di individuarne uno musicale, scritto direttamente sul pentagramma dei corsi d’acqua e che fa dire “non si suona nei luoghi, ma si suonano i luoghi”. Il pedemonte, a dire il vero quello piú trevigiano che vicentino, è anche il luogo del «bosco non bosco» di Zanzotto, del colore e del senso delle acque, dei cieli dipinti dai Tiepolo, delle colline di Giorgione. Tutti questi elementi sono evocati fugacemente dalle riprese a bassa quota realizzate con un sorvolo aereo a bordo di un AS 350 B3 (navigazione assistita da navigatore istruito con 40 punti GPS). Il tracciato di una strada che ancora non c’è restituito dagli esterni girati dall’elicottero dialogano con le immagini iconiche dei plastici in gesso a scala regionale realizzati dall’architetto Rizzi e sono messe in contrappunto con i simboli sacri. È Kipar che ci ricor-
da che il paesaggio è “specchio della società: abitudine, storia, tradizione, tradimenti, errori; … dentro il paesaggio si vede tutto”. Su tutto le 14 voci narranti dei protagonisti, individuati sulla base di un trattamento iniziale per la potenzialità di affrontare i vari temi con diversa capacità ma con pari dignità, che, grazie al montaggio, cadenzano il ritmo del docufilm rispondendo alle medesime tre domande, indirette e fuori campo, che si possono intuire dal susseguirsi delle risposte. Un metodo sperimentato per primo dal maestro Kieslowski autore del meraviglioso documentario Teste Parlanti del 1979. Il docufilm è il lavoro di un team professionale strutturato in unità operativa - troupe (uno sceneggiatore regista, un operatore direttore della fotografia, un fotografo di scena, due montatori, tre collaboratori tecnici e un produttore, un consulente legale e una esperta per la postproduzione) che ha operato tra il Veneto e la Lombardia da gennaio 2011 ad agosto 2012. Il docufilm è stato montato in una versione della durata di 35 minuti, quale format di supporto a convegni tematici oltre che per festival tematici e alla singola visione privata. Il progetto è stato promosso dai Consigli degli Ordini Architetti PPC di Vicenza e Treviso e supportato da Confindustria Vicenza, Federazione Regionale dell’Ordine degli Architetti del Veneto e da altri sponsor minori. Ha avuto il patrocinio della Regione Veneto. (di Angelo Zanella)
Sopra: una strada sterrata tra due steccati. Esempio di strade verdi pedemontane. Foto di Martino Pietropoli, concessa da MainroadFilm
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Progettare una scala nelle sue molteplici forme
In alto: scala con unica lamiera portante ringhiera in acciaio inox. Sopra: scala in acciaio verniciato con gradini in legno rovere laccato a campione. Sotto: scala in legno afrormosia con finitura a cera
VENETO CASA via del Lavoro, 19 36050 Bolzano Vicentino (Vicenza) Tel. 0444351098 Fax. 0444354469 www.venetocasascale.it info@venetocasascale.it
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L’azienda Veneto Casa è nata nel 1981 a Bolzano Vicentino occupandosi, inizialmente, solo della commercializzazione di scale e porte blindate. In quasi 30 anni ha avuto una notevole evoluzione e, all’inizio degli anni Novanta, per soddisfare al meglio le esigenze della clientela è passata da una dimensione solo commerciale a una anche artigianale, iniziando a produrre. «Oggi disponiamo di un attrezzato laboratorio di falegnameria e carpenteria. Produciamo solo scale su misura e la loro realizzazione è concordata preventivamente con il cliente o il professionista», spiega Stefano Tognolo, titolare dell’azienda insieme al fratello Athos. Il team di Veneto Casa concorda con il cliente i diversi particolari del prodotto, dal design alla scelta e finitura del legno fino ai colori e alla finitura delle parti metalliche come il tipo di ringhiera, rispondendo ad una sempre più diffusa esigenza di unicità, perché ognuno vive la propria casa in maniera differente. In un secondo momento al cliente vengono mostrate per l’approvazione delle immagini virtuali (rendering) della scala. «In questo modo - prosegue Tognolo - si riescono a evitare equivoci e a personalizzare ulteriormente il prodotto. Le diverse ambientazioni e funzionalità impongono di progettare e produrre, di volta in volta, scale diverse nelle forme e nello stile. La nostra filosofia è incentrata sul rapporto diretto con il cliente e il lavoro è orientato in ugual misura verso la funzione e l'estetica». Da diversi anni, inoltre, l’azienda vicentina offre alla propria clientela
la possibilità di trattare le parti in legno con i prodotti biologici (Auro) che consentono di evitare la generazione di inquinamento e l'accumulo di rifiuti tossici. «Il tema dell’ambiente - specifica Tognolo - è un tema a cui stiamo attenti già da oltre dieci anni. Da qualche anno abbiamo anche ottenuto la certificazione FSC». Essere certificati FSC significa garantire al cliente che il legname usato proviene da foreste gestite e controllate, dove il taglio e la riforestazione sono seguiti scrupolosamente dagli organi addetti. «È con orgoglio che possiamo affermare di essere, tra i produttori di scale in Italia, i primi ad avere ottenuto la certificazione», conclude Tognolo. Tra le ultime novità di Veneto Casa, la possibilità di dotare di illuminazione a luci led la maggior parte delle scale prodotte. Tutto questo è visibile all’interno dello showroom nella sede di Bolzano Vicentino.
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La cultura del legno tra innovazione e tradizione «Il legno è come un libro che racconta del tempo che passa dove le parole sono sostituite dagli anelli di crescita: materia antica e nobile, alla quale l'uomo da sempre ricorre per migliorare la sua esistenza e garantire la sua sopravvivenza», così Silvia Corà racconta il legno. Dal 1919 la Corà
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Domenico & Figli è parte fondamentale dello sviluppo economico e produttivo del Paese nel settore della lavorazione del legno, dal reperimento della materia prima, alla sua lavorazione industriale e artigianale. «Il legno - prosegue Silvia - è il materiale che più di ogni altro si presta a
dare sentimento a cose e case: riscalda, protegge, arreda. È facile apprezzarlo per la sua naturale bellezza, per la sua indiscussa utilità, per il valore ecologico del materiale, ma diverso è sapere quale specie legnosa fa la barca migliore, il pavimento più durevole, la finestra più resistente». La Corà non ha mai voluto trattare il legno soltanto come una merce, anzi, nei suoi ormai 90 anni di vita al servizio dell’artigianato e dell’industria, ha sempre ritenuto l’albero, i boschi e le foreste un patrimonio inestimabile, da salvaguardare ad ogni costo. Per questo motivo la ricerca di fonti di approvvigionamento da foreste certificate e gestite in modo sostenibile è diventata oggi una vera e propria mission in Corà, come spiega Silvia: «di stagione in stagione, per cicli e cicli si rinnova e il suo mantenimento è una missione che obbliga tutti noi alla salvaguardia dello sfruttamento di questo patrimonio, al rispetto dell'ecosistema che questa sorta di oro vegetale ci garantisce». Novant’anni di prestigiosa presenza nel mercato, quattro generazioni che si sono armonicamente avvicendate dal 1919, la famiglia Corà è da sempre animata da esemplari valori di impegno nel settore, ispirato da sensibile e propositivo spirito imprenditoriale. Corà è esempio di impresa che ha saputo evolversi e rinnovarsi, raggiungendo traguardi che ne hanno continuamente consolidato l'immagine e l'affidabilità. Più giovane rispetto alla Corà legnami, ma non per questo meno dinamica, è la Divisione Parquet dell’azienda, nata nel 1992. «Mi occupo direttamente di questa divisione - spiega Silvia - insieme a Roberto Marin, il nostro direttore vendite. Negli anni siamo cresciuti molto per dare alla nostra clientela prodotti di grande qualità e prestigio. Nonostante il momento decisamente difficile stiamo investendo moltissimo con il nuovo parquet 3 Strati della linea Nuevo Status. Materiali interamente fatti a mano, con finiture di altissimo pregio. A luglio 2012 uscirà l’ultima gamma di Tavole Oliate Naturali, questo per avvicinarci sempre più ai pavimenti naturali di un tempo, dal sapore vero e autentico». Corà è oggi soprattutto cultura del legno, in cui le acquisizioni e le esperienze del lavoro artigianale si sono fuse con la struttura tecnologica e organizzativa della grande azienda. «La moderna tecnologia del legno - spiega ancora Silvia - è discendente da un artigianato antichissimo, esercitato da mani esperte. Molto è stato irrimediabilmente perduto nei secoli, mentre molto è stato superato da nuovi materiali e da nuovi metodi di lavorazione». L'ampia e assortita gamma di specie legnose provenienti da tutto il mondo (Nord e Sud America, Europa, Asia e Africa) disponibili in magazzino in pronta consegna, l'elevato standard qualitativo e la personalizzazione delle vendite, la possibilità di fornire anche nei depositi locali servizi accessori quali essiccazione, evaporazione, sfilagione e riselezione, rendono l'offerta della Corà Domenico & Figli la più
Pagina a fianco: Metal Luxury Bronze, parquet prefinito a tre strati. A sinistra: Rovere Rustica Charme, pavimento prefinito a tre strati in rovere europeo in tre larghezze specifiche. In basso: foto di famiglia
CORÀ DOMENICO & FIGLI SPA Via Verona, 1 36077 ALTAVILLA VICENTINA (VI) TEL. +390444372711 FAX +390444372770 info@coralegnami.it www.coralegnami.it www.coraparquet.it
completa attualmente disponibile sul mercato italiano. Il punto di forza dell’azienda è il servizio, come racconta Silvia Corà: «teso a soddisfare le esigenze di oltre 8mila clienti che da anni dimostrano di apprezzarne la professionalità e la competenza. Alla tradizionale offerta di tavolame, negli ultimi anni si sono affiancate nuove categorie di prodotti derivati dal legno: pavimenti in legno tradizionali e prefiniti, lamellari per serramenti, pannelli multistrato, tranciati destinati all'industria e materiali specifici per il settore nautico».
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COPPO FOTOVOLTAICO Coppo e tegola in cotto fotovoltaici Industrie Cotto Possagno unisce la funzionalità di un coppo in argilla alla moderna tecnologia fotovoltaica, mantenendo pressoché immutato l’aspetto estetico del manufatto. Il sistema ottiene i massimi benefici di incentivazione previsti dalla Legge.
ISOSPAN Blocco a cassero in legno-cemento
BRIK & BORD® Sistema costruttivo a secco
Un sistema costruttivo ecologico, rapido ed economico. I blocchi ISOSPAN presentano ottime caratteristiche di accumulatore ed isolante termico, isolante acustico e di diffusione del vapore. Inoltre sono antisismici e molto resistenti al fuoco.
Sistema a secco per tramezzature interne, basato sull’utilizzo di pannelli realizzati con un calcestruzzo vibrocompresso di argilla espansa frantumata. La parete viene assemblata con l’utilizzo di un collante poliuretanico, quindi senz’acqua, così è subito pronta per essere rifinita con lastre in gesso rivestito o rasatura.
PAVATHERM L’isolante naturale in fibra di legno Pannelli coibenti extra-porosi in fibre di legno, prodotti dalla svizzera Pavatex e distribuiti da Naturalia-Bau in collaborazione con Gruppo STEA, utilizzabili per tetti, pareti e solai. Ottima protezione dal freddo, dal caldo, acustica e antincendio.
FIBRA DI CANAPA Isolanti naturali in fibra di canapa Isolkenaf: un ottimo isolante termico ed acustico decisamente innovativo, composto da fibre naturali di kenaf e canapa provenienti direttamente dalla coltivazione, alle quali viene aggiunta una minima quantità di fibre di poliestere con funzioni di legante. Massima traspirabilità.
SCHÖCK Elementi portanti termoisolanti per il taglio termico di strutture Modulo di armatura per il raccordo di balconi a solai in calcestruzzo armato. Grazie alla sua struttura ottimizzata sotto il profilo termotecnico e statico, coniuga la funzione strutturale portante con l’effetto di isolazione termica.
SOLUZIONI E TECNOLOGIE
ISOLGOMMA Soluzioni eco-compatibili per l’isolamento acustico di pavimenti e pareti
FIBRENET Rete in materiale composito F.R.P per il rinforzo in edilizia
Prodotti per l’isolamento acustico a base di fibra e granuli di gomma riciclata: materassini per l’isolamento acustico sottomassetto, isolanti acustici e termici per pareti e contropareti, prodotti per l’isolamento strutturale come gli appoggi per scale.
La rete Fibrenet, flessibile e leggera, può sostituire la rete metallica convenzionale per il rinforzo di solai e di coperture, per il consolidamento di opere murarie, per murature armate; elevata resistenza a trazione ed alle aggressioni chimiche.
DÖRKEN Teli traspiranti ad alte prestazioni, protezione e drenaggio degli interrati Delta Energy: schermo solare traspirante per tetto e pareti a risparmio energetico, riflettente il calore ed impermeabile all’acqua. Ideale per la posa su isolamento termico o tavolato.
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TETTI STEA Le soluzioni proposte dal Gruppo STEA Il Gruppo STEA ha studiato sei diverse soluzioni costruttive per la realizzazione di sistemi tetto in linea con le norme vigenti in Italia in termini di prestazione termica e verificati dal punto di vista igrometrico. Elevato isolamento termico e acustico.
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La SA.MEC srl opera da anni nel campo della lavorazione del marmo e delle pietre affini. Utilizzando solo i migliori materiali esistenti sul mercato e avvalendosi di un personale altamente specializzato nonché di attrezzature molto avanzate e a controllo numerico, l’azienda è in grado di realizzare prodotti di bellezza e qualità straordinarie adatti a ogni utilizzo. La SA.MEC è specializzata nella produzione di manufatti personalizzati e su misura per l’arredamento, l’edilizia e l'arte funeraria.
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ARCHITETTURA, ARTE & DESIGN
LA BIENNALE DI ALDO ROSSI Con questa mostra ancora una volta Ca’ Giustinian ospita un’iniziativa che valorizza il proprio patrimonio e il proprio archivio, e si afferma sempre più come la sede delle attività permanenti della Biennale, punto di riferimento per gli studenti, i giovani e il vasto pubblico di appassionati e addetti ai lavori di Venezia e del territorio circostante. Intitolata Progetto Venezia, la 3. Mostra Internazionale di Architettura comprendeva un concorso internazionale cui Aldo Rossi invitò architetti già affermati, ma anche giovani meno famosi, a presentare idee e progetti innovativi per la riqualificazione o la trasformazione di specifiche zone della città lagunare e del suo entroterra. Venne nominata una giuria internazionale che aveva il compito di selezionare le proposte migliori, composta da Aldo Rossi, presidente, Sandro Benedetti, Gianfranco Caniggia, Claudio D’Amato, Guglielmo De Angelis D’Ossat, Diane Ghirardo, Bernard Huet, Robert Krier, Rafael Moneo, Werner Oechslin, Gino Valle. Le zone oggetto di concorso erano sia in Venezia, come il Ponte dell’Accademia, il Mercato di Rialto, Ca’ Venier dei Leoni, sia nel Veneto, come Piazza di Badoere, Piazza d’Este, Villa Farsetti, le Piazze di Palmanova, i Castelli di Giulietta e Ro-
meo, Rocca di Noale, Prato della Valle. In una città che esibiva il suo antimodernismo e in cui risultava difficile, se non impossibile, creare nuove architetture, la sfida e l’opportunità di reinventare gli spazi urbani offerta da Progetto Venezia ricevette un altissimo numero di adesioni: furono circa 1.500 i partecipanti da tutto il mondo. Attribuito il “Leone di pietra”, Rossi operò una selezione tra i numerosi altri progetti che gli parvero i più significativi. Per ciascuno di questi fu realizzato un manifesto con le tavole che meglio identificavano il progetto. I manifesti furono stampati in molte copie con tecnica litografica e con essi furono rivestiti “archi” sistemati all’ingresso dei Giardini della Biennale, lungo il viale verso il Padiglione Centrale. La mostra presenta i 70 manifesti dei lavori selezionati e alcuni dei progetti vincitori. L’esposizione è infine arricchita da materiali di archivio costituito da pieghevoli, carteggi, fotografie e materiali forniti dalla Biennale ai partecipanti allo scopo di agevolare la documentazione e la conoscenza dei siti storici oggetto di concorso. Venezia Ca’ Giustinian/ Gli “Archi” di Aldo Rossi per la 3. Mostra Internazionale di Architettura 1985/ Fino al 25 novembre 2012
A CASA DI SEBASTIÁN MATTA Una mostra che svela un aspetto inedito e meno indagato del lavoro del cileno Sebastián Matta (1911-2002). Casamatta riproduce simbolicamente gli interni della casa di Matta arredata esclusivamente con le sue creazioni a cavallo fra arte, design e
artigianato. Sedie, divani, panche, tavolini, armadi, letti, lampade, realizzati sperimentando diversi materiali come legno, resina e metallo, dialogano con oggetti d’uso quotidiano in ceramica, posate, piatti, vasi decorati e piccole sculture. Saranno inoltre esposte alcune delle opere pittoriche di Matta che, all’interno della casa, restituiranno una visione completa della sua versatile ed eclettica opera. Nato a Santiago del Cile, dopo gli studi in architettura, nel 1934 si trasferisce a Parigi dove si dedica alla pittura. Lavora con Le Corbusier e prende contatto a Madrid con intellettuali spagnoli. Nel 1936 si trasferisce a Londra dove si unisce a Walter Gropius e Moholy-Nagy, e ha modo di conoscere anche lo scultore britannico Henry Moore. A Parigi conosce André Breton e Salvador Dalí nel 1937 e dal 1938 aderisce al surrealismo, con una pittura attenta alla dimensione onirica e inconscia. Comincia allora a partecipare a importanti eventi come l'Esposizione Internazionale del Surrealismo alla Galleria di Belle Arti di Parigi. Realizza i suoi primi oli surrealisti che prima chiama Morfologie Psicologiche e poi Inscape. Conosce Duchamp a Parigi e nel 1939 mantiene contatti con Pablo Neruda. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale ripara a New York assieme a Yves Tanguy. Qui ha contatti
con gli altri surrealisti, con i dadaisti ed esercita una forte influenza su molti giovani artisti, tra i quali Pollock, Rothko e Gorky. Alla fine degli anni ‘50 Matta è già un artista riconosciuto a livello internazionale, con opere esposte in importanti musei di Londra, New York, Venezia, Chicago, Roma, Washington e Parigi. Nel 1971 la rivista francese Connaissance des Arts, lo colloca fra i dieci migliori pittori contemporanei del mondo e nel 1985 il Centro Georges Pompidou di Parigi gli dedica una grande retrospettiva. Nel 1990 torna a Parigi trascorrendo dei periodi in Italia, a Tarquinia, dove a partire dagli anni settanta installa uno studio, una scuola di ceramica e una sala di esposizioni. Dopo aver lasciato il Cile nel 1934, Matta vi fa ritorno solo in occasione della vittoria elettorale di Salvador Allende e dell'Unidad Popular. Negli anni ‘60 Matta sostiene apertamente il presidente Salvador Allende. In seguito al golpe di Augusto Pinochet, l'artista è dichiarato "persona non gradita" e viene inserito in una lista nera. Il pittore decide allora di diventare cittadino francese. Milano, Triennale Design Museum/ Casamatta/ Fino al 2 settembre 2012
L’ARCHITETTURA SECONDO CHIPPERFIELD Sarà aperta al pubblico da fine agosto al 25 novembre 2012, ai Giardini della Biennale e all’Arsenale, la 13. Mostra Internazionale di Architettura dal titolo Common Ground, diretta da David Chipperfield e organizzata dalla Biennale di Venezia presieduta da Paolo Baratta. La Mostra sarà affiancata, come di con-
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sappia evidenziare l’intenso dialogo tra gli architetti della generazione presente e passata, e i loro punti di riferimento. Un passaggio utile per riflettere e rappresentare l’architettura focalizzando su di essa la nostra attenzione, rispetto ad altre visioni che la considerano quasi un capitolo di altre discipline.” sueto, negli storici Padiglioni ai Giardini, all’Arsenale e nel centro storico di Venezia, da 54 Partecipazioni nazionali. Le nazioni presenti per la prima volta saranno 4: Angola, Repubblica del Kosovo, Kuwait e Perù. Il Padiglione Italia all’Arsenale è organizzato dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali con la PaBAAC - Direzione Generale per il paesaggio, le belle arti, l’architettura e l’arte contemporanee. Gli Eventi collaterali ufficiali della 13. Mostra Internazionale di Architettura saranno proposti da enti e istituzioni internazionali che allestiranno le loro mostre e le loro iniziative in vari luoghi della città. Common Ground formerà un unico percorso espositivo dal Padiglione Centrale ai Giardini all’Arsenale: David Chipperfield presenterà una Mostra con 58 progetti realizzati da architetti, fotografi, artisti, critici e studiosi. Molti di loro hanno risposto al suo invito presentando proposte originali e installazioni create espressamente per questa Biennale e coinvolgendo nel proprio progetto altri colleghi con i quali condividono un Common Ground. I nominativi presenti sono in totale 109. “La Biennale ha incontrato quest’anno David Chipperfield dichiara il presidente Paolo Baratta - consapevole del fatto che si tratta di una personalità che coltiva una visione molto intensa dell’architettura come prassi. Ci è parso importante uno sguardo all’architettura proiettato all’interno della stessa disciplina, che
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Venezia, Giardini e Arsenale/ Common Ground/ Dal 29 agosto al 25 novembre 2012
IL KITSCH DI GILLO DORFLES Nel 1968 esce “Il Kitsch. Antologia del cattivo gusto” edito da Mazzotta, una serie di approfondimenti teorici che hanno aiutato a descrivere il concetto di kitsch in tutte le sue articolazioni; concetto che Dorfles per primo ha contribuito in modo decisivo a definire, a livello internazionale. Il testo di Dorfles è una vera pietra miliare per la comprensione e l’evoluzione del “cattivo gusto” dell’arte moderna. Afferma che alcuni capolavori della storia dell’arte come il Mosé di Michelangelo, la Gioconda di Leonardo sono “divenuti emblemi kitsch perché ormai riprodotti trivialmente e conosciuti, non per i loro autentici valori ma per il surrogato sentimentale o tecnico dei loro valori”. La mostra presenta sia opere di autori che usano citazioni kitsch sia autori che sono deliberatamente kitsch. Tutte le opere presenti in mostra
forniscono una vasta rappresentazione delle personali interpretazioni del concetto di kitsch di ciascun artista. “L’industrializzazione culturale, afferma Dorfles, estesa al mondo delle immagini artistiche ha condotto con sé un’esasperazione delle tradizionali distinzioni tra i diversi strati socio-culturali. La cultura di massa è venuta ad acquistare dei caratteri assai diversi (almeno apparentemente) dalla cultura d’élite, e ha reso assai più ubiquitario e trionfante il kitsch dell’arte stessa.” Nel citato libro di Dorfles vengono esaminati da alcuni studiosi vari aspetti del kitsch, dalle riproduzioni dozzinali di opere d’arte alla “musica di consumo”, dal cinema alla pubblicità, dal design all’architettura. Alcuni artisti, soprattutto delle avanguardie, hanno riproposto immagini di capolavori della storia dell’arte, universalmente riconosciuti, per creare consapevolmente “ricercate opere” kitsch, ironiche, provocatorie o scandalose: è il caso dell’opera L.H.O.O.Q., 1919, un ready made ritoccato da Marcel Duchamp, versione con aggiunta di barba e baffi della Gioconda di Leonardo, dal titolo dissacrante (pronunciando il nome delle lettere in francese si ottiene la frase “elle a chaud au cul”). Milano, Triennale/ Gillo Dorlfes. Kitsch – oggi il kitsch/ Fino al 26 agosto 2012
LE COLLEZIONI DI NADIR AFONSO “Nadir Afonso. Architetto, pittore e collezionista” è una mostra a cura di Stefano Cecchetto, patrocinata dal Museu da Presidencia da Republica di Lisbona e dall’Ambasciata del Portogallo a Roma. Oltre alla produzione pittorica dell’artista portoghe-
se, la mostra romana vuole porre l’attenzione sull’attività di collezionista di Nadir Afonso, esponendo anche opere degli amici artisti con i quali ha lavorato. Tra questi Pablo Picasso, Max Ernst, Candido Portinari, Giorgio de Chirico, Max Jacob, Fernand Legér. La mostra ricostruisce, intorno alla figura di Afonso quale artista amico degli artisti, quel periodo storico che è il secondo Novecento, momento in cui la confluenza tra i generi e lo scambio intellettuale è certamente il motore di una rinnovata vitalità dell’arte. Le opere scelte, legate al clima barocco della città e
alla poetica metafisica, intendono approfondire la lezione dechirichiana che ha molto influenzato l’espressionismo dell’artista. L’occasione per rendere omaggio a lui, alla sua opera e alle sue frequentazioni culturali, prende corpo due anni fa per volontà della Fondazione, istituita dall’artista stesso, per celebrare i suoi novant’anni con una serie di mostre a livello internazionale. Dopo Parigi, Rio de Janeiro e Lisbona, Roma rende omaggio a questo incredibile e poliedrico artista. Seguirà, a Venezia, una seconda mostra italiana che, in occasione della Biennale di Architettura, metterà in risalto la figura di Nadir Afonso quale architetto e artista, e la sua collaborazione con due grandi architetti: Le Corbusier e Oscar Niemeyer. Ma l’obiettivo principale di questa mostra a
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Roma è soprattutto quello di mettere in luce il lavoro contemporaneo dell’artista. Partendo dalla produzione degli ultimi dieci anni, le opere di Nadir Afonso trasmettono la forza di un segno innovativo che travalica gli schemi dei movimenti artistici, per esplorare un nuovo linguaggio delle forme. Roma, Museo Carlo Bilotti/ Nadir Afonso. Architetto, pittore e collezionista/ Dal 18 luglio al 30 settembre 2012
CARLO SCARPA E LE STANZE DEL VETRO L’esposizione ricostruisce attraverso più di 300 opere il percorso creativo di Carlo Scarpa negli anni in cui operò come direttore artistico per la vetreria Venini (dal 1932 al 1947). La mostra costituisce la prima iniziativa pubblica de Le Stanze del Vetro, pro-
getto culturale pluriennale avviato dalla Fondazione Giorgio Cini in collaborazione con Pentagram Stiftung per lo studio e la valorizzazione dell’arte vetraria veneziana del Novecento. L’inaugurazione della mostra coincide con l’apertura di un nuovo spazio espositivo permanente, che ospiterà negli anni una serie di mostre monografiche e collettive dedicate ad artisti internazionali, contemporanei e non, che hanno utilizzato il vetro, nell’arco della loro carriera, come strumento originale di espressione e mezzo di ricerca di una propria personale poetica. L’obiettivo è
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di mostrare le innumerevoli potenzialità di questa materia, e di riportare il vetro al centro del dibattito e della scena artistica internazionale. La mostra si articola attorno ad una selezione di più di 300 opere progettate dall’architetto veneziano Carlo Scarpa negli anni in cui operò come direttore artistico per la vetreria Venini (dal 1932 al 1947), alcune delle quali esposte per la prima volta e provenienti da collezioni private e musei di tutto il mondo. Le opere sono suddivise in una trentina di tipologie che si differenziano per tecnica di esecuzione e per tessuto vitreo (dai vetri sommersi alle murrine romane, dai corrosi ai vetri a pennellate). Il materiale esposto comprende anche prototipi e pezzi unici, disegni e bozzetti originali, insieme a foto storiche e documenti d’archivio. La mostra offre un’occasione di riflessione sul significato e l’importanza dell’esperienza del design nell’opera di Carlo Scarpa, che al periodo muranese deve la sua vocazione sperimentale e artigiana, e propone un interessante confronto tra l’attività di Scarpa-designer e quella di Scarpaarchitetto. Venezia, Le Stanze del Vetro, Isola di San Giorgio Maggiore/ Carlo Scarpa. Venini 1932-1947/ Dal 29 agosto al 29 novembre 2012
LA COLLEZIONE PERMANENTE DEL MAXXI Dopo “A proposito di Marisa Merz” (fino al 6 gennaio 2013), il MAXXI Arte presenta un nuovo focus sulla sua collezione permanente. È “Tridimensionale” che, nelle terrazze della galleria tre, al primo piano del museo, presenta opere di Maurizio Mochetti, Juan Muñoz, Remo Salvadori, Thomas Schütte e Franz
UN GRANDE PROGETTO IN BRONZO
West, più una nuova istallazione di Lucy+Jorge Orta, realizzata con il contributo di Ermenegildo Zegna. Sculture, installazioni, una performance video raccontano i molteplici e diversi modi in cui gli artisti di oggi si relazionano con la terza dimensione, creano spazi reali e virtuali, in continuità o in rottura con la grande tradizione dell’arte plastica occidentale. “Tridimensionale - dice Anna Mattirolo, Direttore MAXXI Arte - parte da una riflessione sulla relazione fra spazio e oggetto, elemento fondamentale della ricerca artistica contemporanea. Questa relazione dialettica è un punto di riferimento essenziale per la ricerca artistica di oggi. La mostra evidenzia ancora di più il valore della collezione permanente del museo, essenziale per comprendere i percorsi e gli sviluppi dell’espressione artistica di ieri e di oggi”. “Tridimensionale” è un percorso che affronta la decostruzione della figura presentando ricerche fondate sull’analisi di elementi geometrici o sulla messa in discussione della scultura monumentale. Fino ad arrivare alle ricerche degli ultimi anni che recuperano le idee ereditate dalle avanguardie del primo Novecento e le traducono in forme rinnovate: la scultura smette di essere una rappresentazione figurativa e ingloba lo spazio facendolo diventare parte dell’opera. Roma, MAXXI/ Tridimensionale/ Fino al 23 settembre 2012
Il MAMbo di Bologna apre i suoi spazi espositivi a Plamen Dejanoff per ospitare una spettacolare mostra che si inserisce nel percorso di avvicinamento alla costruzione del più prezioso e imponente monumento in bronzo mai realizzato nell’arte moderna e contemporanea. L’artista inizia nel 2006 a delineare e sviluppare il monumentale progetto per la sua città natale Veliko Tarnovo. Nel centro della città Dejanoff prevede di costruire alcune infrastrutture in bronzo per la creazione di un centro culturale pubblico. Al termine del processo di completamento degli edifici, ogni casa-scultura dovrebbe essere costituita da moduli in bronzo, ognuno dei quali interamente realizzato a mano secondo principi ingegneristici high-tech: elementi della facciata e del pavimento, porte, pareti, scale e pezzi di giunzione con cui è assemblata l’intera struttura. “The Bronze House” è il primo di questi interventi architettonici a prendere concretamente forma in una villa di oltre 600 m2 destinata ad essere assemblata in Bulgaria, le cui fasi di avanzamento nel processo di costruzione vengono presentate in un percorso espositivo itinerante che ha già coinvolto alcune prestigiose istituzioni museali europee.
Bologna, MAMbo/ The Bronze House/ Fino al 9 settembre 2012
ALESSANDRO BERGONZONI FRANCO PURINI LUIGI ALINI & ISABELLA GOLDMANN
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AVI focus
BASQUE CULINARY CENTER • MUSEO ENZO FERRARI • WOLFE CENTER FOR THE ARTS. BOWLING GREEN UNIVERSITY • KAAP SKIL • EYE FILM INSTITUTE • MUSEO DEL PASSO
Pensieri. Commenti. Interviste. Schede di progetto
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INTERVISTA
IL SENSO DELLA CREATIVITÀ «Credo che antropologicamente sia giunto il momento di provare a modificare idee e linguaggi». Alessandro Bergonzoni, scrittore, attore e pittore, spiega il bisogno di creare nuovi codici di comunicazione, utili alla gestione e ricezione del flusso creativo
Domanda. Nella progettazione creativa delle sue opere d’arte trova l’ispirazione nella quotidianità e nella realtà circostante? Risposta. Se con quotidianità si intende tutto ciò che si vede, sicuramente no. Se si intende qualcosa che ricorda, che sposta, che fa vedere quello che c’è dietro e che cosa ci potrebbe essere di sconosciuto, allora sì. Spesso lavoro con materiali di recupero, abbandonati, consunti. Fanno parte di qualcosa che potrebbe raccontare la realtà, ma mai da un punto di vista diretto e immediato. D. Durante la fase creativa le capita di cambiare strada rispetto a quello che aveva in mente all’inizio? R. Senza dubbio è quello che ho in mente che decide cosa fare di me e io arrivo dopo. Subisco una forma di condizionamento costante, minuto dopo minuto, giorno dopo giorno. È tutto un continuo deragliamento. Un continuo spostamento da quella che doveva essere la strada principale. Per esempio, mentre sto lavorando a un progetto teatrale nascono seminazioni involontarie per lo spettacolo successivo e cominciano un percorso che io non decido in nessun modo, hanno una vita propria. Le idee prendono forma a prescindere dall’ideatore. Tutto si muove attraverso una strana idea di progettualità che non ha niente a che fare con l’idea di un progetto deciso e organizzato “su carta”. È disorientante e caotica e crea non pochi problemi a chi collabora con me. Lavoro nel mondo dell’arte da soli sette anni e in questo ambito il disorientamento è maggiore. È un gioco di freno e accelerazione. Con il teatro o la scrittura riesco a gestirlo meglio grazie alla mia esperienza ventennale. D. La forza delle immagini secondo lei è diversa da quella delle parole e dei suoni? R. Tutto questo dire, suonare, scrivere, vedere coabitano costantemente e si spingono l’un l’altro in maniera fermentante e costante. Parola e scrittura hanno una forza primigenia e fondamentale che per me non ha nessuna altra cosa: il suono viene dopo, la materia viene dopo, ma è un “dopo” che è sempre meno lontano. Prima avevo la parola e la rappresentazione della parola, cioè la scrittura e il teatro, ora ho anche l’uso delle immagini e subisco dalle immagini una richiesta, un’urgenza che le va a mettere molto vicino a parola e scrittura. Adesso quando scrivo immagino molto di più, lavoro molto di più sul visivo, avviene quasi immediatamente il collegamento. È un connubio strettissimo. Ma la cosa più forte in assoluto è l’uso del pensiero inteso come creazione. E il tema della creazione è un tema spirituale: in mezzo tra il laico e il religioso esiste una parte artistica e spirituale che è quella su cui si dovrebbe lavorare di più, ma quando si lavora su questi canoni devono necessariamente cambiare la grammatica e il segno. D. In che senso? R. Oggi tutti semplificano ed è difficile parlare di strati, dimensioni,
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spaccati, cumuli. Facciamo fatica a raccontare uno stato di allucinazione sana come è la creazione. Noi abbiamo un codice solo: lo stesso codice che usano, per esempio, i media lo dovremmo usare per parlare di arte, ma non è possibile. Io sono disperato per questo, sono disperato per le orecchie degli ascoltatori che si sono chiuse, accartocciate su loro stesse, impedendo la differenziazione. Io mi sento socialmente impegnato in una campagna per la differenziazione dei codici. Tutti credono che fare un certo tipo di lavoro su noi stessi sia difficile, in realtà è solo complesso, ed è ben diverso. Credo che politicamente e antropologicamente sia il momento di provare a modificare idee e linguaggi. Le idee muovono delle frequenze, delle onde e dei ritmi, ovunque e dovunque. Muovono energia. Bisogna fare un lavoro sulle anime delle persone che sono coloro che guardano, che ascoltano, che pensano. D. Affinché capiscano l’arte? R. L’arte è un concetto metaforicamente riferibile a un jumbo di due piani che richiede per atterrare una pista d’atterraggio di almeno 5 o 6 km. Le persone hanno piste da atterraggio di 1 km, al massimo ci atterrano gli elicotteri. Mancano i mezzi, la torre di controllo non vede quello che arriva: l’essere umano non fa un lavoro di grande complessità che è quello della ricerca, quello della differenza. Un altro grande tema è quello della distrazione e della leggerezza. Prendiamo il cinema per esempio: si va al cinema per distrarsi un paio d’ore. Ma non può essere così. Tutti gli artisti, compreso i grandi registi e i grandi autori cinematografici, hanno sempre voluto comunicare, idee, creazione, vita, non intrattenimento e spensieratezza. Non si va al cinema o a visitare una mostra per passare del tempo… io questa la chiamo cultura colluttoria: è come con il collutorio, sciacqui e poi sputi. D. Come può migliorare la situazione? R. Sono convinto che bisognerebbe cominciare a raccontare negli asili che non esiste un corpo solo, una vita sola, una medicina sola. Bisogna dire ai bambini che non esiste una sola verità, che devono avere la mente aperta e non smettere mai di ascoltare e recepire. Invece si segue l’idea del “meno vi raccontiamo, più vi comandiamo”. Ai bambini si comunica fin da subito l’ossessione dell’ordine, un concetto che mi preoccupa tantissimo. Tutti danno massime di vita come per esempio: “la famiglia è importante”. Sì, la famiglia è importante se tutto va bene, ma se i tuoi genitori sono assassini allora non può più essere importante la famiglia solo perché è la famiglia. Quello che è importante allora è il bene, il concetto, la ricerca interiore, la nostra anima, la nostra storia. Tutti sembrano aver bisogno di ordine ma ad un bambino bisogna dare un disordine fondamentale che gli permetta il dubbio che è la cosa fondamentale per essere indipendenti e per essere “larghi”. (di Gianfranco Virardi)
INTERVISTA
STRATEGIA DEL PROGETTO La centralità dell’idea che informa il processo compositivo e la sua traduzione in progetto sono gli approcci creativi adottati da Franco Purini. Fondamentale inoltre è la tensione sostenuta da un’ispirazione utopica. Senza la quale non c’è architettura
Domanda. Secondo lei esiste un legame tra il progettare architettura e il trovare l’ispirazione? Risposta. Non credo che per ciò che riguarda i processi creativi si debba parlare tanto di ispirazione, quanto di un esercizio costante e disciplinato sui materiali costitutivi del linguaggio entro il quale si agisce. Il concetto di ispirazione fa riferimento a quell’illuminazione che permea la mente prefigurando la soluzione. Ammesso che questa illuminazione esista è il frutto di un lavoro assiduo su alcuni temi, il quale produce a un certo punto la sintesi formale desiderata. D. Progettare richiede vari approcci creativi. Qual è il suo modo? R. Il mio modo di progettare parte da una serie di convinzioni. La prima è la centralità dell’idea, che deve informare il processo compositivo. La seconda consiste nella necessità che tra l’idea e la sua traduzione in un progetto la distanza deve essere la minima possibile. La terza è la forza del pensiero dell’origine, vale a dire la scelta della dimensione archetipica. Il tutto in una concatenazione logica di operazioni che devono avere un carattere esemplare, una tonalità didattica. D. Se progettare è un processo di sintesi di istanze concettuali e formali, esiste allora una linea di demarcazione tra chi ha un background storico-culturale del disegno come linguaggio e chi lo ignora? R. Non credo che il possesso di un retroterra storico-culturale relativo al disegno come linguaggio sia una condizione necessaria per ottenere risultati compositivi di una certa rilevanza. Ovviamente una buona conoscenza del mondo complesso stratificato e misterioso della rappresentazione architettonica può offrire elementi importanti ma ritengo che questi non possano essere decisivi. D. Oggi, sempre più, accanto al termine progettare è facile trovarne un altro: strategia. Certo anche un progetto è un piano d’azione che richiede coordinamento, ma progettare l’architettura significa ancora dare corpo alla “sostanza di cose separate”? R. Senza una tensione ideale verso la trasformazione in positivo dell’abitare umano, una tensione sostenuta da un’ispirazione utopica, non può esserci per me un’architettura che sia tale. Tutto il resto, la concretezza del costruire, il consenso necessario per realizzare un’opera, la coincidenza tra intenzioni e risultati, la coerenza dei processi produttivi vengono subito dopo. Sono convinto per questo che la strategia del progetto riguardi l’insieme delle scelte necessarie per ottenere un risultato coerente con ciò che si vuole ottenere. D. Qual è la maggiore differenza che intercorre tra l’architettura disegnata e quella progettata? R. A mio avviso non c’è differenza. Quando un’architettura disegnata è un’architettura lo è perché essa è costruita rigorosamente, anticipando nella rappresentazione la logica della realizzazione. In qualche modo tra le ragioni della forma e quelle della tecnica costruttiva c’è una corrispondenza biunivoca.
D. All’interno di una progettazione-creazione le è mai capitato di cambiare strada rispetto all’idea originaria? R. È successo, ma quasi sempre è la prima idea quella che resiste alla necessaria esplorazione delle sue varianti. Essendo convinto del primato dell’idea è difficile per me non seguire il percorso tracciato dall’intuizione che si fa strada nelle fasi fondative di un progetto. D. La tecnologia nell’elaborazione del progetto e nella realizzazione dell’architettura. Che tipo di rapporto ha con essa? R. La tecnologia dell’invenzione progettuale e quella della sua strutturazione in azioni costruttive coordinate sono contenute l’una nell’altra. Il rapporto con queste due sfere deve essere per me sostenuto da una chiara visione teorica, vale a dire da un a priori concettuale nel quale l’astrazione ha un grande ruolo. D. L’iperrealismo della realtà virtuale ha modificato, secondo lei, la percezione del progetto? R. In qualche modo sì, esautorando la sorpresa della realizzazione. D. Le arti sono un linguaggio universale, eppure tra alcune espressioni d’arte e i giovani c’è uno scollamento, secondo lei perché? R. No so se è proprio vero. Piuttosto ciò che sembra interessare il pubblico dell’arte è il potere comunicativo dell’arte stessa, la sua alleanza con i media e con la moda. Un fenomeno che non condivido perché sottrae mistero ed emozione all’esperienza dell’arte. D. L’aforisma di Theodor Adorno: “Il compito attuale dell’arte è di introdurre caos nell’ordine” risulta essere adatto all’architettura? R. Senz’altro. Paradossalmente l’architettura risolve i problemi dell’abitare creando altri problemi, spesso più difficili di quelli che sono stati appena affrontati. Da allievo di Manfredo Tafuri penso ad esempio che l’architetto non possa superare le contraddizioni della realtà. Egli deve non solo rappresentarle, ma spingerle fino al limite. D. Che valore attribuisce al legame tra ricerca e progettazione? R. Per me il comporre-progettare e la ricerca devono coincidere. Pur essendo radicate nel presente le due pratiche si proiettano nel futuro portando al contempo negli scenari del domani il segno generatore e innovativo della memoria. D. Progettare un’architettura è pur sempre comunicazione. Esiste una discrepanza tra il messaggio originario e quello che recepisce il fruitore? R. Esiste senza dubbio uno scarto tra il messaggio veicolato da un qualsiasi medium e la sua ricezione. Ciò implica che tra le due entità non può esserci un rapporto di meccanica decodificazione, al cui interno questo scarto sarebbe peraltro inessenziale. Occorre invece procedere verso una lettura autenticamente critica dell’architettura che si sta osservando o abitando, una lettura orientata che consenta di accedere a quei contenuti che il livello comunicativo occulta o disloca in una dimensione laterale.
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RIFLESSIONI SULLA SOSTENIBILITÀ Conservare e riqualificare dal punto di vista energetico l’edilizia storica. Limitare il consumo di suolo e promuovere il recupero delle aree dismesse. L’utilizzo dei materiali naturali e tecnologici nell’architettura sostenibile. Su questi temi si confrontano Luigi Alini, professore associato e studioso di Kengo Kuma, e Isabella Goldmann, architetto professionista esperto in bioarchitettura ed edilizia sostenibile
Qual è la giusta strada per ovviare alle contraddizioni che si celano dietro l’interesse per la sostenibilità, che ha come conseguenza la perdita d’interesse verso i protagonisti principali, l’uomo e l’ambiente, in favore del soddisfacimento dell’ego dei progettisti ?
Riqualificare l’edilizia storica esistente «energivora» e garantirne anche la completa «conservazione» quali difficoltà e contraddizioni presenta?
Luigi Alini Non credo esista una strada giusta e una sbagliata. Agli architetti sovente vengono attribuiti tutti i mali che affliggono le nostre città. Le comunità urbane vivono profondi disagi e le città sono poco ‘accoglienti’. Mi permetto di ricordare che un buon architetto ha bisogno prima di ogni cosa di un buon committente. C’è una responsabilità sociale che ci investe tutti come cittadini. È tuttavia innegabile che in molti casi l’architettura non ha saputo dare risposte adeguate. Per il futuro mi auguro che la committenza recuperi un ruolo chiave, così come sarebbe auspicabile una maggiore partecipazione dei cittadini nei processi di trasformazione che investono vaste aree del territorio. Isabella Goldmann L’ego dei progettisti esisterà sempre. Dal Medioevo in poi sempre di più il progettista ha goduto di visibilità, e questa consuetudine non si è più persa. Io non credo che mai accadrà, e forse non ritengo nemmeno giusto che accada. Ritengo invece che cambieranno i presupposti per cui la notorietà verrà riconosciuta in maniera sana e positiva, come al contrario, ritengo che sempre di più verranno messi al bando quegli architetti che avranno dimostrato di non tenere in conto le buone pratiche di progettazione sostenibile. Sarà il mercato a fare la distinzione, sarà la committenza che evolverà, si informerà, non si farà più progettare edifici senza senso umano, ambientale ed economico. Luigi Alini Non credo esistano difficoltà o contraddizioni di sorta, soprattutto se ci riferiamo all’ediliza storica e non a quella monumentale. Nel primo caso le possibilità di intervenire sono molteplici e le tecnologie di cui disponiamo sono ormai consolidate. Diverso è il caso di interventi su edifici monumentali, per i quali non sempre è possibile intervenire per garantire standard adeguati alle nuove normative. Vorrei però sottolineare che oltre le questioni energetiche sarebbe opportuno riferire la sostenibilità anche ad altro. Intervenire per ridurre i consumi energetici è una condizione necessaria, che non può esercitarsi solo alla scala edilizia. Bisogna operare entro una visione più ampia, all’interno di un sistema integrato. Nei contesti fortemente urbanizzati, penso alle città metropolitane: il tema della mobilità, ad esempio, è strategico. Poche amministrazioni si sono dotate di un piano della mobilità, che non sia semplicemente un programma di ampliamento della rete ferroviaria metropolitana. Isabella Goldmann Non presenta né difficoltà né contraddizioni. L’architettura sostenibile fonda le sue basi nelle tecniche che in antichità venivano attuate per costruire quegli edifici che oggi noi recuperiamo. Non si tratta che di riapplicare antiche competenze. Nella mia formazione, ad esempio, la sostenibilità è arrivata in maniera naturale, come evoluzione scientifica dopo anni impiegati a restaurare edifici antichi. Oggi, inoltre, le nuove tecnologie che si possono utilizzare nel recupero dell’edilizia storica non vanno che a massimizzare i risultati ottenibili. L’edilizia antica è particolarmente energivora solo perché è utilizzata male, con destinazioni d’uso inappropriate, differenti da quelle originarie, e con prolungati periodi di non manutenzione che ne hanno compromesso il «funzionamento». In epoca antica, fino ad arrivare all’inizio del secolo scorso, gli edifici venivano costruiti per non consumare quasi nulla, attraverso l’utilizzo di semplici accorgimenti come l’orientamento, la massa termica e l’uso intelligente degli ambienti. È solo dal dopoguerra ad oggi, con l’avvento massiccio degli impianti, che si è persa questa sensibilità. Basta recuperarla e il problema si presenta di più semplice soluzione.
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Architetto e professore associato in Tecnologia dell’Architettura presso la Facoltà di Architettura di Catania. Ha svolto attività di ricerca in Giappone e ha curato la prima mostra monografica in Italia sull’opera di Kengo Kuma, col quale ha in corso ricerche sull’uso innovativo in architettura di materiali della tradizione. Luigi Alini
Come far comprendere a chi governa le nostre città che sostenibilità vuole anche dire limitare il consumo del suolo e promuovere il recupero delle aree dismesse e del patrimonio edilizio esistente?
È architetto professionista esperto in bioarchitettura ed edilizia sostenibile, membro dell’Istituto Nazionale di Bioarchitettura (INBAR) e critico dell’architettura. Fondatrice di Goldmann & Partners. È direttore responsabile di Meglio Possibile (www.megliopossibile.it), il magazine on line redatto dal Centro Studi per la sostenibilità di Goldmann & Partners. Isabella Goldmann
Luigi Alini Penso che la messa a punto di piani di intervento per le infrastrutture, programmi di riqualificazione del costruito esistente, possano rappresentare dei volani. Dovremmo utilizzare questo momento congiunturale di grande difficoltà che attraversa il nostro Paese per intervenire con lungimiranza. Credo sia necessario recuperare l’ordinario. Sul recupero delle aree dismesse c’è poi un paradosso tutto italiano che potremmo definire ‘terminale’. Un caso per tutti: il recupero dell’area ex Italsider ad ovest di Napoli. Anche questo non è più sostenibile. Il recupero delle aree industriali dismesse è poi reso molto complesso dal tema delle bonifiche. Si tratta di interventi costosi e non sempre fattibili. Per quanto riguarda il patrimonio edilizio esistente sono d’accordo con Aldo Loris Rossi: demolire e ricostruire, piuttosto che continuare a consumare suolo per espansioni non sempre necessarie. Isabella Goldmann Chi sta cercando di distinguersi rispetto al panorama politico di riferimento, soprattutto territoriale, già sta utilizzando questi temi, che sono molto sentiti a livello locale. Moltissime sono oggi le città che hanno imposto processi radicali di conversione sostenibile. Tra i temi in agenda ci sono ovviamente il recupero delle aree dismesse e del patrimonio esistente. Sono molti i problemi che convergono nel riutilizzo di beni esistenti «congelati», soprattutto se si tratta di aree. Innanzitutto i diritti di proprietà: vanno garantiti ai proprietari indennizzi adeguati, con trattative spesso lunghissime. Oltre a questo la difficoltà è spesso nella composizione economica del complesso di attori che intervengono in un progetto pubblico per il recupero di un’area o un edificio: l’amministrazione pubblica, le banche, in alcuni casi le sgr, le imprese, i progettisti, i destinatari finali. Se poi ci mettiamo l’IMU, la cosa si complica ancora di più. E in questi processi la sostenibilità passa in fondo.
Al termine architettura sostenibile si contrappone quello erroneamente detto tradizionale. Le nuove generazioni di architetti annulleranno questa dicotomia in favore di un unico pensiero proiettato al benessere psicofisico ed economico dell’uomo?
Luigi Alini Non credo in questa dicotomia. Potrei fare tanti esempi di architetture tradizionali che rappresentano ancora oggi modelli esemplari di sostenibilità. Esposizione, ventilazione, uso della massa come moderatore termico rappresentano, ancora oggi, riferimenti significativi per quanti vogliono collocarsi nell’ambito di un approccio sostenibile al progetto. Cambiano le modalità di risposta non i problemi. Alle forme dicotomiche oppositive preferisco la ricomposizione duale. Possiamo attingere dalla tradizione senza per questo ridurci alla riproposizione acritica di modelli, soluzioni, forme. Disponiamo di strumenti e tecnologie che ci consentono di usare in forma nuova ‘antichi’ materiali. Recuperare dalla tradizione pratiche, logiche, sistemi è anche una necessità di ordine culturale. Isabella Goldmann Non dovrebbe essere altrimenti. Ma ahimè non sarà così molto presto. Purtroppo la colpa è delle Università. Ancora oggi ci sono laureati in architettura e ingegneria che non hanno mai incontrato sul loro percorso alcun insegnamento sulla sostenibilità. Fare architettura sostenibile richiede invece fortissime competenze tecniche e non può venire improvvisata ( come invece purtroppo molti architetti oggi fanno, combinando danni e distruggendo il mercato). Oltre alle competenze tecniche, fare architettura sostenibile richiede forti competenze economiche per poter comporre il giusto mix di azioni che massimizzino sia il beneficio ambientale, sia il beneficio economico del cliente. Anche questo non si può improvvisare. E invece nelle facoltà di Architettura e Ingegneria ancora oggi purtroppo non si insegna alcuna nozione di economia e di lettura di un bilancio.
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Alcune università stanno lavorando su materiali capaci di aumentare l’efficienza energetica degli edifici. Si parla di materiali biomimetici, polimeri elettroattivi , materiali piezometrici, termoelettrici, ecc... Si può allora chiaramente affermare che sostenibilità non vuol dire soltanto uso di materiali naturali?
Innovazione tecnologica e ricerca «green» possono essere cosiderate volano per una rinascita economica del mondo occidentale?
Luigi Alini La ricerca negli ultimi dieci anni ci ha aperto scenari molteplici. L’approccio strategico alla progettazione edilizia di ‘terza generazione’ è ormai consegnato alla storia del recente passato. Le potenzialità d’uso dei cosiddetti material smart aprono un orizzonte nuovo, soprattutto per quanto concerne le soluzioni dell’involucro, sempre più dinamicamente interagente con l’ambiente. Disponiamo poi di strumenti di analisi che rendono possibile ‘simulare’ condizioni operative ‘reali’. Tuttavia, a fronte di questo accresciuto ‘grado di conoscenza’, il settore delle costruzioni, diversamente da altri settori, continua ad essere lento ad assorbire innovazione. Premesso sinteticamente che il tema della sostenibilità non è riferibile solo all’impiego di materiali naturali, così come non lo si può limitare esclusivamente alle questioni energetiche, è inderogabile far riferimento all’intero ciclo di vita di un edificio. In questo senso l’uso di materiali ‘naturali’ provenienti da fonti rinnovabili, piuttosto che materiali di sintesi chiaramente pone meno problemi per quanto attiene allo smaltimento finale. Isabella Goldmann Certamente sì. Sostenibilità significa saper coniugare l’esigenza di non intaccare risorse destinate alle generazioni future attraverso l’utilizzo di materiali naturali, provenienti da filiera produttiva rinnovabile. Ma significa anche operare attraverso la capacità di riciclo di materiali già utilizzati e la ricerca scientifica in tema di materiali innovativi, soddisfacendo l’esigenza di abbattere i consumi energetici e le emissioni in atmosfera. Quando tutte queste condizioni vengono soddisfatte, qualsiasi risultato nel campo della ricerca scientifica abbia l’obiettivo di essere sostenibile e di contribuire a rendere sostenibili gli edifici, è in linea con il tema. Come in ogni cosa però, il «meglio» è nel giusto mix delle scelte. Ricordiamoci che non basta utilizzare materiali naturali o riciclati: è necessario che il loro utilizzo errato o maldesto non causi una alterazione del comfort interno agli ambienti. La sostenibilità non è quindi soltanto nel tipo di materiali scelti, ma nella sapienza, spesso antica, che viene applicata per assemblarli e utilizzarli all’interno di un progetto. Luigi Alini Il settore delle costruzioni manifesta forme di obsolescenza, di arretramento tecnologico rispetto ad altri settori, e impone un’inversione di tendenza. La lentezza con cui le innovazioni e la ricerca di base entrano nella produzione ediliza diffusa non è più accettabile. Quello che genericamente viene indicata come green economy, sicuramente rappresenta una grande opportunità per il nostro settore, l’occasione per contribuire ad elevare la qualità intrinseca del nostro costruito e conseguentemente agire come volano per una maggiore distribuzione della ricchezza. Il mercato immobiliare è crollato non solo per la ‘bolla immobiliare’ e i gravi errori che il sistema di finanziamento bancario continua a perpretare nel settore immobiliare. Credo che il mercato immobiliare sia al collasso anche perché gli investimenti fatti non li abbiamo indirizzati verso un reale rinnovamento, non abbiamo avuto il coraggio di sperimentare e investire in innovazione, ci siamo limitati ad un consumo dissennato di suolo. La speculazione si è limitata solo ad immettere sul mercato una massa indifferenziata di immobili, senza agire sulla qualità degli stessi. La sfida che abbiamo dinanzi a noi nell’immediato è ridurre drasticamente il consumo di suolo ed elevare gli standard di qualità globale. Isabella Goldmann Già lo sono. Il mondo occidentale è all’avanguardia per brevetti e centri di ricerca volti all’individuazione di nuovi prodotti compatibili con l’ambiente. Tutte le maggiori industrie si sono convertite almeno in parte, o sono in procinto di farlo, all’ottimizzazione dei cicli produttivi con l’obiettivo di renderli più efficienti e meno energivori. Ciò rende, sul medio periodo, meno costosi i prodotti. Esistono anche aziende che hanno avviato veloci e menzogneri processi di «greenizzazione» per essere in linea con la concorrenza, ma questi vengono nel breve smascherati, e lo saranno sempre di più. L’unico modo che ha l’Occidente oggi per recuperare la propria leadership mondiale, intaccata dalla aggressività dei Brics, è quella di distinguersi su competenze produttive raffinate, che i paesi emergenti oggi non hanno tra le loro priorità. I centri di ricerca occidentali più avanzati di ogni settore lo sanno bene e stanno facendo della sostenibilità il fulcro della propria attività. Anche perché tra brevissimo non sarà più possibile collocare sul mercato alcun prodotto occidentale che non sia provatamente sostenibile in ogni passaggio del suo ciclo di vita.
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Di quali cure hanno bisogno oggi le nostre città per divenire meno dispendiose e soprattutto attente al benessere del cittadino?
Luigi Alini Tutti abbiamo consapevolezza di cosa avremmo bisogno. Benessere significa anche spazi per la socialità, per lo sport ecc. Questo chiaramente ha un costo sociale che dovremmo poter sostenere. Ho sentito più volte amministratori lamentarsi perché le grandi aree verdi urbane hanno costi manutentivi alti. Continuiamo a stimare le cose solo sulla base di parametri monetari. Tutto è moneta. Il benessere di una comunità, il suo sviluppo sostenibile non può rispondere solo a logiche finanziarie, a valutazioni e stime fatte sul tempo breve. Il suolo è una delle risorse non rinnovabili che noi stiamo consumando a ritmi impressionanti, soprattutto negli ultimi 10 anni. Isabella Goldmann Le cure partono dal territorio: innanzitutto una città va avvolta dal verde, che deve penetrare nel tessuto urbano. Se possibile va dotata di acqua, e le sue acque vanno curate: bacini, canali, fiumi, laghi, mare, tutti concorrono ad un equilibrio igrometrico della città. Forte attenzione va posta alla viabilità: mezzi pubblici il più possibile elettrici e molte piste ciclabili. Ma la voce di carico ambientale più forte restano gli impianti termici delle case e gli impianti produttivi delle industrie. Gli impianti a combustione dovrebbero venire messi al bando, a favore di un sistema ottimale edificio-impianto (con impianti ad energia rinnovabile) da incentivare. Tutto questo non può radicarsi se una città non investe in cultura dei suoi cittadini: raccolta differenziata, utilizzo intelligente dell’acqua, rispetto del verde, mobilità sostenibile, gestione del calore e dell’energia, sono tutte pratiche virtuose frutto di educazione, da impartire nelle scuole e presso gli adulti, anche con severe sanzioni se necessario.
Se per progettazione sostenibile si intende anche una progettazione attenta alla bioclimatica, si è sancita la fine dell’internazionalizzazione degli interventi architettonici a favore di una progettazione più a contatto con il genius loci?
Luigi Alini Coniugare tradizione e innovazione è sempre più una necessità. Vorrei proporre due casi esemplari: Kengo Kuma e Fabrizio Carola, architetto napoletano che opera da 40 anni in Africa. Due maestri dell’architettura che propongo come esemplari interpreti del luogo. Kuma nelle sue opere ci mostra un uso sapiente e innovativo di ‘materiali antichi’. La materia è “sostanza assoluta” che vive nello spazio e nel tempo. La capacità di vedere oltre la materia le sue potenzialità, per Kuma non è un’azione arbitraria, quanto un’azione strutturata che impone la conoscenza assoluta del materiale. Il materiale come generatore di forme, il geometrismo entro il naturismo, sono questi alcuni temi attraverso cui Kuma costruisce quel senso di spiazzamento, di sospensione temporale che trasmettono le sue opere. Concepisce lo spazio architettonico come una macchina per 'inquadrare' porzioni di paesaggio, capovolge la nostra forma di percezione, rende manifesta quella totalità chiamata “luogo”. Analogamente, Fabrizio Carola col suo ostinato lavoro di architetto-costruttore è impegnato a sostenere l’efficacia di un modello costruttivo fondato sul recupero di elementi della tradizione mediterranea: archi, volte, cupole. Conduce una serie di ricerche sull’abitare, sulle tecniche costruttive tradizionali. L’architettura spontanea, senza architetti costituisce uno dei suoi riferimenti privilegiati: in Africa impara ad utilizzare il compasso ligneo, uno strumento di cui intravede l’efficacia e le possibilità. La terra è il materiale privilegiato. Un materiale che lavora bene a compressione, facilmente reperibile e producibile in sito. Volte, archi e cupole rispondono efficacemente ai criteri di economicità e rapidità di esecuzione. Nel lavoro di Kuma e Carola ritrovo quel senso di equilibro, di misura, di dialogo con il luogo. Vivono a cavallo tra passato e futuro. Isabella Goldmann L’architettura è sempre stata regionale: si è sempre costruito in funzione delle caratteristiche climatiche del luogo. La nostra architettura rurale insegna in ogni regione come si deve costruire in quel luogo. Non a caso i trulli non sono in Valtellina e le case walser non sono in Sicilia. Questa sapienza si è persa di recente: dall’avvento dell’utilizzo massiccio degli impianti termici nell’ultimo dopoguerra. Gli architetti hanno pensato di aver risolto quello che loro consideravano un limite: il dover tenere conto delle esigenze climatiche del posto per poter «creare». Nulla di più errato, perché abbiamo visto molti architetti applicare imbarazzanti copia-incolla di un unico progetto in ogni angolo del mondo. Finirà presto anche questo. Sarà la committenza a porre fine a questa pratica. Saranno sempre meno coloro disposti a pagare costi di manutenzione ordinaria esagerati per avere un edificio «firmato» progettato in maniera del tutto indifferente rispetto alla sua collocazione.
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SCHEDE Basque Culinary Center, Donostia-San Sebastián (Spagna) Progetto: VAUMM architecture & urbanism Il Basque Culinary Center è la sede della Facoltà di Scienze Gastronomiche di San Sebastián, nei Paesi Baschi. È un luogo di formazione per professionisti dell'alta cucina. L'offerta formativa di questa facoltà va dal titolo universitario in Gastronomia e Arti Culinarie a un master in Innovazione e Gestione di Ristoranti a corsi di formazione continua in tecniche culinarie, per sommelier, servizio di sala o gastronomia per l'industria alimentare. Le funzioni del Basque Culinary Center sono completate da un Centro di Ricerca e Innovazione in Alimentazione e Gastronomia. È la prima Facoltà di Scienze Gastronomiche della Spagna e la prima al mondo con un centro di ricerca e sviluppo. La scelta di San Sebastián non è stata casuale: è una città ricchissima dal punto di vista culinario ed è anche la città spagnola con il maggior numero di stelle Michelin. Nel 2007 l'Università Mondragón ha iniziato a sviluppare l'idea, che ha richiesto un investimento di 17,1 milioni di euro, e dall’anno scolastico 2011/2012 cinquantasei studenti di tutto il mondo hanno iniziato il loro cammino universitario. Il Centro sorge nel Parco Tecnologico di Miramon e per la realizzazione architettonica i progettisti si sono affidati a uno studio di giovani architetti locali, lo Studio Vaumm. Il BCC si innalza su un leggero dislivello che gli architetti hanno saputo sfruttare al meglio realizzando un edificio di cinque piani perfettamente inserito nel panorama del territorio. La costruzione si estende per 12mila mq a forma di U racchiudendo al suo interno uno spazio verde contornato da terrazze e gradoni. Il tetto è coperto da un manto erboso costituito da erbe aromatiche. Dall’esterno l’edificio ricorda dei piatti sovrapposti. L’idea degli architetti nasce dal paragone tra piatti e piani della struttura: come i piatti sono da supporto all’attività gastronomica, così i piani della struttura supportano le attività del centro.
L’edificio ricorda un volume di piatti piani sovrapposti che interagiscono con il paesaggio circostante. Le 5 terrazze nascondono avvolgenti verande che regalano viste panoramiche sul paesaggio roccioso
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Museo Enzo Ferrari, Modena
Foto Studio Cento29
Progetto: Jan Kaplický, Andrea Morgante
stiche più salienti pur avendone adattato la struttura portante alle nuove norme antisismiche. L’officina è diventata il museo proprio del personaggio Enzo Ferrari; l’abitazione è stata invece riorganizzata per poter ospitare gli uffici, mentre la nuova avveniristica struttura, rivestita di giallo, risponde pienamente al ruolo di ampia sala espositiva, in cui sono stati posti 21 esemplari. Cromaticamente l’interno è caratterizzato da soli due colori: il bianco delle pareti, degli elementi di alluminio ricurvo della copertura, della resina e il giallo, il colore adoperato all’esterno. La copertura è un interessante sistema architettonico, assemblato secondo alcune regole del settore nautico. L’edificio è stato costruito secondo alcuni principi della sostenibilità e difatti è in grado di assicurare, per il suo stesso mantenimento, un risparmio pari a 35mila kg di CO2 annui.
Foto Andrea Morgante
Nella Motor Valley dell'Emilia-Romagna, a Modena, il mito si fa architettura. La casa automobilistica Ferrari ha inaugurato il nuovo Museo Enzo Ferrari. Una particolare architettura che coniuga restauro architettonico, ecosostenibilità e l’innovativo e aerodinamico linguaggio delle auto da corsa. A progettarlo è stato l’architetto Jan Kaplický, ma, dopo la sua precoce morte nel 2009, ad avere il difficile compito di seguirne i lavori è stato Andrea Morgante. Il nuovo museo abbraccia il vecchio edificio e la casa natale di Enzo Ferrari e vi dà il giusto risalto rispettandone soprattutto la semplice natura di tradizionale manufatto in laterizio. Le due storiche preesistenze hanno subìto un restauro conservativo che le ha ripulite delle superflue superfetazioni e ne ha mantenuto le caratteri-
In alto: foto della copertura gialla con le sue dieci aperture, disegnate intenzionalmente per sottolineare l’analogia con le prese d’aria di un cofano. Sopra e sotto: particolari della facciata vetrata. Doppiamente curva in pianta, è inclinata con un angolo di 12,5 gradi rispetto al terreno
Foto Studio Cento29
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SCHEDE Wolfe Center for the Arts. Bowling Green University, Ohio (USA)
Foto Bruce Damonte
Progetto: Snøhetta - The Collaborative
La nuova struttura dello studio norvegese Snøhetta si rivolge verso il campus universitario statale di Bowling Green: presenta un pendio in salita verso est con una copertura verde accessibile dai dormitori adiacenti, per proiettarsi a sbalzo verso ovest creando una tettoia d’ingresso
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Il Wolfe Center of the Arts, costruito presso la Bowling Green State University in Ohio, emerge da un tipico territorio pianeggiante del nord – ovest della regione per alterare il paesaggio locale, sia letteralmente che culturalmente. Il Centro vuole creare un legame tra l’antica topografia della regione e la contemporanea idea di apertura verso le arti. È un nuovo spazio nel campus che raggruppa tutte le attività artistiche e vuole costruire legami fra arti diverse. Oltre ad essere un luogo per gli studenti e i docenti per lavorare su teatro, danza, musical, film, il centro offre alla comunità un luogo per una vasta gamma di performance. Il progetto è stato affidato allo studio norvegese Snøhetta, in collaborazione con lo studio associato The Collaborative. I lavori sono cominciati nel 2009 e il Centro è stato inaugurato nel 2011. Comprende tre spazi dedicati a performance di vario genere: uno spazioso teatro per grandi musical, opera e rappresentazioni classiche; uno studio-teatro dove presentare stili artistici diversi; uno spazio per produzioni sperimentali dove integrare il linguaggio parlato e il movimento del corpo con la tecnologia digitale e il suono. Una grande sala aperta accoglie i visitatori dall’entrata principale. L’atrio è spazioso ed è caratterizzato da un’opera fotografica dell’artista norvegese Anne Senstad, composta da 39 pannelli. Da qui, guardando verso l’alto, è possibile vedere le sale, le classi, gli studi d’arte e i dipartimenti di musica e teatro che si trovano al secondo piano. Il centro è stato studiato in modo da collegare la nuova costruzione al campo gia esistente, permettendo la flessibilità degli spazi pubblici e l’aumento del verde.
Kaap Skil, Texel (Olanda) Progetto: Mecanoo Architecten
Nelle foto: il museo visto da dentro e fuori. Si caratterizza per l'involucro: una facciata continua in vetro, ombreggiata da una trama di tavole in legno distanziate l'una dall'altra. L'interno è illuminato in maniera indiretta, con squarci di luce nei punti in cui si aprono le grandi vetrate sull'esterno
Texel, la più grande delle isole Frisoni o Wedden, la più vicina al continente nella parte più al Nord dell’Olanda, è stata nei secoli scorsi scenario di molte battaglie navali durante la guerra tra l’Inghilterra e l’Olanda. I Mecanoo Architecten hanno progettato per l’isola di Texel il Kaap Skil, il nuovo Museo del mare e dei marinai, e lo hanno fatto tenendo ben presente le caratteristiche del legno: naturalezza, riciclabilità, facilità di smaltimento, facile lavorazione, ottime prestazioni strutturali, alta qualità termica e spiccata attitudine acustica. I Mecanoo hanno pensato al Kaap Skil come ad un edificio ricoperto, in omaggio alla tradizione costruttiva locale, da un involucro di legno riciclato. La struttura è molto semplice, ha quattro tetti spioventi che, schematicamente, riecheggiano sia le increspature del mare sia lo skyline tipico delle abitazioni dell’intorno. Ha tutte e quattro le facciate di vetro rivestite con brise-soleil. Una texture che regola luci e ombre, ritma la facciata e fa vibrare l’interno con il variare delle fasi diurne, creando la giusta condizione emotiva e scenografica per accogliere le varie opere dei diversi pittori che nei secoli hanno visitato il “Reede van Texel”, l'ancoraggio al largo di Texel, per dipingere la flotta della Repubblica Olandese. Al primo piano, inondato di luce filtrata dalle assi consumate dal sole, gli oggetti sono esposti in teche mobili di acciaio e vetro. Al piano terra sia l’entrata sia la caffetteria sono state invece pensate come un elemento diverso: un vero diaframma tra i due mondi antitetici organizzati al piano seminterrato e al primo piano. Per un’isola oramai votata al turismo naturalistico è un’ottima e nuova possibilità quella di poter offrire al turista anche un viaggio nella storia e nella magia del mare e di ciò che esso costantemente porta via o restituisce.
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SCHEDE Eye Film Institute, Amsterdam (Olanda) I film sono un’illusione creata attraverso il coordinamento scenico di luce, spazio e movimento, che diventano reali attraverso la proiezione. In architettura l’interazione degli stessi tre parametri definisce in modo significativo l’intensità e l’efficacia della percezione individuale dello spazio. Per questo motivo lo studio viennese Delugan Meissl Associated Architects ha considerato questi tre elementi come componenti fondamentali nella creazione dell’Eye Film Institute, la nuova sede dell’istituto cinematografico di Amsterdam. Inaugurato il 5 aprile 2012, l’istituto, situato sulla riva nord del fiume IJ, fa parte del nuovo quartiere Over Oeks, che si sta sviluppando dopo la dismissione dell’area industriale Shell e che è destinato a crescere nei prossimi anni. L’obiettivo dei progettisti era quello di costruire un’opera che diventasse l’attrazione del nuovo quartiere. Per farlo hanno giocato in diversi modi con il riflesso della luce sulla superficie dell’edificio, creando cambiamenti ottici durante l’arco della giornata, intendendo la luce come cambiamento in relazione al movimento: la base della creazione cinematografica. Il nuovo Eye Film Institute comprende 4 moderne sale per proiezioni per un totale di 642 posti a sedere, più 2mila mq da dedicare a mostre e attività didattiche. La struttura è formata da una base in calcestruzzo con imponenti pilastri che affondano nel terreno sabbioso tipico della capitale olandese e uno scheletro di acciaio ricoperto di pannelli in alluminio. Al sito si può accedere da direzioni diverse: con un traghetto gratuito che parte dalla stazione centrale di Amsterdam che si trova davanti all’Istituto, da una pista ciclabile e da una strada percorribile in automobile.
Esterni dell’Eye Film Institute di Amsterdam. Sorge sulle rive del fiume IJ e ospita 4 moderne sale per proiezioni. Lo spazio adibito a mostre e attività culturali è distribuito su una superficie di quasi 2000 metri quadrati
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Foto Iwan Baan
Progetto: Delugan Meissl Architects
Museo del Passo, strada alpina tra Tirolo e Alto Adige Progetto: Werner Tscholl
Il Passo del Rombo è il punto di confine più alto tra Austria e Italia. La strada che unisce la Val Passiria italiana e la Ötztal sul versante austriaco è diventata oggetto di uno studio affidato all’architetto Werner Tscholl, che ha pensato di inserire in vari punti di sosta lungo il percorso delle sculture architettoniche per presentare ai turisti informazioni sull’ambiente naturale, sulla storia, sulla cultura. L’iniziativa ha preso il nome di Timmelsjoch Experience. «Le pendici del Passo del Rombo - spiega l’architetto non dovevano subire alcuna forma di inquinamento cromatico. Tutti i nuovi elementi si adeguano, dal punto di vista dei materiali e dei colori scelti, al paesaggio e passano in secondo piano. Gli elementi strutturali contengono dei rimandi al paesaggio e alla topografia dei luoghi». Dopo una fase preparatoria durata due anni, dunque, si è arrivati a definire un progetto comune nel merito del quale sono stati realizzati 5 volumi sculturei. L’ultimo realizzato è il Museo del Passo. La struttura monolitica in cemento armato si protende nel lato altoatesino come un masso erratico, sottolineando il carattere transfrontaliero del Passo del Rombo. La "grotta di ghiaccio" all'interno del museo rende omaggio ai pionieri della Strada alpina e alle loro opere. Affacciato sulle Alpi, parzialmente sospeso nel vuoto, il volume-vedetta è aperto su entrambe le estremità.
Nelle foto: il Museo del Passo è una sorta di monolite in cemento armato. Al suo interno ospita la mostra “Ice Cave”: un tributo ai pionieri delle Alpi e ai loro tentativi di attraversare i confini naturali
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