Estratto del prologo di Specchio infranto

Page 1

© Institut d’Estudis Catalans by arrangement with Casanovas & Lynch Agencia Literaria Titolo originale: Mirall trencat © 2013 laNuovafrontiera via Pietro Giannone, 10 00195 Roma Isbn 978-88-8373-232-4 Progetto grafico di Flavio Dionisi In copertina: “Joven decadente (después del baile)” di Ramón Casas, 1889 Quest’opera è stata pubblicata grazie al contributo di

www.lanuovafrontiera.it


Mercè Rodoreda

Specchio infranto Traduzione dal catalano di Giuseppe Tavani


Prologo

Un romanzo si fa con molte intuizioni, una certa dose di imponderabilità, con agonie e risurrezioni dell’anima, esaltazioni, delusioni, riserve di memoria involontaria… è tutta un’alchimia. Se non ho provato alcuna emozione davanti a un tramonto, come posso descrivere, o meglio, suggerire la magia di un tramonto? Le strade sono sempre state per me motivo d’ispirazione, come qualche brano di un buon film, un parco nel pieno fulgore della primavera o gelato e ischeletrito in inverno, la buona musica ascoltata in un preciso momento, il viso di persone del tutto sconosciute che incroci all’improvviso, che ti attirano e che non vedrai mai più. Per questo ti lasciano un rammarico difficile da spiegare a parole. Una mano, in un quadro, ti può svelare tutto un personaggio. Uno sguardo può impressionarti più della bellezza degli occhi. Un sorriso enigmatico, che a volte può essere solo la contrazione di nervi facciali, ti ruba il cuore e senti il bisogno di farlo perdurare. Pensi: se potessi descrivere questo movimento quasi impercettibile che cambia completamente un’espressione… Stendhal diceva: i particolari sono ciò che di più importante v’è in un romanzo. E Checov: si deve tentare l’impossibile per dire le cose come non le ha mai dette nessuno. Fare un romanzo è difficile. La struttura, i personaggi, lo scenario… questa operazione di scelta è esaltante, perché ti costringe a vincere le difficoltà. Ci sono romanzi che si impongono, altri devi estrarli pian piano da un 7


Mercè Rodoreda

pozzo senza fondo. Un romanzo è parole. Vorrei far vedere gli spasimi lentissimi di una gemma quando spunta da un ramo, la violenza con cui la pianta espelle il seme, la selvaggia immobilità dei cavalli di Paolo Uccello, l’estrema espressività dei sorrisi androgini delle Vergini di Leonardo da Vinci, o lo sguardo provocante, lo sguardo più provocante del mondo, di una dama di Cranach, senza sopracciglia, senza ciglia, con il cappello, le piume di struzzo, i seni fuori dal corsetto. Non sono arrivata a tanto. Scrivere bene costa. Con scrivere bene intendo scrivere con la massima semplicità le cose essenziali. Non sempre ci si riesce. Dare rilievo a ogni parola; le più anodine possono brillare accecanti se le collochi al posto giusto. Quando mi viene fuori una frase con un giro diverso, ho una piccola sensazione di vittoria. Tutta la bellezza dello scrivere sta nel centrare il mezzo espressivo, lo stile. Ci sono scrittori che lo trovano subito, altri che tardano a lungo, altri che non lo trovano mai. Dopo anni in cui non potei scrivere nulla – tranne qualche racconto – perché scrivere richiede un notevole sforzo e io avevo cose più importanti da fare, ad esempio sopravvivere, mi si impose, potrei dire, Giardino sul mare. Come nel racconto “Pomeriggio al cinema” della raccolta Ventidue racconti, adottai la narrazione in prima persona, il monologo interiore. Io che amo i fiori, senza fiori per anni e anni, sentii la necessità di parlare di fiori e che il mio protagonista fosse un giardiniere. “Un giardiniere è una persona diversa dalle altre, e questo ci viene dall’occuparci dei fiori.” Giardino sul mare, l’ultimo pubblicato dei miei romanzi, è cronologicamente il primo che ho scritto dopo il grande marasma, ed è per me importante perché apre il cammino agli altri. Desiderio di superamento, piacere di scrivere, voglia di credere che un po’ sapevo ancora farlo, che potevo andare più lontano, che le mie aspirazioni di adolescente non erano morte. 8


SPECCHIO INFRANTO

Una famiglia, una casa abbandonata, un giardino desolato, l’idea pura del giardino di tutti i giardini… avevo voglia di scrivere un romanzo in cui ci fosse tutto questo. Mi piaceva immaginare che la famiglia fosse ricca, con una signora non dello stesso ceto. Di un livello diverso, di origini modeste. Il personaggio ideale lo scoprii in Teresa Goday, che quando prese forma nella mia mente non si chiamava Teresa e neppure Goday. Non aveva nome. Una bellezza che aiutava la madre a vendere il pesce, ma pronta interiormente a elevarsi di grado con quella facilità che spesso si riscontra in una persona, soprattutto una donna, strappata dal destino al suo ambiente. Naturalmente, sentivo che il romanzo sarebbe stato complicato, che avrebbe richiesto molti personaggi, che sarebbe stato irto di difficoltà. Intanto, si andava insinuando in me, di soppiatto, come se chiedesse scusa di intromettersi, un altro romanzo, di struttura semplice, con un ballo, un matrimonio, un terrazzo stipato di colombi. Lo vedevo come un romanzo dove avrebbe dominato l’assurdo più disperato, in cui i colombi, per il loro moltiplicarsi, avrebbero acquistato la dimensione di un incubo. Procedeva, lentamente, La piazza del Diamante. E scelsi di scriverlo prima del romanzo di una famiglia. Mentre lavoravo al matrimonio di Colombetta, forse perché da tempo desideravo scrivere un racconto con la veglia funebre di un personaggio, nacque, carico di mistero, “Eladi Farriols a cadavere esposto”; come era nata Teresa, quando non si chiamava ancora Teresa, così Eladi a cadavere esposto non si chiamava Eladi Farriols e non lo vegliava una cuoca che si sarebbe chiamata Armanda né un imbianchino di nome Jesús Masdéu. Eladi Farriols, morto e disteso al centro della biblioteca di una casa signorile, mi offriva nel modo più impensato il primo capitolo di Specchio infranto, che sarebbe diventato il diciannovesimo della seconda parte. Lo stile era 9


Mercè Rodoreda

diverso da quello di La piazza del Diamante. Il romanzo di una famiglia doveva essere più ampio, più aperto. Non potevo far raccontare il romanzo a un solo personaggio… Dovevo sostituire il monologo con lo stile narrativo. Misi da parte “Eladi Farriols a cadavere esposto”. La piazza del Diamante mi trascinava altrove; in primo piano Colombetta, candida, che avrebbe affrontato la vita senza un briciolo di sentimentalismo: come l’affronta la gente del popolo, sana. La piazza del Diamante è un romanzo che va molto al di là di quel che abitualmente definiamo romanzo. In apparenza quello che lo sembra di più; in realtà, quello che lo è di meno. In La piazza del Diamante, il ballo della festa del santo patrono ha in me radici profonde. Figlia unica, avevo avuto tutti i vantaggi e tutti gli svantaggi di una situazione del genere. In breve: avevo voglia di ballare e a casa mia non volevano. Una ragazza per bene non deve ballare. Ballano solo le ragazze poco serie. Io morivo dalla voglia di farlo. Una sera, per la festa grande di Gràcia, andai con i miei genitori a passeggiare per le strade addobbate a festa, e a vedere i tendoni a piazza del Sole e a piazza del Diamante, dove si ballava. Ricordo, l’ho ricordato in varie occasioni, che passavo per le strade piene di musica come un’anima in pena, tanta era la tristezza che mi assaliva. Dovevo avere dodici o tredici anni. Anni dopo, in modo inatteso, come per incantesimo, mi venne l’idea di ambientare in uno di questi tendoni il primo capitolo di La piazza del Diamante, che non ricordavo com’era né per quali strade ci si arrivasse. Qualcuno, quando uscì il romanzo, sicuro di sé e della sua intelligenza, e convinto di avere scoperto una grande verità, mi chiese se Colombetta ero io. Tutti i miei personaggi hanno caratteristiche mie, ma nessuno sono io. D’altro canto, il mio tempo mi interessa relativamente. L’ho vissuto troppo. In La piazza del Diamante lo uso senza esser10


SPECCHIO INFRANTO

mi proposta di usarlo. Un romanzo è anche un atto di magia. Riflette quello che l’autore porta dentro di sé, senza neppure sapere di essere carico di tanta zavorra. Se avessi voluto parlare deliberatamente del mio tempo, avrei scritto una cronaca. Ce ne sono di molto belle. Ma non sono nata per limitarmi a parlare di fatti concreti. Quando volli scrivere un altro romanzo non mi sentivo con forze sufficienti ad affrontare un romanzo con molti personaggi. Dovevo trovare una struttura come quella di La piazza del Diamante. Caddi in una trappola. Ero a tal punto entrata nella pelle del mio personaggio, mi era tanto vicina Colombetta, che non riuscivo a staccarmene. Sapevo solo parlare con lei. Dovevo trovare qualcuno del tutto opposto. E così è nata, lievemente patetica, lievemente desolata, Cecília C. di Via delle Camelie. Un autore non è Dio. Non può sapere che succede dentro le sue creature. Io non posso dire, senza che suoni falso: “Colombetta era disperata perché non ce la faceva più a pulire i colombi”. Non posso neanche farle dire direttamente “ero disperata perché non ce la facevo più a pulire i colombi”. Debbo trovare una formula più ricca, più espressiva, più dettagliata; non debbo dire al lettore che Colombetta è disperata, ma fargli sentire che lo è. E perché il lettore veda la disperazione di Colombetta, mi vedo costretta a scrivere: “Fu quel giorno che mi dissi basta. Basta con i colombi. Colombi, veccia, abbeveratoi, covatoi, colombaia e scala da muratore, via tutto!”. “Sparto, palline di zolfo, occhietti rossi e zampe rosse, via tutto! La soffitta della terrazza solo per me, la botola tappata, le sedie in soffitta, le evoluzioni dei colombi bloccate, il cesto della biancheria in terrazza, la biancheria stesa in terrazza. Gli occhi rotondi e i becchi appuntiti, i riflessi color malva e quelli verde mela, via tutto!”. Non posso dire di Cecília che “La prima volta che salì sul terrazzo vide una stella molto grande dalla parte delle 11


Mercè Rodoreda

montagne”, perché non posso sapere se ha visto una stella molto grande salendo in terrazza. Ma posso farle dire “La prima volta che salii sulla terrazza, vidi una stella molto grande”. In altre parole, il personaggio di un romanzo può sapere che cosa vede e che cosa gli succede, l’autore no. In tal modo il lettore percepisce una verità o, se si vuole, più verità. Ogni romanzo obbedisce a certe convenzioni. Il bello sta nel fare che non lo sembri. Non ho mai scritto niente di così lambiccato come La piazza del Diamante. Niente di meno reale, di più ricercato. La sensazione di qualcosa di vivo è data dalla naturalezza, dalla limpidezza dello stile. Un romanzo è parole. Llorenç Villalonga, dopo aver scritto un articolo encomiastico all’uscita di La piazza del Diamante, ne scrisse un altro quando uscì Via delle Camelie, intitolato “Uguale ma diverso”. Per scrivere Via delle Camelie mi ci vollero due anni. La piazza del Diamante mi aveva sfinito e la stanchezza perdurava. Nel frattempo scrivevo racconti, un genere che non richiede grandi sforzi. Sarebbe diventata la raccolta La mia Cristina, un libro difficile da mettere assieme, molto elaborato. La fanciullezza di Cecília, non so perché, mi ispirò un altro capitolo del romanzo di una famiglia, in cui il giardino prese vita: “I bambini”. Avevo già due capitoli di Specchio infranto, che si andava costruendo senza che quasi me ne accorgessi. E in uno stile che non era il mio. Dopo aver scritto Via delle Camelie rifeci Aloma, un romanzo giovanile. Migliorare un testo impreciso, renderlo più terso e concreto, conservandone la freschezza di una cosa appena finita di scrivere, non è facile. Mi riposai per qualche tempo. Avevo campo libero per dedicarmi senza intralci al romanzo di una famiglia. Mi serviva un titolo, anche se non sapevo esattamente cosa sarebbe successo nel romanzo. La casa abbandonata, Storia di una famiglia, Tempi passati, Tre generazioni. Erano tutti 12


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.