Mandela e Nelson

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un originale storia di calcio ambientata in africa Nelson è il capitano della squadra di Bagamoyo e alla notizia dell’arrivo di una squadra di calcio italiana, è euforico e preoccupato allo stesso tempo. La passione per il calcio, che condivide con la sorella Mandela, è davvero grande, ma come fare a organizzare una partita internazionale quando manca un vero campo, non ci sono porte, palloni di cuoio, divise? Sarà la fantasia dei suoi compagni di squadra a trovare una soluzione e una volta arrivato il momento della partita, via libera ai gol, alle emozioni, all’entusiasmo e anche a qualche colpo di scena!

ISBN 978-88-8373-143-3

euro 12,00 - dai 9 anni w w w.lanuovafrontierajunior.it


Titolo originale: Mandela & Nelson Pubblicato per la prima volta in Germania da Carlsen Verlag © 2010 Carlsen Verlag GmbH, Hamburg © 2010 La Nuova Frontiera Via Pietro Giannone, 10 - 00195 Roma www.lanuovafrontierajunior.it Quest’opera è stata pubblicata grazie al contributo per la traduzione del Goethe-Institut, finanziato dal Ministero degli Esteri tedesco

Immagine di copertina: Massimo Bacchini ISBN 978-88-8373-143-3 Tutti i diritti riservati

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Hermann Schulz

Mandela e nelson Traduzione dal tedesco di Marta Franchi

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Hermann Schulz (1938), è nato in Africa orientale tedesca ed è cresciuto in Germania. Ha viaggiato molto in tutto il mondo. Dal 1967 al 2001 è stato direttore editoriale della Peter Hammer Verlag. Profondo conoscitore dell’Africa, i suoi libri per ragazzi sono spesso ambientati in questo continente. Tra i riconoscimenti ricevuti: Art and Culture Prize for International Understanding e Hermann Kestel Medal. Nel 2008 è stato finalista per il German Young People’s Literature Award. Le sue opere sono state tradotte in Giappone, Spagna, Francia, Corea del Sud, Turchia.

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Alcuni personaggi e annotazioni

Nelson (io) – Tipo tranquillo e mattiniero, esperto di ogni tipo di bestiole, capitano della squadra di calcio. Mandela – La mia sorella gemella, ama imbellettarsi e ballare sui tavoli. Difensore temibile, così come le sue amiche Hanan e Hanifa. Maeda Haji – Maestro e fondatore della nostra squadra di calcio, che si chiama Saadani Football Team. Nkwabi Ngangasamala – Il nostro allenatore, insegnante di tamburo e mimo al Lago Vittoria, abita a Bagamoyo. Hussein Sosovele – Ex giocatore di calcio, ogni tanto nostro consigliere. Padre Giovanni – Un simpatico prete della missione cattolica, amante del calcio, non disdegna l’alcol. Padre Johannes Henschel – Prete cattolico molto interessato alla storia di Bagamoyo, la nostra città. Ha pubblicato numerosi scritti, alcuni sul mercato degli schiavi, sui colonizzatori tedeschi e sugli antichi portoni di Bagamoyo. Boma – Vecchio palazzo del governo coloniale tedesco a

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Bagamoyo, è un monumento protetto, ma nessuno ha soldi per mantenerlo. “Boma” in lingua kisuaheli significa recinto, protezione. Scuola Sewa-Haji – Scuola fondata da Sewa-Haji (18511897), un indiano musulmano benestante che nell’Africa orientale tedesca ha finanziato ospedali e scuole per persone di tutte le etnie. Julius Kambarage Nyerere (1922-1999) – Fu il primo presidente della Tanzania (tra il 1962 e il 1985). È stato insignito dell’importante titolo di Walimu (Maestro). Mirambo – Re africano (anno di nascita sconosciuto, deceduto nel 1884) che divenne famoso per aver unificato il popolo tanzaniano dei Nyamwezi e per il suo potente esercito. Lottò contro i mercanti di schiavi e contro gli intrusi europei. Veniva chiamato anche il “Napoleone d’Africa”.

Jambo, habari gani? – Buongiorno, come va? Kwa heri – Arrivederci. Mzee – Appellativo cortese per anziani saggi, siano essi uomini o donne. Mzungu – Nome in lingua kisuaheli per tutti i bianchi.

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Giocatori della squadra tanzaniana Nelson (io), Mandela, Hanan, Hanifa, Mirambo, Said, Yakobo, Tutupa, Guido, Omari, Kassim Giocatori della squadra italiana Marco, Hassan, Mohamed, Nicola, Paolo, Pietro, Antonio, Riccardo, Luca, Matteo, Tommaso Arbitro e allenatore Giulio Scampicci Guardalinee Nkwabi Ngangasamala e Hussein Sosovele

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I ratti sono una cosa da uomini

Non sono mai stato uno di quelli che critica la sorella a priori. Ma, chi ne ha una, sa bene quali sono i pro e i contro della situazione. Da me le cose stavano così: per aiutare papà, ogni mattina alle sei io mi mettevo in cammino con il carretto scassato alla ricerca di cibo per i suoi animali, mentre lei se ne stava davanti allo specchio a intrecciarsi nastrini d’argento tra i capelli. Arricciava le labbra e si osservava compiaciuta da tutti i lati. Alcuni non ci troverebbero nulla di male, ma io ho una mia personalissima opinione in merito a queste sciocchezze. Se si tratta di signore che stanno lì ad agghindarsi, allora può anche andare, ma mia sorella Mandela aveva appena undici anni! Ora spiego cos’era che mi infastidiva tanto. Ogni mattina avevo tantissime cose da fare. Venti minuti prima che iniziasse la scuola, dovevo essere tornato dal mio giro e aver consegnato a papà tutte le rane, i topi, le manguste e le lucertole che ero riuscito a catturare. E non credere che mi abbia mai ringraziato. Anzi, al contrario: secondo lui quasi sempre non ne portavo abbastanza e se non stavo ben attento ci rimediavo anche uno scappellotto. E quando gli parlavo di giustizia dicendogli che ogni tanto anche Mandela avrebbe potuto dare una mano, lui brontolava:

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«Non ci si possono aspettare certi lavori da una ragazzina, mio caro Nelson. Questa è una cosa da uomini.» E così dicendo mi batteva la mano sulla spalla e quasi mi rompeva la clavicola. «Ok, ora vai! Fila a scuola!» In genere il colpo successivo sulla spalla riuscivo abilmente a schivarlo. Non lo faceva con cattiveria, aveva solo la mano un po’ pesante ma in fondo un cuore morbidissimo. In realtà, per farti capire fino in fondo di cosa sto parlando, dovrei prima dirti che Mandela non è una sorella qualunque: io e lei siamo nati lo stesso giorno, il 9 maggio. Quindi siamo gemelli. Purtroppo però, lei è venuta al mondo una mezz’ora prima di me e ogni tanto ho la sensazione che sfrutti un po’ questa cosa a suo favore, così come il fatto di essere una femmina. Il 9 maggio! Tutti sulla faccia della terra sanno che il 9 maggio del 1994 Nelson Mandela divenne il primo presidente nero del Sudafrica. Mio padre, entusiasta, ebbe subito l’idea di chiamare mia sorella Mandela e me Nelson in onore di questo avvenimento. A quel tempo lo trovarono tutti geniale. Anche a me il vecchio Mandela non dispiaceva affatto. Solo a scuola mi toccava sentire regolarmente commenti stupidi, soprattutto quando io e mia sorella entravamo insieme, cosa che in genere era difficile da evitare. Ma non mi voglio lamentare. C’era uno in classe nostra che si chiamava Sud-Tirolo di nome e un’altra coppia di ge-

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melli si chiamavano George e Washington perché ai loro genitori non era venuto in mente nient’altro. Allora a questo punto meglio Nelson e Mandela. Come se non bastasse io e Mandela ci assomigliavamo parecchio, nonostante molti dicessero che lei fosse una vera bellezza mentre di me questo non l’aveva ancora mai detto nessuno. Mandela era diversa da me anche in molte altre cose: era sempre stata impertinente e per lei ogni occasione era buona per fare a botte. Nella nostra squadra era il difensore più pericoloso, quella che aveva visto il maggior numero di cartellini rossi. A scuola si pavoneggiava come una diva del cinema o una modella e avresti dovuto vederla in confronto alle altre ragazzine musulmane, tutte timide e riservate. Mandela faceva il suo ingresso sicura di sé e non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno. Io, al contrario, ero un pivellino, se così vogliamo dire. Tutt’oggi sono un tipo tranquillo, riflessivo, che lascia che le cose accadano da sé. Lei agiva senza riflettere e spesso ne diceva quattro anche ai nostri genitori, se c’era qualcosa che non le stava bene. Ma questo non è tutto: a casa raccontava ogni cosa, ogni minima stupidaggine, così come tutte le fesserie che combinava e poi si meravigliava se i nostri genitori la sculacciavano di santa ragione. Io, per ovvi motivi, preferivo tenere la bocca chiusa. I genitori alla fin fine non devono mica sapere tutto! Mandela dimostrava poco interesse per quello che facevo

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io. Tranne per il calcio dove eravamo capaci di passarci la palla anche a occhi chiusi. Nonostante i bottini che raccoglievo al delta del fiume Ruvu o nelle risaie fossero solitamente di grande valore, solo raramente lei si degnava di dare un’occhiata alla mia carriola. Per Mandela un ratto lungo quindici centimetri non era niente di eccezionale. In definitiva, quindi, avevo buoni motivi per lamentarmi di lei e della mia vita. Eppure, nonostante ciò, è sempre stata la mia adorata sorella.

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i metodi educativi di papà

Dalla mia carriola proveniva un gran fracasso. Le bestioline avvertivano che stavano per fare una brutta fine. Incespicando con i miei stivali di gomma nell’acqua salmastra, rifornii le trappole di nuove esche. Prima di ritornare verso casa, le piazzai nei punti strategici e assicurai la barca sotto i cespugli. I posti migliori per cacciare li avevo scoperti solo dopo un lungo periodo di duro lavoro, ma ora potevo affermare senza dubbio di essere un vero esperto di rane, manguste e ratti. In realtà, queste prime ore del mattino non erano poi così spiacevoli, ma questo vedevo bene di tenerlo per me. Al sorgere del sole l’aria era fresca e l’acqua immobile e anche se non pioveva da tempo, i cespugli e gli alberi fiorivano di rosso, blu e giallo ruggine riempiendo di colori la strada che percorrevo dal fiume fino a casa. Normalmente, a stare soli, prima o poi ci si annoia, ma questa solitudine mattutina era diversa e a me piaceva. Quel giorno non c’era scuola. Io e Mandela ci eravamo messi d’accordo di non dirlo ai nostri genitori e speravo che lei fosse capace di tenere chiusa quella boccaccia. Era fantastico avere mezza giornata per vagabondare. Gli allenamenti di calcio, infatti, sarebbero cominciati solo nel pomeriggio.

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Non sapevo come Mandela avesse intenzione di passare il suo tempo libero. Io non avevo dubbi: volevo andare al porto, o meglio, alla spiaggia, perché sapendo come sono fatti i porti, be’, qui da noi non ce ne sono veramente, c’è solo un pezzo di spiaggia che chiamiamo porto. Volevo vedere se incontravo qualcuno o se trovavo qualcosa di interessante da fare, forse sarebbe arrivata una nave da Zanzibar, o una barca di pescatori con uno squalo enorme nella rete. Non si poteva mai sapere quello che poteva succedere in spiaggia e anche quando non succedeva niente, era interessante starsene lì a guardare i pescatori trafficare intorno alle loro barche. A loro non piaceva che noi ragazzini li disturbassimo durante il lavoro con domande e osservazioni stupide, ma a noi non importava! In genere quando avevamo un po’ di tempo andavamo in giro a ispezionare i dintorni degli hotel. I ragazzini viziati, figli di turisti europei o americani, sono abituati a lasciare sulla spiaggia un sacco di cose: palloni, giocattoli, magliette, creme solari e cose del genere. È incredibile quante cose non vogliono più! E tutto ciò che trovavamo abbandonato eravamo autorizzati a prendercelo! Non si trattava di furto. Quello che non ci serviva lo rivendevamo al signor Willies. Lui era l’unico a pagarci un prezzo onesto. Io trovavo che questo genere di affari fosse decisamente migliore rispetto al modo di far soldi che usavano alcuni della mia classe: vestiti di stracci, vagabondavano tra i turisti bianchi fingendosi orfanelli di strada. Avresti dovuto vedere

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con che sguardo strappacuore! I guadagni erano anche buoni, perché molti bianchi impietositi ci cascavano con tutte le scarpe. Prenderei in considerazione una cosa del genere solo nei casi di emergenza più assoluta. Noi non facevamo parte di quei ragazzini vagabondi che devono veramente chiedere l’elemosina per vivere. Di quelli, a Bagamoyo, ce ne sono parecchi, ma non tanti come nelle grandi città. Sembrava proprio che sarebbe stata una bella giornata. Avevo fatto il giro con il mio carretto ed ero ritornato nel cortile di buon umore. Papà stava uscendo in quel momento dalla rimessa dove teneva i sacchi di cibo, la rete metallica, le lastre di vetro e i suoi attrezzi da lavoro. Si pulì le mani con un fazzoletto blu e dette un’occhiata a quello che avevo catturato. «Dovresti portare più rane, te l’ho già detto!» si lamentò provando a darmi il suo solito scappellotto. Ma vedendo la mano alzarsi minacciosamente, riuscii a schivarla in tempo. «È difficile in questa stagione» dissi io con fare da esperto appoggiandomi alla teca delle vipere del Gabon. «Si ritirano dove l’acqua è profonda per deporre le uova» aggiunsi. Lui mi guardò stupito. «Chi ti ha raccontato una sciocchezza del genere?» brontolò e si accese una sigaretta nonostante mamma gli avesse vietato di fumare. Il fatto che lui fumasse davanti a me era un segno di fiducia e io non sarei mai andato a spifferarlo alla mamma.

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«Il nostro professore a scuola» dissi io serio. “Professore” era esagerato, si trattava di un semplice maestro di scuola elementare, ma papà non ne aveva idea non avendo mai neanche visto com’era fatta una scuola dall’interno. Questo però non significa che è uno stupido, ci tengo a sottolinearlo! «Adesso forza, vai!» disse avvicinandosi di nuovo con quella sua manona. Mi ritrassi intuendo che ci stava riprovando. Probabilmente dare scappellotti apparteneva ai suoi metodi educativi, ma io potevo farne benissimo a meno. «Quando esci da scuola?» mi strillò dietro. «Verso le tre. Poi ho gli allenamenti» cantilenai io correndo via. Lui non si accorse che non avevo fatto colazione e non avevo preso i libri. Il fatto che non sia mai andato a scuola, a volte torna comodo. Mamma un tempo aveva frequentato la scuola ed era stata lei a preoccuparsi che in casa nostra ci fossero libri, in inglese e in kisuaheli, la nostra lingua. Leggeva ogni libro prima di darcelo. La sera spesso, quando ero già a letto, sentivo la mamma leggere ad alta voce dei brani al papà. Quando quella mattina uscii di casa, lei era tutta indaffarata in cucina. Per fortuna, altrimenti per fare scena mi sarei dovuto portare dietro, per tutto il giorno, la cartella piena di libri. La divisione dei compiti tra uomo e donna ogni tanto ha i suoi vantaggi.

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Rif lettendo può succedere di tutto

No, papà non è uno stupido. Il suo zoo di serpenti era stato un vero avvenimento, anche se gli incassi dopo l’apertura non avevano corrisposto alle sue aspettative. Quattro anni prima aveva perso il lavoro all’hotel Livingstone Club perché c’era stato l’ennesimo cambio di proprietario e il nuovo si era portato dietro la sua gente. Allora papà era rimasto seduto per una giornata intera a riflettere davanti a casa. Nessuno aveva il permesso di parlare ad alta voce o di fare rumore. Mamma girava in punta di piedi anche se normalmente camminava sempre scalza, quindi in ogni caso non faceva rumore. Papà, lì seduto, assomigliava alla statua di legno di qualche divinità. I suoi occhi erano immobili. Me ne ero accorto avvicinandomi. Volevo sapere se era ancora vivo. Riflettendo può succedere di tutto. Gli avevo sventolato una mano davanti al viso. Nessuna reazione. Allora avevo toccato delicatamente la mano che teneva appoggiata a un ginocchio. Era calda. È risaputo che i cadaveri sono freddi. Quindi era vivo. Poco dopo ne fummo definitivamente sicuri. Eravamo seduti a tavola per la cena, solo mamma, Mandela e io. Si vedeva che mamma era preoccupata, non faceva che guardare suo marito che se ne stava seduto come una statua di legno, immobile.

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Poi successe qualcosa. Lui saltò su, corse in cucina, abbracciò la mamma e tutto contento la sollevò di mezzo metro da terra. «Ho trovato!» urlò, così forte che sicuramente anche i vicini riuscirono a sentirlo. Mamma lo guidò al tavolo come se fosse cieco e gli mise davanti il riso condito. «Cosa hai trovato, Calvin?» chiese sospettosa. Lui parlottava tra sé. Di più, quella sera, non riuscimmo a sapere. Ma fummo contenti che gli era tornato il buon umore e sedeva con noi a tavola. Infatti, escludendo mamma, è papà l’anima della casa! Il giorno successivo si mise al lavoro senza dire a nessuno cosa aveva in mente. Mandela e io scommettevamo su cosa avrebbe costruito: conficcava pali nel terreno tra le palme e i cespugli dietro casa. Inchiodava tavole di legno, tagliava pezzi di lamiera di differenti misure, intelaiava lastre di vetro. Costruiva e batteva tutt’intorno. Sembrava che stesse seguendo un piano preciso, ma noi non riuscivamo a capire quale fosse. In ogni caso doveva esistere solo nella sua testa, perché di scritto non aveva niente. In quel momento non avevo idea di quanto tutto questo sarebbe diventato importante per me e di che ruolo avrei avuto io in tutta questa impresa. Per chi ancora non l’avesse capito, lo spiego bene: papà stava costruendo un terrario per serpenti. Durante la cena ci chiarì meglio: «I turisti di tutta Europa vengono a visitare Serengeti, il nostro parco naturale. E lì possono vedere tantissimi animali, che è una cosa bella e giusta. Ma in Africa ci sono anche i

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serpenti e voi avete mai incontrato qualcuno che dopo essere stato a Serengeti vi ha raccontato di aver visto dei serpenti?» ci chiese lanciando intorno a sé uno sguardo trionfante. «No! Infatti si nascondono! Da me invece i turisti potranno vedere tutto: serpenti grandi e piccoli. Costruisco uno zoo di serpenti. E forse più in là prendo anche dei coccodrilli. Guadagneremo tantissimi soldi così. Tu, Nelson, con i primi guadagni avrai le scarpe da ginnastica e tu, mia cara Mandela, un vestito di seta.» Mandela era raggiante. Lui abbracciò con impeto nostra madre. «E tu, angelo mio, avrai… dài, forza, indovina!» Mamma ridacchiò civettuola. «Ma Calvin!» disse imbarazzata, «non lo so veramente…!» «A te compriamo la bicicletta che volevi da tempo. Te l’avevo promessa da prima del nostro matrimonio!» Mamma si alzò. «Altrimenti non avrei sposato te» aggiunse con tono sicuro. «Be’, puoi starne certa. Presto l’avrai!» Papà sedeva al tavolo con un sorriso di soddisfazione, come un vecchio re che finalmente è riuscito a riportare l’ordine nel proprio regno dopo una guerra. Come abbiamo fatto poi per trovare i serpenti, be’, questa è un’altra storia. La racconterò quando avrò tempo. Fatto sta che io ancora oggi aspetto le mie scarpe da ginnastica. Ma d’altra parte le vecchie vanno ancora bene. Mamma invece ha avuto la sua bicicletta e dovresti vedere come ci va orgogliosa al mercato e tutti la invidiano.

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