Silvina Ocampo Felisberto Hernández
ISBN 978-88-8373-275-1
9 788883 732751
laNuovafrontiera
€ 16,00
ISBN 978-88-8373-275-1
© Fundación Felisberto Hernández
Felisberto Hernández (Montevideo 1902 - 1964), pianista e scrittore, è stato uno degli autori più importanti della letteratura ispanoamericana del XX secolo. La pubblicazione, nel 1942, di Ai tempi di Clemente Colling segna una svolta nella sua vita e lo porta ad affiancare al pianoforte la macchina da scrivere. Seguono Il cavallo perduto (1943), Nessuno accendeva le lampade (1947), Le Ortensie (1949), La casa allagata (1960) e Terre della memoria (1966).
Terre dellaCRUDELTÀ memoria UN’INNOCENTE
“Ora sono trascorsi alcuni istanti in cui l’immaginazione, come un insetto notturno, è uscita dal salotto per ricordare i sapori dell’estate ed è volata a distanze che nemmeno la vertigine o la notte conoscono. Ma neanche l’immaginazione sa chi è la notte, chi sceglie dentro di essa i luoghi del paesaggio, dove uno zappatore dissoda la terra della memoria e la semina di nuovo.” Nei tre racconti che compongono la raccolta – Ai tempi di Clemente Colling, Il cavallo perduto e il postumo Terre della memoria – l’autore uruguayano percorre gli impervi sentieri del ricordo e della memoria e indaga la materia oscura che porta alla loro formazione ed evocazione perché, come dice lui stesso, “non credo […] di dover scrivere soltanto di ciò che so, ma anche del resto”.
Felisberto Hernández
TERRE DELLA MEMORIA “Felisberto Hernández è uno scrittore che non somiglia a nessuno: [...] si presenta ad apertura di pagina come inconfondibile.” Italo Calvino
“Non avendo del tutto smesso di essere chi ero e non essendo colui che ero destinato a essere, ebbi il tempo di soffrire angosce molto particolari. Tra la persona che sono stato e la persona che stavo per essere, ci sarebbe stata una cosa in comune: i ricordi. Ma i ricordi, in quanto appartenenti alla persona che sarei diventato, pur conservando gli stessi limiti visivi e una organizzazione dei dati simile, avrebbero avuto un’anima diversa. Alla persona che sarei diventato cominciava a spuntare il sorriso dell’usuraio davanti alla valutazione dei ricordi fatta da chi va a impegnarli. Le mani dell’usuraio dei ricordi soppesavano un’altra loro qualità: non il passato personale, carico di sentimenti intimi e particolari, ma il peso del valore intrinseco.”
Dello stesso autore: Nessuno accendeva le lampade Le Ortensie
Titoli originali: Por los tiempos de Clemente Colling (1942), El caballo perdido (1943), Tierras de la memoria (1966). © 2015 laNuovafrontiera via Pietro Giannone, 10 - 00195 Roma Isbn 978-88-8373-275-1 Progetto grafico di Flavio Dionisi Immagine in copertina: Hombre constructivo, Joaquín Torres García www.lanuovafrontiera.it
Felisberto Hernรกndez
Terre della memoria Traduzione dallo spagnolo (Uruguay) di Francesca Lazzarato
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indice
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Ai tempi di Clemente Colling
69
Il cavallo perduto
109
Terre della memoria
Ai tempi di Clemente Colling
Non so bene perché certi ricordi vogliano intromettersi nella storia di Colling. Non sembra che abbiano avuto molto a che vedere con lui. In questa faccenda i rapporti tra quell’epoca della mia infanzia e la famiglia grazie alla quale lo conobbi, non sono così importanti da giustificare il loro intervento. La logica del collegamento sarebbe molto debole. Per un motivo che non capisco, quei ricordi si sono dati appuntamento in questo racconto. E, siccome insistono, ho preferito dar loro retta. Dovrò scrivere, inoltre, di molte cose delle quali so poco; e mi sembra addirittura che l’impenetrabilità sia una loro qualità intrinseca; quando crediamo di saperle, forse smettiamo di sapere che le ignoriamo; perché la loro esistenza è, magari, fatalmente oscura: e questa dev’essere una delle loro qualità. Non credo, tuttavia, di dover scrivere soltanto di ciò che so, ma anche del resto. I ricordi vengono, ma non stanno fermi. E, inoltre, alcuni davvero sciocchi esigono attenzione. E ancora non so se nonostante la loro ingenuità abbiano qualche rapporto importante con altri ricordi; o quali significati e immagini si scambino tra loro. Alcuni sembrano protestare contro la selezione che vuole farne l’intelligenza. E allora rispuntano a sorpresa, 9
Felisberto Hernández
come per chiedere nuovi significati, o per fare nuovi e fugaci scherzi, o per stravolgere tutto in un altro modo. I tram che passano per calle Suarez – e che vedo sia stando seduto sui loro sedili di paglia, sia guardandoli dal marciapiede – sono rossi e bianchi, di un bianco giallastro. Poco tempo fa sono tornato da quelle parti. Prima di arrivare alla curva che fa il 42 quando avanza lungo calle Asencio e gira per imboccare calle Suarez, ho visto brillare le rotaie al sole, come una volta. Quando il tram ci passa sopra, fanno stridere le ruote con un rumore assordante. – Ma, nel ricordo, quel rumore è meno forte, gradevole, e richiama a sua volta altri ricordi. – Lungo la curva c’è anche una recinzione: e quella recinzione gira attorno a una rotonda ricoperta di glicini. Da quelle parti ci sono parecchie case con orti e frutteti. A Suarez quasi non c’era altro. Ora molti terreni sono divisi in lotti. I tempi moderni, gli stessi durante i quali sono andato altrove e diventato in qualche modo un’altra persona, hanno frazionato quelle proprietà, ucciso molti alberi e costruito molte piccole case, nuove e già sporche, misere, botteghe accalcate, che ammucchiavano davanti alla porta pile di cianfrusaglie. Un’asta pubblica ha dato a una grande proprietà signorile un morso capriccioso, un piccolo morso quadrato su uno dei lati, lasciandola dolorosamente incomprensibile. Il nuovo padrone si è incaricato di far assomigliare quel quadratino a un vistoso rammendo, con una casetta moderna che offende la vista con una mancanza di proporzioni antipatica, pesante e pretenziosa. E ridicolizza la bella maestà oltraggiata e umiliata che conserva la dimora laggiù in fondo, così simile a quelle che vedevo la domenica, quando, nella mia prima adolescenza, andavo al Biógrafo Olivos – la sala cinematografica più vicina – e le case di quel genere erano giovani; dal loro ingresso una grande scalinata traboccava e si apriva come uno 10
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strascico da sposa i cui orli si srotolavano verso l’esterno, e alla fine rimaneva un bel po’ di orlo arrotolato e sopra ci piazzavano un vaso con o senza piante – di preferenza piante dalle foglie lunghe che si piegavano tutt’intorno –. E ai piedi di quella scalinata cominciavano a salire, lungamente e languidamente, la Borelli o la Bertini. E cosa non riuscivano a fare, mentre salivano un gradino! Oggi potremmo pensare che le riprendessero al rallentatore; ma allora pensavo che tutti quei movimenti, distribuiti in tutto quel tempo, così emblematici e misteriosi per la mia mente quasi infantile, dovessero corrispondere al segreto di adulti molto intelligenti. E desideravo essere grande per poterlo capire: aspiravo a comprendere quello che già cominciavo a sentire con una pigra e oscura angoscia. Era qualcosa nascosto da quei movimenti, sotto una dignità fin troppo seriosa che, forse, poteva essere profanata soltanto da un’arte superiore come quella che usava lei. – Io già pensavo a profanarla. – Si poteva arrivare a lei, forse, con un enorme sforzo dell’intelligenza, volando in alto come le api quando inseguono la loro regina. Nel frattempo, un lungo abito copriva la donna, con scalinata e tutto. Ma torniamo al tragitto del 42. Dopo che il tram passò proprio davanti al piccolo terreno – rammendo della villa signorile – per un istante mi rimase negli occhi, nitidissimo, l’oscillare di due grandi palme che svettavano dietro la ridicola casetta moderna. E riandando alla fugace visione delle palme, le riconobbi e ricordai la posizione in cui si trovavano prima, quando ero bambino e la proprietà non aveva il rammendo. Un letterato dell’epoca che le avesse viste ora dietro la casetta, cosa mai avrebbe scritto!... E la coppia di vecchie palme muovevano in modo significativo le grandi teste chiomate e flosce, come due vecchi e fedeli 11
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servitori intenti a commentare le sventure dei loro padroni decaduti. E questa riflessione mi venne in mente nel ricordare il modo in cui vedevano la vita le persone di quell’epoca. E come la riflettevano nella loro arte, o com’erano le loro preferenze artistiche. (Ma ora, in questo momento, non voglio perdermi in riflessioni del genere: voglio continuare a parlare del 42). Poi un’immensa e orribile insegna attirò il mio sguardo. (Non dico quale, per non fare altra pubblicità al proprietario. E se mi pagasse, lo farei? E continuavano ad apparire pensieri come questi: era forse stato un figlio della villa signorile a vendere quel pezzo della proprietà per pagare un debito vergognoso?) Mi sentivo triste e pessimista. Pensavo a molte cose nuove e all’insolenza con cui alcune di esse facevano irruzione. Qualcuno mi magnificava il senso del nuovo – e di tutto il nuovo – come meraviglioso destino dell’essere umano; e mi parlava precipitosamente, concedendomi un istante di scherzosa ironia per i miei vecchi affetti. Dato che andava di fretta, voltava subito quella sua testa antipatica e se ne andava da un’altra parte. Ma mi lasciava qualcosa di grigiastro nella tristezza e me la screditava; mi faceva diffidare perfino della dignità della mia stessa tristezza; e la insudiciava con una sostanza nuova, sconosciuta, inaspettatamente sgradevole, come lo strano gusto che a un tratto percepiamo in un alimento adulterato. Tra le proprietà ci sono, tuttavia, luoghi che hanno subito poche “modifiche”; e per qualche istante si può comodamente provare tristezza. I ricordi, allora, cominciano a scendere lentamente dalle ragnatele che hanno tessuto negli angoli prediletti dell’infanzia. Una volta, molto tempo fa, ho ricordato quei ricordi, sot12
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tobraccio a una fidanzata. E quest’ultima volta, da una di quelle case usciva un bambino sporco e in lacrime. Ora ho cominciato a pensare al diritto di vivere che hanno certe cose nuove, e a formarmi un nuovo giudizio. (Magari esagero, e il giudizio favorevole su tutto ciò che è nuovo si estende e copre ogni cosa, come accadeva al tizio che magnificava. E allora è sufficiente essere un tantino ben disposti per trovare mille teorie belle e pronte che giustificano qualsiasi cosa. E inoltre possiamo cambiare molto facilmente i motivi di giustificazione, per contraddittori che siano; perché esistono teorie con suggestione esotica, con mistero suggestivo, con genesi naturalista, con profondità filosofica ecc.). Ora ricordo un punto dove il 42 passa a tutta velocità. È quando attraversa calle Gil. Uno dei suoi lunghissimi marciapiedi mi dà un violento strattone. Su quello stesso marciapiede, quando avevo otto anni, mi cadde una bottiglia di vino; raccolsi i pezzi e li portai a casa, a un isolato di distanza. In casa mi presero in giro e mi chiesero perché l’avevo portata, cosa ci avrei fatto. Per me quella logica era molto difficile – lo è ancora –, perché non l’avevo portata per provare che l’avevo rotta, visto che mi avrebbero creduto lo stesso. In poche parole, non so se la portai perché la vedessero o per cos’altro. Se torniamo dal punto in cui era la mia casa, che si trovava in calle Gil, e andiamo verso calle Suarez, prima di arrivare all’angolo passeremo lungo un muretto molto vecchio, nerastro e coperto di muschio dai molti verdi. Un adulto vedrà al di là del muretto – io, per vedere, dovevo spiccare brevi salti – dei tacchini tra gli alberi e un pollaio di rete metallica imbiancata. Una volta lì avevano scavato un pozzo molto profondo, dove scendeva a leggere un pazzo che non voleva sentire rumori. Continuando lungo il marciapiede troveremo la casa all’angolo, con molte finestre che danno su calle Gil. Ma l’ultima finestra, prima di arrivare a Suarez, è dipinta sul 13
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muro. E dietro la finestra dipinta c’era la stanza dove viveva il pazzo. Non riuscivo a pensare a nulla di terrificante, perché tra le sbarre dipinte era stato dipinto anche un cielo azzurro, e quella finestra non mi suggeriva niente di grave. Il pazzo, tuttavia, per poco non aveva ucciso con un’ascia la madre, che era paralitica e stava sempre seduta in poltrona. Per fortuna erano accorse le tre figlie. E da allora il pazzo passava un po’ di tempo rinchiuso e un altro po’ con loro. Era una persona di grande delicatezza, colta e affabile. Una volta mi diede un topo di cioccolata e io guardavo con gratitudine il suo corto pizzetto a forcella. Ma le sorelle! Com’erano nobilmente ideali! Tramite quelle tre longeve sono riuscito a dare la mano a buona parte del secolo scorso. Non dovrebbe essere troppo difficile, sfogliando le riviste di quell’epoca, imbattersi in un illustratore “originale” che abbia disegnato una sigaretta fumante, dal cui fumo emergeva una silhouette come la loro. La vita più sottile possibile; il busto florido, il colletto imprigionato tra piccole stecche di balena che sostenevano la stoffa bianca. – A quei tempi la mia attenzione si soffermava sulle cose messe di sbieco; e in quella casa ce n’erano molte: i riquadri imbiancati della rete del pollaio, i quadretti bianchi della stoffa del colletto imprigionato tra le stecche di balena, il pavimento del cortile a lastroni bianchi e neri e i cuscini dei letti –. Poi, sopra la testa, un’altra vasta superficie, come un grande cappello, ma fatto con i capelli che spuntavano dalla testa – o con capelli metà propri e metà comprati; anche il seno di solito era metà e metà – . Sui capelli era posato il cappello vero e proprio, in genere immenso; e, sul cappello, piume come quelle del tacchino del cortile interno, o di altri uccelli, mai di gallina, credo, a meno che non fossero tinte. I cappelli di solito erano anche carichi di frutta, forse uva, e fissati con spilloni lunghissimi che avevano una grande capocchia di metallo o di pietre vistose o di tartaruga. Gli spilloni 14
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attraversavano tutta l’acconciatura e il cappello – con fiori, frutta o quel che era – e riapparivano dall’altra parte con lunghi pezzi che terminavano in una punta aggressiva. Dall’ala del cappello fino al colletto, a mo’ di zanzariera, un velo ben tirato, dietro al quale, in una penombra molto provocante e attraente, c’era il viso, a sua volta coperto di ciprie. Tutto l’insieme formava un’apparizione fantastica, che lo spettatore poteva soffermarsi a contemplare lungamente. Una volta, da bambino, misi una di quelle vetrinette con la zanzariera e tutto il resto, e camminando ricordavo di un viaggio fatto in una carrozza chiusa dalla quale potevo guardare attraverso le tendine senza essere visto. Una sera mia madre e io andammo a casa delle tre longeve. Nella penombra dell’androne calpestavamo i lastroni a riquadri bianchi e neri. Non c’era cancello e a metà del cortile si vedevano delle grandi piante. Ci facevano entrare in un salottino che prendeva luce dalla poca che c’era in strada; ma di tanto in tanto passavano nella penombra i riquadri illuminati dei finestrini del 42, che attraversava a tutta velocità. Anche quelli passavano un po’ di sbieco quando attraversavano il pavimento, e molto di sbieco quando salivano sulla parete. Le longeve conversavano in un modo così franco e sinceramente amichevole, mettevano una tale allegria nei complimenti, le loro voci si univano e salivano tanto, che non pensavamo alla penombra e non sembrava neppure che ci fosse. Oltre a vivere al buio, avevano la vista corta. Una di loro, quella che stando alla conversazione cucinava, si sedeva nell’angolo più buio; a stento le si vedeva il viso, pallido e ovale, con molti nei, come una patata pelata male cui si vedessero i punti neri. Un’altra aveva l’abitudine di strofinarsi i pugni chiusi sugli zigomi perché prendessero un po’ di colore – era quella che usciva a fare visite –. Tutte e tre erano magrissime. E mi resi conto che 15
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in casa avevano ragione a dire che quelle tre – negli intervalli dell’animata conversazione e soprattutto quando ridevano – facevano un rumore fortissimo aspirando l’aria tra i denti. Era così forte, me ne accorsi in seguito, che non riusciva a coprirlo neppure il 42, quando passava a tutta velocità. Ma non volevo che me lo facessero notare, perché poi mi toccava dedicargli troppa attenzione e non potevo ascoltare altre cose. E a me piaceva andare in quella casa e rimanerci. Nella mia famiglia c’era una zia acquisita, vecchia quanto le longeve e anche lei zitella. E le chiamava “quelle del risucchio”. A me dava molto fastidio. E non perché fossi innamorato di una di loro. – Anche se ero sempre prontissimo a innamorarmi di ogni maestra che avevo e di ogni amica di mia madre che veniva a casa. Ma delle longeve no. – Come mia madre, quelle donne mi ispiravano affetto per la nobiltà dei loro sentimenti e per il piacere con cui si godevano il tempo trascorso con noi. Forse in quei momenti erano così felici perché le altre ore della loro vita erano piene di occupazioni, di quelle strane, infinite, che toccano di solito alle persone responsabili; e di molti freni morali e molti dispiaceri. Anche se ciò che si notava di più era il risucchio, non vuol dire che si dovesse parlare soprattutto di quello. Senza contare che, parlandone così, si faceva una falsa sintesi delle tre longeve; quella sintesi non comprendeva tutto il resto, ma lo nascondeva un po’; e quando si pensava a loro, la prima cosa che veniva in mente era il risucchio, e lo si commentava anche troppo. Io ridevo senza volerlo e poi mi arrabbiavo. Molti anni dopo mi resi conto che volevo ribellarmi all’ingiustizia di insistere troppo su ciò che più si notava, ma che non era la cosa più importante. E se potevo sovrappormi al rumore provocato nel pensiero da certa critica, che non lascia sentire o formulare altre idee meno solide; se potevo evitare di abbandonarmi con facilità a comode sintesi, di quelle che si 16
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fanno senza basarsi su un gran contenuto, allora m’imbattevo in un mistero capace di risvegliare un altro genere d’interesse per quanto accadeva. Ma a quell’epoca penetravo nel mistero di quelle donne, stupito del fatto che, se riguardo alle cose di cui parlavano con mia madre dimostravano acume, discernimento, larghe vedute e buon senso nell’osservare tanti fatti altrui, nessuna delle tre si accorgeva di altre cose che a noi sembravano così facili da vedere. E a sorprendermi non erano solo la faccenda del risucchio e l’abitudine di passarsi i pugni chiusi sugli zigomi. Il mistero aveva inizio quando si osservava come, all’insieme di cose che capivano bene, se ne mescolavano altre che non corrispondevano a quanto siamo abituati a trovare nella realtà. E questo provocava un atteggiamento di aspettativa: ci si aspettava che da un momento all’altro capitasse qualcosa di strano, qualcosa che loro tre non sapevano fosse fuori del comune. Quando entrammo in confidenza, ci fecero passare in altre stanze. Ma nessuno poteva andare nel cortile interno, dove c’erano i tacchini; quel posto era difeso da alcuni paperi molto aggressivi che si lanciavano subito e con un incredibile baccano verso l’intruso, e se non si ritirava in tempo lo beccavano; avevano l’abitudine di rincorrere anche le longeve e di strappar loro i vestiti. Una volta attraversato il cortile, si entrava in una stanza con un pavimento di larghe tavole, che a calpestarle scricchiolavano. A quel calpestio rispondeva automaticamente della paccottiglia ancora invisibile nella penombra. L’anziana madre, paralitica, sedeva in un’altra stanza: la si vedeva subito perché le grandi porte di comunicazione erano spalancate. Nell’oscurità, inoltre, si distinguevano facilmente la testa e lo scialle, tutti e due bianchi. E richiamava ancor più facilmente l’attenzione il movimento costante e regolare della testa, che faceva venire in mente con irriverenza quello di un giocattolo a molla. Tutte parlavano forte e io cominciavo a 17
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riconoscere gli oggetti della stanza; erano amabili come loro e sembravano altrettanto cordiali. Là il mistero non si nascondeva nella penombra o nel silenzio. Piuttosto stava in certi giri, ritmi o svolte che a un tratto portavano la conversazioni in luoghi apparentemente fuori dalla realtà. E succedeva lo stesso con certi fatti. La vecchia aveva più di settant’anni ed era paralitica da un pezzo. Un figlio di lei, che si era ucciso – e che non era il matto – aveva avuto un ruolo importante al fianco di un uomo politico che tutte loro ammiravano con patriottico fervore. Dopo la morte del figlio, l’uomo politico era andato a trovarle; e lei, la vecchia di quasi ottant’anni, aveva composto dei versi per accoglierlo. In genere i versi, e anche la normale prosa, per me erano difficili: ma quelli lo furono molto di più: si elevavano verso regioni delle quali non avevo la minima idea. Non si riferivano nemmeno a vicende patriottiche di cui sentivo parlare a scuola e che ero abituato a non capire. Solo alla fine sembrava che quelle parole atterrassero in una campagna dove si poteva distinguere qualcosa; e allo stesso tempo la vecchia diceva molto vagamente la gioia che provava perché al mondo esisteva un essere simile: il politico. Le longeve tenevano in un armadio una bambola alta e magra come loro; ma nera e con crespi capelli di astrakan. La facevano vedere ma non la lasciavano toccare a nessuno perché era appartenuta a una nipote che era morta. Il primo giorno in cui ci trovavamo nelle stanze interne, a un tratto divennero silenziose e molto tese, perché la mia sorella minore aveva toccato la coda di un grande pappagallo che se ne stava immobile su un trespolo. Pensammo che fosse pericoloso. Ma in realtà avevano molto amato quel pappagallo, e ora lo conservavano impagliato. Poi ci abituammo a quel “totem” familiare, al quale parlavano come se fosse vivo. Quella che cucinava imitava la sua voce, come avrebbe fatto un ventriloquo, e rispondeva per lui. 18
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Fu là che conobbi un musicista, un loro nipote che chiamavano “Il bimbo”. Era cieco e doveva avere diciotto anni. Molto alto. Dietro agli occhiali neri, muoveva in modo impressionante occhi così fuori dalle orbite e di dimensioni così stupefacenti che sembravano sul punto di schizzare via. Le palpebre si erano molto ingrandite e allungate; ma non potevano ricoprirne l’intera superficie. Vederli muoversi in continuazione fuori dalle orbite era inquietante, e ricordava il movimento degli occhi di un ruminante visto di profilo. Non sarebbe affatto esagerato affermare che erano grandi come un uovo; a suggerirlo non erano solo le dimensioni, ma anche la forma ovale. Mi avevano detto, e l’ho dimenticato, il nome di quella malattia. Ad angosciarmi di più, però, era quello che il medico gli aveva pronosticato: compiuti i ventidue anni sarebbe morto, e a quell’età gli occhi sarebbero usciti dalle orbite. Un medico mi disse perfino – forse spinto dall’insistenza con cui gli domandavo in che epoca dell’anno sarebbe accaduto – che doveva succedere più o meno in marzo. So che per fortuna il giovanotto ha superato i quarant’anni. Una sera, invitati dalle zie – le longeve – andammo a casa de Ilbimbo e lo ascoltammo suonare il piano. Mi fece un’impressione straordinaria. Grazie a lui fui iniziato alla musica classica. Eseguiva una sonata di Mozart. Per la prima volta sentii che la musica era una cosa seria. E provai il piacere – forse con una certa vanità da parte mia – di pensare che avevo un legame con qualcosa di autentico valore. Inoltre mi sentivo orgoglioso di trovarmi in una cosa della vita che era esteticamente superiore: sarebbe stato un privilegio, per me, capire e collocarmi in quello che spettava solo a persone intelligenti. Ma quando poi suonò una sua composizione, un notturno, lo sentii davvero come un mio piacere, mi riempiva d’immenso piacere; scoprivo una coincidenza: un altro aveva fatto qualcosa dotato di una singolarità o un’originalità che 19
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sentivo come mie, o che avrei voluto possedere. A un tratto la melodia andava a cadere su una strana nota, che rispondeva a una passione e al tempo stesso a un virtuosismo; era come se avessi visto un compagno fare qualcosa di molto vicino alla mia comprensione, alla mia vita e a una predilezione su cui entrambi ci trovavamo d’accordo; con quella complicità con cui due compagni si raccontano un’analoga bravata amorosa. Avevo trovato compagni per altre cose; ma un amico insieme al quale potessi manifestare l’amore in quella forma era un segreto della vita da conquistare con la gioia nascosta di ulteriori sorprese, di quelle che dipendono molto dalle nostre mani. Tutto ciò era molto più bello che suonare come suonavo io. E pensare che mi credevo tanto originale, quando suonavo per conto mio e accorciavo e allungavo una melodia a mio piacere! E nientemeno che una Canzone di Margherita! Che una sera, per l’appunto, suonai in casa mentre le longeve erano in visita, e dicevano: “Ma con che gusto suona!” e “Che bella musica!”. E quella sera così immensamente lontana – e con qualcosa di così vicino nel senso delle cose e della vita, che non potrei dire cos’è e dove risiede quello strano riconoscimento di me stesso –, quando suonavo una mazurka che si chiamava Gorgheggio di Passeri, che vergogna! E quanto avevamo riso, perché la mia sorellina – quattro anni, quella che aveva toccato la coda al pappagallo – aveva detto in gran fretta: “Mamma, digli di suonare gorgheggio di porcellini”. E quando l’altra, la maggiore, aveva recitato Povera Maria, una povera disgraziata che era fuggita di casa per le botte della matrigna, aveva passato la notte all’aperto, in inverno, poco coperta; e trovandosi di fronte a una porta con un cartello aveva paura che fosse il “commissariato”. Ma alla fine scopriva che era un rifugio. Allora bussava, aprivano e lei ringraziava la Vergine. Mia sorella la recitava davanti a una porta 20
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che dava sulla stanza da pranzo; e nel momento in cui diceva: “passi, aprono, si avvicinano”, senza che nessuno lo sapesse, lei compresa, la porta della stanza da pranzo si aprì e io feci la mia apparizione, per rendere la scena più reale. L’idea mi era venuta mentre recitava; ero uscito dalla stanza in punta di piedi e avevo fatto il giro da un’altra parte. Le conseguenze furono disastrose, perché adesso tutti, che in quel momento erano commossi, proprio mentre stavano per piangere ridevano e allo stesso tempo si arrabbiavano: lo scherzo aveva privato “l’opera” di tutto il suo effetto. A quell’epoca avevo dodici o tredici anni. Una mia cugina – piuttosto lontana – suonava il piano. (Preghiera di Mosè, L’Argentina ti piange – notturno dedicato a un aviatore precipitato – eccetera). Era molto bella e aveva almeno il doppio della mia età. (Un altro amore segreto, ma con l’aggravante della troppa confidenza e inoltre della mia timidezza e del fatto che lei poteva pensare che avessi male interpretato quella confidenza. E per di più era piuttosto burlona). In un assolato pomeriggio di carnevale, si affacciarono in casa, travestite, quattro donne alte; e subito scoprimmo le longeve. Ma siccome loro erano tre, dovevamo scoprire chi fosse la quarta, che non diceva neanche una parola. Beh, venne fuori che era il ciechino, Ilbimbo. In seguito venne a casa nostra parecchie volte e così conobbe mia cugina. (Fatale coincidenza: anche lui se ne era innamorato). Una delle volte in cui ballarono insieme le mise in mano un foglio. Erano le parole di un estilo* che aveva composto per lei. Quanto lo invidiavo! Prima aveva suonato l’estilo; ma ovviamente senza dire a chi lo dedicava. Le parole erano di questo tenore (le aveva anche cantate): * L’estilo è una composizione musicale che si esegue con la chitarra e i cui temi sono il paesaggio e l’amore. [N.d.T.]
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ISBN 978-88-8373-275-1
9 788883 732751
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Felisberto Hernández (Montevideo 1902 - 1964), pianista e scrittore, è stato uno degli autori più importanti della letteratura ispanoamericana del XX secolo. La pubblicazione, nel 1942, di Ai tempi di Clemente Colling segna una svolta nella sua vita e lo porta ad affiancare al pianoforte la macchina da scrivere. Seguono Il cavallo perduto (1943), Nessuno accendeva le lampade (1947), Le Ortensie (1949), La casa allagata (1960) e Terre della memoria (1966).
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“Ora sono trascorsi alcuni istanti in cui l’immaginazione, come un insetto notturno, è uscita dal salotto per ricordare i sapori dell’estate ed è volata a distanze che nemmeno la vertigine o la notte conoscono. Ma neanche l’immaginazione sa chi è la notte, chi sceglie dentro di essa i luoghi del paesaggio, dove uno zappatore dissoda la terra della memoria e la semina di nuovo.” Nei tre racconti che compongono la raccolta – Ai tempi di Clemente Colling, Il cavallo perduto e il postumo Terre della memoria – l’autore uruguayano percorre gli impervi sentieri del ricordo e della memoria e indaga la materia oscura che porta alla loro formazione ed evocazione perché, come dice lui stesso, “non credo […] di dover scrivere soltanto di ciò che so, ma anche del resto”.
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TERRE DELLA MEMORIA “Felisberto Hernández è uno scrittore che non somiglia a nessuno: [...] si presenta ad apertura di pagina come inconfondibile.” Italo Calvino
“Non avendo del tutto smesso di essere chi ero e non essendo colui che ero destinato a essere, ebbi il tempo di soffrire angosce molto particolari. Tra la persona che sono stato e la persona che stavo per essere, ci sarebbe stata una cosa in comune: i ricordi. Ma i ricordi, in quanto appartenenti alla persona che sarei diventato, pur conservando gli stessi limiti visivi e una organizzazione dei dati simile, avrebbero avuto un’anima diversa. Alla persona che sarei diventato cominciava a spuntare il sorriso dell’usuraio davanti alla valutazione dei ricordi fatta da chi va a impegnarli. Le mani dell’usuraio dei ricordi soppesavano un’altra loro qualità: non il passato personale, carico di sentimenti intimi e particolari, ma il peso del valore intrinseco.”