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"Poste Italiane Spa - spedizione in abbonamento postale D.L.353/2003 (conv. in L. 27/02/04 n° 46) art.1 comma.1 - CN/BO”

RIVISTA DELL’ORDINE DEGLI ARCHITETTI, PIANIFICATORI, PAESAGGISTI E CONSERVATORI DI BOLOGNA

La Copenhagen Opera House di Henning Larsen. Intervista ad Alberto Campo Baeza A Strasburgo lo Zenith dello Studio Fuksas. Bologna dedica una mostra a Dino Gavina








DESIGN + Iscritta con l’autorizzazione del Tribunale di Bologna al numero 7947 del 17 aprile 2009

STUDIO - PRODUZIONE DIVANI E POLTRONE Direttore Editoriale Alessandro Marata Direttore Responsabile Maurizio Costanzo Caporedattore Iole Costanzo Coordinamento di Redazione Cristiana Zappoli Art Director Laura Lebro Redazione Alessio Aymone, Emiliano Barbieri, Nullo Bellodi, Federica Benatti, Mercedes Caleffi, Giuliano Cirillo, Edmea Collina, Biagio Costanzo, Mattia Curcio, Silvia Di Persio, Antonio Gentili, Piergiorgio Giannelli, Andrea Giuliani, Giulia Manfredini, Stefano Pantaleoni, Luca Parmeggiani, Alberto Piancastelli, Duccio Pierazzi, Nilde Pratello, Claudia Rossi, Clorinda Tafuri, Luciano Tellarini, Carlo Vinciguerra, Gianfranco Virardi, Gabriele Zanarini Hanno collaborato Manuela Garbarino, Marilena Giarmanà, Emilia Milazzo, Marco Zappia Stampa Cantelli Rotoweb - Castel Maggiore (Bo) www.cantelli.net

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Via F. Argelati, 19 - 40138 Bologna Tel. 051.343060 - www.koreedizioni.it In copertina: foto di Giacomo Costa



CONTENUTI

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32 Leone d’Oro a Rem Koolhaas Venezia premia Rem Koolhaas, per la sua ricerca tra l’uomo e lo spazio

41 Premiato Alberto Alessi Abitare il Tempo premia il numero uno dello storico marchio italiano

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Federico Oliva

Nuovo Museo di Anversa

L’assenza di un’efficace pianificazione urbanistica rende le nostre città poco vivibili e disordinate

È una torre alta 60 metri, formata da dieci grandi blocchi di pietra naturale

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A. Mottola Molfino

Un campus a San Giorgio

Italia Nostra è sempre più impegnata nella difesa del patrimonio storico e culturale

Restaurato l’edificio dell’architetto Vietti sull’Isola di San Giorgio Maggiore a Venezia

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Maria G. Gimma

Arredamenti di cartone

È importante che lo Stato riconosca la professionalità dei restauratori

Il cartone ondulato, materiale molto resistente oltre che versatile


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CONTENUTI

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Un monumento vegetale a Bergamo

Mostra su Dino Gavina

Abete, castagno, faggio: materiali usati per la costruzione della cattedrale

Un viaggio nella vita creativa di Dino Gavina. L’imprenditore che seppe valorizzare importanti talenti

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50 Copenhagen Opera House È considerato uno tra i più moderni teatri d’opera al mondo

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Royal Danish Playhouse

Auditorium “Oscar Niemeyer”

Zenith di Strasburgo

A Ravello il suggestivo e tanto discusso progetto di Oscar Niemeyer

Di colore arancione la struttura che somiglia a una lanterna in carta di riso

Una grandissima struttura dagli spazi aperti e caratterizzati da ampie vetrate

60 Central Concert Hall Kazakhstan L’edificio dello studio Nicoletti è stato pensato come una Piazza-Foyer

62 Winspear Opera House Un sinuoso volume rosso lucido con una pianta a ferro di cavallo

69 Norwegian Opera House Caratterizzato dall’interconnessione tra identità formale, paesaggio e natura

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Alberto Campo Baeza

Giacomo Costa

L’importanza dei concetti di luce e gravità, spazio e tempo secondo l’architetto spagnolo

Fotografie create con l’uso di complicati software


Quando il linguaggio armonico della forma incontra la tecnologia al servizio del confort

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EDITORIALE

OPERATORI DELL’EDILIZIA

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a professione dell’architetto, negli ultimi anni, ha subito molti cambiamenti. Si può dire che è diventato, per molti professionisti, un altro mestiere. Alcuni di questi mutamenti riguardano in modo specifico il lavoro dell’architetto. Certuni, invece, sono comuni alle altre professioni tecniche. In alcuni casi si è trattato di trasformazioni più graduali, in altri di repentine modificazioni e le cause possono essere individuate in diversi ambiti: l’università, la committenza, gli enti pubblici, il mondo imprenditoriale, la normativa, l’informazione, la globalizzazione, la politica. Molti gravi problemi sono insiti e connaturati al contesto culturale, amministrativo, tecnico e politico dell’attuale assetto della società italiana degli ultimi decenni. I primi si incontrano con l’università. La selezione qualitativa che potrebbe, o meglio dovrebbe, esserci prima e durante gli anni degli studi, non sempre si realizza. Si assiste quindi ad un progressivo livellamento verso il basso della qualità media. L’accesso al mondo del lavoro, una volta conseguita la laurea in architettura, è già, di per sé, un trauma. Non tanto a causa del superamento dell’esame di stato. Il trauma, se così vogliamo chiamarlo, è che il novello architetto si trova, senza capirne il motivo, a fare lo stesso mestiere di suoi coetanei che hanno seguito un diverso corso di studi. Difficile far capire ad un entusiasta giovane architetto, ed impossibile sperare che uno straniero lo possa comprendere, che la maggior parte delle sue competenze professionali può essere svolta anche da un diplomato, geometra o perito, oppure da un ingegnere. Se fino ad oggi il travaso delle competenze si è verificato prevalentemente a senso unico, oggi, in periodo di crisi economica, non è più così. Sempre di più gli architetti sono costretti a fare lavori di competenza non strettamente propria, nella prassi attribuibili a livelli di studio inferiori. Questo travaso ha quindi segno positivo per quanto riguarda i diplomati, che vedono ampliate le loro competenze professionali verso l’alto, ma ha segno negativo per i laureati che, con la restrizione del loro ambito di lavoro, sono costretti ad accontentarsi di attività poco pertinenti al corso di studi svolto. Il problema del cosiddetto riordino delle competenze è, da decenni, oggetto di molteplici e diversificate proposte di legge che però, e non difficile immaginarne le cause, non giungono mai a compimento. I giovani architetti sono quindi costretti, per motivi economici, a dedicarsi ad attività edilizie prima riservate ad altre categorie; di conseguenza, sempre più raramente possono esercitare le loro conoscenze progettuali, derivanti dallo studio universitario, perché il mercato non glielo consente. Il corso di studio dell’architettura, tra l’altro, è uno dei pochi che si può considerare equamente suddiviso tra la parte scientifica e quella umanistica. L’architetto deve essere sia artista sia tecnico. Allo stato attuale si può affermare che, per varie ragioni, l’Italia è un

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ARCHITETTI

grande produttore di professionisti per l’edilizia, ma un piccolo produttore di architetti. Professionisti che si devono districare tra l’elevatissimo numero di leggi, decreti, norme tecniche e regolamenti, non di rado in contraddizione tra loro e quindi soggetti ad interpretazione. Ciò comporta l’aumento vertiginoso delle probabilità per il progettista di rimanere coinvolto in contenziosi con le pubbliche amministrazioni e con i committenti. Si può sicuramente affermare che la situazione normativa, per quanto riguarda il settore dell’edilizia e del controllo del territorio e dell’ambiente, sia caratterizzata da una elevatissima quantità di leggi. In questa babele legislativa si trovano leggi obsolete, normative contrastanti, circolari applicative con regole di difficile se non impossibile applicazione. Per il progettista, l’imprenditore, l’investitore ciò rappresenta un grande ostacolo alla dinamica del mercato edilizio. Il concetto amministrativo dell’autocertificazione, che si sta sempre più diffondendo nel nostro paese, credo sia, in teoria, un fatto positivo. Nella pratica, invece, a causa della interpretabilità delle norme, è molto negativo. Tutti i progettisti seri e capaci sono, sempre in teoria, favorevoli a queste procedure, ma spesso l’autocertificazione si trasforma in una spada di Damocle che non sai quando ti cadrà in testa, ma della quale hai il ragionevole sospetto che molto probabilmente, prima o poi, cadrà. Per concludere possiamo dire che le attività professionali che può svolgere oggi un architetto sono così numerose e diversificate che difficilmente anche un giovane si trova in condizione di disoccupazione. Ma è molto facile che si trovi in condizione di sottoccupazione e di grande sofferenza, sia economica che di soddisfazione. Gli studi piccoli, che rappresentano, al contrario che nel resto del mondo, la maggioranza delle cosiddette partita iva, fanno molto fatica a restare aperti e quelli di maggiori dimensioni si ridimensionano, chi più chi meno, tutti. È difficile riuscire a prevedere quello che accadrà agli architetti nei prossimi anni, anche a causa dei repentini cambiamenti del mercato. Come lo spazzino adesso si chiama operatore ecologico, magari gli architetti si potranno chiamare operatori edili. La mia natura ottimista e positiva mi porta a sperare che, attraverso possibili miglioramenti del quadro normativo, probabili trasformazioni in ambito universitario ed auspicabili riprese del mercato economico e finanziario, il mestiere dell’architetto ritorni ad riconquistare le caratteristiche che ha avuto per millenni e che sono proprie degli studi che ancora oggi si compiono. Al momento questa riconquista sembra molto lontana, irraggiungibile, ma la speranza, si sa, è sempre l’ultima a morire.

Alessandro Marata

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PENSIERI.GLOBALI

Federico Oliva

«La cattiva qualità delle città deriva dall’assenza di una pianificazione efficace, non solo per gli insediamenti, ma anche per le infrastrutture, i servizi e il verde» L

L’INU, l’Istituto Nazionale di Urbanistica, come si rapporta oggi con la crisi degli strumenti di pianificazione?

L’INU ha sempre sostenuto la scelta del piano come strumento fondamentale, anche se non il solo, di governo del territorio e continua a pensare che un approccio in termini di piano sia indispensabile per affrontare i temi attuali della trasformazione urbana e, ancor di più, quelli delle metropolizzazione del territorio. Naturalmente, quando parliamo di piano, non ci riferiamo più al vecchio modello regolativo, ormai del tutto inefficace, ma al nuovo modello strutturale che abbiamo proposto sin dal 1995 come elemento centrale della riforma urbanistica e che diverse Regioni hanno già adottato, anche se non sempre in modo coerente all’impostazione iniziale.

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Oggi come si contribuisce a progettare il futuro?

Il futuro delle città e del territorio è fatto di infrastrutture, soprattutto per la mobilità (sostenibile), e di ambiente: questi devono essere i contenuti fondamentali dei piani. Per il sistema insediativo si pone un problema di generale riqualificazione, sia dell’edilizia esistente (pensiamo alle problematiche energetiche), sia dello spazio pubblico.

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Attualmente l’attenzione sembra posta sulla conservazione dell’esistente, anche se non di grande valore storico. Questo è la conseguenza di un profondo cambiamento sociale?

È la conseguenza di un profondo cambiamento sociale e culturale; sociale perché la diffusione della proprietà della casa in Italia ha raggiunto i livelli più alti d’Europa; culturale perché l’attenzione all’esistente fa ormai parte della nostra cultura comune. Ho partecipato recentemente al convegno promosso da ANCSA (l’Associazione che si occupa del Centri Storici) per i 50 anni della “carta di Gubbio”: lì si è potuto misurare concretamente qual è stata l’evoluzione radicale del Paese rispetto al tema della conservazione, che oggi è diventato addirittura un orientamento comune dell’opinione pubblica.

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Quali sono le innovazioni introdotte nella forma dei piani di ultima generazione?

L’innovazione principale riguarda la separazione del piano comunale in due componenti: strutturale e operativa. La prima è solo programmatica, cioè non conformativa dei diritti edificatori e recepisce solo i vincoli ricognitivi, cioè quelli derivanti da norme di legge nazionali e regionali; la seconda, la componente operativa, è invece conformativa e prescrittiva, riguarda le trasformazioni urbane e territoriali per nuovi insediamenti, infrastrutture e servizi ma dura solo 5 anni, sia per quanto riguarda i vincoli espropriativi, che com’è noto decadono per legge dopo 5 anni, sia per quanto riguarda le destinazioni private, anch’esse devono quindi decadere dopo 5 anni se non messe in attuazione. A questa fondamentale innovazione se ne aggiungono altre due: la sostituzione dell’esproprio con la perequazione e la compensazione urbanistica per acquisire le aree pubbliche e l’allargamento del piano dalla scala comunale a quella più vasta.

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Quali altre forme di pianificazione e/o programmazione sono state promosse dalla legislazione nazionale?

Lo Stato, dopo la riforma del Titolo V della Costituzione (2001) non ha più competenze in materia di pianificazione, tutte passate alle Regioni. Il Parlamento dovrebbe approvare solo la legge sui “principi fondamentali del governo del territorio”, indispensabile per omogeneizzare e rafforzare le leggi regionali, pur lasciando ad esse la massima autonomia e specificità territoriale.

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Nell’ultimo libro, “Città senza cultura”, scritto insieme Campo Venuti, si testimonia il prevalere in Italia del disordine e del brutto. Cosa ha determinato tutto questo?

“Brutto” e “bello” non sono utilizzati in senso estetico, ma per esprimere l’efficienza e la qualità delle nostre città. La cattiva qualità è la conseguenza dell’assenza di una pianificazione efficace, non solo per gli insediamenti, ma anche per le infrastrutture, i servizi, il verde, gli spazi aperti. (di Gianfranco Virardi)

Federico Oliva, professore ordinario di Urbanistica presso la Facoltà di Architettura “Leonardo” del Politecnico di Milano e Presidente dell’Istituto Nazionale di Urbanistica. È autore di numerose pubblicazioni, tra cui: La riforma urbanistica in Italia, Pirola, Il Sole 24 ore, Milano 1996; Progettazione urbanistica - materiali e riferimenti per la costruzione del piano, Maggioli Editore, Rimini 2002; L’urbanistica di Milano - quel che resta dei piani urbanistici nella crescita e nella trasformazione della città, Hoepli, Milano 2002.

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PENSIERI.GLOBALI

Alessandra Mottola Molfino

«Bisogna comprendere la necessità di recuperare e restaurare il costruito. E smettere di considerare l'investimento in edilizia come l'unico possibile»

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Un argomento molto in voga attualmente tra gli amministratori delle città italiane è la demolizione e la ricostruzione di porzioni di periferie. Con il pretesto della tutela del suolo, c’è il rischio di incentivare la speculazione edilizia. Quali suggerimenti possono venire da Italia Nostra?

Italia Nostra chiede a tutte le pubbliche amministrazioni, alle imprese private, ai professionisti, ai cittadini tutti, di cessare ogni consumo indiscriminato di suolo. Se si vuole salvare l'inestimabile patrimonio storico e culturale del Paese; se si vuole preservare, per gli italiani e per i visitatori futuri dell'Italia, un’accettabile qualità della vita. Bisogna smettere di produrre nuovo cemento e accumulare altri mattoni. Gli italiani devono smettere di considerare l'investimento in edilizia come l'unico possibile, deprivando di capitali anche altri settori della produzione industriale e del lavoro. Le periferie si possono risanare e migliorare non con massicci interventi di demolizione e ricostruzione, ma con interventi leggeri di microchirurgia e di inserimento di funzioni pregiate e di opere di utilità collettiva.

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Durante un periodo di recessione economica il delicato rapporto esistente tra architettura, città, arte e economia si modifica. Quanto saranno segnate dall’attuale crisi le nostre città?

Molto presto le grandi città, che sono già caotiche e invivibili, diventeranno insostenibili. Nel senso che nessuno avrà più i soldi per mantenere seconde, terze case e per dare servizi alle immense estensioni murate delle periferie. Se si continua a costruire intorno alle città, mangiando il territorio agricolo, i centri storici delle città grandi rischiano l'abbandono o la trasformazione in centri commerciali. Da Napoli e da altre grandi città come Roma e Milano e dalle loro enormi periferie è già iniziata la fuga. Spesso in favore dei centri più piccoli, storicamente, esteticamente e umanamente vivibili. Perfino certi piccoli paesi storici stanno recuperando abitanti e riescono a fare bilanci in pareggio, collegando servizi in rete tra loro. Sono già noti alcuni casi emblematici di molte piccole città della Toscana, dell'Umbria, delle Marche, della Calabria. Parliamo di comuni virtuosi come Cassinetta di Lugagnano, Soveria Mannelli, Alice Superiore (TO), Cortina, ma anche della Provincia di Trento, dove è stato fermato il consumo di suolo

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Italia Nostra ha denunciato i pericoli connessi all’adozione della S.C.I.A., segnalazione certificata di inizio attività, che rischia di avvalorare una deregulation edilizia. Quanto sarà difficile salvaguardare il patrimonio artistico e ambientale se l’amministrazione pubblica potrà intervenire solo dopo 60 giorni dall’inizio dei lavori e solo in presenza di un pericolo di danno grave e irreparabile?

Giusto e logico voler semplificare le procedure, ma la SCIA toglie certezza agli operatori onesti che iniziano un’attività edilizia senza vere autorizzazioni e rischiano un grave danno economico e un contenzioso se si scopre, solo a posteriori, qualche valida ragione che la vietava. La tutela, come prevista dalla Costituzione, è decisamente a rischio, con la volontà espressa dal MiBAC di tagliare il personale, di non potenziare uffici per i controlli e perfino con il divieto di muoversi con i propri mezzi sul territorio. Le soprintendenze sono già alle prese con l'abolizione della DIA sulle opere interne che potrebbero essere devastanti e con la semplificazione per gli interventi di lieve entità anche sui paesaggi vincolati. Incombono poi gli accatastamenti di case fantasma che prefigurano una sanatoria dell'abusivismo. La mancanza di piani paesaggistici in attuazione della legge Galasso da parte di molte regioni rende inapplicabile la tutela. Anche i parchi non hanno più mezzi per evitare l'assalto. Tutte insieme queste “semplificazioni “ portano al paesaggio italiano un colpo mortale. Noi proponiamo maggiori servizi di assistenza tecnica ai comuni da parte delle regioni e un più forte coinvolgimento delle associazioni per la tutela.

Alessandra Mottola Molfino è una storica dell'Arte. Dal 1973 al 1998 ha diretto il Museo Poldi Pezzoli. Dal 1998 al 2006 è stata direttore centrale della Cultura e Musei, Sport e Tempo Libero del Comune di Milano. Tra le attività svolte, è stata curatrice di numerose mostre, docente in corsi e seminari di museologia e autrice di numerose pubblicazioni. In particolare si occupa di museologia e collezionismo, storia della cultura materiale e storia della moda. È Presidente nazionale di Italia Nostra dal settembre 2009.

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Tristi esperienze come quella subita dalla città de L’Aquila hanno evidenziato che la Protezione Civile può indebolire e privare il Ministero per i Beni Culturali dalle proprie competenze. Associazioni come Italia Nostra come si impegnano in questo senso?

Su tutti i livelli: con l'educazione al patrimonio, con le segnalazioni alle Soprintendenze e alle Regioni da parte delle nostre centinaia e centinaia di sezioni, con un osservatorio nazionale sui piani paesaggistici, con i ricorsi alla giustizia amministrativa e penale, con gli interventi nelle commissioni parlamentari e con un gran numero di parlamentari sensibili al tema della tutela e del rispetto dell'art. 9 della Costituzione. E soprattutto, come è avvenuto all'Aquila, con i sostegno al MiBAC e ai suoi uffici periferici perché possano svolgere il compito di tutela loro affidato sempre dalla Costituzione. In Abruzzo invece il governo ha dato anche la tutela del patrimonio culturale nelle mani della Protezione Civile, con il risultato che i centri storici dopo un anno e mezzo sono ancora in macerie. Noi sosteniamo la soprintendenza di Ragusa e l'assessore regionale che vogliono coraggiosamente attuare un piano paesaggistico che protegga il meraviglioso paesaggio degli Iblei e li difendiamo dagli insulti di imprenditori e speculatori senza scrupoli.

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Nell’editoriale pubblicato su Italianostra.org lei scrive: “Fare di questi nostri beni culturali e identitari una merce da sfruttare è una forma di lenocinio che intacca gravemente la nostra vita umana e spirituale”. Quanto è veramente in pericolo il nostro patrimonio?

Il nostro unico e immenso patrimonio culturale e naturale, che è la più grande ricchezza di questo Paese, è sempre più attaccato: dalla speculazione criminale, dalla politica mercantile, dall'indifferenza spesso colpevole delle persone oneste. Italia Nostra cerca di dimostrare con attività educative, con interventi pubblici puntuali sul nostro sito e sul nostro Bollettino, con convegni e campagne di tutela come quelle annuali sui “paesaggi sensibili”, che il patrimonio culturale non è risorsa da spendere, o da sprecare e distruggere; ma è l'unico vero capitale sul quale possiamo contare per far rinascere il Paese.

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Lei ha dichiarato:”Esprimo la mia più grande soddisfazione per la mancata approvazione alla Camera del decreto legge N°62 del 2010 relativo alla sospensione delle sentenze di demolizione degli immobili abusivi in Campania”. Gli abusi edilizi sono una vera e propria piaga del territorio italiano. Cosa si può fare perché ci sia da parte di tutti i cittadini, compresi i politici, una maggiore coscienza pubblica?

Educazione, sempre più educazione e comunicazione. La stampa e i media possono svolgere un ruolo ancora più importante nel dar voce ai cittadini onesti e alle loro associazioni. Italia Nostra, con un grande convengo sul consumo di suolo e sull'urbanistica vuole affermare che oggi bisogna che l'opinione pubblica riconosca la necessità di recuperare e restaurare il costruito. I cittadini devono sapere che per la loro qualità di vita e per la loro salute non si devono più finanziare le speculazioni e autorizzare o sanare gli abusi: ma, invece, finanziare il recupero dei centri storici e delle prime case; progettare il territorio in modo unitario, manutenere i terreni e i corsi d'acqua per evitare il dissesto idrogeologico. Ischia, Ponza, gran parte della Calabria e della Sicilia, ma anche le montagne delle regioni del nord, stanno franando: occorrono investimenti continuativi per almeno 1 miliardo all'anno. Sono investimenti che daranno lavoro e ricchezza.

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Il rispetto del patrimonio ambientale e l’uso del territorio per la produzione di energia alternativa. Qual è la strada per una giusta politica di gestione del territorio?

Italia Nostra considera le fonti rinnovabili un'opportunità per il Paese. Va posta tuttavia la massima attenzione anche su questi impianti, affinché non abbiano conseguenze rilevanti sul paesaggio, sull’ambiente e sulla salute senza mai trascurare il rapporto costi/benefici della singola iniziativa. Anziché meccanismi premiali che storicamente in Italia si rivelano volano per speculazioni criminali e forme di rendita parassitaria, meglio sarebbe mettere in atto meccanismi economici disincentivanti sulle fonti più impattanti. L’eolico è un sistema strutturalmente inadatto in un Paese in cui il vento è modesto. Inoltre l'eolico - come il fotovoltaico nei terreni agricoli - consuma una grande quantità di territorio. Tali impianti presuppongono infatti una rete stradale per il trasporto delle turbine e dei piloni, in un territorio geologicamente fragilissimo come quello italiano, in aree ad alta vulnerabilità ambientale e paesaggistica, come in Sicilia, Calabria, Toscana, Sardegna, il traffico di migliaia di autotreni, linee elettriche per centinaia di chilometri, e altri interventi invasivi. Un impianto base formato da 10 torri “consuma” circa 20 ettari (2 ettari a torre). Tali impianti, come tutti quelli da fonti rinnovabili, si sottraggono a una pianificazione territoriale. Per quanto riguarda la produzione di energia solare: vengono incentivate coperture di terreni con vaste estensioni di pannelli, che finiscono con l’alterare il paesaggio ed erodere preziosi suoli agricoli. Per questo motivo Italia Nostra invita le autorità a vietare l'uso di pannelli su qualsiasi superficie pregiata, nei centri storici, sui tetti degli edifici tutelati o in zone a vincolo, su terreni agricoli o comunque di rilevanza paesaggistica, mentre si potrebbe approfondire l’utilizzo di pannelli solari fotovoltaici integrati lungo le infrastrutture (autostrade, ferrovie, ecc.), o ancora di imporli sulle coperture degli edifici industriali, come risanamento di tetti in eternit, con frangisole nei parcheggi, ecc. Per questo Italia Nostra chiede con forza una immediata moratoria sulla installazione delle pale eoliche e dei pannelli solari. (di Gianfranco Virardi)

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PENSIERI.GLOBALI

Maria Giuseppina Gimma

«In Italia sono tanti i giovani che decidono di specializzarsi in restauro. Lo Stato investe sulla loro formazione, e poi non ne riconosce la professionalità» L

Quanta discrezionalità esiste in una operazione di restauro?

Non esistono leggi precise su come deve essere fatto un intervento di restauro. Ci sono diverse scuole di pensiero, questo sì. E poi ci sono le carte del restauro, per esempio la Carta d’Atene del 1931 o la Carta di Venezia del 1964 o, ancora, la più recente Carta del restauro del Ministero della Pubblica Istruzione del 1972, dove sono indicate regole dal punto di vista scientifico, che sicuramente bisogna conoscere. Per il resto c’è la discrezionalità di chi opera sull’edificio o sul monumento.

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Perché si parla del restauro del moderno e non di conservazione del moderno?

Il termine restauro viene usato principalmente dalla scuola romana, a cui io appartengo. Vuol dire riportare allo stato pristino un monumento, un edificio arrivato a una condizione di degrado tale che è necessario un intervento per riportarlo com’era. Bisogna intervenire per tramandarlo ai posteri. Questo indipendentemente dal fatto che sia antico o moderno. Nella scuola di pensiero milanese si usa di più la parola conservazione. In realtà i termini cambiano ma gli interventi sono molto simili.

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Il restauro del moderno è diventato in questi ultimi anni un tema centrale del dibattito architettonico. Cosa lo diversifica maggiormente dal restauro classico?

Il dibattito sul restauro moderno non è un dibattito recente. Il problema in questo caso è che abbiamo a che fare con materiali nuovi di cui non conosciamo a fondo le diverse reazioni. Conosciamo molto meglio come reagiscono le murature costruite con materiali tradizionali. Il moderno, invece, lo viviamo giorno per giorno. Inoltre c’è anche da considerare che, pur essendo migliorati i materiali, molto spesso accade che la lavorazione e l’applicazione non sono fatte a regola d’arte e presentano diversi problemi. Per quanto riguarda l’intervento del restauratore non c’è nulla di diverso rispetto all’antico. Anche quando si interviene sul moderno si interviene su qualcosa che in qualche modo è già passato.

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Il progetto di restauro di un’architettura è sempre un’opera “invisibile”?

Quando si interviene su un monumento per restaurarlo l’architetto deve essere così umile da non lasciare la sua impronta. Ed è una cosa difficilissima. Alcuni sostengono, invece, che si debba lasciare un’impronta del proprio lavoro perché nel corso dei secoli è sempre successo e noi adesso riconosciamo i vari interventi nelle diverse epoche. Io credo che non sia così. Se noi italiani abbiamo il primato sul restauro è anche perché siamo capaci di intervenire senza lasciare segni visibili.

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Quanto il progetto di restauro deve tenere presente il nuovo uso dell’edificio?

La prima cosa da individuare prima di cominciare a lavorare su un edificio è la sua vocazione d’uso. Non posso decidere all’ultimo momento di inserire una biblioteca in un edificio che sto restaurando perché probabilmente quell’edificio non avrà la struttura per sostenerla. Il progetto di restauro sul patrimonio esistente deve essere finalizzato a quella che è la vocazione dell’edificio.

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È importante nel suo lavoro seguire studi specifici per specializzarci?

In Italia si parla sempre di specializzazioni ma non si tiene conto che di specializzati ce ne sono tanti ma non vengono utilizzati. Lo Stato li prepara, investe sulla loro formazione, e poi non ne riconosce la professionalità. Sono quattro le scuole di architettura italiane che rilasciano la Specializzazione in Restauro dei Monumenti: quella di Roma, Napoli, Milano e Genova. Sarebbe importante che il mondo politico capisse che è bene affidarsi a persone qualificate.

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Qual è la situazione italiana, per quanto concerne il restauro del moderno o del contemporaneo, nell’ambito del dibattito internazionale?

La situazione italiana nell’ambito del restauro del moderno e del contemporaneo gode di ottima salute. Lo stesso Ministero preposto gli sta dando molta importanza. Quando si parla di beni culturali tutti pensano all’antico ma non c’è solo quello. E a livello internazionale siamo sempre i primi. (di Cristiana Zappoli)

Nata a Cerignola in provincia di Foggia, l’architetto Maria Giuseppina Gimma è vicepresidente di ASSORESTAURO, Associazione Italiana per il Restauro architettonico, artistico, urbano, e socio fondatore nel 1985 ed attuale Presidente dell’ANIASPER, Associazione Nazionale fra Ingegneri, Archeologi e Architetti Specialisti per lo Studio e il Restauro dei Monumenti. Dirige inoltre la rivista “Beni Culturali - Tutela, valorizzazione, attività culturali, architettura contemporanea e bioarchitettura”, nonché diverse collane sui beni culturali.

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Foto di Sarah Blee

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UN’ENORME SCALA A CHIOCCIOLA Aprirà al pubblico nella primavera del 2011 il Museo etnografico, antropologico e marittimo Aan de Stroom (MAS), ad Anversa, in Belgio. Il museo è un progetto dello studio di architettura Neutelings Riedijk Architects di Rotterdam, e si trova nel cuore del distretto di Anversa chiamato Eilandje. Il MAS è una torre alta 60 metri, formata da dieci grandi blocchi di pietra naturale che vogliono rappresentare il peso della storia e che al loro interno ospitano oggetti che le generazioni passate si sono lasciate alle spalle. I dieci blocchi sono ruotati di 90° ad ogni pia-

no, in modo da disegnare un’enorme scala a chiocciola, e si alternano con pareti di vetro ondulato che concedono ai visitatori di godere della splendida vista. In cima alla torre trovano spazio un ristorante, una sala ricevimento e una terrazza panoramica. Le facciate, i pavimenti, i muri e i soffitti sono stati completamente rivestiti di pietra arenaria rossa dell’India. Per attenuare l’impatto monumumentale del Mas è stato applicato un velo sulla facciata della nuova torre museale caratterizzato da ornamenti metallici a forma di mani, il simbolo della città di Anversa.

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CONTESTI.URBANI

UN CAMPUS A SAN GIORGIO

Per ospitare gli studiosi del Centro Internazionale di Studi della Civiltà Italiana “Vittore Branca”, all’architetto Ugo Camerino è stato affidato il restauro dell’edificio di Luigi Vietti sull’Isola di San Giorgio Maggiore a Venezia

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stituita dal Conte Vittorio Cini in ricordo del figlio Giorgio, la Fondazione Cini nasce con lo scopo di restaurare l’Isola di San Giorgio Maggiore a Venezia, gravemente danneggiata da quasi 150 anni di occupazione militare, per trasformarla in un centro internazionale di attività culturali. Attualmente la Fondazione, oltre alle proprie attività di ricerca, alle mostre e ai convegni, agli spettacoli e ai concerti, accoglie organizzazioni scientifiche e culturali di una certa rilevanza, come i due G7, quello del 1980 e quello de1987. La struttura occupa sull’isola di San Giorgio gli spazi del complesso monumentale dell’ex convento benedettino, noto per il Chiostro e il Cenacolo Palladiani e la Biblioteca dei Longhena. Ne fa parte anche il Teatro Verde, un anfiteatro in pietra di Vicenza costruito sul modello dei teatri di Verzura, tipici della terraferma veneta, e un nuovo centro esposi-

tivo, sorto nel 2008 e situato sul lato est dell’Isola. Al di fuori dell’Isola di San Giorgio Maggiore, la Fondazione Giorgio Cini ha un altro prestigioso spazio: il Palazzo Cini a San Vio, la dimora cinquecentesca di Vittorio Cini, sede della collezione permanente di dipinti toscani e ferraresi e di varie iniziative culturali, che si affaccia sul Canal Grande. Sull’Isola si trova anche il Centro Internazionale di Studi della Civiltà Italiana “Vittore Branca”. Un centro crocevia di giovani studiosi e ricercatori interessati allo studio della civiltà italiana, in particolare quella veneta, senza distinzione di disciplina: qui convivono arte, storia, letteratura, musica e teatro. Proprio per ospitare questi studiosi, sull’Isola di San Giorgio Maggiore è stato da poco ultimato a opera dell’architetto Ugo Camerino il recupero dell’edificio progettato negli Cinquanta del secolo scorso da Luigi Vietti. La nuova residenza, 61

camere (31 singole e 30 doppie) disposte su più di tremila metri quadri potrà accogliere fino a 90 ospiti, giunti sull’Isola per approfondire argomenti collegati ai fondi e agli archivi della Fondazione. Il progetto architettonico del Campus, dal costo complessivo di circa 6 milioni di euro, è iniziato alla fine del 2007 ed è frutto del ripristino funzionale dell’edificio realizzato da Luigi Vietti e adibito a sede della Scuola di arti e mestieri per le attività marinare. Lo studio Ugo Camerino di Venezia lo ha trasformato in una moderna residenza su modello universitario, restaurando e integrando le parti degradate del precedente edificio, senza snaturarne la fisionomia strutturale e l’aspetto estetico. Oltre alle camere, tutte corredate di bagno privato e internet wifi, gli ospiti potranno utilizzare gli spazi comuni, appositamente ideati per favorire la socializzazione e la circolaIn basso, uno dei padiglioni del Centro. Nella pagina accanto, gruppo di immagini dell’interno. La distribuzione degli spazi è stata impostata così da favorire la socializzazione e una più ampia circolazione di idee

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zione delle idee, come la palestra, completa di macchine per il fitness, la sala della musica, la sala soggiorno, lo spazio polifunzionale e la terrazza. «Restaurare strutture in gran parte deteriorate, realizzate settant’anni fa, velocemente e con mezzi misurati, ha comportato una serie di problemi che sono stati risolti adottando un principio che è diventato il metodo seguito nella progettazione: mantenerne non solo l’aspetto, ma anche la tipologia strutturale recuperando i materiali originali e integrandoli, invece di sostituirli», spiega l’architetto Ugo Camerino in un articolo apparso su “Lettera da San Giorgio”, semestrale della Fondazione Cini. «In questo modo continua - si sono potute conservare anche alcune invenzioni architettoniche che l’architetto Vietti aveva introdotto per realizzare questi edifici poveri, che però mantengono una loro grazia e testimoniano di una sua attenzione all’uso di

tecniche forse un po’ espressive e, qualche volta, vernacolari, ma realizzate sempre con un ottimo livello professionale». Il Campus nasce quindi da un restauro attento a non snaturare la fisionomia strutturale e l’aspetto estetico degli edifici originali che sono stati adeguati ai nuovi standard necessari per contenere i consumi energetici. Un aspetto fondamentale su cui l’architetto e gli amministratori della Fondazione si sono a lungo confrontati è quello della socializzazione e della neces-

sità di studiare soluzioni architettoniche in grado di coinvolgere tutti gli studiosi nel clima culturale della Fondazione e di permettergli di godere della ricchezza del paesaggio naturale dell’Isola. «Si sono quindi progettati - prosegue l’architetto Camerino - gli spazi, stanze, collegamenti e soprattutto aree di socializzazione, in modo da favorire la formazione di un’appartenenza tra coloro che li vivranno e da promuovere una socialità condivisa: due caratteristiche che segnano, a nostro giudizio, l’originalità del

SEZIONE TRASVERSALE

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CONTESTI.URBANI

IL PROGETTO ARCHITETTONICO DEL CAMPUS È INIZIATO ALLA FINE DEL 2007 ED È FRUTTO DEL RIPRISTINO FUNZIONALE DELL’EDIFICIO REALIZZATO DA LUIGI VIETTI vivere e studiare nell’Isola di San Giorgio. Le stanze sono generalmente piccole e tutte proiettate verso l’esterno mentre, all’interno, i corridoi si dilatano per diventare luoghi di soggiorno. L’idea guida è stata di forzare questa situazione e di utilizzare il sistema distributivo dei corridoi, delle corti, delle scale e dagli spazi specializzati per sviluppare e incentivare i rapporti tra le persone residenti e, natu-

ralmente, tra di loro e l’intera Fondazione». Al centro del parco, sul tetto della residenza, è stata realizzata una grande terrazza panoramica delimitata da cipressi. Essa si affaccia su quello che diventerà il nuovo labirinto di Borges e avrà come sfondo il bacino di San Marco. Questo luogo diventerà uno spazio di socializzazione aperto al pubblico, come anche la sconosciuta sala quattrocentesca

SEZIONE TRASVERSALE

Gli spazi distributivi quali corridoi, corti e scale si sono trasformati in luoghi specializzati a incentivare i rapporti tra le persone residenti. Diventano aree illuminate con affaccio sul parco e sulle corti interne

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- un frammento dell’antico convento ora recuperato – che verrà utilizzata come auditorium per musica o per conferenze. Lo stesso architetto spiega che «il modello a cui si è fatto riferimento per il progetto della residenza del Centro Vittore Branca, da cui si evince la regola del rapporto tra spazi individuali e spazi collettivi, è quello delle stanze della Certosa del Buora dove si riscontra un rapporto unico tra la “cella” di riposo, dedicata allo studio individuale e lo spazio collettivo costituito dalla Manica Lunga, il cuore del complesso bibliotecario della Fondazione. In modi molto diversi, nella nuova residenza i piccoli spazi individuali si orientano e prendono forma nel loro rapporto con l’ambiente esterno e sono definiti dalla formidabile presenza dei chiostri, della chiesa e del parco, così come dalla vista di un cipresso o dagli scorci sul campanile o sulla Manica Lunga. Per ottenere questi risultati è stata ridisegnata la geografia interna degli edifici, cercando di cogliere tutti i suggerimenti del “fuori”, catturandone paesaggi, luci e sensazioni per riportarli nelle stanze, che sono perciò diverse nella dimensione e nell’aspetto». (di Cristiana Zappoli)


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PREMIO.BIENNALE

LEONE D’ORO A KOOLHAAS

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La Biennale di Venezia premia Rem Koolhaas, riconoscendogli l’originale capacità di aver saputo ampliare in architettura il rapporto tra l’uomo e lo spazio ecostruttivista, modernista o strutturalista. Difficile classificare un'idea di architettura plasmata sullo spirito del proprio tempo. Ancora più difficile se il tempo è quello complesso e magmatico della modernità. Ma quest'anno la Biennale di Venezia, con il Leone d’oro alla carriera conferito all’architetto olandese Rem Koolhaas, non ha avuto dubbi nel riconoscere l'originalità e la fecondità di uno sguardo architettonico che mirando sempre al cuore delle società urbane contemporanee, ha sempre ribadito come l'architettura sia prima di tutto un fatto profondamente umano. In linea con queste considerazioni sono le ragioni del premio, tutte incentrate non su un gusto o un'estetica ma su un sistema di pensiero che applicato alla progettazione e alla teoria della composizione ha saputo am-

pliare le possibilità dell’architettura. Focalizzandosi soprattutto sulle relazioni tra le persone e lo spazio, per creare edifici capaci di stimolare l’interazione interpersonale al fine di raggiungere obiettivi ambiziosi attraverso l’architettura. Amato, odiato, controverso e spesso contraddittorio, il Rem Koolhaas di oggi, pur incluso da Time nell'elenco delle cento persone più influenti al mondo, è quanto di più lontano si possa immaginare dall'archistar isolata nell'olimpo della riflessione sulla forma. Non molto diverso probabilmente dal Koolhaas ragazzo che verso la fine degli anni Sessanta frequentava l'Architecture Association School di Londra, cuore del dibattito indipendente su sviluppo globale e cultura architettonica contemporanea. E non molto diverso dal Koolhaas che in quegli stessi anni si pagava gli studi scrivendo

Courtesy Oma, image by Blommers + Schumm

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come giornalista e sceneggiatore. È proprio questa alchimia di architettura critica, capacità narrativa e giusta distanza sempre curiosa dai fatti del mondo, che nel 1978, con la pubblicazione di Delirius New York, lo catapulta a soli trentaquattro anni tra i più visionari teorici dell'architettura di quegli anni. Un “manifesto retroattivo per Manhattan”, come lui stesso lo definì, attraverso il quale compiere il primo passo verso quella “cultura della congestione” che sarà il termine di confronto costante di tutto un percorso professionale, e immergere il proprio pensiero architettonico nel caos non pianificato della più affascinante forma urbana allora esistente: New York. Per l'architetto olandese la capitale del XX secolo è una città bellissima, ma lo è indipendentemente dagli architetti. Anche il grattacielo, la struttura prevalente a


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Courtesy Oma, image by Hiroyuki Kawano

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1) Rem Koolhaas 2) Villa dall’Ava, St.Cloud, Paris È posta su una collina che digradando offre un’ampia vista della Senna, di Bois de Boulogne e della città di Parigi 3) La Casa della Musica, Porto Frutto di un concorso internazionale del 1999, è stata concepita come cerniera tra la vecchia e la nuova città 4) China Central Television, Beijing Terminata nel 2009, è un’innovativa scultura urbana. Un’alternativa alla desueta tipologia del grattacielo 5) Nexus Housing, Japan Un nuovo lifestyle urbano. Ripropone la fusione tipica della città romana e gli esperimenti di Mies van der Rohe

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PREMIO.BIENNALE

Courtesy Oma / Rex, image by Iwan Baan

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Manhattan, è la vertigine architettonica di un immaginario collettivo e allo stesso tempo l'antitesi di quanto predicato dal Movimento Moderno. Il risultato è uno scacco matto alla progettazione e alla pianificazione urbanistica. Perché, dimostrato che il fascino della Grande Mela, la sua capacità di incarnare il mito moderno, risiede proprio nella proiezione di un'utopia imprevedibile e certamente non fondata sui principi razionali delle avanguardie, non rimane che soccombere all’empasse progettuale o resistere a oltranza all’avanzata della città delirante. Ma Koolhaas ha in mente una terza via ed è una soluzione spregiudicata e certamente geniale nella sottigliezza pragmatica e nel ribaltamento di prospettiva che

presuppone: cavalcare l’esistente, progettare il frammentato e il destrutturato altrimenti spontanei. E se la forza dell'esistente urbano è la contraddizione allora che contraddizione sia lo stesso principio compositivo. Nella critica operativa così come nella progettazione. Perché è in quegli stessi anni Settanta che Rem Koolhaas fonda con gli architetti Madelon Vriesendorp ed Elia e Zoe Zenghelis lo studio per l'architettura metropolitana OMA, integrato nel 2000 dal suo analogo speculare AMO, concepito per ampliare la sfera di interesse della progettazione architettonica con discipline diverse come editoria, arti visive, nuove tecnologie e tecniche di comunicazione. Le opere più importanti di Koolhaas e

Courtesy Oma image by Hans Werlemann

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6) Dee and Charles Wyly Theate, Dallas In questa struttura è stato sovvertito l’ordine del teatro. L’organizzazione spaziale è disposta su 11 piani verticali 7) Lille Grand Palais, Francia È una costruzione ibrida. Un centro espositivo adatto sia alle attività culturali che espositive e commerciali 8) Netherlands Embassy, Berlin È una costruzione solitaria, integrante la necessaria sicurezza con l’apertura verso l’esterno tipica dei Paesi Bassi 9) Kunsthal, Rotterdam Una scatola quadrata con una stretta torre. L'edificio non ha una facciata principale ma ognuna ha ritmo orizzontale.

dell’Oma dagli esordi fino alla metà degli anni Novanta comprendono il Netherlands Dance Theatre a L´Aia, il Nexus housing a Fukuoka, il Grand Palais di Euralille e di Lille, il museo Kunsthal a Rotterdam. Proprio nel Kunsthal, spazio espositivo realizzato nel 1993 per ospitare le mostre itineranti in città, il lavoro sull'eterogeneo auspicato in Delirius New York ritorna come realtà progettuale: diversità di citazioni non integrate e una concezione tendente a contaminare la bella idea urbanistica con l'irriducibile realtà sociale urbana, per sconfessare qualsiasi identificazione di stile o assimilazione architettonica. Aspetti diversi per sottolineare che “lavorando in tanti ambienti diversi e con le più diverse condizioni, il lavoro finito deve essere anch’esso diverso”. Non è un caso che questo progetto come gli altri di quegli anni andrà a comporre la seconda riflessione dell’architetto sulla modernità metropolitana, il libro S,M,L,XL pubblicato nel 1994. Descritto come un romanzo sull’architettura, il testo che combina immagini fotografiche, piani, brani narrativi, vignette, composizioni e pensieri casuali con il lavoro prodotto da Koolhaas per l’OMA, torna a conferire operatività architettonica a una condizione osservata nella società urbana contemporanea. Questa volta non si tratta del carattere caotico ma della dimensionalità. Qui Koolhaas descrive Atlanta e Singapore, ma soprattutto inizia un movimento verso l'annullamento dell'identità del progetto, classificando le proprie opere secondo il generico principio dimensionale del titolo: small, medium, large, extra large. Non è la sua ultima incursione nella cultura della congestione e il libro successivo, Junkspace, sarà dedicato agli spazi-


Courtesy Oma image by Phil Meech

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spazzatura del rumore bianco. Centri commerciali, ipermercati, nuovi spazi di aggregazione della società contemporanea, per affermare in modo più radicale il disfacimento identitario del progettare. Perché per Koolhaas il Junkspace contiene di tutto, genera di tutto, compreso la creatività del progetto, ma fagocita di tutto decretando la definitiva scomparsa dell’autore. Il risultato è uno spostamento

della finalità e della modalità del progettare determinato secondo la stessa logica delle culture partecipative del web 2.0: il progetto ora smette di dare forma allo spazio ma gli conferirisce una continua plasticità determinata dagli stimoli esterni e dagli elementi contigui. Condivisibili o meno, tutte queste posizioni insieme alle realizzazioni progettuali nell’ambito dell’OMA si configurano come vere e 9

proprie soluzioni di sociologia urbana, dalla Casa da musica di Porto, costruita con una dimensione volutamente imponente affinché fosse visibile da tutti e favorisse così la democratizzazione di un intrattenimento tradizionalmente riservato a un'élite, al lavoro sulla sede della Televisione di Stato cinese a Singapore, criticato come un servizio reso al regime, visto dall'architetto come una grande sfida in virtù di tutte le restrizioni implicate. L'ultima provocazione di Koohaas, con la mostra di quest'anno alla Biennale, si chiama Cronocaos e riguarda il tempo e la sempre più implicata compresenza di conservazione e cambiamenti radicali. Una compresenza così competitiva, uno scarto così millimetrale tra costruzione architettonica e necessità conservativa del patrimonio, da sfiorare l'empasse. Teorizzare la conservazione e la complementare distruzione sarà il nuovo compito, quello più urgente, per la società attuale. La prospettiva, qualunque essa sia, avrà sempre lo stesso fuoco visionario di Rem Koolhaas: la modernità. (di Silvia Di Persio) DESIGN + 35


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Al contrario di quanto si possa pensare il cartone ondulato è un materiale molto resistente oltre che versatile. La linea di mobili creata da Kubedesign lo dimostra ubedesign è un’azienda marchigiana, specializzata nella lavorazione del cartone, erroneamente considerato povero e fragile. Semplice e naturale, è un materiale dalle eccellenti prestazioni, caratterizzato da una grande versatilità e da attitudini ecologiche. La linea Kubedesign è quindi assolutamente rispettosa dell’ambiente, oltre che altamente artigianale. Poltrone, sedie, tavoli, librerie, carrelli diventano simboli di una casa diversa da quella tradizionale, pensata per un pubblico urbano, dinamico e consapevole delle proprie necessità. Questi arredi fatti di cartone ondulato sono leggeri, personalizzabili e adattabili a contesti molto diversi tra loro. Le linee sono semplici e il concept fortemente orientato alla faci-

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lità di utilizzo. I colori sono fondamentali perché permettono all’oggetto di esprimersi e di esprimere la propria funzione attraverso la sua superficie cromatica. Diventa quindi fondamentale anche l’assenza di colore che permette all’oggetto di rapportarsi alla realtà naturale che lo circonda. Papa Benedetto XVI ha scelto, in occasione del 1950° anniversario del naufragio di San Paolo, di mandare all’umanità un messaggio ambientalista di forte impatto. Lo ha fatto senza limitarsi a proclami, ma dimostrando in prima persona che l’ecosostenibilità non è un’utopia ma è il futuro possibile. Il messaggio che ha voluto comunicare si manifesta nell’allestimento eseguito da Kubedesign a Malta (il 17 e 18 aprile scorso) che ha arredato la piazza in cui si

è svolto l’incontro organizzato dal Vaticano: 800 sedie, l’altare, l’ambone, il trono papale, un tavolo, due inginocchiatoi, un leggio, 93 poltrone, 18 sgabelli e un crocifisso, tutti rigorosamente realizzati in cartone. Per tale allestimento sono stati utilizzati circa 8.085 kg di cartone, l’equivalente della carta riciclata di 35.000 quotidiani, risparmiando così 6 tonnellate di CO2. L’intero carico è stato spedito utilizzando un solo container per poi venir assemblato sul posto. L’imponente allestimento realizzato dimostra chiaramente come i complementi prodotti con questo materiale sono in grado di supportare e resistere anche a forti sollecitazioni e di durare nel tempo. Kubedesign ha creato l’allestimento in soli 15 giorni. (di Cristiana Zappoli)



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PRE.VISIONI

UN MONUMENTO VEGETALE

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Abete, castagno, rami di nocciolo, piante di faggio: sono questi i materiali usati per la costruzione della cattedrale nel Parco delle Orobie Bergamasche

l progetto “Monte Arera” nasce dalla volontà da parte del Parco delle Orobie Bergamasche, insieme ai Comuni di Oltre il Colle, Roncobello e Ardesio, di valorizzare un comprensorio dalla ricchezza naturalistica unica. Le caratteristiche tipiche custodite da questa zona derivano dalla storia millenaria delle Orobie, il più importante polo di biodiversità della Lombardia, oltre che uno dei principali siti naturalistici d’Europa. Il progetto “Monte Arera”, nell’anno Internazionale della Biodiversità proclamato dall’ONU per il 2010, mira a integrare la valorizzazione di queste specificità con la realizzazione di una significativa e monumentale opera d’arte ambientale: la Cattedrale Vegetale di Giuliano Mauri che, per la sua originalità e l’unicità della tecnica costruttiva, insieme al significato simbolico di cui si fa portatrice, si fonde pienamente con il progetto del Monte Arera. Una cattedrale a 5 navate e 42 colonne costruita con 1.800 pali di abete, 600 rami di castagno, 6 mila metri di rami di nocciolo e 42 piante di faggio, uniti da legno flessibile, picchetti, chiodi e corde secondo l’antica arte dell’intreccio, è sorta ai piedi del Monte Arera a Oltre Il Colle, in provincia di Bergamo, a 1.345 metri di altitudine. La cattedrale vegetale è un’opera “abitabile” progettata da Giuliano Mauri, artista scomparso nella primavera del 2009, riconosciuto a livello internazionale per l'originalità della riflessione artistica e l'unicità delle sue opere. Nato a Lodi Vecchio nel 1938, Mauri è stato protagonista internazionale di numerosi interventi ambientali, museali e teatrali in Italia e all'estero attraverso un lavoro che lo ha identificato come principale interprete italiano e artista di fama mondiale. La sua opera si configura come segno artistico innovativo che trova nel tempo e nell'andamento di crescita naturale degli elementi vegetali accolti al suo interno, una dimensione critica e sperimentale di fortissima attualità. Al figlio Roberto e a una squadra di abili carpentieri si deve il complesso lavoro di cantiere per l'innalzamento della cattedrale. Un progetto complesso che ricorda la determinazione dell'artista che ne

ha seguito con particolare passione le fasi progettuali, trovando sulle pendici alberate e nelle alture aride del Monte Arera un luogo di intensa tensione poetica. La Cattedrale Vegetale, all’avvio della salita per il Pizzo Arera, sorge inaspettata al centro di una radura silenziosa circondata da una cortina naturale di alberi dalla quale è possibile godere della vista delle cime del Pizzo Arera, dell'Alben e del Grem e delle ampie vallate circostanti. L'architettura vegetale è alta da 5 a 21 metri, lunga 28,5 e larga 24 metri e copre 650 metri quadrati di superficie. La sua ideazione prevede negli anni la crescita di faggi all'interno delle 42 colonne costruite interamente da materiale vegetale. La crescita degli alberi segnerà in circa venti anni la contemporanea trasformazione e perdita della struttura lignea originaria lasciando così che la natura prenda il sopravvento sul gesto artistico di cui resterà solo memoria formale. La Cattedrale Vegetale, con la sua struttura aperta e percorribile in ogni direzione potrà essere nel tempo, come già nelle intenzioni dell'artista, teatro naturale per eventi legati ad altre discipline della creatività, luogo di sosta solitaria o di aggregazione per momenti formativi ed educativi oltre che punto di partenza e di arrivo tra i sentieri delle Orobie. (di Andrea Giuliani)

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PREMIAZIONI

INNOVAZIONE E DESIGN

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Il numero uno dello storico marchio Alessi ha ricevuto, quest’anno, il premio Abitare il Tempo per l’impostazione innovativa del ruolo della propria azienda i è tenuta a settembre a Verona la 25a edizione di Abitare il Tempo, la fiera per l’arredamento d’interni che riunisce tutte le categorie merceologiche, facendo coesistere tradizione e avanguardia, classico e contemporaneo. Ogni anno viene assegnato il premio Abitare il Tempo a personalità o enti che hanno contribuito allo sviluppo del design come attività etica ed estetica tesa a elevare la qualità dell’abitare il nostro tempo. Dal 2002 è stato assegnato a Ettore Sottsass, Maddalena De Padova, Pierluigi Cerri e nel 2005, ventesimo anniversario della manifesta-

Sopra, da sinistra: Aberto Alessi, Achille Castiglioni, Enzo Mari, Aldo Rossi, Alessandro Mendini (foto, Gianni Berengo Gardin,1989). A sinistra: La Cupola, design Aldo Rossi, 1990

zione, a Vico Magistretti e Michele De Lucchi; nel 2006 a Ingo Maurer, poi ad Alessandro Mendini, nel 2008 all’imprenditore Rolf Fehlbaum e nel 2009 allo studioso di estetica Gillo Dorfles. Quest’anno va ad Alberto Alessi, presidente di Alessi s.p.a., che ha espresso una visione personale e innovativa del ruolo della propria azienda, facendola diventare, in questi decenni di profonde trasformazioni, uno dei nomi più significativi del design italiano e tra i grandi nomi del design internazionale. Il Comitato scientifico era composto da Carlo Amadori, ideatore e organizzatore di Abitare il Tempo, Vanni Pasca, storico del design, e Luca Scacchetti, architetto e de-

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PREMIAZIONI

signer. Alberto Alessi, nato nel 1946 ad Arona in provincia di Novara, è presidente e direttore generale per il marketing strategico, la comunicazione e il design management di Alessi s.p.a. Primo della terza generazione di Alessi, dopo la Laurea in Giurisprudenza conseguita a Milano, a partire dal 1970 ha sviluppato, nell’azienda di famiglia con sede ad Omegna, un’idea felicemente innovativa del ruolo di un’azienda di design, inaugurando una nuova era produttiva. L’Alessi lavorava il metallo fin dagli anni Venti ma fino praticamente a tutti gli anni Settanta non ha prodotto nulla per la cucina. La caffettiera Espresso di Sapper, presentata al pubblico nel 1979, è stata il primo oggetto per la cucina Alessi, e fu un’idea proprio di Alberto. Da allora ha collaborato con maestri del designer del calibro di Sotsass, Castiglioni, Mendini, Mari. Costruendo progressivamente una larga rete di collaborazioni con architetti e designer in tutto il mondo, ha attraversato e a volte anticipato le profonde trasformazioni verificatesi nel panorama internazionale degli ultimi decenni. Ha chiamato a progettare gio-

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vani designer che hanno dato un’impronta giocosa ad un particolare settore produttivo, contribuendo a far conoscere nel mondo il fun design di Alessi. Ha saputo così portare la Alessi ad essere uno dei nomi più significativi del design italiano e internazionale, come azienda che esprime ricerca sul senso e sul ruolo del design e continua ad affrontare il futuro con spirito innovativo. Ha scritto vari libri tra cui “La cintura di Orione” del 1986 e “La Fabbrica dei Sogni”, edito da Electa nel 1998: un’autobiografica e completa rassegna della produzione Alessi. In ventidue capitoli traccia le vicende del design Alessi dagli anni Venti ad oggi, soffermandosi sui momenti topici della produzione e sui designer che con Alessi hanno collaborato negli anni. Inoltre Alberto Alessi è Visiting Professor e Honorary Professor in alcune scuole di design e Senior Fellow del Royal College of Art di Londra. (di Cristiana Zappoli)

Da sinistra: Vanni Pasca (storico del design e Membro del Comitato Scientifico di Abitare il Tempo), Renato Brunetta (Ministro per la Pubblica Amministrazione e Innovazione), Alberto Alessi e Carlo Amadori (Ideatore di Abitare il Tempo). Sotto: il Porta agrumi 370, design Ufficio Tecnico Alessi


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SPETTACOLO + ARCHITETTURA La musica, la danza, il teatro. Differenti discipline che insieme o separatamente concretizzano nella loro esecuzione un evento spettacolare. Arti che necessitano di spazi, veri luoghi fisici appositamente pensati, progettati e realizzati per rendere possibile la loro rappresentazione. Luoghi dell’immaginifico, dunque. Scatole magiche, tecnologiche, che architetti progettano cercando di dare una risposta concreta a una domanda oggi più che mai attuale: qual è il luogo ideale o comunque plausibile per gli spettacoli del presente e del futuro? Ovviamente questi sono luoghi non immuni da tendenze artistiche, comportamenti, strategie politiche-culturali e dinamiche sociali. E proprio per questo sono sempre diventati simboli importanti per le città che li ospitano. Sono cattedrali della vita sociale, di un mondo che cambia. Luoghi in cui i sogni, l’arte e la realtà si intrecciano dando vita a fantastiche suggestioni che l’architettura cerca di interpretare. Strutture aperte anche alla vita di tutti i giorni e alla spettacolarizzazione della vita stessa. E perché no, alla spettacolarizzazione della stessa architettura che, si potrebbe dire, cerca di rubare la scena.


Le foto sono di Adam M每rk

PROGETTO / 1

50 DESIGN +


Copenhagen Opera House

L’OPERA GUARDA IL MARE

SCHEDA

Committente A.P. Møller & Chastine, Mc. Kinney Møller Foundation Architetti Henning Larsen, Tegnestue Acustica Ove Arup & Partners International Superficie d’intervento circa 41.000 mq, di cui 12.000 mq interrati Realizzazione 1°Novembre 20001°Ottobre 2004 Luogo Dokoen, un’isola nella baia di Copenhagen

DESIGN + 51


PROGETTO / 1

IL FOYER OSPITA QUATTRO BRONZI DELL’ARTISTA PER KIRKEBY E TRE LAMPADARI DI CRISTALLO DI OLAFUR ELIASSON CHE CONNOTANO TUTTO L’AMBIENTE DI RIFLESSI E LUCI

In alto: planimetria del piano terra. In basso: vista prospettica dell’Opera House dal palazzo Reale

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C

openhagen. Il Palazzo Reale. Il Copenhagen Opera House. Una città, un palazzo e il nuovo teatro d’opera. Il legame tra i tre è meno ovvio di quanto possa sembrare e consiste in uno storico asse stradale che attraversando la piazza ottagonale del Palazzo Reale collega visivamente il centro cittadino con il Copenhagen Opera House, costruito aldilà della baia su progetto di Henning Larsen e finanziato dalla fondazione Moller. È tra i più moderni teatri d’opera al mondo e ha alle spalle un piccolo e regolare quartiere con edifici residenziali non più alti di tre piani. Si motiva così infatti la scelta progettuale di rivestire, fino al terzo piano, tre facciate di un calcare beige detto Jura Gelb. Tutta la struttura è realizzata con pochi materiali, graniti, accia-

io, vetro e pietra locale ed è funzionalmente composta di un auditorium con il foyer e di un edificio ospitante le attività di backstage. È fortemente caratterizzata da un enorme tetto aggettante che fa anche da elemento unificatore tra i due blocchi. Sorge su un’isola artificiale ed è delimitata lateralmente da due canali non più ampi di 17 metri. Intorno all’edificio resta quindi uno stretto camminamento sufficiente a una passeggiata e al movimento per gli ingressi destinati agli artisti e al personale, nonché al carico scarico del materiale di scena. L’acqua attornia tutto l’edificio, lo circonda e l’abbraccia. E l’ampia piazza antistante il foyer degrada dolcemente con una scalinata che crea il giusto approdo per i melomani che vogliono giungervi in barca. La piazza è completamente rivestita di granito cinese ed è protetta dalla ampia copertura a sbalzo che è lunga più di 32 metri e che è stata pensata così proprio per poter offrire, in estate, la ristorazione all’aperto e anche per accogliere il pubblico durante gli spettacoli organizzati su palchi galleggianti. Sotto al livello del mare si trova la sala prova per l’orchestra, situata al quinto piano interrato, al disotto dei piani destinati agli impianti. È collegata direttamente con gli ascensori alla buca e ha una capienza di più di 120 orchestrali. Il materiale che caratterizza questa sala è il legno. Pannelli di legno traforati alle pareti e piccole doghe di frassino sono state poste per rivestire tutto il pavimento. Il legno, ovviamente, è il materiale prescelto per gran parte degli ambienti. Anche l’auditorium, un volume su cui gravita il tutto, il cuore pulsante dell’intera struttura, è rivestito di pannelli curvi di legno d’acero, dorato e laccato. Materiale che si insinua fin nell’interno stesso dell’armonioso volume e va a ricoprire sia la parte inferiore del primo palco che la balaustra. Gli altri palchi sono invece ricoperti sempre d’acero ma questa volta l’essenza è trattata cromaticamente così da ottenere una calda tinta scura in opposizione alla quercia chiara scelta per il pavimento. Le sedute, come di tradizione per i teatri d’opera della Danimarca, sono rivestite di velluto blu. Il soffitto invece è decorato con elementi vegetali in foglia d’oro. Una leziosità regale che si contrappone alla linearità di tutta la struttura ma che dona una luce calda a tutto l’ambiente. L’auditorium è una sala am-


Sotto: le diverse balconate del foyer con i tre lampadari di cristallo di Olafur Eliasson. A destra: il volume dell’auditorium rivestito di acero dorato e le passerelle che lo collegano alle balconate del foyer

DESIGN + 53


PROGETTO / 1

LA STRUTTURA È REALIZZATA CON POCHI MATERIALI, TRA I QUALI GRANITI, ACCIAIO, VETRO E PIETRA LOCALE

In alto: sezione longitudinale dell’edificio. A fianco: planimetria generale riportante l’angolo visivo della panoramica che l’edificio offre sulla città. Nella pagina accanto: l’interno dell’auditorium e l’esterno notturno della facciata principale, posta sotto l’ampia aggettante copertura e antistante lo specchio d’acqua della baia

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pia, in grado di ospitare fino a 1700 spettatori, e vi si accede attraverso quattro ponti di collegamento radiali che congiungono i diversi livelli del foyer con l’interno. L’ambiente del foyer è alquanto spazioso sia in profondità che in altezza. È suddiviso anch’esso in quattro livelli di balconate che consentono affacci a diverse quote verso l’interno dell’edificio, verso il volume ligneo dell’auditorium e, attraverso la struttura semicurva di acciaio e vetro, verso

l’esterno, ossia verso una panoramica e scenografica vista della città storica. Alle prime due balconate si accede con due ampie scale progettate seguendo l’andamento semicurvo della facciata del foyer, mentre alle successive vi si giunge con scale di dimensioni ridotte che propongono un punto di vista diverso. Volendo proseguire l’ascesa, si giunge all’ultima balconata che offre un terrazzo esterno proprio al disotto della particolare copertura. Le balconate tra loro hanno una profondità diversa e per tanto in lunghezza variano anche le quattro passerelle radiali che le collegano all’auditorium. Nella prima e nella quarta balconata del foyer sono state previste due zone di ristoro con bar e uno spazio per i ricevimenti. Gli altri ambienti, invece, sono stati posti subito dietro la torre scenica e sono stati organizzati per ospitare lo studio stage e il backstage. Quest’ultimo è uno spazio piuttosto grande. È posto subito dietro il palco e permette una tranquilla gestione delle scene. Sono, insomma, cinque piani connessi tra loro da ballatoi. Cinque piani con camerini acusticamente isolati per gli artisti e il personale di servizio. Lo studio stage invece è uno spazio pensato appositamente per le prove. È versatile e prevede anche la presenza di pubblico, ed è organizzato così da essere usato anche durante la messa in scena dello spettacolo nell’auditorium. Le sedute sono retrattili o poste su alcune torri mobili che garantiscono un’ampia fruibilità dell’ambiente nonché diverse configurazioni spaziali. Tutto è stato pensato a regola d’arte e di arte comunque ve ne è diversa. Lo stesso foyer, spazio dalle molteplici letture, ospita quattro bronzi dell’artista Per Kirkeby e tre lampadari di cristallo di Olafur Eliasson che connotano tutto l’ambiente di riflessi e luci.


DESIGN + 55


Royal Danish Playhouse Le foto sono di Adam Mÿrk

TRADIZIONE E MODERNITÀ SCHEDA

Committente Ministero della Cultura Architetti Boje Lundgaard / Lene Tranberg Superficie 21.000 mq Lavori 2004 - 2008 Acustica Gade & Mortensen Premi RIBA European Award 2008


N

ella città di Copenaghen, la capitale della Danimarca, tra il quartiere ottocentesco di Frederiksstaden e il porto della città, poco più a sud dello storico quartiere Sankt annae Plads, è stato costruito nel 2008, su progetto degli architetti Boje Lundgaard e Lene Tranberg, il Royal Danish Playhouse. È una struttura dagli spazi aperti, ampiamente vetrati, che si integra morfologicamente e cromaticamente con l’intorno, senza nulla perdere della sua linearità contemporanea. Il rapporto che crea con l’acqua del porto antistante è immediato. È un waterfront urbano che lega il mare al teatro. Anzi, che fa del teatro una solida ancora di riferimento per il porto e per chi sta in mare. Un’ancora solida e possente. Suggestione ulteriormente rafforzata dal particolare uso che vi è stato fatto del mattone pieno. Un laterizio faccia a vista, dalle tinte scure, realizzato con argilla inglese e prodotto a mano:un tipico mattone già in uso nei vecchi magazzini del porto, questa volta però riproposto con dimensioni diverse, molto più grandi. Tra le tre dimensioni quella più sviluppata, in questo laterizio, è la lunghezza. È il K57, un mattone che ora fa parte della gamma Kolumba Petersen Tegl, cioè dell’unica fornace rimasta in Danimarca a produrre un laterizio cotto a carbone. Questo materiale è stato anche scelto per le sue peculiarità, e cioè per la sua ottima capacità di risposta agli attacchi da parte di agenti corrosivi, tipici degli ambienti marini, fino ad essere in grado di sostenere la completa immersione in acqua di mare. Ma ovviamente non manca la ragione filologica in tale scelta. Infatti in que-

sta struttura non è solo il mattone a riproporre e a rivisitare la tipologia dei vecchi magazzini portuali tutt’ora ancora presenti in questa zona della città. Infatti Boje Lundgaard e Lene Tranberg hanno optato anche per l’adozione di altre caratteristiche connotanti questo tipo di manufatto edilizio: le finestre e le porte secondarie, lungo i lati del basamento, sono state poste tutte nella parte interna dell’imbotto, in modo tale che lo spessore delle pareti, risultando ancor più accentuato, dia a tutta la muratura un pensante senso di gravità. L’effetto ottenuto, quello di un unico blocco solido e materico, continua anche all’interno della costruzione. Alcuni degli spazi destinati al pubblico sono stati strutturati e pensati così da avvalorare la suggestione di essere stati scavati nel mattone, quasi fossero delle vere nicchie. Tale logica progettuale è stata pure applicata allo spazio più importante, al “Ventricle”, il Ventricolo, il cuore del teatro che ha ben tre diversi

Le foto sono di Adam Mÿrk

Foto Lundgaard & Tranberg Arkitekter

PROGETTO / 2

In alto: un esterno del Royal Danish Playhouse, caratterizzato dalla torre rivestita di rame e dal piano vetrato sorretto dal basamento di laterizio e dal foyer in vetro. Sotto: la passeggiata su palafitta

DESIGN + 57


PIANTA DEL PIANO TERRA

PROGETTO / 2

SEZIONE TRASVERSALE

Foto in alto: l’interno del piano superiore. È possibile scorgervi le grandi travi reticolari metalliche. Foto in basso: interno dell’auditorium

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Le foto sono di Adam Mÿrk

PLANIMETRIA GENERALE

livelli di sedute, e offre un totale di 650 posti accuratamente inseriti nella superficie dentellata delle pareti. È un luogo concepito come una grotta scavata nella muratura e il mattone che la riveste è stato progettato e prodotto con specifiche dimensioni meticolosamente calcolate per poter dare un’adeguata rifrazione e diffusione acustica. In collaborazione, gli assistenti tecnici acustici e i progettisti, hanno sviluppato un modello in scala 1:5 affinché le misurazioni acustiche assicurassero un tempo di riverbero pari ad un secondo, il tempo ideale per il teatro parlato. Le poltrone di velluto rosso, anch’esse appositamente progettate sempre dagli stessi architetti per questa struttura, sono state collocate seguendo uno schema geometrico concentrico, previsto per questo ambiente: la conformazione a forma di cavallo appositamente studiata per garantire un legame intimo e diretto tra attore e spettatore. Il piano dei servizi, con i suoi locali destinati agli artisti e all’amministrazione, è rivestito all’esterno con vetri dalle diverse sfumature di verde. È un piano con funzioni secondarie, quali camerini, trucco, e sartoria, ma che hanno modo di godere di un bell’affaccio sul mare. Il volume centrale, anch’esso in laterizio è diviso in tre sottoparti: il profondo palcoscenico, la parte soprastante, che contiene tutti gli apparati tecnici necessari alla messa in scena e il sottopalco, e la torre scenica che è completamente rivestita di rame. Tre volumi, tre colori, tre materiali diversi: il laterizio, dalle inusuali proporzioni e dal colore tipico delle strutture portuali dei paesi scandinavi, caratterizza gran parte della struttura, compreso l’interno; il vetro

presente sia nella parte antistante del foyer, con ampie specchiature montate a giorno, sia nell’aggettante piano superiore dove lascia intravedere all’esterno la massiccia maglia di travi reticolari in acciaio presenti al piano; e il rame, l’altro materiale resistente agli agenti marini, e cromaticamente cangiante nel tempo, con cui sono stati rivestiti la torre e le porte d’ingresso del foyer. Ma esiste comunque un quarto elemento, questa volta non materico, importante per il Royal Danish Playhause: la passeggiata. È sorretta da una struttura a palafitta, a colonne in stile veneziano. È in legno di rovere e abbracciando il teatro fa da legame tra la terra e il mare. È l’elemento che dal mare conduce all’interno dell’ampio e vetrato foyer che offre una vista a 360° su tutto il porto circostante. Luce e acqua. Vibrazioni silenziose e luminose che incontrano vibrazioni sonore. Un luogo di relax, uno spazio dove si può sostare anche senza dover andare a teatro. L'illuminazione è una foresta di lunghi, sottili luci a fibre ottiche che pendono dal soffitto con dispositivi di sospensione su tutto il foyer a doppia altezza, e che fanno sì che nelle ore serali il luogo si vesta di un ulteriore nota connotante e attraente. Il Playhouse Royal è un teatro contemporaneo. È un’architettura che raccorda due concetti attualmente importanti: quello del teatro come luogo istituzionale della cultura e quello del luogo di riunione pubblica. È anche luogo di ristoro e di piacere. Un luogo ben lontano dall’immagine storica e un po’ stereotipata del teatro. E non per ultimo è da considerarsi un palcoscenico che si apre su un suggestivo panorama: le luci del porto della città di Copenhagen. DESIGN + 59


Central Concert Hall Kazakhstan

AVVOLGENTI GEOMETRIE

SCHEDA

Progetto Manfredi Nicoletti + Luca F. Nicoletti - Studio Nicoletti Associati Sito Astana Acustica Xu-Acoustique Dimensione 54.000 mq Inizio lavori 2003 Fine lavori 2010


E

voca un fiore. Un fiore dai petali blu. Un fiore che avvolge una sala auditorium per la musica classica capace di ospitare 3500 persone, una piazza interna di circa 3mila mq con negozi, balconate, ristoranti, gallerie e altre due sale di dimensioni ridotte di ben 200 e 400 posti. È la Central Concert Hall Kazakhstan ed è stata costruita ad Astana, la capitale del Kazakistan, dietro progetto dello studio italiano Nicoletti Associati. Il 9 aprile 2010 alla rivista on line “House, Living and Business”, Manfredi Nicoletti ha dichiarato: «Nel febbraio del 2006 ho progettato l’Auditorium Nazionale del Kazakhstan ad Astana, una città totalmente artificiale che nasce nella steppa. La steppa è un vuoto assoluto; che cosa avrei dovuto fare? Mi sarei dovuto ispirare al vuoto? No! Ho cercato di interpretare il desiderio di creare una nuova capitale che si trova ai confini della Siberia, in un luogo impervio, difficile da abitare. L’architetto non deve ispirarsi a ciò che vede, ma alla parte invisibile, alle sensazioni che ha». Astana è una città che sta suscitando notevoli interessi. Metodicamente monitorata nella sua crescita, ha nuovi edifici ultramoderni, efficienti e con un alto controllo termico. È infatti la capitale più fredda del pianeta. Il nucleo direzionale di Astana è suddiviso, lungo il suo asse longitudinale, in tre piazze. In quella principale, nota per il suo monumentale vuoto sorge il colorato Auditorium di Stato. L’edificio dello studio Nicoletti difatti è stato pensato come una Piazza-Foyer. Si integra perfettamente nel sistema delle piazze pubbliche

PLANIMETRIA PIANO TERRA

PROGETTO / 3

di Astana. Offre un ambiente protetto dal- costruito, sfaccettato e sfaldato. I diversi elele severe condizioni climatiche del luogo che menti curvi e convessi che fungono da papossono variare da -40°C a +40°C nel cor- reti dell’edificio evocano dei petali o delso dell'anno, e tutti i comfort che un luo- le vele. All’interno le sale dell’auditorium go chiuso e climaticamente monitorato può sono completamente rivestite in legno così come all’esterno. La offrire. Ha le vele rivestite Sala Principale è interaesternamente in vetro satiSopra e a sinistra: due esterni del Central Concert Hall mente rivestita in ciliegio nato retro-verniciato blu Kazakhstan. Ai setti murari americano ed è, non solo che si riflettono sul podio semicurvi autoportanti, rivestiti una delle più grandi al nero lucido rivestito in gradi formelle di vetro satinato, si mondo per concerti di munito degli Urali. Questo agganciano facciate in vetro sica classica, ma ha anche stesso materiale lapideo è presente anche nella pavimentazione del- un palco di dimensioni maggiori rispetto la piazza interna le cui pareti sono invece alla norma, adatto dunque a ospitare altri rivestite con pannelli di cemento bianco. tipi di spettacoli che possono variare da conL’aspetto morfologico dell’edificio è lega- certi di musica pop a rappresentazioni terto allo strumento musicale tradizionale Ka- sicoree, al teatro di prosa, a conferenze o zako la "dombra", un liuto bicordo a ma- al cinema. Manifestazioni che sono adenico lungo che ha la cassa armonica ovoi- guatamente gestite grazie a un sistema di dale. L’ovoide da cui è nata la suggestione tende acustiche e controsoffitti mobili iniziale durante l’atto progettuale è stato de- che regolano il volume e i livelli di assorbimento, nonché la riflessione acustica della sala tramite sofisticati sistemi informatizzati. A tutto ciò collabora anche la particolare conformazione del controsoffitto, detta a "Buco Nero", poiché è in grado di garantire un ottimo assorbimento delle diverse riflessioni acustiche. Il 15 dicembre 2010, la nuova Concert Hall è stata inaugurata con un concerto organizzato per commemorare il 18° anniversario dell'indipendenza del Kazakistan, un’ampia manifestazione ospitata in 55mila mq di superficie con un’accogliente enorme piazza interna di circa 3mila mq. Una piazza pubblica, a scala urbana, che a prescindere dalla presenza di concerti o avvenimenti pubblici è in grado di ospitare i cittadini di Astana tutto l'anno. DESIGN + 61


Foto di Nigel Young

PROGETTO / 4

SCHEDA

Progetto Foster + Partners Team Cliente AT+T Performing Arts Center Landscape Designers Michel Desvigne Acustica Wilson, Ihrig & Associates


Winspear Opera House

L’OPERA SECONDO NORMAN FOSTER


PROGETTO / 4

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Foto di Nigel Young

Foto di Iwan Baan

Foto di Iwan Baan

allas, la terza città del Texas. La città che nell’immaginario di molti rappresenta l’aspetto commerciale ed economico degli Stati Uniti. La città che un serial televisivo degli anni Ottanta ha reso famosa, proponendo una saga su una ricca famiglia di petrolieri texani. Già da molti anni al centro di importanti interessi culturali, Dallas oggi ha un esteso quartiere delle arti, l’AT & T Performing Arts Center. Un parco pubblico di 10 ettari disegnato dal paesaggista Michel Desvigne, corredato di un auditorium sinfonico, il Morton H. Meyerson Symphony Center, costruito nel 1989 su progetto di Ieoh Ming Pei, il Nasher Sculpture Center, un museo della scultura moderna e contemporanea progettato da Renzo Piano, un teatro di posa, il Dee and Charles Wyly Theatre, progettato da Rem Koolhaas, e un grande Teatro d’Opera con più di 2.300 posti, il Margot and Bill Winspear Opera House disegnato dallo studio di Norman Foster e inaugurato quest’anno. Winspear Opera House è un sinuoso volume rosso lucido con all’intero l’auditorium. Ha una pianta a ferro di cavallo a cui si sovrappongono sei livelli di gallerie. Una struttura a più livelli che dona al pubblico la sensazione di stare il più vicino possibile al palco, tanto da sentirsi parte integrante della performance. La distanza tra il palco e la balconata è stata ridotta al minimo e il senso d’intimità, nelle diverse balconate, è enfatizzato dai lussuosi interni rosso scuro con rifinitura in oro bianco. Il compatto edificio è totalmente circondato da un’ampia piazza. Il passaggio verso l’interno avviene attraverso la lobby, l’atrio, pro-

Sopra: tre foto del “tamburo” rosso, il volume lucido che contiene la sala a sei livelli dell’auditorium. A destra: l’atrio con la sua particolare scala in metallo

SEZIONE LONGITUDINALE DI TUTTO L’EDIFICIO

64 DESIGN +


Foto di Nigel Young


Foto di Nigel Young

Foto di Nigel Young

Foto di Iwan Baan


Foto di Nigel Young

Foto di Nigel Young

Foto di Iwan Baan


PROGETTO / 4

UNA SCALA CORRE DA UN LATO ALL'ALTRO INTORNO AL VOLUME ROSSO DENOMINATO “TAMBURO” E COLLEGA GLI SPAZI DELLA HALL 68 DESIGN +

Foto di Iwan Baan

gettato appositamente per aumentare l’effetto di affascinazione sugli spettatori prima che entrino nella sala concerti. Una grande scala corre da un lato all'altro intorno al volume rosso sopranominato “tamburo” e collega tra loro tutti gli spazi della hall, creando i giusti spazi affinché il pubblico possa fare una pausa osservandosi intorno. Il tamburo presenta dei tagli verticali alquanto profondi che servono al pubblico per muoversi liberamente lungo i quattro livelli di balconate. Dalla piazza all’interno il passaggio è reso morbido dalla semplice e chiara vetrata che rende facile la lettura dall’interno all’esterno e viceversa. Un interno luminoso, colorato e variamente organizzato tra bar e ristoranti aperti anche fuori dagli orari di spettacolo. La piazza dunque è vissuta in tutte le ore della giornata. Per facilitare e amplificare la piacevolezza della sosta, sulla piazza è stata progettata una copertura metallica tipo brise-soleil, che contribuisce a creare un microclima adatto alla crescita di piante autoctone. L’impianto della piazza è suddiviso in più quadranti, alcuni dei quali sono coltivati a prato inglese con fiori selvatici mentre altri sono rivestiti di granito nero. Per alimentare la frescura parte della pavimentazione rimanente è ricoperta da un velo d’acqua corrente. Acqua che ricopre anche quella parte di pavimentazione su cui sono stati scolpiti e rifiniti in acciaio inossidabile i nomi dei finanziatori del progetto. L’effetto è di un grande specchio. Uno specchio cangiante come la luce del giorno, come le increspature dell’acqua o ancora come i passanti, l’intorno e il brise-soleil che vi si riflettono. La sala all’interno è dotata di un raffinato impianto acustico progettato da Bob Essert. La fun-

Foto di Nigel Young

A destra: la sala da concerto. Nella foto in alto si può scorgere la suggestiva scenografia creata dal lampadario costruito con 320 barre acriliche, che poco prima dell’inizio dello spettacolo (foto sotto) si ritrae lentamente per lasciare completamente libera la visuale

zionalità di questo impianto è favorito dalla compattezza che caratterizza tutto l’edificio, ma è ovviamente coadiuvato dai rivestimenti scelti che migliorano la risonanza della voce umana e rendono lo scorrere del suono dell’orchestra morbido, fluente e libero. L’interno, con i suoi sei livelli di diversa lettura prospettica, è reso particolarmente scenografico dal luminoso lampadario dai bracci filiformi. Un cono invertito di luce realizzato con 320 barre acriliche che, ad ogni inizio spettacolo, si eclissa, con lenti movimenti ascensionali, nel soffitto della sala per lasciare completamente libera la visuale. A caratterizzare ulteriormente la sala vi è l’enorme tenda rossa appositamente progettata dall'artista argentino Guillermo Quintero e posta a chiusura del palco.

PLANIMETRIA DEL PIANO TERRA


SCHEDA

Progetto Snøhetta AS Luogo Bjørvika Oslo, Norvegia Inizio lavori 2002 Inaugurazione 2008 Committente Ministry of Church and Cultural Affairs

Norwegian Opera House

A PASSEGGIO SUL TEATRO


PROGETTO / 5 IL GRUPPO SNØHETTA HA ADOTTATO UN APPROCCIO TRANSDISCIPLINARE. CON PARTICOLARE CURA AGLI SPAZI INTERNI E AI DETTAGLI TECNICI

I

l governo norvegese nel 1999 commissionò allo studio Snøhetta il Norwegian Opera House di Oslo. Una costruzione che ha vinto il premio Mies van der Rohe Award 2009, come migliore architettura contemporanea. Gli architetti, con questo edificio hanno cercato un punto d’interconnessione tra identità formale, paesaggio e natura. Dalla ricerca del punto di fusione tra architettura e landscape ne è scaturita una struttu-

ra dalla particolare complessità creativa che rievoca temperature polari e immaginari del sud d’Europa: un tappeto, come lo hanno definito gli stessi progettisti, che appoggiandosi sul suolo genera, con tagli e pieghe, un nuovo ambiente, ibrido, freddo, e contemporaneamente solare e scultoreo. Il contatto diretto che questa struttura ha con l’acqua fa pensare alla Sydney Opera House di Jorn Utzon: una struttura dotata di una piazza a più quote rivolta verso la baia.

Potenzialmente l’Opera House è vista come elemento generante nuovo sviluppo urbano, e proprio per questo, lì dove attualmente vi sono ampie sezioni stradali a scorrimento veloce, vi sarà creata una zona cuscinetto di verde pubblico, a tutela del luogo da ulteriori possibili costruzioni, e il traffico veicolare sarà completamente convogliato in un tunnel sotterraneo passante sotto un fiordo. Per accedere all’ampio foyer dell’Opera House bisogna attraversare un diaframma vetrato che supportato da un’essenziale struttura metallica si presenta trasparente e specchiante e pertanto mutevole con le ore del giorno e con i cambiamenti climatici. La distribuzione planimetrica dell’interno dell’edificio è alquanto semplice ed è divisa in tre sezioni principali: la zona del teatro


PROSPETTO LATERALE - NORD

PROSPETTO LATERALE - OVEST

SEZIONE TRASVERSALE

Nella pagina accanto: particolare dei pannelli in alluminio adoperati per caratterizzare alcune parti dell’edificio. In basso: immagine frontale del Norwegian Opera House, visto dal mare. La pavimentazione digrada dolcemente fin dentro all’acqua della baia, ma sale anche fino a giungere fin sopra la copertura della struttura, completamente calpestabile. Il marmo scelto per l’intero rivestimento è quello delle Alpi Apuane, il marmo di Carrara tagliato in questo caso in lastroni, masselli e pezzi monolitici con cui risolvere morfologie alquanto complesse date da salti di quota e diverse variazioni di pendenza


PROGETTO / 5 A sinistra: interno dell’auditorium da 1400 posti. A destra: due fotografie del foyer, all’interno del quale sono stati collocati il guardaroba, la caffetteria, il bar e il ristorante. Per caratterizzarlo è stata scelta la quercia bianca americana

con le tre sale da 1.400, 440 e 150 posti; la sezione che comprende foyer, biglietterie, guardaroba, bar, ristoranti, servizi e aule per le conferenze e le attività didattiche; e infine la zona delle sale prova con gli uffici amministrativi e l’area dedicata ai laboratori di scenografia, sartoria e trucco. L’allestimento dei foyer e delle sale teatrali a differenza delle linee spigolose che con-

notano il candido rivestimento marmoreo esterno è caratterizzato da un muro a onda, dalle tinte calde, tipico dell’essenza di quercia americana, lavorato così da creare ricercate e sinuose tessiture dall’andamento curviforme che, insieme ai diversi tipi di illuminazione creano un particolare effetto a sorpresa per gli spettatori. L’auditorium è disegnato seguendo la classica forma a ferro di cavallo. Ha soffitti molto alti, ottima acustica naturale, ed è stato studiato così che ogni postazione abbia una buona prospettiva della scena. L’altra sala, quella di dimensioni più piccole, è stata impostata per garantirne invece la massima flessibilità nell’uso, così da essere di supporto alla scena principale o essere utilizzata per concerti indipendenti. Sotto la scena principale ne è stata progettata una seconda, comunque accessibile al pubblico, attrezzata con ascensore, in cui trovano posto il backstage e le sale prove per i coristi. Vista l’impostazione morfologica del progetto, il tetto è completamente accessibile. È una vera area pubblica rivestita anch’essa di materiale lapideo. Il marmo scelto è quello bianco di Carrara ed è stato posato così da affiorare dalle acque del fiordo, con funzione di banchisa, salire dolcemente e avvolgere anche lo spazio interno dell’Opera House. Tutto l’insieme marmoreo, opera di Kristian Blystad, Kalle Grude e Jorunn Sannes, con le aggressive movenze spigolose mostra importanti tagli e particolari elementi a rilievo che sono stati appositamente proposti come sedute. Il rivestimento esterno dell’edificio in alluminio invece presenta superfici trattate seguendo otto diversi tipi di textures e ulteriormente tipicizzate da elementi sferici a rilievo. Questi elementi sono stati realizzati su progetto degli artisti Astrid Løvaas e Kristen Wagle. Il gruppo Snøhetta, dunque, anche per questa architettura, ha adottato un approccio transdisciplinare. Un approccio ad ampio raggio che dedica cura agli spazi interni, ai dettagli tecnici e all’apporto di altre valenze estetiche, diverse dalle istanze architettoniche che, in questo caso, si sono concretizzate nella stretta collaborazione con i citati artisti.

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1. Entrata - accesso principale - 2. Foyer - 3. Biglietteria e informazioni - 4. Bistròt - 5. Bagni pubblici - 6. Ristorante - 7. Sala lettura 8. Auditorium - 9. Secondo palcoscenico - 10. Palcoscenico principale - 11. Scenari laterali - 12. Backstage - 13. Sala prova 1 - 14. Materiale di scena 15. Sala riunioni - 16. Corridoio di servizio - 17. Entrata secondaria - 18. Camerini per gli artisti - 19. Camerini per i ballerini - 20. Acconciature e make-up - 21. Costumi - 22. Magazzino - 23. Sartoria - 24. Falegnameria - 25. Carico e scarico merci - 26. Corte interna - 27. Cortile

DESIGN + 73


PROGETTO / 6

A FORMA DI CONCHIGLIA

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iemeyer e Ravello. Un travagliato connubio che ha portato la panoramica cittadina campana a dotarsi di un auditorium contemporaneo. L’edificio porta il nome di chi lo ha progettato, Auditorium “Oscar Niemeyer”, il famoso architetto brasiliano che ama arricchire le tavole dei suoi progetti con frasi capaci di chiarire poeticamente gli intenti progettuali e che in una delle prime tavole, consegnate al sociologo Domenico De Masi, ha scritto: “il mare, il cielo, il panorama bellissimo... Tutto questo fa parte dell’architettura”. Ci sono voluti dieci anni perché venisse completato, e il costo complessivo dell'opera ammonta alla fine a diciotto milioni di euro, in gran parte donati dalla Comunità europea, con la partecipazione anche della Regione Campania e del Comune di Ravello. E finalmente, lo scorso gennaio, dopo diverse e varie vicissitudini la città ha potuto organizzare l’inaugurazione. È un segno morfologicamente integrato. È assolutamente bianco e a primo acchito potrebbe risultare cromaticamente dissonante, ma tra il verde della collina, l’azzurro del cielo e il blu del mare, la conchiglia si staglia con la grazia e l’eleganza tipica di alcune costruzioni della costa amalfitana e si dimostra profondamente diversa dalle qualunquiste linee progettuali delle costruzioni abusive che pullulano sulla collina. La scelta del sito ha richiesto diverse valutazioni, e tra i criteri di scelta, ben dieci anni fa, vi era la vicinanza al centro storico, l’accessibilità pedonale, e la panoramicità. Si cercava un’area che potesse garantire ai fruitori una percezione del paesaggio analoga a quella storicamente offerta dai giardini di Villa Ruffolo durante il famoso Festival di Ravello. L’impianto è stato suddiviso in tre blocchi. Il primo blocco è l'auditorium, il secondo è il parcheggio, il terzo è quello denominato edificio di appoggio. Vi si accede da una strada che sfiora l’edificio dell’auditorium nella sua par-

te più alta e proseguendo verso l’edificio di supporto, la cui copertura è divenuta un secondo belvedere, conduce direttamente nel cuore di una grande piazza oblunga che offre un’ampia vista sul paesaggio e sull’edificio stesso dell’auditorium. È una piazza che ha funzione di filtro. È posta tra il volume dell'Auditorium e quello dell'edificio di appoggio, e si connota come spazio dotato di una propria qualità grazie alla sua conformazione di terrazza e di accesso all'Auditorium. È interamente pavimentata con la dura, chiara e levigata pietra di Trani e a caratterizzarla è anche il corrimano in acciaio contenente dei tubi fluorescenti. La sala è a scena aperta con la platea al centro, protetta da un muro mobile, (a dislocazione verticale) che delimita ed evidenzia architettonicamente la geometria a parabola del palco. Quest'ultimo alimenta l'idea di spazio continuo: infatti esso è stato concepito in modo tale da potere assumere diverse configurazioni altimetriche. Ma la sua più importante peculiarità è quella di portarsi, attraverso un sistema di movimentazione idraulico, alla stessa quota della piazza, ovvero dell'ingresso all'Auditorium, rendendo il foyer un unico grande spazio sfruttabile per grandi eventi come conventions, mostre e per grandi spettacoli di teatro o di balletto. Questa nuova concezione dello spazio del palco e del foyer attribuiscono all'Auditorium una potenzialità unica e una forza architettonica ineguagliabile espressa anche nella dualità di approccio usato per progettare tutto l’impianto interno. Infatti, mentre la platea sfrutta il declivio naturale del terreno, l’orchestra e il foyer aggettano direttamente nel vuoto. Sporgono verso il mare, verso il sole, verso quel cielo, quell’azzurro che si scorge anche dall’interno durante lo spettacolo. La forma dell’edificio è concava. È morfologicamente simile a quella del mandolino. Fa da cassa armonica. Oltretutto la riverberazione interna è stata risolta applicando all’intradosso della volta, un rivestimento, fatto da doghe lignee montate su un intercapedine d’aria contenente materiale fonoassorbente. Tutta la progettazione acustica è stata supportata da software che simulano la risposta sonora in ambienti chiusi. L’auditorium di Ravello è una nuova struttura, un nuovo spazio, che ha il compito di destagionalizzare il turismo culturale legato al Festival e condurlo nella città campana lungo l'intero anno solare.

A sinistra: visione notturna della volta dell’auditorium. In alto: l’asola vetrata posta sul palco offre agli spettatori una profonda vista sul panorama della costa sottostante. Il palco, gestito da una semplice macchina scenica può avere diverse configurazioni altimetriche. A destra: visione notturna della piazza antistante l’accesso principale


Auditorium “Oscar Niemeyer” SCHEDA

Progettista Oscar Niemeyer Sito Ravello Costo 18.5 milioni di euro Posti a sedere 400 Posti auto 107 Palco 167 mq Inizio lavori 2001 Fine lavori 2010


PROGETTO / 6 A sinistra: esplicativa sezione longitudinale disegnata a mano dall’architetto Niemeyer. In basso: due fotografie. La prima riprende il prospetto del basso edificio d’appoggio ospitante il book-shop; nella seconda, l’orchestra e la facciata in vetro che dà sulla piazza

TRA L’AZZURRO DEL CIELO E IL BLU DEL MARE, L’AUDITORIUM SI STAGLIA CON LA GRAZIA TIPICA DI ALCUNE COSTRUZIONI DELLA COSTA AMALFITANA

In basso: schizzo planimetrico disegnato da Oscar Niemeyer, che abitualmente aggiunge frasi scritte a mano per chiarire concettualmente il disegno realizzato

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Zenith di Strasburgo Foto di Philippe Ruault

UN’ARENA PER IL ROCK

SCHEDA

Progettisti Massimiliano e Doriana Fuksas Sito Strasburgo Inizio lavori 2003 Fine lavori 2008 Area 14.000 mq Acustica Altia Illuminazione Pixelum


PROGETTO / 7

SEZIONE LONGITUDINALE In alto: l’atipica hall dell’auditorium. Circonda il nucleo della sala e pertanto contiene la grande affluenza di spettatori. I diversi accessi alla sala, posti a quote diverse, facilitano il defluire delle grandi masse. Nella pagina accanto: due foto che riprendono l’esterno della struttura

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È

tallica: 22 putrelle di 60 metri di lunghezza che sorreggono una sorta di tettoia in parte ancorata alle pareti di cemento e in parte appoggiata al suolo e che sorregge la membrana di rivestimento arancione. I giganteschi anelli orizzontali, in totale cinque, sono costituiti da tubi di acciaio con una sezione di circa 50 cm e inclinati secondo direzioni diverse tra loro. Alla struttura metallica della sala si aggancia una griglia d’acciaio, a ruota di bicicletta, anch’essa capace di sopportare 45 tonnellate di materiale scenico e che presenta un nodo centrale, sospeso sopra la scena, a cui vengono trasmessi tutti gli sforzi delle strutture della sala e della hall. L’arena è assimilabile a un tendone da circo, con il vantaggio, non trascurabile, di non avere il palo centrale. In pianta, si leggono due ellissi traslate e ruotate fra loro l’una sull'altra. La prima corrisponde alla forma dell'arena, la seconda coincide invece con la tensostruttura che avviluppa il perimetro. Osservando la sezione verticale è facile comprendere che tutta la struttura è svasata dal basso verso l'alto e lungo il peFoto di Philippe Ruault

LA MEMBRANA CHE AVVOLGE LA STRUTTURA È UN COMPOSTO DI VETRO E SILICONE, RESISTENTE AL FUOCO, MALLEABILE E IDROREPELLENTE

dalla fine degli anni Settanta che in Francia si costruiscono Zenith. Il Ministero della Cultura, in quegli anni, ha promosso la costruzione di luoghi dedicati agli spettacoli dal vivo e ne ha stabilito anche alcune peculiarità: ottima acustica, grande spazialità e ampi accessi collegati direttamente con lo spazio scenico, così da favorire il passaggio dei camion contenenti gli impianti audio-video necessari all'allestimento del palco. Il 18esimo Zenith, in Francia, a Strasburgo, è stato progettato nel 2008 dallo studio Fuksas. «Vista da fuori sembra un'opera di Land Art», ha dichiarato due anni fa Massimiliano Fuksas al Corriere della Sera. «Credo che piacerebbe molto a Christo, per esempio... ». È un incrocio fra un edificio e un tendone da circo. È una tensostruttura. Lo stesso materiale che normalmente è in uso per la copertura in quest’architettura è stato usato anche per caratterizzare la facciata. È una struttura ben lontana dalle tipologie a "tenda" o a "vela" con tiranti e pennoni solitamente in uso per i concerti fuori dai centri urbani. Di colore arancione, di tessuto simile al Goretex, l’intera struttura è stata più volte assimilata a una lanterna in carta di riso, quella tipica della tradizione cinese. Ha molte caratteristiche innovative e soprattutto una hall atipica, che non è situata in un unico punto ma circonda il nucleo centrale della sala e contiene la grande affluenza di persone (come accade negli spettacoli rock). Inoltre ha anche funzione di diaframma tra l’esterno e l’interno. La doppia pelle maschera il nucleo centrale della struttura costituito da un solido corpo edilizio: un'arena a pianta ellissoidale interamente costruita in calcestruzzo armato. È su questo solido perimetro che si incastra la struttura me-

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PROGETTO / 7

rimetro, 420 metri di sviluppo, assume più di 20 conformazioni diverse dovute al disassamento fra i centri delle due ellissi. «Si trattava di creare un luogo in cui l’espressione delle nuove culture suburbane e i nuovi linguaggi multietnici trovassero consacrazione», ha commentato Fuksas. «Lo Zenith di Strasburgo è il cuore dove pulsano le lingue e i dialetti degli esclusi. Ma anche di coloro che sono parte delle moltitudini che assistono ai riti dei concerti pop e che seguono il calendario che sposta le grandi band e lo show business da un lato all’altro dell’Europa. Lo Zenith è ancora uno spazio di forma semiciclica in cui la vicinanza degli uni e degli altri trasforma in un’unica anima questi spettatori affamati di eventi». E ancora: «Questo avviene ai margini della città di Strasburgo. Città bor-

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1. Hall - 2. Accesso prima galleria - 3. Sala dedicata alla regia - 4. Backstage, camerini e uffici 5. Backstage della produzione - 6. Spazi tecnici

ghese, città in bilico fra Germania e Franci…. non a caso è una città dell’Europa. Del Parlamento Europeo. Che ha il Lussemburgo e i Paesi Bassi a poche centinaia di chilometri e così anche la Svizzera... È un’area a sé stante... Divenuta città che connette la rete dell’alta velocità tedesca a quella francese. Passaggio definitivo verso l’est dell’Europa». La membrana utilizzata per avvolgere la struttura è un composto di vetro e silicone. È traslucida ed è altamente resistente alla tensione. Ha un’ottima resistenza al fuoco, è idrorepellente ed è molto malleabile. I diversi tagli sono stati giuntati a caldo nei laboratori dell'azienda produttrice. Si scompone in 40 grandi elementi di tessuto di circa 40 metri di lunghezza e di circa 400 mq ciascuno. Il risultato finale è una superficie uniforme che non dà modo di leggere dall’esterno gli elementi di fissaggio della membrana. «L’architettura del movimento moderno - afferma Fuksas - aveva come principio ineluttabile la rottura di stile con il passato. L’architettura viene messa in crisi pochi anni più tardi dalla consapevolezza che non è fatta di “pieni”, ma ha il “vuoto” come soggetto ineluttabile. Il vuoto per anni diviene quasi un santuario in cui tutti gli architetti sacrificano le loro speranze. Nel caso dello Zenith di Strasburgo quello che rende in tensione il tessuto è l’“aria”. Dopo l’immateriale e il vuoto, l’aria è l’ultimo dei tentativi di astrazione e di far perdere peso all’architettura. Senza per questo rinunciare all’espressione e alla ricerca dell’emozione».


Foto M. Maggi

Nella pagina a fianco, in alto: una vista dall’alto della struttura costruita nella periferia di Strasburgo; in basso: l’interno della sala. In questa pagina: il nucleo centrale, realizzato in calcestruzzo armato. La struttura metallica sorregge invece la membrana di rivestimento arancione






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T E P R I M A

TRASFORMAZIONI DEL PAESAGGIO

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’esposizione presenta una selezione di 32 immagini inedite di uno dei maestri della fotografia italiana che documentano la trasformazione della metropoli turca, scattate durante due campagne realizzate nel 2005, quando Basilico fu invitato alla IX Biennale Internazionale di Istanbul, e nel 2010, in occasione di Istanbul Capitale Europea della Cultura. La ricerca indaga aree storiche consolidate della città e nuovi quartieri in via di espansione e trasformazione, un’immersione nelle straordinarie dinamiche evolutive di una megalopoli crocevia di culture, dove convivono tradizione e aspettative per il futuro. Il contributo di Gabriele Basilico alla documentazione fotografica dello spazio urbano contemporaneo è tra i più significativi degli ultimi 25 anni: la sua attenzione si concentra sulla città intesa come corpo fisico in perenne “movimento” e come metafora degli aspetti sociali del nostro tempo. Istanbul 05.010 è organizzata dalla Fondazione Stelline di Milano con il patrocinio di Regione Lombardia, Provincia di Milano e Comune di Milano, e realizzata con il sostegno di Eni, realtà particolarmente attiva nella promozione e nel sostegno di manifestazioni culturali di grande valore, e con la collaborazione

di Italcementi, promotrice dell’architettura come strumento di trasformazione. Gabriele Basilico nasce a Milano nel 1944. Dopo la laurea in architettura (1973), si dedica con continuità alla fotografia. La forma e l’identità delle città, lo sviluppo delle metropoli, i mutamenti in atto nel paesaggio postindustriale sono da sempre i suoi ambiti di ricerca privilegiati. Considerato uno dei maestri della fotografia contemporanea, è stato insignito di molti premi, e le sue opere fanno parte di prestigiose collezioni pubbliche e private italiane e internazionali. Nel 1991 partecipa alla missione su Beirut, città devastata dalla guerra civile durata 15 anni. Da allora, Gabriele Basilico ha prodotto e partecipato a numerosissimi progetti di documentazione in Italia e all’estero, che hanno generato mostre e libri, tra i quali “Porti di mare” (1990), “L’esperienza dei luoghi” (1994). Tra i lavori recenti, “Silicon Valley” (2008, su incarico del San Francisco MoMa).

MILANO

Istanbul 05.010 Fondazione Stelline (fino al 12 dicembre 2010)

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MOSTRE

Un’unica azienda, un’unica filosofia che ne contraddistingue l’operato sin dalla sua nascita. Quattro nomi di architetti, noti a livello mondiale, quattro diversi stili: questo il filo conduttore che animerà l’evento. All’interno della superba architettura dei Magazzini del Sale, come “ospiti di passaggio”, perché nulla verrà rimosso di quanto presente, verranno esposti otto degli oggetti firmati dagli architetti/designer prodotti da HORM nel corso dell’ultimo decennio, accompagnati da quattro video proiezioni dedicate alle loro opere di architettura. Il titolo della mostra “(F)our Horm” è evocativo di un doppio significato: “our Horm” indica che i progettisti invitati presentano, al vero, le "loro" opere create per HORM e quindi il "loro" modo di vedere ed interpretare l’azienda; (f)our Horm indica il fatto che sono in quattro a farlo e sono coloro ai quali la Horm riconosce il ruolo di Maestri nell'Architettura. In questa occasione 88 DESIGN +

verranno presentati dal vivo i quattro diversi "stili" che Horm ha saputo concretizzare grazie alla sinergia creatasi fra le maestranze e i creativi: l'anima borghese e allo stesso tempo ironica di Mario Bellini; lo stile classico e celebrativo con Mario Botta; la ricerca nella rifrazione della luce e la porosità di Steven Holl ed infine la poesia e l’amore per il legno di Toyo Ito. I pezzi di arredo esposti, la sedia Ki e la libreria Sudoku di Mario Bellini, la poltrona Charlotte e lo specchio Mamanonmama di Mario Botta, il mobile Riddled ed il tavolo Riddled Led di Steven Holl, la panca Ripples e la libreria Sendai di Toyo Ito, saranno quindi il punto di partenza per un percorso che vuole ricordare la storia di Horm, cosi come ognuno di loro l’ha pensata, interpretata, assorbita, vissuta e disegnata. Le proiezioni video saranno dedicate alle architetture più recenti ed importanti, dal Linked Hybrid, il quartiere eco-sostenibile di Steven Holl a Pechino,

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Oggetti d’autore

allo stadio a Kaohsiung (Taiwan) e la Serpentine Gallery di Toyo Ito; dalle cantine e musei di Mario Botta, alla sede centrale della Deutsche Bank e al Centro Congressi di Mario Bellini nell’area dell’ex Fiera a Milano, e faranno da corollario alla “storia” di HORM, unica azienda italiana nel settore dell’arredo di design ad essere insignita di Tre Compassi d’Oro e varie segnalazioni nel breve periodo di un decennio. Il Compasso d’Oro è molto più di un premio, è il riconoscimento del design al design, è un grande traguardo che Horm ha raggiunto tre volte e che è stato uno stimolo in più per fare ancora meglio. Nato nel '54 da Rinascente, il Compasso d'Oro ha premiato aziende del calibro di Olivetti e Fiat. VENEZIA

(F)our Horm Magazzini del Sale (fino al 21 novembre 2010)


Il progetto MINI & Triennale CreativeSet presenta la mostra “Donata Paruccini: piccoli segni nei dintorni”, che si inserisce nel ciclo dedicato al design italiano contemporaneo nello spazio del CreativeSet del Triennale Design Museum. In questa occasione, il lavoro di Donata Paruccini è presentato organicamente per la prima volta. La progettualità di Donata Paruccini è ben esemplificata da The Fly. La Paruccini, come nota il curatore, “mette in scatola” delle mosche “fastidiose” per renderle funzionali trasformandole in puntine da disegno. Questo “mettere in scatola” significa affrontare progettualmente stimoli, domande, problemi quotidiani. Significa suggerire l’obbligo di tornare a guardare le cose: viverle, non accumularle; toccarle, non riporle. Donata Paruccini è una progettista “schiva”: progetta solo quando può aggiungere all’esistente una piccola cosa, un frammento di poesia, una traccia di

ordine. Progetti come il portamatite Monoblocco, le scatole per la pulizia delle scarpe Cleaning shoes box o lo svuotatasche Catch-all testimoniano questo approccio ideologico, assolutamente inedito, che si distingue per l’eccezionale qualità formale dei risultati. Nata nel 1966 a Varedo, in provincia di Milano, La Paruccini trascorre la sua infanzia e i primi anni formativi in Sardegna, quindi si trasferisce a Firenze dove studia Industrial Design all’ISIA diplomandosi con Jonathan De Pas. Dal 1994 al 1997 lavora nello studio Andrea Branzi che, insieme a Tamar Ben David, conosciuta negli stessi anni, l’ha molto aiutata. Ha partecipato a diverse edizioni della mostra Opos durante il Salone del Mobile di Milano e nel 2007 è stata membro del “Consiglio Italiano del Design”. L’esperienza all’interno di Opos, luogo di confronto e esposizione, è stata per lei molto importante: in questo contesto ha mosso i primi passi di ricerca autonoma.

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Guardare le piccole cose

Attualmente vive e lavora tra Milano e Parigi come libera professionista e i suoi oggetti sono in produzione per Alessi, ENO, Morellato, Nodus, Pandora Design e RSVP. Tra le diverse esposizioni collettive si ricordano nel 2007 The New Italian Design alla Triennale di Milano; nel 2005 Premio Caiazza Memorial Challenge sezione inviti, organizzata da Promosedia, Udine; Art of Italian design ad Atene; nel 2003 19502000: Theater of Italian Creativity al Dia Center di New York. Al fine di promuovere e valorizzare maggiormente il nuovo e giovane design italiano e renderli ancora più facilmente fruibili a un ampio pubblico, per tutto il secondo ciclo espositivo del progetto MINI & Triennale CreativeSet il costo di ingresso a ogni mostra è di 2 euro. MILANO

Donata Paruccini: piccoli segni nei dintorni Triennale Design Museum (3/11 - 8/12/2010)

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MOSTRE

L’impressionismo

SAN MARINO

Monet, Cézanne, Renoir Palazzo Sums (fino al 27 marzo 2011)

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«Noi usiamo i colori ma quello con cui dipingiamo è il sentimento». Con queste parole, Jean-Baptiste Siméon Chardin (16991779), contrapponendosi alle regole accademiche allora in voga, descriveva il suo modo di fare arte e la sua poetica. A questo grande protagonista dell’arte del Settecento, uno dei più straordinari pittori di tutti i tempi, è dedicata un’importante mostra, la prima mai consacrata in Italia all’artista francese che ha senza dubbio avuto maggior influenza sulla pittura moderna.

Sculture in mostra

A distanza di 5 anni dalla mostra sulla scultura italiana del XX secolo che inaugurava la nuova sede della Fondazione Arnaldo Pomodoro di Milano, gli spazi di via Solari 35 ospitano un’esposizione che traccia un primo bilancio delle ultime tendenze italiane nel campo delle discipline plastiche. Curata da Marco Meneguzzo, la mostra presenta le opere di 80 artisti, tutti nati nella seconda metà del secolo scorso, dagli ormai storicizzati Nunzio e Dessì, agli esponenti delle generazioni più recenti, quali Cattelan, Bartolini, Dynys, Arienti, Moro, Beecroft, a quelle ancora più giovani, con Cecchini, Sissi, Demetz, Cuoghi, fino alle ultimissime come Sassolino, Simeti, Previdi, Gennari. L’esposizione, che si pone in linea di ideale continuità con quella del settembre 2005, testimonia delle più diverse espressioni di quella che si potrebbe configurare come “la nuova tendenza della scultura”, oggi la disciplina più difficile da definire: i linguaggi si sono definitivamente ibridati, i codici tradizionali sono stati rapidamente abbandonati negli ultimi trent’anni, e quella che era la disciplina artistica più “certa” nelle definizioni è divenuta di fatto la più incerta. Tentare una nuova definizione? Accettare tutto indiscriminatamente? Far dissolvere la scultura nelle cosiddette “installazioni” o addirittura nell’architettura? Questa la sfida lanciata con questa mostra dalla Fondazione, che si è caratterizzata proprio per l’opera di diffusione e di ricerca sulla scultura, nelle sue accezioni storiche ma anche contemporanee.

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Arte e sentimento

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Questa mostra, costruita con dipinti provenienti dai musei di Boston, Columbus, Montpellier, Lille, Angers e dell’Ecole Nationale Supérieure des Beaux-Arts di Parigi, si compone di 25 opere, alcune di grande formato, che si collegano alla grande mostra riminese di Castel Sismondo (Parigi. Gli anni meravigliosi. Impressionismo contro Salon). Ma, pur costituendone un logico proseguimento, in modo autonomo raccontano pagine significative della storia dell’arte in quegli “anni meravigliosi” che fecero di Parigi e della Francia il riferimento di un mondo. Si tratta, dunque, di una mostra di approfondimento, tutta costruita su quadri scelti perché emblematici in funzione del momento storico trattato.

Arte a Parigi

L’allestimento propone circa 70 dipinti da musei e collezioni private, che ci conducono nella Parigi della seconda metà del XIX secolo. Il Salon, dal 1725, era la rassegna annuale delle Accademie di Belle Arti. Mentre Bouguereau e i suoi amici vi imperversavano, all’inizio degli anni sessanta del XIX secolo, Pissarro, Monet, Renoir e Sisley, quattro giovani pittori allora quasi sconosciuti, cominciavano la strada che li avrebbe portati a modificare profondamente il senso della pittura in Francia e in Europa. In mostra sono presenti Monet, Bazille, Renoir, Cézanne, Monet, Sisley, Pissarro, Renoir, Caillebotte, Guillaumin, Van Gogh, Ingres, Bonnat, Bouguereau, Gerome, Couture, Meissonier, Cabanel, Doré, Fromentin, Henner, Laurens.

FERRARA

Chardin. Il pittore del silenzio

MILANO

La scultura italiana del XXI secolo

RIMINI

Palazzo dei Diamanti (fino al 30 gennaio 2011)

Fondazione Pomodoro (fino al 20 / 02 / 2011)

Castel Sismondo (fino al 27 marzo 2011)

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Parigi. Gli anni meravigliosi.


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AGENDA

MILANO La natività di Filippo Lippi Museo Diocesano (dal 16/11/2010 al 30/01/2011)

È la Natività con San Giorgio e San Vincenzo Ferrer di Filippo Lippi l’opera scelta per la ottava edizione dell’iniziativa culturale “Un Capolavoro per Milano”, promossa dal Museo Diocesano di Milano. Si tratta di una delle opere più interessanti della bottega di Filippo Lippi a Prato, realizzata presumibilmente attorno al 1456. Oltre alle figure sullo sfondo, la tavola rappresenta la Sacra Famiglia con San Giorgio e San Vincenzo Ferrer. Inizialmente, Lippi aveva pensato di limitare l’opera al gruppo centrale, conferendo alla pittura una forma ogivale ma, in seguito, aggiunse alla composizione le figure dei due santi.

NUORO Entretiempos nel frattempo, istanti, intervalli, durate MAN (fino al 16 gennaio 2011 al 14 febbraio 2010)

Silvia Stanzani Mosaico moderno e tradizionale Complementi d’arredo Riproduzioni di mosaici antichi Dal 1983 lo Studio propone decorazioni su disegno proprio, sviluppa idee del cliente, realizza progetti di architetti e designers S. Lazzaro di Savena (Bo) Via Pedagna, 10 051.6255253 339.7129368 www.silviastanzani.it info@silviastanzani.it

È una mostra collettiva che riunisce 17 artisti le cui opere, secondo diverse prospettive e utilizzando metodi differenti, raccontano l’esperienza del tempo nelle sue varie accezioni e forme visive. Prendono parte all’esposizione alcune delle figure più importanti del panorama artistico contemporaneo, presentando lavori fotografici, video e pellicole prodotti negli ultimi dieci anni. La mostra aspira a riflettere un ampio e paradigmatico spettro delle pratiche visive, partendo dal presupposto che le ipotesi di lavoro che hanno guidato la selezione delle opere si articolano intorno a diverse tematiche: la natura e gli effetti dell’interruzione fotografica; il contingente, l’effimero e il caso; l’analisi e la speculazione storica; l’articolazione tra la fotografia e altre modalità di immagine. RIMINI Caravaggio e altri pittori del 600. Castel Sismondo (fino a 27 marzo 2011)

Si tratta di una sublime selezione di quindici dipinti, tutti di grande formato, provenienti dal Wadsworth Atheneum di Hartford, nel Connecticut, il più antico museo americano, ancora oggi uno dei più importanti, con una collezione folta di capolavori che spazia tra i maestri dell’arte europea soprattutto del Seicento e del Settecento. L’estasi di San Francesco di Caravaggio, primissimo quadro di soggetto religioso dipinto dal grande artista attorno al 1594, è il capolavoro attorno a cui si sviluppa la mostra, che si compone di opere insigni di autori che da Caravaggio hanno tratto esempio; Cigoli, Morazzone, Gentileschi, Strozzi, Saraceni in Italia. In ambito spagnolo Zurbarán, con una delle sue opere più riconosciute, il San Serapione del 1628.


AGENDA

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GENOVA Guccione. Il Mediterraneo Palazzo Ducale (dal 27/11/2010 al 06/01/2011)

L’antologica che Palazzo Ducale riserva a Piero Guccione, in occasione dei suoi 75 anni, raccoglie 35 opere tra le più belle che l’artista ha dedicato e continua a dedicare al mare in un’instancabile ricerca pittorica, iniziata quando è tornato da Roma a vivere in Sicilia. Qui, immerso nel paesaggio dell’isola, ha raccontato nei suoi lavori i luoghi ritrovati dell’infanzia, avviando un dialogo tra sguardo e ricordo che avrebbe originato una lunga e ininterrotta indagine pittorica fatta di variazioni, soste, approfondimenti. È dagli anni ‘80 che la ricerca di Guccione si viene caratterizzando sempre più per la sensibile rarefazione dell’immagine in una progressiva tensione simbolica come se il mare si facesse sempre più luogo capace di fondere in sé l’apparenza visibile delle cose con la loro infinita risonanza interiore. RIMINI Gianquinto. Opere rare Castel Sismondo (fino all’8 dicembre 2010)

L’intento di questa preziosa antologica che raccoglie una ventina di opere rare di Alberto Gianquinto (Venezia 1929-2003), molte delle quali provenienti dalla collezione di famiglia, è quello di dare il senso più completo di questo grande artista, pittore elegante, solitario e coerente, testimone di una profonda conoscenza del colore, del segno, della forma. Gianquinto è un artista complesso, sfaccettato, intellettuale. La sua è una pittura meditata, studiata: indagine e riflessione, composizione e ricerca, avvicinarsi progressivo a quella essenzialità e a quel rigore che paiono spesso segni d’ascetismo, di sobrietà di forme e colori.

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FIRENZE Ritratti del potere - Centro di Cultura Contemporanea Strozzina, Palazzo Strozzi (fino al 23 gennaio 2011)

La mostra sviluppa un’analisi sul ritratto e sulla rappresentazione mediatica del potere politico, economico e sociale nel mondo contemporaneo, attraverso le opere di artisti e collettivi internazionali quali Tina Barney, Christoph Brech, Bureau d’études, Fabio Cifariello Ciardi, Clegg & Guttman, Nick Danziger, Rineke Dijkstra, Jim Dow, Francesco Jodice, Annie Leibovitz, Helmut Newton, Trevor Paglen, Martin Parr, Wang Qingsong, Daniela Rossell, Jules Spinatsch, Hiroshi Sugimoto, The Yes Men. Il percorso espositivo segue due principali prospettive: l’analisi del potere come espressione del carisma di singoli individui che sono diventati icone o simboli del loro tempo e l’indagine sul potere di istituzioni o modelli sociali che si rappresentano o che sono criticamente rappresentati.

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AGENDA

NAPOLI Pittura pompeiana Museo Archeologico Nazionale (fino al 31 dicembre 2010)

Ha riaperto al pubblico, al termine dei lavori di restauro e di riallestimento delle sale, la collezione delle pitture del Museo Archeologico Nazionale di Napoli che raccoglie un repertorio di affreschi unico al mondo. La collezione degli affreschi, restituiti dalle città vesuviane distrutte dall’eruzione del 79 d.C., raccoglie circa 400 opere su cui si è basata, vista la rarità delle testimonianze rinvenute altrove, la suddivisione degli stili della decorazione parietale antica. Il recupero degli affreschi da Pompei è avvenuto dalla metà del XVIII fino a tutto il XIX secolo e, in casi eccezionali, anche nel corso del 900. Questo eccezionale patrimonio documenta la pittura di età romana, nella sua evoluzione e varietà, dal II al IV stile.

ALBA

Morandi. L’essenza del paesaggio Fondazione Ferrero (fino al 16 gennaio 2011)

Si tratta della più approfondita esposizione mai dedicata ad un tema fondamentale nella poetica di Giorgio Morandi, quello del paesaggio. Maria Cristina Bandera, che ne è la curatrice, ha voluto e ottenuto una scelta di opere di indiscussa qualità, individuate anche a partire dai destinatari cui lo stesso Morandi le aveva riservate, in particolare i suoi interpreti e i suoi più importanti collezionisti. In tutto una cinquantina, dipinti su tela e una ristretta scelta di acquerelli. Proprio per ricreare i fili di committenze famose e di amicizie altrettanto importanti, la rassegna si allarga ad una ulteriore selezione di opere appartenute agli artisti contemporanei a Morandi, che per primi ne compresero la grandezza. ROMA Invito a tavola Museo Nazionale Romano (fino al 26 dicembre 2010)

La Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma presenta un’eccezionale collezione di ceramiche che raccontano la storia di Roma dal periodo tardo antico all’età moderna. Lo stesso periodo che si può ripercorrere visitando lo scavo dell’isolato circoscritto da via delle Botteghe Oscure/via Caetani/via dei Delfini/via dei Polacchi e oggi occupato dal Museo Nazionale Romano della Crypta Balbi. E sono proprio i lavori archeologici di quest’area così circoscritta che ha restituito una grande quantità di ceramiche. Sono proprio i rinvenimenti delle ceramiche, che provengono in generale da mondezzai e butti pertinenti alle abitazioni di quest’area, che si sono rivelati fondamentali per documentare i cambiamenti sociali ed economici della popolazione urbana.


AGENDA

A

ROMA

Wi-fire Tutto il pensabile è possibile

Lucas Cranach. L’altro Rinascimento Galleria Borghese (fino al 13 febbraio 2011)

La mostra propone per la prima volta al pubblico italiano la figura e le opere di Lucas Cranach il Vecchio, massimo esponente, assieme a Albrecht Durer, della rinnovata pittura tedesca del 1500. La mostra intende dare un’immagine complessiva della produzione artistica del pittore rinascimentale, artista di corte e innovatore, legato alle tradizioni fiamminghe ma contaminato anche dalle novità figurative italiane. Nella storia dell’arte, Cranach è forse più noto come amico e partigiano di Lutero, con il quale ha gettato le basi di un’ iconologia protestante. Ma Cranach, a capo di un grande ed attivissimo atelier a Wittenberg, introduceva nella pittura tedesca anche altri soggetti, soprattutto una nuova imagerie del nudo, nonché dei temi umanistici ed una ritrattistica incisiva ed innovativa. PADOVA Il volto dell’800 Palazzo Zabarella (fino al 27 febbraio 2011)

Cento ritratti, cento storie, cent’anni di straordinaria arte, da Canova a Modigliani. La grande mostra che Fondazione Bano e Fondazione Antonveneta propongono a Palazzo Zabarella non è una pur interessante parata di “mezzibusti”, tutt’altro: il tema del ritratto vi è analizzato nel senso più esteso, dall’immagine del volto, alla figura intera, di gruppo, familiare e non, in situazioni ufficiali, mondane o intime. Insomma tutto il caleidoscopio di una società nei vortici di una velocissima, potentissima trasformazione. L’800 visse cambiamenti sociali e politici impensabili che mutarono il mondo e l’uomo. E l’arte li registrò e spesso li anticipò. PISA Joan Mirò. I miti del mediterraneo Palazzo Blu (fino al 23 gennaio 2011)

L’iniziativa è la seconda di un ciclo triennale di mostre dedicato ai grandi protagonisti dell’arte del Novecento e al loro rapporto con il Mediterraneo. La mostra presenta 110 opere, tra dipinti, sculture, litografie, disegni e illustrazioni, nelle quali, attraverso il potere trasformatore della poesia e del mito, l’artista catalano esprime la complessità del reale. Se da un lato la poesia costituisce per Miró lo strumento per aprire lo spazio e accrescere le sue capacità di artista, il mito è una forma di racconto che aiuta la comprensione della realtà. Proprio la realtà è il fulcro attorno cui ruota tutta l’arte di Miró, sia che si tratti di quella esterna, quotidiana, sia che si tratti di quella interiore, ovvero dei sentimenti e della rielaborazione del vissuto effettuata dai ricordi.

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GRANDI MAESTRI

DINO GAVINA

LA FORZA DEL DESIGN

C

A Bologna una mostra celebra la sua avventura intellettuale e imprenditoriale. La sua capacità di divenire figura di spicco nell’evoluzione del design italiano del secondo dopoguerra. Un viaggio nella vita creativa di Dino Gavina. L’imprenditore che seppe valorizzare importanti talenti di Alessio Aymone

’è chi lo ha definito “maestro del design italiano”, qualcun altro invece gli ha affibbiato l’appellativo di “catalizzatore di creatività”, altri ancora hanno preferito propendere per “giocoliere”. Una fatica sprecata, considerato che per Dino Gavina forse sarebbe semplicemente bastato “Dino Gavina”. Una figura poliedrica che per natura è sempre sfuggita a una chiara e definita rappresentazione, un nome e un cognome dotati però dell’indiscusso potere di lasciare impresso nel Novecento il proprio marchio di fabbrica: nel campo dell’arredamento, dell’illuminazione, dell’arredo urbano. Messo alle strette, relegava in un angolo gli epiteti più ricercati e amava dire di sé che era un “libero professionista”: libero perché svincolato dagli assiomi tipici della cultura del design, professionista in quanto uomo di grande esperienza e profondo conoscitore della sua materia. Malgrado non fosse un designer, Dino Gavina ha avuto tuttavia il merito di riuscire a coniugare l’estetica con l’industria, l’arte con l’impresa, sviluppando nuovi canoni visuali. Bologna, la città che ha potuto godere del suo slancio innovativo, perché qui Gavina ha sempre vissuto e lavorato, torna ad accendersi dei lampi che lo hanno reso un artista unico e non convenzionale e lo fa grazie a un’ampia mostra ospitata al MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna, aperta al pubblico fino al 12 dicembre. L’esposizione, intitolata appunto Dino Gavina. Lampi di Design, traccia un percorso capace di riassumere, in maniera non strettamente cronologica, la sua avventura intellettuale e imprenditoriale, mettendo in risalto artisti, designer e architetti, che hanno contribuito a trasformarlo in una figura di spicco nell’evoluzione del

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design italiano del secondo dopoguerra: tra questi Lucio Fontana, Marcel Duchamp, Man Ray, Sebastian Matta, i fratelli Castiglioni, Marcel Breuer, Carlo e Tobia Scarpa, Kazuhide Takahama, Luigi Caccia Dominioni. Un cammino costruito per dare spazio al rapporto che Gavina ha intrattenuto con questi autori, ma interpretato anche attraverso le aziende che a vario titolo e in periodi diversi ne hanno portato l’impronta: Gavina, Simon International, Flos, Sirrah, Simongavina Paradisoterrestre. Il risultato è una vasta selezione di modelli, realizzati a partire dal 1950 - molti dei quali ancora in produzione - e una appassionante collezione di foto e di disegni. Se dunque il capoluogo emiliano rivive oggi la grande forza creativa che ha caratterizzato l’epoca in cui le Due Torri polarizzavano le coordinate del design facendo concorrenza a Milano e ai più importanti centri europei, è grazie ai curatori di questo evento espositivo, Elena Brigi e Daniele Vincenzi, e al Comitato Mostra Dino Gavina, che ha messo sul tavolo, da un lato, il sostegno di sponsor come Enel e Unicredit Banca, dall’altro i contributi provenienti dalle Fondazioni Carisbo e del Monte e dalla Camera di Commercio di Bologna. La preziosa collaborazione degli eredi Gavina, delle aziende prestatrici dei modelli in esposizione e dei collezionisti privati ha dato poi maggiore concretezza alla possibilità di strutturare ogni singola sezione del percorso attraverso gli oggetti che Gavina ha commissariato e prodotto negli anni. «La panoramica su quanto ha realizzato con le sue aziende e i suoi tanti collaboratori - spiega la curatrice Elena Brigi - evidenzia il suo ruolo chiaro e significativo per la nascita del design italiano, e non solo italiano, portando Bologna a diventare un autentico punto di riferimento, base permanente delle sue attività e luo-


Foto di Margherita Cecchini, Bologna, 2001

In questa foto Dino Gavina. Nella pagina a fianco, in alto: Achille e Pier Giacomo Castiglioni, lampada Spl체gen Br채u (Flos SpA, 1961). Al centro: Man Ray, specchio Les grands trans-Parents, 1938 (prodotto in serie dal 1971 nella Collezione Ultramobile, Simon International)

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Foto: Archivio Gavina, San Lazzaro (BO)

GRANDI MAESTRI

Sopra: Pier Giacomo Castiglioni, Carlo Scarpa, Achille Castiglioni, Dino Gavina nel negozio Gavina di via Cerva a Milano, progettato dai fratelli Castiglioni nel 1962. Sotto: Kazuhide Takahama, sedute Esa, (Simon International, 1966. Prodotta oggi da B-line)

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go di raccolta delle irrequiete energie espresse da lui e dalle tante figure che hanno partecipato e condiviso la sua avventura». Gavina aveva nella città felsinea un deciso radicamento affettivo, che lo portò a farla diventare il motore di numerose sue iniziative, spesso estemporanee ed eterogenee, un legame che fece di Bologna, a partire dall’inizio degli anni Sessanta, l’epicentro di una rivoluzione culturale nel campo del disegno industriale del mobile. Fu proprio in via Castiglione, nel cuore del centro storico bolognese, che nel 1948, all’età di 26 anni, Gavina pose le basi per una carriera destinata a cambiare il volto del design italiano, fondando la ditta “Dino Gavina”, un negozio-laboratorio in cui si fabbricavano e si vendevano poltrone dallo stile innovativo. Fu l’avvio di un susseguirsi di impulsi destinati a tanti volti della città, di idee valorizzate dalla collaborazione di architetti e progettisti che hanno condiviso con lui il cammino nel mondo dell’arte e del design e che lo hanno motivato in scelte spesso “sovversive”, non dettate dagli abituali criteri commerciali. Protagonisti a cui Gavina era indissolubilmente legato. Proprio come l’amico Carlo Scarpa, autore nel 1962 dell’altro celebre negozio in via Altabella, del quale resta viva ancora oggi la testimonianza sentita e affettuosa che Dino Gavina pronunciò in occasione di un incontro voluto dall’Ordine degli Architetti di Bologna nel novembre 2006 per celebrare il centenario della nascita del designer veneziano, che pure contribuì fortemente a fare delle Due Torri uno dei punti di riferimento del design d’arredamento. Dopo quell’occasione fu chiara la volontà degli organizzatori di tornare a discutere di design insieme a Gavina, ma questa volta accompagnato da Kazuhide Takahama, uno dei suoi primi collaboratori, giapponese d’origine ma bolognese di adozione. La scomparsa di Gavina il 5 aprile 2007 ha purtroppo lasciato incompiuto questo desiderio. «In anni recenti - ci racconta Daniele Vincenzi, curatore della mostra al MAMbo - sono state dedicate a Gavina numerose mostre. Questa è la prima senza la sua presenza.


Foto: Nicola Zocchi

Per questo ci siamo dedicati non solo alla ricostruzione storica e filologica della sua figura di imprenditore, ma abbiamo cercato di mettere in campo una piattaforma di indagine da cui partire per nuovi sviluppi». In altre parole, Dino Gavina. Lampi di Design non vuole essere una esposizione definitiva né tantomeno celebrativa: non essendo nell’intenzione dei suoi curatori di dare vita a una mostra dai toni storicistici, l’obiettivo è invece quello di trovare nuovi spunti, servendosi degli strumenti di oggi e guardando al futuro. In questo senso, non una mostra che si conclude con il suo allestimento, ma una vera e propria piattaforma di lavoro, con una missione ben precisa. «L’opera di Gavina non è certo dimenticata – prosegue Brigi – al punto che il nostro impegno non è rivolto solo a documentare aspetti forse meno noti, ma intende proporre chiavi di lettura che possano collegarsi a quanto si sviluppa oggi intorno a noi, nel campo della cultura, del progetto, dell’impegno civile». Anche per questo motivo l’allestimento della moSopra, a sinistra: Kazuhide Takahama, lampada Saori Q1 (Sirrah, 1973), omaggio a Lucio Fontana, alluminio, tessuto. A destra: Kazuhide Takahama, lampada Kazuki 3 (Sirrah, 1976). Sotto: Achille e Pier Giacomo Castiglioni, poltrona Sanluca (Gavina, 1960)

stra non è lineare: ogni singolo nucleo tematico del percorso si apre a un altro, offrendo l’opportunità, nella modernità di adesso, di suggerire nuove elaborazioni. A rendere omaggio alla figura di Dino Gavina sono però diverse iniziative, contemporanee a quella in corso al Museo d’Arte Moderna di Bologna, tutte accomunate dal proposito di indicare un itinerario attraverso il suo lavoro e il rapporto con la città. «Abbiamo ideato la rassegna Gavina.NAVIGA - dice Vincenzi - ritenendo essenziale portare a fianco della mostra alcuni dei protagonisti di quelle esperienze». Si tratta di dodici incontri domenicali dedicati all’arte, alla letteratura, alla musica, al design, all’architettura e alle iniziative editoriali che, grazie alla partecipazione di amici e collaboratori dell’imprenditore illuminato del design, «intendono rispecchiare il modo estroverso e irrequieto con cui Gavina ha vissuto il rapporto con la sua epoca». «Con il contributo del pubblico presente - ribadiscono all’unisono i due curatori - questi incontri potranno essere l’occasione per nuove considerazioni


GRANDI MAESTRI

Dino Gavina imprenditore NELLE PAROLE DI REMO MURATORI IL RICORDO DELL’IMPRENDITORE CHE HA FONDATO LO SHOWROOM SIMON, AGORÀ DEL DESIGN ITALIANO È grazie alla capacità imprenditoriale di Dino Gavina e della sua collaboratrice e amica, Maria Simoncini, venuta da poco a mancare, se la creatività del poliedrico designer si è tradotta anche in un’attività commerciale: lo showroom Simon, con sede ovviamente nel bolognese, a San Lazzaro di Savena. L’edificio che lo ospita, opera del 1960 dei fratelli Castiglioni, è un luogo dove è possibile vedere e apprezzare il miglior design italiano e internazionale, frutto di una selezione sempre attenta e aggiornata delle nuove esigenze dell’abitare. Oggi lo showroom di San Lazzaro è affidato a Remo

Nelle foto: esterno e interno dello Showroom Simon a San Lazzaro

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Remo Muratori Muratori che per anni è stato a fianco di Gavina nel suo percorso professionale. «Ho incontrato Dino Gavina circa 30 anni fa in occasione del mio colloquio di lavoro alla Simon. Come tutti a Bologna, anch’io avevo sentito parlare spesso di lui – racconta Muratori - ed ero molto curioso di conoscerlo. Non mi ha intimorito, come si potrebbe pensare, ma mi ha sicuramente colpito per il suo modo di mettere alla prova le persone. Ma solo quelle persone che secondo lui avevano qualcosa da dire. Quello fu l’inizio di un rapporto di sincera stima reciproca, un rapporto intenso, speciale ma anche faticoso. Ogni volta che intavolava un discorso era per uno scopo, per arrivare a qualcosa, mai a caso. Per questo vivergli accanto è stato bello ma anche difficile. Sembrava che tutto ciò che lo circondava parlasse una lingua fatta di cose vere e semplici ma comprensibili solo a lui e impossibili anche solo da percepire per chi non sapeva ascoltare». Oggi Simon, una vera e propria agorà del design italiano, si è rinnovato nel nuovo concept espositivo progettato dagli architetti Elena Brigi, Manuela Magnani e Enzo Cassarino, basato sul numero cinque: cinque sono i colori, cinque sono i sensi, cinque sono gli spazi realizzati. L’oggetto si anima in ogni spazio, memoria di un’idea e di un’emozione del suo creatore. Achille e Pier Giacomo Castiglioni, Carlo e Tobia Scarpa, Lucio Fontana, Man Ray, Marcel Breuer, Meret Oppenheim, Marcel Duchamp, Sebastian Matta, Kazuhide Takahama, Luigi Caccia Dominoni, hanno trovato in Simon libertà di espressione: la genesi di un nuovo design che continua nella sua esplorazione. Sempre nel nome di Gavina: «non è facile per noi che lo abbiamo conosciuto a fondo – conclude Muratori – non vederlo più arrivare tutti i giorni. Era una figura ingombrante, a volte travolgente, la sua assenza si sente ancora oggi».


Sopra: Studio Simon, tavolino Constantin, (Collezione Ultramobile, Simon International, 1980), omaggio a Constantin Brancusi. A sinistra: Meret Oppenheim, tavolino Traccia, 1939 (prodotto in serie dal 1972 nella Collezione Ultramobile, Simon International). Sotto: Man Ray, seduta Le Témoin (Collezione Ultramobile, Simon International, 1971)

e riflessioni, per rinnovare quegli spunti e quelle energie che Gavina ha sempre rivolto alle nuove esperienze e alla sperimentazione». Urban Center Bologna, nel suo spazio atelier, ospita invece Dino Gavina. Bologna Bologna, una panoramica su alcuni progetti legati alla città di Bologna, di cui Gavina è stato promotore e al contempo provocatore, spesso innescando una originale visione della città e delle sue problematiche: Piazza Santo Stefano, l’aeroporto Guglielmo Marconi, le luminarie natalizie, le pensiline del trasporto pubblico, la Galleria Accursio nell’ex sottopassaggio Rizzoli, soltanto per citarne alcuni. L’allestimento invade anche altri spazi di Salaborsa, che accolgono alcune isole tematiche dedicate all’arredo urbano, con una scelta di oggetti il più delle volte nati per la città e poi entrati nella produzione di serie. Infine, sino al 21 novembre, le Torri dell’Acqua di Budrio, alle porte di Bologna, presentano nelle loro superfici espositive di recente inaugurazione UltraGavina, una rassegna di due mostre dedicate ad Alessandro Aldrovandi e a Tatsunori Kano, artisti legati a Gavina da un profondo rapporto di amicizia. Fanno parte della rassegna anche due laboratori: Metamobile, laboratorio di autocostruzione dei mobili di Enzo Mari e Metaocarina, dedicato all’ocarina di Budrio nel ricordo di Man Ray. Forse, in barba alle più variopinte definizioni che nel corso del tempo gli sono state date, ad avere inquadrato bene più di ogni altro il personaggio è stato l’architetto ungherese Marcel Breuer quando del suo amico Gavina diceva che è stato “il più emotivo e impulsivo di tutti i costruttori di mobili al mondo”. E se lo dice un amico.

Sopra: Marcel Breuer, Maria Simoncini, Kazuhide Takahama e Dino Gavina nel negozio Gavina a Milano, 1964. A destra: Achille e Pier Giacomo Castiglioni, lampada Arco (Flos SpA, 1962)

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Alberto Campo Baeza è professore ordinario all'Ecole Polytechnique Féderale di Losanna e all'University of Pennsylvania. Attualmente è accademico presso la Facoltà di Architettura dell'Università di Madrid. Tra le sue opere più importanti: il Centro Balear de Innovaciòn Tecnològica a Inca e la sede della Caja General de Ahorros di Granada (2001)


DIETRO AL PROGETTO

CAMPO BAEZA Alberto

L’importanza dei concetti di luce e gravità, spazio e tempo. Il legame tra l’architettura e la poesia. Campo Baeza spiega i fondamenti della sua filosofia progettuale, che parte dal totale rifiuto di considerare minimalista la sua architettura all’ammirazione dell’influenza del razionalismo italiano di Silvia Di Persio DESIGN + 105


N

on possiede il telefonino, l'automobile e l'orologio. Ha nella leggerezza della parola poetica una delle principali fonti d'ispirazione. La fama di Alberto Campo Baeza, architetto spagnolo eclettico e controcorrente, è legata principalmente alla ricerca dell'essenzialità nello stile di vita e nella propria idea di architettura. Un'idea affermatasi di progetto in progetto con le abitazioni private come Casa Moliner, la casa per un poeta, o edifici pubblici quali la Sede centrale della Caja General de Ahorros e il Museo della Memoria a Granada. Un'idea che riaffermata attraverso il contatto creativo con le nuove generazioni di architetti grazie all'attività di docenza presso la Escuela de Arquitectura di Madrid e a quella di Scrittura Architettonica con il libro-manifesto teorico La idea construída - La arquitectura a la luz de las palabras, si è sempre più identificata nel confronto con la contemporaneità. È probabilmente per questa naturale vocazione che Alberto Campo Baeza ribadisce da sempre la sua estraneità a un “minimalismo architettonico” - espressione spesso utilizzata dalla critica per definire la sua concezione - inteso nei termini di un'architettura cri-

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stallizzata e lontana dalla vita di tutti i giorni. «Penso che “minimalismo” non voglia dire nulla», è la risposta decisa di Campo Baeza. «Questo termine così abusato mi è insopportabile. Ricorda il puritanesimo. Io invece desidero che la mia architettura sia incredibilmente ricca, desidero ottenere il massimo dalle cose, come dalla vita. Proprio come fa il poeta che estrae la linfa, il principio vitale, dalle parole e le mette una accanto all'altra per produrre il miracolo e far scoccare la scintilla dell’emozione che ci commuove. Non ho mai sentito nessuno accusare i poeti di essere minimalisti. Io desidero fare poesia con la mia architettura». Domanda. Quando ha capito che il motto less is more di Mies van der Rohe da lei reinterpretato in más con menos era il modo migliore per descrivere il suo modo di progettare? Risposta. Less is more, more with less. Il mio concetto è quello del maestro ma con parole diverse. Il meno è il più, fare di più con meno, fare di più con la luce. Si tratta di parole. Avendo a che fare con le parole, dovremmo rivolgerci ai poeti. A Dante. D. Al centro della sua idea di architettura vi sono la luce e la gravità. Qual è a suo avviso il

Sopra: Dbjc House, costruita a Colin, nei pressi di Cadice. È una costruzione bassa, in lastre di cemento, rivestita in doghe di legno, che riesce a mascherarsi perfettamente tra le dune. In alto a destra: il Museo della Memoria dell’Andalusia. All’interno del cortile Campo Baeza ha ricavato un’ellisse. La trasposizione concettuale dell’opposizione tra le due forme geometriche, il cerchio e l’ellisse, ha portato alla nascita della forma elicoidale delle rampe d’accesso. A fianco: Janus House (Reggio Emilia). Una casa che nasce in risposta a una competizione internazionale organizzata in Italia, “La Casa più bella del Mondo”. I requisiti del programma sono stati risolti in un volume singolare in cui lo spazio del pianterreno si apre su un giardino dalle mura alte. La fonte principale di luce è un grande lucernario nel soffitto


rapporto che lega tra loro questi due principi architettonici fondamentali? R. In architettura non si può eludere la gravità. La costruzione architettonica ha un peso. È lì che risiede parte della sua grandezza. Lavoriamo con questa difficoltà che successivamente si volge a nostro vantaggio. Anche la luce, senza la quale l'architettura non sarebbe nulla, è imprescindibile. È un dono. Il materiale più pregiato che si offre all’architetto. La gravità costruisce lo spazio, materialmente. La luce costruisce il tempo, anch’essa materialmente. Non invano e non a caso Isaac Newton dedicò il suo studio a entrambi. Gravità e luce. Spazio e tempo. Con cos’altro potremmo fare l’architettura? D. A proposito di tempo. Cosa intende quando afferma che con le sue architetture cerca di raggiungere “la sospensione del tempo”? R. La sospensione del tempo è quel senso di ineffabile e di meraviglioso che ritroviamo in Bach o Arvo Part nella musica, in Dante o in Sophia de Mello nella poesia, in Velázquez o Rothko nella pittura; lo stesso che ci coglie nell’entrare nel Pantheon a Roma o nella Farnsworth House di Mies Van der Rohe. Ineffabile ma reale. Difficile ma possibile. DESIGN + 107


DIETRO AL PROGETTO

Sopra: De Blas House, Sevilla La Nueva, Madrid. La casa si trova sulla parte superiore di una collina a sud-ovest di Madrid, con le viste splendide delle montagne al Nord. È uno spazio per la contemplazione della natura, una distillazione dell’essenziale nell'architettura. Sotto: Centre Bit Raiguer, Mallorca. Un edificio per uffici costruito su un lotto triangolare all'interno di una zona industriale

D. Sei anni fa, all’interno della lunga rassegna che mise a confronto gli architetti contemporanei con Andrea Palladio le è stato chiesto di concepire un apposito allestimento. Come ha vissuto quell’esperienza? R. Esporre le mie opere nella Basilica del Palladio a Vicenza è stato un onore che non sono sicuro di meritare. Come lo era stato prima esporre nella Crown Hall di Mies Van der Rohe a Chicago o più recentemente nel Tempietto di S. Pietro in Montorio del Bramante a Roma. Ritrovarmi tra le braccia del Palladio, di Mies o

del Bramante è, insisto, un dono immenso. D. Esiste un legame tra il suo linguaggio architettonico e il Razionalismo italiano? R. Ammiro immensamente i razionalisti italiani. Molti di loro hanno lavorato partendo dagli stessi presupposti oggi alla base del mio lavoro. Erano architetti del proprio tempo e hanno saputo distillare magistralmente la storia senza copiarla. Come non ammirare Terragni, Libera, Moretti o Ridolfi? Non è un caso che fossero gli eredi di Bernini e Borromini. D. Lo spazio architettonico, il contesto e tutto quanto è preesistente. Che legame si instaura tra le sue architetture e ciò che gli gravita intorno? R . Io credo che non bisognerebbe mai fare un’architettura fuori dal contesto, un’architettura incapace di leggere il preesistente. Poiché leggere, studiare, non equivale a copiare. Alcuni credono che la mimesis, la copia, il pastiche, siano la strada migliore per ottenere la continuità. Ma i soli a essere convinti di ciò sono le orribili Commissioni per il patrimonio di turno. Credo che la vera continuità della storia dell’architettura si costruisca con la Memoria, la Mnemosine. È questa la lezione di Roma. D. Lei non usa il colore ma si avvale spesso delle calde sfumature delle pietre. La scelta di questo materiale riguarda anche il luogo in cui verrà utilizzato?


Sopra: Olnick Spanu House, New York. Una grande scatola lunga 122 piedi larga 54, con muri in cemento robusti che accentuano il rapporto con la terra. Il tetto della scatola è piano e pavimentato in travertino. Lo spazio centrale è la zona vissuta. All'interno del contenitore di cemento vi sono le camere da letto e i bagni

R. La pietra è materiale quanto la luce. È meravigliosa ed eterna. Ora, di fronte alla Cattedrale di Zamora, in Spagna, sto costruendo un edificio con alte mura di pietra arenaria di Zamora. E per la base utilizzerò la pietra più grande del mondo per lo zoccolo dell’edificio. D. Vista la sua predilezione per il bianco le chiediamo: Alberto Campo Baeza ha paura della pagina bianca? R. Non ho mai avuto paura della pagina bianca. Al contrario, per me è uno stimolo, una provocazione. Non ho paura della pagina bianca su cui scrivere perché scrivo molto. E non ho paura della pagina bianca sulla quale disegnare se si considera che ho migliaia di disegni (più di 7.777 si diceva nell’ultima mostra) raccolti ora in un DVD e che continuo a disegnare su fogli bianchi che porto sempre con me. La mia ultima opera, Entre catedrales en Cádiz non è che una grande pagina bianca, un piano orizzontale ricoperto di marmo bianco davanti al mare. E il mio ultimo disegno è una lampada bianca creata con un foglio DIN A3 piegato che si accende quando si apre. Paura della pagina bianca? Mai. D. Oltre agli schizzi a penna, quali altri mezzi

utilizza per comunicare i propri progetti? R. Ho usato una Pilot 04 per la maggior parte dei miei bozzetti. Ma per fortuna esistono internet e lo scanner. E attraverso la rete i disegni, così come le parole, raggiungono ogni angolo del globo. I computer fanno di noi dei privilegiati. Io non posseggo un’automobile, né un cellulare, un televisore o un orologio. Ma non posso prescidere dal computer. D. Crede che per progettare ambienti di uso privato sia necessario adattare il proprio modo di vedere, pensare e progettare gli interni sulla base dei diversi committenti? R. Sì e no. Come il medico, che deve ascoltare il paziente per avere una visione chiara di tutti i sintomi e poterlo curare, l’architetto deve alscoltare con attenzione il proprio cliente per conoscerlo bene. Alla fine chi fa la diagnosi è il medico. Mai il paziente. È il medico che comprende e decide e lo stesso accade nel caso dell’architetto che dopo aver ascoltato attentamente il cliente farà tutto il possibile per renderlo felice attraverso l'architettura. D. Cosa crede che abbia maggiormente contribuito, tra le letture, i viaggi, le fantasie, alla DESIGN + 109


Caja de Granada. Un progetto monumentale per la nuova sede centrale della Banca di Granada in Spagna. L’edificio ha una forma semi- cubica e la struttura è regolare. Si sviluppa secondo un modulo di 3Ă—3 metri sia in pianta che in prospetto


Sopra: Between Cathedrals, Cádiz (Spagna). Uno spazio vuoto che affronta il mare situato fra le vecchie e nuove cattedrali. La zona pavimentata è coperta in marmo bianco. Sotto: Benetton Nursery, Treviso. Il progetto consiste in una scatola quadrata composta di nove più piccoli quadrati, le aule. Questa struttura quadrata è inscritta all'interno di una grande recinzione circolare

formazione del suo linguaggio architettonico? R. Impossibile non rispondere “i viaggi e l’architettura”. Ma aggiungo la musica (che meraviglia Bach!) e la lettura, in particolare la poesia, che mi hanno aiutato infinitamente. E la docenza, l’essere professore. Insegnare è imparare. D. Quanto è interessato l’architetto Baeza alle nuove ricerche sull’architettura sostenibile? R. Ho l’impressione che la denominazione di “sostenibile” nasconda molti inganni. Se al giorno d’oggi non inserisci il termine “sostenibile” nei tuoi progetti non sei a la page. Io preferisco parlare di “buon senso”. Continuo a fare architettura con buon senso, con logica, con sobrietà. È più efficace. Tutta l’architettura logica è sostenibile. D. Nel progettare, quali categorie estetiche sono a suo avviso imprescindibili? R. Credo che i precetti di Vitruvio, Utilitas, Firmitas e Venustas siano sempre validi e che possano riassumere perfettamente le finalità dell’architetto del terzo millennio. Cerchiamo di costruire delle idee. “La Idea construída”, è il titolo che scelsi per la prima raccolta dei miei testi pubblicati. “Pensar con las manos”, è il ti-

tolo della seconda raccolta da poco pubblicata. Idee costruite con mani pensanti. È questo il nostro proposito. Quello dell’architettura è un mestiere creativo di enorme precisione che partendo dalla testa, dalla ragione, ha bisogno delle mani per essere realizzata. D. L’architetto del bianco, della pietra, della luce, dell’essenzialità linguistica, che uso fa delle nuove tecnologie sempre più presenti nel campo delle costruzioni? R. Come potrei non utilizzare le nuove tecnologie? Se non fossero esistiti l’acciaio e il vetro piano di grandi dimensioni, Mies Van der Rohe non avrebbe potuto materializzare i suoi sogni di trasparenza e continuità spaziale. Per sognare e per dare realtà ai propri sogni ebbe bisogno di una tecnologia all’avanguardia in grado di farlo. E anch’io. Nella mia opera di Zamora utilizzo più pietre possibili e vetri trasparenti dei più grandi tagli offerti dalle industrie più all’avanguardia. Sono un architetto del terzo millennio. Un architetto smette di essere del nostro tempo quando devia, gira, tronca, colora. Un architetto è del nostro tempo quando comprende profondamente il proprio tempo. DESIGN + 111


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FOTOVOLTAICO A TETTO

FOTOVOLTAICO A TERRA


FOTOGRAFIA

GIACOMO COSTA


Punto di partenza del suo linguaggio metaforico è la città. Creata con l’uso di complicati software provenienti dal mondo della modellazione architettonica. Città angoscianti frutto di disastri naturali e continue speculazioni di Iole Costanzo

LE ROVINE DEL MONDO

U

na personale e immaginaria visione della città ha portato l’artista Giacomo Costa ad entrare in uno spazio creativo borderline e unico. Uno spazio a cavallo tra la fotografia - più propriamente il collage - e il disegno digitale con i suoi render e le sue viste virtuali. «Nelle mie immagini - ci spiega il fotografo fiorentino - niente esiste realmente e tutto è creato attraverso l'uso di complessi software». Un mondo immaginario, dunque, che coglie le paure, i timori, le morbose fobie che si hanno quando si pensa a quelle città fagocitanti e opprimenti che il cinema e la letteratura hanno più volte riproposto. Apocalittiche visioni che Giacomo Costa costruisce minuziosamente, con perizia da certosino, per giungere a immagini molto dettagliate e quasi realistiche che appartengono, e questo è inquietante, sia al mondo reale che a quello immaginario. Un mondo in cui l’uomo non è più presente. Domanda. La città nelle sue opere non è solo fotografata, ma anche rivisitata e immaginata. Perché ha scelto la città come tema? Risposta. Il mio amore per la città e la sua rappresentazione nasce da un mio percorso biografico e nello specifico da un mio odio per la città. Prima di intraprendere il mio percorso artistico facevo l'alpinista ma a seguito di un incidente capii che quella esperienza era conclusa. Tornai in città con la frustrazione di non vivere più in quell'ambiente quasi metafisico per essere costretto in un luogo ai miei occhi ostile, dove le relazioni umane erano incentrate non sulla solidarietà, sull'introspezione, sulla passione e sui forti ideali ma su ben più tristi e truci dinamiche. Il senso d'angoscia che mi affliggeva si tradusse in una visione pessimistica della città che non riuscivo a esprimere a chi mi stava vicino. La fotografia, che avevo iniziato a praticare in montagna e che era l'unica cosa che nella nuova vita metropolitana mi interessava continuare a praticare, mi permise di esprimere attraverso la reinterpretazione dello spazio urbano il mio stato d'animo. Da quel primo passo la città è divenuta il mio linguaggio metaforico e il centro della mia riflessione. D. Lei ha dichiarato che la sua arte consiste nel “dipingere in qualità fotografica”. Cosa intende veramente? R. Io non sono un purista della fotografia ossia uno che crede che la fotografia sia tale quando si va a ritrarre una realtà esistente. Credo che la fotografia sia un linguaggio fatto di inquadratura, di linee, di grane, di sfumature di grigio o nuances di colore, di luci e di ombre e che può tuttavia essere svincolata da un soggetto di fronte a un obbiettivo. La mia fotografia è un modo di rappresentare in maniera realistica i pensieri e le fantasie della mente

"Consistenza n.5", 2008

"Arena n.1", 2010

del fotografo. Nelle mie immagini niente esiste realmente e tutto è creato attraverso l'uso di complessi software provenienti dal mondo della modellazione architettonica e del rendering cinematografico. Il mio lavoro è simile a quello di un pittore che su una tela bianca, uno schermo nel mio caso, crea la sua opera. Ecco perché posso dire di dipingere in qualità fotografica, perché il mio quadro ha la forza iperrealista della fotografia. D. L’aspetto onirico e immaginario non manca mai nelle sue viste sulle città. Lei come vive, sente e fotografa la città reale? R. Come precedentemente accennato, concepisco la città come un luogo metaforico, il luogo dove si svolgono le attività dell'uomo, le sue passioni, le sue pulsioni e i suoi terribili errori. Sento quindi la metropoli come un set cinematografico dove tutto avviene e dove si raccontano storie. Dunque il materiale reale della città è DESIGN + 115


"Plant n.3", 2010

come un insieme di ingredienti che vanno amalgamati per creare i sapori che danno il gusto e non usati puri per quel che sono. D. La figura umana. Nelle sue opere se ne avverte la presenza nell’ineluttabile e cupa presenza del costruito. Ma poi è completamente mancante. Perché le sue città sembrano disabitate? Alienate dall’uomo che le ha create? R. In un certo senso l'uomo nella mia lettura metaforica è rappresentato dalla città stessa. Noi siamo quel che facciamo, l'abito che fa il monaco. D'altronde quando noi pensiamo alle civiltà che furono ci lasciamo guidare dalla suggestione dalle vestigia di quelle epoche. Il Colosseo era lo stadio di allora e noi lasceremo i nostri monumenti a futura memoria. Gli antichi egizi sono morti, lasciamoli riposare. Più che le mummie quando penso a quell'epoca penso ai templi e alle piramidi. Quelle sono le persone di quel mondo. D. Sono paesaggi urbani angoscianti causati da disastri naturali, dalle continue speculazioni e da uno sviluppo tutt’altro che eco"Atto n.3", 2006

sostenibile. Lei crede sia possibile una futura crescita delle città secondo protocolli di equilibrio ambientale? R. Effettivamente le mie foto non sono catastrofiche o meglio io non sono pessimista come si potrebbe credere vedendo le mie immagini. Mostro come sarà il futuro se continuiamo a correre nella direzione suicida verso la quale ci stiamo allegramente dirigendo. Sono ottimista perché il mio monito sta a dire che è possibile invertire la rotta prima di arrivare a ridurci come io mostro. Molti mi dicono che in realtà è già troppo tardi. Loro sono pessimisti! D. Dal collage, la sua città si è evoluta, e passando dall’onirica visione tridimensionale è giunta alla vera e propria trasfigurazione apocalittica di se stessa. Cosa ha determinato questa progressione? R. Non posso negare che la tecnologia svolga un ruolo centrale nel concepire il mio immaginario. Agli inizi nel 1996 gli strumenti da me utilizzati non erano potenti al punto di poter prescindere dall'utilizzare una base fotografica. A partire dal 2002 ho potuto iniziare a costruire le città completamente in 3d sebbene


"Veduta n.1", 2005

con l'ausilio di textures fotografiche che però anno dopo anno ho potuto abbandonare fino ad arrivare al punto attuale dove la fotografia non mi serve più. Ma non mi sento schiavo dell'ultimo upgrade ma piuttosto lo scoprire nuove potenziali mi permette di modificare i miei sogni e liberare sempre più la mente potendo farla svolazzare libera. D. Le sue città, non esistendo realmente, non hanno un loro intrinseco significato. Nascono da un pensiero metaforico che lei ama parossisticamente definire. A opera finita, cosa prova per quella visione di città che ha creato dal nulla? R. Ogni volta mi pare impossibile di essere riuscito a creare tutta quella massa di dettagli che rendono la mia opera più reale della realtà. È un piacere autoreferenziale, quasi un delirio di onnipotenza. Serve a me perché tendo a essere compulsivo in quel che faccio e la maniacalità è parte delle mie immagini e serve a creare quel senso di sofferto delirio che le mie opere comunicano. A opera finita giuro a me stesso e al mio fisico stressato da notti

in bianco e digiuni che sarà l'ultima volta che faccio una cosa del genere salvo poi rendermi conto che sto già lavorando a una nuova immagine. D. L’architetto Norman Foster nell'introduzione al suo libro The Chronicles of Time ha scritto “…sono come le rovine di una civiltà perduta, che potrebbe essere la nostra... ci ricordano soprattutto la fragilità del nostro mondo artefatto ….”. Ha mai pensato ai diversi ecomostri disseminati in varie regioni italiane? R. Purtroppo sono morbosamente attratto dagli ecomostri, li trovo più affascinanti e realistici della "bella architettura". E questo non per colpa degli architetti ma per colpa dell'umanità. Essendo per me l'architettura lo specchio della società trovo Scampia estremamente rappresentativa di ciò che siamo e di come ci comportiamo. Trovo affascinante l'ecomostro quanto la tragedia greca o quella shakespeariana. Naturalmente a nessuno auguro di essere il protagonista dell'Otello così come non augurerei a nessuno di abitare in un condominio mostruoso di una periferia di"Scena n.21", 2004


FOTOGRAFIA

LE MIE FOTO NON SONO CATASTROFICHE O MEGLIO IO NON SONO PESSIMISTA COME SI POTREBBE CREDERE. MOSTRO COME SARÀ IL FUTURO SE CORRIAMO NELLA DIREZIONE VERSO LA QUALE CI STIAMO DIRIGENDO. SONO OTTIMISTA PERCHÉ CREDO SIA POSSIBILE INVERTIRE LA ROTTA

"Scena n.24", 2004

"Atto n.10", 2007

"Prospettiva n.7", 2003

118 DESIGN +

"Agglomerato n.2", 1997


sastrata. Ma parlando di simboli forti non ho dubbio su cosa preferire e la storia dell'uomo è popolata da soldati e geometri spietati più che da poeti e santi. D. Quali città da lei conosciute albergano nelle sue opere? R. La mia opera parte da basi estremamente biografiche e pertanto nelle mie città ci sono le città della mia storia e della mia immaginazione. La Firenze disneyland rinascimentale per turisti, la Milano frenetica e concreta, la Roma della fusione di architetture classiche mischiate a speculazioni palazzinare e naturalmente tutte le periferie anni '50 e '60, vero manifesto del modo italiano di concepire e interpretare il boom economico! D. Quando si affronta il tema fotografia e architettura si giunge, molto spesso, a parlare del tempo e quindi della vita che secondo alcuni la fotografia sembra non riesca assolutamente a cogliere. Le sue opere che tipo di legame hanno con la quarta dimensione? R. Per sua natura la fotografia tradizionale si rivolge all'istante, al super presente e l'evoluzione tecnologica permette di cogliere istanti sempre più brevi nell'ordine del decimillesimo di secondo. Questa natura, fatte certe eccezioni, tende a spingere il fotografo nel tentativo di congelare il tempo nel suo scatto. Nel caso di artisti che costruiscono artificialmente le loro scene o che fortemente ne modificano il senso, il tempo diviene parte integrante della creazione e si può liberamente disporne come di tutti gli altri elementi che si vanno a comporre nella scena. Questa fotografia ha un senso meno feticista del tempo e della sua rappresentazione! D. La luce nella rappresentazione fotografica dell’architettura è fondamentale. Che tipo di rapporto esiste tra le sue città, le singole strutture e la luce? R. Sebbene io non abbia un obiettivo davanti al quale porre una realtà da immortalare, uso ugualmente il linguaggio della fotografia. Partendo proprio dal significato etimologico, scrivere con la luce, si capisce quanta importanza abbia l'uso dell'illuminazione nella comunicazione fotografica. Essendo molto rigoroso con l'uso del linguaggio, non posso far a meno di porre grande attenzione a ciò che con la luce vado a scrivere nelle mie immagini. Se perdessi di vista questo fondamentale strumento le mie opere non farebbero parte del mondo della fotografia. D. Le sue città diventano misteriose archeologie. Ma sono città mancanti di stratificazioni storiche. Perché? Eppure l’Italia ne è ricca e lei ha pure scelto di vivere a Firenze. R. Si torna sempre al mio concetto di base: la rappresentazione dei comportamenti umani. Manca stratificazione storica perché l'uomo ha una malsana tendenza a non far tesoro delle proprie esperienze presenti e passate, a non imparare dalla storia. Se si avesse memoria storica le guerre non esisterebbero e Firenze, memore del dover avere riconoscenza per l'arte allora contemporanea quattrocentesca che l'ha resa ricca, famosa ed immortale, forse avrebbe un museo dell'arte contemporanea (quella di adesso). D. Quale differenza pensa ci sia tra il fotografare o rielaborare un edificio e il fotografare o rielaborare una città? R. Nel caso della fotografia tradizionale di solito si cerca un edificio che rappresenti la città, la parte per il tutto. Nel rielaborare o nel creare una città, i singoli edifici sono come cellule di un grande organismo, concorrono alla sua complessità in parti uguali. D. Prospettiva e scenografia. Due elementi fondamentali presenti nella città reale ma anche nell’occhio di chi la riprende. In che

"Aqua n.3", 2007

modo pensa siano presenti all’interno delle sue opere? R. La prospettiva è un codice di rappresentazione visivo inventato dall'uomo per rendere al meglio il senso di tridimensionalità che ovviamente in un foglio bidimensionale non sarebbe riproducibile. Essendo la mia immagine completamente inventata la prospettiva gioca un ruolo fondamentale e spesso la forzo oltre il limite del codice stesso per poter dare maggior sostegno al mio messaggio. Le mie visioni sono talmente sceniche ed evocative da poter facilmente essere considerate scenografie reali, cosa questa che accadrà a settembre dove mi esibirò proprio in scenografie teatrali per una tournée. D. Quale campo teorico, scuola, corrente, fotografo o artista ha influenzato le sue architetture? R. Non è facile riassumere in alcune righe tutto il complesso di stimoli che portano un'artista a strutturare la sua visione. Certamente molti sono i riferimenti alla letteratura e al cinema di fantascienza, da Asimov a Blade Runner passando per Star Trek e tutto ciò che è stato prodotto tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta. Ma più specificatamente direi che Mapplethorpe mi ha profondamente influenzato per la capacità di rendere immagini forti e potenzialmente violente e pornografiche come se invece fossero delle sculture del Canova. Questa grande lezione cerco di applicarla in ogni mia immagine dove dietro un paesaggio ci può essere un messaggio violentissimo senza il bisogno di essere esplicito e didascalico. DESIGN + 119


Movimento terra in genere Realizzazione di rilevati, consolidamenti di terreni, recuperi idrogeologici Trasporti e forniture di inerti Realizzazione di piazzali e opere stradali in genere Urbanizzazioni in genere Fognature, collettori fognari, impianti di depurazione civili Fitodepurazioni Cavidotti per reti elettriche, telefoniche e idriche Pavimentazioni stradali, industriali e speciali Demolizioni di edifici civili, industriali, con recupero dei materiali Demolizioni speciali con impiego di attrezzature particolari Bonifiche ambientali, trasporti e smaltimenti in genere Rimozione e smaltimento amianto Manutenzione verde, potature, abbattimenti, sfalcio Progettazione aree verdi e giardini Progettazione impianti di irrigazione Taddia Service s.r.l. Via E. Cesarini, 9 - 40129 Bologna Tel. e Fax 051.372456 - Cell. 335.6068985

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