Avi settembre 2013

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"Poste Italiane Spa - spedizione in abbonamento postale D.L.353/2003 (conv. in L. 27/02/04 n° 46) art.1 comma.1 - CN/BO”

ARM Architecture Hamer Hall a Melbourne LAN Architecture + BETEM + Isabelle Hurpy Palestra Henry Bianco a Chelles F. Letto, M. Battistella, D. Bertoldo S. Ignazio da Laconi a Olbia

ORDINE DEGLI ARCHITETTI PIANIFICATORI, PAESAGGISTI E CONSERVATORI DELLA PROVINCIA DI VICENZA

ARCHITETTI VICENZA

n.4






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AVI architetti Iscritta con l’autorizzazione del Tribunale di Bologna al numero 8223 del 18 gennaio 2012

Direttore Editoriale Giuseppe Pilla Direttore Responsabile Maurizio Costanzo Caporedattore Iole Costanzo Coordinamento di Redazione Cristiana Zappoli Art Director Laura Lebro Consiglio dell’Ordine Stefano Battaglia, Arduino Busnardo, Laura Carbognin, Monica Castegnaro, Joelle De Jaegher, Marisa Fantin, Andrea Grendele, Marcella Michelotti, Manuela Pelloso, Giuseppe Pilla, Ugo Rigo, Enrico Tadiotto, Francesca Professione, Giuseppe Clemente, Miriam Scaramuzza Hanno collaborato Manuela Garbarino, Donatella Santoro Stampa ARBE Industrie Grafiche - Modena www.arbegrafiche.it finito di stampare in settembre 2013

Via Roma, 3 - 36100 Vicenza Tel. 0444.325715 - www.architettivicenza@awn.it

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sommario 16

Editoriale Giuseppe Pilla Una grande sfida culturale Marisa Fantin Rigenerare la cittĂ brutta

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p.18

Panorama La casa galleggiante Sistema modulare Illusione tridimensionale Come una nuvola Adattarsi al clima Un involucro green

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p.16

p.21 p.25 p.26 p.28 p.30 p.32

Progettare Complesso parrocchiale di S.Ignazio da Laconi p.36 S. Ignazio da Laconi a Olbia Progetto di Francesca Leto, Michele Battistella, Daniele Bertoldo Non solo una palestra Palestra Henry Bianco a Chelles Progetto di LAN Architecture, BETEM, Isabelle Hurpy

p.44

Giochi d’incastri Perth Arena Progetto di Ashton Raggatt McDougall, Cameron Chrisholm Nicol

p.52

Proiettata sul fiume Hamer Hall Progetto di ARM Architecture

p.62

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Premiazioni Le eccellenze in Europa

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Design Giochi materici

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AVI - Focus La città del futuro è smart

p.94

Centro di educazione per l’infanzia Progetto di Ana García Sala

p.98

Małopolska Garden of Arts Progetto di Ingarden & Ewy Architects

p.99

Lenbachhaus Museum Progetto di Foster+Partners

p.100

Wanangkura Stadium Progetto di ARM Architecture - Foto: Peter Bennetts

p.101

Taiyuan Museum of Art Progetto di Preston Scott Cohen

p.102

Cultural Center Plassen Progetto di 3XN

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editoriale /1

Una grande sfida culturale Piace il termine rigenerazione che sa di officina dove si portano le auto che sono malmesse e si cerca di rimetterle in circolazione, partendo dal presupposto che quella è comunque l’auto e che per quanto vi si possa operare avrà sempre dei limiti. Credo sia il concetto fondamentale da cui dobbiamo partire. L’impressione è che ci serva anche una rivoluzione di termini e, spero, non modaioli. Tendiamo a inseguire parole d’ordine. Sto pensando alle definizioni della città: città reticolare, città infinita, città diffusa, ecc... L’unica cosa che abbiamo capito è che dall’uso di tutte queste metafore non capiamo più cos’è la città. Dobbiamo sottoporre a critica gli elementi con i quali pensavamo di criticare la città, di analizzarla. I concetti usati per definire la rigenerazione hanno prodotto una serie di ragionamenti che consentono di impadronirsi maggiormente del significato attraverso l'analisi delle diverse situazioni che porta, spesso, a esiti contrapposti. La polivalenza degli spazi: si scopre nello specifico che tutti gli edifici che si vorrebbe modificare sono recalcitranti, perché non sono a norma sismica, perché hanno bisogno di scale aggiuntive di sicurezza, perché gli spazi non sono adeguati alla funzione che si vorrebbe attribuirgli. Le reti di servizi per generare la smart city: le nostre reti e sottoreti sono gestite da società pubbliche o private che cercano il profitto e l’utile. Quindi se una parte della città non ha un numero sufficiente di utenti non si va a investire in quella direzione. La rivoluzione della mobilità: abbiamo

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bisogno di un sistema metropolitano. Non sono il solo a ritenere che dal punto di vista tecnico sarebbe impossibile attivare un reale sistema metropolitano perché, dato che abbiamo generato una jam city cioè una città marmellata spalmata ovunque, di quante diramazioni dovremmo disporre per garantire un servizio metropolitano capace di intercettare almeno un milione dei cinque milioni di veneti che abitano questa strana città regionale che abbiamo generato? Il cuore delle città storiche deve essere rigenerato portandovi il centro decisionale: al contrario si nota che i centri decisionali cercano di scappare dai centri storici per il motivo che sono difficilmente accessibili ed in parte si vanno smaterializzando con l’uso delle moderne tecnologie. Ricreare delle aree vocazionali all’interno della città: un territorio come il nostro non se lo può permettere. Noi abbiamo generato una città dove ogni singolo pezzo contiene tutto. Tagliando un pezzo dei nostri centri si scopre che dentro c’è l’edificio pubblico, l’area residenziale, l’area produttiva, diventa inestricabile. Di fronte a questo c’è la fragilità della pianificazione pubblica per colpa delle lobby che poi si attivano inesorabilmente quando si pianifica. Di fronte al fallimento della prima generazione di strumenti urbanistici è stata varata la nuova legge regionale già in fase di modifica. Anche in piani costruiti bene, che nelle premesse sono a favore di una capacità costruttiva contemporanea per cui si sottolinea che il mimetismo in architettura va combattuto, quando si

vanno a leggere i regolamenti si scopre che nei centri storici, nelle aree di completamento, nei nuclei rurali bisogna rifarsi ai materiali e tipologie costruttive preesistenti: è un obbligo al mimetismo. La pregiudiziale che condiziona la nostra capacità di intervenire, pubblica e privata, è data dalla tradizione giurisprudenziale che dà ragione al privato anche se è il pubblico che genera il valore. C’è poi una diversità di tempi nella capacità di intervenire nei soggetti pubblici e privati. Perché sto elencando tutti questi fattori critici? Non c’è speranza nel futuro? Assolutamente no. Alle volte è la fisica sociale a stabilire che ci possono essere cambiamenti: la crisi, per esempio, che ha messo in grande difficoltà uno dei settori trainanti dell’economia veneta, quello delle costruzioni. Al contempo la crisi pungola a cercare soluzioni nuove e pone un problema di carattere culturale, ci interroga sul perché ci siamo da soli condannati a vivere in un sistema territoriale che ha troppe contraddizioni. Dobbiamo affrontare alcuni passaggi che sono fondamentali. Il primo. Abbandonare finalmente il lutto per i paesaggi belli e comprensibili che abbiamo perduto: non ci sono più. Continuare a piangere sul latte versato è una nobile e inutile perdita di tempo, ma è anche un rimpianto insincero perché quelle cittadine belle, quelle campagne intonse erano luoghi dell’ingiustizia sociale, della miseria e della fame. Non dobbiamo ripensare a quel Veneto, dobbiamo pensare a un Veneto e a una città regionale veneta con i suoi nodi fondamentali che


sono le città capoluogo e i suoi sottonodi che sono le città intermedie come risorsa per un corpo sociale che oggi vive un’economia che è internazionalizzata. Non provo quel disprezzo che provano molti nei confronti dei nostri imprenditori che hanno riempito il Veneto di capannoni. Forse bisognava aiutarli a capire come costruire questi capannoni, avevano bisogno di essere indirizzati. Ma spinti dalla fame hanno generato quel sistema economico che oggi ci consente di avere una popolazione con un altissimo potenziale medio di istruzione. Senza il loro coraggio noi oggi non avremmo le università fin troppo piene di studenti. Abbiamo attraversato una fase storica che forse era per una parte inesorabile, senza con questo assolvere i politici dai loro errori originati dall’incapacità di seguire la fisica sociale in maniera organica. Dobbiamo superare anche un altro concetto: la visione agostiniana che è tipica delle soprintendenze. Dato che il mondo è destinato allo sfacelo il compito è di mettere il freno a mano per rallentare il più possibile il degrado. Ho l’impressione che alle volte per la soprintendenza il problema principale sia tenere in piedi, finché si può un sistema che è destinato a degenerare. Pensare che questo sia il nostro compito genera una distorsione ottica incredibile perché abbiamo bisogno, diversamente, di lasciare sedimentazioni nostre assieme al patrimonio che abbiamo ricevuto in eredità. È quanto non riuscirà a fare la generazione che oggi si va spegnendo: pochissimi edifici costruiti in Veneto ne-

gli anni ’50-’80 rimarranno come sedimentazione da conservare. Ho la netta convinzione che la vera sfida sia culturale e che vada combattuta quartiere per quartiere con la logica non di una guerra regolare con un esercito regolare, ma con la logica del network cioè della guerriglia. Abbiamo bisogno di tanti drappelli che parlano lo stesso linguaggio e agiscono nel territorio generando esempi significativi. Per far questo chi progetta, ma anche il potenziale pubblico di committenti, come pure i tecnici comunali, devono cominciare ad applicare una forma di ermeneutica territoriale. È il contestualismo che qualcuno vorrebbe critico, ma dovrebbe essere anche storico. Partire da ciò che abbiamo: la macchina che ha il motore che non funziona più va riparata pur sapendo che quello è il telaio e ci sono pur sempre dei limiti. L'errore da evitare è di non avere tanti gesti solamente autoreferenziali. È bello vedere un edificio contemporaneo con la firma di una grande archistar, ma molto spesso stona, non dialoga con tutto ciò che sta attorno generando spesso un effetto di soffocamento. Abbiamo bisogno di tener conto della fisica sociale, della capacità di spesa che hanno i soggetti. Progettare un’architettura contemporanea che sia accessibile alle tasche di una committenza ampia è una grande sfida. Non ci basta un approccio meccanico: dobbiamo mettere le norme in secondo piano rispetto alla visione e al progetto. Oggi si costruisce senza visione alcuna alla qualità del progetto e si finisce col generare un atteggia-

mento meccanico; per l’eccessiva attenzione data ai retini in campo urbanistico, al privato viene data l’idea di avere il diritto di costruire e quindi di utilizzare fino all’ultimo metro cubo saturando appieno il lotto di terreno. Ripeto, è una svolta culturale e la crisi ci può aiutare. Va alzato, in mezzo a questa crisi, un vessillo per la ricerca faticosa di una visione diversa con meno pregiudizi, più umile che tenga conto delle esigenze della base, non solo dei grandi committenti e che ci possa consentire di riqualificare un tessuto urbano che ha grandissime potenzialità. Oggi c’è un combinato disposto fra una posizione conservatrice da una parte, di cui tutti siamo un po’ portatori, per la quale non si può toccare ciò che viene dal passato, e dall'altra una debolezza di fede nei confronti delle nostre potenzialità. Ci siamo autoconvinti, e ce lo diciamo con un certo sussiego, che l’architettura oggi è una babele di linguaggi. Le costruzioni più interessanti condividono alcuni stilemi al punto che siamo alla ricomposizione del linguaggio architettonico contemporaneo, problematico, come d’altra parte erano problematici i linguaggi che noi oggi vediamo come unitari. Credo ci vogliano più entusiasmo, più ottimismo, più convinzione nella capacità di lasciare dei segni del nostro tempo. Proprio per questo anche il mondo dei progettisti deve muoversi, deve dialogare.

Giuseppe Pilla

Presidente Ordine Architetti PPC di Vicenza

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editoriale /2

Rigenerare la città brutta Il tema della rigenerazione urbana, intesa come progettazione sostenibile, caratterizza la ricerca progettuale ormai in molte regioni del mondo. Il campo di applicazione della rigenerazione/sostenibilità, infatti, è ampio tanto quanto il suo significato, e numerose sono le sue implicazioni con i temi del governo del territorio, configurandosi ormai essa non solo come pratica progettuale, ma come etica stessa del progetto. Di rigenerazione si può parlare a tutte le scale, essa trova declinazione e contenuti suoi propri in tutte le dimensioni della progettazione: dalla pianificazione territoriale alla progettazione edilizia, passando per la pianificazione urbanistica generale e attuativa. A ciascuno di questi livelli è possibile delineare strategie, politiche, regole mirate al suo perseguimento. Eppure molto spesso agli architetti viene attribuita una grande responsabilità nella costruzione di una città brutta. Responsabilità di tutti: degli urbanisti quando redigono i piani, dei progettisti quando rea-

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lizzano gli edifici. Non sempre è chiaro in che consiste la responsabilità della brutta forma della città che abbiamo costruito, della sua pessima qualità estetica diffusa, dell’assenza di principi riconoscibili di composizione urbana, soprattutto nei quartieri degli anni ’50, ’60 e ’70 (ma il discorso potrebbe estendersi oggi alla città diffusa e ai suoi materiali urbani). Perché la buona architettura esiste, ma è purtroppo relegata a pochi casi, a dimostrazione che la vera difficoltà per fare una buona architettura in modo diffuso, sta nello scarto tra l’eccellenza e la produzione ordinaria. Ma anche tra l’eccellenza e i processi reali che essa genera nei luoghi nei quali ha la fortuna di essere messa alla prova, aldilà delle retoriche e della qualità degli edifici più o meno disegnati. E a maggior ragione, se si parla di rigenerazione urbana, il tema vero non è tanto quello dell’esperienza virtuosa quanto quello della diffusività: se la progettazione urbana sostenibile non supera la soglia di

alcune esperienze di punta per configurarsi come pratica corrente per la trasformazione, a qualunque scala e per qualsivoglia tipologia di intervento, gli effetti benefici di tali pratiche sono gocce nell’oceano. Ciò che serve - ovviamente in prospettiva - è una riconversione in chiave sostenibile dell’intero insediamento umano: città, infrastrutture, aree produttive, le stesse pratiche agricole. Per realizzare questo obiettivo occorre che da subito il progetto e le norme che lo regolano siano incardinati sui criteri di una sostenibilità non solo dichiarata, ma anche concretamente praticata: spostando i requisiti della sostenibilità da condizione aggiuntiva a carattere sostantivo degli interventi stessi. Gli attuali vincoli normativi, unitamente al costo professionale ed economico-finanziario, anche derivante dall’incertezza sull’iter approvativo (si pensi ad esempio all’efficientamento energetico del patrimonio edilizio storico) incidono sulla effettiva praticabilità delle innovazioni descritte, la cui valutazione può contribuire a ri-orientare le stesse nuove norme. A fronte dei casi realizzati e della letteratura che li accompagna, converrà spostare l’asticella più in alto, chiedersi cioè quanto altro si debba fare per la qualificazione dell’ambiente urbano; ciò almeno in due direzioni: in termini di valutazioni di effettiva efficacia di quanto acquisito e in termini di traduzione delle esperienze in codici di comportamento da poter diffusamente applicare. Alla progettazione sostenibile va chiesto di andare oltre il bisogno di riparare (con il policentrismo, la densificazione, la costruzione ecologica) e, invece, di affrontare un percorso più problematico in cui la rigenerazione faccia scaturire ipotesi progettuali inedite. Ad esempio rigenerare i luoghi nel senso dell’abitabilità, significa rompere lo schema funzionale che schiaccia l’abita-


re sulla residenza, recuperando la dimensione radicale dello stare e del vivere (si deve poter abitare in diverse condizioni e in diversi luoghi). Lavorare sulla specificità delle pratiche sociali che si esplicano nell’uso dei differenti spazi, perché non bastano le caratteristiche fisiche degli spazi a garantire abitabilità ma anche la loro manutenzione, la sicurezza, i modi d’uso, le culture della gente che li abita e così via. Questo approccio recupera un legame spesso dimenticato nella specificità delle discipline tra architettura e urbanistica. L’una e l’altra possono fare molto ma non da sole, e l’abitabilità assume il carattere di una tensione mai esaurita che alimenta un ampio spettro di progetti e politiche. Molti di noi parlano della necessità di tornare a parlare di progetto urbano, riferendosi non tanto alla famosa scala intermedia ma a un’attitudine multiscalare a interpretare e progettare la città, a riconoscere le sue forme e gli usi che le sostanziano, a proporre grammatiche e sintassi in un ritrovato equilibrio tra la scala urbana e quella edilizia. Trovo che questa direzione sia particolarmente importante in una fase in cui da più parti e con diverse accentuazioni (progettuali o politico-sociali) si tende a rinchiudersi nella piccola o piccolissima scala, nella convinzione che una strategia esclusiva per parti, per luoghi molto circoscritti, per singole architetture o, da altri punti di vista, per piccole comunità locali possa nel tempo produrre meccanismi urbani efficienti. Rigenerare significa riuscire a individuare le domande che la città ci rivolge, costruire una dimensione progettuale capace di intercettare e interpretare quel-

le domande, entro cui ricollocare i materiali che possono svolgere un ruolo determinante nel suo ripensamento. Significa lavorare nelle relazioni e per sistemi in modo che quei materiali trovino il loro senso, cambiando pelle, stabilendo relazioni inedite, costruendo nuovi racconti, partecipando a processi e disegni più convincenti. Provare a distinguere, selezionare le priorità, indirizzare. Oggi al termine sostenibilità si sostituisce sempre più spesso quello di resilienza1. Di fronte alle grandi sfide del nostro tempo: le diseguaglianze sociali, l'inquinamento e il cambiamento climatico, la parola sostenibilità si sta rivelando inadeguata. La sostenibilità muove verso l'obiettivo di ripristinare l'equilibrio perfetto, la resilienza, invece, significa imparare a gestire un mondo in perpetuo squilibrio. Resilienza, quindi, in quanto capacità dei sistemi naturali, ecologici e umani, di assorbire un disturbo e di riorganizzarsi mentre ha luogo il cambiamento, in modo tale da mantenere ancora essenzialmente le stesse funzioni, la stessa struttura, la stessa identità e gli stessi feedback. La città resiliente è un sistema urbano che non si limita ad adeguarsi ai cambiamenti, ma che si modifica costruendo risposte sociali, economiche e ambientali nuove che le permettano di resistere nel lungo periodo alle sollecitazioni dell’ambiente e della storia. La resilienza è, quindi, oggi una componente necessaria per lo sviluppo sostenibile, agendo prima di tutto sui modelli organizzativi e gestionali dei sistemi urbani. Una città sostenibile è quindi una città resiliente. La città storica è un organismo resiliente e

questa capacità è testimoniata dalla complessità della storia urbana, che ha comportato la capacità di assorbire, amalgamare e riorganizzare una pluralità di culture urbane e sociali che progressivamente l’hanno interessata, investita, modificata, alle quali ha sempre saputo rispondere (resilienza) producendo nuove e più elaborate sintesi socio-culturali e urbanistiche. La vera sfida è lavorare oggi sulla rigenerazione urbana valorizzando e producendo sistemi resilienti, quindi sostenibili. In una fase così complessa al nostro mestiere è chiesto di mantenere aperta nel tempo una curiosità e un’attenzione non banali alle forme del cambiamento della città contemporanea, disponibili continuamente ad aggiustare il tiro delle nostre interpretazioni; ma anche di controllare un repertorio dinamico di tecniche dello sguardo e del progetto per dare forma ai progetti; di sapersi collocare nei contesti in cui si è chiamati a lavorare, affermando uno stile di comportamento, di attenzione e ascolto, di allenamento a lavorare assieme, di capacità di collocare le proiezioni progettuali con misura ma anche con azzardo; di essere attenti alla domanda politica e sociale che si esprime nei contesti, ma di non appiattirsi su questa. Essere intellettuali, non solo tecnici, cercare un rapporto con la cultura, le tradizioni, la società, con la politica e le istituzioni. Dialogare e, se necessario, battagliare per affermare le proprie scelte. E non esistono scorciatoie per fare questo mestiere.

Arch. Marisa Fantin

Vice Presidente Ordine Architetti PPC di Vicenza

NOTE 1 in ecologia e biologia la resilienza è la capacità di un ecosistema, inclusi quelli umani come le città, o di un organismo di ripristinare l'omeostasi, ovvero la condizione di equilibrio del sistema, a seguito di un intervento esterno (come quello dell'uomo) che può provocare un deficit ecologico, ovvero l'erosione della consistenza di risorse che il sistema è in grado di produrre rispetto alla capacità di carico.

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PANORAMA

a cura di Cristiana Zappoli

Connessioni, riflessioni, segnalazioni. Su materiali, architetture e design

■ PRE-VISIONI La casa galleggiante Il concept di Inachus deriva da un approccio olistico che vuole affrontare le moderne tecnologie e l’innovazione senza isolarle, ma coinvolgendo altre discipline come la filosofia e la biologia. Secondo questa visione, i corsi d'acqua delle città possono diventare abitabili e parte integrante del tessuto urbano. Lo studio londinese Sanitov ha presentato Inachus Floating Home, una moderna e sostenibile casa galleggiante che deve il suo nome a una divinità fluviale greca, al London Design Festival di quest’anno. L'ambizione del team Sanitov è quella di creare una comunità galleggiante di singole case personalizzate, sulla base di questa prima casa destinata a diventare un punto di riferimento per la progettazione sostenibile a Londra. Inachus è quindi il primo step di un progetto più ampio del team Sanitov, chiamato Urdaimonia, un neologismo che unisce la parola greca “Eudaimonia” (buon vivere) e la parola “Urban”: il progetto si propone quindi di stabilire quale sia la migliore vita urbana. Sanitov si concentra, appunto, su questioni relative alla vita urbana e la sostenibilità urbana, nella convinzione

Sopra e sotto: Inachus Floating Home, la casa galleggiante, innovativa e sostenibile, progettata dallo studio Sanitov

che il design sia una componente fondamentale del percorso della società verso una sempre maggiore sostenibilità e che la tecnologia possa essere molto d’aiuto in questo percorso ma solo se complementare a un ripensamento riguardo al nostro stile di vita e alla nostra organizzazione. Così il design non deve solo aiutarci a inquinare meno ma anche a organizzare meglio

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noi stessi, per esempio con la creazione di nuove aree di interazione sociale, attraverso lo sviluppo di nuove piattaforme per il movimento e facilitando la riflessione. La casa galleggiante Inachus è a emissioni zero e il suo design comprende materiali sostenibili e riciclabili come il bambù a crescita rapida, il legno industriale e il cemento riciclabile. Un sofisticato sistema wireless elaborato da Lutron controlla il riscaldamento, l'illuminazione e l'audio in tutta la casa, consentendo livelli indipendenti in ogni singolo spazio. È un sistema dall’ottimo rendimento: quando si accende la luce in una prima camera, invece di accendere la luce al 100% di potenza, come accade con un interruttore luce tradizionale, il sistema è programmato per accendere la luce all’80% di potenza, la differenza di emissione luminosa è appena percettibile dall'occhio umano ma il sistema sta consumando il 20% in meno di corrente, con conseguente risparmio di denaro sulla bolletta e aumento della durata delle lampadine. La programmazione intelligente del sistema permette di risparmiare in costi ed energia. Un esempio: dentro Inachus l’utente può spegnere tutte le luci della casa dal comodino, eliminando così il rischio di dimenticarsi una luce accesa tutta la notte. La luce in ogni area della casa può essere accesa e spenta dai pulsanti che si trovano sul muro delle camere e da quegli stessi pulsanti si può abbassare o alzare l’intensità della luce in quella stanza. Inoltre tutte le luci della casa possono essere gestite da remoto tramite iPhone, iPad o dispositivi Android. Sul tetto si trova un giardino pensile caratterizzato da vegetazione sel-

Il giardino di sedum sul tetto contribuisce ad aumentare la biodiversità del paesaggio fluviale e a fornire un’opportunità per coltivare ortaggi I lucernari contribuiscono all’illuminazione degli spazi giorno riducendo i carichi di illuminazione Le persiane esterne forniscono l’ombreggiamento Pannelli isolanti, consentono alle pareti di raggiungere un valore U di 0,15 W/m2K, valori simili a quelli raggiunti dal tetto e dal pavimento sospeso Un sistema di ventilazione meccanica con recupero di calore fornisce riscaldamento tramite canalizzazione nel vuoto del soffitto

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L’abitazione è a zero emissioni. Il calore generato riscalda l’interno e l'isolamento ad alte prestazioni minimizza le perdite. Tripli vetri, ventilazione con recupero di calore e luce naturale sono gli altri elementi che aumentano l'efficienza

Il muro verde interno offre un senso di benessere e migliora la qualità dell’aria

vatica e uno spazio per l’autoproduzione di ortaggi e verdure e l’interno, invece, ospita un giardino verticale che migliora la qualità di vita degli abitanti. Invece di pareti fisse ci sono pareti scorrevoli integrate che consentono agli abitanti di personalizzare gli spazi in base alle proprie esigenze. La dispersione di energia viene ridotta attraverso un isolamento ad alte prestazioni, tripli vetri e ventilazione meccanica con recupero di calore e luce naturale; il riscaldamento e l'acqua calda sono fornite attraverso la pompa di calore e alla struttura del tetto sono incorporati pannelli solari per compensare l’uso della rete elettrica e per il pre-riscaldamento dell’acqua calda.

8 pannelli solari fotovoltaici creano un sistema da 2KWp che integra i piccoli carichi di potenza della casa

Tripli vetri in tutta la casa galleggiante raggiungono un valore U di 1.1 W/m2K

Gli scafi in acciaio delle case galleggianti richiedono di rimuovere l’acqua ogni 10 anni, questo scafo si conserva senza manutenzione per più di 60 anni



ARTIGIANATO MODERNO La Fonderia Pegoraro propone da quasi quarant’anni un prodotto strettamente artigianale e curato rigorosamente a mano. Con l’evolversi degli stili, dei gusti e dei tempi, ha saputo inserire perfettamente il prodotto artigianale e fatto a mano in un contesto di arredamento moderno, senza sconvolgerne l’anima. L’evoluzione delle lavorazioni meccaniche di precisione e delle finiture di pregio, hanno permesso agli accessori per porte, finestre e lampade realizzati a mano dalla Fonderia Pegoraro di trovare una perfetta collocazione anche in ambientazioni contemporanee. Per esempio nei serramenti, con maniglie per porte e finestre che nascono da semplici forme geometriche intersecate fra loro e abbinate a finiture particolari. Per quanto riguarda l’arredamento d’interni, si possono abbinare a mobili o componibili semplici e moderni, maniglie e pomelli che richiamano la stessa semplicità e modernità degli stessi, sempre con la giusta e adeguata finitura a seconda del contesto. Si possono inoltre creare accessori di decoro che, utilizzati come pomelli, danno a un mobile quell’estro che le forme stesse del mobile non riescono a dare.

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■ PREFABBRICATI Sistema modulare Una casa prefabbricata progettata per esaudire i desideri del cliente, non a caso si chiama House of Would (casa dei desideri). È una realizzazione dello studio spagnolo Elii (Uriel Fogué, Eva Gil, Carlos Palacios) ed è la dimostrazione di come anche un prefabbricato possa essere personalizzato. È stata assemblata in meno di due settimane (infatti gli architetti che l’hanno progettata la definiscono “la casa da 21.600 minuti”), grazie a un sistema costruttivo industrializzato e all’assemblaggio a secco di pannelli di legno strutturali, una metodologia, concepita come un semplice assemblaggio di un kit, che accorcia di molto i tempi di esecuzione e contiene i costi. La casa è posizionata su un terreno in pendenza, caratterizzato da una vegetazione scarsa e addirittura assente nella zona più vicina alla strada, che, tuttavia, offre una bellissima vista sul paesaggio circostante più verde. L’abitazione - come da richiesta del cliente ricorda una casa di montagna nello stile e nei materiali - è fatta di sette moduli strutturali in legno che si articolano in maniera simmetrica intorno al cortile centrale. Ogni modulo è dedicato a una diversa funzione. La struttura modulare consente l’alterazione di questa logica funzionale, supportando possibili variazioni future e rispondendo perfettamente alla richiesta di flessibilità fatta dal cliente. Tanto che gli architetti hanno descritto la casa come un campo da gioco in cui vivere è fare la prima mossa. Inoltre, l’organizzazione della casa è tale da permettere la

In queste foto: esterni della House of Would. In meno di due settimane la casa è stata ultimata grazie a un sistema costruttivo concepito come semplice assemblaggio di un kit

frammentazione in diverse case più piccole assolutamente indipendenti. Il prefabbricato si adatta ai diversi livelli del terreno a seconda della privacy necessaria: le stanze private, per esempio, sono nascoste dalla strada; gli spazi più pubblici, al contrario, sono vicini alla strada e guadagnano pian piano altezza fino a sovrastare il paesaggio, offrendo un punto da dove guardare l’orizzonte al di sopra delle camere. Una serie di piccoli ponti servono come elementi di transizione tra le diverse aree e i diversi livelli di privacy. L'insieme è chiuso da un involucro di legno che va a formare la facciata ventilata e il tetto. Il cortile centrale è pensato come il giardino della casa. Esso comprende un tetto traslucido che illumina la facciata, una sorta di lanterna cinese che avvolge il cortile e permette ai membri della famiglia di godere di questo spazio esterno. I tetti in legno sono disposti secondo una legge di variazione spaziale che, oltre ad essere conforme alle normative locali, raccoglie l’acqua piovana e la dirige verso il cortile per innaffiare il giardino. Il progetto è un supporto fatto con finiture elementari, sarà l’utente finale a perfezionare la casa in un secondo momento. “La casa è l’hardware, - spiegano gli architetti - le pratiche quotidiane sono il software”.

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■ INSTALLAZIONI Illusione tridimensionale A chi questa estate ha passeggiato per Ashwin Street nel quartiere di Hackney, nella zona orientale di Londra, è sicuramente capitato di imbattersi nella Dalston House, l’installazione dell’artista argentino, Leandro Erlich, realizzata per la Barbican Art Gallery. L’artista è noto per le sue accattivanti e tridimensionali illusioni visive e anche la Dalston House, inaugurata il 26 giugno e compresa negli eventi del London Festival of Architecture 2013, non è stata altro che un’illusione. L'opera assomigliava a un set cinematografico caratterizzato dalla facciata di una villetta a schiera vittoriana del tardo XIX secolo. La facciata, a grandezza reale, è stata replicata a terra e grazie a una superficie specchiata posizionata con un angolo di 45 gradi per amplificare i volu-

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Sopra: l’ultima installazione dell’artista argentino Leandro Erlich. Il particolare gioco di prospettive fa sembrare i visitatori dell'installazione "sospesi nel vuoto"

mi, assumeva un effetto tridimensionale. Erlich ha progettato e decorato la facciata completa di porta, finestre, modanature e di ogni altro particolare architettonico, in modo che assomigliasse il più possibile alle case che una volta si trovavano in questo quartiere. Dalston House è stata installata su un terreno in disuso in gran parte rimasto vacante da quando la zona è stata bombardata durante la seconda guerra mondiale. L'installazione faceva parte di Beyond Barbican, un'estate di eventi al di fuori delle mura del centro, che comprende spettacoli di pop-up e diverse collaborazioni in tutta la East London. Jane Alison, curatore senior della Barbican Art Gallery, ha detto in occasione dell’inaugurazione: “Siamo entusiasti di essere in grado di presentare l'opera di Leandro Erlich, nel cuore di Hackney. Dalston House è uno spettacolo teatrale, uno di quelli in cui il pubblico fa lo show. Si tratta di una piacevole esperienza adatta per tutte le età”. Chi passava davanti all’installazione, infatti, si divertiva a interagire con essa, per esempio sdraiandosi a pancia in giù sul muro e facendo quindi risultare, attraverso lo specchio, che si stava arrampicando sulla parete o provava a calarsi dal balcone. Per Erlich, nato a Buenos Aires, nel 1973, da una famiglia di architetti, il pubblico ha un ruolo attivo nel dare vita alle sue installazioni. Alterando il rapporto dello spettatore con spazi familiari, sconvolge giocando con la nostra nozione di realtà, creando nuove possibilità e situazioni. Il lavoro di Erlich si ispira in parte alle strategie estetiche surreali e sinistre di Alfred Hitchcock, David Lynch, Luis Buñuel e Roman Polanski che, dice l’artista, "hanno utilizzato il quotidiano come un palcoscenico per la creazione di un mondo di finzione ottenuto attraverso il sovvertimento psicologico di tutti gli spazi abituali".



Foto Iwan Baan

■ PADIGLIONI Come una nuvola Una struttura leggera, nebulosa, quasi eterea. È così che Sou Fujimoto ha interpretato il padiglione della Serpentine Gallery. Il pluripremiato architetto giapponese è il tredicesimo a confrontarsi con il padiglione temporaneo e, a 41 anni, il più giovane. Ampiamente riconosciuto come uno dei più importanti architetti in tutto il mondo, Sou Fujimoto è la luce principale di un’eccitante generazione di architetti che stanno reinventando il nostro rapporto con l'ambiente costruito. Ispirati da strutture organiche, come il bosco, gli edifici progettati da Fujimoto abitano uno spazio tra natu-

ra e artificio. Ha realizzato la maggior parte dei suoi edifici in Giappone con commissioni che vanno dal domestico, come Final Wooden House, T House e House N, all’istituzionale, come il Museo d'Arte di Musashino e Biblioteca presso Musashino Art University. Pensato come un flessibile e polivalente spazio sociale, il padiglione della Serpentine Gallery ospita, per la prima volta nella sua storia, una caffetteria. I visitatori saranno invitati a entrare e interagire con il padiglione in modi differenti durante i quattro mesi in cui resterà nel Kensington Gardens di Londra. Il perimetro della strut28 AVI architetti

Sopra: ai Kensington Gardens di Londra l'annuale padiglione temporaneo della Serpentine Gallery progettato da Sou Fujimoto. La struttura si allunga fino a dissolversi come una nuvola verso il parco

tura è di 350 mq e ha due ingressi. Una serie di terrazze a gradoni forniscono posti a sedere che gli consentono di essere utilizzato come uno spazio sociale flessibile. La struttura è fatta da barre in acciaio dal diametro di 20 millimetri che formano una struttura a grate, leggera e semitrasparente. È quasi un baldacchino irregolare che protegge i visitatori dalle intemperie pur consentendo loro di rimanere immersi nel paesaggio. Julia Peyton-Jones, direttore, e Hans Ulrich Obrist, co-direttore della Serpentine Gallery, hanno detto che "la struttura si armonizza con l’ambiente circostante come fosse una nuvola, mentre la matrice complessa del reticolato suggerisce un'estetica digitale in sintonia con gli anni che viviamo”. Sou Fujimoto ha spiegato che per il Padiglione 2013 ha proposto “un paesaggio architettonico: una terrazza trasparente che incoraggia le persone a interagire con essa e a esplorarla in modi diversi. Nel contesto bucolico di Kensington Gardens, io immagino il vivido verde della vegetazione tessuto insieme con una geometria di costruzione. È stato creato un nuovo ambiente, in cui si fondono il naturale e l’artificiale, non solo architettonico o esclusivamente naturale, ma un incontro unico dei due. Da certi punti di vista, il padiglione sembra fondersi con la struttura classica della Serpentine Gallery, e i visitatori sembrano sospesi nello spazio”.



■ PRE-VISIONI Adattarsi al clima Nel 1903 il matematico inglese Henry Ernest Dudeney pubblicò il suo puzzle matematico, l’Haberdasher’s Puzzle, su un quotidiano, il Weekly Dispatch. Il puzzle pose un enigma sconcertante: come dividere un triangolo equilatero in quattro pezzi che una volta rimontati diventassero un quadrato. Dudeney dimostrò, quindi, che un quadrato perfetto può trasformarsi in un triangolo equilatero. La D*Haus si basa proprio su questa scoperta: è un progetto di casa modulare che può assumere otto diverse configurazioni. L’idea è di due architetti inglesi, David Grunberg e Daniel Woolfson, che insieme hanno fondato la D*Haus Company, uno studio di design e architettura sperimentale. “Noi crediamo veramente – spiegano gli architetti – nelle idee che pos-

Sopra: due rendering della D*Haus. Sotto: ricostruzione assonometica dei volumi. I segni circolari indicano le tracce dell’evoluzione dei volumi

sono migliorare e ispirare la nostra vita quotidiana. La nostra vita può essere migliorata attraverso la flessibilità, l’adattabilità e l’originalità. Costantemente impegnati a esplorare, sviluppare ed esprimere la forma attraverso l’attimo, il colore e la matematica, noi sviluppiamo le nostre idee usando architettura, arte e design”. Progettata per condizioni climatiche estreme, dalla Lapponia a Capo Horn e dalle Aleutine ad Auckland, la D*Haus, in tutto e per tutto, è il prodotto di una realizzazione matematica applicata, risponde in maniera dinamica all’ambiente che la circonda attraverso un adattamento controllato alle condizioni meteorologiche, stagionali e astronomiche. La casa segue l’alternarsi delle stagioni e anche del giorno e della notte, muovendo letteralmente se stessa. Le spesse pareti esterne si dispiegano in pareti interne che a loro volta consentono alle divi-


sioni in vetro di diventare facciate. Le porte diventano finestre e viceversa. Per esempio, durante l’estate la camera da letto guarda ad est in modo da poter ammirare il sorgere del sole appena svegli e si può ruotare la casa in modo che abbia sempre la luce del sole così da generare energia attraverso i pannelli solari. D*Haus è progettata per muoversi sul proprio sito ogni volta che chi la abita lo richiede. È fondamentale, quindi, mantenere l'integrità strutturale durante il movimento e questo avviene mediante l'utilizzo di semplici principi statici per ridurre al minimo le forze sulle cerniere e sui binari di supporto e per garantire che tutti gli elementi abbiano una rigidità sufficiente. La casa comprende due camere da letto, una zona giorno open space e il bagno, ma può essere progettata diversamente a seconda delle diverse esigenze; prevede

Sopra e sotto: schemi sintetici delle possibili diverse posizioni della D*Haus

inoltre balconi, verande e piscine per i climi più caldi. Il design è ispirato al movimento modernista del Bauhaus e i materiali usati sono tutti di altissima qualità. Da punto di vista produttivo, la progettazione impegna un unico set di materiali per realizzare la flessibilità prevista dal design, questo significa meno rifiuti durante il processo di fabbricazione e costi più bassi rispetto alla media. Il progetto prevede che la casa sia assolutamente eco-friendly: realizzata in legno lamellare incrociato. Il legno utilizzato per la facciata è l’abete artico che è sostenibile e si trova in tutta l'Europa settentrionale. Inoltre la D*Haus sfrutta l’energia solare entrante attraverso il suo vetro, e l’isolamento termico raggiunge eccezionali valori U. Attualmente la casa “origami”, come l’hanno ribattezzata in molti, è solo un progetto e gli architetti sono in cerca di fondi per la sua realizzazione.

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■ ABITARE Un involucro green Essenziale, confortevole, elegante e assolutamente eco - compatibile: sono queste le caratteristiche del contenitore GREEN_ZERO, progettato dallo studio di architettura Daniele Menichini. Si tratta di un nuovo modulo abitativo dedicato all’ospitalità, una suite racchiusa in un guscio da installare nel bosco, in riva al mare, in piena campagna o ovunque il territorio lo consenta. Una nuova forma dell’abitare, spiegano dallo studio Menichini, che sia per l’ospite anche un gioco educativo volto a fargli conoscere gli elementi meno evidenti del vivere “green” senza dover rinunciare al comfort e all’emozionalità della vacanza; una nuova esperienza in cui possa apprezzare come gli elementi del costruire ecocompatibile utilizzino al meglio le energie e le risorse del territorio. Il progetto è finalizzato a dare vita a un nuovo sistema di ricettività alberghiera fortemente connes-

Il design del modulo è caratterizzato da un elemento a C che si trasforma e senza soluzione di continuità diventa da piattaforma di appoggio, parete e copertura. Il rivestimento esterno, come la struttura, è realizzato in legno

sa con il territorio che, abbinando diverse tipologie di moduli, dal bungalow con bagno al bilocale, permetta di incrementare qualitativamente il panorama turistico globale. Il design generale del modulo è un tratto essenziale messo in evidenza dalla fascia perimetrale, come se un elemento piano si fosse ripiegato su se stesso a formare una “c” ricucita su un lato da sottili fili metallici, lasciando che all'interno si sviluppi naturalmente il progetto. Il modulo GREEN_ZERO è un sistema architettonico prefabbricato, in cui il guscio strutturale è realizzato completamente in legno con sistema a telaio e una stratigrafia, per le parti sia orizzontali sia verticali, caratterizzata da elementi portanti e isolanti, che permettono il passaggio delle impiantistiche, e la presenza di camera di ventilazione, allo scopo di ottenere un assemblaggio specifico in relazione al contesto climatico, e consentendo così la classificazione CasaClima A o CasaClimaOro.




w w w. f ucinatrissinese .it Il progetto è stato seguito da uno studio di architettura che ha portato in luce le esigenze estetiche del cliente. Partendo dall’ingresso troviamo il cancello, primo elemento d’impatto per chi entra nella residenza privata. Si tratta di un cancello scorrevole, completamente chiuso, con all’interno un cancello pedonale apribile insieme allo scorrevole o apribile singolarmente. Di seguito la vista si posa sulle ringhiere… Si tratta di un vero e proprio canneto in ferro. Lavorazioni manuali definiscono i contorni di ogni singola canna.

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Complesso parrocchiale di S.Ignazio da Laconi

Il progetto che ha vinto il primo premio del concorso per la parrocchia S.Ignazio da Laconi a Olbia. Un grande taglio luminoso definisce l'abside e recide il volume permettendo al cielo di entrare nell'edificio. La luce naturale gioca un ruolo fondamentale nella percezione degli interni

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rancesca Leto, Michele Battistella e Daniele Bertoldo hanno vinto il primo premio del concorso per la parrocchia S. Ignazio da Laconi, Olbia, della Diocesi di Tempio - Ampurias. I 21 progettisti partecipanti hanno ricevuto l’invito il 24 novembre 2011. Il concorso pilota coinvolgeva tre diverse diocesi: Ferrara-Comacchio, Tempio Ampurias e Cassano allo Jonio. Consegnati in forma anonima tra il 9 e il 16 luglio 2012, i progetti sono stati giudicati da due diverse giurie, la prima costituita da esperti CEI e da alcuni esponenti degli ordini professionali e la seconda era formata dal vescovo e dai direttori degli uffici delle Diocesi coinvolte. Tutti i progetti, sono stati esposti al MAXXI con la mostra 21 per XXI. Nuove chiese italiane. Il lotto scelto, posto in periferia, si presentava privo di punti di riferimento, di un centro capace di ordine. Alla chiesa quindi è dato il compito di orientare, come nella storia è sempre stato, disponendosi in modo deciso secondo tradizione, cioè ad orientem. In questo modo nella chiesa le direzioni del paesaggio, coincidendo con i punti cardinali, fanno combaciare le direzioni della terra con quelle del cielo, dandole un ulteriore significato. Il terreno presenta un andamento irregolare con un consistente dislivello tra la parte a nordovest e quella a sud-est. Il progetto vuole relazionarsi con l'orografia esistente operando una sorta di corrugamento del terreno sul quale sono poi ritagliati i volumi degli edifici parrocchiali che emergono di un solo piano fuori terra. La chiesa si staglia in altezza col suo volume perfettamente delineato, bianco, privo d'interruzioni tra la copertura e le pareti, e dà ordine con forza ad un intorno quasi casuale. Gli edifici parrocchiali, con le coperture verdi rimarcano la loro “emersione” per corrugamento della roccia sottostante e, mentre

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i fronti paralleli al lotto risultano rettilinei, il loro margine interno è irregolare, così come appare irregolare il profilo dei volumi che compongono le parti più basse della chiesa. Immediata la comprensione delle forme, che presenti nella memoria con quel profilo, non potranno non essere che quelle appartenenti a una chiesa. È come se la parte rocciosa emergente fosse stata ulteriormente scavata per separare gli edifici circostanti dalla chiesa. L'endonartece si allunga e si piega verso sud fino ad aprirsi in un grande portale strombato. Il sagrato è una lunga e ampia rampa la cui fuga prospettica è ancor più accentuata dal suo convergere sul portale: portale

A sinistra: planivolumetria. Sotto: pianta della chiesa. In basso: esterno notturno

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e sagrato si susseguono lungo un percorso forte che conduce alla meta, uno spazio orientato “sotto l'arco del cielo”: la chiesa. Sull'incresparsi del terreno che ha generato gli edifici annessi alla chiesa e la parte basamentale della chiesa, è come se fosse calato dall’alto un volume puro, un parallelepipedo con copertura a due falde. Esse si chiudono interrompendosi sul perimetro murario: estensione e raduno stanno così in tensione. Tutto è bianco, solo la facciata ad ovest è lapidea, una sorta di frontone, una forma originaria immediatamente leggibile anche in lontananza. Il suo essere facciata, anche se da quel lato non vi si entra direttamente dall'esterno, è marcato dal suo elevarsi, dalla simmetria, dal bordo delle pareti laterali che, scivolando sulle falde, fuoriescono con un contorno bianco. È come se una parte della terra stesse sempre tesa verso il cielo. Il battistero è un corpo semisolato a pianta quadrata che si erge ruotato a lato della facciata con la copertura tutta vetrata: forma e posizione lo rendono immediatamente riconoscibile anche dall'esterno.Il volume bianco, come sceso dall'alto e posato sulla roccia, è costruito su di un rettangolo aureo e da questa costruzione sono ricavate tutte le figure che, ricomposte secondo un metodo addittivo, danno forma all'intera pianta della

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chiesa. La figura fondante rimane leggibile, nonostante il suo ritrarsi ed espandersi rispetto alla figura complessiva. Il volume, tutto assolutamente bianco, è nitido, continuo, privo d’interruzioni tra la copertura e le pareti. L’abside non opera un cambio di volume ma su di essa si chiudono e si estendono contemporaneamente, in una sorta di alternanza tra contrazione ed espansione, le linee verticali e quelle orizzontali. Il grande taglio definisce il volume dell’abside, memoria dell’arco trionfale: recide il volume permettendo al cielo di entrare nell’edificio e all’abside di tentare di raggiungerlo. Il taglio luminoso prosegue, incuneandosi sulla copertura di granito verso settentrione, senza tagliarla, come se il cielo volesse entrare nella terra. Sull’abside il processo di smaterializzazione e di permeablità verso il cielo continua nella presenza delle piccole forature che, disposte secondo una logica seriale, compaiono facendo spazio alla luce. La luce, qui materia tanto quanto il granito, irrompe gradualmente; si passa dalla penombra dell'endonartece, alla prima luce del battistero, alla luce piena sull’altare proveniente dal taglio e dai fori sulla parete ad est. Le navate laterali, come scavate nella roccia, sono in mezza luce, quasi del tutto ricevuta dal taglio sull’abside. L’abside, dall'interno, pare staccarsi dal resto e fare già parte del cielo. La parte ba-


samentale è tutta rivestita in lastre di granito come la copertura che è anche qui in continuità con le pareti. Solo in una zona della copertura la continuità è interrotta: in coincidenza del tabernacolo un cannon lumière porta luce all'interno della cappella dell’adorazione costruita come un autonomo scrigno ligneo. Sulla pareti piccole feritoie fanno penetrare la luce all’interno. Pochi i materiali: il granito sta per la terra e tutto ciò che vi si poggia ne accompagna il colore, anche i banchi e i rivestimenti in legno. Sopra il volume della navata principale è intonacato bianco e la soffittatura è in legno sbiancato: solo il ciclo pittorico col suo racconto ne interrompe il nitore, lasciato però intatto nella zona absidale. I luoghi liturgici si staccano dalla terra e, tesi al cielo, sono chiari, ma non bianchi, non sono più in granito, ma in marmo decorato. I fedeli sono coinvolti nel processo rituale di incorporazione a Cristo avendo nel sagrato il luogo della differenza (spazio eterotopico), nel portale ciò che induce alla decisione, nell’endonartece il frammezzo di penombra, nel battistero il grembo luminoso (spazio paratopico); nella navata centrale e nelle laterali il luogo dell'oltrepassamento che culmina ritualmente nell’incontro eucaristico (spazio topico), nello spazio absidale il luogo del non ancora, della conversione permanente alla novità di Dio, in at-

tesa del gioioso silenzio che avvolgerà la domenica senza tramonto (spazio utopico). Il dinamismo descritto compie sincronicamente un movimento orizzontale dalle tenebre alla luce e uno verticale dalla terra al cielo. In questo modo i fedeli celebrano in sintonia coi luoghi e con le immagini. All’interno pitture murali scandiscono con ritmo ortogonale lo spazio dell’aula e si distribuiscono con una chiara ed esplicita reinterpretazione di affreschi catacombali e pagine miniate. In questa orditura precisa e solenne gli elementi pittorici e decorativi permettono la fusione dei motivi grafici con la parte più naturalistica e verista del ciclo, dando luogo ad una combinazione alchemica che, alla forza evocativa delle memorie figurative, unisce il nitore e l'incisività dei segni contemporanei. Abolita ogni prerogativa didattica e didascalica, che ridurrebbe il potenziale espressivo, i testi accompagnano le immagini secondo un approccio topografico, che offre al fruitore un appiglio alla lettura. L'intento è di rileggere l’antico per generare il nuovo, secondo la vivente tradizione della Chiesa. Le mani degli artisti si uniscono e si integrano a quelle degli architetti in un lavoro di ideazione attento, paziente, stimolante, arricchendosi l’uno nell’altro secondo una modalità di approccio collaborativo e di ascolto, memoria del costruire di una antica "fabrica".

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Battistero

Aula Alba


Controfacciata

Cappella Eucaristica


PROSPETTO NORD

PROSPETTO SUD

PROSPETTO OVEST

PROSPETTO EST


PLANIMETRIA

Progetto Francesca Leto Michele Battistella Daniele Bertoldo Liturgista Gaetano Comiati Artisti Caterina Gabelli Sara Maragotto Alberto Secchi Mauro Zocchetta Strutture Massimo Nardi Impianti Marco Marcheluzzo Organo Diego Bonato Illuminotecnica Fabio Rossi Grafica Matteo Baratto

INCORONAZIONE DELLA VERGINE

PORTALE

POLI LITURGICI

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progettare

Non solo una palestra


Foto Julien Lanoo - www.jula.fr

Affacciata con un volume regolare sulla piazza centrale, la nuova palestra di Chelles trascende la sua funzione originaria d'impianto sportivo per diventare un elemento urbano partecipe della vita della comunità di Federica Calò


l progetto della Palestra Henry Bianco, nella piazza dell’Hotel de Ville a Chelles, ha dato l’input per la riqualificazione di una parte della città che, nel tempo, aveva accumulato problemi urbani irrisolti. Il progetto è stato affidato allo studio italo-francese LAN Architecture (lead architect), a BETEM (TCE) e Isabelle Hurpy (HEQ) che, attraverso questa palestra dalle dimensioni contenute, hanno tentato di ricucire il fulcro del tessuto urbano di un piccolo centro della regione parigina. L’edificio realizzato è risultato il vincitore di un concorso su curriculum che è stato lanciato nel novembre 2007 dalla città di Chelles, un comune di poco più di 50mila abitanti situato nel dipartimento di Seineet-Marne, a 20 chilometri dal centro di Parigi. Si è arrivati così alla conclusione che il nuovo edificio non doveva assolvere esclusivamente la sua funzione sportiva ma sarebbe dovuto diventare un elemento urbano inglobato nella vita della comunità. Il progetto, infatti, è localizzato in una zona centrale tra il parco della Rimembranza Emile Fouchard, il municipio, la scuola Weczerka e il centro per l’Arte Contemporanea “Les églises”. Gli architetti hanno così scelto di rispondere al bando tramite un'operazione di ricomposizione urbana ispirata alla tipologia riconoscibile della piazza italiana. Quest’esigenza è stata soddisfatta realizzando un monolite nero, di cemento rasato, animato da una facciata di vetro ritmata da listelli di altezza variabile, rivestita di rame, che conferisce all'oggetto un carattere elegante. Una suggestiva rivisitazione del solito concetto di palestra visto come contenitore dai volumi generalmente parallelepipedi compatti e opachi. L’idea progettuale era di permettere la riflessione degli edifici preesistenti della nuova piazza e duplicare così i fronti delle chiese e del municipio. La facciata di vetro del nuovo edificio non funge semplicemente da specchio del contesto, ma da caleidoscopio, permettendo la frammentazione e la diffrazione dell'immagine riflessa su di essa. Grazie al rame, la facciata riesce a creare un’ambiguità, un’astrazione, qualcosa di molto geometrico. L’edificio è scorporato in due volumi disposti ad angolo retto, che corrisponde anche alla separazione delle funzioni sportive: quello della sala polifunzionale di 1.100 mq e quello della sala annessa di 289 mq, parzialmente sovrapposta al volume maggiore, che rende visibile un gioco di profondità volumetriche. Tuttavia, la particolare soluzione “a specchio” che dà accesso all'edificio a chi proviene dalla parte anteriore del municipio, lascia volutamente intuire il resto della costruzione prima di scoprire la facciata principale, più leggera e in armonia con il contesto. Le lamine di rame donano un effetto prezioso alla

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massa, costituendo un'epidermide che si plasma diversamente durante i diversi momenti della giornata e i colori delle stagioni. Il sistema costruttivo utilizzato per l’involucro è costituito da una struttura di acciaio che poggia sui muri di cemento alla base della quale sono state agganciate le superfici verticali in vetro e il successivo rivestimento di rame. Questa doppia pelle fornisce un isolamento acustico ideale. Il rame, placcato in legno, assorbe il rumore e riduce la risonanza dei luoghi, dove il rumore è spesso amplificato per la numerosa concentrazione delle persone. Il progetto provoca quindi una dematerializzazione del contesto originario e una piacevole deformazione degli edifici intorno. All’esterno, la piazza, lievemente sfalsata, presenta una pavimentazione monocroma, in cui sono inserite lastre in Cor-Ten, dove il colore dell’acciaio conferisce ritmo allo spiazzo. L’interno è caratterizzato da un’estrema semplicità dei volumi che sono la condizione necessaria voluta da un luogo come può essere quello di una palestra, un'area quindi efficiente e funzionale.

La palestra è rappresentata da un monolite nero, di cemento rasato, con una facciata di vetro ritmata da listelli di altezza variabile che riflette gli edifici presenti nelle adiacenze

PLANIMETRIA GENERALE


Progettisti LAN Architecture (lead architect), BETEM (TCE), Isabelle Hurpy (HEQ) Luogo Place de l’Hôtel de Ville, Chelles (77), Francia Committente Chelles City Council Inaugurazione Palestra: Gennaio 2012. Spazio pubblico: Ottobre 2012 Costi Palestra € 4,34 M. excl. VAT, Spazio pubblico € 967.000 excl. VAT Superficie totale 5.000 mq


Il planivolumetrico mostra il confronto fra il sito del progetto prima e dopo l’inserimento del volume della palestra Henry Bianco. L’edificio non doveva assolvere esclusivamente a una funzione sportiva ma sarebbe dovuto diventare un elemento urbano inglobato nella vita della comunità. L’area di progetto è eterogenea e occupata dai simboli e da edifici ospitanti i poteri della città, come la chiesa, la cultura, l’istruzione e lo sport, finora privi della dovuta coesione urbana

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PLANIMETRIA 1° PIANO

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PLANIMETRIA PIANO TERRA

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L’edificio è scorporato in due volumi disposti ad angolo retto che corrispondono alla separazione delle funzioni sportive: la sala polifunzionale di 1.100 mq e la sala annessa di 289 mq, che rende visibile un gioco di profondità volumetriche. Il sistema costruttivo utilizzato per l’involucro è costituito da una struttura di acciaio che poggia sui muri di cemento, alla base della quale sono state agganciate le superfici verticali in vetro e il rivestimento di rame

PROSPETTO FRONTALE

PROSPETTO LATERALE

SEZIONE LONGITUDINALE

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L’effetto a specchio dell’esterno maschera un interno che assume le vesti di una palestra tradizionale con pavimenti in resina o parquet e dove la particolarità è data dai listelli in rame che compongono la facciata esterna. Tale involucro trasparente permette alla luce naturale di illuminare gli spazi della palestra La realizzazione di questo progetto è anche un buon esempio di bio-architettura. Classificato al livello Very High Energy Performance (THPE), l'edificio garantisce un elevato livello di comfort grazie all'inerzia dei suoi muri di cemento che contribuiscono al raffreddamento in estate e alla perdita di calore limitata in inverno. Il sistema utilizzato è costituito da un impianto di potenza di elaborazione a doppio flusso d'aria che permette di recuperare energia dall'aria di scarico. Ogni facciata è dotata di una superficie vetrata di 2,28 mq, STADIP 44.2 «securit» tipo, sul lato esterno e vetro temperato (8 mm), con una lama 14 mm argon termoresistente. Per quanto riguarda l’impianto di riscaldamento il sito è collegato direttamente alla rete di calore geotermico della città e, inoltre, è presente un sistema di programmazione che permette la diffusione del calore in tutti gli spazi interni e garantisce anche il fabbisogno di acqua calda e riscaldamento nella palestra, negli spogliatoi e negli spazi di circolazione. Per la fornitura di energia sono stati installati sulla copertura trentadue moduli fotovoltaici con una potenza di 7360 watt e, all’esterno, un sistema di recupero delle acque piovane collabora con il tetto vegetale permettendo l’utilizzo dell’acqua nelle aree sanitarie della palestra e del verde circostante. L’edificio riceve luce naturale attraverso le grandi finestre vetrate posizionate sulla parete in alternanza con le parti protette dalle lastre di rame insieme ad altre aperture poste sul tetto. La luce artificiale interviene solamente mediante un sistema di luci a LED incassate a pavimento. AVI architetti 51


progettare

Giochi d’incastri

Architettonicamente ispirato al famosissimo puzzle Eternity e alla Round House a Fremantle, Perth Arena è uno stadio multifunzionale, che nasce nella città australiana di Perth per ospitare partite di pallacanestro e tennis, ma può anche ospitare concerti. L’edificio fa parte del Perth City Link, un progetto di rinnovamento urbano su cui punta molto la città australiana di Federica Calò

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Lo spazio esterno al Perth Arena è stato pensato e progettato in coordinato con le forme geometriche dell’edificio stesso e delle finiture sulle superfici. La pavimentazione in pietra riprende motivi della facciata. Grandi sculture colorate sono distribuite sulla piazza, sedute e illuminazione riprendono volumetrie geometriche


erth Arena è situata in Australia, nel centro della città di Perth. Si tratta del primo edificio realizzato inserito nel più ampio progetto Perth City Link, un intervento di riqualificazione e di rinnovamento urbano che prevede l’interramento della Fremantle Railway Line, la Linea Ferroviaria Suburbana, ai fini del collegamento del quartiere finanziario della città direttamente con Northbridge. Perth Arena è un palazzo polisportivo che si trova lungo Wellington Street, vicino al luogo del precedente Perth Entertainment Centre. È di proprietà di VenuesWest ed è finalizzata a ospitare le partite casalinghe della squadra di pallacanestro cittadina, i Perth Wildcats, e l'evento tennistico a squadre che si svolge a inizio anno, la Hopman Cup. Questo edificio monumentale è stato progettato con l’intento di offrire un’interpretazione simbolica all’osservatore e diventare parte integrante del disegno urbano complessivo della città e della strategia architettonica. È un vero e proprio spazio per l’intrattenimento e contiene fino a 15mila posti a sedere, cinque grandi sale polifunzionali per eventi, punti di ristoro e uno spazio adibito a parcheggio interrato con 700 posti auto. Durante i momenti di non utilizzo, il palazzetto viene usato anche per ospitare importanti concerti. Il progetto è stato affidato allo studio australiano ARM Architecture in collaborazione con Cameron Chisholm Nicol. La polifunzionalità è data dalla sua complessità che trae spunto dal famoso puzzle Eternity e dal Round House a Fremantle, uno dei più antichi edi-

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fici di Perth. Invece di una singolare facciata i progettisti hanno creato superfici differenti e variabili da ogni punto di vista, dando all'edificio un volto diverso a ogni angolazione così che ogni facciata presenti un diverso movimento. L’impatto sul contesto intorno è decisamente molto intenso. L’esterno appare molto frammentato e composto di piani e superfici inclinati e intersecati tra loro. La forza espressiva di questi piani è ulteriormente rafforzata mediante l’utilizzo di materiali di rivestimento appropriati come lastre modulari di forma triangolare di colore differente in base alla facciata. Sono state scelte tinte blu, gialle e bianche e sono alternate a dei tagli vetrati che permettono l’ingresso della luce naturale sulle facciate verticali. I motivi grafici che vengono articolati in facciata sono ripresi anche nelle pavimentazioni dello spazio aperto circostante. Gli stessi triangoli rivestono il terreno orizzontale realizzato in pietra e anche gli elementi di arredo urbano si ricollegano alle forme della facciata. Le panchine in pietra riprendono forme rettilinee e frammentate. Grandi sculture, come se fossero frammenti di meteoriti staccati dalla massa centrale dell’edificio sono cosparse sulla piazza con gli stessi materiali colorati del rivestimento. I campi da tennis, oltre a essere presenti internamente all’edificio, occupano anche un ampio spazio all’esterno per le partite all’aperto, con il terreno da gioco che riprende la stessa tinta blu delle facciate. Gli spazi di servizio dell’interno sono distribuiti tutto intorno all’ampio volume destinato al campo da gio-

PLANIMETRIA GENERALE

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SCHEMA COMPOSITIVO DEL PROGETTO

PLANIMETRIA

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La multifunzionalità dello spazio interno del Perth Arena è data dalla progettazione flessibile proposta dagli architetti che hanno permesso la realizzazione di uno spazio adatto ovviamente a eventi sportivi ma compatibile anche con molte altre attività co centrale. Anche l’interno riprende i piani verticali inclinati dai rivestimenti di forma rettangolare, a tratti forati, in corrispondenza degli impianti nascosti sul retro. Il blu, il giallo, il bianco e il nero sono le stesse tonalità cromatiche utilizzate negli spazi interni, che sono ulteriormente articolati dalla vista di pilastri obliqui e colonne circolari in acciaio. In questi spazi si distribuiscono le aree ristoro, le sale conferenze e i servizi igienici. Rampe e scale mobili vengono sottolineate da percorsi che fuoriescono dai volumi delle superfici verticali e collegano i vari livelli di accesso agli spalti del palazzetto. L’edificio raccoglie in sé importanti esempi di tecnologie eco-friendly: dal tetto fotovoltaico ai sistemi avanzati di condizionamento dell’aria, fino all’illuminazione naturale. Il tetto di Perth Arena è retrattile e il sistema applicato permette la sua apertura e chiusura in sette minuti, facendo così penetrare la luce naturale sul campo centrale. La sostenibilità è perseguita grazie ad accorgimenti che permettono l’agevolazione della ventilazione naturale mista al sistema di condizionamento dell’aria, attraverso un impianto di automazione degli edifici che è stimato per salvare 127 tonnellate di emissioni di CO2 l’anno e, inoltre, grazie a un impianto fotovoltaico è stato montato sopra le falde della copertura.

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L’impatto esterno del Perth Arena è molto suggestivo. Grazie alle forme geometriche irregolari e ai colori che creano giochi di forme, l’edificio sembra quasi un grande oggetto ludico, in grado di dare forte espressività all’area di progettazione

Gli interni riprendono la forte espressività dell’esterno. Sono state usate le stesse tonalità di colore che vanno dal bianco, al nero, al blu e al giallo elettrico. Tonalità che sottolineano ulteriormente i piani e le superfici inclinate. Ampie colonne metalliche e oblique attraversano le altezze irregolari degli spazi di servizio

Progettisti Ashton Raggatt McDougall, Cameron Chisholm Nicol Proprietario VenuesWest Luogo Wellington Street Perth, Australia Posti a sedere Pallacanestro: 14 846 Tennis: 13 910 Capacità totale: 15 500 Costo 548,7 milioni di dollari

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SEZIONE EST - OVEST

SEZIONE NORD - SUD

Gli spazi di servizio sono caratterizzati da piani e superfici inclinate. Linee e forme geometriche realizzate con i differenti colori proseguono, anche all’interno,

quell’effetto ludico dell’edificio. Ampi pilastri metallici a sezione rettangolare sono l’unico elemento di regolarità all’interno della suggestiva geometria


PROSPETTO SUD

PROSPETTO OVEST

In facciata sono presenti ampie superfici vetrate dai tagli geometrici ma irregolari. Tali squarci di luce illuminano gli spazi interni caratterizzati da colori

e tinte forti. Le superfici inclinate delle pareti e degli elementi longitudinali d’illuminazione richiamano la presenza di una rampa ospitante scale mobili


progettare

Proiettata

Foto John Gollings

La città di Melbourne riconquista uno spazio. La Hamer Hall, sala da concerti da sempre nei cuori dei cittadini si apre verso il fiume. Esplicita la sua relazione con la città e i cittadini. Tutto questo grazie al progetto del gruppo ARM Architecture di Iole Costanzo

Sopra: foto della Hamer Hall prima dell’opera di riqualificazione. A destra: la nuova soluzione del piazzale che affaccia sul fiume Yarra e i nuovi accessi alla struttura

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edevelopment: risanamento, riqualificazione. È questo il tema affrontato dagli ARM Architecture a Melbourne, in Australia. Il progetto, approvato dall’Heritage Victoria, l’organo di controllo e tutela del patrimonio culturale in Australia, coinvolge la nota sala da concerto Hamer Hall: un’architettura piuttosto discussa costruita negli anni Ottanta del secolo scorso e considerata oramai patrimonio della città. L'Arts Centre di Melbourne, originariamente noto con il nome di Victorian Arts Centre è un complesso per le arti dello spettacolo costituito da teatri e sale da concerto e costruito in Melbourne Arts Precinct, al centro della città, nel sobborgo di Southbank in Victoria. II masterplan, curato dall'architetto Sir Roy Grounds e nato dalla cooperazione tra il progettista e la National Gallery of Victoria, è stato approvato nel 1960, mentre la costruzione iniziò nel 1973. Il complesso venne inaugurato a tappe: Hamer Hall è stata aperta nel 1982 mentre gli altri edifici nel 1984. Le tematiche affrontate al tempo della progettazione sono legate principalmente a due filoni narrativi: il castello e la caverna. Lo sfarzo, l’eleganza e il senso dell’intimo e del criptico. Durante la progettazione e l’esecuzione degli attuali lavori gli ARM Architecture sono stati attenti a preservare tutti gli aspetti caratteristici della sala da concerti rispettando l’architettura di Roy Grounds e gli interni originali disegnati da John Truscott, ma hanno anche dichiarato che la missione via via si è delineata verso un’attualizzazione della Hamer Hall che ha

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Foto John Gollings


Foto John Gollings


Progettisti ARM Architecture CittĂ Melbourne, Australia Urban Design Peter Elliott Paesaggio TCL Acustica Kirkegaard Associates e Marshall Day Struttura Aurecon Interior designer ARM Architecture Theatre designer Shuler Shook


Foto John Gollings Foto John Gollings


PLANIMETRIA GENERALE

coinvolto anche il fiume Yarra. La sala storica è così diventata un luogo del 21esimo secolo e ha riconquistato nuovamente una posizione importante nella vita della città. La riqualificazione ha coinvolto il sistema acustico e il funzionamento del palco e dei servizi presenti sul retro dell’edificio. Questa parte è stata completamente ridisegnata aumentando la superficie del foyer, dei salotti e delle toilet. Le modifiche lo hanno aperto verso l’esterno e reso più accessibile al pubblico. Il finanziamento per il progetto è stato incentrato sul cambiamento di immagine della Hamer Hall e sul miglioramento della tecnologia del teatro e soprattutto degli accessi, ma il team di progetto, avendo focalizzato più aspetti su cui intervenire, ha scelto di dare particolare rilievo alla necessità di una maggiore integrazione con i dintorni, soprattutto con St Kilda Road e il fiume. Hamer Hall oggi è strettamente collegata al fiume Yarra e alla città, e la nuova terrazza/passeggiata creata lungo il fiume fa da collegamento. Il nuovo ingresso consente l’accesso diretto dalla passeggiata al foyer circolare e proprio qui

lungo la riva del fiume sono stati predisposti nuovi negozi, migliori servizi, nuove scale, accessi per disabili, scale mobili e ascensori. È una riqualificazione che è stata ampiamente approvata dall’Heritage Victoria. Un delicato processo che ha richiesto una rigorosa documentazione storica e che ha garantito il rispetto delle caratteristiche del patrimonio. Il risultato ottenuto è un edificio più che efficiente dal punto di vista energetico, sostenibile e con un’ottima gestione dei rifiuti e dell'acqua. Un sistema di aria condizionata ibrido combina l’alimentazione dell’aria a pavimento con quella a bocchettoni e migliora il comfort nella parte anteriore della platea. Gli impianti per l’acqua, il gas, l’elettricità, l’acqua refrigerata, il riscaldamento e gli impianti di acqua calda sanitaria rispondono agli alti standard WELS (gli standard australiani per l’efficienza degli impianti). Hamer Hall era una costruzione difficile, incuneata sulla riva del fiume. Concepita in un'altra epoca. E attualizzarla e riqualificarla si è dimostrato un lavoro molto impegnativo in tutti i sensi. Comunque era e rimarrà un’istituzione molto amata.

A sinistra: i nuovi accessi. Le aperture rendono facile il collegamento tra il foyer e il percorso/piazza antistante. Un nuovo spazio corredato di servizi e negozi con funzione di mediazione tra la città e il fiume. In alto: la planimetria generale. L’edificio concludeva uno spazio incastonato tra il fiume Yarra e la St Kilda Road a cui oggi, con l’attuazione del progetto di riqualificazione, è strettamente collegata

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SEZIONE LONGITUDINALE

Foto John Gollings

SEZIONE TRASVERSALE

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Foto John Gollings

PIANTA PIANO TERRA

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Foto Peter Bennetts


Foto Peter Bennetts Foto John Gollings

Foto Peter Bennetts Foto John Gollings

Il tema narrativo della caverna scelto negli anni ’70 dall’architetto Sir Roy Grounds è stato rispettato. Gli elementi in cemento sono rimasti prioritari nella struttura sia all’interno come all’esterno. I collegamenti sono stati maggiormente curati, così come gli accessi, il foyer e i punti di accoglienza

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Foto John Gollings

Foto John Gollings

Foto John Gollings Foto John Gollings

Anche gli elementi scelti dall’interior designer John Truscott sono stati valorizzati. Il contrasto tra la matericità semplice e rude della struttura e lo sfarzo degli arredi è ancora oggi ciò che maggiormente connota gli ambienti della Hamer Hall

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premiazioni

Le eccellenze in Europa

La Fundació Mies van der Rohe e la Commissione Europea premiano ogni due anni le eccellenze tra le realizzazioni architettoniche nei paesi dell’Unione. Quest’anno il primo premio è andato all’Islanda di Cristiana Zappoli

rogettato da Henning Larsen Architects, Batteríið Architects e Studio Olafur Eliasson, l’Harpa Reykjavik Concert Hall and Conference Centre - l’edificio ha contribuito a trasformare e rivitalizzare il porto di Reykjavik e ad avvicinarlo al resto della città - è il progetto vincitore del Premio Mies van der Rohe 2013. Nell’ambito del premio sono state nominate in totale 335 opere, tra le quali la giuria, al primo incontro a Barcellona, ha selezionato le cinque finaliste, tra cui, ovviamente, anche Harpa: il Mercato coperto di Gand, in Belgio, di Robbrecht en Daem architecten e Marie-José Van Hee architecten; il Superkilen, un parco urbano interculturale a Copenaghen, di BIG Bjarke Ingels Group

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e Topotek1; la Casa per anziani ad Alcácer do Sal, in Portogallo; Aires Mateus Arquitectos e, infine, Metropol Parasol, uno spazio culturale e commerciale a Siviglia, progettato da J. Mayer H. Wiel Arets, presidente della giuria, ha spiegato così la scelta: «Harpa ha catturato il mito di una nazione, l’Islanda, che ha agito consapevolmente in favore di una costruzione culturalmente ibrida nel bel mezzo della crisi economica. Gli iconici, trasparenti e porosi “quasi-mattoni” appaiono come un gioco sempre diverso di luce colorata, promuovendo un dialogo tra la città di Reykjavik e la vita all’interno dell’edificio. Dando un’identità a una società da tempo conosciuta per le sue saghe, attraverso una collaborazione interdisciplinare tra

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L’Harpa Reykjavik Concert Hall and Conference Centre misura 29mila mq ed è composto da quattro sale concerti e sale conferenze. l vetri delle facciate catturano la luce del sole e i colori del cielo. L’edificio appare come una gigantesca scultura luminosa che riflette il cielo e il porto PROGETTO VINCITORE

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MENZIONE SPECIALE ARCHITETTI EMERGENTI

María Langarita e Víctor Navarro hanno vinto grazie alla Nave de Música Matadero (Red Bull Music Academy). Costruita per ospitare a Madrid un festival musicale itinerante, è stata realizzata in soli due mesi in un magazzino dell’inizio del ventesimo secolo che faceva parte di un complesso industriale

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lo studio Henning Larsen Architects e l’artista Olafur Eliasson, questo progetto è un messaggio importante al mondo e al popolo islandese, realizzando un sogno atteso a lungo». Harpa fa parte di un vasto piano di espansione e rivitalizzazione del porto orientale di Reykjavik, migliora il legame con la città e funge da sala concerti e da spazio per le conferenze. Il volume dell’edificio si ispira all’aspra e inclinata scogliera della costa. Il progetto della facciata, invece, in vetro sfaccettato, riprende le tipiche forme in basalto del paesaggio vulcanico ed è il risultato di una collaborazione con lo Studio Olafur Eliasson: una facciata multicolore e luminescente, composta da un mosaico di tessere di vetro (i “quasi - mattoni”) contornate da telaio in metallo scuro, che interagisce con la luce naturale del cielo e che per il 10% è colorata e specchiante, caratteristica che rende luminosa la struttura anche al buio. Gli obiettivi principali del premio dell’Unione Euro-

pea per l'Architettura Contemporanea - Premio Mies van der Rohe sono di riconoscere e lodare l’eccellenza nel campo dell'architettura e per attirare l'attenzione sull’importante contributo dei professionisti europei allo sviluppo di nuove idee e tecnologie. Il premio, così come la Emerging Architect Special Mention, la menzione speciale per un architetto emergente, vengono assegnati ogni due anni a lavori ultimati entro i due anni precedenti, realizzati in paesi compresi nel Culture programme of the European Union (ovvero i paesi membri dell’Unione Europea). I lavori sono selezionati da un gruppo di esperti indipendenti, membri dell’Architects’ Council of Europe (ACE) e da altre associazioni nazionali di architetti. Entrambi i riconoscimenti premiano le qualità concettuali, tecniche e costruttive dell’opera. La giuria fa, inoltre, una selezione di progetti che verranno presentati nella mostra e nel catalogo realizzati in occasione dell’evento. Il premio, che ha scadenza biennale ed è stato indetto dalla Fondazione Mies van der Rohe nel 1987, dal 2001 è diventato il premio di architettura ufficiale dell’Unione Europea e offre sia agli individui che alle istituzioni pubbliche l’opportunità di raggiungere una comprensione più chiara del ruolo culturale dell’architettura nella costruzione delle nostre città. Quest’anno la Menzione speciale per il migliore architetto emergente, è andata a María Langarita e a Víctor Navarro per la Nave de Música Matadero (Red Bull Music Academy), costruita per ospitare un festival musicale a Madrid. Il Premio consiste in 60mila euro, mentre la Menzione Speciale riceve un assegno di 20mila euro. I vincitori vengono inoltre premiati con una scultura realizzata dall’artista catalano Xavier Corberó ispirata al Padiglione Mies van der Rohe, simbolo del Premio e una delle più grandi opere architettoniche del ventesimo secolo.


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L'edificio, realizzato da Aires Mateus Arquitectos, si basa su una lettura della vita di una comunità, una sorta di micro-società con le sue regole. A metà strada tra un hotel e un ospedale, risponde alle esigenze di una vita sociale e allo stesso tempo di solitudine PROGETTO FINALISTA

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In seguito a due campagne di demolizione e un centro amministrativo mai costruito, il cuore storico di Gand degenerò per decenni. Il nuovo Mercato coperto, realizzato con materiali naturali, riqualifica quest’area che era ormai irriconoscibile PROGETTO FINALISTA

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Metropol Parsol nasce con l'obiettivo di riqualificare e rifunzionalizzare l’antica Plaza de la Encarnaciòn a Siviglia. La struttura, progettata dall’architetto tedesco Jürgen Mayer H., si sviluppa su cinque livelli, di cui uno seminterrato, e accoglie diverse funzioni cittadine. Il secondo livello, invece, ospita un mercato PROGETTO FINALISTA

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Superkilen è un parco urbano di 30mila metri quadri a Nørrebro. Nel parco sono stati portati pezzi di storie e realtà urbane da tutto il mondo: ciascuna delle 57 comunità etniche di Nørrebro è rappresentata da almeno un oggetto. Gli abitanti hanno partecipato alla progettazione del parco

PROGETTO FINALISTA

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design

Giochi materici

Plexiglass, cellulosa, acciaio, legno e, adesso, anche la garza gessata: il lavoro di Sauro Marchesini è una continua ricerca di materiali (preferibilmente di recupero) che nelle sue mani diventano oggetti d’arte e design. Provocatori, originali, ironici e decisamente pop di Clara Dalledonne

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l'ambizione di tutti i creativi essere originali. I miei lavori sono impregnati di piccole grandi sedimentazioni, dovute a un continuo bombardamento di mille influenze che percepisco, assimilo e che, spesso, uso. Ciò che ho visto sui libri, alle manifestazioni artistiche, su internet, si trasforma in una continua e inarrestabile ricerca. Tutti i giorni porto “a casa” qualche cosa, piccole idee che ormai sono diventate un cibo quotidiano e che mi creano ansia quando le cerco e non le trovo». Così Sauro Marchesini, artista e designer bolognese, racconta dove trova l’ispirazione per le sue opere, da dove arrivano gli stimoli e le idee per i suoi lavori: dalla vita quotidiana, dagli oggetti che incontriamo ogni giorno sulla nostra strada, tutto è ispirazione. Tutto e niente. E quando non arriva nessuno stimolo, sopraggiunge l’ansia. Perché l’artista, per definizione, vede il mondo e le cose del mondo diversamente da come le vedono tutti gli altri, come se gli parlassero in una lingua che solo lui può comprendere. Sauro Marchesini ha cominciato a interessarsi al design all’inizio degli anni Ottanta e, da quando si è congedato dal suo lavoro di bancario, si è dedicato totalmente all’arte e al design. Ha iniziato frequentando un corso per il restauro di mobili e raccogliendo oggetti di vario tipo nei depositi dei rigattieri, in un momento in cui trasformare oggetti in disuso non era certo di moda come adesso. «Subivo – racconta Marchesini – sollecitazioni

È

Lampada, tubo plexiglass (materiale di scarto industriale) spazzolato


dovute ai colori, ai materiali diversi, alla plastica di cui erano fatti gli oggetti che trovavo. Mi sono avvicinato così a un mondo che consideravo già molto creativo e che sarebbe diventato il germoglio della mia futura e personale creatività. Il materiale di recupero ha un passato, una storia, l’imperfezione lo rende interessante, unico, vivo, pronto a un nuovo futuro. Il materiale nuovo, al contrario, vive solo il presente, è meno poetico. Amo i materiali vecchi, trovati per caso, raccolti e depositati, in attesa di essere creativamente liberati». E il suo laboratorio, un’antica chiesetta sconsacrata che sorge all’ombra di una quercia centenaria («è un albero che racchiude tantissima energia - dice - e sembra che sia lì apposta per proteggere la chiesa»), è pieno di vecchi oggetti, pezzi di vecchi oggetti e materiali di scarto pronti per una nuova vita. Sauro Marchesini si diverte a plasmare la materia e, soprattutto, a cambiare spesso materia da plasmare. Ha lavorato con diversi materiali, cominciando molti anni fa con la cellulosa, con cui creava pannelli materici molto grandi che ha chiamato “crostoni”: «sono state le mie prima opere, quindi ci sono molto affezionato, - racconta - mi hanno riempito di entusiasmo. Sono stato ispirato dai cretti di Alberto Burri, li ho fatti con carta cellulosa, leggeri, coperti di una leggera patina di cenere e di dimensioni anche molto grandi». Dopo la cellulosa è passato al vetro rotto o inciso (sabbiato), sempre recuperato da discariche e quindi destinato alla distruzione, con cui ha realizzato lampade di varie dimensioni. Poi è stato il momento del plexiglass: «è un materiale meraviglioso - spiega - più affascinante, moderno e malleabile rispetto al vetro. Anche in questo caso ho realizzato delle lampade: pezzi di plexiglass, scarto industriale, di varia grandezza imbullonati insieme creano una forma geometrica anche di grandi dimensioni. Opacizzati filtrano una luce molto morbida e seduttiva». Ultimamente ha lavorato molto con l’acciaio, realizzando, tra le molte cose, tavolini, specchiere, centrotavola e, più di recente, gioielli: «è stata la curiosità, la voglia di provare cose nuove a spingermi verso il mondo dei gioielli», racconta. «L’ho trovato molto interessante perché il gioiello può avere forme classiche o stravaganti e mi piace osare sulla sua dimensione, perché, credo, un po' di provocazione non guasta mai. Si tratta di una ricerca continua ed è molto divertente vedere come dalla stessa forma di un gioiello possa nascere un centro tavola o un particolare di un tavolino. Sono solo forme, disegni in libertà, che si allargano o rimpiccioliscono secondo l'uso che se ne deve fare. E poi il gioiello è mobile, dinamico, indossabile e seducente». Dopo carta, vetro, legno, plastica, ferro, acciaio, ceramica, l’ultimo materiale con cui l’artista bolognese si sta cimentando è la garza gessata, scoperta a un pronto soccorso mentre i dottori gli stavano ingessando un piede in seguito a una piccola frattura: «ho seguito la procedura tecnica nel reparto gessi - racconta - con grande attenzione. Un materiale po-

vero stupendo, materico, leggero, malleabile, pratico, con il quale creare forme anche di grandi dimensioni. Bellissimo, con le sue imperfezioni e gli sfilacciamenti della garza, il gesso che la lega, bianco opaco, e le porosità che si liberano in una danza di forme strane, un gioco di volumi materici». Il lavori di Marchesini sono spesso del tutto originali, a volte invece subiscono influenze dirette di artisti come Burri, Warhol, Pollock, Lichtenstein, con forme che definisce «citazioni o esercizi di stile, per me puro divertimento». Le opere di Alberto Burri, in particolare, hanno senza dubbio avuto un’importanza fondamentale nella storia artistica di Sauro Marchesini, come spiega lui

Sopra: tavolini in acciaio verniciato. Sotto: tavolino in acciaio verniciato, mod. Andy

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Sopra: particolare

di tavolino in acciaio verniciato. Sotto: centro tavola in acciaio verniciato

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stesso: «Burri mi ha fatto scoprire l'arte contemporanea che prima criticavo. Dopo un lungo viaggio disseminato di libri, mostre, musei, e una grande passione fatta di scoperte e conoscenze classiche, avevo bisogno di conoscere e scoprire qualche cosa di nuovo. Avevo bisogno di emozioni nuove, senza un perché, senza apparati e senza “cornicette ruffiane”, avevo bisogno di aria pura, gioia di vivere, di provocare, smuovere l'apatia del già visto. Burri mi ha fatto scoprire e sentire, finalmente, una cultura fatta di caldo o freddo, di tutto e il contrario di tutto. Non rinnego la mia passione per la cultura classica ma, con il tempo, era diventata tiepida. Io andavo verso l'illeggibile, l'incomprensibile e ci andavo senza un punto d'appoggio; verso una lingua che non conoscevo, ma che presto ho imparato a sillabare, e poi a reinterpretare con i miei lavori». Marchesini ha scoperto attraverso questo percorso la libertà e la gioia della provocazione della Pop Art, da cui i suoi lavori, in particolare quelli di design, attingono sensibilmente, riproponendone il senso di ironia e la capacità di giocare con simboli e immagini già ampiamente utilizzati, personalizzandoli. La tendenza al senso del gioco come pura forma di divertimento è forte, tanto che il Marchesini designer non si preoccupa mai delle abitazioni in cui andranno i suoi oggetti ma invece gli piace semplicemente «immaginare con un po’ di ironia di invadere affettuosamente ambienti grigi con un po’ di colore e con qualche piccola trasgressione». Il divertimento non deve mai mancare, prima, durante e dopo il processo creativo: «io lavoro oggi con lo stesso spirito che avevo all’inizio, con lo stesso senso del gioco, sono ugualmente volubile e artisticamente “infedele”. Quando non mi diverto più mi stanco, e quando mi stanco perdo l'interesse e smetto di fare una determinata cosa. Inizialmente è stato un problema passare dalla progettazione e creazione di qualcosa che aveva una valenza puramente estetica, alla creazione di qualcosa che oltre ad essere bella doveva anche essere funzionale. Quindi sono entrati in gioco rapporti di proporzioni, di piccoli calcoli matematici, dimensioni, procedure artigianali. Con il tempo sono riuscito a risolvere queste difficoltà tenendo conto di errori, rettifiche e insicurezze. La cosa che ancora adesso faccio fatica a somatizzare è il passaggio tra ideazione e realizzazione. La realizzazione richiede tempi lunghi e complessi, e perdere di vista l'oggetto per poi ritrovarlo finito da mani altrui, mi crea un po’ di smarrimento».Di fronte a una produzione artistica universale, quasi illimitata e a una conoscenza ormai alla portata di tutti grazie a internet, viene da pensare che nel campo dell’arte abbiano già fatto e inventato tutto. «Un po' desolante come prospettiva, - conclude Sauro Marchesini - per fortuna ho letto, a riguardo, una frase di Oliviero Toscani molto confortante: “in arte non hanno già fatto tutto, non hanno ancora fatto niente”. Una frase molto suggestiva, e giustamente provocatoria , che offre un po’ di speranza».



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appuntamenti

ARCHITETTURA, ARTE & DESIGN IL DESIGN DELLA LUCE

Nessun’altra invenzione ha rivoluzionato nell'ultimo secolo il nostro spazio ambientale quanto la luce elettrica. Ha cambiato le nostre città, ha creato delle nuove strutture per vivere e lavorare ed è diventata il motore che ha spinto il progresso dell’industria, della medicina e della comunicazione. Grazie alle nuove tecnologie oggi si sta sviluppando un cambiamento radicale nel mondo della luce artificiale. Ed è proprio a questo sviluppo che il VDM dedica la mostra Lightopia. Si tratta della prima mostra che presenta il tema del design della luce, attraverso esempi di arte, design, architettura e tante altre discipline. Lightopia contiene circa 300 opere, delle quali tante sono icone della collezione d’illuminazione del VDM mai pubblicamente esposta, come quelle di Wilhelm Wagenfeld, Achille Castiglioni, Gino Sarfatti e Ingo Maurer. Alcuni pezzi espositivi visualizzano l'energia performante della luce, come il famoso LichtRaum-Modulator (modulatore luce-spazio, 1922 – 1930) di László Moholy-Nagy oppure la spettacolare ricostruzione di una discoteca del 1968, interamente realizzata in plexiglas translucido. Al centro dell’esposizione, però, si trovano i lavori di designer ed artisti contemporanei come

Olafur Eliasson, Troika, Chris Fraser, Front Design, Daan Roosegaarde, Joris Laarman, realities:united e mischer'traxler che presentano nuove possibilità creative tramite la luce. Tra le opere interattive sono presenti anche delle installazioni che si possono percorrere e attraversare e permettono al visitatore di esplorare la forza elementare della luce. Dal dialogo tra le opere esposte nasce, attraverso la mostra Lightopia, una panoramica del design della luce – dall'inizio della società industriale fino alle visioni che caratterizzeranno il nostro futuro. L'esposizione Lightopia dimostra, grazie al suo approccio interdisciplinare, come il design della luce abbia formato l'ambiente moderno ed esamina il cambiamento del modello attuale inserendolo in un contesto storico-culturale più grande. A questo proposito, la curatrice Jolanthe Kugler si esprime così: “Lightopia è la prima mostra che, non solo evidenzia il fenomeno luminoso nei suoi aspetti creativi – come l'arte della luce o il design della luce – ma riunisce tra loro le diverse sfaccettature del design della luce e le inserisce nei discorsi attuali”. Weil am Rhein, Vitra Design Museum/ Lightopia/ Dal 28 settembre 2013 al 16 marzo 2014

L’ARCHITETTURA PORTOGHESE Porto Poetic, è una panoramica sulle figure chiave dell'architettura portoghese Álvaro Siza e Eduardo Souto de Moura assieme agli architetti Adalberto Dias, Camilo Rebelo + Tiago Pimentel, Carlos Castanheira, Cristina Guedes e Francisco Vieira de Cam-

pos, Isabel Furtado e João Pedro Serôdio, João Mendes Ribeiro, José Carvalho Araújo e Nuno Brandão Costa. Con l’uscita nel 1986 della pubblicazione “Álvaro Siza, Professione poetica” (Quaderni di Lotus, collana diretta da Pierluigi Nicolin), irrompe sul panorama architettonico internazionale l’architettura portoghese (la scuola di Oporto), fino ad allora considerata solamente in chiave regionalistica: “vernacular” e “critical regionalism”, che limitava il campo di azione in un orizzonte neorealista e anacronistico. “Professione poetica” dimostrava che la sapienza e il ta-

cinquanta del secolo passato e giungendo all’attualità, la mostra si sviluppa attraverso 3 nuclei: Poetic, Community, Design, con 41 progetti di architettura in mostra, 215 pezzi di design, 540 fotografie d’autore, 28 filmati in proiezione. L’esposizione è composta e descritta attraverso 6 sezioni: i filmati, la visione dei fotografi, gli archivi di Álvaro Siza e Eduardo Souto de Moura, gli oggetti di design, la visione dei critici, 8 progetti di ulteriori esponenti dell’architettura portoghese. Milano, Triennale/ Porto Poetic/ Dal 13 settembre al 27 ottobre 2013

DESIGN A NAIROBI

lento di Álvaro Siza (che non aveva ancora costruito e progettato i lavori più iconici che lo hanno successivamente consacrato) erano frutto di piccoli gesti, del disegno, del continuo disegnare la città in cui viveva e lavorava, Oporto, Porto Poetic. Nella sua celebre premessa alla pubblicazione, scriveva... “Dicono che disegno nei caffè, che sono un architetto di piccole opere (dato che ho provato a fare le altre, penso che, se non mi sbaglio, le piccole sono più difficili).”... “La tradizione è una sfida all’innovazione. È fatta di inserti successivi. Sono conservatore e tradizionalista, cioè mi muovo fra conflitti, compromessi, meticciaggio, trasformazione.” Partendo dagli anni

Dopo le mostre dedicate a Cina, Corea e India, Triennale Design Museum con Made in Slums continua a indagare e a esplorare i territori più inattesi del nuovo design internazionale. Questa volta i fari del CreativeSet sono puntati su una piccola realtà locale, lo slum di Mathare, a Nairobi, individuato come paradigma della capacità di una comunità di dotarsi di propri strumenti funzionali e simbolici, realizzati in un originale processo di autoproduzione a partire da pochi materiali presenti nel territorio. La mostra nasce prima di tutto dal lavoro svolto sul campo dall’ONG Liveinslums, impegnata da due anni in un progetto di cooperazione allo sviluppo che ha incoraggiato la costruzione di una scuola di strada e l'avviamento di un progetto agricolo comunitario nello slum di Mathare. Mathare è un agglomerato urbano situato a circa 5 km dal centro di Nairobi in Kenya. Con una popolazione di circa 500.000

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appuntamenti

L’UOMO E IL TERRITORIO

abitanti è, per ordine di grandezza, la seconda baraccopoli d Nairobi: forse la più antica, certamente quella con peggiori condizioni di vita. È una ex cava che si estende per un’area di circa 3km per 1,5km, in cui i residenti hanno sviluppato una strategia informale ma efficace di economia su piccola scala che si svolge per lo più in precarie case bottega e in luoghi malsani. “Come nell’isola di Robinson Crusoe – scrive Fulvio Irace – lungo le frontiere di una spiaggia virtuale che circonda il cuore dello slum, la marea deposita ogni giorno gli scarti della capitale: pezzi di legno, insegne pubblicitarie, tavole e lamiere e soprattutto bidoni, l’elemento base di un progetto di riciclo minuzioso ed efficace. In simili condizioni, dunque, l’ingegnosità della comunità supplisce alle gravi carenze del territorio, e risponde ai propri bisogni recuperando e trasformando materia di scarto in oggetti a elevato gradiente estetico”. Come afferma Silvana Annicchiarico, direttore del Triennale Design Museum: “Senza avere la pretesa di attribuire a questa piccola esperienza locale un valore simbolico eccessivo, è tuttavia evidente che le pratiche creative messe in atto a Mathare trascendono l’orizzonte puramente locale e assumono un senso e un valore più generale”. Milano, Triennale Design Museum/ Made in Slums - Mathare Nairobi/ Dal 26 settembre all’8 dicembre 2013

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Si tratta della prima retrospettiva dedicata al celebre artista fiorentino Pier Niccolò Berardi. Curata da Cristoforo Bono e Marco Romoli per la parte di architettura e da Carlo Sisi per quella pittorica, offrirà una ampia panoramica della produzione artistica e architettonica di Pier Niccolò Berardi, attivo in moltissime città d'Italia ma anche all'estero tra gli anni Trenta e la fine degli anni Ottanta. Elemento cardine della produzione di Pier Niccolò Berardi è la compenetrazione tra ciò che offre la natura e quello che l'essere umano può cogliere da tale offerta. Il manufatto dell'uomo, e quindi la costruzione architettonica, per Berardi deve nascondersi e diventare parte della natura stessa. Saranno esposti plastici, fotografie e disegni che riguardano alcuni dei più importanti edifici progettati da

Pier Niccolò Berardi ed esposte alla VI Triennale di Milano nel 1936, alcune delle quali arredano la sala d'aspetto della Stazione di Santa Maria Novella. Costruzioni senza tempo nate per soddisfare le esigenze della vita agricola, che obbedivano ad una razionale distribuzione degli spazi e ad un razionale utilizzo per i bisogni del contadino. Questa attenta ricerca giovanile stimolerà in Berardi il desiderio di far emergere con i suoi lavori il legame tra il prodotto costruttivo dell'uomo e il territorio circostante. Una sezione sarà invece dedicata alla pittura, che dalla metà degli anni Cinquanta diventa fondamentale nella carriera dell'artista, ponendo l'attenzione su un aspetto inedito e poco conosciuto al pubblico. Nature morte, marine, paesaggi e villaggi toscani e del meridione, ma anche composizioni in omaggio ad altri pittori, in cui emerge il rapporto inscindibile tra pittura e architettura e continua ad essere protagonista la relazione fra costruzione architettonica, paesaggio e natura. Firenze, Palazzo Medici Riccardi – Sale Medicee e Limonaia/ Pier Niccolò Berardi. Architetto e pittore/ Dal 18 ottobre all’1 dicembre 2013

Berardi. Tra questi: il progetto razionalista della Stazione viaggiatori di Santa Maria Novella di Firenze, realizzata tra il 1931 e il 1934 insieme a Michelucci, Baroni, Gamberini, Guarnieri e Lusanna riuniti nel Gruppo Toscano; il Museo della Porcellana della manifattura Richard-Ginori di Doccia inaugurato nel 1965; numerose abitazioni private. Sarà inoltre allestita una mostra con le fotografie di case coloniche e di architetture rurali toscane realizzate agli inizi degli anni Trenta da

DISEGNI DI MASSIMO IOSA GHINI La mostra si articola intorno al disegno di Massimo Iosa Ghini, indispensabile e necessario elemento fondante nonché filo conduttore di tutto il suo percorso creativo e progettuale. Ogni progetto nasce dal disegno che per Massimo Iosa Ghini, narratore di forme, spazi e ambienti, prima ancora che architetto e designer, è pensiero e metodo, precisa e riconoscibile cifra stilistica che si esplica in un segno

coerente, veloce e fluido. Linee sinuose e forti danno vita a sagome svasate e sfidanti, tagli obliqui e diagonali che creano forme dinamiche e slanciate nelle quali si legge la matrice “bolidista”. Nella prima sala espositiva sono posti disegni di città ideali, immagini che danno conto della grande capacità di Massimo Iosa Ghini di immaginare e visualizzare con il dise-

gno. Lo studio del mondo dell’immaginazione passa attraverso il disegno, che è la prima forma dell’idea dopo quella mentale e invisibile. La seconda sala accoglie, invece, i disegni di progetto (d’interni, di architettura e di oggetti) che scaturiscono da una ricerca di perfezione tanto formale quanto funzionale. Qui la necessaria attenzione pragmatica ai processi della produzione impone un approccio più cosciente e il disegno sintetizza nel segno l’essenza e la definizione della funzione di un determinato prodotto, senza però che nel disegno si perda mai la bellezza della forma. Completano la mostra, nella terza sala, un canvas di grandi proporzioni, che funge da congiunzione tra il momento ideativo rappresentato dal disegno e la fase di concreta realizzazione dell’architettura, e un plastico architettonico. Bologna, OTTO Gallery Arte Contemporanea/ Massimo Iosa Ghini. Disegno e Progetto/ Dal 23 settembre al 2 dicembre 2013


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Pensieri. Commenti. Interviste. Schede di progetto GIANFRANCO FRANZ - MAURO ANNUNZIATO

CENTRO DI EDUCAZIONE PER L’INFANZIA • MAŁOPOLSKA GARDEN OF ARTS LENBACHHAUS MUSEUM, MONACO • WANANGKURA STADIUM TAIYUAN MUSEUM OF ART • CULTURAL CENTER PLASSEN


DIBATTITO

LA CITTÀ DEL FUTURO È SMART Come fa una città a migliorare la propria capacità di fornire servizi utili, mettere in rete i cittadini, diventare sostenibile, integrare le periferie? Una città per diventare più “intelligente” e quindi più vivibile dovrebbe investire in tecnologia e valorizzare enormemente l’identità culturale e sociale dei propri abitanti. Per fortuna, oggi, siamo più sensibili verso tematiche che riguardano sia l’innovazione che l’ecologia

Il concetto di smart city è cambiato nel tempo. Se si dovesse sintetizzare in pochi punti, quali sarebbe importante citare?

Gianfranco Franz Il concetto di smart city ha iniziato a essere sviluppato dalla IBM in modo olistico e ampio, cercando le connessioni con le principali politiche pubbliche che hanno un impatto e delle conseguenze sulla città e sull’ambiente urbano. Poi, intorno al 2007/2008 il concetto è stato ristretto, soprattutto dalla tecnocrazia dell’Unione Europea, ai soli temi tecnologici e digitali, con particolare enfasi per le telecomunicazioni, il digitale e il trasporto pubblico. La UE voleva investire sugli assi dove siamo deboli rispetto agli USA o dove maggiormente critiche sono le condizioni delle nostre città. Si è trattato di una scelta tecnocratica imposta ai governi, alle amministrazioni e ai cittadini. Il fatto che in Europa, e soprattutto in Italia, i cittadini non sappiano nulla di cosa vuol dire smart city e cosa potrebbe implicare per il futuro della città è la dimostrazione di quanto sia lontana la tecnocrazia europea dal tessuto vivo della popolazione. Se una città è smart è più vivibile, se è più vivibile è più sostenibile. Mauro Annunziato La cosa che credo sia più interessante è che alla parola sostenibilità oggi viene associata la parola social, cioè l’aspetto sociale della smart city. Oggi si parla molto di smart cities e di smart communities: accoppiare l’aspetto sociale all’aspetto energetico - ambientale. All’inizio quando si parlava di smart city si parlava di visione di smart city, qualcosa che sarebbe potuto esistere, forse, trent’anni dopo. Negli anni la visione è diventata roadmap: sono diventate mature determinate tipologie di interventi e quindi la smart city è diventata qualcosa che si va realizzando nel tempo da oggi stesso. La difficoltà è riuscire a riconoscere quali sono i progetti e il tipo di intervento maturi, tenendo presente che sono interventi che riguardano l’amministrazione della città, gli interessi dei cittadini, le aziende, gli istituti di credito, gli interessi nazionali. Bisogna cercare di capire quando un progetto soddisfa i requisiti tecnologici e di accettabilità sociale ma anche quelli manageriali e quindi è competitivo.

Se smart è anche sostenibilità cosa manca alle città italiane per diventarlo?

Gianfranco Franz Le nostre città non sono mal disposte sui temi e sulle pratiche della sostenibilità. Il primo vero grande problema delle città italiane, in termini di smart city, rimane la condizione del trasporto pubblico e dei trasporti intelligenti. O si riduce la mobilità individuale e il numero di auto circolanti o le nostre città non saranno mai vivibili e quindi smart. Il secondo problema è l’obsolescenza di gran parte dello stock di edifici residenziali, commerciali e produttivi in termini di dissipazione termica e di energia. Riuscire a risolvere questa condizione permetterebbe dei sicuri risultati sia dal punto di vista tecnologico, sia dal punto di vista ambientale, consentendo nel tempo grandi risparmi per le famiglie. Mauro Annunziato Io credo che sia necessario ritornare a un modo sistemico e integrato di pensare e progettare la città. Questo a partire dalla riorganizzazione, banale, dei propri assessorati. A volte non si riesce a portare avanti un progetto multidisciplinare perché non si riescono a individuare le competenze di un assessore piuttosto che di un altro. Questa situazione va assolutamente rivista e cambiata, va creato un modo di pensare sistemico a cui corrisponde un’organizzazione sistemica. Il primo passo è che le città riprendano a sviluppare una capacità progettuale che fino a qualche anno fa è stata delegata allo stato o alle regioni e che oggi si sta riposizionando sulle città, grazie anche a delle svolte di politica europea come il Patto dei Sindaci per esempio. L’altro aspetto che manca è l’apertura ai cittadini, che è un elemento vitale e importante perché la smart city si fa con loro.

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Architetto, è professore associato di Politiche Urbane e Territoriali all'Università di Ferrara, e insegna Pianificazone urbana al Dipartimento di Biologia ed Evoluzione. Ha coordinato i processi di pianificazione di numerose città e della Costa dei Coralli, a Alagoas. Dal 1998 è consulente della Regione EmiliaRomagna per i temi della riqualificazione urbana. Gianfranco Franz

Le città italiane, ma non solo loro, a quali modelli concreti possono fare riferimento nel percorrere la strada che le condurrà a divenire smart city?

In ENEA dal 1986. Dal 2009 è impegnato nello sviluppo di progetti sulle smart cities. Ha avviato diversi progetti: Lumiere, sull’illuminazione pubblica innovativa; City 2.0 per lo sviluppo di un modello di smart town a L’Aquila; Res Novae per una dimostrazione di smart city a Bari e Cosenza. Coordina Urban energy Networks del Joint Programme europeo sulle Smart Cities. Mauro Annunziato

Gianfranco Franz Ogni città, ogni comunità, è artefice del proprio destino. Alcune città hanno eccellenti sistemi di raccolta dei rifiuti; altre hanno eccellenti piani energetici; altre ancora contano su efficienti processi di governance pubblico/pubblico e pubblico/privato; altre possono contare su strumenti e regolamenti urbanistico-edilizi innovativi; altre hanno già fatto molto sui temi della mobilità dolce, della ciclabilità; altre hanno compiuto importanti investimenti sulle reti digitali e sul FreeWiFi. E così via. Bisogna imparare a guardare con disincanto ma con intelligenza alle “buone pratiche”, sapendo che non esistono “migliori pratiche”. Quasi sempre le pratiche di innovazione e trasformazione sono buone, mentre quasi mai le migliori pratiche si rivelano replicabili. Ogni città deve farsi la propria esperienza e deve trovare la strada per includere i cittadini, farli partecipare a questo processo. Mauro Annunziato In realtà ci sono tanti modelli in giro per il mondo, uno diverso dall’altro. Una costante che ho visto in molte città straniere, e anche in alcune italiane, è il punto di partenza: quasi tutte cominciano col rivedere il piano di sviluppo della sostenibilità locale, il cosiddetto PAES, in senso smart e integrato. Un altro aspetto che accomuna molte realtà è che spesso le competenze dell’amministrazione non bastano e occorre creare un team di progettazione. L’obiettivo è attuare il PAES, poi bisogna generare una serie di opzioni progettuali e per ognuna di queste bisogna valutare costi e benefici. È fondamentale valutare costi e benefici. L’ultimo aspetto da non sottovalutare è quello di avviare un progetto dimostrativo, altrimenti non si può sperimentare se un modello funziona o no. Il progetto dimostrativo deve servire per costruire un modello funzionale e per capire se è una cosa che può essere replicata.

Divenire smart è un procedimento uguale per ogni città o si diversifica?

Gianfranco Franz Ogni città deve costruirsi il proprio percorso, a partire dai punti di forza e, soprattutto, dai punti di debolezza. È importante che le città, prima di intraprendere un percorso di innovazione siano ben consapevoli dei propri punti di debolezza e delle proprie criticità. Che sappiano se possono contare su istituzioni del credito avanzate o provinciali, floride o pericolanti; se possono contare su una gioventù vivace, capace e competente; se il carattere della cittadinanza è chiuso, ostile, conservatore; se le imprese, ma anche le istituzioni culturali, le università sono avanzate o se invece vivacchiano in un tranquillo tran-tran di provincia. La piccola città di provincia che volesse trasformarsi in un modello di Silicon Valley risulterebbe inevitabilmente velleitaria e destinata all’insuccesso, malgrado le facili iniziali soddisfazioni in termini di marketing urbano e politico. Mauro Annunziato No, è molto diverso perché è fondamentale che sia un processo in cui si crede fermamente e per crederci deve essere agganciato all’identità della città. Nell’elaborare un progetto di smart city bisogna pensare a quattro settori fondamentali. Il primo è l’identità culturale, che va assolutamente recuperata. Il secondo è l’identità economica, ovvero capire quali sono le forze produttive della zona e quali, invece, vanno cercate al di fuori di essa. Poi c’è l’aspetto territoriale, ovvero con quale tipo di città ho a che fare: è una città di montagna? Una città di mare? Una città che vive di turismo? Il quarto settore è quello dell’identità sociale: un tema molto importante, perché qualsiasi intervento deve essere accettato dai cittadini. Perché se c’è il desiderio sociale di un intervento, allora c’è anche la spinta politica a farlo perché si può contare sul consenso e non c’è l’opposizione. AVI architetti 95


DIBATTITO

Con la crisi economica che imperversa è realmente fattibile per le città perseguire il progetto di diventare smart o sono possibili altre strade di valorizzazione delle loro peculiarità?

Gianfranco Franz La crisi economica può essere salutare per imboccare la strada verso la smart city. Per fare un esempio lampante: in Italia uno dei settori industriali più arretrati e indifferenti all’innovazione è stato per lungo tempo quello delle costruzioni e degli investimenti immobiliari. Con la crisi migliaia di aziende inadeguate, impreparate, che avevano lucrato immensi guadagni negli anni d’oro della speculazione immobiliare (1998-2007), sono scomparse. Il dato peggiore è rappresentato dalle persone che hanno perso il posto di lavoro. Le aziende sopravvissute sapranno come innovare, fare un’edilizia diversa, non di pessima qualità. Si costruirà in modo diverso. Le città devono riflettere su cosa sono diventate negli anni dell’euforia finanziaria e fare i conti con la realtà attuale. Si possono fare investimenti anche limitati ma importanti nel tempo. Nel digitale, nella telefonia (le istituzioni pubbliche che passano al VoIp, un protocollo digitale per telefonare via rete, risparmiano centinaia di migliaia di euro all’anno), nel rinnovamento degli apparati di illuminazione. Dai piccoli risparmi e dalle piccole razionalizzazioni si possono risparmiare milioni e non è scritto da nessuna parte che le città debbano essere sulla frontiera dell’innovazione. Mauro Annunziato La smart city non va confusa con la città ideale, È solo una delle possibili strade in cui si utilizzano le tecnologie ICT per costruire legami tra le reti urbane e le reti sociali. In tempi di crisi, e quindi partendo di solito da un’ipotesi zero, ovvero il comune non ha soldi da spendere in cose del genere, occorre legare gli interventi al ritorno economico, ovvero il payback, che è il parametro portante per attivare fondi privati e credito finanziario. Si stanno sviluppando alcuni modelli di business e alcuni sono pronti. I modelli più maturi sono quelli in cui si produce efficienza energetica che va usata per garantire un ritorno sicuro: in pratica, io risparmio energia e con questo costo che risparmio ci pago parte del debito contratto. È un ritorno sicuro che però non basta, non soddisfa l’intera “impalcatura”, ma è quello garantito, da sviluppare accanto ai servizi smart il cui ritorno è ad alto rischio perché non sperimentati prima, ma anche ad alta redditività. La combinazione delle due cose è l’arma vincente.

Le città italiane di piccole dimensioni, con popolazione inferiore agli 80 mila abitanti, risultano molto indietro nel programma smart city. Parliamo dunque di circa la metà delle città del nostro paese. Perché questa difformità d’interesse, di esigenza e di informazione?

Gianfranco Franz Si tratta di un errore nelle politiche nazionali. Nel passato si sono lanciati programmi competitivi (PRU, PRUSST, Contratti di Quartiere) diretti a tutte le città, da Milano a Enna. È un grossolano errore che dimostra il ritardo della classe dirigente, politica e tecnocratica del Paese. Che i governi e le regioni italiane non considerino come è realmente strutturato il paese non è una novità. Altrimenti non si sarebbero penalizzati in modo stolido i nostri distretti industriali, fioriti nelle costellazioni di centri piccoli e medi. Si continua a guardare alle metropoli, quando in Italia ne esistono tre: Roma, Milano e Napoli. Sarebbero necessarie delle politiche ad hoc per le città e le cittadine di questo rango e delle politiche - competitive - per i soli territori del Mezzogiorno. Nel pugilato non si fanno combattere i pesi piuma con i pesi medi e nelle corse le moto 250 non gareggiano con le 500. Il problema, in ogni caso, è nella mancanza di una informazione accessibile ai più, comprese le classi dirigenti delle piccole città, spesso non informate o scarsamente informate. Mauro Annunziato In parte è vero che esiste una dimensione minima al di sotto della quale gli interventi non si ripagano. Basti pensare che quasi tutti gli interventi di smart city richiedono la costruzione di un’infrastruttura cittadina e poi di interventi locali: mentre l’intervento locale è proporzionale al numero delle utenze che va a coprire, la situazione è diversa per l’infrastruttura cittadina, i cui costi vanno ripartiti tra il numero globale dei cittadini e quindi più sono e più si risparmia. Però non va dimenticato che esistono anche modelli diversi per le piccole città. Il progetto Lumiere, che ha promosso Enea con partner istituzionali e aziende, riguardante l’illuminazione pubblica smart, ne è un esempio. È infatti dedicato a città fra i 5mila e i 50mila abitanti. In realtà anche i progetti per le grandi città comprendono progetti più piccoli che sono dedicati ai quartieri che potrebbero avere tra i 5mila e i 10mila abitanti. Ci sono anche esempi di diversi piccoli comuni che si mettono insieme in un unico progetto. Quindi non è vero che un progetto di smart city può essere applicato solo a città grandi, semplicemente le città grandi dispongono di un budget più elevato per i progettisti. Una città piccola non può stipendiare 3-4 persone che si dedichino solo alla smart city, perciò deve ovviare usando la rete.

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Come saranno dunque le città in un futuro prossimo?

Gianfranco Franz La città esiste da 10mila anni. E continuerà a esistere perché è la nicchia ecologica dell’umanità ed è anche la più complessa e straordinaria invenzione dell’uomo insieme al linguaggio. Le città nel futuro prossimo saranno esattamente come sono sempre state: concentrazioni eccezionali di umanità, di ricchezza, di povertà, di sporcizia e di lusso, di malaffare e di genialità. Le città più ricche godranno di tutte le tecnologie più moderne, come è sempre stato nel passato, quando Venezia e Genova erano all’avanguardia rispetto alle altre città come Parigi e Madrid. Le città più marginali impoveriranno. Ogni città avrà opportunità e possibilità a seconda del capitale culturale posseduto dai propri cittadini e dal capitale culturale che saprà produrre e propagare. Ci saranno sempre, in Italia, città vivibilissime di provincia, lente e placide, dove la qualità della vita, per la maggioranza dei propri abitanti, sarà abbastanza soddisfacente. Questo è un pericolo. Chi vive troppo bene non ha stimoli per migliorare. Venezia è morta di ricchezza. Genova di ingordigia. Milano è diventata una metropoli banale e sciatta per essersi eccessivamente cullata nel mito di se stessa. Altre città sapranno innovare, migliorare, fare e raccontare qualcosa di nuovo e di rilevante non solo per se stesse. Mauro Annunziato Sono abbastanza certo che saranno città in movimento. In questo momento c’è una forte pressione pubblica verso la partecipazione. La proposta smart incontra queste richieste perché, di fatto, porterà a città più partecipate e quindi più trasparenti. La partecipazione è la base per costruire città che si adattino sempre di più al cittadino e alle sue esigenze, in modo che lui stesso ne diventi il protagonista. Bisogna affidargli più compiti, più responsabilità. Tecnologie e partecipazione devono andare insieme. La partecipazione del cittadino mette in moto meccanismi ai quali la città si adatta e quindi cambia: se l’amministrazione può capire di cosa ha bisogno un cittadino attraverso una tecnologia che mette in comunicazione diretta le due parti, ha la possibilità di riadattare i servizi rendendoli migliori. È fondamentale capire che non è la città a dover diventare smart, ma la comunità.

Far diventare smart una città aiuterà i cittadini che vivono nelle periferie ad affrontare i propri disagi e a ottenere una qualità di vita migliore?

Gianfranco Franz Papa Francesco ha parlato di recente di “periferie esistenziali”. Una definizione di straordinaria efficacia. Le periferie esistenziali spesso si concentrano nelle periferie spaziali, nei margini delle nostre città. Si sentono ragionamenti di esponenti del governo baloccarsi sul tema dei “centri storici quasi passivi”. Si tratta di un’evidente auto-referenzialità. Chi oggi governa, abita spesso nei centri storici perché appartiene alla cosiddetta upper-class. Parlare di centri storici quasi passivi è una sciocchezza priva di senso: costerebbe un’enormità, si andrebbero a toccare problemi di stile e di materiali che creerebbero non pochi problemi con le soprintendenze, e per cosa? Per migliorare un pezzo di città italiana che è stata super-ricapitalizzata negli ultimi 40 anni e dove abita una minoranza benestante della nostra società. Alle periferie nessuno pensa perché le periferie non hanno voce. Ma la città contemporanea è quasi il 70% dello spazio geografico edificato e forse anche di più in termini di volume edificato. La maggioranza della popolazione vive concentrata in questi spazi ed è la popolazione più vulnerabile ai cambiamenti di questi anni. Per questo motivo è necessario intervenire nei tessuti periferici, lasciando in pace, dal punto di vista tecnologico, i centri storici. Mauro Annunziato Credo proprio di sì, noi scommettiamo sulle smart communities, ossia modelli di comunità di quartiere in cui il cittadino diventa più connesso e più partecipativo. È proprio nelle periferie che il senso di umanità è più forte, piuttosto che nelle zone centrali delle città. Il modello più interessante di smart communities sono proprio le periferie, dove c’è più bisogno di rete. L’importante è sempre mettere le tecnologie a servizio della società e non, viceversa, tentare di vendere delle tecnologie per fare business. Potremmo pensare a un quartiere che si organizza per scambiarsi beni, per riciclare cose usate. Perché buttare la bicicletta che mio figlio ha usato solo un anno quando potrebbe servire a un altro? Il punto è che io devo sapere che serve a qualcun altro. Se io avessi a disposizione delle tecnologie che mi permettono di essere in connessione con gli altri abitanti del quartiere potrei saperlo. Così sarebbe possibile risparmiare soldi, benzina e anche risparmiare l’ambiente. È evidente che la smart city risponde a bisogni che sono già presenti, si potrebbe addirittura dire che la crisi, in un certo senso, aiuta il comportamento smart.

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SCHEDE Centro di educazione per l’infanzia, Valencia (Spagna) Progetto: Ana García Sala Il Centro de Educación para la Infancia nel Parco Tecnologico di Paterna, a Valencia, è stato progettato dall'architetto Ana García Sala per andare incontro alle nuove esigenze della comunità. Recentemente, infatti, diverse aziende hanno aperto sedi nel Parco, portando con sé numerosi lavoratori tra cui molte donne, da qui la necessità di una struttura didattica per accogliere i loro figli. Dal punto di vista funzionale, il centro di formazione è stato costruito basandosi sullo sviluppo pedagogico dei più piccoli, quindi l'edificio è suddiviso in base alle esigenze specifiche dei bambini in età diverse, ed è stato progettato considerando l'architettura come una componente emotiva nella loro educazione. Gli spazi sono studiati per stimolare la creatività e la curiosità. Il colore e il materiale sono i principali attori del progetto e le forme arrotondate sono molto attraenti: sembra siano in attesa di essere esplorate e si rapportano alle esigenze dei bambini con delicatezza e in assoluta sicurezza. Oltre alle finalità pedagogiche, Ana García Sala si è posta un secondo obiettivo, quello ecologico, cercando di creare un edificio a bassissimo impatto ambientale. La scelta della ceramica come materiale di facciata supporta questa intenzione, grazie alle caratteristiche intrinseche nel materiale e al fatto che la ceramica è un materiale a km 0, infatti viene prodotta in Spagna. Le fonti energetiche utilizzate sono quella geotermica e quella solare. Il complesso si compone di cinque blocchi cilindrici, ognuno con una diversa destinazione d’uso.

Il colore e la ceramica sono i protagonisti del progetto. Le forme rotondeggianti invitano all’esplorazione degli ambienti, privi di spigoli e in piena sicurezza per i bambini

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Małopolska Garden of Arts, Cracovia (Polonia) Progetto: Ingarden & Ewy Architects

Inaugurato alla fine del 2012, il nuovo centro culturale dedicato alle arti di Cracovia è già un’istituzione. Il Malopolska Garden of Arts, realizzato dallo studio di architettura polacco Ingarden & Ewy, sorge tra via Rajska e via Szujskiegom in un’area del 19esimo secolo che un tempo era utilizzata per le corse dei cavalli. La struttura mette in comunicazione due istituzioni: il teatro Juliusz Slowacki e la biblioteca Malopolska Voivodeship. L’ala sulla via Szujskuego ospita una biblioteca dedicata all’arte moderna, mentre la sezione dalla parte di via Rajska è stata sviluppata a partire dal teatro ed è attrezzata con una sala per ospitare eventi multifunzionali. La nuova

sala, che ospita fino a 300 persone, può essere utilizzata come teatro, sala conferenze, sala per concerti e come sede per feste o mostre e offre una tecnologia all’avanguardia. Nel complesso parliamo di uno spazio di 4300 mq che comprende un teatro e un cinema da 98 posti, una caffetteria e locali per l'organizzazione di attività didattiche. Gli architetti si sono concentrati sull’interazione con i futuri fruitori di questo edificio, motivo per cui hanno creato una simbolica copertura a cielo aperto sopra il giardino, dal lato di via Rajska, che non funziona come un tetto reale bensì come un palcoscenico sulla strada, “ammiccando” ai passanti.

In questa pagina: esterni e interni del Malopolska Garden of Arts. Il progetto ha vinto il premio polacco “Professor Janusz Bogdanowski 2012”, il premio nternazionale “Building of the year 2012” e il premio Architizer A + Awards

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SCHEDE Lenbachhaus Museum, Monaco (Germania) Progetto: Foster+Partners

Il progetto è stato commissionato allo studio Foster+Partners. Tra gli interventi realizzati, particolare attenzione è stata rivolta al ridisegno di nuovi ambienti, che includono un ristorante, una terrazza e un atrio a tutta altezza, dove gli spazi esistenti si fondono con le linee del recente intervento

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È stato inaugurato a maggio il nuovo Lenbachhaus Museum di Monaco, dove si trovano le opere dei maggiori pittori di Monaco di Baviera degli ultimi due secoli. Tra i più importanti ci sono Lovis Corinth e Slevogt, esponenti della Secessione e dello Jugendstil. Ampio spazio è dedicato al movimento bavarese Der Blaue Reiter e ai suoi maestri Kandinskij, Klee e Franz Marc. L’edificio fu costruito nel 1891 come studio e villa dell’artista Franz von Lenbach e fu aperto al pubblico nel 1929. Il museo ha riaperto quest’anno dopo un’attenta ristrutturazione a opera dello studio Foster + Partners durata quattro anni. Gli architetti hanno ridefinito la circolazione all’interno del museo, trasformando una complessa sequenza di spazi dedicati a periodi diversi, in un unico e leggibile spazio espositivo. È stata aggiunta una nuova ala, pensata come fosse uno scrigno destinato a contenere i tesori del museo, coperta da tubi di un metallo che contiene rame e alluminio, di un colore che si adatta all’ocra del resto della villa. Gli architetti della Foster + Partners hanno pensato a una nuova entrata e a nuovi spazi comuni: un ristorante, una terrazza e un atrio a tutta altezza. Proprio nell’atrio si trova una nuova installazione realizzata dall’artista Olafur Eliasson. Si chiama Wirbrlwerk ed è una specie di vortice di vetro multicolore che riflette i raggi del sole sulle pareti, creando affascinanti giochi di luce. Per migliorare le prestazioni energeticoambientali sono stati realizzati un impianto di riscaldamento a base d’acqua, che consuma meno energia rispetto a quello a base d’aria, e un sistema di raccolta di acqua piovana che in questo modo viene riciclata. Inoltre è stato studiato un nuovo sistema di illuminazione basato sulla tecnologia LED realizzato da OSRAM.


Wanangkura Stadium, Port Hedland (Australia) Progetto: ARM Architecture - Foto: Peter Bennetts

Il Wanangkura Stadium è il nuovo centro ricreativo polifunzionale di Port Hedland, una città nell’Australia occidentale, progettato da ARM Architecture. Il nome per il centro è stato scelto tra centinaia di proposte raccolte in loco e significa “vortice” nella lingua Kariyarra locale. Il nome rende omaggio al design del centro, che l’architetto Sophie Cleland ha paragonato a una “realizzazione ciclonica”: un effetto “scintillante e ondeggiante su un paesaggio altrimenti piatto”. La struttura sorge su un'area di 4500 mq e comprende campi da gioco all'aperto e un parco paesaggistico. Ha una hall principale che ospita un campo da basket, uno da netball, due da pallavolo, uno da calcetto, due da mini basket e quattro da mini badminton, con posti a sedere fissi e retrattili che possono ospitare fino a 404 persone. La struttura comprende anche un asilo nido, una palestra, due campi da squash, aree amministrative, bar e sale riunioni. Gli architetti si sono approcciati alla progettazione di questo edificio pensandolo come un “miraggio” nel paesaggio semi-desertico di Port Hedland e hanno realizzato la facciata componendola di pixel blu, cosa che consente, pur dando all’edificio contorni frastagliati, di averne un’immagine ben definita anche da una grande distanza. Gli architetti hanno trattato il tetto come se fosse un’altra facciata e hanno voluto rendere omaggio alla squadra locale di football, caratterizzandolo con strisce giganti bianche e nere, i colori del team.

Il Wanangkura Stadium si presenta con un grande impatto visivo, sia per la facciata che sembra composta da pixel sia per i colori sgargianti che vanno dal blu elettrico all’arancio AVI architetti 101


SCHEDE Taiyuan Museum of Art, Taiyuan (Cina) Progetto: Preston Scott Cohen Progettato dallo studio americano Preston Scott Cohen, il Museo d’Arte di Taiyuan si presenta come un insieme di edifici uniti da percorsi continui e discontinui all’interno e all’esterno. I visitatori vengono incoraggiati ad attraversare il complesso dell’edificio senza necessariamente entrare nel museo stesso. Una rampa esterna si insinua attraverso il museo collegandolo a paesaggi eterogenei, prati e giardini di sculture. L’integrazione dell’edificio e del paesaggio si registra su diverse scale, dall’enormità dell’adiacente fiume Fen all’intimità dei particolari ritagli spaziali propri del museo. All’interno la sicurezza del museo è mantenuta da un’interfaccia altamente controllata tra la galleria e quello che non riguarda l’esposizione, tra cui un auditorium, la libreria, il ristorante, la biblioteca, il centro educativo e un’ala amministrativa. Il posizionamento dei singoli ascensori e i punti principali di attività sono distribuiti in modo da garantire facile accesso e una buona distinzione fra le zone con diverse funzioni e diversi regolamenti. Al livello del garage i servizi sono pianificati in maniera complessa allo scopo di non interferire con gli spazi dedicati al parcheggio. Le gallerie del museo assicurano la massima flessibilità espositiva e curatoriale. Possono essere organizzate in un’unica sequenza a spirale per esposizioni di ampio respiro cronologico o come settori autonomi operanti indipendentemente. Il posizionamento di rampe e portali e l’espansione e contrazione degli spazi sono segnali architettonici che intendono offrire al visitatore la libertà di trovare la propria strada. L’organizzazione dell’edificio, infatti, lo lascia libero di seguire una sequenza cronologica precisa oppure di passare da una galleria all’altra in maniera non lineare. I pannelli esterni fatti a nido d’ape e con una impiallacciatura di pietra producono un effetto materico allusivo ed evocativo, dando l’idea di una struttura di misura eccezionale. I pannelli, infatti, sono riflettenti come se fossero di metallo: apparentemente troppo grandi per essere fatti di pietra, posseggono chiaramente le proprietà di entrambi i materiali. Software parametrici hanno permesso che fossero conformi agli standard dimensionali riducendo lo spreco di materiale.

Per l’esterno del museo sono stati utilizzati pannelli alveolari leggeri, realizzati su misura e con una verniciatura che riproduce l’aspetto della pietra. Si ottiene così un effetto materico evocativo 102 AVI architetti


Cultural Center Plassen, Molde (Norvegia) Progetto: 3XN

Ogni anno a luglio le più grandi star del jazz si ritrovano a Molde, piccola cittadina norvegese di 25mila abitanti, che organizza oramai da anni un famoso festival internazionale, il Molde Jazz Festival. Ed è per questo evento che l’amministrazione ha chiesto allo studio danese 3XN di progettare il Cultural Center Plassen. “Plassen” nella lingua norvegese significa quadrato, spazio. L’edificio, infatti, visto dall’alto, nel suo insieme, potrebbe sembrare un quadrato con qualche angolo smussato; un grande foglio piegato in più punti che acquisisce la tridimensionalità sfruttando la spinta stessa delle pieghe. La copertura, con funzione di piazza, è una liaison tra le parti, e lo è attraverso la lunga, doppia e ampia scala che giunge a quota zero creando un continuum tra i

diversi livelli. La composizione degli ambienti crea l'illusione che gli spazi interni e quelli esterni siano un tutt’uno. Suggestione rinforzata dalle superfici vetrate dell’edificio che lasciano entrare molta luce naturale. L’altezza complessiva è di soli tre piani ed è al loro interno che sono stati organizzati il “Teatret Vårt”, gli spazi per “Il Bjørnson Festival” e gli ambienti per il Festival Internazionale del Jazz. La struttura è sobria anche per la scelta dei materiali adottati. La selezione è ricaduta sulla pietra locale, il granito chiaro, adoperato sulle pareti così come sui pavimenti. Un’uniformità materica che ha creato nell’insieme un’atmosfera calma e tranquilla. Plassen non è solo un centro culturale, è anche un elemento urbanistico di collegamento tra la parte alta e quella bassa della città.

La copertura del centro culturale ha funzione di piazza. È il luogo adatto dove trascorrere piacevoli giornate e ascoltare parte degli spettacoli che vengono rappresentati durante il Molde Jazz Festival

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