Rivista La Chiave di Sophia N.1

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LA CHIAVE DI SOPHIA | GENNAIO 2016 1


La quotidianità ha una nuova chiave di lettura: la Filosofia. Riscopriamo il valore della Filosofia nella vita di tutti i giorni. Esploriamo la cultura. Creiamo una cultura della cultura. Chi siamo? Ed è già Filosofia!

EDITORE Valeria Genova

COPERTINA di Mirko Càmia

ART DIRECTOR Elena Casagrande

SEDE EDITORE Via stangade 17 31100, Treviso, Italia

CAPOREDATTORE Giacomo Dall’Ava REDAZIONE Matteo Montagner Sara Roggi Salvatore Musumarra

STAMPA Tipografia Crivellari Silea - Treviso Stampato in Italia. Printed in Italy

PROGETTO GRAFICO a cura di Elena Casagrande

CONTATTI www.lachiavedisophia.com redazionesophia @gmail.com

CON IL CONTRIBUTO

IN COLLABORAZIONE

La freschezza, la voglia di provarci e la passione determinano la nostra forza nell’affrontare una sfida difficile ma entusiasmante: custodire-accudire-diffondere la Filosofia in ogni ambito del nostro vivere. Una Filosofia in concreto. Utilizziamo un approccio nuovo, pratico e non accademico per promuovere la Filosofia quale strumento di riflessione, analisi, ricerca e promozione in ogni ambito professionale e non. La Filosofia non è dei filosofi, Filosofia è e deve essere di tutti. La Filosofia è comunicazione, relazione, dibattito, riflessione, scambio.

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di Fabrizio Turoldo

SOMMARIO

Editoriale

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Dell’uso esistenziale della Filosofia 4 Quali prospettive per la cultura filosofica? L’orizzonte del consulente filosofico. di Eugénie Vegleris

La medicina tra filosofia e magia

L’abbandono della magia, corruzione della medicina, per uno sviluppo dell’etica medica di Giovanna Zucca

DOSSIER UOMO E TECNICA NELL’ERA DIGITALE L’anima nel corpo esteso

I confini del corpo si estendono, seguono il ritmo serrato di un virtuale che si innesta ovunque, fino all’anima.

Il respiro tra l’Io e il Tu 14

Una democrazia del riconocimento. di Sara Roggi

6

10

RUBRICHE Filosofiacoibambini

32

Bioetica

35

La tecnica tiene insieme la promessa di speranza e la minaccia della nostra massima distruzione. di Matteo Montagner

L’ospite

38

Sei malato? Chiedilo allo smartphone 22

Pensiero e pragmatismo di Ottorino Saccon

40

Intervista

42

Selezionati per voi

47

di Giacomo Dall’Ava

C’è dell’arte nell’uomo

Le nuove forme di espressione artistica si intrecciano intimamente con la materialità e la tecnica dell’uomo

17

di Salvatore Musumarra

Don’t fear the tèchne

20

Le nuove frontiere della medicalizzazione di Francesco Codato

Quo vadis?

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Ex Machina

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La corsa del tecnica alla liquefazione della materia di Emanuele Lepore La tecnologia genera mostri di Alvise Wollner

Una filosofia a misura di bambino di Giorgia Aldrighetti & Carlo M. Cirino L’importanza della riflessione filosofica nella pratica clinica di Silvia Pennisi Il gusto amaro del mattiino di Lisa De Chirico

Mirko Càmia: l’Arte come interpretazione di Elena Casagrande Libri di Stefania Mangiardi Film di Marco Donadon


2 LA CHIAVE DI SOPHIA |

FILOSOFIA E QUOTIDIANO SONO LE NOSTRE PAROLE CHIAVE IL BINOMIO CHE CI CONTRADDISTINGUE.

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EDITORIALE I NUOVI PUBLIC PHILOSOPHERS di Fabrizio Turoldo Avere il privilegio di presentare questo primo numero de La Chiave di Sophia è per me un motivo di grande soddisfazione ed orgoglio, per molti motivi. Innanzitutto questa presentazione mi permette di esprimere tutta la mia ammirazione per un gruppo di giovani e validi studiosi che sono riusciti in questi anni a mettere insieme, in modo fecondo, un grande entusiasmo, una straordinaria capacità di costruire buone relazioni e, soprattutto, un talento filosofico non comune. Un secondo motivo di soddisfazione nasce dal fatto di aver visto crescere e maturare molti di questi giovani intellettuali e di averne seguito, in vari casi, il percorso di formazione universitaria. Un ulteriore motivo di soddisfazione nasce infine dalla mia totale condivisione per la linea e la filosofia che caratterizza questa testata, ovvero per quello che questi studiosi vogliono essere e per come intendono porsi nel panorama culturale e filosofico. Su quest’ultimo punto, che potrebbe interessare forse maggiormente il lettore, mi sembra utile spendere qualche ulteriore parola di approfondimento. Gli autori di questa rivista sono tutti accomunati, come possono dimostrare i loro scritti, da un’idea della filosofia come sapere critico, capace di confrontarsi fecondamente con le tematiche dell’attualità, del costume, della politica e della vita quotidiana, fornendo una chiave concettuale di lettura di queste realtà. L’idea di filosofia che ne emerge è la stessa che caratterizzava i cosiddetti “public philosophers” americani, che sono autori che hanno goduto di grande rispetto e considerazione nella vita intellettuale americana, svolgendo il loro ruolo soprattutto all’esterno delle istituzioni accademiche. L’insegnamento di Henry David Thoreau sulla disobbedienza civile, ad esempio, pur impopolare quando fu proposto, ebbe un’eco fondamentale nell’epoca di Martin Luther King e della protesta contro la guerra del Vietnam. William James, Josiah Royce, John Dewey, Ge-

orge Herbert Mead, coltivavano uno stile filosofico capace di combinare un erudito apprezzamento dei filosofi classici con una coinvolgente capacità di penetrare le problematiche della contemporaneità. James espresse le sue opinioni su svariati temi, tra cui la questione femminile, quella razziale, l’immigrazione, la cura dei malati psichiatrici, la vivisezione, la legislazione sanitaria, l’imperialismo ed il militarismo americano. Dewey fu il più ascoltato filosofo pubblico della prima metà del ‘900. Intervenne sui temi dell’educazione, del suffragio femminile, del lavoro industriale, della politica interna ed internazionale, dell’economia. Tra le due guerre mondiali questa concezione della filosofia entrò in crisi. Era intervenuta infatti la cosiddetta “metaetica” a dichiarare che il compito della filosofia era quello di fare l’analisi logica del linguaggio morale, mentre l’etica normativa era ritenuta affare di giornalisti, predicatori e politici. Nel secondo dopoguerra, invece, ci fu un grande ritorno alla public philosophy e all’etica applicata. Fatti quali l’Olocausto, il processo di Norimberga, Hiroshima, l’armamento nucleare, le purghe di McCarthy costringevano infatti la filosofia a fare nuovamente i conti con l’attualità. Qualche filosofo politico, come Hannah Arendt, cominciò a prendere la parola. Nel 1971 una nuova rivista, Philosophy and Public Affairs, iniziò le sue pubblicazioni, riportando vari articoli sul tema della guerra e dell’aborto. Era il segno che i filosofi della nuova generazione stavano ritornando ad essere degli attivisti. Negli stessi anni John Rawls scriveva il suo libro sulla giustizia ed Hans Jonas iniziava ad occuparsi di questioni etiche e bioetiche. Questi sono solo alcuni tra gli innumerevoli esempi che si potrebbero portare, perché ormai oggi questo stile filosofico si è fortemente consolidato e La Chiave di Sophia si inserisce, con una sua particolare originalità, all’interno di questa tradizione.


4 LA CHIAVE DI SOPHIA | EUGÉNIE VEGLERIS

DELL’USO ESISTENZIALE DELLA CULTURA FILOSOFICA L’orizzonte del consulente filosofico, mediatore tra la cultura teoricamente lontana e le situazioni esistenziali. Quali prospettive offre oggi la cultura filosofica?

di Eugénie Vegleris

C

ome vivere? Come trasformare le difficoltà ine-

renti all’esistenza in opportunità per maturare? È questa la preoccupazione più anziana della filosofia. È questa la preoccupazione fondamentale di ogni essere umano dal momento che non teme per la propria sopravvivenza e può ex-sistere: prendersi cura del suo modo di essere a distanza dai bisogni primari. La lunga storia della filosofia - la produzione di teorie e di concetti diversi per elucidare il mistero del reale - ha fatto passare in secondo piano la preoccupazione esistenziale. Impadronendosene, gli approcci psicologici hanno ridotto il come vivere in un affare privato, sprovvisto di cultura dell’anima. Essa consiste nell’atto di cogliere nei diversi campi del pensiero quello che può ampliare l’orizzonte riflessivo e così sostenerci nei momenti importanti dell’esistenza. La massa crescente dei sapori umani e scientifici, aggiunta alla pulsione dell’immediatezza ispirata alle nuove tecnologie, fa apparire la cultura come una cittadella estranea al come vivere ed accessibile solo ad alcuni eruditi. La cultura è davvero una fortezza, ma una fortezza originale, ricchissima di calorie per nutrirsi e riscaldarsi, in grado di proteggerci da un rapporto brutale e servile

col presente. Per affrontare le situazioni fuori routine che necessitano la nostra scelta non ci sono risposte generali né ricette da seguire: siamo interpellati nella nostra singolarità con la sua libertà inalienabile. In tali situazioni la questione del come vivere, per ogni individuo, diviene la seguente: Come creare il mio proprio senso, cioè l’orientamento, il significato, il sapore espressivi del mio io assolutamente unico? Come ricavare l’aspirazione nascosta sotto il condizionamento sociale? Eccolo, il nostro appuntamento con la cultura filosofica! Tutti i filosofi, malgrado le loro opposizioni, sono d’accordo almeno su un punto: la finalità dell’essere umano

PER AFFRONTARE LE SITUAZIONI FUORI ROUTINE CHE NECESSITANO LA NOSTRA SCELTA NON CI SONO RISPOSTE GENERALI NÉ RICETTE DA SEGUIRE. coincide con la costruzione della propria libertà, con la capacità di superare le diverse pressioni tanto dell’ambiente quanto della propria complessità psicologica. Più radicalmente, la frequentazione di filosofi tanto


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differenti rispetto alla loro weltanschauung è un’ottima scuola per esercitarsi alla libertà, per liberarsi, per quanto possibile, dai pregiudizi che impediscono il pensiero personale e creativo. Sorge qui una questione importante. Gli scritti filosofici sono refrattari ad una lettura ordinaria: come fare per avvicinarli? La consulenza filosofica risponde alla domanda trasformandola in una pratica. Dietro la varietà dei consultanti giace un bisogno comune: quello di vedere chiaro per agire pertinentemente nell’intreccio di circostanze particolari. Un tale bisogno rimanda alla necessità di adottare l’attitudine adeguata, anzi d’intraprendere un cambiamento nel proprio modo di essere. In ogni caso, si tratta di fare una scelta più o meno importante tenendo conto allo stesso tempo della propria individualità e della peculiarità del suo ambito umano. Il primo impegno del consulente è di concettualizzare il vissuto del suo interlocutore - di chiamare le cose per nome. Ma la sua missione è compiuta quando riesce a riferirsi opportunamente alla cultura filosofica. L’opportunità del riferimento deriva dalla parentela spirituale tra il consultante ed il pensiero filosofico. È compito del consulente di indovinare le parentele e di esprimerle in un modo appropriato. Un riferimento fatto apposta strappa l’individuo dall’isolamento rilegandolo alla condizione umana. Inoltre, la messa in relazione con

pensatori illustri che hanno già approfondito la stessa problematica procura al consultante una sorta di soddisfazione narcisistica molto energizzante. Ora, l’energia e la fiducia in se stessi sono indispensabili per accedere ad una nuova soglia di maturità. L’uso esistenziale della cultura filosofica suppone, da parte del consulente, un riferimento speciale ai filosofi di cui ha peraltro una conoscenza accademica. Questa relazione è descritta da Jaspers nel suo saggio I grandi filosofi. Jaspers mette in rilievo la necessità per chi vuole fare veramente filosofia di stabilire coi pensatori una comunicazione esistenziale. Cioè, attraversare i concetti e i ragionamenti per scoprire aldilà di loro l’intuizione che fa luce sulla vita. Insomma, il consulente è un mediatore possibile tra la cultura teoricamente lontana e le situazioni esistenziali. Interrogata attraverso un bisogno esistenziale, la cultura filosofica offre prospettive e cammini inattesi.

IL CONSULENTE È UN MEDIATORE POSSIBILE TRA LA CULTURA TEORICAMENTE LONTANA E LE SITUAZIONI ESISTENZIALI.


6 LA CHIAVE DI SOPHIA | GIOVANNA ZUCCA

LA MEDICINA TRA FILOSOFIA E MAGIA L’abbandono della magia, corruzione della medicina, per uno sviluppo dell’etica medica. di Giovanna Zucca «La vita è breve, l’arte è lunga, l’occasione è fugace, l’esperienza è fallace, il giudizio è difficile. Bisogna che non solo il medico sia pronto a fare da sé le cose che debbono essere fatte, ma anche il malato, gli astanti, le cose esterne» (Ippocrate 460 – 370 a.C) …e l’etica?

L

’etica in medicina nasce dalla rinuncia volontaria e consapevole verso qualsiasi arte magica. Non si può accedere all’etica della medicina se cotanta disciplina, tanto prezioso grano – ed è dir corto - non viene separato dalla pula. Non trovo, infatti, altra ragione al sorgere dell’etica medica se non la luce della razionalità. Cambierà abiti nel corso dei secoli, ma nella sostanza rimarrà identica a se stessa e adatta ai tempi nuovi. La magia, corruzione della medicina, porta con sé il fascino della seduzione e del miracolo. Tanto i seduttori che i sedotti erano e tuttora sono compartecipi di un gioco finalizzato all’evento taumaturgico, alla scossa profetica, al dono sapienziale. In tal modo, serva del potere e prona al denaro, la medicina, pervasa dalla magia, è stata ed è tuttora un sogno mai perduto, una spiaggia desiata a causa della nostra debolezza e dei limiti naturali. Dopo l’abisso della nascita, infatti, l’uomo non può continuamente struggersi nella consapevolezza di non essere niente e di finire male. Lui deve lottare contro l’inanità universale.

Nella notte dei tempi il medico greco Ippocrate (460370 a.C.) è già luce che tuttora illumina la modernità. Le sue massime possono destare qualche benevolo sorriso; eppure da oltre duemila anni reggono il comportamento del medico nei confronti del malato anche se in una ritualità paternalistica e monodirezionale, oggi superata da altre esigenze. A quel tempo furono affermazioni e impegni che cambiarono in profondità la mens antiqua. Eccone alcuni esempi: «Dovunque l’arte della medicina

è amata, vi è anche amore per l’umanità». «In qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei malati», «Mi asterrò da ogni offesa e danno volontario», «Tacerò ciò che non è necessario che sia divulgato».

Ippocrate separò la medicina dalla magia, la tenne lontana dalle sensazioni imponderate e ben ferma sulla frontiera della luce, la rivestì di raziocinio, in modo che fosse impeccabile e implacabile risorsa del vero. Ecco quanto

L’UOMO NON PUÒ CONTINUAMENTE STRUGGERSI NELLA CONSAPEVOLEZZA DI NON ESSERE NIENTE E DI FINIRE MALE. LUI DEVE LOTTARE CONTRO L’INANITÀ UNIVERSALE.


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dice sull’epilessia, ritenuta patologia sacra, separata dalla realtà comprensibile, quasi coessente al mistero della divinità o perché solo con mezzi sovrumani era da curarsi oppure perché causata dall’ingresso di un demone nell’uomo. Ippocrate vi si oppone con l’ardore razionale che chiama a sé le migliori prove. Circa il male cosiddetto sacro questa è la realtà. Per nulla – mi sembra – è più divino delle altre malattie o più sacro, ma ha struttura naturale e cause razionali: gli uomini tuttavia lo ritennero in qualche modo opera divina per inesperienza e stupore, giacché per nessun verso somiglia alle altre. E tale carattere divino viene confermato per la difficoltà che essi hanno a comprenderlo, mentre poi risulta negato per la facilità del metodo terapeutico col quale curano, poiché è con purificazioni e incantesimi che essi curano. Ma se per quanto ha di meraviglioso questo male è ritenuto divino, molte allora saranno le malattie sacre e non una soltanto, ché io ne mostrerò altre che non sono meno meravigliose né straordinarie, e che pure nessuno ritiene essere divine. Così le febbri – e quotidiane e terzane e quartane – per niente mi sembrano essere meno sacre e generate da un dio di questo morbo, eppure non incutono stupore; e ancora vedo uomini impazziti e in preda al delirio senza nessuna causa manifesta, che si abbandonano a vari gesti inconsulti; e so di molti che nel sonno gemono e urlano, questi si sentono soffocare, quelli perfino balzano dal letto e fuggono via finché siano destati, e poi tornano normali e assennati proprio come prima – ma restano pallidi e deboli –, e tutto ciò non una volta soltanto, ma spesso. E ancora vi sono casi numerosi e di ogni genere, ma raccontare di ciascuno farebbe lungo il discorso.
In verità io ritengo che i primi a conferire carattere sacro a questa malattia siano stati uomini quali ancor oggi ve ne sono, maghi e purificatori e ciarlatani e impostori (magoi, kathàrtai, agùrtai, alazònes), tutti che pretendono d’essere estremamente devoti e di veder più lontano (pléon ti eidénai). Costoro dunque presero il divino a riparo e pretesto della propria sprovvedutezza – giacché non sapevano con quale terapia potessero dar giovamento – e affinché la propria totale ignoranza non fosse manifesta, asserirono che questo male era sacro. (Traduzione di M.Vegetti)
 È evidente: questa è una dissertazione scientifica, anche se priva di ogni strumento tecnologico che ne supporti la verità e proprio per questo è così potente, insuperabile nel chiamare le varie esperienze a confronto. Tanto più

ci appare grande Ippocrate se consideriamo questa

confutazione un esempio di logica serrata, i cui bagliori sono forniti dalla nascente filosofia. Altre erano le pratiche mediche di appartenenza alla magia. L’esempio riportato ne descrive a sufficienza il carattere ritualistico-illusorio, ben presente in tutti i secoli e in ogni parte del mondo.

Malaria Abracadabra era la maggiore divinità degli Assiri. Invocarne il nome propiziava la guarigione di molte malattie. Ecco cosa scrive Quinto Sereno Sammonico (III secolo d.C.) nel suo Liber Medicinalis: «per scacciare le

febbri malariche scriverai su un pezzo di papiro la parola abracadabra; la riscriverai più volte di sotto, togliendo ad ogni riga le lettere alle estremità; e le parti della figura devono diminuire sempre di più una dopo l’altra; parti che tu toglierai ad una ad una mettendone delle altre, finché lo scritto non si riduca a uno stretto cono: ricordati di appenderlo al collo con legacci di lino.»
 (vv935ss)

Da questa esemplificazione della magia applicata si rende evidente quanto la medicina ippocratica sia stata il germe della cultura scientifica, perché fondata e cresciuta sull’osservazione clinica. Ippocrate raccolse e descrisse casi patologici reali, dalla sua diretta esperienza al letto del paziente. Ne abbiamo 42, che tali rimasero per


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duemila anni. Null’altro di simile, infatti, fu prodotto per così lungo tempo. Bisognerà aspettare il 1600 con Sydenham, medico chiamato l’Ippocrate inglese, per tornare alla pratica clinica vera. Nemmeno Galeno (131 -201 d.C.) ci lasciò delle descrizioni di casi clinici. Si occupò molto bene del culto della personalità, inventando cure miracolose che servivano a gonfiare la sua fama. Galeno occupa un posto rilevante tra coloro che furono i medici dell’antichità (basti pensare alla fortuna dei preparati galenici), ma sviluppò un atteggiamento dogmatico. Fu l’ipse dixit della medicina come lo fu Aristotele per la filosofia. Proprio la sua autorevolezza e il suo grande fascino determinarono un atteggiamento di rinuncia alla critica, alla ricerca e all’osservazione clinica. Già da Galeno la medicina europea attraversò quello che fu chiamato un periodo buio che mescolò magia, superstizione e tradizione. Il medico divenne quasi uno stereotipo, costruito sul dogmatismo e la sottomissione del malato, una sorta di degenerazione di quella che fu inizialmente l’etica di Ippocrate, autoritaria e autorevole sul paziente ma dall’alto di una grande coscienza, consapevolezza e onestà. Ecco un esempio di etica medica com’era insegnata e praticata nel Medioevo. Archimateo, un medico della scuola salernitana vissuto tra l’XI e il XII secolo d.C., nei suoi trattati insegnava ad avvicinarsi al letto del malato humili vultu. Di primo acchito sembrerebbe un ottimo consiglio, sennonché dalla lettura dei suoi scritti ci si rende subito conto che questo atteggiamento è solo uno dei tanti espedienti che il medico dovrebbe mettere in

opera per guadagnarsi la fiducia del paziente ed essere quindi ben pagato. Archimateo consigliava anche di considerare sempre grave la condizione del paziente, di modo che sia la guarigione che la morte potessero contribuire alla sua fama di guaritore miracoloso oppure di medico acuto ed esperto nella prognosi. Permette l’uso di trattamenti illusori, innocui, altrimenti da un lato il paziente poteva irritarsi per non aver ricevuto un corrispettivo adeguato all’onorario del medico (è ancor oggi la filosofia di tanta gente che reputa «cattivo» un medico che prescrive poche medicine), e dall’altro una guarigione naturale non avrebbe certo contribuito alla reputazione del medico. Un trattatista di epoca successiva addirittura suggerisce che, qualora un convalescente dovesse mostrare segni d’ingratitudine nel pagamento, era opportuno farlo riammalare temporaneamente mediante un’opportuna variazione del dosaggio dei farmaci! (Tratto da A. Del Puente e A. Esposito, Il contributo dell’esperienza cristiana alla professionalità medica, ed. Pagina) Con lo sviluppo della medicina scientifica, soprattutto nel XIX secolo, prese piede la figura del grande clinico: basti pensare a Charcot, a Virchow, a Osler (che si può ritenere il fondatore della medicina americana), e in Italia a Baccelli, a Cardarelli, a Murri. La medicina si separò definitivamente dalla magia, anche se impostori e falsi profeti continueranno a proliferare, il più delle volte indisturbati, ricchi in denaro e nomea. L’etica rimase ancora di tipo paternalistico. Il paziente obbediva in una sorta di alleanza terapeutica.


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Con l’epoca moderna vera e propria, si radica un concetto nuovo, quello del cosiddetto «consenso informato», oggi cardine della pratica sanitaria. Il malato discute con il medico sulle decisioni in un rapporto bilaterale e spesso faticoso. I valori emergenti sono il rispetto e l’autonomia delle scelte della persona coinvolta. La novità, infine, dell’ultimo decennio è la valenza economica introdotta nelle dinamiche etiche: il rapporto costo-beneficio. Il buon paziente è definitivamente sostituito dal cliente. Con questo si accetta il limite che le risorse economiche non sono illimitate. Tutto a tutti è impossibile. La buona pratica medica e l’etica sono poste in salvo se la maggior parte dei clienti è soddisfatta. Al resto ci pensa Dio. Eppure la civiltà della cura per la persona malata era già nata molti secoli prima nelle infermerie dei conventi benedettini. Le cure erano rivolte sia agli interni che agli esterni, ai poveri in particolare. La malattia era considerata parte della vita, non antagonista tout-court. Il pensiero può essere espresso brevemente in questo modo: le sofferenze sono inevitabili; speriamo che la perdita del dono della salute sia breve e più breve ancora per un valido aiuto medico. Da questo derivò una visione pacata ed equilibrata della medicina. La radice gloriosa di questa perfetta humanitas è una sola: la parabola del buon Samaritano.

LA BUONA PRATICA MEDICA E L’ETICA SONO POSTE IN SALVO SE LA MAGGIOR PARTE DEI CLIENTI È SODDISFATTA. AL RESTO CI PENSA DIO. Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto vide ed ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite versandovi olio e vino. Poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente tirò fuori due denari e li diede all’albergatore dicendo: «Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più te lo pagherò al mio ritorno.»

L’uomo che scendeva da Gerusalemme non giunse a Gerico. Lo troviamo ai margini della strada, martoriato, depredato, mezzo morto. Più avanti, in sella sulle loro bestie, i briganti se andavano boriosi. C’è la rappresentazione dell’uomo e dei non-uomini in questa parabola tremenda nella sua apparente calma. Cosa può aspettare quell’uomo vilipeso se non che un altro uomo, appunto, lo veda e, vedendolo, raccolga pienamente il suo messaggio muto di soccorso. Chi gli giunge accanto è uno straniero, è chi per tradizione, consuetudine, interesse sarebbe autorizzato se non proprio all’odio almeno all’astio. Invece si ferma. Loro sono gli uomini e si accorgono, per essere uomini, l’uno dell’altro. Si danno e si rendono, reciprocamente, la salvezza. I non uomini se ne vanno, passano oltre. I briganti, il sacerdote, il levita sono i predatori. Nel comportamento del buon samaritano l’etica è resa gloriosa dall’estetica. In una sequenza ben ordinata e persino imprevedibile di atti e scelte, lui porta alla perfezione l’atto salvifico senza nulla trascurare e nello stesso tempo senza alcun eccesso. Davvero non ci troviamo più nell’ambito del dare e del ricevere, ma semplicemente dell’essere. Siamo già nel Regno dei cieli, posto come cuore dell’esistenza. Quel samaritano è un uomo regale, che obbliga la storia ad uscire dai suoi quadri, dagli schemi dell’idiozia. In questo capolavoro di Cristo, mirabilmente narrato da Luca, c’è tutta l’etica medica per l’homo sapiens fino alla fine dei tempi, con buona pace del consenso informato e del rischio-beneficio.


10 LA CHIAVE DI SOPHIA | SARA ROGGI

IL RESPIRO TRA L’IO E IL TU Per una democrazia del riconoscimento. Due solitudini che si abbracciano nello spazio del reciproco riconoscimento

di Sara Roggi

V

ivere in Francia mi sta insegnando che cosa significa essere Altro. Altro rispetto alle aspettative che una società che ancora non conosco mi ha scaraventato addosso e che mi sprona ogni giorno ad una competizione con me stessa. Altro rispetto ad una lingua che non è la mia e che non potrà mai esserlo, che talvolta non fa altro che rinfacciarmi una certa inadeguatezza, quella scomoda, pungente, che ti trafigge e che costruisce un varco tra te il mondo, un varco che ti spinge a gettarti nelle insicurezze, a riscoprire fragilità nascoste. Ho riscoperto quell’altro, che non pensavo avrei mai avuto la forza di affrontare e che, tuttavia, era lì, dentro di me, e aspettava solo di essere risvegliato. Sì perché in questa vita, ora sono altro. E sono altro anche quando torno in Italia e tutto sembra così diverso, lo storico supermercato di famiglia che ha chiuso, i vicini non sono più gli stessi, le persone a volte faticano a riconoscermi. Eppure sono di nuovo lì, in quella campagna che mi ha cullato per ventidue anni. Mi ritrovo di nuovo lì, ma ogni volta diversa, come se passare da Parigi a Treviso dovesse implicare la chiusura di un sipario e l’apertura di un altro. Capire di essere altro, implica necessariamente una totale messa a nudo di quelle vulnerabilità che, come le

definisce bene Habermas, costituiscono l’estrema fragilità della condizione umana. Quelle fragilità che, non solo ci obbligano a fare i conti con la cruda realtà di (in quanto esseri finiti) non poter mai raggiungere quegli ideali di perfezione che spesso è la società stessa ad imporci, ma soprattutto, ciò che la nostra vulnerabilità ci disvela è quello stato di dipendenza che, in un momento o l’altro della vita, dovremmo attraversare e che caratterizza essenzialmente la natura di ogni essere umano. Come sostiene Joan Tronto, filosofa specializzata soprattutto sull’etica e sul pensiero della cura, ciò che accomuna ogni essere umano è esattamente quell’inclinazione alla dipendenza e quel bisogno dell’altro, costitutiva del suo essere al mondo.

CAPIRE DI ESSERE ALTRO, IMPLICA NECESSARIAMENTE UNA TOTALE MESSA A NUDO DI QUELLE VULNERABILITÀ CHE, COSTITUISCONO L’ESTREMA FRAGILITÀ DELLA CONDIZIONE UMANA. Riterrei perciò importante soffermarmi sul significato e sulla portata del termine dipendenza, sulle sfumature che questo può avere e sulla relazione equilibrata che dovrebbe costituirsi tra la ricerca soggettiva di una


LA CHIAVE DI SOPHIA | GENNAIO 2016 11

propria autonomia e il bisogno costante di quell’alterità che fa eco a quel qualcosa che, nel nostro passato, abbiamo perduto per sempre, e che ci invita perciò a oscillare continuamente tra la ricerca delle attenzioni dell’altro e il bisogno della propria indipendenza. Per comprendere più in profondità il processo di costruzione di sé che ogni essere umano si sente chiamato a realizzare nel corso della propria vita, mi riferirò prima di tutto al pensiero di un filosofo e sociologo tedesco, Axel Honneth, che con la sua Lotta per il riconoscimento è riuscito a gettare le basi sulle quali poter ricostruire l’edificio di una società che, focalizzandosi sul valore della performance e la riuscita individuale, ha perso di vista quello che è il bisogno intrinseco di ogni essere umano: il bisogno di riconoscimento e bisogno di amore; il bisogno di essere accettati e valutati a partire dalla propria diversità - una diversità che, quindi, non implica la subordinazione - nell’ambiente lavorativo; ed infine il bisogno di ottenere quella parità nella differenza, affinché ciascuno possa godere degli stessi diritti, anche se diverso, o meglio, proprio in ragione della sua stessa differenza e unicità. In secondo luogo ciò che quest’analisi mi permetterà di fare è riuscire ad abbozzare le linee guida di quella che dovrebbe essere una nuova forma di democrazia al centro della quale il valore del riconoscimento dell’altro

PER TROVARE IL PROPRIO POSTO NEL MONDO, ABBIAMO BISOGNO DI ESSERE RICONOSCIUTI PER QUELLO CHE SIAMO. dovrebbe costituire la nuova chiave di volta per la nascita di legami sociali autentici, dove ad emergere non sono più i tratti né del self-made man della contemporaneità, né quelli del bread winner di stampo paternalistico. Al contrario, la lotta per il riconoscimento, che all’interno della sfera pubblica dovrebbe aprire gli orizzonti della naturale accettazione dell’alterità, non solo per i suoi punti di forza, ma anche per le sue debolezze, potrebbe rappresentare il punto di partenza per la concretizzazione di una democrazia della cura, affinché ciascuno, senza esclusione, possa riuscire a trovare il proprio spazio per vivere dignitosamente. Per trovare il proprio ‘posto’ nel mondo, quindi, abbiamo bisogno di essere riconosciuti per quello che siamo; tuttavia, il riconoscimento prevedrebbe l’attraversamento di tre diverse dimensioni, seguendo il pensiero di Honneth. La prima è quella dell’amore, mediata dalla figura genitoriale materna, la quale dovrebbe aiutarci, nel corso dell’infanzia, a trovare la fiducia in noi stessi stabilendo un giusto equilibrio tra la nostra ‘fame

Doppio segreto di R. Magritte, 1927


12 LA CHIAVE DI SOPHIA | SARA ROGGI

d’amore’ e quindi quella dipendenza incondizionata nei suoi confronti e il bisogno di essere riconosciuti come altro, al fine di costruirci un Sé autonomo, senza il timore ossessivo di essere abbandonati. La seconda dimensione del riconoscimento è quella giuridica la quale dovrebbe indurci a comprendere il valore della dignità umana in quanto tale, la necessità di un’uguaglianza di diritti e perciò il bisogno di rispetto reciproco tra l’Io e il Tu. Infine, nella sfera lavorativa, è attraverso il riconoscimento dell’attività eseguita, che l’alterità ci aiuta a coltivare quella stima di sé, necessaria per costruire un progetto di vita. Ebbene, come ho sostenuto precedentemente, un riconoscimento autentico è possibile solo nel momento in cui la persona viene valorizzata nella sua completezza, attraversando queste tre diverse -ma complementari- dimensioni. Che sia nella sfera affettiva, in quella giuridica, oppure lavorativa, l’essere umano non può essere preso in considerazione solo parzialmente; al contrario, è tutto il suo essere a metterne in luce la sua specialità. L’attenzione nei confronti delle sue debolezze, l’ascolto dei suoi silenzi, le parole non dette oppure balbettate: sono questi i lati particolari ed unici di ciascuno ad invitarci ad aprire le braccia verso l’orizzonte dell’altro. Come può infatti l’essere umano sentirsi parte di un sistema sociale se ciò che gli permette di essere incluso in esso è unicamente la sua capacità di essere conforme ed adeguato a delle aspettative e a dei doveri imposti dall’alto? E quell’interiorità soffocata, quella vulnerabilità negata, come possono trovare espressione senza il timore di non essere accettati? Quello che le specialiste della cura si propongono di diffondere è perciò l’idea di un pensiero non solo etico, ma anche politico, che sia in grado di valorizzare la centralità della dignità umana, al di là delle differenze che possono costituirla e caratterizzarla.

SIAMO TUTTI AGENTI SOCIALI, MA SIAMO ANCHE AGENTI MORALI, RESPONSABILI DELLA COSTRUZIONE DI UN FUTURO IN CUI CIASCUNO POSSA RIUSCIRE A SENTIRSI LIBERO DI ESSERE SE STESSO.

Il pensiero che vede di R. Magritte, 1965

Se l’obiettivo, dunque, è rifondare un sistema democratico che prenda in considerazione le minorità e i più vulnerabili, allora significa che all’origine del malessere vi è un bisogno, una mancanza di fondo, una frattura dalla quale, però, può nascere una svolta. La speculazione filosofica, dunque, ci incoraggia a cambiare il reale, dandogli la forma che noi desideriamo che abbia. La filosofia ci aiuta a cambiare il quotidiano, costruendo il senso di un nuovo avvenire possibile, un avvenire che valorizzi ogni genere di diversità e che distrugga ogni costruzione socio-culturale ritenuta corretta in quanto ‘normale’. Siamo tutti agenti sociali, ma siamo anche agenti morali, responsabili della costruzione di un futuro in cui ciascuno possa riuscire a sentirsi libero di essere se stesso, senza il timore di essere schiacciato, colpevolizzato, messo a tacere, non ascoltato. Che cosa potrebbe significare d’altronde una democrazia della cura, se non il naturale riconoscimento di ogni alterità che ne fa parte? Che senso potrebbe avere la nostra vita se si spegnesse in noi quel desiderio di prenderci cura dell’altro, proprio perché altro rispetto a noi?


LA CHIAVE DI SOPHIA | GENNAIO 2016 13

UOMO E TECNICA NELL’ERA DIGITALE

La tecnologia si sta insidiando in ogni sfaccettatura della nostra vita. La filosofia si interroga sui rapporti che si instaurano tra l’uomo e i suoi stessi artefatti.


14 LA CHIAVE DI SOPHIA | GIACOMO DALL’AVA

DOSSIER

L’ANIMA NEL CORPO ESTESO L’invasione della tecnologia. I confini del corpo si estendono, seguono il ritmo serrato di un virtuale che si innesta ovunque, fino all’anima.

di Giacomo Dall’Ava

E

ssere o non essere, non è questo il problema. Shakespeare si sbagliava, o perlomeno si sbaglierebbe oggi, se Amleto si trovasse a dialogare con un cranio in perfette condizioni fisiologiche durante una risonanza magnetica funzionale (fMRI). Alla luce di alcune recenti scoperte delle neuroscienze, il dissidio primordiale dell’uomo si radica su un nuovo dubbio esistenziale. Essere o avere? Questo è il problema. Siamo o abbiamo il nostro corpo? O meglio: noi, esseri umani, certi della nostra esistenza, coincidiamo con il nostro corpo, o è soltanto un ammasso di carne, che sfruttiamo per deambulare e procurarci qualche piacere terreno a suon di sesso, cibo e corsi di yoga? Fosse per l’alimentazione, palestre, addominali e tapis roulant, ci sentiremmo in pace con il nostro corpo, ci guarderemmo allo specchio e accetteremmo di essere valutati per quello, di essere totalmente corpo. Per il resto? Per il resto il corpo lo abbiamo, lo abbiamo come un fardello, come un bambino di cui siamo i tutori, a malincuore. Sentiamo di avere in dotazione un fisico posticcio, che soffriamo come un peso, un impegno pieno di malanni, di acciacchi e bisognoso di attenzioni.

Invece ci guardiamo allo specchio ad ogni chilo in aggiunta, o ci addormentiamo nello sconforto su un letto di ospedale, piombando a capofitto nell’errore del dualismo cartesiano. Ci barcameniamo ancora tra res cogitans e res extensa: da una parte la mente e dall’altra il corpo, come se non esistesse altro che un’anima pensante e un corpo che macchinosamente obbedisce ai suoi dettami e che, delle volte, sgarra e si ammala, duole e in quel momento urla e ci fa riflettere. Ci grida che la nostra anima è incarnata nel corpo, vive nella carne e non può essere scissa dalla corporeità. Il corpo che soffre disturba la mente e la induce a pensare che ogni cambiamento del corpo risuona amplificato nell’anima, si radica in essa. Lo grida così forte che Amleto riceve una risposta secca: nel corpo che siamo vive un’anima incarnata grazie a un cervello, che, come un hardware, rende possibile l’esecuzione del software (l’anima, la mente, la psiche). Il principe di Danimarca ne rimane incantato e sogna di

ESSERE O AVERE? QUESTO È IL PROBLEMA. SIAMO O ABBIAMO IL NOSTRO CORPO?


LA CHIAVE DI SOPHIA | GENNAIO 2016 15

intravedere il segreto divino di quest’unione. Si dispera cercando l’ingrediente spirituale attraverso cui l’essere umano non è caratterizzato da un freddo Körper, un ammasso di carne senza vitalità, ma da un Leib, un corpo vivente, un corpo proprio, per citare MerleauPonty, secondo cui «la coscienza del corpo invade il corpo, l’anima si espande su tutte le sue parti.» Il divenire del corpo si avvolge sul divenire dell’anima in una struttura a doppia elica avvolta a spirale. La struttura del corpo cambia di giorno in giorno e si rinnova, come anche i pensieri, che si evolvono e nulla rimane immutato: ogni informazione raccolta dai nostri canali sensoriali entra in circolo, si incastra alle nostre cellule e crea un equilibrio dinamico in costante evoluzione. Il cervello infatti è in grado di recepire, aggiornare e modificare la percezione del nostro schema corporeo, cioè di quella rappresentazione cognitiva che abbiamo del nostro corpo in relazione allo spazio in cui è inserito, la raffigurazione interna dell’estensione del nostro corpo, di dov’è e di cosa fa, cosa facciamo. Viene elaborato di volta in volta in relazione alle diverse situazioni e ci comunica una nuova struttura di un corpo che si plasma, si espande o si restringe; si ricompone secondo una nuova armonia, una nuova e rinnovata omeostasi. L’incanto scaturisce quando il cambiamento registrato arriva dall’esterno, quando cioè il corpo attua un’incorporazione (embodiment) di un oggetto estraneo, ma

adoperato dalla persona per uno scopo specifico e intenzionale. Se pensiamo ad un cieco, ad esempio, il bastone con cui cammina e conosce il mondo circostante, non è soltanto un arnese d’aiuto, ma diventa una protesi innestata sulla sua mano, inglobata all’interno del proprio schema corporeo. Tastando gli oggetti che incontra con il bastone, il cieco stimola anche le aree del cervello deputate alla vista: il bastone si sostituisce agli occhi, diventa occhio e concorre alla creazione di un’immagine mentale delle cose con cui entra in contatto.

SIAMO CORPO E COSTANTEMENTE SPERIMENTIAMO NUOVE FORME DI CORPOREITÀ, RINNOVANDOCI IN RELAZIONE ALLA TECNICA CHE UTILIZZIAMO E CI ACCOMPAGNA. La plasticità cerebrale ci consente di trasformare una situazione di squilibrio patologico del corpo in un nuovo equilibrio vitale, una nuova forma corporea rinnovata. Anche una protesi innestata su un arto amputato, dopo un periodo di utilizzo e di abituazione, diventa essa stessa corpo, non tanto per la sua consistenza, quanto per il fatto che il cervello la registra come arto proprio e tutte le sue azioni saranno governate da una consapevolezza corporea rinnovata. Siamo, dunque, non abbiamo. Siamo corpo e costantemente sperimentiamo nuove forme di


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corporeità, rinnovandoci in relazione alla tecnica che utilizziamo e ci accompagna, perché l’essere umano non è nulla di assoluto, di permanente. Possiamo rimodellarci attraverso azioni e manufatti, da cui derivano corpi-macchine innestati tra carne e metallo. La nostra interfaccia con il mondo si evolve di continuo, sviluppiamo nuovi modi di conoscerlo e di connetterci a lui tramite appendici del corpo, talvolta concrete, più spesso impalpabili, eteree: virtuali. Finiamo schiacciati su due dimensioni, appiattiti, rappresentati da una foto profilo e da avatar che vivono della nostra identità. Anche questo siamo. Ogni estensione, ogni raffigurazione virtuale di sé va a formare l’immagine corporea che abbiamo di noi, cioè la rappresentazione che pensiamo gli altri abbiano del nostro corpo. Gioiamo e soffriamo per questo, per un numero di like, per commenti e frasi in digitale. Le azioni del web si connettono con un sistema wireless al nostro cervello: ne scaturiscono emozioni e sentimenti legati a qualcosa che non succede altrove se non in rete, che si trasferisce nell’anima con lo stesso formato del corpo ed entra in circolazione. Siamo quello che scegliamo, quello che agiamo con intenzionalità e motivazione. Il virtuale si innesta anch’esso sul nostro corpo, sulla nostra anima e la nostra plasticità corporea si plasma con un aggiornamento da scaricare direttamente sul software per la versione 2.0. Vediamo spuntare smartphone dalle nostre mani come arnesi da sopravvivenza, estensioni del nostro corpo e delle azioni che compiamo. Senza domandarsi se sia

giusto o sbagliato, il cervello lavora instancabilmente per restituirci una nuova struttura di schema corporeo, ci restituisce un nuovo equilibrio. Il corpo reagisce senza giudizio, si riassesta nel miglior modo possibile e l’anima con lui, collaborando in simbiosi per un prodotto armonioso.

OGNI ESTENSIONE, OGNI RAFFIGURAZIONE VIRTUALE DI SÉ VA A FORMARE L’IMMAGINE CORPOREA CHE ABBIAMO DI NOI, CIOÈ LA RAPPRESENTAZIONE CHE PENSIAMO GLI ALTRI ABBIANO DEL NOSTRO CORPO. L’intelligenza artificiale avanza, sospinta dalla batteria inesauribile del cervello umano; avanza e si impossessa di tutto ciò che rientra nei limiti che le imponiamo. Respiriamo aria e onde elettromagnetiche, camminiamo con la mano alla tasca pronti a sfoderare l’estensione del nostro ego a cui chiedere consiglio in caso di aiuto. All’insorgere del dissidio iniziale dell’essere o non essere, oggi Shakespeare finirebbe per far dialogare Amleto con Siri o Cortana, instancabili consolatrici educate e pazienti, la cui conoscenza risulta infinita, sotto copertura wi-fi o 3G.


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DOSSIER

IL DESIDERIO DELL’ARTE: L’UOMO Le nuove forme di espressione artistica, che si intrecciano intimamente con la materialità e la tecnicità dell’uomo, non sono del tutto inedite e la storia ci tramanda una moltitudine di indizi.

di Salvatore Musumarra

I

n tutti i periodi storici che videro gli artisti protagonisti, si nota l’evoluzione non solo dell’Arte ma anche del tessuto sociale e del senso comune degli individui. Questa sorta di cammino parallelo fra la cultura – madre e capitana dell’Arte, come della musica e di buona parte delle discipline e dei saperi umani – convoglia nel bisogno di adeguarsi ed incastonarsi sempre più nei parametri della società, fra gli individui e nei loro ambienti domestici sino ad intaccare la quotidianità e la corporeità dell’uomo. Se l’arte nel corso dei secoli riconobbe nell’uomo il proprio strumento di manifestazione massimo, che tramite esso poté manifestarsi su una tela, su un blocco di materiale grezzo, su un corpo estrapolato dal reale – come nel caso degli informali e di molti altri movimenti artistici – rimane da domandarsi: su quale altro oggetto o materiale l’arte spingerà l’attenzione dell’uomo se non sull’uomo stesso? Sul suo stesso corpo, nel suo oggetto e soggetto per eccellenza. In tutti i periodi artistici, come dentro una catena di montaggio, l’oggetto – ed in buona parte anche il

soggetto che interpreta ed agisce sull’oggetto - da grezzo o primordiale, passa allo stato di completo, acquisendo, nuove potenzialità, nuove caratteristiche sia estetiche che percettive ed abilitative: tutti i periodi artistici sono dei formanti dell’intelletto umano e il punto di ribalta per i periodi artistici antecedenti. I nouveaux réalistes – ne approfondiremo gli aspetti più in avanti – nel ‘900 ci proposero come alternativa la bellezza in sé: esaltando il processo industriale finale, il suo prodotto, applicando all’oggetto attributi sociali, umani. Nelle visioni d’alcuni militanti artistici notiamo una certa predisposizione nel predire una scena futura, ma che da li a un paio d’anni, decenni o secoli sarebbe diventata realtà; anticipazioni teoriche d’uomini di genio che permisero ad altri uomini di genio di metterle in pratica.

SU QUALE ALTRO OGGETTO O MATERIALE L’ARTE SPINGERÀ L’ATTENZIONE DELL’UOMO SE NON SULL’UOMO STESSO? «Se ogni strumento riuscisse a compiere la sua funzione o

dietro un comando o prevedendolo in anticipo, come si dice


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delle statue di Dedalo o dei tripodi di Efesto… e le spole tessessero da sé e i plettri toccassero la cetra, i capi artigiani non avrebbero davvero bisogno di subordinati, né i padroni di schiavi»1. Queste furono le parole di Aristotele, riguardo la statua di Dedalo, che a suo dire era animata dal suo stesso materiale o come i tripodi del dio Efesto, che aiutavano quest’ultimo nella sua officina vulcanica. Secondo la mitologia greca la statua di Dedalo prendeva vita e dai racconti prende sempre più le fattezze di un automa progettato per proteggere l’isola dagli sbarchi nemici. Dedalo era costituito interamente in bronzo, sia parti esterne che interne, ma nella caviglia, fuoriusciva l’unica parte debole, una specie di Tallone d’Achille dell’automa; tale unica parte d’umano dell’automa lo portò ad una morte accidentale, dissanguato nell’atto di scagliare l’ennesimo costone di roccia ai malcapitati nemici. Sembra proprio che Aristotele abbia scavato nel futuro e pescato un Cyborg in stile classico. Anche Leonardo Da Vinci, non fu da meno, secoli dopo scavò anch’egli nel futuro ed annotò macchine che si muovevano, senza cavalli e anche su nel cielo: idee che anticiparono le nostre attuali macchine volanti. Un esempio è la Vite Aerea: l’elicottero rinascimentale. Ma ritorniamo al Nouveau Realisme, nel ‘900, fu uno dei movimenti più importanti che imperversarono in Europa intorno agli anni sessanta. Questi artisti si orientarono verso una poetica degli oggetti e dei materiali desunti dalla realtà, anche di quella più banale. Rifiutando

le arti pittoriche, i nuovi realisti si dedicarono a operazioni che si accostavano alla scultura in termini provocatori: l’assemblaggio. Le opere dei nouveaux rèalistes,

GLI OGGETTI SONO RIPRESI NEL LORO PRIMARIO SIGNIFICATO E RIPORTATI NEL MONDO ARTISTICO, RICHIAMANDO L’ATTENZIONE AL DUPLICE SIGNIFICATO FORTE DEL RICICLAGGIO. furono costruite per accumulazione, compressione e inscatolamento. Gli oggetti sono ripresi nel loro primario significato e riportati nel mondo artistico, richiamando l’attenzione al duplice significato forte del riciclaggio. Nel complesso, gli artisti del Nouveau Rèalisme espressero un messaggio di disperata impotenza nei confronti della società del consumismo e del benessere individuale. Al tempo stesso si diede maggiore significato al gesto e all’intenzione dell’artista di superarsi; a cui si riconosce un ruolo non solo fisico ma anche intellettuale: è la sua azione il vero evento artistico, non tanto l’oggetto esposto. Dopo i travolgenti movimenti artistici, quali Futurismo, Dadaismo, Surrealismo, eccoci dentro un vero e proprio Nuovo realismo, da lì a poco nuove correnti stravolgeranno le arti e la società, una fra tante la Pop Art. Il Nouveau Rèalisme basa le sue opere, o almeno la

Ihr candidat di Wolf Vostell


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Anthropométrie de l’époque bleue (Ant 82) di Yves Klein

maggior parte, in accumulazioni di materiali anche diversi fra loro e riportando tutti i concetti espressi, in sintesi e sotto la luce di una prospettiva futura e quasi fantascientifica – e vicina ai programmi I.A. (Intelligenza artificiale) - potremmo dire che: 1 - L’uomo, macchina perfetta, che vive sulla terra, capace di pensare, agire, provare emozioni, lottare, parlare, etc., superiore a qualsiasi altro vivente presente abbia anch’egli il suo punto debole: il suo materiale organico, quindi effimero, soggetto a lesioni e a danni fisici permanenti; debole al confronto con madre-natura e schiavo delle realtà e dei mondi che egli stesso disfa e crea. 2 - La scienza, realtà di sua stessa invenzione: modalità verificabile di conoscenza empirica. Un processo intellettuale ed investigativo che non tocca e non modifica l’oggetto ma conosce la verità della natura. Usando questi due elementi come materiali da assemblaggio; di accumulazione, di compressione o d’inscatolamento; sfruttando la tecnologia contemporanea, ad esempio l’ingegneria genetica, le nanotecnologie e le biotecnologie: l’oggetto della scienza – e dell’arte – sarebbe il più sacro, il più osannato ed il più difeso: l’uomo. L’ultimo oggetto manipolabile e trasformabile attraverso la sperimentazione di chi lo studia. L’attenzione dell’arte contemporanea si focalizzerà verso i particolari aspetti dell’ingegneria genetica, come manipolazione della natura e straordinario controllo di forze naturali? Portando l’artista/scienziato ad usare e modificare il proprio corpo o quello di un altro uomo

come fosse materiale da scultura? Potrebbero far parte di questa tendenza anche, piercing, tatuaggi e body painting; oppure le forme antiche di modifica del corpo africane o ancora le tinture per capelli o tutte le forme di chirurgia plastica che rientrano in un concetto di manipolazione della natura: modifica del seno, labbra, naso, fisionomia facciale, sesso. In conclusione la scienza segue i suoi canoni e le sue formalità: accumulazione di dati e notizie quindi, di un maggiore sapere scientifico. Se tale sapere fosse davvero contaminato dall’uomo e dalla sua capacità d’innovazione, la sua innata predisposizione a innalzarsi ad artista della terra, con altri sensi ed altre prospettive, potremmo assistere a fenomeni che ai più è conosciuto come oltrenatura o citando Nietzsche, il superuomo?

L’ATTENZIONE DELL’ARTE CONTEMPORANEA SI FOCALIZZERÀ VERSO I PARTICOLARI ASPETTI DELL’INGEGNERIA GENETICA, COME MANIPOLAZIONE DELLA NATURA E STRAORDINARIO CONTROLLO DI FORZE NATURALI? 1

Aristotele (Politica I A, 4, 1253b).


20 LA CHIAVE DI SOPHIA | MATTEO MONTAGNER

DOSSIER

DON’T FEAR THE TÉCHNE Il Golem non poteva parlare, non ne aveva la facoltà, perché non sapeva discernere il Bene dal Male. La tecnica tiene insieme la promessa di speranza e la minaccia della nostra massima distruzione.

di Matteo Montagner

C

he cosa accomuna Stanley Kubrik e Christopher Nolan? Che cosa accomuna 2001 Odissea nello spazio e Interstellar?

È la fede occidentale nella tecnica, ma non solo, i registi condividono la convinzione che ai problemi derivanti dalla tecnica possa porre rimedio solo la tecnica stessa. La centralità del ruolo del Monolito in 2001 Odissea nello spazio è data dal fatto di fornire a quelle che sembrano più scimmie che esseri umani la capacità manipolativa per cui un osso diventa arma, un elemento iscritto nel mondo della natura diviene così un dispositivo tecnico in grado di rafforzare il potenziale distruttivo che si traduce nell’utilizzo dell’utensile come arma. Sembra infatti che la tecnica porti con sé una sorta di ‘peccato originario’, che ne denota tutta la sua ambivalenza di incremento del potenziale distruttivo dell’umanità, ma anche la stessa precondizione per il suo sviluppo. Che lo sappiate o no, che lo sapessero o no Kubrik e Nolan, consapevoli o meno siamo tutti pazzi per Hegel, la filosofia hegeliana non è qualcosa di relegato a un

passato ottocentesco, ma permea profondamente l’Occidente e ormai, in un mondo globalizzato, l’umanità intera in un’unica e semplice idea, al di là dello stile spesso complicato del nostro autore, quella che la storia dell’umanità sia segnata dal progresso e che questo progresso non possa che incarnarsi nell’interazione tra l’umanità e i suoi dispositivi tecnici. Progresso è una parola che porta in seno etimologicamente pro-gradius vale a dire salire di un livello, insomma per semplificare: l’intera storia di tutti noi sarebbe segnata dal salire una scala verso l’autocoscienza dello Spirito, cioè il riconoscersi come complessa interazione tra umanità e tecnica non più intese come qualcosa di scisso dove a seconda del momento i due termini della relazione divengono alternatamente mezzo o fine dell’altro.

CHE LO SAPPIATE O NO, CONSAPEVOLI O MENO SIAMO TUTTI PAZZI PER HEGEL, LA FILOSOFIA HEGELIANA PERMEA L’OCCIDENTE.


LA CHIAVE DI SOPHIA | GENNAIO 2016 21

Lo Spirito è la consapevolezza che la tecnica non è altro da noi, ma quel particolare modo di stare al mondo dell’umanità. La Fenomenologia è una narrazione di come la storia proceda e di come l’umanità continui imperterrita nel suo sviluppo. Per quanti scempi la tecnica abbia anche portato dobbiamo ammettere tuttavia che essa ha complessivamente aumentato la nostra qualità della vita. Di tutto un altro parere fu Thomas Robert Malthus il quale riteneva che un incremento demografico avrebbe spinto a coltivare terre sempre meno fertili, con conseguente penuria di generi di sussistenza per giungere all’arresto dello sviluppo economico.

OGGI TENDIAMO SEMPRE PIÙ A CONTRAPPORRE LA DIMENSIONE UMANA A QUELLA TECNICA, TECNICA E MACCHINA VENGONO COSÌ VISTE COME CONTRARIO DELL’UMANITÀ. Questa teoria riferita a terreni coltivabili sembra oggi poco attuale, ma in realtà essa riappare nel profondo di teorie come la decrescita e l’esigenza di una maggior sostenibilità dei processi economici e sociali di fronte all’esaurimento di risorse come il carbone e il petrolio poi. L’Occidente è in preda a un atteggiamento schizofrenico, sulla scia di Marx che nell’opera Il Capitale dedica

un capitolo alle Macchine, alle quali imputa tutta una serie di fenomeni di alienazione; anche oggi tendiamo sempre più a contrapporre la dimensione umana a quella tecnica, tecnica e macchina vengono così viste come contrario dell’umanità. La schizofrenia si palesa ancor di più quando se da un lato guardiamo alla tecnica e allo sviluppo con diffidenza dall’altro la nostra vita è permeata da apparecchiature tecnologiche, basti guardare al nostro rapporto simbiotico con smartphone, tablet e chi più ne ha più ne metta. Da Hegel dovremmo recuperare invece questa fiducia nella tecnica, la positiva potenza distruttrice che però produce ulteriore tecnica che va a sanare quegli stessi problemi che essa genera.


22 LA CHIAVE DI SOPHIA | FRANCESCO CODATO

DOSSIER

SEI MALATO? CHIEDILO ALLO SMARTPHONE. SALVATORE MUSUMARRA

Le nuove frontiere delle App in campo medico. Il processo di medicalizzazione della vita: la grande sfida a cui oggi la bioetica e la filosofia della medicina non possono sottrarsi.

di Francesco Codato

U

na delle prime cose che si fa al mattino è accendere lo smartphone -se non è già acceso- e controllare i risultati delle partite, l’andamento delle azioni in borsa, le previsioni meteo per la giornata, leggere il giornale, insomma compiere una serie di atti che sono ormai entrati a pieno titolo all’interno del nostro normale modo di vivere e di relazionarci agli altri. Si potrebbe dire che oggi la nostra espressione di essere nel mondo sia strettamente legata alle possibilità di connessione che ci vengono offerte dalla continua evoluzione dei prodigi digitali e dalle funzioni sempre più “smart” che le applicazioni presenti sui nostri dispositivi ci assicurano. Non a caso una delle figure intellettuali più attive del nostro tempo, Howard Gardner, professore di psicologia ad Harvard, assieme alla studiosa Katie Davis, ha recentemente pubblicato uno studio dall’eloquente titolo:

Generazione App. La testa dei giovani e il nuovo mondo digitale. La tesi di questo ottimo libro è volta a mostrare

come i giovani, ma non solo, siano talmente immersi nel fenomeno delle app da identificare ciò che li circonda per mezzo delle stesse, in altri termini i due studiosi so

stengono che siamo giunti a vedere il mondo come una realtà da poter monitorare, soppesare e quantificare continuamente facendo ricorso alle applicazioni scaricate nei nostri cellulari. Non è, dunque, un caso che questo nuovo modo di comprendere la realtà si estenda anche alla dimensione della salute e, a tal riguardo, diventa di vitale importanza comprendere il ruolo che hanno assunto internet, le app e le attrezzature ad esse connesse nel nostro modo di considerarci in salute e nel mettere in pratica delle azioni relative al monitoraggio della stessa.

SENTIAMO IL BISOGNO DI RIVOLGERCI AD UN MEDICO SE I DATI FORNITI DALLE NOSTRE APP NON RISPETTANO LO STANDARD DI NORMALITÀ In particolare, si può notare come siamo totalmente assuefatti alle informazioni che ci provengono da questi particolari marchingegni elettronici, tanto che sentiamo il bisogno di rivolgerci ad un medico se i dati forniti dalle nostre app non rispettano lo standard di normalità,


LA CHIAVE DI SOPHIA | GENNAIO 2016 23

ad esempio se esse ci dicono che il nostro cuore batte troppo velocemente, che il nostro ritmo sonno-veglia è alterato, se non riusciamo a fare il numero di passi corretti all’interno di qualche giorno, oppure se il ciclomestruale è in ritardo rispetto ad una durata statistica. In altri termini per ogni aspetto biologico e sociale che compone la dimensione di salute è presente un’app che può aiutare a tenere sotto controllo giornaliero quel determinato parametro. Per tal ragione si può asserire che il nostro modo di relazionarci alla salute, come del resto a tutto quello che ha a che fare con la quotidianità, sia totalmente mutato rispetto all’era pre-smartphone e, a riprova di ciò, basti citare gli enormi capitali che colossi informatici quali Apple, Facebook, Google e Microsoft stanno investendo per la realizzazione di app e funzioni digitali legate al mondo della prevenzione e della sanità. Secondo l’IMS Health, la società che si occupa di diffondere i dati sulle vendite di farmaci negli USA, sono disponibili almeno 165.000 applicazioni online dedicate alla salute e il mercato delle stesse è destinato ad aumentare e a moltiplicarsi1. La comprensione e la valutazione di tale aspetto è di certo uno degli argomenti che stanno segnando il dibattito bioetico quotidiano, a questo proposito la riflessione che vorrei proporre all’interno di questo breve articolo è relativa all’analisi dell’opinione comune che ritiene le app

legate alla salute degli strumenti capaci di portare con sé uno schema mentale totalmente nuovo di relazionarci all’ambito della salute. Per comprendere a fondo tale problematica, è necessario partire da quel fenomeno che prende il nome di medicalizzazione della vita, il quale è stato identificato e circoscritto pienamente dalle parole di Peter Conrad nel seguente modo: «la medicalizzazione descrive i processi

tramite i quali dei problemi non medici cominciano ad essere definiti e trattati come problemi medici, definibili in termini di malattia o disturbo.2» Dunque, con il termine medicalizzazione si fa riferimento a quel processo at-

traverso il quale delle normali situazioni di vita iniziano ad essere trattate come delle emergenze mediche che devono ricevere una determinata diagnosi e una specifica cura: per fare qualche esempio, cito la ‘sindrome delle gambe gonfie a fine giornata’, la calvizie, l’ADHD (sindrome da deficit di attenzione e iperattività),

PER OGNI ASPETTO BIOLOGICO E SOCIALE CHE COMPONE LA DIMENSIONE DI SALUTE È PRESENTE UN’APP CHE PUÒ AIUTARE A TENERE SOTTO CONTROLLO GIORNALIERO QUEL DETERMINATO PARAMETRO.


24 LA CHIAVE DI SOPHIA | FRANCESCO CODATO

Secondo uno dei massimi interpreti di tale fenomeno, il sociologo Frank Furedi3, il fenomeno dell’impatto che la medicina riveste nella nostra società, che prende il nome di medicalizzazione della vita, nasce originariamente attorno agli anni ‘60 come critica al professionalismo medico, con particolare riferimento all’esercizio di potere imposto dai medici. A questo proposito si possono ricordare le tesi di Jesse R. Pitts4, il quale, nel 1968, sostiene che l’estensione della medicina sia funzionale al desiderio dei medici di attuare un controllo sociale per il tramite di un allargamento del loro campo d’azione: ad esempio, per Pitts, la medicina si occupa dell’alcolismo facendo passare lo stesso da vizio a malattia. Ne segue che il concetto medicalizzazione nasca con una forte accezione di critica alla casta dei medici, che viene considerata interessata unicamente all’ampliamento del proprio potere piuttosto che alla cura reale del paziente. Insomma, tra gli anni ’60 e ‘70 la medicina viene accusata di non guardare primariamente al bene del paziente, ma di servirsi di questo mandato al fine di incrementare i propri vantaggi e il proprio potere sociale. Tale situazione cambia dalla metà degli anni ’70, poiché gli studi sulla medicalizzazione cominciano ad allontanarsi dalla pura critica alla professione medica e del colonialismo che ne deriva, iniziando a considerare il ruolo dei medici come inserito all’interno di uno spirito del tempo che prescinde dalla volontà degli stessi.

IL FENOMENO DELLA MEDICALIZZAZIONE DELLA VITA, VIENE DESCRITTO QUALE CORNICE INTERPRETATIVA ENTRO LA QUALE NOI CI MUOVIAMO E FACCIAMO ESPERIENZA DI NOI STESSI. L’autore di riferimento è il filosofo francese Michel Foucault, il quale mostra come il fenomeno della medicalizzazione della vita non sia scindibile dall’ordine del discorso che vige in una data epoca, in particolare sostiene che le nostre idee di vero e falso, di giusto e ingiusto, la stessa possibilità di pronunciare alcuni discorsi rispetto ad altri sia predeterminata dall’ordine di verità che assume valore in una precisa società. Nel mondo occidentale questo ordine veritativo è segnato dai concetti di normale e anormale, riletti in chiave di salute e malattia.

Le analisi storiche e filosofiche condotte da Foucault mostrano come, a cominciare dal XVIII secolo, il pensiero medico prenda il posto all’interno della società del pensiero giuridico, ovvero s’instauri un ordine veritativo che non si basa più sulla differenza tra giusto e ingiusto, ma che discrimina tra normale e anormale. Detto con altre parole il fenomeno della medicalizzazione della vita, così come inteso da Foucault, viene descritto quale cornice interpretativa entro la quale noi ci muoviamo e facciamo esperienza di noi stessi. Tale esperienza si basa sull’interiorizzare delle modalità veritative che ci portano continuamente a svolgere delle indagini (degli esami diagnostici) su noi stessi, al fine di capire se ci stiamo allontanando o meno dalla norma condivisa. In questo modo non si cerca più di cogliere se un atto che stiamo per compiere o abbiamo compiuto sia considerabile in termini di giusto o ingiusto, ma si instaura la volontà di agire sulla nostra esistenza con azioni che perpetuino lo stato di salute che determina il nostro grado di conformità alla normalità condivisa. Così descritta la medicalizzazione risulta essere non una sola modalità di descrivere lo sconfinamento della medicina, ma diviene ciò che permette di leggere le modalità di perpetuazione della verità condivisa che ci circonda, ovvero ciò che ci permette di cogliere i termini che discriminano l’impianto categoriale che guida il nostro agire. Per tal ragione ritengo che le app, pur modificando gli usi e i costumi relativi alla salute, non possano essere interpretate come delle vere e proprie novità dal punto di vista del nostro approccio alla salute, il quale è in realtà profondamente segnato da un ordine di verità entro il quale le stesse app s’instaurano e hanno potuto trovare proliferazione. Ne segue che sostenere che lo smartphone e le app stiano radicalmente mutando il rapporto tra


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soggetto e salute risulta, a mio parere, non del tutto corretto, poiché esse non cambiano il rapporto che è già fissato come schema veritativo, ma unicamente innovano le modalità attraverso le quali manifestare lo stesso. Per tal ragione le app palesano quel fenomeno che Michel Foucault ha magistralmente evidenziato, ovvero che siamo all’interno della società della norma medicalizzata, cioè di una società che si basa sull’ordine veritativo proprio della salute, il quale può prendere forma unicamente tramite una condivisione del concetto di normale che permea tutte le sfere vitali dell’uomo. Ne segue che le app rappresentano l’evoluzione tecnologica che consente di addentrarci e di conformarci sempre di più a questo concetto di normalità, attraverso un esame costante delle nostre funzioni vitali che devono essere parametrate al normotipo previsto dagli algoritmi presenti nelle stesse app. Lo smartphone e le novità tecnologiche diventano, per tanto, le nuove frontiere di quel meccanismo che dal XVIII secolo sino ad oggi si pone a base del nostro sistema interpretativo e che prende il nome di medicalizzazione della vita. Ciò non vuol dire, però, che la medicalizzazione e le app rappresentino un male per il nostro modo di vivere, ma significa che dobbiamo riuscire a ritagliare uno spazio critico, con l’aiuto della riflessione filosofica, per educarci all’uso responsabile delle app, o

LE APP COSTITUISCONO IL PRESENTE E IL FUTURO, STA A NOI ELABORARE SPAZI CRITICI PER RIFLETTERE SU COME USARLE. in maniera più generale, per abituarci ad una valutazione cosciente e consapevole della nostra dimensione di salute e armonia nel mondo e con il mondo. Le app costituiscono il presente e il futuro, sta a noi elaborare spazi critici per riflettere su come usarle e proprio ciò rappresenta la grande sfida a cui oggi la bioetica e la filosofia della medicina non possono sottrarsi.

1

Su queste tematiche fai riferimento all’articolo di M. Bocci, Il dottore in tasca, in Repubblica, 18 settembre 2015, pp.36-37 2

P. Conrad, The medicalization of society, The Johns Hopkins University Press, 2007, p.4 3 F. Furedi, The End of Professional Dominance, in Society, September 2006, Volume 43, Issue 6, Springer, pp.14-18 4 J. R. Pitts, Social control: the concept, in International Enciclopedia of the social Sciences, V. XIV, The Macmillan Company and The Free press, New York, 1968, p.391


26 LA CHIAVE DI SOPHIA | EMANUELE LEPORE

DOSSIER

QUO VADIS? La corsa della tecnica alla liquefazione della materia Quale dominio la tecnica esercita sul nostro pensiero?

di Emanuele Lepore

T

roppo spesso si odono persone sostenere che la Filosofia non abbia nulla a che fare con la quotidianità della vita, che essa sia cieca dinnanzi ai bisogni e alle evidenze del nostro tempo; che ‘sia rimasta un passo indietro’, nel migliore dei casi. Ebbene, se è un’ingenuità credere che si possa parlare di quotidianità, di esperienza senza con ciò consegnarsi al linguaggio e alla potenza della Filosofia; d’altro canto è vero che essa resta ‘un passo indietro’: è la giusta distanza da cui guardare al tempo presente, ai fenomeni che ne costituiscono la carne viva. Certamente non è un ritrarsi dal compito -talvolta ingrato ma ineludibile- di leggere criticamente il presente e le sue più profonde strutture. Uno dei filosofi che più acutamente hanno scrutato il sottosuolo del nostro tempo è Emanuele Severino per il quale, da Platone in poi, viviamo il mondo della volontà di potenza, il tempo in cui prende corpo la follia dell’Occidente1: il nichilismo, cioè la volontà e la persuasione che l’ente sia niente2. E la folle nientità dell’ente è ciò che la tecnica, radicale espressione della volontà di potenza, tenta di raggiungere, complice della storia della filosofia occidentale che ha pensato l’ente come 3 (epamphoterìzein) tra l’essere e il nulla.

Aperta la possibilità che l’ente sia niente, la tecnica vuole il potere di produrlo ex nihilo e di condurlo in nihil. È plausibile che la stessa potenza che mette a punto i più sofisticati sistemi, i più elaborati procedimenti di conservazione dell’uomo, sia la stessa che vuole l’annullamento del suo essere? Per rispondere a questa domanda, si ritiene sia fondamentale mettere in luce cosa sia l’uomo, quali elementi ne strutturino l’ (èthos); a tal fine, si suggerisce una prospettiva offerta dalla storia della filosofia in una delle sue pagine più brillanti: lo stoicismo antico4. «Come ben sai i nostri Stoici sostengono questo: in natu-

ra esistono due realtà dalle quali tutto deriva, la causa e la materia. la materia giace immobile, come un essere pronto ad ogni trasformazione, e perciò di per sé sarebbe inerte se qualcosa non la muovesse. Invece, la causa, cioè la Ragione, dà forma alla materia e la trasforma in tutto ciò che vuole, producendo a partire da essa gli esseri più diversi. Deve esistere, quindi, un “ciò da cui” le cose si generano, e un “ciò a causa di cui” le cose si generano: quest’ultimo è la causa, il primo è la materia.5» L’uomo, come tutti gli enti della natura, è un sinolo di ratio e materia, di un principio attivo che ordina quello


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passivo, potenzialmente aperto a ciascuna forma possibile6. È dunque strutturalmente capace di agire e di patire: ciò che era il criterio d’esistenza dell’ontologia stoica. Ciò che è fondamentale intendere è che, come il principio attivo non si limita ad agire puntualmente sulla materia, così il principio passivo non riceve una sola volta per sempre il proprio ordine dal lògos: la relazione tra i primi principi non è aoristica ma inesauribile e continua. L’uomo è, perciò, un sinolo7 inestricabile. E tuttavia ciò che la tecnica si propone di fare, fedelmente alla sua essenza (la volontà di potenza), è di violare la sacralità del sinolo, di reciderne il legami e annientarne gli elementi fondamentali. In questo senso è da leggersi la liquefazione della materia cui stiamo assistendo: è l’annientamento di un principio che ci costituisce, che ci fa uomini; è l’indebolimento, l’asservimento del corpo che noi siamo, in cui hanno vita tutti i nostri processi intellettivi, in cui viviamo finanche quelle nostre dimensioni che, a ben vedere, potrebbero potenzialmente fare a meno del corpo: pur se al prezzo d’una astrattezza insipida8. E ciò non dovrebbe preoccuparci meno di quanto ci preoccupa -o dovrebbe preoccuparci, ché è fin troppo diffusa l’indifferenza verso le radicali trasformazioni cui siamo, più o meno volentieri, sottoposti- il dominio che la tecnica esercita sul nostro pensiero, gli evidenti condizionamenti con cui segna i nostri schemi di riferimento, 1

i tentativi di imparare a riprodurre una coscienza slegata dal corpo e, perciò, solo illusoriamente umana9. In apertura si richiamava il compito che la filosofia ha di pensare criticamente il tempo vissuto dall’umanità, di intercettarne lo Zeit. Ebbene, poiché non facili sono i tempi che viviamo (beninteso: come tutti i tempi che hanno coinvolto l’umanità) la filosofia non può vestire i panni della laudatrix temporis acti10. Ha da riscoprire coraggiosamente il proprio compito, da ritrovare l’autentica forza del proprio verbo; ha da ritornare a pensare l’uomo come uomo: non come un prodotto.

L’espressione è di Severino (ndr).

Il tema della voluta nientità dell’ente è forse una delle trame più importanti del pensiero di Severino. A tal proposito è consigliabile la lettura di Ritornare a Parmenide, in Essenza del Nichilismo (II ed.), pp. 19-62, Adelphi, Milano 1982 2

L’ (epamphoterìzein) dell’ente è messo a tema soprattutto in Destino della necessità, Adelphi, Milano, 1982 Si tiene conto della lettura e della ruminatio che di tale tradizione ha fatto il latino Seneca, senza violarne l’autenticità; anzi, se possibile, dandole una compiutezza che altrimenti non avrebbe avuto. 3 4

Seneca, Ep. 65, 2: «Dicunt, ut scis, Stoici nostri: duo essere in rerum natura, e quibus omnia fiant, causam et materiam, materia iacet inersi, res ad omnia parata, cessatura si nemo moveat, causa autem, id est ratio, materiam format et quocumque vult versat, ex illa varia opera producit. Esse ergo debet, unde fiat aliquid, deinde a quo fiat; hoc causa est, illud materia.» 5

È la di cui si dà notizia in una testimonianza di Diogenene Laerzio ( VII, 139): «A loro giudizio, i principi del tutto sono due, quello attivo e quello passivo. Il principio passivo è sostanza senza qualità, ed equivale alla materia; il principio attivo è il Logos immanente in essa, ed equivale a Dio. Esso è eterno, e diffuso com’è nella materia, dà origine ad ogni singolo ente[…]» (SVF B.f. 300). 6

Sinolo: la parola rimanda inevitabilmente ad Aristotele ed è lecito domandarsi quali rapporti ci siano tra la teoria della forma e della materia nello Stagirita e quella dei filosofi della Stoà. Qui si vuol solo segnalare che il punto decisivo in cui si decide questo rapporto è il controverso concetto di (materia prima). A tal proposito può essere fruttuosa la lettura di Sedley D., Matter in Hellenistic philosophy, in D.Giovannozzi, M.Veneziani, Materia, Firenze 2011, pp.53-66; Gourinat J.B., Matter and Prime Matter, in Salles R., God and Cosmos in Stoicism, Oxford University Press, New York. 2009. 7

Se, infatti, la ragione umana non si esaurisce nella fisiologia del pensiero, è pur vero che, senza questa fisiologia, noi non penseremmo: non in quanto esseri umani. 8

Anche in questo caso, è visibile una responsabilità di certo pensiero filosofico che ha coltivato dualismi astraenti, che ha pensato l’uomo nell’isolamento delle sue essenzialità: isolamento che la tecnica ha assunto come condizione per esercitare il suo dominio. 9

10

E queste parole, almeno nel loro modesto venire alla luce, non hanno tale abito.


28 LA CHIAVE DI SOPHIA | ALVISE WOLLNER

DOSSIER

EX MACHINA: LA TECNOLOGIA GENERA MOSTRI Il regista Garland in dialogo con il filosofo Henry David Thoreau in una pellicola che mette a tema il post-umano e il tempo in cui le macchine diventano autocoscienti e superano per intelligenza l’essere umano.

di Alvise Wollner

I

l celebre sociologo e psicoanalista tedesco Erich Fromm, scrisse in uno dei suoi testi più rilevanti questa massima: «La civiltà odierna sta producendo

macchine che si comportano sempre più come esseri umani e uomini che si comportano in maniera sempre più simile alle macchine.» Un’affermazione che, a posteriori, sembra stata scritta per essere alla base di uno dei film più riusciti del 2015: Ex machina. La pellicola, uscita nelle sale italiane all’inizio dell’estate, è il primo lungometraggio diretto da Alex Garland, un tempo noto come giovane scrittore di successo, in particolare per il suo godibilissimo The beach e per la splendida sceneggiatura di 28 giorni dopo (entrambi adattati sul grande schermo dal poliedrico Danny Boyle). Avvicinandosi per la prima volta in carriera alla macchina da presa, Garland ha deciso di raccontare una storia ibrida, capace di spaziare tra generi come la fantascienza, il thriller e il dramma d’interni con un’arguzia e una raffinatezza, tipiche di un autore navigato e non di un regista esordiente. Iniziamo quindi con l’affermare che in questo caso la storia narrata ha un’importanza centrale ai fini della comprensione e dell’analisi globale dell’opera intera.

Ci troviamo in un futuro non troppo lontano dal nostro presente, in cui Caleb è un giovane e talentuoso programmatore che lavora presso la Bluebook, il motore di ricerca più celebre al mondo. Grazie alle sue abilità il ragazzo viene selezionato per incontrare Nathan, l’amministratore delegato della compagnia. Si tratta di una specie di figura mitica, dal momento che in pochissimi hanno avuto il privilegio di conoscerlo di persona, venerato da ogni suo dipendente e considerato dai contemporanei come un genio rivoluzionario. Accolto nella residenza-eremo del suo datore di lavoro, Caleb scoprirà che Nathan l’ha voluto al suo fianco per partecipare a un esperimento top secret. Lo scienziato miliardario sta infatti sviluppando un progetto che ha per protagonista un’intelligenza artificiale che porta il nome di Ava. Il compito del giovane dipendente sarà quello di conoscere e interrogare per una settimana l’intelligenza artificiale, provando a stabilire se essa possa essere davvero una persona.

UNA STORIA IBRIDA, CAPACE DI SPAZIARE TRA GENERI COME LA FANTASCIENZA, IL THRILLER E IL DRAMMA D’INTERNI.


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Una sorta di moderno test di Turing, apparentemente falsato dal fatto che qui l’interlocutore sa di trovarsi davanti a una macchina e non a una persona in carne e ossa. I problemi però iniziano a sorgere quando Caleb comincia a sviluppare un attaccamento sentimentale nei confronti di Ava, la quale dimostra di provare delle emozioni umane. Più avanti nel film però, Caleb scopre che Nathan ha compiuto negli anni diversi esperimenti su modelli di androidi similari ad Ava e che ora questi androidi sono conservati inattivi negli armadi della residenza. Per evitare che anche Ava faccia la stessa fine, Caleb progetta una fuga insieme a lei, convinto di poter rendere possibile la convivenza tra un umano e un’intelligenza artificiale. Giunti al momento della verità, una serie di colpi di scena sveleranno davvero come stanno le cose, rivelando una realtà ben più crudele e cinica del previsto.

Ex machina non è dunque un semplice film. È una pellicola che conduce prima di tutto una riflessione filosofica tutt’altro che scontata sul tema dell’intelligenza artificiale e sul rapporto uomo-macchina. Tematiche trattate qui con un registro che ricorda in qualche modo la grande fantascienza del passato, quella che si occupava di temi che le neuroscienze oggi scandagliano quotidianamente e che se una volta poteva essere etichettata come una semplice serie di fantasiose supposizioni, oggi ci appare come una premonizione iperrealista di un futuro ormai alle

porte. Con una regia elegante e sicura, il film di Garland conferma le supposizioni che il filosofo Henry David Thoreau aveva previsto già nella prima metà dell’Ottocento. «Gli uomini sono diventati gli strumenti dei loro stessi strumenti.» Accade così che i protagonisti di Ex machina si trasformano da indagatori a indagati, da carnefici a vittime di un’intelligenza artificiale talmente sviluppata da riuscire a superare senza sforzi le conoscenze e le capacità del suo creatore, sopraffatto alla fine da un desiderio di onnipotenza sempre più crescente. Ex machina è un film che racconta il post-umano e affronta l’importante tematica della singolarità, ossia del tempo in cui le macchine diventano autocoscienti e superano per intelligenza l’essere umano.

UNA PELLICOLA CHE CONDUCE PRIMA DI TUTTO UNA RIFLESSIONE FILOSOFICA TUTT’ALTRO CHE SCONTATA SUL TEMA DELL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE E SUL RAPPORTO UOMO-MACCHINA. La condizione di singolarità prevede che le macchine possano diventare una minaccia reale per l’umanità intera. Se il film non scade nella banalità di tematiche già sentite e raccontate è soprattutto grazie a una spettacolare messa in scena e al lavoro di un cast scelto con grande


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accuratezza. Domhnall Gleeson è perfetto nell’impersonare il programmatore spaesato che si dovrà rapportare all’intelligenza artificiale, mentre la splendida Alicia Vikander ha l’onore di vestire con sorprendente bravura i panni di Ava, un robot che sa emozionare non solo i personaggi che incontra sul grande schermo ma anche il cuore degli spettatori seduti in sala. Oscar Isaac ha l’ingrato compito di interpretare la parte del demiurgo antagonista. Un palestrato scienziato pazzo, con il vizio dell’alcol e un carattere piuttosto piatto e bidimensionale, costruito su una serie di cliché. Detto questo, la sceneggiatura del film è molto solida e razionale, intelligente nello strutturare la narrazione in modo da posizionare i colpi di scena nei momenti più adatti della storia. Una vicenda dalle atmosfere claustrofobiche, girata per quasi due ore all’interno di una villa avveniristica completamente isolata tra boschi e cascate e arredata in uno stile ultra moderno, in cui spicca tra i molti oggetti di interior design uno splendido quadro di Jackson Pollock, protagonista di una delle sequenze più riuscite della pellicola. L’edificio è nella realtà lo Juvet Landscape Hotel, un albergo di ultra lusso, situato in un villaggio rurale della Norvegia, ideale per una vacanza a cinque stelle. La bellezza di un film come Ex machina sta invece nel fatto di essere un lavoro su un tema ormai realistico,

quello della coscienza delle macchine, che passa per il corpo, gli sguardi e il desiderio, più che per le chat e gli smartphone. L’elemento che però qui va sottolineato è il talento di Garland nell’inserire all’interno della sua storia nuclei di umanità vibrante, in una realtà dove sentimento e pensiero troppo spesso si confondono. «Non è strano aver creato qualcosa che ti odia?» chiede a un certo punto Nathan a Caleb. È un interrogativo più profondo di quanto si possa immaginare perché mette in luce tutti i problemi che la tecnologia rischia di riversare addosso ai suoi creatori. Garland lancia un prezioso avvertimento agli spettatori: non abusiamo del nostro continuo desiderio di onnipotenza per creare una tecnologia che finirà inevitabilmente per ribellarsi contro di noi. Nelle antiche tragedie del teatro greco, il deus ex machina era la trovata scenica con cui la divinità faceva il suo ingresso sul palcoscenico, risolvendo arbitrariamente la vicenda dall’alto di una macchina scenica. Nonostante siano passati millenni dai tempi di Eschilo, Sofocle ed Euripide, anche in questo caso una macchina risolve l’intero sviluppo della vicenda, dimostrando ancora una volta la miseria e la finitezza dell’essere umano, troppo orgoglioso per riconoscere i suoi limiti terreni e condannato per questo a vivere per sempre un destino di dolori e sventure.


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IL VIRTUALE SI INNESTA SUL NOSTRO CORPO, SULLA NOSTRA ANIMA.

Le azioni del web si connettono con un sistema wireless al nostro cervello: ne scaturiscono emozioni e sentimenti legati a qualcosa che non succede altrove se non in rete, che si trasferisce nell’anima con lo stesso formato del corpo ed entra in circolazione.


32 LA CHIAVE DI SOPHIA | GIORGIA ALDRIGHETTI & CARLO M. CIRINO

FILOSOFIA COI BAMBINI

UNA FILOSOFIA A MISURA DI BAMBINO La Filosofia si rivolge ai bambini. Dal 2008 nasce a Pesaro filosofiacoibambini (FcB) pratica educativa realizzata dalla sperimentazione di Carlo M. Cirino.

di Giorgia Aldrighetti & Carlo M. Cirino

A

tutti piace ricordare che, come diceva Platone nel Teeteto e Aristotele nella Metafisica, la filosofia inizia con il senso della meraviglia, e che sia compito di tale disciplina tenere alto lo stupore provato «di fronte al darsi delle cose» (Berti 2007, p. VI). Non è facile, tuttavia, essere più precisi, e il rischio è che questo modo di presentare le cose si riduca a una semplice metafora. Se la meraviglia - essendo essenziale all’uomo - gli appartiene per natura, ben più problematica appare infatti la capacità di esser in grado di stupirsi ancora. Oggi il sentimento di ‘meraviglia’ è sempre più assopito, sempre più schiacciato sotto il peso delle presunte certezze che definiscono la nostra vita, è continuamente mascherato dalle mille regole che governano le nostre azioni, dall’incapacità di esercitare il senso critico e la pratica del dubbio. Oggi più che mai, gli unici a fuggire questo sopore intellettuale sembrano essere i bambini, i quali, ancora traboccanti di stupore e liberi dalle barriere dell’ovvio, non esitano a divenire piccoli filosofi nei loro mondi dei perché. Chiedono, ricercano, curiosano, osservano, im-

maginano e non si fermano alla prima apparenza. Essi, molto meglio degli adulti, rinnovano le prospettive delle domande e ci richiamano a un ritorno di quell’intimo rapporto tra filosofia e meraviglia. Filosofia e bambini. È a partire da questo binomio che dal 2008 nasce a Pesaro filosofiacoibambini (FcB); pratica educativa realizzata dalla sperimentazione di Carlo M. Cirino. Dal 2011, filosofiacoibambini inizia a farsi conoscere sul territorio della provincia di Pesaro-Urbino, divenendo, poi, nel 2013 progetto di Dottorato in Scienze della Complessità di Carlo M. Cirino, presso l’Università di Urbino. Oggi filosofiacoibambini è un’Associazione culturale che si occupa di diffondere e custodire il me-

I BAMBINI, ANCORA TRABOCCANTI DI STUPORE E LIBERI DALLE BARRIERE DELL’OVVIO, NON ESITANO A DIVENIRE PICCOLI FILOSOFI NEI LORO MONDI DEI PERCHÉ.


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todo originale, formando persone in grado di utilizzarlo nella pratica educativa presso scuole, biblioteche, associazioni e manifestazioni culturali in tutta Italia. Il metodo originale utilizzato dall’equipe è un allenamento mentale unico nel suo genere, fondamentale per bambini dai 4 ai 10 anni. È una pratica educativa originale (e divertente) che si pone in linea con gli studi inaugurati negli Stati Uniti da Matthew Lipman all’inizio degli anni ’70, superandoli e ampliandoli. Vuole sviluppare forme autentiche di conoscenza (idee, parole, concetti, emozioni) e mettere in moto il naturale meccanismo immaginativo nei bambini. Perché fare filosofiacoibambini? I bambini sono naturalmente curiosi del mondo. L’inizio della scuola primaria, tuttavia, segna inevitabilmente un grande cambiamento nel loro percorso di crescita: si sviluppano senso del dovere, capacità di apprendimento e convivenza sociale, ma il pensiero comincia a perdere la propria naturale elasticità, chiudendosi in strutture e percorsi già confezionati. Il risultato sono adulti in miniatura, precocemente incapaci di adattarsi a un mondo che cambia continuamente. Torna quindi a essere utile

la filosofia, non nella sua veste storico-teoretica, ma in quella pratica di allenamento all’immaginazione, alla possibilità, al pensiero critico. Come fare filosofiacoibambini? La pratica educativa di FcB predilige una filosofia descrittiva (Strawson, 1959), ossia, quella volta a descrivere le caratteristiche della nostra struttura concettuale sul mondo. Come parlano, i bambini, della realtà che li circonda? Il laboratorio e l’allenamento cercano di spiegarlo. I laboratori ideati sono volti a formare il gruppo classe, consegnando un habitus di lavoro e si concentrano sull’utilizzo del controfattuale. Essi si basano su pretesti ludico/simbolici per accendere in loro la curiosità e stimolare il ragionamento. I bambini saranno

I BAMBINI SARANNO INVITATI AD ALLENARE L’INNATA CAPACITÀ DI IMMAGINARE MONDI POSSIBILI PER TROVARE SOLUZIONI CREATIVE AI PROBLEMI REALI O ASTRATTI


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invitati ad allenare l’innata capacità di immaginare mondi possibili per trovare soluzioni creative ai problemi reali o astratti che vengono presentati alla loro attenzione. L’allenamento è invece uno strumento educativo che permette ai piccoli filosofi in erba di esplicitare il loro pensiero, tramite l’uso e la potenza delle singole parole. La parola, presa singolarmente, ha una carica semantica potentissima; essa è anche simbolo, immagine, concetto, figura, ed è in grado di collegare e richiamare alla mente profonde analogie e intensi sentimenti. Chi è il filosofocoibambini? Se da un lato il compito del filosofo è quello di porre domande, dall’altro lato emerge la responsabilità di non fermarsi a un’unica risposta. Ecco che il filosofocoibambini è colui che quotidianamente entra in classe, a contatto coi i piccoli, per studio e per ricerca. È colui che, lavorando sulle possibilità, non predispone di laboratori fisici nei quali condurre esperimenti e testare le proprie intuizioni, ma dovrà sostituire all’esperimento fisico l’esperimento mentale. Il linguaggio diviene la chiave di lettura per verificare le ipotesi di partenza; esso si spinge laddove le parole più semplici e le argomentazioni più complesse nascondano al loro interno significati concettuali ed esperienze ben precise. Immaginando scenari alternativi, in ipotetici mondi possibili, costringiamo il

IL FILOSOFOCOIBAMBINI È COLUI CHE QUOTIDIANAMENTE ENTRA IN CLASSE, A CONTATTO COI I PICCOLI, PER STUDIO E PER RICERCA nostro pensiero a ragionare su come le cose potrebbero essere diversamente dalla realtà, al fine di testare più esperienze e scegliere quella migliore. Attualmente venti filosoficoibambini operano sul territorio nazionale ed ognuno di essi - oltre alla pratica filosofica, la ricerca incessante e la preparazione personale - indaga su un particolare aspetto del progetto. Filosofiacoibambini promuove periodicamente workshop formativi affinché studenti, maestre ed interessati possano entrare a far parte del team. www.coibambini.com Per informazioni scrivere a: filosofiacoibambini@gmail.com Tel.3488918488 (Eugenia B., Vicepresidente&Ufficio Stampa).


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BIOETICA

BIOETICA E MEDICINA Alla medicina serve la Filosofia. Il processo di cura oggi richiede una comprensione più profonda del paziente in quanto persona.

di Silvia Pennisi

A

ccade spesso che l’evoluzione della medicina venga per sommi capi illustrata come un semplice progresso prettamente tecnico, più o meno casuale, completamente svincolato dal contesto culturale del tempo in cui si è sviluppato. Eppure, se si leggono con attenzione le biografie di molti innovatori del passato risulta chiaro che non è stato sempre così. Molti illustri scienziati della medicina non sono per nulla dei puri tecnocrati, anzi, la medicina si presentava loro come una chiave di comprensione del reale, come uno strumento più vantaggioso di altri per approdare ai significati profondi dell’esistenza. Numerosi sono i medici-filosofi esempio di questa fusione disciplinare, tra i più noti Ippocrate, Galeno, Aristotele. Per loro lo studio dell’essere umano era inscindibile dall’indagine sulla natura e sull’universo, a tal punto che per tutta l’antichità l’essere un buon medico presupponeva anche l’essere filosofo, così come per un buon filosofo era indispensabile occuparsi della salute dell’uomo. Nonostante questa comune origine, filosofia e medicina si sono a poco a poco separate. È, in particolare, alla fine del XIX secolo, in piena epoca positivistica, che si assiste all’affrancamento pressoché totale della

medicina dalla filosofia. In questo periodo la medicina viene intesa essenzialmente come scienza naturale applicata il cui dogma è riassunto nel pensiero fisiopatologico, secondo il quale le malattie sono deviazioni quantitative dalla norma completamente spiegabili attraverso processi fisici e chimici, il che implica, in concreto, l’impossibilità di un contenuto qualitativo della malattia. Lo iato venutosi a creare tra medicina e filosofia ha causato, progressivamente, la perdita del senso profondo e dei significati dell’agire medico, con una conseguente tendenza all’indebolimento del rapporto con il paziente e all’abbandono della comprensione unitaria della realtà costituita dalla triade salute/malattia/persona.

LO IATO VENUTOSI A CREARE TRA MEDICINA E FILOSOFIA HA CAUSATO, PROGRESSIVAMENTE, LA PERDITA DEL SENSO PROFONDO E DEI SIGNIFICATI DELL’AGIRE MEDICO. Dagli anni ’60 e ’70 del XX secolo viene posta con forza la necessità di una riflessione a tutto campo in ambito biomedico. Lo sviluppo delle scienze e delle tecnologie


36 LA CHIAVE DI SOPHIA | SILVIA PENNISI

essere nel contempo una valutazione sull’utilizzo del sapere medico e sui dilemmi morali sollevati dalla medicina, nella duplice dimensione di scienza e di pratica terapeutica. Permettere alla filosofia di mettersi concretamente al servizio della medicina, in bilico tra il rigore dei protocolli scientifici e la singolarità psicofisica del malato, pensare oltre l’oggettivazione del reale, ossia cogliere le cose oltre il loro darsi è un’esigenza che nasce proprio dalla constatazione che i progressi conoscitivi e applicativi della medicina sollevano questioni filosofiche concernenti l’identità ontologica dell’individuo.

biomediche ha, infatti, posto problemi che travalicano l’ambito del sapere scientifico per investire quello della responsabilità morale e della regolamentazione giuridica1. Nasce così la bioetica termine che venne introdotto nel 1970 dall’oncologo americano Van Reasselaer Potter e da lui definito come una scienza della sopravvivenza che ha la capacità di coniugare conoscenze biologiche e valori umani2. Potter, attraverso la costruzione di questo neologismo, rese esplicita la consapevolezza dell’avanzare e del radicarsi, in quegli stessi anni, di un progresso scientifico-tecnologico che avrebbe portato con sé la possibilità e la speranza di un miglioramento delle condizioni di vita, ma anche il rischio di un disfacimento dell’uomo e della sua umanità. La bioetica può essere considerata un esempio tipico di convergenza strutturalmente interdisciplinare (confluiscono in essa numerose discipline: psicologia, diritto, filosofia, medicina, biologia, ecc…) dettata dalla necessità di costruire un ponte3 tra la ricerca biologica, la medicina e tutta una serie di altre disciplinarietà, nel tentativo di ricomporre la frattura tra piano dei fatti, dei dati sperimentali e piano dei valori. Se la bioetica nasce come una riflessione etica dettata dai cambiamenti delle condizioni di vita dell’uomo, la filosofia è interpellata dall’uomo per capire questi cambiamenti e trovare significato. All’interno della bioetica la riflessione filosofica sulla medicina non potrà che

Spesso il medico ha una mentalità pragmatica, incline ad affrontare i problemi dell’uomo in modo razionale e concreto. Di fronte ad una determinata patologia c’è una specifica terapia, provata e attendibile; di fronte ad un uomo che soffre c’è un repertorio di soluzioni farmacologiche; di fronte ad un problema ci sono cause e modalità strutturate di intervento. La realtà della pratica professionale è tutta un’altra cosa, non è mai così semplice e riduttiva, a meno che il medico non riesca a respingere emozioni e vissuti, trasformandosi in un mero ‘tecnico della salute’. L’ambito medico, per la complessità e la ‘delicatezza’ che lo contraddistingue, richiede che siano ben chiari al professionista il senso ed il valore del suo agire e delle conseguenze che ne derivano, mettendo sempre al centro il bene dell’essere umano nella sua totalità. Ogni attività conoscitiva rigorosa definisce le proprie condizioni di osservazione. In medicina, il perseguimento degli scopi diagnostici e terapeutici è estremamente proceduralizzato.

L’AMBITO MEDICO RICHIEDE CHE SIANO BEN CHIARI AL PROFESSIONISTA IL SENSO ED IL VALORE DEL SUO AGIRE E DELLE CONSEGUENZE CHE NE DERIVANO, METTENDO SEMPRE AL CENTRO IL BENE DELL’ESSERE UMANO. Come, dunque, attivare la possibilità di prendere in considerazione anche elementi che, apparentemente, non sembrerebbero avere direttamente a che fare con gli specifici obiettivi diagnostici e terapeutici? Elementi magari


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facilmente ravvisabili ma non per questo facilmente riconoscibili come immediatamente utilizzabili, almeno all’interno del setting medico. Dove potrebbe portare una visione praticamente totalmente scevra di quella che è la dimensione epistemica della medicina? Il pensiero va ad Umberto Galimberti, che in Idee: il catalogo è questo scrive: «Lo sguardo medico non incontra

il malato ma la sua malattia, e nel suo corpo non legge una biografia ma una patologia, dove la soggettività nel paziente scompare dietro l’oggettività di segni sintomatici che non rinviano ad un ambiente o ad un modo di vivere, a una serie di abitudini contratte, ma ad un quadro clinico dove le differenze individuali che si ripercuotono nell’evoluzione della malattia scompaiono in quella grammatica di simboli con cui il medico classifica le entità morbose come il botanico le piante. Ma quando i sintomi, da espressione di un disagio e di uno squilibrio nelle condizioni di vita, diventano semplici segni di una malattia che, invece di iscriversi nel mondo sociale si iscrive nel mondo patologico, la malattia viene sottratta al controllo del gruppo con cui non si può scambiare, per essere affidata all’osservazione di uno sguardo, quello medico, che, autonomo, si muove in un cerchio dove non viene controllato che da se stesso e dove sovranamente distribuisce sul corpo del malato quel sapere che ha acquisito.4» La filosofia in medicina ha proprio il compito di riportare l’attenzione «alla soggettività del singolo che scompare dietro l’obiettività dei sintomi.» Il processo di cura richiede una comprensione più profonda del paziente in quanto persona, richiede l’interpretazione dello spazio

che una determinata analisi medica o diagnosi o terapia occupa nella vita di questo singolo paziente in questo singolo momento.

IL PROCESSO DI CURA RICHIEDE UNA COMPRENSIONE PIÙ PROFONDA DEL PAZIENTE IN QUANTO PERSONA. Negli ultimi due secoli i rapporti tra filosofia e medicina sono divenuti ancora più ambigui e complessi. Assistiamo ad un progresso nelle conoscenze biologiche inversamente proporzionale alla riflessione e al programma etico e morale che dovrebbe sottenderle. Il tecnicismo e la concretezza di questi nostri tempi non fa che ostacolare le indagini e le riflessioni sulla natura del sapere medico. Ritengo che sia necessario ripercorrere e riprendere il cammino iniziato tanto tempo fa, quando qualcuno si accorse che questioni esistenziali come la malattia, il dolore e la morte potevano essere affrontate senza ricorrere alla magia come unica forma di rimedio e consolazione. È impellente individuare dove i percorsi della medicina e quelli della filosofia necessitano di intersecarsi con maggiore influenza reciproca perché è una necessità riscoprire e riappropriarsi di una maggiore dignità dei processo conoscitivi e applicativi della medicina stessa.

1

Alcune importanti scoperte e innovazioni portarono la nascita della bioetica: la scoperta della struttura a doppia elica del DNA (1952), la conseguente ingegneria genetica, lo sviluppo del trapianto d’organo (1967), il sostegno artificiale delle funzioni vitali (1968-1970). 2

POTTER. V.R., Bioethics.The Science of Survival, “Perspectives in Biology and Medicine”, vol. 14, 1, 1970, pp. 127-153. 3

Nel 1971, lo stesso Potter, nel suo libro Bioethics: Bridge to the future Prentice-Hall, Englewood Cliffs, spiegava il significato del termine bioetica: «ho scelto la radice bio per rappresentare la conoscenza biologica, la scienza dei sistemi viventi; ed ethics per rappresentare la conoscenza del sistema dei valori umani.» 4

Galimberti U., Idee: il catalogo è questo, Feltrinelli, Milano, 1999, p.133


38 LA CHIAVE DI SOPHIA | LISA DE CHIRICO

OSPITE

IL GUSTO AMARO DEL MATTINO Da Vinicio Capossela a Zygmunt Bauman: viaggio in un’esistenza fluida dove tutto fugge e tutto cambia.

di Lisa De Chirico Ma un privilegio è dato ai viandanti e agli insonni: poter alzare gli occhi al soffitto e per soffitto avere il cielo.

Storie che accompagnano in luoghi senza tempo o luoghi con più tempi, attraverso percorsi indefiniti. Il loro è il linguaggio dell’immaginazione che liquida, scivola, si infila, corrode.

E nel cielo vedere una volta e nella volta selve di animali e miti fioriti nel cielo e storie intrecciarsi tra i punti delle stelle e sentire che ognuno ne ha una che brilla e lo regge con fili invisibili sul suolo della terra come una marionetta.” 1

Vinicio Capossela è questo. La sua musica è fluido che si insinua in ogni interstizio, in ogni fessura, in ogni frattura.

C

i sono uomini che hanno il dono dell’incanto. Ci sono uomini che hanno il dono della magia. Ci sono uomini che hanno l’abilità di sfilarti il suolo da sotto i piedi e lasciarti cadere in ogni dove e in ogni quando. A fare da bussola solo il primordiale istinto. A fare da paracadute l’immaginazione. E scendi. E cadi. Ci sono uomini che raccontano visioni. Visioni grottesche, ruvide, surreali, che sfuggono a ogni logica, a ogni codice, a ogni verità. Visioni che raccontano storie.

E penetra. E brucia. Ogni parola è fluido che và ovunque ci sia spazio per andare. E tutto copre. E tutto bagna. E si muove. E cambia. «I fluidi viaggiano con estrema facilità. Essi scorrono, traboccano, si spargono, filtrano, tracimano, colano, gocciolano, trapelano; a differenza dei solidi non sono facili da fermare: possono aggirare ostacoli, scavalcarli, o ancora infiltrarvisi. I fluidi non fissano lo spazio e non legano il tempo [...] non conservano mai a lungo la loro propria forma e sono sempre pronti a cambiarlIl fluido di Zygmunt Bauman, in


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Modernità liquida, sembra intrappolare l’immagine di un Capossela altrimenti inafferrabile. Le sue sono parole irrequiete, parole nomadi. Parole che cercano, parole che a volte trovano. Sono il confine sottile tra le cose che si comprendono bene e quelle che si intuiscono soltanto.3 Come un nomade, di parola in parola, Capossela procede per storie, delinea mondi sommersi nei quali annega trascinando con sé ogni cosa. Ti prende la testa e te la schiaccia sotto. Il respiro si trattiene. E ad ogni silenzio riaffiora alla vita.

SIAMO TUTTI VIANDANTI, ESSERI IRREQUIETI. DI VISIONE IN VISIONE SI PROCEDE IN UN VIAGGIO DI ANDATE E RITORNI, DEVIAZIONI E INVERSIONI DI MARCIA, DOVE OGNI STRADA È UNA SCELTA, OGNI BIVIO UNA RINUNCIA. Siamo tutti viandanti, esseri irrequieti sulle note di Vinicio. Di visione in visione si procede in un viaggio di andate e ritorni, deviazioni e inversioni di marcia, sovrapposizioni e incontri, dove ogni strada è una scelta, ogni bivio una rinuncia. E in questo movimento isterico, in queste contraddizioni, si traccia la trama della complessità dell’esistenza. Il suo viaggio attraverso la verità dell’immaginazione contro la menzogna della realtà4 è alla ricerca di un’appartenenza, di una maschera da indossare, un nome da

RifugioVajolet, Val di Fassa, 3.8.2013, i Suoni delle Dolomiti foto Lisa De Chirico

abitare. È il canto delle sirene che non puoi soffocare. È il cammino che non conosce principio né fine, attraverso i miti, le leggende, le storie tramandate, le storie mai vissute, le supposizioni, le allucinazioni, gli istinti. I forse. Un viaggio dove nulla risponde ad una struttura canonica ma alla complessità dei mondi dei quali racconta. Mondi dove ogni cosa sfuma in un’altra e poi in un’altra ancora, senza tregua. E quando credi di averla afferrata, scivola da un’altra parte. Il viandante va ovunque ci sia spazio per andare. L’animo nomade arriva un po’ più in là, dove non c’è più spazio da calpestare o tempo da contare. La notte è la sua strada, dove i suoni sono echi, le parole supposizioni, le immagini impressioni. Rimane lì, sul bordo tra la notte e il giorno. Ciò che gli rimane, è solo il gusto amaro del mattino.5 Signora Luna, dall’album Nel niente sotto al sole, Vinicio Capossela Modernità liquida, Edizioni Laterza, 2000, Zygmunt Bauman

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Vinicio Capossela

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Vinicio Capossela

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Non è l’amore che va via, dall’album Camera a sud, Vinicio Capossela

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40 LA CHIAVE DI SOPHIA | OTTORINO SACCON

OSPITE

PENSIERO E PRAGMATISMO Cucinare con il sole? Da oggi è possibile grazie a Ottorino Saccon, insegnante-artigiano senza frontiere. Filosofia e artigianato, un binomio efficace per lo sviluppo dei Paesi del Sud del Mondo.

di Ottorino Sacco Cucinare con il sole

F

ar intrecciare linguaggi che provengono da interessi ed esperienze diverse, comporta un impegno, nonché registrare alla fine un possibile risultato per noi stessi. Tale lo sarà, quanto più è nitida la posizione di ciascuna esperienza. Per ciò che riguarda il lavoro delle cucine solari, esse sono il frutto nato dall’atto di osservare, anzi di guardare ciò che mi presentava durante i miei viaggi. Quando ti muovi da casa, viaggio e vai ad incontrare il Sud del Mondo, senti che il viaggio ti cambia, ti trasforma, diventando impossibile ritornare ciò che eri. Ti si presentano davanti ambienti dalla vita variopinta. In questo quadro, a noi estraneo, guardi la terra arsa, la vegetazione rada, lo scorrere di qualche animale (che talvolta ti fa correre via), uomini, donne e bambini che camminano. Queste persone passano cariche, scariche. Dove si può andare o ritornare sotto un sole che cuoce, e coprire grandi distanze, poiché ogni villaggio dista molto l’uno dall’altro? A cercare un po’ di legna, a trovare un parente, farsi ospitare o semplicemente per stare insieme.Questo e molto altro è il Sud del Mondo, sì, perché i bambini alle sei del mattino, con il buio che ancora avvolge tutto, camminano lesti, con in mano un pezzo di legno, cercato chissà dove. Proprio un pezzo di

legno si deve portare per cuocere un po’ di mais e fagioli per il pranzo a scuola, serve solo per questo e ognuno deve provvedere per il fuoco. Altri bambini, più in là, si affannano tutto il giorno a sminuzzare pietre che serviranno per l’edilizia delle scuole o altri edifici. Altri poi, come fossero un altro quadro ma con colori diversi, controllano il loro gruppetto di capre al pascolo e nel contempo maneggiano con il suo cellulare: chissà forse per qualche vendita di capre online.


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Molti altri quadri si dipingono davanti e che custudirai, di viaggio in viaggio: sagome, movimenti e colori. Arrivierà poi anche il momento in cui farai l’esperienza della tua sete, una sete che incontra l’umanità. Sono le tre del pomeriggio, in piena savana keniota, il tuo lavoro sarà fino alle 18, quando dalla missione ti verranno a riprendere. Il tempo appare lungo, quali dilatato. Il segno della tua sofferenza inizia a farsi vedere e a sentire, lo coglie un ragazzino che sorveglia le capre, ti prende per mano, raccoglie un vasetto arrugginito, lascia la tua mano, corre a mungere una capra. Il suo gesto desidera mettere fine alla tua sofferenza. Non posso non pensare che pensiero alto abita in quel ragazzo, scalzo; purtroppo non va a scuola, è incaricato di controllare il gregge.Lui, come me, è detentore di un forte senso di umanità e lo vive insieme a me. Tante di queste esperienze diventano parte del tuo bagaglio, quel bagaglio che abiterà con te giorno e notte. Guardare per riflettere, questo ho imparato, e tradurlo poi in qualche gesto o, nel mio caso, in un oggetto che possa cogliere le straordinarie energie del sole e che vada a trasformare la fatica delle donne e delle bambine in tempo in più a disposizione per sentirsi più leggere nella vita o poter finalmente frequentare la scuola. Questi oggetti che ho ideato e progetto, sono i concentratori solari o cucine solari; hanno il compito di concentrare i raggi del sole in un unico punto.

In questo modo si ottiene una fonte di calore pulita, gratuita, ogni giorno. Ecco che la cottura di cibi o la sanificazione dell’acqua per bere, suona come un’altra musica. Guardare, pensare, fare, tutto ciò fuso insieme può produrre occasioni di benessere per la persona e per l’ambiente. Così facendo si libera altro tempo per guardare e pensare, questa volta tutti insieme, e ancora, poter immaginare cosa si trova oltre la siepe. Si potrà allora procedere spediti verso altre soluzioni, altri lidi, con la forza acquisita attraverso l’intreccio tra filosofia e pragmatismo.

www.cucinareconilsole.com Tel. +39 349 1466234


42 LA CHIAVE DI SOPHIA | ELENA CASAGRANDE

INTERVISTA

MIRKO CÀMIA

Giovane illustratore e designer milanese. L’arte come atto di interpretazione della vita.


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di Elena Casagrande

I

llustratore e Designer di professione. In che modo l’illustrazione è entrata a far parte della tua vita? Come si è sviluppata la tua tecnica nel tempo? Fin da quando ero piccolo l’illustrazione ha sempre fatto parte del mio mondo. Come dico spesso, una parte fondamentale è stata proprio negli anni ’80 perché ero completamente rapito dalle cover cartonate dei videogiochi e dai poster dei film. Anche se non era in programma, verso la fine degli anni ’90 ho rincominciato a disegnare, il lavoro vero e proprio è arrivato dal ’99 quando ho incominciato a lavorare con il digitale fino ad arrivare ad oggi. Non avendo fatto una scuola per illustratori o comunque graphic designer, ho dovuto rimboccarmi le maniche e passare nottate come la maggior parte delle persone che fanno lo stesso lavoro, a studiare e fare tonnellate di tutorial per imparare più che altro illustrator e così via. Così ho appreso la mia tecnica anche se non smetterò mai di apprendere e aggiornarmi su cose nuove, è questo il bello. Grande appassionato di lettering lavori principalmente con la tipografia illustrativa digitale. Che valore e significato ha per te la tipografia come mezzo di comunicazione? Per quanto riguarda il mio pensiero e per quello che faccio ha valore e significato al 100%. Sono convinto, che ad oggi con questa società, le parole sono ancora, molte volte, più efficaci delle immagini. Con questo non voglio dire che una buona immagine non possa trasmettere qualcosa, ma che anche una sola parola possa influire molto. Possiamo notare questo tutti i giorni. La tipografia è a tutti gli affetti un’arte. Giocando su forma, dimensioni e spazi, essa consiste nella scelta del giusto carattere tale da conferire la giusta forza e completezza al

contenuto. Qual è per te il valore aggiunto rispetto alla sola immagine? Assolutamente i piccoli dettagli! Questo è il mio valore aggiunto nel mio lavoro. Come si sta evolvendo in Italia la tipografia illustrativa digitale? Quali sono le sue applicazioni nel nostro mercato? Se dicessi bene, mentirei! In italia va tantissimo la tipografia tradizionale (calligraphy e lettering). Abbiamo una grande storia in questo settore, basti vedere alcuni artisti quanto vengono apprezzati all’estero. Per il digitale dobbiamo ancora fare tanto, oltre confine si sta decisamente meglio. Per quanto riguarda il mercato, si trova spazio generalmente per l’editoria e l’ADV media, anche se, negli ultimi due anni ho visto più interesse da parte di agenzie nel nostro paese, di solito vogliono sempre associare la tipografia con l’illustrazione. Tu sei da Pieve di Soligo, piccola cittadina della Provincia di Treviso. Quanto ha contribuito per la tua carriera lavorare a Milano, città molto più dinamica? E quanto questo ha influenzato l’affermarsi del tuo lavoro e della tua tecnica? Esattamente sono nato e cresciuto a Milano, sono per metà Veneto, quindi a Pieve di Soligo ho passato la maggior parte delle estati fino alla mia adolescenza e per me è sempre stata una seconda casa. Ho tantissimi ricordi, bellissimi ricordi! Era come un altro mondo e penso che a livello di immaginazione mi abbia formato tantissimo, quindi con certezza dico che per il lavoro e per la tecnica mi abbia aiutato parecchio. Hai riscontrato delle differenze nell’interesse e nella risposta da parte delle persone ai tuoi lavori tra le due realtà geografiche e sociali? Diciamo che in entrambe le realtà, l’interesse è stato più


44 LA CHIAVE DI SOPHIA | ELENA CASAGRANDE

istituzioni, teorie e regole. Concordi con questa considerazione nel definire che cos’è un’opera d’arte? Come ho detto prima, è tutto soggettivo e questa ne è la dimostrazione se si parla di pensieri di una persona. Mi è difficile addentrarmi in questo ambito, se devo analizzare le parole di Danto, potrei dire che è un pensiero oggettivo per lui, senza quei tre elementi non ci può essere un’opera d’arte ma, per il mio modesto pensiero, credo che sia una cosa troppo personale, quando un’artista sviluppa un qualcosa che poi viene definita opera d’arte. La bellezza può essere in una pietra scolpita, come in un quadro di Klimt, come si fa ha determinare l’opera d’arte? “Crazy Town”, opera vettoriale realizzata per il progetto Gusto Robusto, dipinge una Città Pazza abitata da piccoli mostri e creature appartenenti al mondo fantastico. Come definiresti l’arte vettoriale? Qual è la risposta dal pubblico nei confronti di questa forma d’arte? Campagna pubblicitaria 2014-2015 per Galbusera

che positivo. Milano, come hai detto tu, è una città dinamica, bisogna stare sempre dietro a tutti e farsi notare; è un pochino più difficile ma non impossibile perché l’affluenza e il via vai di persone è notevole, anche se, come tutti sappiamo, paradossalmente, ad oggi il Veneto è una parte importante a livello nazionale ed internazionale per l’illustrazione, un grande centro di scambio e incontro per gli illustratori, offrendo moltissime opportunità e possibilità lavorative. Che cos’è per te ARTE e quando possiamo considerare un’opera, un’opera d’arte? Domanda difficile! Per me è tutto soggettivo quando si parla di Arte. Ti rispondo brevemente dicendo che tutto può essere Arte e opera d’arte, ma il vero artista con l’A maiuscola lo riconosci subito ed è quello che fa diventare l’opera, un’opera d’arte. Molti teorici dell’arte ritengono che non tutto ciò che è frutto di creatività può considerarsi un’opera d’arte. Athur Coleman Danto filosofo analitico e artista afferma che ciò che determina la differenza tra un semplice oggetto e un’opera d’arte è quel mondo dell’arte fatto di

Il vettoriale è un qualcosa di incredibile, perché pur utilizzando un software come filtro si possono creare vere e proprie opere d’arte. La definizione giusto per me è “Arte d’impatto”. Basti vedere i numeri e l’interesse visto al TCBF 2015 per la mostra Gusto Robusto e si capisce quanto il pubblico abbia apprezzato! Quando vedi grandi artisti che arrivano da tutto il mondo per partecipare a questo progetto capisci veramente quanto questa forma d’arte digitale abbia presa sul mondo. Maurizio Ferraris afferma che «avere rappresentazioni è la condizione dell’agire e del pensare, che sono le caratteristiche generalmente attribuite ai soggetti. […] così pure il desiderio o il timore, l’amore o l’odio hanno bisogno di immagini.» Sei d’accordo con questa affermazione? Qual’è per te il ruolo dell’immagine oggi? Credo che tutto sia legato alle immagini. Personalmente nella maggior parte delle mie illustrazioni mi immedesimo emotivamente mentre disegno, trasmetto e mi faccio trasmettere durante lo sviluppo. Quindi il ruolo è importantissimo. Ad oggi siamo circondati da immagini, forse siamo troppo condizionati da queste, nella vita di tutti i giorni. Basta vedere come si possa passare dalle cose più benevole al terrorismo mediatico.


LA CHIAVE DI SOPHIA | GENNAIO 2016 45

Aristotele diceva che «l’anima non pensa mai senza immagini, e che pensare è come disegnare una figura», cioè registrare e iscrivere, non si tratta solo del pensare per immagini, bensì di adoperare consapevolmente immagini e schemi per facilitare il pensiero. A tuo parere perché è così efficace la comunicazione visiva? Le immagini/ illustrazioni possono essere informazioni visive tanto quanto un testo scritto o un documento? Perché l’umanità si basa principalmente sulla vista, a livello materiale. La voglia, la tentazione, il dispiacere, lo sbalordimento o il sorriso, possono essere dati da una semplice immagine. Assolutamente le immagini/illustrazioni possono essere informazioni visive tanto quanto un testo scritto o un documento, la cosa difficile è l’interpretazione. Questo perché è tutto soggettivo. Basti vedere quando i critici d’arte o gli esperti analizzano importanti dipinti, dando interpretazioni diverse, i racconti possono essere infiniti ma ai tempi nostri tutto è informazione visiva. A volte si comprende più da un’ immagine che da un testo.

Poster Punch exhibition in Costa Rica

Ultima domanda, dedicata ai nostri lettori, cosa pensi della Filosofia? Se penso alla mia vita, penso di averla basata interamente sulla filosofia. Credo che sia l’elemento che formi ognuno di noi ma che, tante volte, viene evitata per non scontrarci con noi stessi. Soprattutto in campo artistico, se non c’è almeno un po’ di filosofia è difficile avere idee. Le idee vengono nell’ analizzare un qualcosa, questo è ciò che credo profondamente. Infine volevo ringraziare tutti voi per l’enorme opportunità di disegnare la cover del primo numero della “Chiave di Sophia”. E’ stato proprio un piacere collaborare con voi.

www.atd-world.com www.behance.com/mirkocamia

Crazy Town - Illustrazione realizzata per la seconda serie del progetto Gusto Robusto


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SELEZIONATI PER VOI

LIBRI

di Stefania Mangiardi

NARCISO E BOCCADORO - Herman Hesse Narciso è un giovane monaco, in questa veste incontra Boccadoro, un ragazzo che il padre vorrebbe indirizzare sul sentiero religioso. Ma Narciso scorge nel suo coetaneo un’inquietudine che non si adatta alla vita spirituale e gli professa un destino da artista. Quest’incontro segnerà l’inizio di una grande amicizia, sebbene le loro strade presto si divideranno ed ognuno intraprenderà un percorso individuale alla ricerca della verità. Narciso rimarrà all’interno del monastero, dedito all’ascetismo; Boccadoro, assetato di vita, inizierà il suo viaggio per il mondo, del quale conoscerà il volto migliore e quello peggiore. Dopo molti anni i due amici si ricongiungeranno, entrambi maturati da nuove, inattese, consapevolezze.

NOI – David Nicholls Connie e Douglas sono sposati da vent’anni, hanno un figlio adolescente – Albert – e nel cuore di una notte qualunque, Connie confessa a Douglas di pensare al divorzio. Il mondo di Douglas va in frantumi, per lui la vita senza Connie è semplicemente inconcepibile. Ma la decisione di sua moglie non è imminente, vorrebbe prima che partissero come previsto per il tour dell’Europa organizzato insieme ad Albert, dopo il viaggio si vedrà. Questo viaggio si trasformerà per Douglas nell’ultima occasione per riconquistare sua moglie e per dimostrare al figlio, con cui non ha un vero legame, quanto tenga a lui. Il suo primo, vero, atto di coraggio: provare l’impossibile per tenere insieme la sua zoppicante famiglia.

LA TENTAZIONE DI ESSERE FELICI - Lorenzo Marone Cesare Annunziata ha settantasette anni, due figli ormai adulti e una facciata ruvida e scontrosa dietro la quale si nasconde un doloroso vortice di occasioni perse, gesti non compiuti e parole non dette. Rancori e rimorsi che Cesare si porta dentro, affrontando la vita con dignità e sottile ironia. Ma ricevuto il conto amaro dei suoi errori, Cesare non si arrende e, nello sguardo schivo e ferito di una ragazza sconosciuta, ritrova il desiderio di essere un uomo migliore. Ritrova la capacità di commuoversi. La voglia di trasmettere ai suoi figli l’insegnamento più importante: lottate con ogni forza per raggiungere la felicità.


48 LA CHIAVE DI SOPHIA | STEFANIA MANGIARDI & MARCO DONADON

SELEZIONATI PER VOI

FILM

di Marco Donadon

Las Acacias di Pablo Giorgelli, drammatico, Argentina/Spagna, 2011 Ruben (Germán de Silva), un camionista, deve trasportare della legna dal Paraguay a Buenos Aires; oltre al carico, un suo superiore gli chiede di accompagnare una donna, Jacinta (Hebe Duarte), e la sua piccola figlia Anahí oltre il confine. Il viaggio vedrà l’incessante lotta di Ruben e Jacinta contro le proprie paure stratificatesi nel corso di una vita piena di solitudine e fallimenti, e per questo motivo resistenti come una corteccia di acacia. Premiato con la Camèra d’Or al Festival di Cannes 2011, Las Acacias si propone come un film innovativo nel quale i brevi e concisi dialoghi fanno da contorno a dei silenzi carichi di ricordi, timidezze e aspettative posti in evidenza da una serie infinita di campi e controcampi magistrali.

En Duva Satt På En Gren Och Funderade På Tillvaron di Roy Anderson, commedia drammatica, Svezia, 2014 Ultimo della trilogia dei film di Roy Anderson sull’”essere un essere umano”, Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza si snoda attraverso 39 piani sequenza a camera fissa che rendono la pellicola un susseguirsi di vere e proprie opere d’arte dentro le quali l’esistenza dei vari protagonisti viene obbligata a mettersi a nudo in tutta la sua banalità e colpevolezza. Vincitore del Leone d’Oro al Festival del Cinema di Venezia del 2014, il film si presenta come qualcosa di surreale e di totalmente differente nel panorama cinematografico odierno. Un autentico capolavoro pioneristico capace di farci ridere amaramente.

Il gaucho di Dino Risi, commedia, Italia/Argentina, 1964 Marco Ravicchio (Vittorio Gassman), un agente romano arruffone e pieno di debiti di una modesta casa di produzione cinematografica italiana, parte alla volta di Buenos Aires per presentare un film nella speranza, anche, di incontrare un suo amico emigrato anni addietro per chiedergli un prestito. In questo viaggio, che già si preannuncia come un flop, Marco Ravicchio, accompagnato da un cast senza talento e futuro, si accorgerà delle due anime dell’emigrazione italiana del secondo dopoguerra: quella elitaria dell’industriale Ingegner Marucchelli (Amedeo Nazzari), intrisa di un patriottismo acritico, e quella proletaria impersonata da quel famoso amico di Marco, Stefano Liberati (Nino Manfredi), un operaio giornaliero comicamente disincantato della vita. Se all’epoca la pellicola non ebbe un grande seguito, Il gaucho oggi si riscatta mostrando tutti i paradossi di un’Italia appena uscita dal boom economico attraverso la sublime mediocrità di Marco e Stefano


LA CHIAVE DI SOPHIA | GENNAIO 2016 49

THINK. IT IS ALREADY PHILOSOPHY


50 LA CHIAVE DI SOPHIA |


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