Treviglio
CARAVAGGIO
Da Crema emergono notizie sulle vittime dei Bombardamenti ferroviari all’Ovest
Non c’è solo il Santuario: guida alle opera d’arte della città di Michelangelo Merisi
EURO 2,00
N° 5 - Maggio 2015 - Mensile di attualità, cultura e storia di Treviglio e Gera d’Adda
Una vita
da pendolare Indispensabile
il ripristino della fermata all’Ovest
Condomìni: alcune banche
ora rateizzano i finanziamenti per migliorie e ristrutturazioni Fotografia di Enrico Appiani
Maggio 2015 - la nuova tribuna - 1
l’Editoriale
Se la politica si annoia quando affronta i problemi veri
L
di Roberto Fabbrucci
eggendo i nostri servizi giornalistici che hanno riportato alla luce personaggi ed eventi del passato, emerge sempre lo stupore, persino di quanti quegli eventi li hanno vissuti. Stupore per la capacità di organizzare, di coinvolgere, di trasformare idee legate alla realtà locale in contaminazioni per tutta la Lombardia, fino a esplodere in tutta Italia. Associazioni di commercianti delle calzature, così consorzi tra salumieri, droghieri e macellai, oppure per l’acquisto di Tv ed elettrodomestici. Poi l’idea del Pip, nato prima dalla politica e poi dalla caparbietà di Franco Comotti, consigliere comunale Dc che sentì l’impegno morale di aiutare la sua gente con passione e “Spirito di Servizio”, ovvero definizione ben più calzante di “Bene Comune”, ben lontana da sottolineare la responsabilità delle persone, parte di una collettività impegnata anche in senso individuale. E di queste persone cresciute con “Spirito di Servizio” esistono nomi più vicini nel tempo, quelli che hanno te-
nuto assieme artigiani, agricoltori, imprese e cooperative, gente encomiabile ma che da decenni ha i capelli bianchi. C’è ora -ed è evidente- un vuoto totale che ci porta a chiedere dove siano e che facciano le generazioni immediatamente dopo quelle dei “grandi vecchi”. E questo vuoto d’impegno su temi strutturali, basilari per la tenuta della società, da cosa è stato causato per costringere tutti alla resa? In questo numero, per esempio, scopriamo da Ugo Monzio Compagnoni che tre Casse Rurali lombarde, guidate da quella trevigliese, costruirono un metodo di lavoro e un’organizzazione che -per la sua qualità- fu fatto proprio dalla comunità nazionale delle Casse Rurali stesse. Un metodo che ha cambiato l’economia italiana, perché sostenne le piccole imprese del centro-nord e permise al Made in Italy di nascere, crescere e cambiare l’immagine dell’Italia nel mondo. E’ dunque grazie a queste banche legate al territorio che oggi nel mondo siamo il buon mangiare e il buon bere, il bel vestire, le automobili più belle e potenti, la micro meccanica di eccellenza, l’elettronica, l’informatica e tanto ancora.
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Tutto ciò però non è arrivato “a gratis” come credono i sindacati, la sinistra massimalista, è arrivato perché i nostri padri lavoravano giorno e notte –anche se pagati male- perché personaggi del commercio come Giuseppe Carioli, Efrem Scaravaggi, Sandro Zanda, Bruno Tirloni ed altri ancora, si consorziarono con i colleghi milanesi, cremonesi e torinesi, perché la Cassa Rurale dei vari Alfredo Ferri aveva le capacità di dar credito alle aziende ingegnose e oneste, quindi permettere loro di crescere e creare il “Miracolo Italiano”. Tutto ciò, paragonato anche solo a quanto ho vissuto personalmente in quest’ultimo anno, mostra la debacle del sistema Treviglio: la richiesta di alloggi per venti delegazioni di stati stranieri presenti all’Expo, ovvero un centinaio di appartamenti da affittare a un prezzo strabiliante, caduta nel vuoto; l’assenza di un’organizzazione strutturata che indicasse la strada per essere presenti all’Expo con i propri prodotti e servizi, l’assenza di un adesione ad iniziative di coinvolgimento (neppure di fronte a proposte e idee) per tentare di vendere i 1.400 appartamenti nuovi e che fanno la sofferenza delle banche locali. Eppure stiamo parlando di almeno 250 milioni di euro solo a Treviglio, poi ci sono gli alloggi meno recenti da affittare o vendere. Tutte opportunità lasciate morire. Ora c’è un’altra “piccola” opportunità per rilanciare l’economia trevigliese, promuovere iniziative perché i condomini di palazzi costruiti tra gli anni ’60 e ’90 siano informati della possibilità di rateizzare fino a cinque anni le spese per le migliorie e le ristrutturazioni: facciate, balconi, tetti, impianti. Stiamo parlando di condomini che -se riqualificati- aumenterebbero di valore, ma soprattutto animerebbero un po’ d’imprese e artigiani. Eppure, mentre c’è estrema attività -anche volontariatosui temi che coinvolgono piccoli gruppi culturali, sociali e sanitari, sul fronte politico, quello che dovrebbe “coordinare” la società ed avere una visione d’insieme, c’è il disinteresse assoluto, totale. Basta parlare di qualcosa che sia minimamente complesso, per creare un rigetto totale, probabilmente per una carenza culturale strutturale e per l’indisponibilità dei partiti locali di dotarsi di un gruppo di studio, di gente preparata sui singoli problemi. Eppure di gente intelligente, strutturata per indicarci il futuro abbiamo bisogno come l’acqua che beviamo. Invece il dibattito politico locale si blocca sulla propaganda, persino quando i temi sono superati, decisi, incontrovertibili, le forze politiche si impegnano rumorosamente sull’inutile, distogliendo lo sguardo dai temi sul tappeto, tutti da pensare, progettare e risolvere. Possiamo fare qualcosa per cambiare, per scegliere nelle elezioni amministrative del 2016 chi pensa al “fare” piuttosto che all’apparire? Io mi sono dato un metodo, che rispetterò non curandomi di eliminare anche amici e “pupilli” cresciuti all’ombra de “la tribuna”. Segnerò su un foglio di carta i nomi dei politici locali che fanno i capofila dei gruppi e accanto ad ogni nome scriverò qualcosa di loro: soprattutto qualcosa che hanno realizzato, una loro idea forte, un’opinione sulla stampa locale che sia stata appena apprezzabile. Insomma qualcosa che m faccia capire se c’è sostanza o aria fritta. Ho già idea che se ne salveranno solo un paio. Maggio 2015 - la nuova tribuna - 3
il Sommario Treviglio
CArAvAggio
Da Crema emergono notizie sulle vittime dei Bombardamenti ferroviari all’Ovest
Non c’è solo il Santuario: guida alle opera d’arte della città di Michelangelo Merisi
EURO 2,00
N° 5 - Maggio 2015 - Mensile di cultura, storia e attualità di Treviglio e Gera d’Adda
Una vita
da pendolare indispensabile il ripristino della fermata all’Ovest
Condomìni: alCune banChe ora rateizzano i finanziamenti per migliorie e ristrutturazioni Maggio 2015 - la nuova tribuna - 1
Autorizz. Tribunale di Bg. n. 23 dell’8/8/2003 Nuova Edizione Anno 1 - n° 5 - Maggio 2015
QUESTO MESE
06-07 Pendolari in guerra, rivogliono l’Ovest (Chiara Severgnini); 08-09 Cercasi Tangenziale Ovest disperatamente (Daniela Regonesi), Strade, autostrade, apprendisti stregoni (Ezio Bordoni); 10-11 Opinioni - Brebemi: “Qui non è più campagna” (Stefano Pini); 12-13 Ugo Monzio Compagnoni: “Le nostre Casse Rurali devono guidare le Bcc”. L’autoriforma richiesta alle Casse Rurali (Cristina Signorelli); 14-15 Le Botteghe cambiano pelle, intervista ad Anghinoni (Tienno Pini) 16-17 La maestra fa scuola in corsia (Carmen Taborelli). Faccio il chirurgo in Svezia e non torno (Alessandro Prada); 18-19 Commenti - Siamo papà separati, papà a ore (Diego Alloni); 20-21 La cultura delle regole e dei doveri (Daniela Invernizzi); 22-23 C’è una bell’aria nuova al Mozzali (Maria Palchetti Mazza). Se l’educazione è vista come sfida positiva (Silvia Martelli); 24-25 L’Amministratore di sostegno (Daniela Invernizzi). Sistemare i vecchi condomini si può (Roberto Fabbrucci); 26-27 Mulitsch, l’eroe antipolio trevigliese. (Franco Pellaschiar) Malala si chiede: “Si può ancora amare l’Italia?” (Daniela Invernizzi); 28-29 Emy Zanenga e la tv web Trevigliese (Roberto Fabbrucci) Luigi Marini, precursore dei container (Ivan Scelsa); 30-31 Giuseppe Carioli faceva camminare anche le grandi idee (Lucietta Zanda), Un piccolo tempio della bellezza della Profumeria Pozzi; 32-33 Eco Store: Se la burocrazia va in cortocircuito (Daniela Invernizzi). Parcheggio Turro solo per trevigliesi. Controllo digitale delle targhe
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(Fabio Erri); 34-35 Bombardamenti all’Ovest - Un dramma che ritorna dal passato (Roberto Fabbrucci); 36-37 La Gera d’Adda in Gran Turismo (Ivan Scelsa); 38-39 Luigi Ferrari, valente scultore trevigliese. Angelo Gatti, eroe dimenticato morto a Dogali (Carmen Taborelli); 40-41 La deposizione del Maestro di Watervliet (Francesca Bonincontri). Teatro trevigliese in trasferta (Maria Palchetti Mazza); 42-43 In città sulle orme del Caravaggio (Gianni Testa); 44-45 Le carte e i tarocchi di Virginio Ferrari (Luciano Pescali). Mille note per educare i giovani (Hana Budisovà Colombo); 46-49 La nascita de “I musici del Teatro” (Cristina Ronchi). Icat. Anche le favole vanno organizzate (Tienno Pini). Dall’Inghilterra un coro tutto al femminile (Daniela Invernizzi); 50-51 Qui Don Bosco si curò la sciatica (Marco Galbusera). Testimoni di Geova: nessuno ne parla, ma sono tanti e organizzati (Roberto Fabbrucci); 52-53 Barbieri, il mito dei piccoli calciatori (Alessandro Prada). 54-55 Bianchi: una passione celeste (Ezio Zanenga), Il prezioso Archivio Storico della Crat curato da Paolo Furia; 56-57 Come eravamo - Liti e banditi della Gera d’Adda (Marco Carminati); 58-59 Dario Majolo: “Il mio Paradiso in cantina” (Lucietta Zanda); 60-61 Lettere & Commenti.: dopo contestazioni del 25 aprile. Riflssioni sulla Baslini: è vero abbandono? (Isabella Mazza): 61-63 A Misano i volontari salvano la chiesetta (Ivan Tassi).
EDITORE “Tribuna srl” via Roggia Vignola, 9 (Pip 2) 24047 Treviglio info@lanuovatribuna.it Tel. 0363 1970511 Direttore Responsabile Roberto Fabbrucci direzione@lanuovatribuna.it Mobile 335 7105450 Direttore Amministrativo Fiorenzo Erri amministrazione@lanuovatribuna.it Coordinamento redazionale: Daniela Invernizzi Daniela Regonesi, Ivan Scelsa, Cristina Signorelli, Carmen Taborelli Redattori: Hana Budišová, Marco Carminati, Michela Colombo, Fabio Erri, Marco Ferri, Anna Fresia, Paolo Furia, Silvia Martelli, Maria Palchetti Mazza, Franco Pellaschiar, Luciano Pescali, Stefano Pini, Tienno Pini, Alessandro Prada, Cristina Ronchi, Chiara Severgnini, Angelo Sghirlanzoni, Ivan Tassi, Giorgio Vailati, Lucietta Zanda, Ezio Zanenga Controllo testi: Laura Borghi, Tienno Pini, Franca Tarantino, Romano Zacchetti Ufficio commerciale Roberta Mozzali commerciale@lanuovatribuna.it Tel. 0363 1970511 - Cell. 338.1377858 Fotografie e contributi: Enrico Appiani Foto Attualità, Virginio Monzio Compagnoni, Tino Belloli Altre collaborazioni: Ezio Bordoni,Giulio Ferri, Marco Galbusera, Sacha Parimbelli, Paola Picetti, Matteo Preziuso Stampa Laboratorio Grafico Via dell’ Artigianato 48/50 Pagazzano (BG) Maggio 2015 - la nuova tribuna - 5
Nostra inchiesta/Trasporto ferroviario
Pendolari in guerra, rivogliono l’Ovest a cura di Chiara Severgnini
I viaggiatori della Bassa e storie di ordinaria follia tra ritardi, carrozze sovraffollate e biglietti sempre più cari. A ciò si sovrappongono gli interessi dei pendolari di Bergamo città a quelli della pianura tra chi vuole la fermata e chi no
T
reviglio - “Dove sono i giornalisti quando servono?”. Quando ho sentito questa frase, lo scorso febbraio, non sapevo ancora che avrei scritto questo articolo. Mi trovavo sul regionale per Brescia partito da Milano Lambrate alle 19:00. Il treno è in ritardo, e una signora si rivolge, con gentilezza, al capotreno: “Dovrei prendere la coincidenza per Cremona a Treviglio, ma sicuramente, vista l’ora, la perderò. Non c’è niente che si possa fare?”. Il capotreno telefona al collega, ma non c’è nulla da fare: “In fondo, signora, può prendere il treno successivo”. “Certo –risponde lei piccata– perché non ho niente da fare, io, quindi posso stare un’ora in stazione a Treviglio! al freddo, per di più! Ma dove sono i giornalisti quando servono?”. Mi trovavo nel mezzo di una storia di ordinaria vita da pendolari. A Treviglio si incrociano le direttrici da e per Bergamo, Cremona, Verona, Milano e Brescia, nonché i due passanti per Novara e Varese. Ogni giorno, sulla tratta Milano – Treviglio, una delle più frequentate d’Italia, viaggiano 85.000 pendolari, trevigliesi e del circondario, ma anche bresciani e cremaschi che transitano dalla nostra città. Il servizio, però, è ben lontano dal soddisfarli, e i dati sembrano dare loro ragione. Secondo Legambiente, nel 2014 la direttrice Treviglio–Milano è stata la terza peggiore d’Italia. Nonostante gli investimenti sulla linea –infatti– l’associazione
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ambientalista rileva che “sui 56 km di linea i tempi di percorrenza sono rimasti gli stessi di trenta anni fa con una velocità media di 60 km/h, pessime condizioni di viaggio con carrozze sovraffollate e sporche”. Nel frattempo, però, il prezzo del biglietto è salito del 25 % tra il 2010 e 2014. Parlando con i pendolari, in effetti, sembra che ciascuno di loro abbia almeno una brutta
storia da riferire. “A dicembre –racconta Isaia, 27 anni– il treno su cui viaggiavo si è rotto poco dopo la stazione di Segrate, e siamo rimasti bloccati quasi tre ore. Un signore accanto a me si è sentito male ed è svenuto. Dovevo arrivare a Milano alle 9 meno 20, sono arrivato poco prima di mezzogiorno”. Una signora rievoca la settimana da incubo in cui, lo scorso novembre, la centralina di Melzo è stata allagata dal torrente Molgora: “Era tutto bloccato. Come è possibile che non esista un sistema d’emergenza per far fronte a queste situazioni?”. Andrea viene da Crema cinque giorni su sette e cambia a Treviglio per raggiungere Milano. Almeno in teoria: “Sono più le volte che perdo il treno che quelle in cui lo prendo: i ritardi sono una costante”. E come reagisci? “Faccio il pendolare da anni, prima per l’università e ora per lavoro. Quindi di solito la prendo con filosofia: vado al bar e mi bevo un caffè. Ma non sempre riesco a trattenere la frustrazione…”. Secondo molti la cosa peggiore è proprio la sensazione di impotenza: “A volte –racconta Silvia, studentessa di 25 anni– il treno ha mezzora di ritardo, eppure lo schermo della stazione ne segnala solo 10 o 15. A me non cambia niente, tanto devo aspettare lo stesso, ma che almeno diano le informazioni giuste!”.
A battersi per un servizio migliore è, ormai da anni, il Comitato Pendolari della Bassa Bergamasca (CPBB). Un gruppo di circa dieci persone, pendolari o ex-pendolari a loro volta, che dedicano parte del proprio tempo libero a monitorare la situazione dei treni che transitano dalle due stazioni di Treviglio e a dare voce ai problemi e alle difficoltà di chi, per studio o lavoro, se ne serve. La loro battaglia principale riguarda la stazione Ovest. Nel 2009 Trenord ha soppresso la fermata nello scalo trevigliese di quasi tutti i treni della direttrice Bergamo– Milano. Una decisione che ha rallegrato gli utenti del capoluogo orobico, rappresentati dal Comitato Pendolari di Bergamo, ma che ha penalizzato quelli della Bassa. “I bergamaschi –spiega Angelo Ferrandi, del CPBB– sostengono che non possiamo lamentarci perché a Treviglio passano molti altri treni per Milano, ma dimenticano che la maggior parte di questi treni partono da Brescia o da Verona, e quindi arrivano da noi già pieni”. Reintroducendo la fermata in Ovest, i pendolari di Treviglio e dintorni avrebbero a disposizione delle corse in più e potrebbero distribuirsi riducendo l’affollamento. Secondo Domenico Bosco, pendolare da 12 anni e membro del CPBB, le argomentazioni portate dai bergamaschi contro il ripristino della fermata sono pretestuose: “Il tempo di percorrenza dei treni per Milano si allungherebbe di meno di cinque minuti, e lo spazio per noi c’è, dati alla mano”. Negli ultimi mesi il Comitato ha monitorato la situazione sulla tratta Bergamo-Milano e ha calcolato che esistono almeno 26 treni da e per Milano che arriverebbero a Treviglio Ovest con spazio sufficiente per tutti, compresi i pendolari trevigliesi. “Siamo l’unico comitato che è stato in grado di fare proposte basate su dati concreti, e non su impressioni o misurazioni a spanne. Abbiamo pagine e pagine di documentazione che provano -dal punto di vista tecnico- che nulla osta la fermata all’Ovest dei treni A sinistra alcuni membri del CPBB: Alberto Alfieri, Angelo Ferrandi e Stefania Potenza”
che abbiamo chiesto: la scelta, a questo punto, spetta alla politica”, chiosa Bosco. La contrapposizione tra Treviglio e Bergamo è già stata definita una guerra tra pendolari. Sicuramente ci sono esigenze diverse, ma, almeno da parte del CPBB, l’intento è quello di evitare le barricate: “Non vogliamo trasformare questa vicenda in una guerra, puntiamo al dialogo e le nostre proposte sono in un’ottica di sistema”, precisa Fabio Lotteri del CPBB. A gennaio, i due Comitati sono stati ricevuti dall’assessore regionale alla Mobilità, Alessandro Sorte, che ha voluto sentire le ragioni di entrambe le parti. “L’incontro è stato un segnale positivo –dice Ferrandi– non era mai successo prima che la Regione cercasse un dialogo diretto con noi. Speriamo che non sia un episodio isolato”. Sorte, che in quanto brignanese conosce bene il territorio della Bassa, ha già annunciato che la riflessione sull’ipotesi di ripristinare la fermata in Ovest per i 26 treni chiesti dovrà comunque aspettare la fine dell’Expo. Nell’attesa, però, il CPBB non resterà inattivo. Da qualche settimana ha inaugurato un indirizzo e-mail rivolto ai pendolari (pendolari.bassa.bergamasca@gmail.com), grazie al quale è possibile inviare segnalazioni, commenti o osservazioni sulla qualità del servizio
ferroviario a Treviglio e dintorni. Il Comitato raccoglierà le e-mail degli utenti e riferirà a Trenord quali sono le loro richieste. “Abbiamo aperto un canale di comunicazione fruttuoso con i tecnici di Trenord –spiega Bosco– e ci proponiamo di fare da ponte tra loro e i pendolari”. Ma cosa chiedono i pendolari della Bassa? Soprattutto maggiore puntualità e spazio sufficiente nelle carrozze. Viaggiare in treni stracolmi è la norma, almeno in certe fasce orarie e gli utenti delle tratte per Milano, Cremona e Brescia tollerano continui ritardi. Per i primi, poi, oltre al danno c’è la beffa: non sempre chi parte da Treviglio e va a Milano ha diritto allo sconto del 30% sull’abbonamento che spetta di norma a chi viaggia sulle direttrici dalle prestazioni peggiori. La ragione? Il passante ferroviario: un treno –tendenzialmente puntualissimo– che parte da Treviglio e va a Varese o a Novara passando per alcune stazioni di Milano. La sua presenza, secondo Trenord, garantisce ai pendolari un servizio affidabile alternativo a quello dei regionali: per chi ha l’abbonamento da Treviglio, quindi, il bonus del 30% non si applica. Peccato che il passante ci metta circa 50 minuti per raggiungere il capoluogo, fermandosi per di più in stazioni poco centrali come Milano Porta Vittoria, Milano Porta Venezia o Milano Dateo: per molti pendolari, quindi, è una ben povera alternativa. I regionali restano l’opzione preferita dalla maggior parte delle persone, nonostante i ritardi. Ma c’è un margine di miglioramento? Così crede il Comitato Pendolari della Bassa. Sulla linea da e per Brescia, ad esempio, gran parte dei disagi sono causati più che altro dalla mala gestione, oltre che da infrastrutture spesso datate. Va detto però che, a parere del CPBB, la situazione è migliorata: rispetto alle pessime prestazioni registrate questo inverno, nelle ultime settimane i treni da e per Brescia sembrano essere più puntuali. Ma è presto per fare bilanci: la mia esperienza da pendolare mi ha insegnato che è ingenuo cantar vittoria troppo presto, quando si tratta di treni. La speranza di tutti è che il trend di miglioramento sia solo all’inizio. Maggio 2015 - la nuova tribuna - 7
Treviglio/Infrastrutture viarie
Cercasi Tangenziale Ovest disperatamente di Daniela Regonesi
In vista del completamento del nuovo ponte a Cassano d’Adda l’assessore ai lavori pubblici ed il responsabile della Direzione Servizi Tecnici di Treviglio esprimono i loro timori sulle conseguenze per la circolazione trevigliese.
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assano d’Adda può comprensibilmente cominciare il felice conto alla rovescia per l’apertura del nuovo ponte per la Statale 11, mentre Treviglio trema al pensiero del traffico pesante in afflusso. Abbiamo incontrato l’assessore ai Lavori Pubblici Basilio Mangano ed il responsabile della Direzione Servizi Tecnici Pierluigi Assolari, che non hanno nascosto la loro preoccupazione in merito. Se infatti i benefici di cui godrà la popolazione cassanese sono evidenti, in quanto, una volta aperto il ponte, il traffico pesante fluirà a sud del loro abitato, il problema sorge se si riflette sul “dove” sfoci tale flusso:
chi sarà diretto verso BreBeMi potrà utilizzare la tangenzialina esistente nei pressi del casello cittadino, chi si muoverà verso sud lo farà lungo via Aldo Moro dirigendosi verso Calvenzano, ma i mezzi diretti a nord sono destinati ad attraversare Treviglio. I timori, ci dicono, non sono tanto per il traffico automobilistico, quanto per quello pesante di attraversamento: attualmente i mezzi d’opera –vale a dire tir e furgoni– provenienti da Milano superano l’Adda utilizzando i ponti di Canonica/Vaprio o di Rivolta, pertanto il traffico pesante che transita in Treviglio ora è relativo, ma è comprensibile come il nuovo varco convoglierà i camion di-
TANGENZIALE OVEST Alcuni riferimenti geografici 1 - Cava Bergamini 2 - Geromina 3 - Pip 1 4 - Brebemi
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1 Da sinistra gli assessori Basilio Mangano, Alessandro Sorte e il sindaco Beppe Pezzoni
retti a nord sulle nostre strade cittadine. La soluzione, poichè non pare realistico imporre il divieto di transito ai mezzi pesanti, come in vigore ora a Cassano, era già stata trovata una dozzina di anni fa e si chiama Tangenziale Ovest di Treviglio. Si tratta di un intervento pensato e legato alla realizzazione della tangenziale di Cassano d’Adda, comprensiva del nuovo ponte. La necessità di creare una bretella esterna era stata esplicitata e normata già con il primo mandato della presidenza Bettoni (20042009); poi, nel quinquennio successivo, con il progetto preliminare definitivo sotto la giunta provinciale Pirovano, il tracciato diviene parte dell’Interconnessione Pedemontana BreBeMi (IPB), con una conseguente lievitazione dei costi e le prime difficoltà di reperimento dei fondi necessari. Ad oggi la Regione Lombardia ha bloccato i fondi sugli investimenti e, nell’attesa di una soluzione ai problemi di viabilità dell’asse Bergamo-Treviglio, l’assessore regionale alle Infrastrutture e Mobilità Alessandro Sorte, nell’incontro tenutosi con l’amministrazione comunale trevigliese l’8 aprile scorso, si è assunto l’impegno di sottoporre al presidente Roberto Maroni il problema della necessità della Tangenziale Ovest di Treviglio, sia per salvaguardare la nostra città, sia come segmento di un’arteria più ampia di collegamento sovralocale. I principali effetti positivi sarebbero la riduzione del traffico pesante, mantenuto sul confine del nostro territorio per poi reimmetterlo sulla Strada Statale 42, un collegamento più breve con Bergamo e, non ultimo, il non vanificare le politiche attuate in questi anni per ridurre il traffico sui quartieri cittadini: per quanto tempo, infatti, la soluzione dell’utilizzo di via Ada Negri in senso unico potrà essere supportata? La Tangenziale Ovest a Treviglio è una necessità condivisa, speriamo che lo diventi presto anche a Palazzo Lombardia. La Tangenziale Ovest di Treviglio. Si tratta di un intervento pensato e legato alla realizzazione della tangenziale di Cassano d’Adda, comprensiva del nuovo ponte.
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Strade, autostrade, apprendisti stregoni di Ezio Bordoni (*)
Dopo anni di studi e pianificazioni per risolvere come superare l’area metropolitana di Milano, quindi collegare la Brebemi con l’A4 e la Pedemontana, continuiamo a spendere centoventi minuti per fare novanta chilometri
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e la Brebemi piange perché vuota, in A4 non si ride, perché è talmente intasata che è meglio evitarla. Se due stranieri si trovassero a percorrere lo stesso giorno queste due autostrade per attraversare lo stesso tratto di Lombardia, il primo avrebbe l’impressione di essere in mezzo al nulla, il secondo di trovarsi nel peggior caos che esiste al mondo. Per noi, che conosciamo la situazione, questo assurdo è la prova lampante di quanto siamo mal governati, di quanto sia ignorato il criterio più elementare di pianificazione. Attenzione, la pianificazione non è materia difficile e incomprensibile, è semplicemente il Disegno di ciò che si prevede di fare nel tempo e deve corrispondere a criteri di Buon Senso, come mettere le calze prima delle scarpe. Ma in Lombardia non va così. Cosa richiederebbe il Buon Senso? Che la Brebemi, nata come alternativa all’A4, lo fosse veramente, cioè che facesse parte di un Disegno di strade che consenta di attraversare la Lombardia senza usare la A4 e la tangenziale di Milano. Ed in realtà questo disegno ci sarebbe dai primi anni 2000! Questo tracciato è formato da Brebemi, Pedemontana (da Capriate passando a nord di Milano serve Como, Varese, Malpensa, Novara), IPB cioè Interconnessione Pedemontana Brebemi. Questo Disegno è entrato progressivamente nei piani di ANAS, nel programma delle Opere Pubbliche della Provincia di Ber-
gamo, nel Piano Territoriale della stessa Provincia (2004), ed è stato realizzato in buona parte. Il governo nel DPEF approvato il 9 aprile ha confermato la Pedemontana tra le opere prioritarie e finanziate. Ora sarebbe assurdo non procedere al completamento di quel Disegno complessivo. Per Treviglio quel tracciato costituisce anche la tangenziale ovest necessaria a smaltire il traffico di attraversamento nord-sud, opera ancor più urgente ora che il nuovo ponte di Cassano scaricherà su Treviglio il traffico risalente verso Bergamo. Invece?
3 Invece nelle scorse settimane, diversi annunci della Provincia di Bergamo e dell’Assessorato Regionale alle Infrastrutture, fanno intendere una scarsa volontà di completamento di questo tracciato. In questi interventi viene data maggiore importanza e quindi priorità di finanziamento alla (udite udite!!!) ...tangenziale di Verdello. Come se bastasse questo a risolvere il problema della mobilità fra Treviglio e Bergamo, come se l’esperienza delle tangenziali di Arcene e Stezzano non avesse insegnato che non è questo il metodo da utilizzare. Incredibile! Forse, ci siamo chiesti, tutti i problemi della A4 sono stati risolti con qualche diavoleria che ha snellito il traffico. Bisogna andare a vedere! E così abbiamo fatto martedì 31 marzo: partenza da Treviglio alle sei in punto, entrata in autostrada a Dalmine. Alle 6,40 inizia la coda alla barriera, grazie però al Telepass in ventidue minuti siamo quasi al casello (foto 1), ma dopo il casello non ci si muove. Alle 7,09 (foto 2) abbiamo percorso solo 100 metri, ma solo alle 7,15 (foto 3) s’intravedono i ponti di Sesto S.G. Arriviamo a Malpensa alle 8,00, due ore per novanta chilometri. Al ritorno però ci rendiamo conto di essere stati fortunati, questo perché nella corsia opposta c’è una coda di molti chilometri: molti perderanno l’aereo, altri un appuntamento di lavoro, agli stranieri in coda passerà la voglia di tornare in Italia per lavoro, per l’Expo o per le vacanze. Qualcuno, che non guarda i problemi generali di viabilità, continuerà a credere che con una tangenziale che esclude il semaforo di Verdello tutto sia risolto. Noi pensiamo che necessiti uno stretto coordinamento tra le amministrazioni di Cassano, Treviglio, Caravaggio, Vailate, insomma la Gera d’Adda. Un coordinamento che sia in grado di far sentire il peso di un territorio di oltre 100.000 abitanti, rimasto finora senza voce anche per l’appartenenza a Province differenti, ora però destinate a morire. Abbiamo molti problemi in comune, ma anche possibilità di risoluzione, idee e potenzialità ancora tutte da esprimere e un futuro da vivere insieme. Questo è il messaggio e la mission del Comitato Città dell’Adda. * (Comitato Città dell’Adda) Maggio 2015 - la nuova tribuna - 9
Opinioni & Commenti
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Qui non è più campagna
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10 -- lala nuova 60 nuovatribuna tribuna- -Maggio Aprile 2015 2015
Treviglio guarda alla metropoli, tra evoluzione e rappresentazione
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reviglio - “Quando voglio sentirmi solo, faccio due passi lungo la BreBeMi”. Così mi disse un amico la scorsa estate, in un istante di magica ironia e lucida preveggenza sul futuro. L’inverno 2015, nemmeno troppo freddo, ha proiettato la lunga e un po’ lugubre ombra di quella battuta su un’ampia fetta di Bassa Bergamasca. Il nuovo tratto autostradale che collega la periferia di Brescia a quella di Milano, sommata alla nascente Pedemontana e ai raccordi studiati per spedire gli automobilisti dalla grossa lingua d’asfalto verso i centri storici della pianura, hanno sfilacciato un territorio mai così lontano dai vecchi dipinti rinascimentali. La A35 giace placida e spesso deserta all’orizzonte di una piazza in cui si sentono riecheggiare le ritrosie di chi si è arreso da anni ai capelli bianchi e ricorda che “qui, una volta, era tutta campagna”. E subito dopo scuote immancabilmente il capo. Qualche passo più in là, le voci prone al progresso sempre e comunque, spesso indistinguibile dal mero movimento rumoroso, cui basta una strada nuova di zecca per affermare che “dalle infrastrutture comincia la ripresa”. Senza se e senza ma. Poco importa la fazione cui ciascuno appartiene, poco importa se si è del terzo partito, che snobba gli apocalittici e cerca di tenere a bada gli integrati della rivoluzione paesaggisticostrutturale della Bassa: quel che conta è sapere che la naturale ambientazione che per secoli ha circondato Treviglio e i Comuni limitrofi è cambiata per sempre. Questo cambiamento, prima ancora che di un valore positivo o negativo, è portatore di un mutamento semantico: qui, ora, non è più campagna. Questa semplice affermazione dà il la a un’onda di portata storica. Il cambio d’orizzonte è innanzitutto sociologico: la sparizione della campagna porta Treviglio da una posizione di (relativo) isolamento geografico, con la città a fare tradizionalmente da boa del triangolo tra Milano, Bergamo e Brescia, a una posizione di estrema periferia dell’agglomerato metropolitano milanese. L’assimilazione di Treviglio alla grande macchina metropolitana è cominciata decenni or sono, ma si concretizza oggi con la sparizione di un territorio peculiare e distinguibile, quello dei campi, a separare il paesaggio di provincia (il nostro che fu) da quello delle ampie braccia della Madonnina (presente e futuro che ci riguardano). Treviglio ha smesso di essere anomalia tra i tre capoluoghi di Provincia per riposizionarsi geograficamente, aggregandosi alla Milano in fase di riorganizzazione in vista di Expo e di una modernità incerta. Questo scatto verso Ovest porta con sé un (nuovo) mutamento economico: all’ombra del campanile si è detto
addio prima all’agricoltura che permeava tutto l’intorno, quella dei valori contadini identificativi di un mondo pre-industriale, ben raccontata ne L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi; si poi è dovuto salutare l’artigianato e la piccola industria, il motore del boom economico dai piedi d’argilla, soppiantato dalla mano forte delle grandi fabbriche meccaniche e chimiche degli anni Settanta; infine il Duemila ha fiaccato i colossi della catena di montaggio e dei laboratori d’avanguardia, minando la stabilità di tutta la Bassa. Veder sparire una ciminiera è comunque meno strano che osservare ‘in diretta’ la scomparsa della campagna, almeno da queste parti. Ecco perché bisogna fissare lo sguardo e concentrare le attenzioni sul fianco sud di Treviglio, il cui cambio di natura (letteralmente) costringerà noi e chi verrà dopo di noi a un mutamento di percezione del paesaggio che ci circonda (e di conseguenza di noi stessi). Non siamo più cittadini di campagna, siamo gli ultimi abitanti del confine metropolitano di Milano. Lo testimoniano il passante ferroviario, che già da qualche anno ci lega a Lambrate e ai Navigli della movida senza soluzione di continuità; lo testimoniano i caselli della A35, costruiti per spostare il traffico dagli ex paesi di campagna della Bassa a un territorio neutro d’asfalto, dall’aria completamente metropolitana. Se esiste un momento in cui le aspirazioni milanesi di Treviglio possono essere giustificate (non me ne vogliano i bergamaschi oltranzisti e i provincialisti d’antan), quel momento è oggi. Affiancarsi a Milano significa però cambiare radicalmente la percezione del nostro territorio e il modo di rappresentarlo (e di conseguenza di rappresentarne i cittadini). La ‘narrativa’ trevigliese, intesa come racconto di sé, si vede costretta ad abbandonare la provincia per guardare altrove, a una nuova valle padana completamente asfaltata e interconnessa. Non è questione di gusto né di opportunità, ma di dati di fatto. Milano eccoci, volenti o nolenti. Come in tutte le fasi di rapida transizione, si discute di pro e contro, di resistenze agricole e ambientaliste, di entusiasti della luccicante attività della più vicina metropoli, rischiando di dimenticarsi delle più fondanti questioni identitarie. Ci servono nuovi strumenti per rappresentarci, conoscerci, identificarci, tra passato presente e futuro. Riconoscersi come estrema
propaggine della metropoli non deve impedire di agganciare questa nuova immagine di sé alla tradizione contadina delle origini, con le sue evoluzioni artigiane e di borgo autonomo: non per revanscismo, ma per coscienza storica e sociale. Abbiamo una radice diversa, una lingua diversa, un antico paesaggio diverso da quelli della grande città. Non tenerne conto significherebbe disperdere un patrimonio ereditario e non ritrovarsi nelle nuove immagini della Treviglio di domani. A queste cartoline storiche, negli ultimi decenni si sono aggiunte quelle esotiche degli immigrati africani e mediorientali, asiatici e sudamericani. Questa è Treviglio oggi, un piccolo magma in evoluzione continua, con un piano che va pensato –per quanto possibile– nel dettaglio. Per evitare vuoti identitari e lo sperpero di un capitale sociale ad alto potenziale. Da Treviglio si corre a Milano per studio, per lavoro, per divertimento, per scontrarsi con quanto di vitale propone la vicina mittel Europa. Da Milano ci si sposta a Treviglio per dormire a prezzi ridotti, per appartamenti in affitto più accessibili, per una vita più tranquilla, ma sempre ‘in transito’. Nel frattempo, la manodopera straniera colma i vuoti in città e nei dintorni, parlando idiomi nuovi e mescolandoli agli accenti del dialetto. Bisogna ripensare il rapporto con la capitale lombarda, aumentando l’interazione economica e culturale, i ponti sociali, ora che le infrastrutture non mancano. Treviglio deve immettere la propria storia sociale, culturale ed economica, nelle sempre più larghe circonvallazioni milanesi, per diventare un’altra senza azzerare se stessa, come è successo invece alle sue campagne. Per evitare di ridursi a ricovero metropolitano a basso costo, per essere organismo vivo nell’Italia dei prossimi anni, senza fermarsi (solo) a Milano. Ci sono eccellenze culturali e imprenditoriali che nascono e resistono, l’industria conta realtà interessanti in ambito informatico e digitale, il commercio e l’intrattenimento si stanno lentamente riorganizzando. Impariamo a dialogare con la metropoli e le sue contraddizioni, mantenendo il tipico basso profilo della provincia. E guardiamo alla solitudine senza peso delle corsie della BreBeMi immaginandoci come doveva essere cinquant’anni fa la campagna dura, civile e produttiva. Questa è la nostra letteratura oggi, scoprirsi nuovi di un’identità in divenire. Maggio 2015 - la nuova tribuna - 11
Banche del territorio e riforme
Foto Attualità Treviglio
Le nostre Casse Rurali devono guidare le Bcc di Cristina Signorelli
L’accentramento della gestione del credito cooperativo, se la riforma non sarà corretta, rischia di stravolgere il rapporto banche-imprese. Le Casse Rurali lombarde devono unirsi e portare il loro contributo d’idee
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a riforma delle Banche di Credito Cooperativo, concepita di concerto da Banca d’Italia e Ministero del Tesoro, prevede il formarsi di un gruppo bancario cooperativo composto da tutte le Banche di Credito Italiane (BCC). Queste saranno presiedute da una SPA capogruppo, autorizzata all’esercizio dell’attività bancaria, il cui capitale sarà detenuto -per almeno un terzo- dalle BCC associate. Il compito della SPA capogruppo –come chiarisce l’art. 37 bis della riforma- sarà di esercitare attività di direzione e coordinamento sulle BCC associate. Ovvero le 379 banche di credito cooperativo italiane perderanno autonomia, mentre quelle più piccole rischieranno di essere travolte. Questa è l’impressione di quanti hanno iniziato ad approfondire la lettura della riforma, temendo che assieme all’introduzione della minore autonomia, incentivi la perdita del legame di fiducia con le piccole e medie imprese. Ovvero quel rapporto che la banca aveva di conoscenza storica dell’imprenditore, che ha sempre permesso di erogare quel credito che poi ha alimentato il Miracolo Economico Italiano e il Made in Italy. Tra i conoscitori della realtà nazionale delle Casse Rurali, il concittadino Ugo Monzio Compagnoni può essere definito un esperto, poiché grazie alla sua attività professionale ha avuto la possibilità di conoscere –meglio di altri- le diverse realtà delle banche di piccole
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e medie dimensioni di tutt’Italia. Infatti, negli anni ‘80 e ’90 la sua società forniva software a molti istituti di credito italiani, tra i quali le Banche di Credito Cooperativo, le Casse di Risparmio e le Banche Popolari. Ha svolto, inoltre, compiti di consulenza informatica presso la Federazione Lombarda delle Casse Rurali, una struttura d’eccellenza in Italia, imitata poi da tutte le altre federazioni regionali. Un’esperienza che l’ha messo in contatto con i dirigenti e i funzionari di queste banche, acquisendone un bagaglio oggi prezioso per capire i pericoli della riforma. Riserve di quanti,
come noi, temono che questa centralizzazione nazionale, nata per risolvere i problemi di malaffare e cattiva gestione evidenziati in talune parti della nazione, rischi concretamente di indebolire le banche sane, in particolare quelle lombarde che alle Bcc italiane hanno dato un contributo fondamentale per la loro crescita. «Per comprendere il ruolo della nostra Cassa Rurale nella storia, affinché oggi faccia sentire la sua voce, va ricordato che fino a qualche anno fa era una delle tre più grandi d’Italia, questo assieme a Cantù e Carate Brianza. Banche di Credito Cooperativo che hanno meglio supportato lo sviluppo imprenditoriale lombardo e conseguentemente quello nazionale». Infatti, l’imprenditorialità locale, così come avvenuto in altre zone d’Italia, ha sperimentato l’incoraggiante e fattivo supporto della BCC, capace di leggere tra i numeri, le potenzialità dell’imprenditore a sviluppare nuovi progetti di successo. La presenza sul territorio e le capacità decisionali della banca stessa, strettamente legate alle realtà in cui operano, hanno formato un formidabile binomio promotore di sviluppo. In tale contesto, sottolinea Ugo Monzio Compagnoni: «Oggi centralizzare i poteri delle BCC in un’unica struttura mi pare inadeguato e controproducente, poiché costituirebbe la perdita d’incisività sulla realtà economica locale e il venir meno di un rapporto diretto con il territorio, svilendo il senso stesso di banca locale». Ciò detto, non è possibile procrastinare oltre una riforma che è -a detta di tutti gli operatori- ormai indispensabile per permettere di superare le principali criticità segnalate da Banca d’Italia, come l’elevata rischiosità del credito, la debolezza della redditività e le difficoltà di ricapitalizzarsi rapidamente, ovvero come richiedere la copertura economica ai numerosissimi soci. Come procedere allora per attuare una riforma che conduca al superamento di questi aspetti critici, senza adottare i comportamenti organizzativi propri dei grandi istituti di credito fortemente centralizzati? Ugo Monzio Compagnoni ritiene sia possibile «….studiare un percorso di rinnovamento delle BCC che parta da quelle storicamente più attente alle realtà del
Sopra incontro dei soci il 1° Maggio del 1922 presso il “Mutuo Soccorso”. Sotto sinistra dirigenti e impiegati Crat nel 1952, accanto Ugo Monzio Compagnoni. Qui a destra Gianfranco Bonacina e Alfredo Ferri. Sotto il nuovo presidente Bcc Giovanni Grazioli
territorio circostante, suggerendo alle Banche di Credito Cooperativo che più hanno dato al sistema cooperativo, che si facciano promotrici di una linea di rinnovamento, guidando il processo in atto. Ne hanno la capacità e la forza. Basti ricordare che negli anni ’70 queste tre Casse Rurali, partendo dal centro di elaborazione dati nato a Treviglio, si erano fatte promotrici dell’innovazione tecnologica e organizzativa, mettendo poi a disposizione di tutto il sistema nazionale le conoscenze acquisite, questo gratuitamente. Insomma, le nostre Bcc hanno una storia e una credibilità che può essere messa a disposizione a livello nazionale». «Non solo –conclude Monzio Compagnoniuna partecipazione attiva al processo di riforma da parte della Banca di Credito Cooperativo di Treviglio, condizionerebbe positivamente anche le dinamiche interne alla Cassa stessa, ne sono convinto!». Parole di un concittadino sensibile e vicino alla realtà bancaria trevigliese, che costituiscono una voce neutrale che rafforza –ne siamo certi- l’opportunità del cammino di autoriforma che le Banche di Credito Cooperativo e le Casse Rurali devono intraprendere (vedi box).
L’autoriforma richiesta alle Casse Rurali
Le intenzioni del Governo per affrontare e risolvere i problemi che creano criticità alla BCC, ovvero l’altro lato della medaglia di una riforma che è piena di buone intenzioni
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er affrontare sistematicamente e in modo definitivo le debolezze strutturali, frutto dell’evolversi del sistema bancario nel suo complesso, le Banche di Credito Cooperativo nel loro complesso hanno all’esame una autoriforma finalizzata al superamento delle attuali carenze di sistema. Carenze che la Banca d’Italia ha sintetizzato in tre principali criticità: la rischiosità del credito in relazione alle partite deteriorate, una debole redditività e un’elevata frammentazione del contesto cooperativo (moltissimi soci) che rallenta una rapida ricapitalizzazione. In un recente incontro il dott. Giovanni Grazioli, Presidente della Banca di Credito Cooperativo di Treviglio, ci ha fornito interessanti ragguagli in merito alle linee guida che informeranno la riforma in esame. Il progetto deliberato in Federazione lombarda consiste sostanzialmente nella creazione di un Gruppo, al quale aderiranno tutte le BCC e Casse Rurali, vincolandosi al rispetto di precise regole, in particolare verranno definiti dei parametri economici, indici che misurino la sostenibilità del reddito e del patrimonio di ogni banca cooperativa e di carattere mutualistico. In breve, un indirizzo operativo in sintonia con i caratteri del sistema cooperativo, ovvero la presenza sul territorio e l’operatività con i soci. Aspetto fondamentale della riforma proposta, la totale e completa autonomia di gestione di cui godrebbero le BCC pienamente in linea con i parametri predefiniti,
oltre a dei vantaggi che il comportamento virtuoso di ogni banca associata trasmetterebbe all’intero sistema. Si prevede poi, nel caso una Banca di Credito Cooperativo non sia stata in grado di mantenersi all’interno dell’intervallo di valori concordati, venga posta sotto tutela dal Gruppo e nei casi più gravi commissariata. In sintesi i vantaggi di tale autoriforma consisterebbero sul piano strategico e gestionale nell’ammodernamento e nell’innovazione del modello di servizio e sul piano economico di rafforzamento di solidità patrimoniale e di redditività, nel totale rispetto dell’autonomia di scelte e di territorio di ogni BCC. c. s.
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Le Botteghe cambiano pelle
Gabriele Anghinoni e i sogni nel cassetto di Tienno Pini
Un’Associazione “nuova”, con salde radici nelle esperienze e nei successi passati, che unisce botteghe, artigiani e professionisti con l’obiettivo di dare prospettive nuove alla città, anche attraverso lo sviluppo delle attività cittadine
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’appuntamento è a Treviglio, in Viale Oriano dove lui da oltre trent’anni gestisce con competenza e passione, in compagnia dell’inseparabile moglie, un noto negozio di fiori e articoli da regalo. Lui è Gabriele Anghinoni, imprenditore del fiore, dal 10 marzo scorso nuovo Presidente, per il prossimo triennio, dell’Associazione “Botteghe Città di Treviglio” (BCT), che dall’8 aprile successivo ha mutato il proprio nome in “Commercianti Trevigliesi Professionisti e Artigiani”. Mi accoglie con il consueto sorriso e mi fa accomodare nell’ufficio posto nel soppalco del negozio, sede tra l’altro anche di molti incontri, più o meno formali, riguardanti l’Associazione e non solo. L’accordo è quello di un incontro/ intervista volto a far meglio conoscere l’Associazione: le origini e la sua storia, l’ambito in cui opera, l’Associazione “nuova”, le finalità che persegue, le prossime attività e, perché no, anche i sogni nel cassetto. Questo di seguito il risultato della piacevole chiacchierata. Cronistoria - Nel 1981 venne costituita da alcuni commercianti che operavano nel centro storico la Cooperativa “Botteghe del Centro di Treviglio”. Nel corso degli anni la cooperativa si trasformò in Associazione, allargando l’accesso anche ai negozi esterni alla prima circonvallazione. Successivamente, nel 1997, la denominazione divenne Associazione “Botteghe Città di Treviglio” (BCT). Durante i suoi anni di attività le BCT hanno allestito mostre didattiche, ideato la Turta de
Treì, organizzato molteplici eventi di intrattenimento, concerti e spettacoli di varia natura. Accanto a un’idea originaria del commercio come competizione e individualismo, l’Associazione BCT ha offerto un esempio positivo di collaborazione tra commercianti, amministrazione comunale e la comunità dei cittadini. Promotore e Primo Presidente del Gruppo fu Gian Enrico Bresciani. I primi anni non furono facili, come spesso accade per le nuove iniziative. Gli iscritti erano mediamente attestati su qualche decina di unità, e oltre alle consuete difficoltà organizzative e di indirizzo, tipiche dei primi tempi, BCT si trovò a dover affrontare le grandi trasformazioni del periodo, che per il commercio, trevigliese e non, significarono in particolare l’avvento della “grande distribuzione”, con tutte le relative problematiche per i “piccoli” commercianti, molti dei quali non riuscirono a reggerne l’impatto e furono costretti a chiudere. Anche Treviglio, ovviamente, conobbe le stesse situazioni: il Pellicano, Lidl, LD, Superdì, Unes e quant’altro irruppero sul territorio determinando un profondo scossone con conseguenze avvertibili sino ai giorni nostri: alcune vie del centro storico presentano ancora oggi più di una saracinesca abbassata, i negozi di generi alimentari all’interno della circonvallazione sono quasi del tutto spariti, soppiantati in particolare dall’abbigliamento, mentre solo recentemente sembrano esserci cenni di ripresa, particolarmente nell’ambito della ristorazione e dei bar. In questi scenari l’Associazione ha sempre cercato in primo luogo di tenere ben annodati i rapporti tra gli iscritti, di diffondere ed affermare sempre più il proprio logo “BCT” (presso i cui negozi i clienti sapessero di poter contare su una assistenza diretta, personale e professionale), di essere presenti nelle sedi istituzionali per potersi confrontare e dire la propria sui temi del commercio, di contribuire all’organizzazione di manifestazioni volte a rendere più vivace la vita cittadina. L’8 aprile 2015 l’Associazione ha poi cambiato il proprio nome in “Commercianti Trevigliesi Professionisti e Artigiani”, a seguito di pressanti richieste degli associati, al fine di meglio rispondere alle mutate esigenze dei tempi Il cav. Gianenrico Bresciani, fondatore delle Botteghe del Centro e primo presidente. A destra un incontro storico che produsse la Sadro (Alimentaristi) e dette lpncipit per Botteghe del centro. Da sinistra Carlo Burini, Giuseppe Carioli, Davide Carsana, Lino Pozzi, Salvatore Fumagalli, Efrem Scaravaggi con la figlia Daria, poi Pietro Monti e Massimo Tarantino
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e di estendere la partecipazione anche a tutti i pubblici esercizi ed a coloro i quali prestano servizi alla persona, il tessuto commerciale in senso lato. Ambito operativo - L’Associazione fa parte del Distretto del Commercio di Treviglio (unitamente a Comune di Treviglio, Ascom di Bergamo, Confesercenti di Bergamo, Pro Loco Treviglio, Ente Fiera Treviglio), Associazione questa che intende svolgere un ruolo di supporto alla promozione e allo sviluppo del commercio locale e, più in generale, della città, sviluppando sinergie a vantaggio delle diverse anime del tessuto economico e sociale trevigliese. Insieme rappresentano il settore del commercio trevigliese, sia in riunioni riguardanti il commercio in generale che si tengono a livello regionale e provinciale, sia con l’Amministrazione Comunale, al fine di individuare e porre in atto tutti i possibili interventi locali volti a favorire la frequentazione della città, animandola sempre più e rendendola più attrattiva, con evidenti e conseguenti benefici anche per le attività commerciali. In questi ultimi anni la sua presenza è divenuta sempre più attenta ed attiva, non tralasciando alcuna occasione per manifestare le proprie opinioni ed intervenire sui temi cari al commercio ma non solo.
Da “Botteghe Città di Treviglio” a “Commercianti Trevigliesi Professionisti e Artigiani”
Il 10 marzo scorso si è tenuta l’assemblea delle BCT per il previsto rinnovo delle cariche elettive. Una precedente decisa campagna di sensibilizzazione, attraverso l’impegno di diversi associati e i social media, unita anche alla sensibile riduzione della quota di adesione 2015, aveva in precedenza portato le adesioni all’Associazione a circa 180, con un incremento esponenziale del numero degli iscritti, mai dalla costituzione così numerosi. Risultato raggiunto anche grazie all’invito generalizzato rivolto non solo a tutti i commercianti trevigliesi ma anche, appunto, a professionisti, artigiani e altri operatori economici e/o associazioni che avessero a cuore il buon andamento della città. Tutte novità anche semplici, ma certo efficaci. La partecipazione di ben cento soci all’assemblea confermava ulteriormente i responsabili nell’aver quanto meno imboccato la strada giusta. Infatti, al di là del rinnovo delle cariche elettive, di cui si riferisce nel box a parte, è emersa chiaramente la volontà generale di dare il via ad una nuova stagione partecipativa e di attività, mantenendo un costante rapporto tra
tutti i soci attraverso i social media per un rapido confronto ed aggiornamento, individuando sia pure informalmente dei referenti per zona geografica, allargando il più possibile l’invito a partecipare all’attività associativa. Da qui l’opportunità/necessità del cambio di denominazione, avvenuto lo scorso aprile: “Botteghe Città di Treviglio” dopo quasi vent’anni di onorata carriera passa alla storia e cede il passo a “Commercianti Trevigliesi Professionisti e Artigiani”. «Questo -tiene a sottolineare il Presidente- non significa rottura con un passato cui in molti degli attuali soci hanno contribuito con passione, ma semplicemente il riconoscimento di nuove necessità e di nuove sfide, di cui il cambiamento del nome è solo una parte rappresentativa. Corre anzi l’obbligo di ringraziare tutti coloro i quali in precedenza hanno contribuito al bene ed allo sviluppo dell’Associazione, in particolare i precedenti Presidenti ed i rispettivi Consigli sin qui succedutisi». Una delle linee guida del nuovo Consiglio, supportato da tutti i soci, sarà quella della massima informazione e condivisione possibile, pressoché in tempo reale, dei temi di maggiore interesse e di tutte le proposte provenienti sia da soci che da tutte le altre Associazioni che operano sul territorio. A tale proposito il Gruppo Chiuso su Facebook ha già dato ottimi risultanti, consentendo facilità e rapidità nell’informativa e nello scambio di opinioni interne al Gruppo. Altrettanta collaborazione l’Associazione intende proseguire con le controparti istituzionali, in primis l’Amministrazione Comunale e il Distretto del Commercio, facendo sentire la propria voce e, ove serva, anche un eventuale civile dissenso e confronto. Massima apertura ed attenzione inoltre alle proposte che dovessero pervenire dalle varie Associazioni cittadine e del territorio. PRINCIPALI INIZIATIVE IN PROGRAMMA • Giovedì 23 aprile: giornata nazionale di invito alla lettura, con vetrine a tema, apertura fino alle 22 e salita in notturna al campanile • Sabato 9 maggio: Mercatino dei Bambini in Via Sangalli • Sabato 23 maggio: Madonnari in Via Sangalli • 12-13-14 giugno: Treviglio Vintage
Nella foto davanti, da sinistra: Michelle Carta, Francesco Zoriaco, Elena Ronchi, Samuele Anghinoni. Dietro, da sinistra: Paolo Genovese, Gabriele Anghinoni, Dario Lonati, Franco Testa, Maddalena Borella (manager del Distretto del Commercio), Andrea Rabboni
• 17-20 giugno: Festa dello Sport • Tutti i mercoledì sera di giugno, luglio e il 5 agosto: Shopping al Chiaro di Luna, con rassegna di concerti • Sabato 4 luglio: Saldi al Chiaro di Luna, notte bianca, e Sangalli Creatività nell’omonima via; Altre, particolarmente per quanto riguarda l’autunno ed il prossimo inverno sono in via di definizione e verranno annunciate in seguito. Da quanto prospettato pare chiara la scelta di privilegiare la presenza costante con delle manifestazioni ben distribuite nel corso dell’anno, in modo da tenere sempre desta l’attenzione su Treviglio. I sogni nel cassetto - Il Presidente allarga le braccia e confida di averne uno solo: poter contare sull’entusiasmo, sull’amalgama, sulla disponibilità, sul sostegno di tutti gli Associati (che nel frattempo sono giunti a sfiorare i 200 iscritti) per tutto il triennio di investitura, come è stato in questi primissimi mesi. In tal caso nessun traguardo sarà precluso!
I nomi nel tempo Presidenti dal 1981 ad oggi Gian Enrico Bresciani, Lorenza Medici, Silvio Gelmi, Mauro Bonfanti, Max Vavassori, Gabriele Anghinoni. Consiglio in carica triennio 2015/2018 Gabriele Anghinoni (Presidente), Francesco Zoriaco (vice presidente), Samuele Anghinoni, Dario Lonati, Elena Ronchi, Paolo Taiocchi (cassiere), Michelle Carta, Monica Castelli, Andrea Rabboni, Matteo Testa, Paolo Genovese, Stefano Redaelli, Graziano Cornelli. Riferimenti per contattare l’Associazione commerciantitrevigliesi@gmail.com Pagina di Facebook: Commercianti Trevigliesi Maggio 2015 - la nuova tribuna - 15
Eccellenze/Scuola & Pediatria
Treviglio/Eccellenze in fuga
La maestra fa scuola in corsia di Carmen Taborelli
Un esperimento didattico promosso nel 1982 da Francesco Urso e dal dott. Federico Bergonzi presso l’Ospedale, prosegue come sezione staccata della Scuola Primaria “Edmondo De Amicis” di viale del Partigiano a Treviglio
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ti che nel corso degli anni hanno svolto questo delicato servizio. La prima è stata Antonella Monzio, seguita da Betty Paratico e da Mariella Gelmi. Adesso è in servizio la docente Cinzia Trolese, che svolge questa attività in ospedale da più di quindici anni, e che, in questo periodo, sta svolgendo una piccola ricerca sulla storia della sezione ospedaliera per valorizzare questa presenza all’interno del Piano dell’Offerta Formativa della “De Amicis”. La dirigente scolastica dell’Istituto Comprensivo “De Amicis”, dott. ssa Donatella Finardi, alla quale ho chiesto di puntualizzare e precisare l’importante servizio, ha risposto così: “Attualmente l’esperienza della scuola in ospedale, presente ormai da decenni a Treviglio, è inserita in un progetto nazionale molto più ampio, che mira ad offrire un servizio scolastico anche agli alunni che per motivi di salute non possono frequentare la scuola; il MIUR ha infatti attivato risorse in tutte le regioni per assicurare il diritto allo studio sia presso gli ospedali che presso il domicilio degli alunni affetti da patologie. Nello specifico, la nostra sezione ospedaliera funziona in stretta sinergia con le altre sezioni analoghe, presenti presso gli ospedali di Bergamo, Seriate e Ponte S.Pietro; i percorsi di apprendimento e le strategie di insegnamento sono progettati da un team composto dalle docenti che operano in queste quattro realtà della provincia e che mensilmente si incontrano per confrontarsi e programmare. La realtà di Treviglio si caratterizza per ave-
re un’utenza estremamente variabile, in quanto legata normalmente a degenze brevi, spesso inferiori alla settimana; anche l’età degli alunni è molto distribuita: la sezione di scuola in ospedale accoglie infatti bambini delle scuole dell’infanzia e primarie e ragazzi delle scuole secondarie di 1° e 2° grado, spaziando pertanto su una realtà che va dai 3 ai 17 anni. In questo contesto l’attenzione non è principalmente mirata sullo svolgimento di percorsi scolastici in senso stretto, bensì sulla proposta di attività che coinvolgano i bambini come gruppo, favorendo collaborazioni fra utenti di età diverse e facilitando la permanenza nell’ambiente ospedaliero: impegnare i piccoli pazienti in attività didattiche piacevoli e coinvolgenti li aiuta a gestire l’inevitabile ansia legata allo stare in ospedale e restituisce loro un senso di continuità con la quotidianità scolastica. Fra i diversi percorsi proposti agli alunni, sono previste anche attività che consentono di conoscere meglio l’ambiente ospedaliero, le persone che vi lavorano, gli strumenti che si utilizzano: anche questo consente ai bambini di sentirsi più coinvolti nel percorso di cura e di affrontare con maggiore consapevolezza e fiducia la permanenza in ospedale”. La parola passa ora all’insegnante Cinzia Trolese per specificare che “la finalità principale della scuola in ospedale è quella di mantenere viva e vivace l’identità del bambino
Fotografia di Enrico Appiani
cuola e Sanità: un binomio che agisce in modo sinergico per garantire il diritto alla salute e all’istruzione ai bambini/ adolescenti, ricoverati nei luoghi di cura. A istituire la scuola all’ospedale consortile Treviglio-Caravaggio furono il direttore didattico Francesco Urso e il primario di pediatria Federico Bergonzi. Nel 1982, a scopo sperimentale, inglobarono la sezione di scuola materna comunale, allora funzionante presso la struttura ospedaliera. Seguendo anche gli indirizzi del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR), negli anni l’esperienza si è consolidata e ha assunto una sua precisa connotazione, interagendo con analoghe realtà presenti nella Bergamasca. Oggi è una sezione staccata della Scuola Primaria dell’Istituto Comprensivo “Edmondo De Amicis” di viale del Partigiano a Treviglio. Tenendo conto delle condizioni oggettive connesse alla particolarità del servizio, la scuola in ospedale garantisce gli apprendimenti fondamentali e dà molto spazio all’accoglienza, alle attività educative e a quelle ricreative. Inoltre, attraverso una didattica di animazione, fondata su gioco, lavoro, creatività e il coinvolgimento dei genitori, mira ad alleviare le sofferenze e il disagio del bambino/adolescente, che sta vivendo, in ospedale, l’esperienza della malattia. Insegnare in ospedale vuol dire lavorare in situazioni abbastanza problematiche. Occorrono flessibilità e capacità di adattarsi a situazioni che spesso mutano. Lo sanno bene le insegnan-
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Il dott. Bergonzi con i suoi collaboratori (1982) - Concessa dal Popolo Cattolico
A istituire la scuola all’ospedale furono il direttore didattico Francesco Urso (sopra) e il primario di pediatria Federico Bergonzi (a sinistra). Foto concessa dal “Popolo Cattolico”
all’interno di un ambiente anonimo e spersonalizzante. Spesso, in risposta alla mia proposta didattica, mi sento dire dal bambino questa frase: ‘Sono le cose che stanno facendo i miei compagni in classe, così non resto indietro con il programma’. Le attività didattiche mi permettono di instaurare un dialogo con l’alunno senza che la malattia interferisca in modo prevalente, ottenendone così l’allontanamento momentaneo dalla situazione di ospedalizzazione ed il coinvolgimento nel vissuto scolastico. L’intervento scolastico mi permette di agire su tre fonti principali: - sul piano didattico perché garantisce al bambino la possibilità di continuare a costruire il diritto allo studio - sul piano dell’identità perché aiuta il bambino a costruire il difficile percorso di accettazione della nuova realtà - sul piano della continuità offre metodi e strumenti per mantenere il contatto con l’ambiente domestico, gli amici e la scuola”. A sinistra lo spazio scolastico presso la pediatria di Treviglio. Sotto nella foto g.c. dal Popolo Cattolico, i medici della pediatria negli anni ‘80. Riconoscibile a destra il dott. Luigi Re
Faccio il chirurgo in Svezia e non torno di Alessandro Prada
Lorenzo Riva, chirurgo vascolare trevigliese, viene convinto da un collega svedese a sperimentare come si lavora al nord. Si innamora della Svezia e si trasferisce con la famiglia. Un consiglio ai giovani: venite a lavorare qui al nord
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’è chi costruisce qualcosa d’importante restando ancorato nelle proprie terre d’origine, chi lo fa trasferendosi in nazioni straniere. È il caso del dott. Lorenzo Riva, trevigliese che dal 2006 svolge la sua professione di chirurgo in Svezia. Famiglia intraprendente quella dei Riva: basti pensare che il chirurgo è fratello di Paolo, il titolare dell’omonimo e quotato bar-pasticceria situato nel palazzone ex Sai. Il perché del trasferimento in Svezia è presto detto. Laureato in chirurgia vascolare, durante un congresso incontra un collega svedese, Martin Malina, un luminare della sua specializzazione che lo convince a seguirlo a Malmö, in Svezia, per fare un’esperienza lavorativa. Una volta ritornato in Italia, si convince che in Scandinavia ha più possibilità di lavorare con soddisfazione, così si trasferisce con la moglie Elena, medico odontoiatra originaria di Genova, e ovviamente con i figli. Lo abbiamo incontrato al bar del fratello in occasione di un suo ritorno in visita a Treviglio e il discorso è subito finito sulla Svezia e di come si vive in quel paese. «Mi ci trovo molto bene. Abito a Kristianstad, a 20 km da Malmö, dove risiede l’ospedale nel quale lavoriamo sia io che mia moglie, ovviamente in reparti diversi. L’ambiente di lavoro è molto sereno, diversamente da quanto vedo in Italia, esiste molto meno il concetto di ‘gerarchia’; infatti, i rapporti tra colleghi sono
molto più colloquiali e meno conflittuali. Fa da padrona la meritocrazia e lo stile con il quale lavori: è importante, ma ancor più significativa è la valutazione dei valori morali di una persona, cosa che conta veramente tanto. Per quanto mi riguarda, posso assicurare che in Svezia c’è tanta richiesta di posti di lavoro in campo medico, ma anche in altri settori la domanda non manca. Se dovessi consigliare a un ragazzo dove cercare lavoro, gli indicherei la Svezia». Da medico nota delle differenze sostan-
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Eccellenze in fuga ziali tra il sistema sanitario italiano e quello svedese? «Il sistema sanitario italiano è di ottimo livello, in Italia ci sono molti medici preparati e di buon livello; ma ciò che fa la differenza è la commistione tra pubblico e privato. Come ben si sa, in Italia le liste d’attesa nel pubblico sono lunghissime, perciò spesso si ricorre a una visita privata per accorciare i tempi pagando di più. Invece in Svezia si punta quasi tutto sul servizio pubblico. Le tasse sono piuttosto alte, ma vieni ripagato con un servizio notevole. Il privato ovviamente esiste, ma non fa parte delle abitudini degli svedesi. Per esempio, fino ai ventuno anni non si pagano le visite dal dentista e in generale le strutture ospedaliere sono tutte ben fornite. In Italia siamo abituati ai concorsi, mentre in Svezia si predilige l’assunzione diretta, poi nel lavoro accumuli esperienza, anche grazie all’aiuto di persone più qualificate, che ti sono vicine e ti fanno sentire a tuo agio». E la società? Come si vive al di fuori del proprio lavoro? «Viverci è davvero un piacere. Ci sono tante risorse e la società è molto civile. Ho due figlie che vanno a scuola e osservo che il sistema scolastico funziona alla perfezione, permettendo agli alunni di interagire già con i tablet in classe. La vita sociale è diversa a quella italiana; infatti gli italiani sono famosi per appartenere a una cultura mediterranea generalmente più aperta, mentre gli svedesi vivono con un forte senso della riservatezza. Se si vuole uscire una sera, sono quasi sempre io che devo organizzare in anticipo con i miei amici svedesi, loro non lo fanno. Potrebbero sembrare anticipatici per questo loro comportamento, ma in realtà è il loro stile, la loro cultura. Il clima è bellissimo nel periodo primaverile e in parte anche estivo, ma già in autunno il sole cala addirittura alle 3 del pomeriggio. Escluso ciò, mi aspettavo un clima più rigido, ma vivendo a sud della Svezia alla fine è sopportabile. Lo svedese è una lingua che impari alla svelta, anche perché il sistema d’integrazione è molto avanzato e moltissime persone del luogo sanno parlare benissimo l’inglese». Sono tanti italiani che vivono e lavorano in Svezia? «Ce ne sono tanti e sono molto rispettati. Gli italiani emigrati in Svezia sono sempre stati considerati come persone oneste e come una notevole forza lavoro. Moltissimi nostri connazionali in passato hanno sposato e avuto figli da donne svedesi. Una volta erano quasi tutti operai, ora invece gli interessi lavorativi si sono spostati soprattutto su giovani laureati». Che cosa le manca di più dell’Italia o di Treviglio? “Mi mancano tanto gli amici di sempre e i parenti, ovviamente. Questa però è l’unica difficoltà. Sinceramente qui sto molto bene e, cosa ancora più importante, è che la stessa sensazione la provano anche mia moglie e le mie figlie. Tornerò a vivere in Italia? A casa farò ritorno per ritrovare le persone che amo e gli amici, ma credo proprio che il mio futuro e quello della mia famiglia sarà in Svezia”.
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Tribuna aperta
Alloni: “Siamo papà separati, papà a ore” di Diego Alloni
L’Associazione
P
I padri separati si organizzano per contrastare sentenze spesso ingiuste, addirittura “automatiche”, a causa di una prassi consolidata. Ce ne parla il concittadino Diego Alloni, responsabile provinciale dell’Onlus “PapàSeparati”
L
a condizione di un padre separato, ovvero di chi si ritrova, per effetto di una sentenza di divorzio o di separazione, a fare il papà in tempi e modi stabiliti dal giudice, implica spesso non solo sofferenza, ma anche senso di impotenza di fronte a una decisione che magari si ritiene ingiusta o comunque troppo limitante il proprio ruolo di padre. Per questo nel 2005 nasce l’Associazione PapàSeparati Lombardia onlus, il cui scopo è offrire supporto psicologico e pratico a chi si trova a vivere questa condizione. Ce ne parla Diego Alloni (nella foto piccola), responsabile dell’associazione per la provincia di Bergamo. Papà Separati significa papà staccati dai propri figli, senza alcun motivo plausibile che non sia la ragion di stato. I papà separati sono costretti a relazionarsi con i propri figli secondo orari prestabiliti giudizialmente (una nostra associazione si chiama “Papà ad ore”). Dove ha origine questa prassi contraria ai diritti fondamentali dell’uomo e del bambino? Un magistrato serio ed attento ci spiegò, nella pausa di un convegno, che il Parlamento italiano, nella fretta di emulare la legge californiana -che, prima al mondo, nel 1970 aveva inventato il divorzio “no fault” (cioè senza motivi oggettivi)- si era dimenticato (?!) di affrontare il pro-
blema delle relazioni figli-genitori divorziati; i giudici, in assenza di norme ed impossibilitati a inventarsi provvedimenti prima di esaurire tutte le possibilità previste dal nostro codice, hanno scovato il “diritto di visita dei familiari ai detenuti”. Da qui hanno traslato la “facoltà per il padre di vedere e tenere con sé i figli un pomeriggio alla settimana e a week-end alternati”. La virgolettatura è d’obbligo, perché questa formula è stata dapprima ciclostilata, poi fotocopiata ed infine copia-incollata per 45 anni in milioni di sentenze separative o divorzili, talvolta addirittura su moduli pre-stampati. Ritorneremo, nei prossimi interventi, sulla storia del divorzio nell’Occidente e in Italia e sui meccanismi di mercato (privato e di Stato) che l’hanno determinata e ne determinano ancor oggi gli sviluppi. Per ora basti considerare che, per effetto di una formula inventata da operatori giudiziari (per i figli degli altri, naturalmente) e talmente incivile da essere negata da quasi tutti, viene stimato che circa 25.000 bambini italiani all’anno perdono totalmente qualunque contatto con il padre e che gran parte dei 120.000 minori implicati ogni anno nelle separazioni dei genitori subisce una perdita relazionale inestimabile. Infatti l’ISTAT, che notoriamente misura lo “stato civile” dei cittadini, invece di limitarsi a descriverlo, ha coniato una nuova categoria, le
“famiglie mono-parentali”. Idea prontamente accolta dagli uffici anagrafe dei comuni. Forse per drenare risorse in direzioni obbligate e fruttuose: ti separi, ti premio, mi voti? Ai bambini, agli adolescenti, ai ragazzi odierni ci pensa Papa Francesco: nell’udienza generale di mercoledì 8 aprile, ha affermato che i bimbi soffrono anche per le “vite dei padri logorate da ritmi di lavoro insostenibile e mal pagato. Ma pagano anche il prezzo di unioni immature e separazioni irresponsabili, subiscono gli esiti della cultura dei diritti soggettivi esasperati”. L’irresponsabilità è di chi ti sbatte in faccia “I bambini li vedi quando lo dice il giudice” (per poi dire ai bambini “Vi ha abbandonato, ma ci sono sempre io”). E il diritto esasperato si esterna così: “Io mi voglio separare e tu te ne vai”. A questa prassi mi piace rispondere con un altro grande Francesco (Guccini): “Ognuno vada dove vuole andare/ognuno invecchi come gli pare / ma non raccontare a me cosa è la libertà”. Ecco, la responsabilità di salvaguardare la libertà di relazione, la libertà di vita (e di visita), la libertà pura, senza specificazioni, dei nostri figli, è la base per la rinascita della figura del padre che coltiviamo nelle associazioni dei papà separati. E’ prima di tutto una rivoluzione cognitiva, volta a porre al centro della vita i propri bambini, che dirada la confusione dei mesi (talvolta anni) successivi alla separazione dai nostri figli. Imparare e vivere la dimensione della libertà, caratterizzata dal pensare prima “il tu” e poi “l’io”, diventa l’esempio e la speranza per i nostri ragazzi; i quali non fanno quello che gli dite, ma quello che fate. Il ribaltamento cognitivo consente di depurare cervello ed organismo dalle scorie di chi ti ha avvelenato giorno per giorno, di diventare così forti da portare ogni peso, di essere così responsabili da sorridere di fronte ad ogni avversità: così si diventa il papà che il figlio aspetta con frenesia d’incontrare, per scoprire il mondo insieme. Mentre scrivo questi appunti mi telefona una A sinistra l’attore Giuseppe Fiorello, a destra il presidente di “PapàSeoparati” della provincia di Bergamo, Diego Alloni
cara amica, una donna separata che ha deciso, come iniziativa del suo Partito, di aprire uno sportello d’ascolto e d’aiuto ai genitori separati. Mi spiega che un tredicenne si è stancato dei week-end alternati e vuole stare un po’ più con il papà, il quale però non “vuole andare contro la legge”. Suggerisco di dire a questo papà di consigliare alla sua ex moglie di prendersi un po’ di tempo per sé, farsi nuove amicizie, così lui può stare un po’ di più con suo figlio, senza mettere in mezzo i giudici ecc… In pratica: togliere di mezzo tutte le dichiarazioni di principio (del tipo: “Io voglio difendere i diritti di nostro figlio, io vado incontro alle sue esigenze”); rivedere i tempi previsti dalla sentenza di separazione, magari vecchia di dieci anni, perché evidentemente l’età evolutiva dei figli richiede opportuni adattamenti familiari; ampliare i tempi assegnati al genitore non convivente, a salvaguardia della relazione filio-genitoriale. E’ un esempio dell’ABC promosso dell’associazione PapàSeparati Lombardia onlus, diffusa in tutta la regione, compreso Treviglio e dintorni (www.papaseparatilombardia.org).
apaSeparati Lombardia è una onlus che dal 2005 si occupa di sviluppare in Italia il diritto alla Bigenitorialità, brutto termine che sta a significare la volontà di incrementare l’affido condiviso dei figli dei genitori separati in termini reali, laddove invece la figura paterna risulta troppo spesso limitata e ridimensionata dalle sentenze del giudice. La privazione di uno dei genitori avviene sistematicamente nei riguardi della figura paterna, che in seguito ad una separazione si trova di fatto separata, sotto il profilo relazionale ed educativo, dai propri figli. Da qui le ragioni della denominazione dell’Associazione: Papà Separati, ma dai propri Figli. Proprio dalla comprensione di questo particolare disagio, i soci fondatori hanno iniziato a porre in essere attività finalizzate a: «Tutelare gli interessi del minore, garantendogli il mantenimento delle relazioni personali e contatti diretti in modo regolare con entrambi i genitori, ricevendo cure, educazione, istruzione. In sostanza una “nuova cultura”, che porta, anche dopo la separazione entrambi i genitori ad “educare insieme” i figli in posizione di assoluta parità, dando importanza soprattutto alla normale crescita psicofisica di essi; Aiutare coloro che vivono questa esperienza diffondendo i diritti dei figli e dei genitori, promuovendo la cultura della solidarietà a vantaggio e a favore delle categorie sociali più svantaggiate e di una migliore qualità della vita dei minori a rischio e dei figli dei separati; Fornire assistenza umana e sociale ai genitori che, per qualsivoglia ragione, si trovino in difficoltà nello svolgimento della funzione naturale di genitori; Promuovere attività educative e culturali intese a valorizzare la funzione genitoriale; Organizzare riunioni, convegni, congressi, attività formative curando la diffusione di notizie ed informazioni; Far emergere una casistica di situazioni abnormi comunque permesse dall’attuale legislazione e prassi e supportata dall’attuale cultura». Sul sito dell’associazione si posso trovare molte informazioni utili relativi alle sentenze, ai fatti d’attualità che riguardano questi argomenti, ai contatti utili e ai consigli degli esperti. Maggio 2015 - la nuova tribuna - 19
Treviglio/Adolescenti e Legalità
La cultura delle regole e dei doveri a cura di Daniela Invernizzi
Uno studio sugli studenti di Treviglio mette in luce le carenze informative dei ragazzi sul concetto di regole e legalità, emerge grande confusione tra ciò che è lecito e ciò che non lo è, ovvero l’assenza di una corretta educazione, anche in famiglia
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el numero precedente di questa rivista vi abbiamo parlato di un libro, “Dentro L’adolescenza” (Albonetti, Ratti, Sarno, ed. Franco Angeli), frutto di uno studio articolato che si è protratto per un paio d’anni e che ha coinvolto direttamente alcune scuole superiori di Treviglio. Come già anticipato, essendo molteplici le problematiche emerse, si è deciso di approfondire di volta in volta, su queste pagine, i temi affrontati durante i colloqui e i test con i ragazzi, per evidenziare quali sono le urgenze sulle quali occorre riflettere, sia come operatori del settore (insegnanti, psicologi, legali), sia come semplici genitori. Laura Rossoni, avvocato trevigliese che insieme a Sabina Albonetti ha curato lo svolgimento dei test e degli incontri con i ragazzi (i cui risultati sono stati resi noti in alcuni convegni e nel libro che vi abbiamo presentato) si è occupata, data la sua professione, di chiarire ai ragazzi alcuni aspetti legati alla liceità o meno dei loro comportamenti e di cosa si intenda per “educazione alla legalità”. Avvocato Rossoni, come si educa alla legalità? «Compito difficile, che non possiamo risolvere efficacemente se ci limitiamo a un richiamo formale della legge. Gli stessi ragazzi, durante i nostri incontri, non solo ci hanno evidenziato il loro senso di solitudine, la loro fragilità, le loro paure e insicurezze, ma hanno capito da soli che tutto questo può trovare un
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aiuto e uno sfogo solo nella collettività, nella capacità di tessere relazioni e dare un significato a ciò che si fa e a ciò che si è. Ed è proprio in questo contesto che emerge il concetto di legalità nella sua dimensione originaria, quella del “contratto sociale”, ovvero l’idea per cui le persone si danno delle regole per poter vivere insieme e in pace, seguendo valori etici che tutti riconoscono come tali. Un ragazzo deve poter sperimentare legami di identità e di appartenenza al contesto in cui vive per recuperare il senso della cittadinanza e quindi della responsabilità sociale”. Dai colloqui con i ragazzi è però emersa molta confusione su ciò che è lecito e ciò che
non lo è. Non sanno, per esempio, che chi partecipa a un furto di gruppo senza appropriarsi di nulla può comunque essere incriminato per concorso, così come non hanno idea delle conseguenze, anche pesanti, che un atto di bullismo può comportare, sia per loro stessi, eventuali autori del gesto, sia per i loro genitori, che sono responsabili per gli atti compiuti dal minore (sul bullismo torneremo a parlare più ampiamente nel prossimo numero). Così, attraverso la visione di alcuni film, sono state trattate numerose ipotesi di reato, dal furto, alla violazione di domicilio, dalla violenza sessuale alla prostituzione minorile, dal bullismo fino alle nuove fattispecie di reato nate con la Rete. Insieme ai ragazzi si è cercato di fare chiarezza sulle conseguenze dei reati commessi. Premesso che sotto i quattordici anni di età non c’è punibilità, perché c’è la presunzione di assoluta incapacità di intendere e di volere del minore (ma i genitori rispondono civilmente, ad esempio in caso di danneggiamento), sappiamo che il nostro ordinamento prevede la competenza del Tribunale per i Minori, organo collegiale formato da un giudice togato più due esperti in materie psicologiche e pedagogiche, la cui ratio è diversa da quella del tribunale ordinario: il processo minorile è già in se stesso un atto rieducativo, volto cioè al recupero del minore e al suo reinserimento sociale. Il che non significa che il processo minorile non sia un vero processo: siamo di fronte a un procedimento penale vero e proprio, che giudica secondo norme di legge, ma la cui finalità è tesa a consentire al ragazzo, che ha una personalità in formazione, di rendersi conto di quello che ha fatto e di trovare una via d’uscita, tornando alla collettività più maturo e responsabile. Ovvio dunque che la detenzione in carcere venga utilizzata solo in casi estremi, quando non si può fare diversamente. Quali sono le forme alternative di “rieducazione”? «L’istituto più utilizzato, e che sta dando buoni risultati, è quello della “messa alla prova”. Il giudice, accertatosi che il fatto è stato commesso, propone al ragazzo di sospendere il processo se lui si sottopone alla messa in prova: un periodo che va dai sei mesi all’anno, dopo il quale il giudice, se la prova ha avuto esito positivo, estingue il processo, altrimenti
pronuncia sentenza di condanna. Durante la messa in prova il ragazzo è affidato ai servizi sociali competenti per territorio per attuare un processo educativo, deciso con i giudici a latere (gli esperti) e i cui contenuti sono adeguati al minore. Due esempi concreti, che riguardano il nostro territorio. Cinque ragazzi, coinvolti in una rissa a Treviglio, hanno aderito alla messa alla prova che prevedeva: a) il reinserimento scolastico (avevano tutti abbandonato la scuola); b) fare un’attività socialmente utile in base alle inclinazioni personali (es. servire alla mensa dei poveri). Alla fine del percorso i ragazzi si sono resi conto da soli che il loro comportamento deviante non era soltanto la rissa in sé, ma il fatto di non andare a scuola, ciondolare tutto il giorno senza niente da fare, non avere obiettivi, ecc … L’altro esempio: sei “graffitari”, cinque dei quali hanno deciso per la messa alla prova. Essi stessi hanno ammesso di non aver neppure “riconosciuto” il reato: per loro, scrivere sui muri era una forma d’arte. Il lavoro con loro è stato dunque quello di inquadrare che cosa è l’arte e che cosa è il danneggiamento, percorso alla fine del quale loro stessi sono diventati ‘educatori’, raccontando ai ragazzi delle medie la loro storia e cosa avevano imparato”. La messa alla prova è un istituto mutuato dall’ordinamento anglosassone, dove trova vasta applicazione. Dati i buoni risultati, è all’esame del nostro Parlamento una legge delega rafforzativa della sua applicazione. Mettere alla prova e non in prigione è inoltre, alla luce dei risultati, anche uno strumento rafforzativo della sicurezza sociale, perché diminuiscono le recidive. «Con i ragazzi abbiamo parlato di tutto questo”, conclude Laura Rossoni, «e il loro interesse era palpabile. Molti dubbi, se non tutti, sono stati chiariti, almeno per quanto riguarda le implicazioni legali dei loro comportamenti”. Ben altre sono invece le richieste, alla famiglia e al mondo adulto in generale, di esempi concreti di integrità e solidità, di adulti consapevoli e responsabili, pronti all’ascolto, che possano guidare gli adolescenti nel loro percorso di crescita. Su questi aspetti torneremo nei prossimi numeri. Maggio 2015 - la nuova tribuna - 21
Treviglio/Eccellenze educative
Scuola/Confronti con gli Usa
C’è una bella aria nuova al Mozzali a cura di Maria Palchetti Mazza
Se l’educazione è vista come sfida positiva
Proseguiamo la nostra visita alle scuole trevigliesi con “il Mozzali”, istituto nato dall’unione dell’Itis Righi e l’Ipsia Mozzali. Ci attende la preside Chiara Pardi e percepiamo nella sua voce l’entusiasmo dei neofiti
La preparazione dei docenti è notevole ed è ammirevole come l’educazione sia vista come una sfida collettiva. C’è poi sempre aiuto da quanti ti circondano, ma ciò che davvero meraviglia è il rapporto studente-insegnante
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l Polo Tecnico Professionale Industriale “Mozzali”, unione di due istituti, l’Itis Righi e l’Ipsia Mozzali, nato nel 1998 in seguito al Piano di Ridimensionamento Provinciale, presenta un ampio ventaglio di indirizzi. Il “Righi” dà accesso agli studi universitari o al mondo del lavoro, il “Mozzali” cura la preparazione professionale dei giovani in vista di attività lavorative. E’presente anche un serale, dove gli adulti possono migliorare le proprie conoscenze relative alle attività esercitate. Il Polo sa rapportarsi a un’utenza in evoluzione e alle richieste dei tempi, con l’utilizzo di nuove tecnologie, la partecipazione a eventi e concorsi, avvalendosi anche di frequenti e vivaci rapporti con tutte le componenti del territorio. C’è una bell’aria, al Mozzali: si parla di didattica innovativa, di educazione emotiva che coinvolga la scuola, di cultura del dialogo… Un’aria nuova e piena di promesse, quelle che ogni persona, preside o docente che sia, consapevole e responsabile del proprio ruolo e degli effetti ad esso correlati, può vivere come una promessa. Di questo clima è imbevuta l’atmosfera nella quale si muove la Preside del Mozzali, prof. ssa Chiara Pardi (nella foto), che ho incontrato di recente. C’era nella sua voce l’entusiasmo dei neofiti. «Questo lavoro nuovo rispetto all’insegnamento precedentemente esercitato mi impegna in un’esperienza rivelatasi di giorno in giorno più complessa, iniziata il 30 giugno 2014 e mi appare come l’immersione in un mare di cui non si vede il fondo». Quale l’obiettivo culturale secondo Lei più ambizioso che si propone di raggiungere? «Sotto l’aspetto culturale ritengo sia la rivalutazione del sapere tecnico in una sorta di osmosi con il sapere umanistico che nella concezione di molti costituisce l’eccellenza. Considero questo un obiettivo alto , unito all’altro, nel settore dell’insegnamento, che vorrei potenziare: la consapevolezza che il modo migliore per coinvolgere gli alunni nelle attività scolastiche e non solo, è il renderli protagonisti». Rispetto all’osmosi di cui mi ha parlato poco fa e che augura la valorizzazione del sapere tecnologico, da cosa deriva questa
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di Silvia Martelli
sua convinzione? «Ritengo sia in corso una specie di rovesciamento rispetto al passato, cioè la necessità di una letteratuta costruita su esperienze pratiche con un apprendimento durante il quale le materie umanistiche servono a dare significato a studi di diversa natura. E’ un imparare “facendo” nei laboratori per risalire alla teoria. C’è tutto questo nel tessuto del Mozzali: si tratta di trovare le sinergie più adatte per renderlo realtà». “E per quanto riguarda il coinvolgimento dei discenti?” «Credo che se ci si sa relazionare nel giusto modo, il lavoro per docenti e discepoli divenga notevolmente più facile. Penso sia questo uno dei segreti della buona scuola». Quali gli altri sogni nel cassetto? «Per quanto attiene la componente docenti, la nascita di una didattica innovativa, di relazioni inclusive, di momenti di formazione per aiutarli in un lavoro affatto facile. Restano i riconoscimenti loro dovuti e dei quali pare ci si sia dimenticati. Per quel che riguarda invece il mondo della scuola nella sua globalità mi auguro una maggiore autonomia nel curricolo, la possibilità di creare un team che interpreti i bisogni del mondo del lavoro e del territorio, con la veste di un comitato tecnico-scientifico che sappia
anche leggere le necessità inerenti le modalità di studio e la valutazione». Esistono i mezzi per realizzare questi sogni? «Il problema delle risorse economiche è noto. Bisognerebbe capire i bisogni della scuola, a cominciare dalla manutenzione dei locali per seguire un iter che si perde lontano. Ricordo le scuole olandesi, belle, in ordine, colorate, con ampi spazi di lavoro e laboratori efficienti. Avremmo un urgente bisogno, ad esempio, anche della banda larga che aiuterebbe il nostro lavoro». Quali i problemi? «La scuola si trova oggi ad affrontare realtà molto complesse. Nelle classi multiculturali si deve tenere conto di tradizioni diverse, con le difficoltà che questo comporta e la necessità di interventi calibrati. C’è poi da smitizzare, come le ho già detto, una gerarchia di saperi che ha fatto spesso considerare di seconda categoria i nostri alunni. Dobbiamo valorizzare il nome della nostra scuola che cresce come numero di utenze per la sua potenzialità formativa e per le possibilità di scelta. Non dimentichiamo che i giovani costituiscono la realtà del futuro e che per re-
alizzarla nel modo adeguato abbiamo bisogno dell’aiuto delle famiglie, delle associazioni, del territoro in generale, senza dimenticare il rispetto delle regole e il controllo». Quante classi per l’anno 2015-2016? «Trenta, comprese le cinque del serale. C’è stato un aumento di iscrizioni, rispetto al passato, all’istituto tecnico». Si può parlare di eccellenze? «Rispondo volentieri, …per noi è molto importante l’alternanza scuola-lavoro. Nell’istruzione professionale i nostri alunni di secondo e di terzo passeranno 240 ore in azienda e ciò diventerà obbligatorio anche nel tecnico. Negli stages i giovani partecipano in modo attivo e presentano inoltre progetti che riscuotono consenso. Ad esempio, con la guida del prof. Nocerino hanno progettato e costruito robot programmati per giocare al calcio da tavolo senza telecomando. Nonostante le ristrettezze economiche cerchiamo di restare al passo con il progresso». Ho sentito parlare di vostri alunni in Spagna... «Sì, con il progetto Erasmus tre nostri alunni parteciperanno a uno stage estivo in Spagna. Altri seguiranno stages presso aziende nel periodo delle lezioni o durante le vacanze estive». Riconoscimenti? «Abbiamo l’attenzione delle banche sul territorio, apprezzamento come polo di integrazione. Avremo un anno di corso post diploma, gestito da aziende, università di Bergamo, ENFAPI, che si concluderà a luglio con un esame finale. Il corso dei meccanici collabora con la ditta Colombo Filippetti, si hanno attività con Bergamo Scienza, successi del corso di informatica con EXPO, la gara di robotica che dà ai nostri alunni la possibilità di partecipare a quella che si effettuerà in Cina». Se potessimo riassumere questo…. marasma in un obiettivo primario che investa tutte le attività, quale termine sceglierebbe?. «Autonomia, del singolo nella sua vita, dei gruppi nella loro creatività. Le molte aperture della scuola consentono di raggiungerla». Riconosco in Chiara Pardi i sogni l’eco di un passato che ho vissuto con altrettanto amore. Le auguro di vedere realizzati i suoi sogni.
C
i sono sere in cui, dopo aver terminato l’allenamento sportivo ed aver partecipato alle varie assemblee studentesche, realizzi che i compiti sono troppi, troppo difficili e troppo lunghi--semplicemente troppo. Quelle sono le sere in cui ti si prospetta l’ipotesi di non dormire, perché, per essere onesti, all’NMH è largamente risaputo che è meglio fare la notte in bianco piuttosto che andare a lezione impreparato. Non c’è infatti studente i cui compiti non siano perfettamente immacolati, totalmente giusti, e, per farla breve, degni di lode. Lo standard di preparazione che gli insegnanti si aspettano crea indubbiamente un notevole livello d’ansia, ma niente panico: troverai sempre qualcuno volenteroso e pronto ad aiutarti. Che sia infatti un compagno di classe, il tuo compagno di stanza, un insegnante, il tuo “advisor” (consigliere), il capo del tuo dormitorio o qualunque altra persona, puoi stare certo che non sei da solo in questa battaglia. E’ infatti semplicemente ammirevole come l’educazione sia vista come una sfida collettiva: più che tra lo studente e i voti scolastici, si tratta di un duo vincente -tu studente ed il tuo insegnante. C’è poi un sostanzioso aiuto proveniente da tutte le persone che ti circondano, ma ciò che davvero meraviglia è il rapporto studenteinsegnante. Ricordo ancora la mia terza settimana di scuola, quando non mi era particolarmente chiaro un argomento di matematica; credevo che il mio insegnante mi avrebbe semplicemente rispiegato la lezione velocemente alla fine dell’ora, ma lui mi ha colto totalmente alla sprovvista con un “vieni a cena da me stasera e poi ristudiamo insieme”. Inutile dire che la situazione mi pareva piuttosto strana e molto imbarazzante, ma parlando con altri studenti ho realizzato che qui è semplicemente un fatto quotidiano. Alla fine, la cena non è stata per nulla imbarazzante: è
stato invece piacevole trascorrere una serata con il mio insegnante, sua moglie ed i figli, facendo parte di quell’ambiente familiare che ormai non vivevo da quasi un mese. Tutte le sere ci sono inoltre quelli che vengono definiti “Math Help”, “English Help” e “Science Help”: due o tre insegnanti a sera sono disponibili dalle otto alle dieci per rispiegare argomenti non compresi o
semplicemente aiutare con i compiti. Inoltre, studenti che eccellono particolarmente si offrono come tutors (sostanzialmente “danno ripetizioni”), un altro ausilio che risulta utile fin troppo spesso. E’ forse questa la ragione per cui studiare all’NMH viene visto come un gran privilegio e qualcosa di estremamente entusiasmante, piuttosto che come un’attività che sei obbligato a fare contro la tua volontà. Gli insegnanti sono inoltre coinvolti a trecentosessanta gradi nella vita degli studenti: il mio insegnante di psicologia è anche il capo del mio dormitorio, quello di inglese è il mio advisor, quello di economia il mio allenatore sportivo, e così via. E’ un’intricata ragnatela di relazioni che va molto oltre il classico rapporto studente-insegnante strettamente correlato alla classe, rendendo estremamente semplice sentirsi a proprio agio non solo durante le lezioni, ma anche e soprattutto durante il resto della giornata-semplicemente perché “To be a good student, you need to feel good”. Maggio 2015 - la nuova tribuna - 23
Rateizzabili fino a cinque anni
Treviglio/Assistenza Sociale
L’Amministratore di sostegno, chi è? di Carmen Taborelli
Una nuova tutela giuridica per situazioni di fragilità, una forma strutturalmente più snella e meno definitiva rispetto all’Interdizione e all’Inabilitazione. Ecco come richiedere l’incarico nell’ambito territoriale di Treviglio
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ià negli anni Ottanta, nei momenti di verifica all’interno di alcune esperienze di volontariato (in particolare presso il primo Centro di Ascolto Caritas di Treviglio), tra gli operatori emergeva forte la necessità di trovare una figura che potesse affiancare alcune persone in difficoltà: persone senza tutela, non in grado, anche soltanto per brevi periodi, di prendersi cura di sé, di far fronte alla quotidianità del vivere, o persone con figli non del tutto autonomi, angosciate dal “dopo di loro”. Con un po’ di approssimazione, allora si auspicava il ruolo di un accompagnatore. All’auspicio faceva però da contraltare la consapevolezza di quanto fosse difficile trovare capacità e disponibilità a ricoprire un ruolo così delicato. Noi operatori volontari ci eravamo anche spinti a ipotizzare una sorta di identikit di questo accompagnatore: una persona adulta, onesta, rispettosa, dotata di buon senso, in grado di valorizzare le capacità residue, una persona che dovesse, comunque, render conto del proprio operato a un non meglio precisato organo di controllo o di vigilanza. Quello che avevamo in mente era una forma di tutela strutturalmente più snella e meno definitiva rispetto all’Interdizione e all’Inabilitazione. Col passare degli anni e col progressivo aumento delle famiglie composte da una sola persona, molto spesso di età superiore ai 65 anni, si è fatta più urgente la necessità di dare risposte concrete a queste situazioni di fragilità. Una risposta istituzionale è arrivata dal Parlamento, che, forse anche recependo le sollecitazioni venute dal basso, ha istituito la figura dell’Amministratore di Sostegno (ADS) con la Legge n. 6 del 9 gennaio 2004. A livello locale, l’Ufficio di Piano dell’Ambito di Treviglio (di via Dalmazia 2), per conto dei diciotto Comuni del territorio (vedi box) e in collaborazione con l’Asl di Bergamo e con l’Azienda Ospedaliera locale, ha recepito l’interesse di alcune associazioni e realtà del terzo settore in merito alla tematica dell’ADS, sottoscrivendo, nel 2012, un Protocollo d’Intesa sulla Protezione Giuridica. Per fare il punto della situazione e soprattutto per conoscere meglio questa nuova forma di tutela giuridica, ecco una breve intervista rila-
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sciata da Rosangela Taverna, Assistente Sociale Referente dell’Ambito di Treviglio circa l’Amministrazione di Sostegno. Chi è l’Amministratore di Sostegno? «È una persona che, nominata dal Tribunale, affianca e sostiene la persona fragile che ha perso totalmente o anche parzialmente la propria autonomia, e l’aiuta nella gestione della quotidianità. L’ADS è nominato dal Giudice Tutelare con apposito Decreto, sulla base delle
indicazioni del beneficiario stesso o avvalendosi prima tra i parenti fino al 4° grado. Entra in carica solo dopo il giuramento e la nomina può essere a tempo determinato o indeterminato. Il suo ruolo è gratuito fatto salvo, laddove il patrimonio dell’amministrato lo consenta, l’eventuale rimborso delle spese sostenute, documentate e riconosciute dal Giudice. Va precisato che ogni ADS riceve un incarico specifico, secondo quanto viene esplicitato nel decreto di nomina; può avere infatti compiti di piena rap-
I 18 COMUNI
I diciotto Comuni, facenti parte dell’Ambito territoriale di Treviglio, sono: Arcene, Arzago d’Adda, Brignano Gera d’Adda, Calvenzano, Canonica d’Adda, Caravaggio, Casirate d’Adda, Castel Rozzone, Fara Gera d’Adda, Fornovo S. Giovanni, Lurano, Misano Gera d’Adda, Mozzanica, Pagazzano, Pognano, Pontirolo Nuovo, Spirano e Treviglio.
presentanza o di assistenza al beneficiario”. Chi può fare l’Amministratore di Sostegno? «Ogni persona maggiorenne, che gode della fiducia del beneficiario, ritenuta idonea dal Giudice Tutelare, al quale è tenuta a presentare una relazione all’inizio dell’incarico, relazioni e rendiconti periodici alle scadenze stabilite nel decreto di nomina e una relazione finale alla chiusura del mandato». A chi rivolgersi per avere ulteriori informazioni? «Per quanto riguarda l’ambito territoriale di Treviglio, si possono richiedere informazioni presso i Servizi Sociali del Comune di residenza, dell’Azienda Ospedaliera e gli sportelli delle associazioni che hanno aderito al Protocollo d’Intesa: Aiutiamoli, Anteas, Auser, CGIL e CIF. Sul sito internet di “Risorsa Sociale” è visibile e scaricabile la brochure degli sportelli con giornate e orari di apertura. Gli sportelli offrono informazioni, consulenza, sostegno nella compilazione del ricorso da depositare poi presso la cancelleria di Tribunale di Bergamo». Quale strategia state adottando per far conoscere meglio questo strumento di tutela così da favorirne la fruizione? «Oltre all’importante lavoro partito col progetto Liberi Legami e che si sta facendo da tempo con l’Ufficio Protezione Giuridica dell’Asl di Bergamo, e ai momenti informativi svolti negli scorsi anni, fondamentale sta diventano il supporto delle associazioni che hanno aderito al Protocollo d’Intesa. Queste partecipano periodicamente al tavolo sull’ADS presso il nostro Ambito e operano tramite degli sportelli territoriali sulla protezione giuridica. Si sta cercando di strutturare un gruppo di confronto e sostegno tra Amministratori di Sostegno e potenziali ADS con la presenza del Dr. Mauro Carrara, esperto circa la tematica della protezione giuridica. Tale gruppo si auspica che nel tempo riesca a strutturarsi. Proseguiranno momenti di sensibilizzazione al territorio tramite le associazioni. Sicuramente ad oggi l’aspetto di maggiore criticità è rappresentato dal fatto che non vi sono volontari disponibili a ricoprire il ruolo di ADS».
Sistemare vecchi condomini si può di Roberto Fabbrucci
Le banche hanno gli strumenti per finanziare a breve i condòmini che vogliono ristrutturare i vecchi condomìni o riqualificare quelli di inizio secolo, la stranezza che questo motore per il rilancio economico rimane una notizia per pochi
T
reviglio tra gli anni ’70 e ’80 è stata protagonista di uno dei fenomeni più clamorosi dell’edilizia cooperativa, rispondendo alla richiesta del mercato popolare con l’edificazione di migliaia di appartamenti. Facendo un bilancio di quel periodo si può affermare che generalmente gli edifici hanno avuto caratteristiche qualitative medio-alte, con risparmi economici tra il 25% e il 30% rispetto a quelli del libero mercato. Addirittura dalle cooperative è nata la prima sperimentazione d’isolamento termico e successivamente di bio-architettura, anticipando il mercato nazionale di una decina d’anni. Nonostante la qualità, dopo trenta o quarant’anni anche la buona edilizia ha necessità di manutenzione per sistemare gli intonaci delle facciate, migliorare la coibentazione, rifare i balconi, il lastricato solare o i tetti. Problemi importanti con costi importanti che possono aggirarsi tra i 5.000 e i 15.000 euro per appartamento, non sempre sopportabili da famiglie di operai e impiegati che oggi vivono di sola pensione, quindi poco propensi a mettere a disposizione parte dei magri risparmi. Eppure, come accennato nello scorso numero de “la nuova tribuna”, esiste la possibilità che questi interventi siano finanziati e rateizzati da un minimo di due anni fino a cinque, con tassi d’interessi minimi o addirittura zero. E’ facile intuire che un’operazione diffusa di questi finanziamenti a breve muoverebbe l’eco-
nomia locale rivalutando gli immobili. Due conti su mille appartamenti. Facendo una media di 7 mila euro per appartamento costruito tra il ’70 e l’80, arriviamo a un fatturato tra i 7 e i 10 milioni di euro. Non basta, perché gli appartamenti da manutenere sono molti di più, magari quelli più giovani costruiti senza applicare nuove tecnologie e materiali, quindi necessari d’interventi
Agostino Lombardi, ex presidente regionale dell’Anaci (Associazione Nazionali Amministratori Condominiali Italiani). Sotto una misurazione termografica per individuare le perdite termiche in un edificio male isolato
per farli rientrare nei parametri di qualità oggi richiesti. Insomma, stiamo parlando di decine di milioni di euro di lavoro, di rilancio dell’economia, eppure non esistono un partito, un’associazione, un gruppo di professionisti che si faccia carico del problema, unisca le persone e promuova informazioni utili al rilancio dell’economia locale. Agostino Lombardi, ex presidente regionale dell’Anaci (Associazione Nazionali Amministratori Condominiali Italiani), concorda, anche se il tema si scontra conto l’abulia generale. «Certo, un dibattito sul tema e una sensibilizzazione generale aiuterebbe, anche perché la mancanza di disponibilità economica potrebbe essere superata grazie ad una rateazione». Il vantaggio è evidente, di fronte ad un esborso di 1000/2000 euro al mese per un semestre, pagare 100/200 euro al mese per alcuni anni, fa la differenza. Lombardi concorda con le nostre riflessioni, sottolineando però che il vero problema sono gli edifici d’inizio secolo. “Sono inquilini oggi nel pieno del pagamento del mutuo, che abitano in appartamenti che avrebbero bisogno di essere adeguati alla normativa. Qui il problema, com’è evidente, è ancora più grande, perché aggiungere 200 o 300 euro a un mutuo di 700/100 euro non è un problema da poco in tempi di crisi”. Quali gli adeguamenti richiesti? «Adeguamento degli impianti elettrici, del metano, spesso fuori norma, adeguarsi alle prescrizioni dei Vigili del Fuoco riguardo alla nuova normativa. Poi, come dicevamo, alzare il livello di risparmio energetico». Certamente, così come per il rilancio delle imprese, la disponibilità di liquidità, ovvero dei finanziamenti a breve e medio termine sono indispensabili. Forse è necessario che qualcuno si faccia carico di discuterne e promuovere la conoscenza degli strumenti che le banche iniziano ad avere a disposizione. Noi ci proviamo, ma il resto della comunità locale dove è? Maggio 2015 - la nuova tribuna - 25
Associazioni/Un piccolo Club noto nel Mondo
Associazioni/Concorsi letterari
Mulitsch, l’eroe antipolio trevigliese
Malala si chiede: “Si può ancora amare l’Italia?”
a cura di Franco Pellaschiar (*)
Poliomelite e vaccinazione
L
a poliomielite è una malattia contagiosa, infettiva, di natura virale, in genere a carattere epidemico, che colpisce elettivamente la sostanza grigia del midollo spinale (Malattia di HeineMedin). Aggredisce prevalentemente i bambini nella prima infanzia, più raramente i giovani e gli adulti, provocando paralisi più o meno estese a carico dei muscoli corrispondenti alla regione colpita. (Da cui anche la denominazione di paralisi infantile). Con l’applicazione profilattica della vaccinazione “antipolio” la malattia ha segnato un rapidissimo regresso nei paesi a elevati standard igienici, mantenendo però percentuali molto elevate nei paesi in via di sviluppo. Nel 1988, quando la WHO con il Rotary International, ha lanciato il Global Polio Eradication Initiative (GPEI), la poliomielite era endemica in 125 paesi e paralizzava circa 1.000 bambini al giorno. Da quel momento l’incidenza di poliomielite è diminuita di oltre il 99% attraverso gli sforzi di immunizzazione che hanno raggiunto circa 2,5 miliardi di bambini, arrivando nel 2010 a situazioni endemiche in solo 4 paesi. La campagna per la vaccinazione mondiale infantile è al lavoro perché il virus debilitante venga fermato anche in Pakistan, Afganistan e Nigeria.
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Noi, con questa rivista che mette in risalto le eccellenze, crediamo di sì. Ma non siamo gli unici. Un concorso letterario ce lo conferma.
La campagna mondiale che ha debellato la poliomielite e salvato 1,5 miliardi bambini nel mondo, partì nel 1979 da Sergio Mulitsch e dal Rotary Club di Treviglio e Pianura, coinvolgendo Albert Sabin che rinunciò alle royalty
E
’ opportuno iniziare con la presentazione di alcune note storiche per raccontare come è nata la prima campagna Antipolio nelle Filippine, avviata dal Rotary nel 1979, su iniziativa di Sergio Mulitsch e del club di Treviglio e della Pianura Bergamasca, di cui Mulisch fu il socio fondatore. E’ una “storia” che abbiamo ricostruito su documenti originali d’archivio, anche per rendere un giusto riconoscimento e merito a quanti hanno avviato e reso operativo questo straordinario “service” rotariano. Ricordiamo che, nel corso dei propri meeting alla fine del 1978, il board del Rotary Internazionale discusse e varò il progetto di una massiccia campagna sanitaria di immunizzazione in un grande paese in via di sviluppo, con l’obiettivo di farne il primo maggiore progetto internazionale nell’ambito del programma “3H”, e divulgò le linee-guida per la sua attivazione e conduzione. Una premessa doverosa Circolano informazioni e dati piuttosto nebulosi, quanto imprecisi, sull’origine storica del Programma “Polio-Plus” e sul ruolo svoltovi all’inizio da Sergio Mulitsch e dal Rotary di Treviglio e della Pianura Bergamasca. Accennavo al Programma “3H”, nel 1978 proposto e adottato dal Rotary Internazionale, un importante progetto per l’immunizzazione contro diverse patologie e malattie infettive, progetto da attivare su larga scala nei paesi in via di sviluppo. Mancava però il riferimento documentato su dove, come, quando e da chi fosse partita l’iniziativa per mettere a punto la prima fase operativa concretatasi, nel febbraio 1980, con l’invio da Roma-Fiumicino delle prime 500.000 dosi di vaccino Sabin contro la poliomielite destinate ai bambini delle Filippine. Forse è venuto il momento di riparlare dell’Italian Vaccine Programme e di un piccolo Rotary Club di provincia, da poco costituito, che ne fece il suo primo “service”, aderendo con entusiasmo alla proposta del suo Socio Fondatore Sergio Mulitsch di Palmenberg. Con tempismo, con coraggio e con generosa coerenza rotariana, uniti a lungimiranza ed efficienza imprenditoriale, Sergio Mulitsch si adoperò per studiare la fattibilità ed affrontare le modalità di attivazione di un progetto dalle indubbie difficoltà tecniche, economiche e or-
ganizzative. Imponente fu il lavoro affrontato per verificare e confermare la promozione di questa grande iniziativa umanitaria; infatti si trattava non solo di lanciare una campagna per la raccolta di fondi, bensì di attivarsi per esaminare e predisporre tutte le complesse fasi operative del progetto. La documentazione del nostro archivio I documenti in archivio illustrano la serrata attività impostata da Sergio Mulitsch: i contatti scientifici con Albert Sabin, con le Università e l’Istituto Sieroterapico Sclavo, l’approntamento di imballaggi idonei, con le valutazioni di affidabilità per la conservazione a bassa temperatura dei vaccini confezionati, inoltre l’accertata tempestività della spedizione e dei trasporti fino alle aree di utilizzo e quindi i contatti e l’organizzazione nelle aree previste per la capillare somministrazione (aree non certo dotate di infrastrutture e di sistemi avanzati di assistenza). Naturalmente Mulitsch mantiene una fitta corrispondenza con John Stucky, coordinatore del Programma “3H”, e con l’Italian Vaccine Programme elabora per Evanston i criteri operativi, un documento che la dice lunga sulle capacità manageriali e organizzative del nostro Mulitsch. La sfida è lanciata e Mulitsch la comunica “Il Rotary Internazionale ci ha richiesto almeno un primo milione di dosi di vaccini “antipolio” da inviare nelle Filippine ove, come è noto, è in corso da alcuni mesi una importan-
Rotary in marcia il 17 Maggio
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l Rotary di Treviglio, nato da un rotariano speciale che ha saputo coinvolgere nei primi passi un piccolo club della pianura lombarda, la Poplioplus ha trascinato nell’immensa e meravigliosa avventura tutti i Club rotariani del mondo e quest’anno, ricordando Sergio Mulitsch, domenica 17 maggio si svolgerà la V Marcia con partenza alle ore 8,00, dalla Geromina. Vedrà presente anche una nutrita delegazione del Rotary di Gorizia, in cui milita Paolo Mulitsch (nella foto), nipote di Sergio. Fra i due club, bergamasco e goriziano, si sta intanto consolidando una
C Sergio Mulitsch, a sinistra, con Albert Sabin
te campagna di immunizzazione di neonati e adolescenti, contro diverse malattie epidemiche. Il programma “poliomielite”, fino ad oggi non applicato in quel Paese per mancanza di fondi, sarà avviato a partire dal 1980 per merito di un’iniziativa assunta congiuntamente dal Rotary Internazionale e dalla Organizzazione Mondiale della Sanità”. Il primo “Service” del Rotary Club di Treviglio è il calcio d’inizio della grande sfida contro la poliomielite; nel 1979 il Club diventa operativo e fornisce il proprio supporto organizzativo al R.I. con una tempestività ed efficienza che gli sarà giustamente riconosciuta da Evanston e dal Governatore del Rotary Filippino. Durante un’intervista Albert Sabin dichiarò: “…sono a conoscenza di quanto il Rotary ha fatto per la poliomielite e so che voi in Italia siete stati all’avanguardia tra i Rotary di tutto il Mondo nell’avviare l’azione contro questo terribile flagello”. (*) Rotary Club di Treviglio e Pianura Bergamasca forte sinergia e una particolare amicizia, che potrebbe presto sfociare in gemellaggio ufficiale, prendendo le mosse anche dalla presentazione che verrà fatta, la domenica della Marcia, del romanzo sulla Grande Guerra, edito in occasione del Salone Internazionale del Libro di Torino, e scritto dal rotariano trevigliese Marco Carminati, con lo scenario della due Basse: quella bergamasca e quella friulana. Un ulteriore tassello del mosaico di sinergie rotariane, che messe a profitto, sanno trasformarsi in risultati fertili per differenti comunità, affratellate dai medesimi ideali umanitari.
’è un buon motivo per amare l’Italia? Ce ne sono dieci, anzi mille, visto l’entusiasmo con cui molti aspiranti scrittori hanno risposto al tema lanciato dall’associazione culturale Malala, con il secondo Concorso Letterario Internazionale Città di Treviglio che proponeva, forse anche provocatoriamente, di trovare “Uno, dieci, mille buoni motivi per amare l’Italia”. In molti hanno partecipato, sia per la sezione Racconti che per quella di Poesia, e qualche premio è andato anche all’estero. La cerimonia di premiazione si è svolta lo scorso 11 aprile presso l’Auditorium della Biblioteca, alla presenza delle autorità cittadine e naturalmente dei vincitori. “Le opere che hanno partecipato hanno rappresentato uno spaccato di come gli altri ci vedono” dice Elio Massimino, presidente dell’associazione, “dove gli altri sono sì coloro che hanno voluto raccontare come hanno conosciuto e amato l’Italia, ma siamo anche noi stessi, come ci percepiamo all’interno della nostra società, con tutte le nostre contraddizioni”. E infatti, se il secondo premio è andato a un argentino, Alberto Porta Carballo di Buenos Aires, che ha scoperto l’Italia e la sua splendida lingua grazie alla sezione della Dante Alighieri in quel di Buenos Aires; e se il terzo posto è finito nelle mani di un israeliano di Tel Aviv, Daniele Minun, che ha conosciuto l’Italia per motivi di lavoro, il primo premio si è confermato saldamente in mano a un italiano, anzi un’italiana, Barbara Canneti di Ferrara; segno che, nonostante tutto, non abbiamo ancora smesso di amarla, questa nostra terra, tanto spesso maltrattata nelle parole e nei fatti. “Nel complesso emerge un’immagine migliore del Paese di quanto noi stessi ci raccontiamo” conferma Massimino “quando ci troviamo a praticare il nostro sport nazionale, che non è il calcio, ma l’autodenigrazione”. Molto interessante e partecipata anche la visione, un po’ disincantata ma non priva di speranza, dei nostri giovani, nella sezione a loro dedicata. Brillante la vittoria di una studentessa trevigliese nella sezione Poesia,
Margherita Bonalumi del Simone Weil. “La scuola, quindi la cultura, sono una costante nelle opere che abbiamo ricevuto”, ci dice ancora il presidente, “il riscatto della bambina povera grazie alle nostre scuole (vedi il racconto della vincitrice, ndr) è la metafora, io credo, che indica nella Scuola e nella Cultura la via della ripresa economica e morale del nostro Paese”. (d. i.)
Nella foto, Malala Yousafazi, il premio nobel per la Pace che ha dato il nome all’associazione. Sotto Barbara Canneti, autrice del racconto vincitore del primo premio. Dopo la premiazione ha fatto un giretto in centro accompagnata dal sindaco, che le ha fatto da cicerone.
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Treviglio/Nuovi media
Personaggi/Luigi Marini
di Giorgio Valiati
di Ivan Scelsa
La costanza di Emy premia Treviglio tv
Marini, precursore dei containers
Emy Zanenga dopo un rodaggio di pochi anni ha sfondato con Treviglio.tv, un sito online sempre aggiornato con le notizie locali corredate da fotografie, testi e moltissimi video. Un successo turbato dal’aggressione del 25 Aprile
E
my Zanenga è il più presente tra i reporter di Treviglio e Gera d’Adda, c’è sempre e i suoi resoconti video finiscono sulla rete in quattro e quattr’otto. È pur vero che la tecnologia aiuta, grazie alle telecamerine digitali, se non addirittura ai telefonini che ti fanno caricare anche i video sul web, ma dietro ci vuole tempo (tantissimo), cultura tecnica (video, informatica, comunicazione) e collaboratori. Esperienze che hanno permesso a Emy, almeno in parte, di coprire il vuoto lasciato da Studio Uno, la presentissima emittente rilevata nel 2009 dal cavalier Giovanni Arvedi, già presidente della Cremonese Calcio, perdendosi tra le centinaia di tv generaliste e inutili. Emy Zanenga era un seguace e un ammiratore di Gianluigi Como, quindi dell’emittente trevigliese, così quando si è creato il vuoto, ha pensato di coprirlo con un Web Tv, sogno nel cassetto da tempo. Infatti, è da dodici anni che colleziona domini internet, tra cui “Treviglio. Tv”. Sogno che si è realizzato nel 2012 e che continua a svilupparsi, frutto dell’impegno quotidiano e di una storia alle spalle, sconosciuta anche a chi pensava di essere informato su questo ragazzo silenzioso e garbato. Frequenta l’università per acquisire un diploma di “Tecnologo Audiovisivo”, se ne va a Londra due mesi per fare un tirocinio, così capirne di più e preparare la sua tesina. Quintornare a casa, presentarla ai suoi docenti e diplomarsi. Appna diplomato sente però la nostalgia del lavoro che stava svolgendo a Londra, così ritorna e approfondisce i suoi temi, aiutandosi economicamente lavorando di notte in un Pub. Quando torna, nel 2004, è pronto per un’agenzia di produzione milanese che ha come clienti varie emittenti, tra cui MTV, per cui realizza spot, brevi video, insomma materiale per tv di qualità alta. Il ragazzo entra in punta di piedi, fa un po’ di tutto, fino a produrre video in totale autonomia, insomma, pensa di aver trovato il posto giusto. Se non fosse per la crisi che nel 2007 abbatte il fatturato e costringe l’agenzia alla chiusura . Emy si guarda in giro e scopre che l’Atalanta ha bisogno di lui. Infatti, viene assunto e per due anni produce video sportivi e spot, fino alla malattia di Ivan Ruggeri, quindi all’arrivo della nuova proprietà che smantella tutta l’or-
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Luigi Marini era un geniale e appassionato imprenditore del sistema dei trasporti. Coinvolto dalle Ferrovie dello Stato per risolvere il problema del passaggio delle merci dai mezzi su gomma a quelli su rotaia, inventò il nuovo sistema
Sopra a destra Emy Zanenga accanto a Antony Perrin, il Londinese manager dell’agenzia di Data Analysis presso il quale ha svolto l’internship per l’Università. A sinistra Emy con il gruppo Zeling che si è esibito a Treviglio
ganizzazione d’appoggio alla squadra orobica, lasciando giusto il custode e il commercialista. Continua a produrre video privatamente per clienti vecchi e nuovi, poi nel 2012 il salto nel buio, apre un blog e lo chiama, ovviamente, “Treviglio.tv”, ma non ci sono solo video, anche foto e testi, in modo d’essere sempre sulla notizia. È supportato da alcuni amici come Davide Faccà, Federica Filippini, Virginio Monzio Compagnoni (per la storia), e Pierbruno Cortesi, uno dei collabratori più presenti che
Prestigiosi i “Media Partner” di Treviglio.tv Treviglio.tv é Media Partner Comune di Treviglio, Pro Loco Treviglio, Treviglio Vintage, Premio Città di Treviglio, Treviglio in Rosa, In Chiostro (Rassegna letteraria), Assessorato alla Cultura, Salone Salute Benessere, Mini Cooper Test Drive 2014, ha realizzato il video del primo Test Drive di una auto sulla Bre. Be.Mi con la nuova Mazda 3 per Mazda Europa. Sponsor Organizzatore di Zelig in piazza a Treviglio, Shopping sotto le stelle, inoltre media partner della partita di Calcio Italia-Portogallo (A5), e di Italia-Giappone, trofeo Qcom.
però all’improvviso lo abbandona per andare a produrre mozzarelle nel Burundi, questo perché convinto da un imprenditore di Arcene. Attualmente ha una serie di collaboratori, tra cui Niall Ferri (trevigliese), il più impegnato. Raggiungiamo Emy Zanenga al telefono, è ancora scosso dal pestaggio subito da squadristi della sinistra antagonista la sera del 25 Aprile, questo per aver fatto il suo lavoro di reporter, cioè aver ripreso dall’inizio alla fine gli scalmanati e aver pubblicato il resoconto video-sonoro e foto. Video e immagini poi trasferite in centinaia di pagine web, quindi rese disponibili a decine di migliaia di persone: su Facebbook, twiter e dai quotidiani provinciali nelle edizioni online. Emy glissa, «se ne è parlato troppo, io facevo il mio lavoro». Preferisce prendere come esempio l’effetto domino della notizia, il fatto di essere presenti e saper girare testi, immagini video nei posti giusti, nei gruppi di Facebook e Twitter, per esempio. Chiediamo quale area di presenza si è data la redazione di Treviglio.tv. «Diciamo una ventina di chilometri, ma quando riguardano persone o eventi che riguardano Treviglio e la Gera d’Adda». Il reporter ha fretta, c’è una conferenza stampa da seguire e poi un consiglio comunale in serata, sempre che una notizia di nera non lo costringa ad arrivare sul posto: un’incidente, un furto, una rapina. In effetti la forza di Emy e di Treviglio.tv è la presenza, un po’ come la pasta Barilla, dove c’è Emy c’è una notizia fresca di casa nostra. Anche sulla pagina web del Comune, dove è presente un link per raggiungere la pagina della web.tv.
L
e ‘Casse Mobili’ per i trasporti combinati treno-auto risalgono al 1928, quando le Ferrovie dello Stato ritennero opportuno istituire un’apposita società con la partecipazione di alcune categorie interessate, designando a presiederla il Sen. Silvio Crespi. Questi coinvolse Luigi Marini, uno dei più grandi esperti del settore dell’epoca, che in breve trasformò l’idea in progetto e lo realizzò. In parole povere inventò i container, allora denominati “casse mobili”. Scriveva lo stesso Luigi Marini nel libricino con cui celebrò il 50° di attività: «I concetti pratici ed economici che mi hanno permesso di realizzare il coordinamento ‘Strada-Rotaia’ col sistema ‘Fer-Aut’, rappresentano la catena razionale per risolvere congiuntamente l’insieme dei problemi di tutti i settori dell’esercizio ferroviario italiano relativi al servizio trasporto merci, al fine di raggiungere il ridimensionamento qualitativo e quantitativo con l’adeguamento dei costi per l’economicità necessaria all’interesse dell’utente e dell’economia in generale». Ovvero Marini rappresenta quell’Italia operosa, fatta di piccoli artigiani, quell’Italia capace di trovare sempre una soluzione a ogni problema. Ed è grazie a questi uomini che negli anni Ottanta eravamo la terza potenza industrializzata del mondo. Siamo nel pieno della ricostruzione avviata
negli anni Cinquanta e Marini mette a punto la realizzazione di alcuni contenitori speciali che possono essere utilizzati per immagazzinare la merce da trasportare, con particolare riferimento ai liquidi. Ovvero, non piccoli serbatoi, ma uno di alta capacità volumetrica da poter essere trasportato su di un intero vagone. Il combinato “FER-AUT” rende versatili questi contenitori, in questo modo utilizzabili sia per trasporto ferroviario che su strada. Questo adattando i telai ferroviari di vecchi carri che dovevano essere riparati e ammodernati, in modo che la parte superiore potesse essere collocata sui rimorchi stradali in uso dei trasportatori. Un’idea ingegnosa e brillante realizzata senza l’investimento di grossi capitali. La base dei contenitori è costituta da una struttura portante che forma un monoblocco composto da due longherine e l’impianto ha una potenza di circa 120 tonnellate, praticamente tre volte superiore alle effettive necessità. Il movimento di sollevamento della struttura avviene con manovre semplici e senza rischio, compatibili con sistemi di trasporto combinato. Punti di forza dell’impianto, sono le otto intelaiature che hanno incorporati altrettanti martinetti disposti in fregio ad un binario a raso e la possibilità di scambio contemporaneo di due contenitori, dal rimorchio ferroviario a quello stradale e viceversa. Il tutto azionato da una centralina che muove l’impianto di solle-
Il Cav. Luigi Marini
vamento e abbassamento dei contenitori attraverso due motori che possono essere utilizzati contemporaneamente e indipendentemente l’uno dall’altro. Non mancava un dinamometro idrostatico per consentire di pesare i container velocemente. Ogni impianto per il “Fer-Aut” era in grado di effettuare il trasbordo impegnativi in poche ore e col solo impiego di due addetti, con risparmi enormi. Altro aspetto da non sottovalutare è il maggior equilibrio nella tempistica di utilizzo dei binari, la cui naturale conseguenza è il miglioramento del sistema, con un’ottimizzazione dei percorsi a vuoto effettuati sulla rete. In buona sostanza una soluzione di flessibilità, rapidità, sicurezza ed economia, che già nel 1954 è presentata anche alla Commissione Economica Europea di Ginevra, la quale auspica la realizzazione di grandi contenitori per il trasporto combinato che possano imprimere un cambiamento di rotta nella gestione dei trasporti.
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Personaggi/Giuseppe Carioli
di Lucietta Zanda
Giuseppe Carioli iniziò l’attività dopo la guerra, poi il dna del commercio delle calzature è passato a quasi tutti i figli. La storia intraprendente di un trevigliese che si fece promotore di un consorzio di negozi a livello nazionale
S
e si potesse accompagnare con una colonna sonora la storia dei Carioli nell’ambito dei vecchi negozi di Treviglio, senz’altro sarebbe “These boots are made for walking”, ovvero «questi stivali sono fatti per camminare» - rivisitata in “These shoes are made for walking”, il vecchio motivo americano cantato negli anni ‘70 da Nancy Sinatra. Infatti il negozio KAMMI nasce proprio in quei mitici anni, ma da molto prima di allora le calzature Carioli segnano il cammino di noi trevigliesi Incontro Luca Carioli –il titolare del negozio- nell’ampio spazio di via XXV Aprile. Svelto e agile nei movimenti, mi ricorda molto il suo papà –Giuseppe- quando da ragazza andavo nel vecchio negozio di Via Verga e in un attimo, con grande destrezza, riusciva a liberare dalle scatole un considerevole campionario di belle scarpe da provare. Stefano -che spesso vedevo in negozio ad aiutare- fratello di Luca e mio carissimo vecchio compagno di scuola, non c’è. Unico dei quattro figli a non aver ereditato il cromosoma calzaturiero. Detta così, sembrerebbe il fratello un po’ degenere della nidiata, ma del resto, conviene Luca con benevolenza: «Oh beh, lui è in pensione figurati, fa bene a godersi la vita diversamente, anche se devo dire, ha lavorato sempre con noi quando il suo lavoro glielo permetteva e c’è stato bisogno» Sì, convengo subito che andare per Canarie ogni tanto potrebbe essere, per qualche
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stravagante motivo, di maggior soddisfazione che stare otto ore al chiuso! Luca mi spiega che papà Giuseppe –scomparso nel 2005- apre il primo negozio di calzature in Via Verga dopo essere tornato dalla guerra. Partito come volontario per l’Albania nel ’39, scappa nel ’43 dopo l’8 Settembre e si rifugia a Roma. Tornato a casa, completa l’apprendistato iniziato prima del fronte presso il cognato Bordoni, che aveva un negozio di scarpe molto classiche in Via San Martino. Decide quindi di mettersi in proprio. Dotato di grande spirito imprenditoriale, uomo fra le tante figure di valore che hanno costruito l’Italia del dopoguerra, ha in mente però qualcosa di diverso per il suo punto vendita. Lo vuole di fascia medio alta, con calzature di ottima fattura e qualità dei più prestigiosi marchi di allora: Rossetti, Magli, Attica. E infatti per anni il negozio Carioli è stato veramente l’unico a Treviglio dove rivolgersi se cercavi una scarpa particolare, elegante o sportiva che fosse, certi di trovarla. I prezzi erano un poco più alti di quelli degli altri negozi ma la classe delle calzature giustificava ampiamente l’indovinata scelta commerciale di Giuseppe. Si sposa con Luigia –Gina- che nel frattempo metterà al mondo quattro figli, e vanno a stare sopra il negozio; questo permetterà alla coppia di collaborare insieme nell’attività e contemporaneamente seguire la famiglia. Darà loro una mano la sorella Maria e soprattutto l’onnipresente Rina
Fotografie di Enrico Appiani
Faceva camminare anche le grandi idee
Arti & Mestieri/Profumeria Pozzi
Manenti, assunta inizialmente e già così responsabile a dodici anni da poter farle fare “tata” per Stefano, il primo dei quattro fratelli. In realtà Rina assume, alla bisogna, anche il ruolo di commessa in negozio e gode di così tanta fiducia da diventarne presto anche direttrice, quando nel ’70 Giuseppe apre in via XXV Aprile il nuovo show-room. Lo chiama dapprima “Centro Moda Calzature” e poi “KAMMI”, nome spiccio, al passo coi tempi che sono ormai in continua evoluzione. Giuseppe aveva nel frattempo aperto altri due esercizi commerciali, uno in Via Verga per strapparlo con abilità ad un probabile concorrente, e l’altro a Ponte Chiasso. Sempre in ebollizione, la sua mente lo spinge, a ridosso degli anni’60, a creare un gruppo di acquisto di pelletterie, prendendo spunto da un’altra cooperativa, di generi alimentari, sorta poco prima, la SADRO. L’idea è luminosa e molto avanti; cerca gli aderenti non certo tra i concorrenziali negozi di Treviglio ma tra gli esercenti di Milano. Li ritiene più aperti rispetto la mentalità corrente della provincia bergamasca e al passo coi tempi per quanto riguardava le politiche commerciali e le nuove prospettive di mercato. Ed ecco così prendere forma KAMMI, una grande cooperativa la cui formula di gestione lascia -rispetto le catene di franchising- una certa autonomia di margine agli iscritti sia nei quantitativi degli ordini, che nella scelta del campionario, che nella gestione dell’attività. I marchi che rappresenta sono tutti italiani e, proprio grazie alla cooperazione e alla sinergia del gruppo, i prezzi sono sempre molto contenuti e adeguati alla buona qualità delle calzature destinate ai consumatori della fascia media. Luca raggiunge papà nella conduzione del negozio agli inizi degli anni ’80, dopo l’ITIS e il militare. A lui, come agli altri tre fratelli, i genitori hanno passato valori fondamentali indispensabili per la vita e la professione: volontà, rispetto per il lavoro, per la gente e soprattutto l’obbligo morale di pagare sempre i fornitori. Con questi ferrei dogmi, Luca approda in negozio affiancando il padre fino all’87 anno in cui Giuseppe aprirà altri punti vendita KAMMI: a Crema con la figlia Anna e a Bergamo con l’altro figlio Marco. Lascia comunque intelligentemente piena autonomia gestionale ai figli pur assistendoli andando da un negozio all’altro con la sua grande esperienza. Fino alla
Sopra da sinistra: il pittore Giulio Carminati, dietro il piccolo Stefano, figlio di Giuseppe Carioli, quindi sua cugina Marisa Bellomo accanto allo zio Giuseppe. A sinistra due scatti dello stesso Carioli con Davide Cefis e un amico
fine dei suoi giorni. Chiedo a Luca in cosa si sente differente dal padre pur avendo da lui ereditato la stessa brillantezza intellettuale e la lungimiranza alle grosse prospettive future. «Effettivamente mi sento più pratico e più concreto, nel senso che sono più abile a razionalizzare rispetto papà che a volte si lanciava in progetti anche rischiosi. Quelli erano comunque anni che ti permettevano di sbagliare perché dagli errori ci si poteva riprendere essendo quella l’Italia del boom economico, quando bastava lavorare sodo senza grossi impieghi di capitale per riuscire. Oggi non puoi permetterti di sbagliare, già così oppressi da misure e provvedimenti fiscali vessatori di ogni tipo e da spese così alte. La concretezza è essenziale». Chiedo inoltre in cosa è cambiata la sua attività rispetto una volta. «Fino a 15 anni fa c’era più margine di guadagno per la minore pressione fiscale, ma soprattutto il consumismo non era così alto. E’ cambiato proprio il modo di essere perché c’erano meno esigenze, non c’erano le vacanze all’Estero se non per pochi fortunati, cellulari e macchine per ogni componente familiare, le frequentazioni obbligatorie delle happy hour e delle discoteche, potevi lasciare la moglie a casa a crescere i figli. Insomma vi era più potere di acquisto per le altre spese. La clientela oggi è molto più esigente, proprio perché i soldi sono misurati, pretende il massimo a poco prezzo, e l’acquisto non è più emozionale ma solo ben ponderato». Come sempre in chiusura del colloquio mi piace chiedere se vi siano nuovi progetti per il futuro, ed effettivamente Luca ha appena aperto in Via Roma un nuovo shop di calzature gestito dalla moglie Gabriella e chissà, ...forse la prossima collaborazione con la figlia maggiore, probabile portatrice dello stesso familiare cromosoma calzaturiero. Sembra incredibile, ma da quella geniale idea di papà Carioli negli anni ’60, sono nate in Italia, Belgio e Svizzera, ben altri centocinquanta negozi KAMMI, e altri ne nasceranno ancora, accompagnando i passi di noi italiani.
Un piccolo tempio della bellezza
G
ià affacciandosi alle vetrine si coglie l’atmosfera che permea questo storico negozio della via Verga, un’aria leggera di profumi ed essenze che accoglie oltre la soglia dove l’esposizione curata dei preziosi flaconi di profumo si intercala ai cosmetici più innovativi. Augusta Milesi (nella foto), proprietaria della Profumeria Pozzi, ci viene incontro con incedere elegante e sorridendo ci racconta un pezzetto di storia della sua famiglia e in particolare ciò che ha riguardato quest’angolo di una delle vie commerciali più antiche di Treviglio. “Nel 1958 -ci dice la signora Augusta- la mia mamma, Liliana Pozzi, era alla ricerca di una libreria/cartoleria da acquistare, quando un mediatore suo amico le propose la profumeria di via Verga, non esitò a lungo e accolse con entusiasmo questa nuova sfida. I locali a quel tempo erano piuttosto trascurati e privi di alcun fascino, ma senza perdersi d’animo e lavorando con serietà, in pochi anni riuscì a trasformare quest’antica bottega nello stato attuale. L’arredamento commissionato allora ad un bravo artigiano trevigliese è -con qualche piccola integrazione- quello originale , così pure ci teniamo a mantenere inalterati gli ambienti come erano stati pensati all’inizio della nostra attività, questo per creare l’armonia e la tranquillità con le quali vogliamo circondare le nostre clienti”. Un’atmosfera sofisticata ma nel contempo semplice, che indica l’attenzione con la quale la proprietaria sceglie i prodotti da proporre in vendita, tenendo in gran conto la qualità, frutto di ricerca innovativa ma anche del rispetto della tradizione. Essere cresciuta “tra casa e bottega” ha certamente aiutato
la signora Augusta a sviluppare un gusto innato e un istinto formidabile a muoversi con sicurezza tra essenze e texture, così ricorda : “ho mosso i miei primi passi nel negozio di famiglia, quando molti famosi essenzieri erano italiani e con alcuni di essi ho avuto il privilegio di collaborare, anche con grandi soddisfazioni personali”. A tal proposito ci mostra una foto del 1971 che la ritrae in compagnia della signora Estée Lauder, fondatrice con il marito di una delle più importante case produttrici di cosmetici. Aggiunge la signora Augusta, senza alcuna affettazione, che proprio la signora Estée, colpita dal trucco che le abbelliva il giovane viso, le chiese di poterlo copiare.
In alto uno scorcio della Profumeria Pozzi in via Verga, sopra la signora Augusta Milesi Pozzi
Trascorsi pochi minuti dentro questo piccolo tempio della bellezza femminile di via Verga, si ricava l’impressione che ogni donna può essere bella e piacersi, prima ancora che piacere, dedicandosi piccole attenzioni ma soprattutto scegliendo con cura ciò che esalta la personalità di ognuna, e possibilmente con una guida esperta e sicura come Augusta. Maggio 2015 - la nuova tribuna - 31
Treviglio/Idee per la sicurezza
Treviglio/Ai confini della realtà
Se la burocrazia va in cortocircuito di Daniela Invernizzi
Nel mondo chi rigenera cartucce e toner viene incentivato perchè aiuta l’ambiente ed elimina sprechi, nella provincia di Bergamo, invece, gli Eco Store sono equiparati a una “discarica”. Sembrerebbe uno scherzo, invece è folle realtà
S
ono stati dei pionieri e probabilmente hanno ragione. Perché un negozio così, dieci anni or sono, a Treviglio non esisteva. Stiamo parlando di Eco Store a Treviglio, negozio di cartucce e toner ma non solo, facente parte di una catena che vanta ben 330 punti vendita in tutta Italia. Il negozio di viale Partigiano è stato destinatario, insieme agli altri punti vendita della bergamasca, di un provvedimento della Provincia, vicenda che non si è ancora conclusa (vedi box). Ma andiamo con ordine, perché Massimo Barbadoro e la moglie Rossella Roncarati hanno voglia di parlare soprattutto della loro attività, aperta nel 2004 a Treviglio. «Siamo stati i primi nella rigenerazione di cartucce e toner -ci racconta Rossella Roncarati- a Treviglio non c’era un negozio specifico per questi prodotti. C’è voluto un anno per farci conoscere, anche perché undici anni fa il concetto di ricarica della cartuccia era ancora sconosciuto ai più, o meglio, ci abbiamo messo un po’ per far capire che le cartucce rigenerate erano valide e non davano problemi. Tutti volevano le originali. Ma dopo aver provato, ritornavano e poco a poco il servizio ha preso piede. Adesso invece le cose sono cambiate. In periodo di crisi vogliono tutti la rigenerata per risparmiare». Riciclo è sinonimo di risparmio e tutela dell’ambiente. Perché allora vi hanno fatto la guerra? «Perché dicono che sui toner facciamo smaltimento, praticamente una funzione di discarica, per svolgere la quale è necessaria un’autorizzazione, ma non è così. Se la cartuccia non può essere ricaricata, noi la restituiamo al cliente (che la deve smaltire a norma di legge, cioè portarla in discarica). Se invece è ricaricabile, noi la teniamo (tenevamo) negli ecobox (semplici contenitori di cartone) in attesa di mandarla alla Casa Madre per la ricarica. Ma la Provincia è intervenuta sostenendo che potevamo recuperare solo quello che si può ricaricare qui sul posto (in pratica solo le cartucce a testina), mentre tutto il resto, che deve essere necessariamente “raccolto” per essere mandato
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altrove per la ricarica, non possiamo farlo, perché faremmo funzione di discarica, seppur temporanea. La beffa, oltre al danno, è che ora dobbiamo dire ai nostri clienti che non possiamo più ricaricare le loro cartucce e toner, cha pertanto devono essere portate in discarica. Niente risparmio per il cliente, e danno all’ambiente». Tenere qui l’ecobox poteva essere dannoso per l’ambiente? «Niente affatto, è solo una questione di au-
te invece la cartuccia finisce nel sacco nero». «La cosa assurda -interviene il titolare Massimo Barbadoro- è che basta spostarsi di provincia e tutto funziona regolarmente. Quelli che non possono ritirare i vuoti non ricaricabili on shop ( e non lavorare) sono solo i punti vendita della bergamasca. Certo, i negozi concorrenti potrebbero avere la famosa autorizzazione, ma ci sembra strano. Comunque attendiamo fiduciosi la decisione del Tar».
E’ stata una denuncia della concorrenza ad attivare il blocco
torizzazioni (ottenerla per noi sarebbe oneroso e comunque è una procedura molto lunga). In pratica, l’ecobox è stato ritenuto un deposito non autorizzato di rifiuti. Invece noi sosteniamo che è un deposito temporaneo. Questa la linea difensiva della Casa Madre. Siamo in attesa di una pronuncia del Tar, speriamo nel più breve tempo possibile, perché non c’è stata sospensiva e al momento non possiamo più ricaricare nulla, salvo, come dicevo, le cartucce a testina. Il danno ambientale l’hanno fatto loro con questa diffida, perché ora il cliente porta tutto in discarica, quando va bene. A vol-
Nel gennaio del 2012 la Pacto, l’associazione che riunisce i produttori del settore, apprende del servizio di raccolta cartucce pubblicizzato sul sito della Eco Store e lo segnala a tutte le province della Lombardia. Il settore Ambiente di quella di Bergamo apre un fascicolo e l’11 ottobre 2013 invia il Nucleo ecologico della Polizia provinciale a controllare i negozi di Treviglio, Curno, Ponteranica e Seriate. Gli agenti nel loro rapporto contestano lo stoccaggio delle cartucce esauste dei clienti in appositi ecobox in attesa di essere indirizzati verso i centri di rigenerazione. Il 2 gennaio 2014 il settore Ambiente diffida i negozi dal proseguire l’attività per la quale non sono autorizzati. La Eco Store reagisce e il 20 gennaio e tramite i suoi legali comunica di aver sottoposto la questione al ministero dell’Ambiente chiedendo nell’attesa di un pronunciamento la sospensione della diffida. Il 3 marzo il servizio rifiuti di via Tasso respinge la richiesta di sospensiva. Da qui la decisione dei quattro negozi di ricorrere al Tar di Brescia per “violazione ed errata applicazione del decreto legge in materia ambientale 152/2006. Eccesso di potere per difetto dei presupposti e travisamento dei fatti”. (fonte: Corriere della Sera - Pietro
Parcheggio Turro solo ai Trevigliesi? a cura di Fabio Erri
Nello scorso numero su “la tribuna”, al fine di alleggerire i costi derivanti dai servizi erogati alla popolazione non residente, si è proposto di riservare ai nostri concittadini quel parcheggio. Con le telecamere intelligenti si può.
N
el numero 4 del nostro giornale abbiamo pubblicato un articolo di Ezio Bordoni dal titolo “La Stazione FS è davvero strategica!” nel quale si suggeriva di rendere riservato ai trevigliesi il parcheggio Turro e di via Veneto. La buona idea può essere messa in opera con molte meno difficoltà di quanto si pensi. Ciò che è necessario è dotare gli ingressi dei parcheggi di telecamere connesse ad internet (come quelle delle ZTL o dei Tutor) che confrontano la targa in transito con il database delle targhe autorizzate. Nessun vigile che controlla e multa, ma un computer che fa tutto il lavoro recapitando ai trasgressori l’eventuale contravvenzione. Sul sito dello Sportello Unico (http://www.sportellounicotreviglio.it) potrebbe esserci un nuovo spazio dove gli automobilisti registrano la targa per l’autorizzazione, oppure, perchè no, pagare gli abbonamenti ai parcheggi a pagamento dicendo addio alle monete per i parcometri cittadini. Sempre in tema di parcheggi smart, ci sono già esempi di città che hanno esteso la rilevazione delle targhe per la gestione dei parcheggi che dovrebbero essere “stop&go” ma che invece vengono utilizzati per le soste lunghe. Ad esempio i parcheggi antistanti le scuole dovrebbero essere gratuiti ma dedicati alle soste brevi: la rilevazione delle targhe farebbe da deterren-
te ai pendolari che ne fanno un uso diverso e ai quali sono destinati altri parcheggi. Per ultimo, ma non meno importante, dei rilevatori potrebbero porre fine ai maleducati che qualche volta occupano i posti riservati ai disabili: basta una centralina con un sensore interrato nelle aree da monitorare e una smart card in possesso del guidatore per certificare l’occupazione del posteggio a lui riservato. In caso di sosta non autorizzata sarebbe la centralina stessa ad inviare un impulso alla centrale operativa, segnalando la sosta abusiva e consentendo ai vigili di intervenire in modo rapido e mirato.
Vigiladon individua auto sospette
I
Vigili Urbani possono sfruttare le telecamere intelligenti e connesse ai database della Motorizzazione Civile per bloccare le auto non in regola. Quante volte ci è capitato di vedere per strada un’auto malmessa con una nuvola di fumo nera che usciva dai tubi di scarico, chiedendoci come fosse stato possibile per un’auto in quelle condizioni superare la revisione periodica? Oppure quante volte un furgone con targa scritta a pennarello con vetri oscurati e sospensioni schiacciate dal peso del proprio contenuto ci ha fatto venire in mente i furti in appartamento? Infine, a voi non è mai successo di avere un piccolo incidente ma, nonostante la ragione fosse dalla vostra, non è stato possibile ottenere il risarcimento perché il tagliando dell’assicurazione della controparte era assente o contraffatto? Pensando alle contromisure, abbiamo sempre invocato un pattugliamento più intenso e controlli più serrati. Ma come sappiamo le auto che circolano aumentano con una velocità maggiore rispetto a quella dei Vigili predisposti al loro controllo. Una partita persa, almeno se giocata con queste carte. La tecnologia - e la fibra ottica - sparigliano il campo, anche quello della sicurezza. L’arma in più a disposizione dei nostri Vigili Urbani si chiama Vigiladon ed è un nuovo sistema di telecamere intelligenti e connesse ad internet (ecco un altro vantaggio della “città cablata” e della fibra ottica) da porre sui varchi della città. In tempo reale Vigiladon legge la targa del transito e si collega al database della Motorizzazione Civile per il controllo della copertura assicurativa e della revisione periodica. Non solo, in pochi istanti arriva anche il controllo sul database del Ministero dell’Interno per il controllo delle auto rubate. Le pattuglie possono consultare i transiti dal loro tablet a bordo strada e fermare tutti -ma proprio tutti- i veicoli non in regola, sanzionando guidatori disonesti o delinquenti. Ma forse ancora più importante sarebbe l’effetto dissuasivo che avrebbe un varco controllato: a Treviglio se non sei in regola non si passa, quindi gira al largo. Maggio 2015 - la nuova tribuna - 33
Dopo settant’anni troviamo testimoni
Un dramma che ritorna dal passato di Roberto Fabbrucci
Una richiesta che ci giunge da Crema apre nuovi scenari sul bombardamento alleato del 9 Gennaio 1945 a Treviglio, sulla ferrovia per Bergamo. Incursione che provocò la morte di diverse adolescenti e di chi le accompagnava
A
vevo parlato brevemente nel libro “Una tragica primavera” di bombardamento ad un convoglio ferroviario nei pressi della stazione Ovest, scarni appunti tratti dal diario dell’avv. Rindo Villa e dalla testimonianza della signora Lidia Frigerio, moglie di Carlo Fanzaga, amico recentemente scomparso. Scrissi a proposito di vittime degli aerei alleati: “Non solo la giovane Cortina Taroni in via Locatelli, ma un gran numero di orfanelli su carrozze ferroviarie che provenivano da Bergamo, bloccati all’altezza di via del Maglio e mitragliati dai caccia inglesi che ne fecero strage, come ci ha raccontato Lidia Frigerio Fanzaga, allora bimba di nove anni”. A quasi un anno dalla pubblicazione del mio libro, Marita Desti, volontaria che sta facendo una ricerca nell’Archivio Storico Diocesano di Crema, contatta delle amiche trevigliesi per sapere dove reperire notizie a proposito di quel bombardamento. Così fanno il mio nome. Chiama e mi racconta che nella ricerca sulle vittime cremasche dell’ultima guerra, si era imbattuta in un trafiletto pubblicato sul “Torrazzo” del 28 Gennaio del 1945, dove si informava che “…martedì 9 Gennaio, su una vettura ferroviaria a Treviglio, parecchi viaggiatori furono feriti e dilaniati nelle carni dai morsi rabbiosi del piombo, e vi trovarono la morte il piccolo Luigi D’Antonio, figlio del Dott. Prof. Ferdinando D’Antonio, già Pretore della nostra città, e le bimbe libiche Dirce Marin e Angela Michelin, insieme all’insegnante Augusta Battaglia che le guidava verso i loro parenti”. Il “Torrazzo”, parlando del funerale celebrato alla presenza del vescovo, termina il trafiletto
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con le condoglianze alla famiglia del Pretore e ai dirigenti del centro d’accoglienza di Capergnanica: “Il geometra Pergami e alla signora Tartari, rispettivamente Presidente e Direttore della Colonia”. Nulla invece su di un’altra bimba “libica” morta giorni dopo a causa delle ferite riportate nel bombardamento a Treviglio. Il registro dei morti di Capergnanica, comune a tre chilometri a sud-est di Crema, racconta qualcosa di più, ovvero che le adolescenti e la loro maestra provenivano dal villaggio “Cesare Battisti” sito nel Gebel Cirenaico, in Libia. Luogo che dal 1941 era diventato pericoloso, stante le continue incursioni dei libici e degli inglesi, da cui il trasferimento dei minori in Italia in varie località, ospiti delle amministrazioni comunali. Altro dettaglio riferito dalla Desti, sembra che le “libiche” stessero andando a Padova, fatto strano quindi che si trovassero su un treno in viaggio per Bergamo (non al contrario come sembrava dai racconti precedenti), e appena fuori dalla Stazione Ovest attaccato dai caccia. Forse una deviazione necessaria dall’interruzione momentanea della ferrovia MilanoVenezia? Attraverso amici vengo a sapere di due testimoni allora ragazzi, Leonardo Giardinelli e Angelo Finardi. Il primo vide il padre Luigi rientrare in casa con il pastrano militare insanguinato perché aveva partecipato all’opera di soccorso. Angelo Finardi abitava in via Pontirolo e quella mattina stava aiutando il papà Davide a tagliare la legna, mentre la mamma Adele Bornaghi era impegnata nell’impasto per fare il pane e pronto per essere infornato. «C’era la neve, faceva freddo e da est, cioè
da Brescia, ho sentito il rombo degli aerei e mi voltai, così vidi arrivare dei caccia a bassa quota, mentre alla mie spalle, a poche centinaia di metri, sentivo il treno che stava passando. Arrivava dall’Ovest ed era diretto a Bergamo. Mentre vedevo le bombe che scendevano, gettate da due o tre aerei, mio padre mi prese al volo e mi portò dietro la cascina, sull’angolo, perché più sicuro, il più resistente della casa. Per un po’, non so quanto, continuai a sentire aerei che mitragliavano e bombardavano. Finito tutto, la prima cosa che notati fu la pasta pronta per il pane che, volata per lo spostamento d’aria con la padella, si era incollata al muro». Angelo prosegue nel racconto: «Faceva freddo, c’era la neve, i ragazzi scendevano dal treno e per fuggire dovevano passare dal fosso con l’acqua, così arrivarono alla mia cascina tutti bagnati, infreddoliti e tremanti. Mia madre Adele li fece spogliare e lì lavò con acqua calda, poi lì rivestì con ciò che si riuscì a trovare in cascina, li rifocillammo con ciò che avevamo, taleggio, latte, pane. E’ un ricordo sconvolgente, erano dieci o quindici tra ragazzi e ragazze, nudi e spaventati». Finardi racconta poi dei vetri delle finestre, tutti rotti per l’esplosione, dei bossoli che trovò a terra e dei buchi di proiettile sui muri della cascina e le bombe inesplose attorno alla cascina «Era dove ora c’è il sottopasso per Pontirolo». Ricorda anche che alla cascina arrivò monsignor Egidio Bignamini per capire l’entità
A sinistra una bimba milanese sfollata e ospite dei Riva, in questo cortile arrivarono le schegge delle bombe. Si intravede anche Teresa, che ritroviamo sopra con la sorella più piccola Francesca. A destra Giuseppe Cremonesi e la moglie Alessandra, incinta. Poi da destra, gli alpini Gino Colombo Giardinelli, Pino Vitali e Michele M. Compagnoni
della tragedia e confortare quei ragazzi e quelle ragazze. La stessa cosa in quella più avanti dove abitavano le famiglie dei fratelli Riva. Lì alcune bambine ferite furono rifugiate in attesa dei soccorsi, lo conferma Teresa Riva, allora bimba di sei anni, che ha impresso nella mente l’immagine un’adolescente ferita profondamente al piede, tanto da vederne gli ossicini. «Le finestre si aprirono tutte, molti vetri si ruppero, questo mentre mio padre se ne stava in cortile, temerariamente, ad osservare lo ‘spettacolo’. Poi arrivarono le ragazze fuggite dal treno e la mia matrigna, Colomba Rainoni di Vailate, le portò al caldo nella stalla di mio zio, Roberto Riva. Poco dopo arrivò Giuseppe Cremones (allora dipendente delle ferrovie), marito della figlia di zio Roberto, Alessandra. Fu lui che portò le bambine all’ospedale. Ricordo anche che papà, appena finito il trambusto, si mise a raccogliere le schegge delle A sinistra Angelo Finardi con la mamma (la signora a sinistra), altre parenti e una carrozza di dell’epoca. Sotto il villaggio “Cesare Battisti” in Cirenaica, da dove provenivano le ragazze uccise a Treviglio. A destra aerei caccia dell’epoca, battezzati dagli italiani con il nome “Pippo”
bombe nell’aia e attorno alla cascina». Un inciso, Francesco Riva è la stessa persona che il 25 Aprile ‘45 fu ucciso davanti alla Trattoria Grana, a pochi secondi di distanza dall’uccisione di Erminio Grana. Questi, invece, fu ucciso all’interno del giardino della villa dell’Ing. Gianni Ossani, di fronte alla Gil (Gioventù Italiana Littorio). Uccisione che presumibilmente, come ricostruito nel mio libro, è da imputare a dei fascisti che viaggiavano su quel tratto di strada dall’Ovest verso la Centrale, a bordo di una berlina nera, e che sparavano a chiunque sembrasse un partigiano. Anche Leonardo Giardinelli ricorda quanto gli raccontò il padre, un milite fascista, che partecipò ai soccorsi al treno e che tornò a casa stravolto raccontando che «…vedeva il volto dei piloti tanto volavano bassi, stupito che mitragliassero le carrozze nonostante avessero dipinto la croce sui tetti. Mi pare di ricordare che mi disse che morirono i macchinisti della locomotiva». Angelo Riva, intanto, cerca di ricostruire quelle vicende, ma gli anni sono troppi: «I ricordi sono sbiaditi, non rammento quanti ragazzi e ragazze fossero, ricordo però che dopo il bombardamento, quando il treno aveva perso la sua spinta e si era fermato, iniziò a fare marcia indietro da solo. Infatti, la ferrovia verso sud è leggermente in discesa, così privo di freni e macchinisti, il convoglio scese lentamente fin davanti alla stazione Ovest». Anche Silvana Cremonesi, figlia di Giuseppe, ricorda i racconti della mamma Alessandra, che dallo
spavento perse la bimba che aveva in grembo. Rimane il mistero del numero dei morti e di quegli “orfanelli”, soprattutto se davvero lo fossero e da dove provenissero. Da Crema ci informano che quelle ragazzine italiane evacuate dal villaggio Cesare Battisti della Cirenaica e ospiti della scuola del Comune di Capergnanica, sembra fossero dodici e provenissero da Final Pia (Quartiere di Finale Ligure) dove avevano soggiornato nell’Ospizio Marino Cremasco, un edificio di proprietà del comune e ancora in funzione. Dicevamo che i trevigliesi da sempre citavano l’episodio dicendo che era carico di orfanelli. Immagino che l’equivoco sia nato dal fatto che, probabilmente, gli adolescenti avessero le divise, così come le orfanelle che fino agli anni ’50 vedevano passare per Treviglio incolonnate per due, coperte da larghe mantelle grigie e un nastro uguale in testa. Qualcuno afferma che sul treno, oltre a normali viaggiatori come i cremaschi citati, ci fossero orfanelle trevigliesi dirette in montagna alla colonia comunale di Roncobello, fatto che a me appare improbabile, sia per la stagione, ma soprattutto perché a Treviglio nessuno ha memoria di una famiglia della nostra zona che avesse avuto qualche vittima da quell’attacco. Comunque tutto è aperto, aspettiamo fiduciosi altre segnalazioni dei lettori, così come l’esito delle ricerche cremasche e dei nipoti del pretore Ferdinando D’Antonio, impegnati a ricostruire le vicende del 9 gennaio 1945.
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Una domenica particolare
La Gera d’Adda in Gran Turismo a cura di Ivan Scelsa
Alle porte di Treviglio c’è un mondo fatto di Storia da scoprire: castelli, ville, fiumi, fontanili, santuari e musei. Abbiamo voluto ripercorrerlo a bordo di una vettura esclusiva ed affascinante: l’Alfa Romeo GT 1300 Junior
P
rendi un giorno una Gran Turismo, una in particolare, un’Alfa Romeo 105.30 immatricolata nel 1967, la prima coupé di cilindrata 1300 nata dopo il lancio della versione berlina TI. Prendi un giorno un itinerario da week end fuoriporta, proprio alle porte di Treviglio, centro aggregante della bassa bergamasca ormai dalla visione cittadina fortemente mutata rispetto a quella degli anni in cui nacque quest’Alfa. Ne abbiamo approfittato proprio nei giorni dell’apertura straordinaria dei castelli bergamaschi, sette fortezze visitabili nei giorni delle festività pasquali. Quando la GT lascia la città ed incontra le strade pressoché silenziose della domenica mattina, attraversando i borghi che si alternano ai rigogliosi prati verdi costeggiati da rogge e corsi d’acqua che disegnano le strade, il gioco è fatto! Una Gran Turismo tutt’ora dall’impostazione di guida moderna, agile, sincera e dalla cilindrata ridotta che ieri come oggi consente a chi la possiede di godere delle sue doti e dei vantaggi di un costo di gestione contenuto, proprio come il suo prezzo al lancio, più basso ed avvicinabile: 1.792.800 lire su strada. La scelta del nome Junior evidenzia che la versione è l’entry level della gamma e, nel contempo, circoscrive la clientela cui il prodotto è rivolto: non tanto il pilota in erba o il gentleman driver fino a quel momento destinatario del prodotto Giulia Sprint GT, bensì i giovani figli della borghesia e del boom economico che contraddistingue l’Italia degli anni Sessanta. Il piccolo itinerario che stiamo per intraprendere ci ricorda quanto le alterne vicende vissute dal nostro territorio somiglino a quelle della Casa milanese che, dopo il lancio della versione berlina 1300 TI avvenuta a Monza nel mese di febbraio 1966, presentò questa versione ai giornalisti sulla pista piemontese di Balocco. Oggi come ieri, le strade meno congestionate sono il vero terreno di battaglia di quest’auto: strade ancora capaci di far godere delle doti del telaio e del robusto quattro cilindri a camme in testa che la animano. Ma non abbiamo voluto replicare la prova del lancio della vettura, bensì soffermarci sul piacere di guida trasmesso a distanza di quasi cinquant’anni e goduto a velocità turistica, ammirando dal suo parabrezza il paesaggio circostante.
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Urgnano
Con l’Alfa scorrazziamo in quel lembo di terra compreso tra i fiumi Adda, che cinge il confine con la provincia di Milano, ed il fiume Serio, dove sorgono alcuni castelli e rocche fortificate particolarmente legate alle alterne vicende della famiglia dei Visconti, il cui simbolo, tra l’altro, è proprio ripreso nello stemma dell’auto. Ci addentriamo nel vivo del nostro viaggio alla volta di Pagazzano, un paese nato già fortificato nel lontano VI secolo a causa della presenza dei Longobardi e che, nel IX secolo, divenne prima dei Franchi, poi sotto la giurisdizione del Conte di Bergamo e quindi dei Visconti. Un territorio questo in cui nel 1428 i confini meridionali, dopo la sconfitta dei milanesi a Maclodio, vennero definiti con precisione dalla Serenissima prendendo come riferimento l’antico Fosso Bergamasco scavato nel XIII sec.; i paesi a sud di questo confine artificiale rimasero al Ducato di Milano, compresa la Gera d’Adda. Questa divisione (che di fatto non accontentò nessuno) rese questi territori lungamente contesi e per anni oggetto di lotte ed avvicendamenti sotto il dominio francese, spagnolo e poi austriaco. Più recentemente il Comune ha dapprima acquistato e poi iniziato i lavori di ristrutturazione del castello che oggi
è visitabile anche a gruppi numerosi con guide competenti ed appassionate che non mancano di sottolineare che qui soggiornò più volte anche il poeta Francesco Petrarca. Dal ponte levatoio del castello intravediamo le linee pulite della fiancata dell’Alfa Romeo e quello “scalino” all’anteriore tanto caro ai puristi del modello che ci invita a metterla nuovamente in viaggio. Non sappiamo resisterle, è innegabile. Il nostro itinerario prosegue alla volta di Brignano Gera d’Adda e, favorevolmente colpiti da una serie di curve ad ampia visuale immerse nel verde che ci si prospettano dinanzi, seppur ad andatura turistica, decidiamo di ‘provare’ questo motore. La sua accelerazione è buona, sicuramente paragonabile a quella di vetture di cilindrata maggiore; ottima anche la ripresa, con un comportamento brillante in tutte le marce e rapporti al cambio ben studiati che ottimizzano la vivacità del propulsore. Il percorso è breve, pochi chilometri per giungere a destinazione: peccato, ne avremmo voluti degli altri. A Brignano ci colpisce la permanenza del nome “castello” che viene ancora attribuito al Palazzo in cui oggi ha sede il Municipio; alcune fonti fanno supporre che l’originario nucleo difensivo del paese occupasse una porzione dell’attuale Palazzo Vecchio le cui recenti opere di restauro hanno permesso di evidenziare strutture fortificate in prossimità di un preesistente ponte levatoio le cui tracce sono visibili nella zona di raccordo tra Palazzo Vecchio e Palazzo Nuovo. Nel corso del XV secolo, con la definitiva investitura feudale fatta dal Duca di Milano Galeazzo Maria Visconti ai fratelli Pierfrancesco e Sagramoro, il fortilizio assume una connotazione maggiormente residenziale, avviando così la serie di interventi che porteranno, nel XVII secolo, alla completa trasformazione del Castello in Palazzo. Varchiamo le mura ed accediamo alla struttura con l’Alfa Romeo: fa un certo effetto constatare come le linee disegnate da Bertone siano in piena armonia con l’architettura che lo circonda. Rapiti dalla bellezza degli affreschi del palazzo, lasciamo l’auto nel porticato interno dirigendoci verso l’imponente scalinata che porta alle stanze del primo piano da cui a stento
riusciamo a distogliere lo sguardo da colei che qui ci ha condotto: la voglia di ripartire è forte e a stento la tratteniamo. La nostra attenzione si sposta per un attimo al particolare rilievo che ha nella storia del palazzo la figura di Bernardo Visconti, nato nel 1579 e da molti studiosi identificato con il personaggio manzoniano dell’Innominato. Il particolare narratoci diviene interessante se affiancato al soggiorno di Petrarca nella dimora precedentemente visitata, simbolo di una Gera d’Adda protagonista di anni di fortunata vita contadina ma anche letteraria. Oggi lo splendido complesso, che si divide in Palazzo Vecchio, sede del Municipio e in Palazzo Nuovo, di proprietà di un grosso gruppo industriale, sembra sarà sottoposto in un futuro non tanto lontano ad un cambio di destinazione che potrebbe portarla a divenire un museo o un centro congressuale-alberghiero. Un cambio, questo, che (secondo alcune indiscrezioni che si sono rincorse nel tempo) potrebbe portare anche un centro benessere in cui ci farebbe davvero piacere venire a rilassarci dalla frenetica quotidianità, magari nuovamente in compagnia della GT, il cui capiente bagagliaio potrebbe tranquillamente ospitare le valigie necessarie per due settimane lontani da casa. Torniamo al nostro viaggio ed abbandoniamo (perlomeno momentaneamente) il pensiero di essere cullati in una vasca idromassaggio
A sinistra il Castello Visconti di Pagazzano, sopra il cortile del bellissimo Palazzo Visconti di Brignano Gera d’Adda, sotto un’immagine di Cologno al Serio
per accomodarci sui comodi sedili della nostra vettura. L’auto è calda, sono alcune ore che la guidiamo, e decidiamo di provare i suoi punti di forza: tenuta di strada, cambio e sterzo. In tempi di crisi, si sa, anche le proverbiali strade bergamasche hanno subito dei frettolosi rattoppi volti a preservare l’incolumità degli utenti della strada e la Junior risente delle irregolarità del fondo. In curva il comportamento dell’auto è pressoché perfetto, neutro ed affidabile a basse e medie velocità, ma quando l’andatura diviene più sostenuta, si accentua l’effetto sovrasterzante. Il cambio, come da buona tradizione delle vetture della serie “Giulia e derivate” ha una sincronizzazione eccellente. Passare dalla prima marcia alla quarta è facile, veloce e divertente. Capitolo a parte la quinta marcia, il cui innesto lungo la penalizza un po’ nel misto ma la rende molto più elastica nelle lunghe percorrenze su strade veloci. Riprendiamo nuovamente il viaggio: attraversiamo la piccola frazione di Castel Liteggio dove oggi persistono le rovine del castello visconteo eretto nel XV secolo, a ridosso dell’antico confine del Fosso Bergamasco, e giungiamo nell’ordinata Cologno al Serio, centro risalente all’età del bronzo il cui borgo fortificato viene
eretto nel Medioevo. L’accesso al centro storico è assicurato da quattro porte ricavate nel corpo massiccio di altrettanti torrioni muniti in origine di ponte levatoio e disposti secondo i punti cardinali. Qui il rombo del ‘bialbero’ al transito negli stretti vicoli del centro diventa prorompente e spinge qualcuno ad affacciarsi all’uscio per scorgere la sorgente del fragore. Decidiamo di non turbare oltre la tranquilla vita del piccolo borgo e puntiamo al Castello Albani di Urgnano, per gli abitanti “la Rocca”. Il castello venne eretto nel 1354 dopo che il Governo del Ducato di Milano, alla morte di Luchino Visconti, era passato nelle mani del fratello Giovanni, arcivescovo della città. Distrutto e ripreso più volte a seguito di vessazioni e lotte intestine tra le fazioni presenti sul territori,occupato dai veneziani, venne cinto d’assedio dalle truppe del Duca di Milano, Gian Galeazzo Visconti e costretto alla resa nel 1391. Divenuto proprietà di Venezia nel 1428 quando la provincia passò spontaneamente sotto la Repubblica della Serenissima, fu conquistato, sedici anni dopo, da Bartolomeo Colleoni che, in disaccordo con Venezia, passò sotto la bandiera di Francesco Sforza. Alla morte di Colleoni il castello passò agli Albani che abbellirono la struttura ospitando illustri ed insigni personaggi e mantenendone il possesso fino al secolo scorso quando la struttura passò alla famiglia Fuzier e poi al Comune. Percorriamo la strada principale sotto gli occhi incuriositi degli automobilisti che ci incrociano e promuoviamo a pieni voti quest’Alfa, elegante e sincera, con cui è davvero facile trovare subito il giusto feeling. La GT 1300 Junior ci ha permesso di godere a pieno di una giornata di evasione dallo stress quotidiano, percorrendo strade interne meno trafficate tra cultura contadina, storia e tradizione. Lasciamo l’auto a due passi dal ponte levatoio, quasi come un soldato a guardia del castello. Siamo in centro, a due passi dalla piazza del Duomo. Un aperitivo serale prima del rientro a casa è la giusta chiusura del nostro fuoriporta, certi che il tragitto di ritorno a Treviglio ci darà ancora tante soddisfazioni alla guida di questa vera Alfa Romeo, con la certezza che, con questa Gran Turismo, un rettilineo sia solo una parentesi noiosa tra due curve. Maggio 2015 - la nuova tribuna - 37
Treviglio/Storie del ‘900
Fotografie di Enrico Appiani
Treviglio/Artisti da riscoprire
Luigi Ferrari, valente scultore trevigliese di Carmen Taborelli
Era figlio di un calzolaio e di una sarta che abitavano in via Bernardino Zenale, da scultore mise bottega in via Abate Crippa e acquisì fama internazionale. Fra le opere finora censite i busti di Cesare Battisti e Adolfo Engel
L
o scultore Luigi Giuseppe Alberto Ferrari, figlio del calzolaio Giovanni Battista e di Busnè Maria Antonia Maddalena, sarta, nacque il 28 giugno 1882 a Treviglio, in via Bernardino Zenale al civico 12. Frequentò, a Milano, la Scuola Superiore d’Arte Applicata all’Industria e la Regia Accademia di Belle Arti ove ottenne la Menzione Onorevole nella Scuola di Ornato, sezione plastica, altra Menzione in quella di Disegno di Figura, nonché la Medaglia di bronzo in Disegno di Prospettiva. Aveva la sua bottega in via Nuova (ora via Abate Crippa). Rivelatosi ancor giovanissimo come eccellente ritrattista, eseguì, nel 1902, busti e ritratti in gesso di alcuni notabili trevigliesi. Modellati “con tanta verità e perfetta rassomiglianza”, li presentò alla mostra celebrativa del 40° anniversario della locale Società Maschile di Mutuo Soccorso. I gessi gli valsero la medaglia d’oro attribuitagli dalla Commissione preposta a valutare la Sezione “Lavori artistici”. È opera sua l’artistico monumento in marmo di Verona col busto-ritratto di Carlo Bazzi, al cimitero di Cassano d’Adda (1906). Sue sono pure le sculture in marmo di Carrara al cimitero di Treviglio, eseguite per le tombe delle famiglie Massione, Buttinoni (1909), Prandina (1911) e della stessa famiglia Ferrari. Lavorò a lungo all’estero, specie a Londra, ove acquisì molta fama. Ritornato a Treviglio, al tempo della Prima
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guerra mondiale, realizzò molte opere di pregio. Secondo il critico d’arte Carlo Migliavacca, “Ferrari deve aver incontrato un periodo di particolare fervore produttivo proprio negli anni successivi alla prima guerra mondiale, quando le esigenze commemorative private e pubbliche determinano un sensibile incremento della domanda di manufatti artistici”. Nel secondo semestre del 1916, modellò in gesso il busto del patriota irredentista Cesare
Battisti. L’opera, coperta da una patina scura a imitazione del bronzo, è tuttora esposta all’ingresso dell’omonima scuola elementare di viale Piave. Realizzò il grande e artistico bassorilievo in bronzo del locale Monumento ai Caduti. Vinse il concorso per eseguire, a Melzo, il Monumento ai Caduti. Non è stato possibile sapere se Ferrari abbia poi eseguito l’opera, in quanto l’attuale Sindaco melzese, interpellato in proposito, non ha fornito alcuna indicazione. Lo scultore morì appena quarantenne, il 25 gennaio 1923, e venne tumulato nella tomba di famiglia, a Treviglio.
Le sculture dello scultore Luigi Giuseppe Alberto Ferrari finora censite
Treviglio Cimitero comunale Tomba famiglia Ferrari(Campo E - tomba n.45). Addossato a una parete rocciosa, impreziosito da un ornamento floreale, è il ritrattobassorilievo in marmo bianchissimo di Pepino, fratello dello scultore. Completa la scultura una lapide con l’epigrafe: “Dopo lungo soffrire cessava di vivere il 3.6.1900 PEPINO FERRARI, ventenne, lieto di raggiungere la sorellina Annetta in cielo”. Tomba famiglia Massione (Campo C– tomba n. 37). Scultura di “Giovane donna inginocchiata che sgrana il rosario”. Probabilmente si tratta di una madre che piange il figlioletto Renato, morto ad appena due mesi, il 24.3.1901, e lì sepolto. Sara Prandina, zia di Gianni Prandina (vedi tomba Prandina) si prestò a fare da modella allo scultore. Sposata, nel novembre 1899, a Massione Giuseppe, colonnello nel Regio Esercito, Sara è sepolta nella tomba Massione ove riposa anche suo marito. Tomba famiglia Buttinoni, (Campo O tomba n. 43) È stata modellata nel 1909 la scultura in marmo della “Bambina pensosa”, che siede sulla tomba dove è sepolta la sua maestra Lucia Buttinoni (1859-1908). Porta a tracolla una sacca da scuola.“Piegata in dolce atto la testa, volge gli occhioni pieni di pianto verso un punto lontano, credendo forse di intravedere la dolce figura della buona maestra sua”. Nello scatto, Luigi Ferrari tra suoi due amici
“L’espressione degli occhi e l’atteggiamento di tutta la personcina –aggiunge il redattore del settimanale “Il Campanile”- sono resi così bene, che non crediamo esagerato l’asserire che l’amico Luigi Ferrari si è rivelato ancora una volta un artista robusto, originale, padrone dell’arte sua”. Tomba famiglia Prandina (Campo D tomba 91). Ultimata nel novembre 1911, l’opera, in stile liberty, è costituita da una piramide intersecata a metà da quattro arche cinerarie etrusche, con borchie fregiate di mascheroni. Nella parte superiore, il Ferrari ha scolpito due statue, a grandezza naturale, che formano la parte veramente originale del monumento. In alto la figura maschile sta “in piedi, irrigidito in una suprema tensione di muscoli, erge il capo e guarda nell’infinito, nella destra il brando inesorabile, troncatore di vita”. Raffigura il “Destino”, dal quale invano implora pietà, prostrata ai suoi piedi, la figura femminile, che simboleggia l’Umanità. L’attuale referente della tomba Prandina, signor Gianni residente a Milano, mi precisò, nel novembre 2012, che: “La modella che posò per la scultura femminile era mia zia Sara Prandina, la stessa che posò per la tomba Massione. Il modello della figura maschile era, invece, un abitante del cantù Culécc: forse era addirittura il neurochirurgo Pier Luigi Della Torre, appassionato d’arte e amico del Ferrari. Il monumento funebre è costato ben diecimila lire”. Treviglio – Museo Civico “Ernesto e Teresa Della Torre” Sono presenti due copie speculari del bustoritratto del senatore Adolfo Engel, entrambe del Ferrari. La prima, già di proprietà dell’Amministrazione Comunale, è in gesso e ha sul basamento un decoro floreale. Molto probabilmente si tratta dello stesso busto esposto sul palcoscenico del locale teatro sociale domenica 20 luglio 1913, in occasione della solenne commemorazione di Engel, morto improvvisamente a Roma, il 28 aprile 1913. La seconda copia, in bianchissimo marmo di Carrara, è stata donata al Museo, nel 2010, dai fratelli Alba e Virgilio Manetti, nipoti del senatore Engel. La donazione ha chiarito in modo inequivocabile che la copia in gesso non raffigura l’ex sindaco ing. Giuseppe Grossi, come erroneamente creduto per anni, bensì Engel. Del resto già il
Angelo Gatti, eroe dimenticato morto a Dogali Sulla lapide il suo nome non c’è, lo troviamo su di una lapide all’intero della Rocca di Bergamo
L
a lapide murata sulla parete est del chiostro, all’interno del locale Centro Civico Culturale, ricorda i trevigliesi Caduti in Africa, nelle battaglie coloniali di Dogali del 26 gennaio 1887, di Amba Alagi del 7 dicembre 1895 e di Adua dell’1 marzo 1896. Quando venne inaugurata, il 27 marzo 1887, sulla lapide erano incisi soltanto i nomi di Alessandro Bellini e Gio.Battista Ricci, morti a Dogali, ai quali i trevigliesi dedicarono questa epigrafe: “A ricordare che fra gli eroi caduti a Dogali furono, Alessandro Bellini, Gio.Batta Ricci da Treviglio, i loro Concittadini, due mesi dopo il glorioso fatto, posero”. In seguito, per ottimizzare gli spazi, la lapide venne rimaneggiata: semplificata e ridotta all’essenziale l’epigrafe, conservate, invece, la struttura e le dimensioni originarie. Fu modificata per aggiungere, ai nomi degli eroi di Dogali, quelli degli altri trevigliesi morti sempre in Africa, ma nelle successive battaglie di Amba Alagi e di Adua. È assai probabile che proprio a questi interventi di inserimento risalga il “peccato” di omissione. È stato omesso, dimenticato Angelo Gatti! Tra i Caduti ad Adua il suo nome non c’è! Nel tentativo di trovare una spiegazione a questa svista sicuramente non voluta, è forse il caso di tener presente che ad Adua morì anche un altro Gatti: Gio.Battista. Il fatto di
avere lo stesso cognome è possibile abbia giocato a sfavore di Angelo. Le due testimonianze fotografiche proposte in questo spazio aiutano a fare chiarezza. Quella in basso è la riproduzione della lapide conservata a Treviglio, nel Centro Culturale, sulla quale non figura il nome del nostro eroe. Quella sopra, che si trova a Bergamo, nel cortile della Rocca, riporta i nomi di tutti i Bergamaschi morti e feriti nelle Battaglie di Amba Alagi e di Adua, compresi quindi gli otto trevigliesi, tra i quali figura giustamente anche Angelo Gatti. Sulla lapide, voluta dall’allora Consiglio Comunale di Bergamo con delibera del 20 dicembre 1897, sono incisi i nomi e i rispettivi luoghi di residenza dei sessantaquattro morti e dei diciannove feriti nella battaglia di Adua, e dell’unico bergamasco morto ad Amba Alagi: il trevigliese Natale Mulazzani. La lapide di Bergamo, oltre a favorire la memoria di tutti i bergamaschi Caduti in Africa nel biennio 1895-1896, ci aiuta quindi a rendere omaggio e giustizia al “dimenticato” Angelo Gatti Carmen Taborelli
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Treviglio/Capolavori da vedere
Luigi Ferrari
Una nuova compagnia
Libri
La deposizione del Maestro di Watervliet
La Grande Guerra vista da Carminati
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di Francesca Buonincontri
Nel museo Civico di Treviglio è possibile ammirare un’opera nella quale si individua la mano del Maestro di Watervliet . La tavola di Treviglio presenta un preciso riscontro con la Lamentazione del Maestro di Francoforte
L
a tavola che raffigura una Deposizione dalla croce con la Vergine, San Giovanni, Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo è tratta da una composizione, ora perduta, di Rogier van der Weyden, dipinta presumibilmente intorno al 1430 e variamente ripresa in nu-merose copie già nel corso del XVI secolo: Reinach elenca dieci copie o variazioni del dipinto, Salin in uno studio successivo arricchisce l’elenco di altri dieci esemplari. La tavola di Treviglio presenta un preciso riscontro con il trittico della Lamentazione del Maestro di Francoforte, ora alla Alte Pinakothek di Monaco, nel particolare degli angeli ai lati della croce; la testa di San Giovanni, inoltre, mostra una stretta affinità con quella dell’Apostolo nel pannello centrale della pala della Crocifissione dello stesso maestro, ora al Städelsches Kunstinstitut di Francoforte. Con ogni probabilità la tavola di Treviglio proviene da Anversa, dall’atelier del Maestro di Francoforte che operava con numerosi aiuti per l’esecuzione di dipinti destinati all’esportazione. Sotto il nome di Maestro di Francoforte, Vanaise ha creduto di poter individuare una seconda mano, il Maestro di Watervliet che potrebbe essere l’autore anche della tavola di Treviglio: il suo nome è legato alla cittadina fiamminga di Watervliet che conserva nella chiesa di NotreDame un trittico raffigurante una Deposizione dalla croce interessante per le notevoli analogie stilistiche con il dipinto in esame. Rispetto al Maestro di Francoforte, più incline a una certa sovrabbondanza decorativa di gusto miniaturistico, il Maestro di Watervliet appare più greve nella pennellata e più sobrio nei particolari decorativi: nel trittico di Notre-Dame si ritrova la stessa rigidità nel trattamento del corpo di Cristo, con particolare riguardo alle braccia e soprattutto alle mani delineate con notevole approssimazione; le pieghe appaiono altrettanto pesanti e spigolose e i volti si
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caratterizzano in entrambi i dipinti per una certa grossolanità nei nasi pronunciati, nelle palpebre pesanti, nelle labbra carnose. Tali elementi di stile, oltre a offrire argomenti probanti per precisare la paternità del dipinto trevigliese, consentono di definirne il profilo qualitativo che si attesta su di un livello di buon artigianato, attento soprattutto agli aspetti devozionali del soggetto, in linea con il gusto arcaicizzante diffusosi nelle Fiandre a cavallo fra Quattro e Cinquecento: la città di Anversa appare in questo periodo uno dei centri più vivaci e
sperimentali dei Paesi Bassi dove convivono tendenze innovatrici che reinterpretano originalmente gli stimoli della classicità provenienti dall’Italia, rappresentate da pittori come Matsys, Gossaert e i ‘Manieristi’, e tendenze arcaicizzanti che recuperano le esperienze dei maestri quattrocenteschi –Jan van Eyck, il Maestro di Flémalle, Rogier van der Weyden– per indagare il reale con la lucida perspicuità che li aveva distinti, e per soddisfa-re esigenze di ritorno a una religiosità più autentica e interiorizzata. Scatto di Tino Belloli
critico d’arte Carlo Migliavacca, nella scheda di presentazione della scultura in gesso, manifestava qualche dubbio sull’identità dell’effigiato là ove diceva: “quella trasmessa dal busto non è poi la fragile immagine degli ultimi anni di vita di Giuseppe Grossi, quanto la vigorosa sembianza di un uomo al culmine della propria esperienza personale e sociale”. Treviglio – viale Piave: Scuola Elementare “Cesare Battisti” Ritratto di Cesare Battisti: busto in gesso di cm. 73x65x40. L’opera è coperta da una patina scura a imitazione del bronzo. Posteriore alla morte del patriota irredentista Cesare Battisti avvenuta il 12 luglio 1916, “il busto, nonostante il precario stato di conservazione, palesa una semplificata ma sincera adesione alla realtà fisionomica dell’effigiato”. A dirlo è il già citato critico d’arte Carlo Migliavacca. Treviglio – Piazza Insurrezione: Monumento ai Caduti La parete nord del Monumento ai Caduti è interamente occupata dal grande e artistico bassorilievo di bronzo realizzato dal Ferrari nel biennio 1920-21. La cerimonia d’inaugurazione si svolse il 19 giugno 1921. Il Monumento, in origine, era situato in quella che allora si chiamava piazza “Sette fratelli Buttinoni” (attuale piazza Insurrezione), a lato della Regia Scuola Tecnica (ora ex Pretura), all’incirca dove oggi c’è l’edicola del giornali. Nel suo complesso, l’opera costò £. 52.886,40, contro un’entrata di £. 52.909,85. L’eccedenza (£. 23,54) fu elargita al “Natale benefico” per i poveri della città. Cassano d’Adda –Cimitero comunaleTomba famiglia Bazzi Risale al novembre 1906 l’artistico monumento realizzato dal Ferrari, consistente in una gran lastra di marmo di Verona su cui è appoggiato il busto-ritratto di Carlo Bazzi, “non solo somigliantissimo all’originale, ma altresì elaborato con molta finezza”. La bella epigrafe, in lettere di bronzo, è del dott. Giovanni Zanconti: “Carlo Bazzi, poeta delle cose umili e buone, mosse dai ricordi eroici all’avvenire della Patria, amandone i bimbi e fidando nell’assurgere dei diseredati. Cassano 1843 – Treviglio 1906”.
Teatro trevigliese in trasferta di Maria Palchetti Mazza
La Compagnia Teatrale “Arteteatrando”, nata nel 2014 da un progetto di Bruno Manenti con Luisella Basso Ricci e Claudia Capellazzi, si è esibita con successo preso il locale “il Faro” di Pianengo con l’opera “La signora e il funzionario”
I
l locale “Il Faro” di Pianengo era molto animato perché c’era aria di attesa per lo spettacolo che la Compagnia “Arteatrando” di Treviglio (Bg) avrebbe presentato sul piccolo palcoscenico aperto all’interno del Ristorante, con Luisella Basso Ricci, la nostra amica trevigliese, e l’attore Bruno Manenti. Titolo dell’opera, “La Signora e il funzionario” di Aldo Nicolaj, autore di molte commedie brillanti. Quella in programma, presentata per la prima volta a Parigi il 23 marzo 1978, intende fare luce sull’alienazione e sul pregiudizio della società contemporanea. Gli attori, attraverso un brillante scambio di battute e incalzanti colpi di scena, sembrano seguire una sorta di travagliato iter spirituale che li porterà a scoprire il profondo significato dell’esistenza. L’attesa degli spettatori è stata premiata con la versatilità della competenza scenica, con il garbo e l’ironia sottesi all’interpretazione della pièce. Una vicenda ai limiti del vero, nel susseguirsi dei cambiamenti di ruolo dei personaggi, nel graduale emergere dei loro caratteri e delle rispettive fragilità: uno spettacolo coinvolgente, retto su un filo di suspence e di maestria dai due attori. “Il Faro”, oltre che per la qualità delle proposte gastronomiche, è ancora una volta un locale da ricordare, se questi sono i prodotti che presenta, com’è stato sottolineato dal caloroso applauso del pubblico.
La Compagnia Teatrale “Arteteatrando” è nata nel 2014 da un progetto di Bruno Manenti con Luisella Basso Ricci e Claudia Capellazzi che dichiarano: “L’intento è dare a Treviglio una nuova Compagnia accanto ad altre Compagnie di elevata professionalità e collaudate da decenni. Pertanto ce la metteremo tutta con passione e umiltà augurandoci di riuscire nel nostro intento”. Luisella Basso Ricci Socio fondatore del Laboratorio Teatrale “Le Tracce” ha portato in scena con la regia dei fratelli Buscaglia opera di Goldoni, Pirandello, Cecov ,Jonesco ,Molière, Schnitzler. Con “ La Palla al Piede” di George Feydeau ha vinto il Primo Premio come Miglior Attrice ad un concorso nazionale per Gruppi Teatrali amatoriali, Ha interpretato il monologo “ Cinque ore con Mario” di M. Delibes e la pièce “Oscar e la dama in rosa” di Eric Emmanuel Schmitt. Brun Manenti Pittore e scultore da sempre, continuando la sua ricerca di nuovi stimoli è approdato nel mondo del teatro 14 anni fa con la Compagnia dialettale “Zanovello”, di cui fa tuttora parte, sotto la regia dei vari registi succedutisi negli anni: Luigi Azzola, Giancarlo Conti e Carluccio Fanzaga, Premiato nel 2007 nel corso di una importante rassegna teatrale dialettale al Teatro Serassi di Villa d’Almè, come attore protagonista.
n’avvincente storia di amore e di amicizia, capace di fiorire nel drammatico scenario del primo conflitto mondiale, sottende il più recente romanzo di Marco Carminati, giornalista e scrittore concittadino, che ha pubblicato ormai una cinquantina fra romanzi, raccolte di racconti, saggi, libri fotografici sulla terra bergamasca soprattutto, sulla sua storia, sulle sue tradizioni. Quest’ultima opera “Poi nuovamente fiorirono i ciliegi” (Ecra - Edizioni del Credito Cooperativo Pagg. 216, € 18 ) si snoda fra Lombardia e Friuli Venezia Giulia e vede come attori anche i trevigliesi monsignor Ambrogio Portaluppi e monsignor Pompeo Ghezzi, il trentino don Lorenzo Guetti e il friulano Adamo Zanetti, seminatori di pace con la loro profetica attività, capace di porre le premesse per una nuova fratellanza e solidarietà oltre gli steccati della guerra. E’ un libro per lettori di qualsiasi età, ma soprattutto per i giovani che, grazie alle appassionanti vicende narrate possono conoscere aspetti inediti della Prima Guerra Mondiale. Prende spunto da una storia vera, appassionata e dolorosa, rievocata da un’anziana Crocerossina, i cui genitori si erano incontrati all’epoca dei fatti a Treviglio e successivamente nell’ospedale militare di Bergamo, ove era cappellano Angelo Roncalli, futuro Papa Giovanni XXIII. La vicenda è ambientata in buona parte tra le Alpi Orientali e la Bassa Friulana, in particolare a Villesse, Fiumicello e Cervignano, territori un tempo appartenuti all’Impero Asburgico. Proprio a Cervignano si vuole che il 24 maggio 1915 fosse sparato il primo colpo di cannone, che segnò l’ingresso dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale. Il romanzo –presentato al Salone Internazionale del Libro di Torino 2015- è apparso tanto convincente, da ottenere il logo ufficiale del Presidente del Consiglio, per le celebrazioni del Centenario della Grande Guerra, replicando il successo ottenuto nel 2011 dall’altro libro, sempre di Marco Carminati, “Il Risorgimento Tradito”, che si fregiò del logo della Presidenza del Consiglio per le Celebrazioni dei Centocinquanta anni dell’Unità d’Italia e venne esposto per alcuni mesi al Vittoriano di Roma, fra le cento opere contemporanee più rappresentative della letteratura in tema unitario. Maggio 2015 - la nuova tribuna - 41
Gera d’Adda da scoprire
Fotografie: Victoria E. Herranz Moreno
In città sulle tracce del Caravaggio a cura di Gianni Testa (*)
Michelangelo Merisi, nonostante sia ricordato con il nome del suo borgo, non vi ha lasciato alcuna sua opera, un fatto che ha impedito di sfruttarlo turisticamente, eppure nella città del grande pittore non c’è solo il Santuario da visitare
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Caravaggio le visite turistiche, se così possiamo chiamarle, sono per la quasi totalità visite di pellegrini che portano il loro tributo devozionale al Santuario di Santa Maria del Fonte, luogo per il quale la città è sempre stata identificata agli occhi del ‘forestiero’. Molto meno per essere anche quella di Michelangelo Merisi, nonostante il pittore si sia cucito addosso il nome del borgo prediletto, appellativo per il quale è famoso in tutto il mondo. Ma Caravaggio, ahimè, non ha lasciato in questa città segno alcuno della sua opera, e poco della sua vita, fatto questo che non ha permesso di sviluppare quella promozione turistica ben curata e sfruttata in altre località similari. Poco, ma meritevole di una visita. Per chi dal santuario si avventura sul viale diretto al centro, dopo una doverosa visita allo splendido complesso di San Bernardino, attraversando l’Arco di Porta Nuova si troverà nel cuore della città. Ci accoglie, subito, l’antico “Spedale di Santa Maria del Sacro Fonte” (iniziato nel 1517), confinante con il complesso dei monaci Cistercensi situato in via Roma. L’ordine dei Cistercensi fece la sua comparsa a Caravaggio verso la fine del secolo XVI quando subentrarono agli Umiliati, la cui congregazione venne sciolta da Gregorio XII nel 1582 con un editto papale. I Cistercensi sin dall’inizio del XVII secolo ristrutturarono il monastero e ricostruirono la chiesa annessa. Progettista, secondo alcune fonti, l’architetto Fabio Mangone, secondo altre l’architetto Giulio Mangone; aggiungendo che i due erano per alcuni fratelli, secondo altri padre e figlio. Il più illustre tra i due è sicuramente Fabio; tra le sue opere più conosciute ricordiamo la facciata del Duomo di Milano, in collaborazione con l’architetto Francesco Maria Richini. La struttura del monastero nella prima metà del Settecento subì alcune modifiche interne. Vennero inoltre ampliate le zone atte al ricovero dei pellegrini e creati degli orti interni, un ampliamento del quale però non è rimasta traccia. Poco dopo la soppressione dell’ordine dei Cistercensi chiesa e monastero vennero acquistati dal vecchio “spedale” oramai trasformato in ospedale civile di Caravaggio. La chiesa una volta sconsacrata, nel secolo scorso, venne abbandonata e privata delle opere sacre. Nel 1971 fu abbandonato anche l’ospedale civile di Caravaggio che si trasferì nella nuova struttura consortile sul territorio
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trevigliese. In quello stesso anno la chiesa fu donata al comune di Caravaggio. La chiesa, dedicata a San Giovanni Battista, patrono dei Cistercensi, è un rifacimento di un precedente edificio sacro intitolato a San Pietro, patrono degli Umiliati (databile alla seconda metà del 1400, se n’è persa ogni traccia), e fu
probabilmente consacrata il 26 maggio 1603, anche se non completamente ultimata, per coincidere con la data dell’apparizione della Madonna. Anche la chiesa, come il monastero, nei primi anni del Settecento subì alcune trasformazioni. Furono costruiti una sagrestia sul lato orientale e un locale dietro il coro, collegati direttamente con il monastero. Fu inoltre eretto un campanile, peraltro non coerente con l’architettura della chiesa. La chiesa fu anche interessata da un intervento pittorico; infatti, in quegli anni, Carlo Ferrario affrescò la cupola, i pennacchi e altre parti del tempio. Gli affreschi furono ricoperti di calcina intorno al 1950 (a esclusione della Assunzione della Madonna, in sagrestia), poiché quando la chiesa fu sconsacrata non si vollero lasciare immagini sacre. La sagrestia custodì per molti decenni tele sacre e libri miniati, portati via con l’abolizione dell’ordine dei Cistercensi. Nella chiesa di San Giovanni Battista, quando apparteneva agli Umiliati, il 14 gennaio del 1571 furono celebrate le nozze tra
Fermo Merisi, figlio di Bernardino, e Lucia Aratori, figlia di Gian Giacomo, alla presenza “dell’Illustrissimo Signore Francesco nostro Marchese e del Magnifico Signor Marco Antonio Secco di Bologna e del Signor Antonio Gennaro”. I due, il 29 settembre di quello stesso anno, diventeranno genitori di Michelangelo, più comunemente noto come il Caravaggio, universalmente riconosciuto come uno dei più grandi pittori di tutti i tempi. Nella sagrestia della chiesa di San Giovanni Battista è stata collocata nel 2010 una copia del ciclo caravaggesco di San Matteo (la Vocazione di San Matteo, San Matteo e l’angelo, il Martirio di san Matteo), tre opere di Michelangelo Merisi che si trovano nella cappella Contarelli della chiesa di San Luigi dei Francesi in Roma. I facsimili sono stati realizzati, grazie alla collaborazione della Fondazione Giorgio Cini di Venezia, da Adam Lowe. Lowe, un restauratore inglese, con la sua equipe di Factum Arte, opera in un laboratorio di Madrid che è considerato leader mondiale nella riproduzione e ricostruzione di opere d’arte. Grazie a un insieme di tecnologia e attrezzature sviluppate appositamente per il progetto, le tre tele sono state duplicate in tutti i loro dettagli; oltre al tratto e al colore, anche la consistenza della pittura, le
Michelangelo Merisi in breve
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ormatosi artisticamente in quel di Milano con il pittore bergamasco Simone Peterzano (uno degli esponenti del tardo manierismo lombardo, allievo a Venezia di Tiziano), Michelangelo Merisi si trasferì a Roma nel 1592 dove iniziò lavorando con pittori come Antiveduto Grammatica e il Cavalier d’Arpino. Ammalatosi, fu ricoverato all’Ospedale della Consolazione: a questo periodo risalgono i celebri ritratti allo specchio tra cui il cosiddetto Bacchino malato (Galleria Borghese). Ottiene un grande successo dipingendo “I bari” per il cardinale
fiorentino Francesco Maria del Monte, di cui diverrà un protetto. Negli anni sarà a libro paga anche del marchese Vincenzo Giustiniani, i Barberini, i Borghese, i Costa, i Massimo e i Mattei. Nel 1597 realizzò i tre capolavori per la
cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi: la Vocazione, il martirio di san Matteo e San Matteo e l’angelo; tra il 1600 e il 1601 la Crocifissione di San Pietro e la Conversione di San Paolo. In entrambe le committenze dovette ridipingere una tela, perché rifiutate a causa
piccole imperfezioni, le impronte del trascorrere del tempo e i diversi restauri. In effetti, Lowe e la sua equipe hanno fatto qualche cosa di più che copiare: letteralmente hanno clonato il Trittico di San Matteo con l’obiettivo di “fare in modo che le future generazioni possano ereditare il patrimonio culturale in buone condizioni e con un’informazione corretta. Riprodurre opere non distinguibili dagli originali, costituisce un contributo fondamentale alle tecniche di conservazione perché permette di ridurre l’esposizione al pubblico ed evita ulteriori restauri”, come ha affermato lo stesso Lowe. Fu la Fondazione Giorgio Cini di Venezia che incaricò per la prima volta Lowe quando pensò di far riprodurre le Nozze di Cana, del Veronese. Il trittico di Caravaggio, così come prima l’enorme tela del Veronese, è stato sottoposto a un’analisi incrociata dei pigmenti e al controllo della sua superficie, attraverso uno scanner piatto con una risoluzione di 1.200 dpi in scala 1:1. Successivamente l’opera è stata scannerizzata con un laser tridimensionale di 100 milioni di punti di misurazione indipendenti per metro e si sono realizzate innumerevoli foto multispettrali con raggi ultravioletti e infrarossi per identificare pigmenti, agglutinanti e smalti. Un sistema di
della loro “irriverenza”, cosa che si ripeterà con la Morte della Vergine per Santa Maria della Scala e oggi al Louvre. Nel 1606 in un duello uccide Tommaso Ramaccioni ed è costretto alla fuga che lo porterà a Napoli (Sette opere di Misericordia e la Flagellazione), a Malta (Decollazione di san Giovanni Battista e Ritratto di Alof de Wignacourt), a Messina (Seppellimento di santa Lucia, Resurrezione di Lazzaro), di nuovo a Napoli e poi, in attesa della grazia da parte di Paolo V Borghese, ottenuta grazie all’invio del celeberrimo David e Golia (Galleria Borghese), morì a Porto Ercole. Recentemente, nell’ossario della cittadina toscana, dopo un grande lavoro di ricerca, un gruppo di scienziati sostiene di essere riuscito a rinvenire i suoi resti.
scanner per il registro dei colori, una stampante 3D per cemento e un sistema per clonare incunaboli e manoscritti mantenendoli aperti ad un angolo inferiore a 90 gradi (utilizzato nella Biblioteca Nacional di Madrid), sono alcuni degli strumenti creati da Factum Arte per portare a termine i suoi lavori. Per Caravaggio è stato appositamente sviluppato uno scanner capace di superare le difficoltà del chiaroscuro e i riflessi della vernice. Per tornare al Merisi: Michelangelo nacque da famiglie radicate da secoli a Caravaggio; un’appartenenza, un vincolo che dovette sentire molto forte, così forte da legare per sempre il suo nome alla sua città. Oltre le due colonne visibile sotto il portico di Palazzo Gallavresi, sede del Municipio, edificio che in una sua parte fu da sempre il centro politico della città, abitò la famiglia Aratori, il ramo materno della stirpe del Caravaggio. Michelangelo però non abitò questa casa: quando arrivarono gli Sforza, dopo l’istituzione del marchesato nel 1525, gli Aratori la cedettero a Giovan Paolo, stabilendo quel rapporto di amicizia che risulterà molto utile a Michelangelo stesso. Bernardino Merisi, padre di Fermo e nonno di Michelangelo, abitava in Porta Seriola. È qui che nel 1577, venuti via da Milano per sfuggire alla peste, si rifugia la famiglia di Michelangelo. Inutilmente: il 20 ottobre padre e nonno muoiono. Lucia Aratori, rimasta vedova, si trasferisce dai propri genitori in Porta Folcero dove il Merisi abiterà fino al 1584, anno in cui andrà a Milano per l’apprendistato nella bottega del Peterzano. Dopo la morte di Fermo, Lucia, assunta la tutela dei figli, rivendica per essi i beni dei suoceri morti senza testamento. Tra il 1588 e il 1589 Michelangelo torna a Caravaggio per vendere la metà delle pertiche di terra, detta Canigio Nuovo, ereditate. Il 29 novembre del 1590 Lucia Aratori muore. Michelangelo, poco alla volta, si disfa di tutta la sua parte di eredità. L’ultimo atto è del maggio del 1592 quando, dopo la definitiva spartizione dei possedimenti Aratori e Merisi insieme ai fratelli Giovan Battista e Caterina, Michelangelo vende anche le pertiche di terra di un coltivo di Cassano. Ed è questo anche l’ultimo segno della sua presenza a Caravaggio. (*) Assessore alla Cultura di Caravaggio Maggio 2015 - la nuova tribuna - 43
Personaggi del collezionismo
Breve storie delle carte
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a storia ufficiale non si è mai interessata alle carte da gioco. Agli studiosi interessano poco i giochi, attratti come sono da dominazioni militari ed economiche. Per questo motivo la loro storia è ancora oggi avvolta dal mistero. Si narra che le carte potrebbero essere nate nell’harem di un imperatore cinese del IX secolo come svago per il suo harem. Le carte poi raggiunsero l’India e successivamente la Persia e il medio oriente, cambiando moltissimo il loro disegno. Sconosciute in Europa nel 1369 (editti sui giochi di quel periodo non ne fanno cenno) furono portate dai saraceni in Spagna durante la loro dominazione e giunsero a Venezia al seguito dei marinai che commerciavano sete e spezie con l’oriente. Tra il 1377 e il 1379 sono già proibite in numerosi paesi (Italia, Spagna, Svizzera, Francia, Germania e in Belgio), segno che in neppure un decennio si diffusero in buona parte del nostro continente. In Spagna e nell’Italia del nord est i semi usati sono ancora oggi denari, coppe, molto simile nei due paesi, mentre spade e bastoni sono alquanto differenti. Le figure erano fante, cavallo e re. In Francia furono inventati cuori, quadri, fiori e picche verso il 1465, derivati probabilmente da quelli usati nei paesi tedeschi (cuori, campanelli. foglie e ghiande). I francesi sostituirono al cavallo la donna, o regina come è anche chiamata. Oggi in Italia si usano tutti questi semi a causa delle diverse dominazioni subite in passato della nostra penisola. Queste carte avevano mazzi da 40 a 52 carte, secondo i giochi per cui venivano usati. I tarocchi hanno come figure sia il cavallo che la donna e in più le 22 carte dei trionfi (detti anche arcani o onori) che portano il totale a 78 carte. Nacquero probabilmente verso il 1430 in Italia, e le città che se ne contendono l’origine sono Milano e Ferrara, alle corti dei Visconti o degli Estensi. Il mazzo da tarocchi era dipinto a mano e riservato alle corti, mentre le altre carte erano riservate al popolo, stampate da rozze matrici di legno. Solo durante la rivoluzione francese le carte cominciarono ad essere usate per la cartomanzia, anche se su alcuni testi si fa risalire questo uso e l’introduzione delle carte da gioco in Europa agli zingari e agli antichi egizi.
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Fara d’Adda/Affascinante esperienza
Le carte e i tarocchi di Virginio Ferrari di Luciano Pescali
Collezionista, naturalista, fotografo, cultore del dialetto lombardo, è però conosciuto per una passione originale, collezionare e studiare carte e tarocchi. Siamo andati a trovarlo nella sua abitazione a Casirate
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irgilio Ferrari, originario di Orzinuovi, arriva a Casirate nel 1976 via Treviglio (dove si é sposato). Collezionista eclettico, appassionato naturalista, fotografo nonché cultore della lingua locale. Oggi però vogliamo parlare di una delle sue tante passioni: la collezione delle carte da gioco, di cui non è solo custode ma anche depositario della storia. Il tutto, mi racconta, ha avuto inizio nel 1975 dopo aver letto un articolo su di un settimanale dove l’autore si diceva preoccupato perché le carte da gioco stavano progressivamente scomparendo. «Ed oggi il pericolo è ancora più incombente: nel 1975 esistevano in Italia 20 tipi di carte, tra carte da gioco, tarocchi e cuccu, mentre oggi ne vengono utilizzati non più di 5, oltre a quello internazionale per il ramino o la scala 40. Peraltro, più che di impoverimento potrebbe essere più corretto parlare di omologazione anche nel campo delle carte da gioco, con il progressivo assorbimento di quelle meno utilizzate da parte di quelle più diffuse. Anche in questo settore la globalizzazione ha fatto le sue vittime! Nel contempo i produttori italiani rimasti in campo sono praticamente solo due, pur tra i più blasonati: DEL NEGRO e MODIANO. Causa prima di questa rapida contrazione il concentrarsi dei giocatori su un numero sempre
più scarso di giochi, ovviamente quelli più diffusi a livello nazionale, con il contemporaneo abbandono di quelli più tipicamente regionali o locali. La mancata frequentazione di tale tipo di giochi da parte dei giovani, sempre più concentrati in via esclusiva su quelli elettronici, ha contribuito ancor più al costante ed inarrestabile depauperamento della platea dei giocatori di carte. In pratica le tipologie sopravvissute sono tre: le napoletane, le milanesi e le piacentine, mentre fino agli scorsi anni ‘50-’60 quasi ogni regione aveva le sue tipologie, spesso più d’una. Come non ricordare a tal proposito le “bergamasche”? Per dare una visione a più ampio spettro va detto che esiste anche un’associazione internazionale che raggruppa i cultori del gioco delle carte, si chiama International playing carts society (IPCS), con sede in Gran Bretagna. Mentre gli italiani iscritti sono solo poche decine, ad oggi non dovrebbero superare le 50 unità», cui in passato anche Virgilio Ferrari ha aderito. «Stesso discorso vale per i musei: presenti in molte località di Francia, Germania, Spagna e Stati Uniti d’America, tra gli eventuali esistenti in Italia dedicate il nostro ne conosce solo uno, sito a Capriolo. Siamo quasi alla conclusione dell’intervista e non possono mancare alcune domande “classiche”». -Quante carte possiedi e dove le trova? «All’inizio ho attinto da vecchi conoscenti o dalle osterie (quando ancora esistevano). Poi mi sono messo a frequentare i mercatini dell’usato sia qui in Italia o, quando mi capitava, all’estero. Anche se diventa sempre più difficile reperirle sul mercato visti i prezzi, molti dei quali ormai irraggiungibili. Però se hai fiuto riesci a fare ancora buone scoperte...». -Se non ricordo male ha avuto anche modo di esporre parte della sua collezione a Treviglio? «Nel 2005 a Treviglio e nello stesso anno anche a Soncino, ...con un lusinghiero successo! C’é stato infatti un buon riscontro
di pubblico e in occasione della mostra é stato realizzato anche un CD messo a disposizione dei visitatori. Inoltre ho anche avuto l’opportunità di animare un pomeriggio di un “Te al museo” degli Amici del Chiostro e di condurre una serata sul tema a Bergamo su invito del locale Rotary Club». -Come tutti i collezionisti, avrà una o più carte a cui è maggiormente affezionato... «Più che affezionato direi che si distinguono dalle altre per la loro caratteristica o per come sono state realizzate. Ne cito alcune in particolare. Un mazzo di carte dell’India (del secolo scorso) realizzate utilizzando strati di stracci ingessati e colorati a mano, con il fondo marrone colorato con i semi di tamarindo. Oppure carte cinesi usate anche come carta moneta, già in uso nel X° secolo. Sempre a proposito di materiale utilizzato, posso citare un mazzo di carte dipinte su foglie di bambù. E da ultimo, un mazzo del gioco detto “cuccu” o “cucco”, che purtroppo é quasi scomparso qui da noi, ma che fino a poche decine di anni fa spopolava tra gli avventori delle nostre osterie».
Mille note musicali per educare i giovani di Hana Budišová Colombo
«Lavorando sull’educazione musicale ci si è resi conto della necessità di uno spazio a parte». Sono sorti così i laboratori di pittura, creatività, cucina, teatro e altro ancora, tanto da dover far un’associazione: “Al di là del mio naso c’è…”
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’educazione all’arte, si sa, non è sempre molto presente nella scuola pubblica. Nonostante la presenza di molti docenti che con la loro passione trasmettono tutto il loro sapere ai propri allievi, ma non basta. Per fortuna esistono sul territorio anche numerose scuole di musica (civiche, private, associazioni, Bande ecc.) che cercano di colmare le lacune nel programma educativo nazionale. In questo panorama vi sono naturalmente realtà di diversa qualità educativa e artistica, alcune eccellenti altre di livello piuttosto basso; alcune con docenti e artisti professionisti altre con docenti dilettanti. Vi sono quindi delle inevitabili differenze dovute alla soggettività di chi gestisce la singola scuola e dal fatto che non esiste in questo panorama educativo un protocollo comune come nella scuola pubblica. La maggior parte di queste scuole sono però accomunate dallo stesso scopo: divulgare l’educazione artistica attraverso l’arte e attraverso la passione di chi la insegna. In particolare, la scuola di musica “1000 note per educare” di Fara Gera d’Adda esiste sul nostro territorio da moltissimi anni. Nata nel 1986 come un’associazione senza scopo di lucro “Progetto Educazione al suono e alla musica”, nel 2004 cambia il nome in “1000 note per educare” e in seguito, nel 2013, si trasforma in una cooperativa sociale con l’obiettivo di ampliare la sua offerta culturale ed educativa, legata in particolare alla musica e alla pittura
con obiettivo di dare tempo, luogo e spazio all’educare la persona attraverso la musica. La Scuola raccoglie allievi della Bassa Bergamasca e copre tutti i comuni limitrofi a Fara Gera d’Adda (Pontirolo, Canonica, Trezzo, Treviglio, Cassano d’Adda e Vaprio). Questa scuola di musica è stata fondata dalla prof. Virna Grazioli, educatrice e musicista poliedrica di Fara Gera d’Adda, attuale direttrice didattica ed artistica della scuola. Il corpo docente è sempre stato costituito da insegnanti con esperienza sia educativa che artistica, così da poter offrire la miglior qualità possibile agli allievi e le loro famiglie. La scuola offre percorsi d’avvicinamento alla musica per i più piccoli (3-6 anni), corsi musicali amatoriali e professionali per tutte le fasce d’età, corsi di strumenti musicali sia di musica classica che moderna, musica d’insieme, l’orchestra per i musicisti più piccoli e musica da camera; inoltre anche corsi di pittura, di espressione corporea e recentemente di teatro. Particolari sono i percorsi di ben-star e benessere, dove l’arte diventa uno strumento per “ben stare” con se stessi e con gli altri, per conoscersi, quindi per “ben essere” con se stessi e con gli altri. Nei quasi 30 anni della sua esistenza la scuola ha formato un gran numero di musicisti. Tra di loro alcuni hanno proseguito gli studi presso i vari istituti musicali (scuole medie ad indirizzo musicale, conservatori ecc) e tantissimi Maggio 2015 - la nuova tribuna - 45
Fara d’Adda hanno continuato a fare musica a livello amatoriale proponendosi nelle attività musicali locali, formando vari gruppi, band oppure proseguendo individualmente. Questo è ciò che misura il vero successo di una scuola, la capacità di produrre allievi che crescendo continuano a coltivare la passione per la musica nonostante gli impegni dell’università, del lavoro e della famiglia. Tutto ciò è frutto di un eccellente approccio didattico e di un ottimo rapporto scuola-famiglia e insegnante-allievo. Questo, è l’obiettivo principale della cooperativa sociale “1000 note per educare”; educare all’arte come un elemento necessario dell’educazione in generale quindi parte integrante della vita quotidiana. Durante i primi anni, confrontandosi con le esigenze degli allievi e con le loro famiglie, ci si è resi conto del bisogno di creare uno spazio a parte, nel quale poter approfondire l’aspetto della “relazione” tra età e percorsi differenti, allargando gli orizzonti ad altre arti non comprese nella programma settimanale della scuola di musica. Sono nati così i laboratori di fine settimana di pittura, creatività, cucina, teatro e altro dove coloro che vi partecipavano andavano scoprendo la relazione tra le diversità. Da qui è nata l’associazione “Al di là del mio naso c’è…”; questo curioso e singolare nome esprime efficacemente l’obiettivo dell’associazione: aprire gli orizzonti e scoprire le diversità in ciascuno di noi. L’associazione, guidata gratuitamente dai propri aderenti, promuove l’educazione alle diversità non come handicap, ma come una risorsa per il bene comune. Oltre ai laboratori già citati, si organizzano gite, gare sportive e altre attività che uniscono tutti i ragazzi e le loro famiglie nell’obiettivo didattico anche attraverso il divertimento. L’associazione s’impegna moltissimo nella realizzazione delle migliori condizioni perché ogni persona, non solo disabile, possa trovare sul proprio territorio dei luoghi dove esprimersi attraverso l’arte, sport e i vari linguaggi culturali, senza etichette e pregiudizi. La suola di musica “1000 note per educare” e l’associazione “Al di là del mio naso c’è…” che ad oggi condividono spazi ed obiettivi, stanno dirigendo tutte le loro energie di progettazione didattica ed economiche verso la realizzazione di un nuovo centro artistico poliedrico attraverso il quale potenziare l’offerta culturale ed educativa a servizio del territorio.
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Treviglio/Nuove iniziative
Coro Icat/Una storia trevigliese
La nascita de «I Musici del Teatro”
di Tienno Pini
Anche le favole vanno organizzate
di Cristina Ronchi
Cari lettori, ora vi conduco in una storia a lieto fine, Anzi, no. Vi metto a parte di un inizio. Un incontro che suggella le basi di una collaborazione che vedrà in divenire frutti importanti. E come avviene spesso, tutto accade per caso. Oppure no...
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artiamo! Mettiamo una telefonata fatta così, senza impegno. Mettiamo che sull’onda della telefonata si organizzi una pizza, molto easy. Mettiamo che i protagonisti dell’incontro siano fra i principali animatori della nostra realtà musicale. E non solo di quella trevigliese. E’ così che a notte fonda e con la complicità di un po’ di grappa di Chiuduno, Paolo Belloli ed Elisabetta Magri pongono le basi di un progetto musicale unico, ambizioso, coraggioso. “I Musici del Teatro” nascono in questo modo. Elisabetta è la direttrice dell’Accademia Musicale di Treviglio e Paolo è il direttore del Centro Studi Musicali. Una conoscenza reciproca che risale ai tempi del Conservatorio. La vita di entrambi impegnata nella musica e in due scuole musicali. Due realtà affatto antagoniste che proprio per tale ragione, hanno deciso di impegnarsi in uno sforzo unico ed interessante: creare una orchestra di tutto il territorio fra giovani diplomati o quasi diplomati con la possibilità di suonare accanto a professionisti già affermati. La risposta ad una esigenza che preme sempre di più, in quanto dovete sapere che per i ragazzi studenti, poche e rare sono le possibilità di suonare insieme e farsi in questo modo le ossa. Il Conservatorio manca di diffuse realtà di “ensemble” per via di oggettive difficoltà di coordinamento ed organizzazione. Gli allievi necessitano, al contrario, della cosiddetta “spinta verso l’alto” attraverso opportunità di entrare in competizione principalmente con se stessi e di migliorarsi, Di evolversi. E l’evoluzione passa anche per repertori vasti, vari che ricomprendono non solo la musica classica ma pure il jazz, la musica alternativa, la musica-lezioni, i progetti didattici, i musicals. Si tratta, in sintesi, di diffondere la musica affiancando le nuove leve con importanti musicisti. Una sorta di masters musicali unici nel loro genere. Il debutto è avvenuto lo scorso 13 febbraio in
Mentre il Coro sembrava aver imboccato la giusta via e godeva di sempre nuovi e maggiori consensi, anche l’organizzazione affinava le proprie modalità operative sia verso l’interno che l’esterno.
occasione del consueto concerto per “La Madonna delle Lacrime” presso la Basilica di San Martino a Treviglio. Questo concerto che rappresenta un incontro tradizionale della stagione musicale cittadina, quest’anno proponeva due grandi novità. La prima: la nuova formazione orchestrale. La seconda: il repertorio musicale. Il concerto è stato introdotto dalla Presidente dell’Associazione I Musici del Teatro, Alda Sonzogni che ha ricordato le finalità di questa nuova realtà musicale ed ha presentato fra gli altri, Simonide Braconi. La guest star di questo concerto. Simonide Braconi venne chiamato a 22 anni dal Maestro Riccardo Muti a ricoprire il ruolo di prima viola nell’Orchestra della Scala di Milano. La sua esecuzione è stata caratterizzata da una struggente intensità che ha emozionato moltissimo. Il programma della serata ha spaziato da Ravel a Faurè e da Vaughan Williams a Max Bruch. La prima suite, Le Tombeau de Couperin, venne composta da Ravel negli anni della guerra, dedicandola ad un amico scomparso tragicamente. Il secondo brano eseguito è stato la “Romanza in FA maggiore” per viola ed orchestra Op. 85 del compositore Max Bruch, esponente del tardoromanticismo tedesco e di
chiara influenza Mendelssonhiana. A seguire, la Pavane Op. 30 di Gabriel Faurè per coro ed orchestra che appare anche nella colonna sonora del film “Il Divo“ di Paolo Sorrentino. Il palcoscenico è stato condiviso dal coro polifonico “Antiche Armonie” diretto da Giovanni Duci che ha dato un notevole esempio di tecnica e di impasto vocale nell’eseguire l’ultimo brano del concerto. Con la suite “Flos Campi” per viola, coro ed orchestra del compositore britannico Ralph Vaughan Williams, alla prima esecuzione italiana, si sono abbinati ad ogni movimento alcuni versi del Cantico dei Cantici. La conclusione con tanto di scroscio di applausi ed occhi lucidi è avvenuta sulla esecuzione virtuosistica di Simonide Braconi su di una sua composizione per viola sola e a chiudere la serata, il bis concesso dall’Orchestra “ I Musici del Teatro “. Treviglio anche questa volta dimostra di essere una vera capitale della Gera d’Adda con una iniziativa unica, di grande respiro, di visione e soprattutto di incredibile arricchimento per tutta la collettività. Non ci resta che fare il nostro più sentito “ In bocca al lupo!” a tutti i musicisti.
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l principio era che una buona esecuzione (talvolta anche ottima o impeccabile) dovesse coniugarsi con un’ immagine affidabile, precisa, puntuale, in generale comunque di prim’ ordine. Ecco allora che i primi rapporti con gli interlocutori, di norma epistolari, dovevano essere chiari e precisi, così come le eventuali richieste, i toni pacati ed affidabili; successivamente l’arrivo del Gruppo doveva avvenire con la massima puntualità rispetto a quanto concordato, il mezzo di trasporto ed il primo approccio sul posto dovevano subito dare conferma dell’immagine di precisione e signorilità precedenti, l’attenzione ai particolari e la ricerca delle migliori condizioni possibili per la concentrazione doveva essere indirizzata verso la prestazione corale. Infine il modo di accomiatarsi ed i contatti epistolari/telefonici dei giorni successivi dovevano apporre un sigillo conclusivo che confermasse nell’interlocutore l’idea di aver effettuato una buona scelta, trovandosi sì ad interagire con un Coro amatoriale ma non per questo meno professionale. Tutti erano coinvolti in tal senso, ciascuno nella propria veste, ma quelli maggiormente impegnati a tal proposito erano, ovviamente oltre al Direttore, il Presidente, Il Capo Gruppo, il “baciatore” (Massimo Stedile) ed il Segretario, nel cui ruolo era nel frattempo subentrato chi scrive. La nuova sede Ovviamente il Coro era anche piacere, divertimento, molto divertimento, gusto di scoprire sempre nuove città ed amici, di ritrovarsi anche fuori dai concerti e dai concorsi per affinare convivialità e spirito di amicizia. Non poteva che essere così! In tal senso chi reggeva le sorti del Gruppo era da tempo alla ricerca di una sede che fosse tutta ed esclusivamente del Coro, frequentabile in qualsiasi momento senza alcun preavviso, dove poter fare le prove, ma anche custodire i vari trofei, ascoltare buona musica (corale ovviamente!), ricevere gli ospiti, festeggiare e quant’altro. Così quando venne proposto uno scantinato del neo restaurato Centro Cattolico Cittadino non ci fu un attimo di esitazione e la richiesta di un canone d’affitto non fu un problema: da sempre il Coro è stato abituato a contare sulle sue forze e nulla gli è mai stato regalato, pur riconoscendo l’importante e costante sostegno della Cassa Rurale e dell’Amministrazione Comunale.
Si trattava di un salone rettangolare di circa 50/60 metri quadri, l’ideale per la sala prove, cui si aggiungeva un ulteriore “appendice” più stretta, di circa 15 metri quadri, altrettanto ideale per farne una zona segreteria/salotto, attrezzata anche per l’esposizione dei premi e dei trofei vari; subito fuori, i bagni. Davvero non si poteva chiedere di meglio! Trovata la sede si trattava di attrezzarla: ecco che allora i coristi si diedero da fare, ciascuno per quello che poteva e sapeva: chi tinteggiò le pareti, chi intervenne sul mobile dei trofei, chi procurò i tendaggi da mettere alle pareti in modo che non ci fosse eco, chi poi effettivamente li installò, chi procurò i mobili per la segreteria, con tavolino e quattro poltroncine per gli eventuali ospiti ed altro ancora. Quest’ ultimo particolare (la fornitura dei mobili) richiama alla memoria la figura di un personaggio, già di una certa età, che fece parte del Coro per molti anni, da tutti riconosciuto come corista a tutti gli effetti senza esserlo mai stato e, chissà perché, senza aver mai ricoperto alcuna carica ufficiale. Si tratta di Virgilio Pellacani, fratello del primo Presidente Antonio e suo socio in affari, che all’interno del Coro aveva un nipote e mariti di nipoti. Per questo, per tutti divenne lo “zio Gino”, frequentatore Maggio 2015 - la nuova tribuna - 47
Treviglio/Concerti
Coro Icat/Una storia trevigliese
Il repertorio dei primi anni
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rani classici di montagna: Dove te vet’ o Mariettina, La vien giù dalle montagne, C’ereno tre ssorelle, Al ciante el gial, Serenata a Castel Toblin, Maitinade del Nane Periot, Era sera, La smortina, Valsugana, La montanara, La villanella, L’è tre ore che son qui sotto, Yoska la rossa, Monte Pasubio, A mezzanotte in punto, Me compare Giacometo, La dosolina, Signore delle cime, Il cacciatore del bosco, Oilà Maruska, Som som, Monte Nero, Bella ciao, Dammi o bello il tuo fazzolettino, Di qua di là del Piave, Il povero soldato, Sul pajon, Su lamentu, Les plaisirs sont doux, Esterina alla lucanda, I menestrelli, Cala giò la nebia, Stela Alpina, Il gran cerchio dell’Alpi, Siore sese. Brani contraddistintivi del Coro ICAT, nell’elaborazione o armonizzazione di Paolo Bittante: Platoff lied, Mary had a Baby, Les trois cloches, Vien su il trenin, Din don dan su la vetta, Go down Moses, Fantasia Trevigliese, Kalinka, W la quince Brigada, Trenta soldà, Eintonig, Deep river, A casa mia … comando io! In generale una produzione di non poco conto, se si considera che tutti questi brani vennero assimilati dai coristi dell’ICAT in meno di cinque anni di vita corale. Alcuni di questi divennero dei cavalli di battaglia del coro trevigliese, un vero e proprio marchio di fabbrica. Le prove si svolgevano normalmente il martedì e il giovedì, dalle 21,00 alle 23,00, ma in periodo di concorsi o di concerti particolarmente importanti era facile giungere alla terza sera, talvolta con qualche mugugno. Il tutto per dieci mesi l’anno, considerata la pausa estiva e un breve intervallo nel periodo natalizio. Comunque fin dai primi anni si possono calcolare in almeno 120 le serate trascorse insieme dai coristi tra prove, concerti, concorsi con trasferte varie; in pratica mediamente i coristi si vedevano un giorno su tre lungo tutto l’anno!
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assiduo ed instancabile di ogni prova e di ogni uscita, dall’approccio cortese e sempre bonario, con l’eterno mozzicone di sigaretta tra le labbra, da tutti benvoluto, con l’unico piccolo difetto di non brillare per ottimismo, ovviamente coralmente parlando. Avere una sede propria, personalizzata e sempre disponibile, favorì non solo lo svolgersi delle prove, a seconda delle esigenze e dell’avvicinarsi dei vari impegni, ma anche la vita corale. In breve venne acquistata una pianola per le prove, e un bellissimo giradischi/radio Grundig con relative casse (sempre installate dai coristi) per l’ascolto dei sempre più numerosi dischi. Ma a parere di qualcuno (Cecca, l’instancabile Capogruppo, vera anima del Coro!) la sede doveva divenire punto di riferimento per tutti, anche la domenica, e per questo doveva essere sempre aperta tutte le domeniche pomeriggio. Detto e fatto, si prese l’impegno di essere presente ogni domenica dalle 14 fin verso le 19, in modo che ogni corista sapesse che, volendo, avrebbe sempre potuto trovare qualcuno in sede con cui discutere di cori, ascoltare musica, chiacchierare, seguire il calcio “minuto per minuto” e molto altro ancora. Nel giro di poche settimane, in cui talvolta il povero Cecca passò ore e ore in solitario, per quasi tutti i coristi passare la domenica pomeriggio dalla sede divenne una piacevole e consolidata abitudine: chi si fermava un’ora, chi mezz’ora, chi tutto il pomeriggio o quasi, chi ci veniva con il figlio, chi con la moglie, ma lo spirito del Coro vi aleggiava per tutto il pomeriggio e i legami si rinsaldavano quanto più le discussioni si accendevano. Il Cecca aveva vinto la scommessa! Un’altra… 1° Rassegna di Canti Popolari “Città di Treviglio” Le prime importanti vittorie e la partecipazione ad alcune rassegne nazionali indussero l’ICAT a pensare di organizzare una rassegna corale a Treviglio con un duplice scopo: soddisfare le richieste e le attenzioni di un sempre più attento pubblico locale e rendere Treviglio, possibilmente in breve tempo, un ambìto punto di riferimento e di incontro per il mondo corale italiano. Fu così che sabato 21 ottobre 1972 il “vec-
chio” cinema-teatro Ariston ospitò la 1° Rassegna di Canti Popolari “Città di Treviglio”, cui parteciparono, oltre ai padroni di casa, il Coro Bianche Zime di Rovereto e due tra i migliori cori del panorama italiano del momento: il Monte Pasubio di Schio ed il Val del Domm di Milano, diretto da quel Toni Galuppo il cui destino si legherà poi per diversi anni al coro trevigliese. Presentatore della serata fu Bepi De Marzi, apprezzato organista, grande autore corale (basti ricordare il famosissimo “Signore delle Cime”) e affabulatore di prim’ordine. Grazie anche alla collaborazione della Cassa Rurale e dell’Amministrazione Comunale, in particolare di Ferruccio Gusmini, fu un grandissimo successo, in un Ariston gremito in ogni ordine di posti e molte persone rimaste in piedi per quasi tre ore, con grandissimo calore da parte di tutto il pubblico ed anche di molti coristi provenienti dalla Lombardia e dall’Emilia. Nel giro di pochi anni la Rassegna di Treviglio divenne davvero una manifestazione di riferimento per il mondo corale e parteciparvi un ambìto privilegio, sino a giungere poi alla partecipazione di importanti cori stranieri provenienti dalla Svizzera, dalla Cecoslovacchia, dalla Polonia. Tuttavia, uno dei complimenti più sinceri, azzeccati (e anche apprezzati) fu quello di uno spettatore della prima rassegna, al termine della quale manifestò il suo plauso ed il suo gradimento sottolineando che l’ICAT aveva avuto l’ardire di invitare cori veramente bravi, con il rischio che questo poteva comportare, evitando facili trionfalismi mediante l’invito di cori meno blasonati. Successivamente la stagione corale 1972 si concluse con altri importanti successi, tra cui la partecipazione al 3° Raduno Nazionale Cori alpini di Schio ed al 1° Concorso Nuovi Canti Popolari “Città di Lecco”, presentato da Romano Battaglia (in cui il coro trevigliese venne invitato, insieme a un importante coro trentino, ad interpretare sei brani inediti d’autore, in una sorta di Sanremo corale riservata ai soli brani musicali), sino all’animazione musicale della Messa di mezzanotte del Santo Natale presso la Cappella dell’Ospedale. Ma se il 1972 fu ricco di soddisfazioni, il 1973 non fu da meno: ecco quindi la qualificazione
A sinistra premiazione della 2° rassegna Canti Popolari “Città di Treviglio”. Sopra il concorso nazionale corale di Ivrea
alla finale del V Concorso Nazionale di Cori Alpini a Ivrea, la partecipazione al Maggio Corale Milanese al Teatro San Fedele di Milano, l’ormai consueta presenza in giugno alla Rassegna Corale Nazionale di Roma in Piazza Navona, mentre, sottoponendo i coristi ad un vero e proprio tour de force, a Milano venivano registrati i brani per il secondo Long Playing. Dopo la breve pausa estiva l’autunno non fu meno denso di impegni, quasi massacrante: ecco quindi, nel solo mese di settembre, il concerto a Carpi (MO), la partecipazione alla Rassegna Nazionale di Scandiano (RE) nella Rocca del Boiardo, il conseguimento del massimo premio assoluto nella sezione maschile al 2° Concorso Nazionale Corali Polifoniche “Città di Ravenna”, presentato da Aba Cercato e tenutosi nello splendido Teatro Dante Alighieri, la partecipazione al 6° Festival Nazionale di Gruppi Corali di Volterra, nella bomboniera del Teatro Persio Flacco. Se si considera che si trattava pur sempre di un Coro amatoriale, per cui ciascun corista aveva i propri irrinunciabili impegni di lavoro e di famiglia, che tutto ciò comunque non sospendeva le due, tre prove settimanali e che gli impegni sopra menzionati richiedevano trasferte di alcuni giorni con centinaia di chilometri percorsi, tutto ciò dà l’idea del grandissimo impegno richiesto a tutti, Direttore, Coristi e Dirigenti vari, ma soprattutto evidenzia il grande spirito di corpo che animava il Gruppo. Subito dopo, sabato 7 ottobre, ecco la 2° Rassegna di Canti Popolari “Città di Treviglio”, presentata da Giancarlo Bregani, grande esperto di canto popolare, con la partecipazione, oltre che dell’ICAT, del Coro Sforzesco di Milano, del Coro CAI Bologna e de “I Crodaioli” di Arzignano. Una manifestazione che ancora una volta raccolse unanimi consensi sotto i diversi profili: organizzativo, di pubblico (con oltre mille spettatori paganti), tecnico e canoro. Nella manifestazione esordì anche, come nuovo Presidente da poco eletto, Agostino Melli, brillante imprenditore trevigliese, impegnato in politica ma soprattutto in precedenti esperienze sportive di alto livello. (5 – continua)
Dall’Inghilterra un coro tutto al femminile Il coro Calycanthus di Treviglio ospita domenica 24 maggio alle ore 17,30 presso il Teatro Nuovo Treviglio in piazza Garibaldi, il coro Handbag of Harmonies di Chester guidato dal carismatico Matt Baker
I
l coro Calycanthus di Treviglio ospita domenica 24 maggio a Treviglio il coro Handbag of Harmonies di Chester, letteralmente “una borsa di armonie”: si tratta infatti di un coro di settanta vivacissime donne che, agghindate con piume di struzzo rosa e stravaganti borsette, cantano a cappella o accompagnate da pianoforte e sassofono. Guidate dal carismatico Matt Baker, eseguono un repertorio che spazia da Aretha Franklin ai Take That. Il coro si è formato nel 2000 ed ha girato in tutto il mondo, ottenendo sempre consensi entusiasti, anche per le divertenti coreografie date dall’uso della voce accompagnata da bizzarri e coloratissimi oggetti. Il Calycanthus si è imbattuto in questo coro molto originale, vincitore di numerosi premi, in occasione
di un incontro nella cittadina inglese di Romsey, da qualche anno gemellata con Treviglio. Incontro organizzato dall’associazione trevigliese “Amici di Romsey”. Il coro inglese -tutto al femminile- si esibirà a Treviglio domenica 24 maggio alle ore 17,30 presso il Teatro Nuovo di piazza Garibaldi. Un doppio concerto che vedrà come secondo protagonista il coro Calycanthus di Treviglio, gruppo corale eterogeneo nato nel 2006 e diretto da Franco Forloni, che presenterà un repertorio più classico. Il concerto ha il patrocinio dell’amministrazione comunale ed è organizzato dalle associazioni Amici di Romsey e Clementina Borghi. Daniela Invernizzi
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Cassano d’Adda/Curiosità
Treviglio/Testimoni di Geova A sinistra il lato della Muzza della clinica che ospitò don Don Bosco, qui in uno scatto inusuale. A destra un gruppo di Testimoni di Geova di Treviglio e zona
Qui Don Bosco si curò la sciatica di Marco Galbusera
Misconosciuta storia di una clinica cassanese in grado di risanare anche i santi. Si chaiamava “Clinica per la cura della sciatica”, dove il fondatore dei Salesiani fu ospite nel 1822. E’ una palazzina, ancora intatta, sulla Muzza
C
apita spesso, gironzolando per il centro storico di qualche borgo, di imbattersi nella lettura di una targa marmorea apposta su una scrostata parete, a imperituro ricordo del soggiorno di qualche grande della storia o della cultura. Marmi che, con una prosa spesso aulica e pomposa, ricordano allo sbadato viandante che in quella casa dalle modeste fattezze, ha passato una notte o qualche ora un protagonista del progresso dell’umanità, intento a studiare piani di guerra, a elucubrare qualche componimento artistico o teoria scientifica o, più semplicemente, a ritrovare la serenità perduta. Non sembrano tuttavia esserci, a memoria d’uomo, lapidi che rievochino un soggiorno per motivi sanitari, del tipo: “Qui soggiornò don Giovanni Bosco, santo protettore della gioventù che, interrotto nella divina missione da demoniaci e fastidiosi spasmi, confidò nella grazia redentrice di un medicamento, dono della Provvidenza, per la restaurazione del sereno spirito e della dovuta salute. A imperituro ricordo della ritrovata salubrità, il santo sacerdote dispose”. Il testo è frutto di pura fantasia ma ben potrebbe costituire un originale motivo di attrazione turistica per Cassano d’Adda. Qui, in una località da sempre beneficiata dal fatto di trovarsi sulla trafficatissima arteria di comunicazione tra la Serenissima e le terre milanesi, villaggio a vedetta dell’Adda e delle sue pianure, tra il XVIII e il XIX secolo, nacque e si svi-
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luppò una curiosa esperienza sanitaria. In una palazzina, sopravvissuta pressoché immutata nel suo aspetto architettonico a ridosso del ponte sul canale Muzza, ebbe la sua prima sede la singolare istituzione della “Clinica per la cura della sciatica”, dove il fondatore dei Salesiani, appunto, fu ospite nel 1822. La clinica fu per lungo tempo assai rinomata, non solo nelle regioni dell’Italia settentrionale ma anche nell’intera penisola, in larga parte dell’Europa centrale e persino nel bacino del Mediterraneo. La sua specializzazione era la cura di una malattia dolorosa e un tempo molto diffusa: la sciatalgia, cioè l’infezione del nervo sciatico. Tutto ebbe inizio verso la fine del XVIII secolo quando un missionario di ritorno dall’India e di passaggio per il borgo cassanese, trovò ospitalità in casa di Orsola De Vecchi. Al termine del suo breve soggiorno il religioso, che di cose strane doveva averne viste parecchie in terra di missione, soddisfatto della premurosa ospitalità ricevuta, decise di regalare alla dama cassanese, oltre a qualche preghiera, un dono originale quanto prezioso: una ricetta medicamentosa, a base di ranuncolo malefico, in grado di curare, quasi miracolosamente, molti dolori reumatici e, in particolare, quelli fortissimi provocati da infezioni e irritazioni del nervo sciatico. La verità della storia non tramanda come la signora De Vecchi e i suoi famigliari accolsero quella ben strana donazione: sicuramente però
in quella casa non dovevano difettare curiosità, lungimiranza e una certa dose di affarismo. Nel giro di pochi anni, infatti, quella ricetta –forse dapprima sperimentata in silenzio su qualche parente o compaesano- era già in grado di richiamare a Cassano centinaia di persone alla ricerca di sollievo dal male. Talmente tanti che si decise, nel 1798, di impiantare una vera e propria attività che trovò sede nei locali dell’Albergo alla Gran Bretagna, locanda allora particolarmente nota. Nel 1856 Orsola De Vecchi morì e la ricetta fu affidata, in “costanza di agonia”, secondo quanto riportano le cronache, alla famiglia Lecchi. “Questa donna – così scriveva don Angelo Grandi nello storico documento “Descrizione della diocesi di Cremona” - godeva la fama di espertissima per guarire le sciatiche con un suo preparato segreto che in vita essa non ha mai voluto a chicchessia manifestare (principi contrarissimi al comune bene sociale) e che solo all’estremo dei suoi giorni, dicesi, lo abbia comunicato”. Il medicamento proseguì così copiosamente a distribuire i suoi benefici effetti, tanto che anche la Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia
si interessò nel 1892 della singolare cura, testimoniando in “17.000 malati guariti dalla donna di Cassano”. Una cifra di tutto rispetto, destinata ad aumentare. Il boom di frequentazioni, convinse i nuovi detentori della cura e, in particolare, la signora Clotilde Lecchi, a trasferirsi dall’ormai angusto albergo, dapprima in un edificio posto sull’attuale via Monte Grappa e, successivamente, in una villa di via Milano. Qui soggiornò, appunto, don Giovanni Bosco, che l’antivigilia di Natale del 1823 si sentì di affidare la sua riconoscenza ad una lettera: “Gentilissima damigella, colgo con grande gradimento l’imminente occasione delle feste natalizie – scriveva il sacerdote dei giovani -, per rinnovare alla S.V. Gentilissima, quei sensi di stima e di affetto da me in simile occasione l’anno scorso esternati quale mia benefattrice del malanno della mia gamba, ora perfettamente risanata”. Agli inizi del Novecento la casa di cura compì un vero e proprio salto di qualità, assumendo le caratteristiche di una vera e propria clinica specializzata, con strutture igieniche e sanitarie per l’epoca decisamente all’avanguardia. “Casa di salute autorizzata con Regio Decreto, espressamente costruita secondo le esigenze moderne dell’igiene e della terapia - recita un’ingiallita cartolina pubblicitaria del tempo - La cura viene eseguita con mezzi scientifici e con risultati soddisfacenti, sotto la direzione del prof. Carlo Spizzi”. Furono quelli gli anni di maggior splendore e fama. Cassano d’Adda si trasformò in un piccolo teatro cosmopolita, diverse erano, infatti, le lingue che si sentivano parlare negli ambienti della moderna clinica. Per molto tempo, inoltre, gli anziani della cittadina, tramandarono, un po’ esterrefatti in tempi di inesistente immigrazione, il ricordo di centinaia di musulmani, con gambe doloranti e ricoperte di bende intrise dal verde medicamento, riuniti ad ogni tramonto nella mia e centralissima Piazza Vittorio Emanuele (oggi Garibaldi) per le preghiere rivolte in direzione della Mecca. Nel volgere di pochi decenni, però, la fortunata clinica fu destinata a rapida e ingloriosa fine. La guerra –con il bombardamento della nuova sede- i crescenti successi della medicina e la conseguente sfiducia per gli antichi rimedi naturali, condannarono a morte la celeberrima casa di cura. Quasi un secolo e mezzo di attività, con un ricco campionario di illustri pazienti, giunti doloranti e ripartiti risanati tra cui anche l’abate e scienziato Antonio Stoppani e il prof. Rizzoli, fondatore dell’omonima clinica bolognese. Nulla si seppe più del miracoloso medicamento: la ricetta si trova custodita in qualche polveroso cassetto e giace inutilizzata. Chissà se in tempi di rinata fiducia per le erbe officinali e la natura, tale rimedio possa godere di ritrovata fama. Se non proprio come principale cura di una clinica specializzata, almeno come prodotto di consumo offerto da una delle tante erboristerie locali. Oppure, più semplicemente, come astuto strumento pubblicitario per una cittadina spesso immemore delle sue antiche tradizioni.
Nessuno ne parla, ma sono tanti e organizzati
R
ecentemente i Testimoni di Geova si sono ritrovati in molti presso il Palafacchetti. Tra di loro ho alcuni cari amici, persone splendide, che da tempo hanno rinunciato ad intaccare la mia inossidabile serenità. Erano decenni che non li andavo a trovare durante una loro funzione, così con la macchina fotografica in mano mi sono presentato, ...in ritardo e sono entrato mentre ottocento credenti erano già seduti ad ascoltare la lettura di brani della Bibbia e a commentarli. Mi sentivo un pesce di mare in acqua dolce, ma incuriosito soprattutto al momento dei riti, a me totalmente ignoti. Alla fine mi fermo a chiacchierare con alcuni di loro, per avere qualche dato e spiegare qualcosa ai miei lettori di questa gente che, meglio di altri, sa organizzarsi anche nel lavoro quotidiano, ma anche in casa. Da laico, che cerca di conciliare la scienza con l’imponderabile e trovare delle ipotetiche soluzioni ad un mondo che dobbiamo tutti raggiungere, faccio fatica a comprendere l’aspetto della Fede, ma così è. Loro sono
affabili, piacevoli, insomma delle persone con cui ti senti in pace, come non cercare di saperne di più sulla loro storia? Mi raccontano che arrivarono a Treviglio negli anni ’60 in un piccolo gruppo, riunendosi in un angusto locale in via Zara. Crescendo rapidamente, a fine 1970 trovarono un locale più ampio in via Colleoni. Nel 1985, amministrazione Bellagente, ricevono in comodato d’uso un’area nel parcheggio Turro e lì sono da allora. Chiariscono che l’edificio l’hanno costruito e arredato totalmente a loro spese, ma il Comune non vuole saperne di cedere l’area, che loro acquisterebbero. Tema delicato. Quanto basta per cercare di approfondire, magari in una prossima occasione, in modo più preciso osservando il loro punto di vista, ma anche sentire quello della gente. Raccogliere il parere del Comune sulla richiesta d’acquisto di un’area -di parcheggio- e le esigenze di spazi più ampi per i pendolari. Esigenze conciliabili? Le vie del signore sono infinite, vedremo. (r. f.)
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Personaggi/Educatori dello sport
Casa Futura il MUTUO CASA DEDICATO ai giovani SOCI
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Chiamato all’Acos da Enzo Riganti, prosegue da decenni e con grande passione il compito di far crescere le giovani generazioni atleticamente, sportivamente e nel rispetto delle regole. “Starò sempre con l’Acos” assicura
L
a Treviglio calcistica, ma anche quella del territorio, riconoscere nella figura di Mario Barbieri un riferimento storico per molte generazioni di bambini. Dai primi anni ‘70, con la fondazione dell’A.C.O.S. Treviglio, Mario è sempre stato un punto di riferimento sportivo e umano sia per i piccoli sportivi che per i loro genitori. La sua personalità, il suo uso abituale del dialetto, il suo particolare carisma, lo hanno trasformato negli anni in un vero e proprio mito. Non è un caso che dal 2004 ricopra la carica di presidente onorario della società calcistica giallonera. Chiediamo a Mario Barbieri, com’è iniziato questo impegno? Che cosa faceva prima di diventare allenatore? «Oltre al lavoro che facevo normalmente, il fine settimana ero impegnato come arbitro e sono arrivato ad arbitrare fino alla Promozione. Poi nel 1973, con la fondazione dell’A.C.O.S, sono stato contattato da Enzo Riganti (presidente e fondatore) per allenare i bambini, da lì non ho più smesso. Ricordo che la prima squadra che mi capitò fu quella della classe 1966, alcuni di loro ancora mi riconoscono quando mi vedono e mi fa ovviamente piacere. Ogni tanto però sono dispiaciuto perché -avendone avuti tanti- magari alcuni non li riconosco o fatico nel
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farlo. Ogni tanto, invece, mi stupisco di come siano cambiati, cresciuti. Poi mi fa piacere vedere che alcuni di loro hanno proseguito la strada del calcio fino a livelli professionistici, oppure sono diventati bravi medici, come il Dott. Sprengler ad esempio, che era un mio allievo». Lei ha sempre allenato i bambini, ma mai i più grandi. Perché? «Ho capito subito che era la mia strada. I bambini mettono in campo una passione che crescendo va scemando. La loro è l’espressione di un calcio puro, lontano dalle polemiche
Alcuni scatti di Mario Barbieri con le sue squadre, in quella di sinistra con il suo aiuto Pino Robecchi. Sotto il fondatore e anima dell’Acos. Enzo Riganti
parlando in generale, vedo genitori in tribuna pronti alla polemica e a volte anche al litigio, oppure vedo meno voglia dei ragazzi di giocare e ritagliarsi un posto in campo. Ripeto, non sto parlando della mia squadra, non mi permetterei mai di parlare male dei miei ragazzi, ma girando nei vari campi da gioco mi sono reso conto di questo, e sinceramente mi dà fastidio». Nella esperienza all’ACOS ci sono state due persone importanti per lei, entrambe scomparse recentemente: Enzo Riganti e Pino Robecchi. «Naturalmente mi mancano tantissimo. Con Enzo vi era un rapporto inizialmente lavorativo, che successivamente si è trasformato in una grande amicizia, tanto che lo considero quasi come un fratello. Mi ha lasciato un grande vuoto, così come Robecchi. Eravamo amici, ci sono stati anche battibecchi per divergenza d’opinione, ma sempre con un grandissimo rispetto, senza mai scadere in litigi. Come Riganti,è stato un personaggio di spicco della storia dell’ACOS, non solo come allenatore ma anche come fisioterapista. Ha curato un sacco di infortuni senza chiedere una lira in cambio. Davvero una grandissima persona che mi manca tanto, così come Enzo».
clessidra87.it
Barbieri, il mito dei piccoli calciatori
e dalle tensioni. Ricordo che i primi anni era bellissimo organizzare le squadre, io stesso andavo nei vari oratori per convincere i bambini e i genitori a farli venire a giocare. Spesso lo chiedevo direttamente hai genitori in Same, dove lavoravo». Chi l’ha avuto come allenatore non può dimenticarsi che al termine dell’allenamento o di una partita, regalava ghiaccioli, gomme da masticare... Lo fa ancora? «Certo, sempre! Loro mi fanno sentire a mio agio e cerco di renderli felici anche fuori dal campo, comprandogli i ghiaccioli o le gomme. Dipende anche dalla stagione e dalla temperatura. E’ un gesto che li fa stare più tranquilli nei miei confronti, perché noto che hanno quasi paura di me, per la mia voce, perché ho un timbro generalmente alto. Forse pensano che sia arrabbiato con loro, ma non è così (e qui sorride). È semplicemente la mia voce che è particolare». Ha mai pensato di smettere o di cambiare squadra? E’ stato sempre fedele all’ACOS... «Mai! Non ho davvero mai pensato di cambiare squadra, perché allenare qui è sempre stato per me un grande piacere. Le squadre che ho avuto mi hanno sempre dato grandi emozioni, poi l’amicizia che avevo con Riganti (ogni volta che lo nomina si nota un filo di commozione) mi ha sempre spinto a restare qui, anche se non ero stipendiato. I soldi non li ho mai chiesti e non li ho mai voluti, tanto che in passato ho rifiutato anche alcune offerte da parte di società importanti come Atalanta ed Inter, dove sicuramente avrei avuto anche un ritorno economico. Ma a me è sempre piaciuto il gusto di allenare con la pura passione di farlo e basta. In tutti questi anni ho fatto tante di quelle partite e trasferte memorabili, che nessun altro avrebbe potuto darmi, e sono contento di esser rimasto sempre all’ACOS, anche oggi. Non ho alcuna intenzione di smettere». Cosa ti piace di più e cosa di meno del tuo impiego? «Quello che mi piace di più, lo ripeto, è stare a contatto con i bambini e vederli crescere piano piano calcisticamente, un fatto che mi dà sempre grande felicità. Quello che mi piace meno è il cambiamento di generazione. In passato vedevo che da parte dei genitori c’era molta più cortesia nei confronti degli allenatori, e i bambini erano spesso molto educati. Adesso,
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Pedalando nel tempo
Treviglio/Luoghi da visitare
Il prezioso Archivio Storico della Crat
Bianchi: una passione celeste
L’Archivio Storico della Cassa Rurale è un gioiello poco conosciuto e fruito da poche persone, eppure questi spazi contengono oggetti e memorie di grande valore storico, sociale, letterario e artistico
a cura di Ezio Zanenga
Scrivo e pedalo. Pedalo e scrivo. E’ maggio, e proprio nel maggio del 1967, la storica fabbrica di biciclette Bianchi si trasferì a Treviglio. E quest’anno celebra il suo 130° anno di fondazione.
T
reviglio - «Narra la leggenda che Achille, invitto eroe, possedesse uno scudo, lucente come il sole, contro il quale si infrangevano lance, spade e dardi nemici. L’aveva forgiato Vulcano, ‘Dio del fuoco’. La ‘Bianchi’ ha carpito il segreto e rinnovato il miracolo del Dio del fuoco rendendo la bicicletta forgiata nelle sue officine una libellula agile e vibrante, un’aquila fiera e possente, dotata di magiche virtù». Non è farina del mio sacco ma un ‘estratto’ dal catalogo commerciale ‘Bianchi’ del 1929. E poiché tra leggenda e realtà vince la leggenda, mi piace pensare che così sia stato. E’ la più antica fabbrica italiana di biciclette. Per scriverne la storia, gli sono stati dedicati interi volumi. Un impegno arduo farne una sintesi, ma, da buon trevigliese, per prima cosa ricordo che dal 1967 (non dal 1960 come pubblicato sui giornali locali, provinciali e nazionali) la sua sede è nella nostra città. Nasce nel 1885 a Milano, in via Nirone 7, come officina meccanica, fondata da Edoardo Bianchi (1865-1946), allora ventenne, cresciuto dai Martinitt in quanto orfano di padre. Curiose le insegne della prima bottega: ‘Velocipedi, cuscinetti a sfera, carrozzelle per malati, campanelli elettrici, istrumenti di chirurgia…”. Ma Edoardo Bianchi punta sulla produzione di biciclette e quasi da subito con un Reparto Corse: ruote di uguale diametro, trasmissione a catena e dal 1988 le gomme pneumatiche. Vogliono pedalare anche il Re e la Regina (siamo nel 1895): due ore di istruzione per Re Umberto, due giorni per la Regina Margherita. Da allora (e ancora oggi) il marchio Bianchi è sormontato dalla corona Reale. Nel 1901 nasce il moto-bicicletto, poi dal 1903 motociclette, auto, camion Uno sviluppo ed un successo inarrestabile. E’ del 1913 la scelta del ‘celeste Bianchi’, colore simbolo. Nel 1914 vince il concorso nazionale per dotare di biciclette l’esercito italiano: è la bicicletta dei Bersaglieri. A fine anni Trenta la produzione annua sfiora le centomila biciclette con quattromila dipendenti. Purtroppo, nell’agosto del 1943, gli stabilimenti milanesi di viale degli Abruzzi vengono rasi al suolo da un bombardamento alleato. Si
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ricomincia da zero. Nel 1945 immediato è il rilancio del settore biciclette, staccatosi da quello dei motori, ma nei primi anni Sessanta la Bianchi accusa una profonda crisi sino all’intervento del fondo speciale dell’Istituto Mobiliare Italiano che permette la costruzione di un nuovo stabilimento a Treviglio, inaugurato sabato 20 maggio 1967, in concomitanza con la partenza del 50° Giro d’Italia. Nel 1972 i fratelli Trapletti acquistano l’Azienda che nel 1980 entra a far parte del Gruppo Piaggio Nel 1997 passa ad un Gruppo svedese il cui proprietario Salvatore Grimaldi, pur con un inevitabile ridimensionamento, garantisce continuità al marchio, oggi presente in tutti e cinque i Continenti. Ma il fascino, il mito, assolutamente unico, del nome ‘Bianchi’ è legato allo sport, al ciclismo. Il primo campione della storia sportiva fu Giovanni Ferdinando Tommaselli (18761944) che nel 1899 vince a Parigi il Gran Prix de vitesse. Successivamente arriverà ad essere amministratore delegato della stessa Bianchi per oltre vent’anni. Nella sua storia c’è Costante Girardengo, Fausto Coppi (un uomo solo al comando, la sua maglia è bianco-celeste…), Antonio Maspes, Felice Gimondi (che vincerà il suo primo Giro proprio nel 1967), Gianni Bugno, Marco Pantani, per citare solo i più grandi. C’è un pezzetto della vita di tutti noi. Avevo uno zio ciclista che mi regalò la mia prima bicicletta da corsa. Non era una Bianchi, ma il colore si avvicinava al celeste Bianchi. Da lontano, dicevo a me stesso, penseranno sia una Bianchi e mi sembrò di toccare il cielo con un dito… La magia di un colore. Un fenomeno che dura da centotrenta anni, di cui 48 nella nostra città. Come molti trevigliesi sono stato testimone nel 1967 dell’inaugurazione dei nuovi stabilimenti, con la presenza del Ministro Emilio Colombo, del Patron del Giro Vincenzo Torriani, del sindaco Ermanno Riganti, delle maestranze e di tutta la carovana del Giro d’Italia, con Adorni, Merckx, Anquetil, Gimondi, Motta… Forse l’evento sportivo più eclatante che mai Treviglio abbia ospitato. Discorsi, medaglia d’oro a Dario Beni vincitore nel 1909 della prima tappa del primo Giro d’Italia in maglia ‘Bianchi’, esecuzione dell’inno nazionale, benedizione dell’allora prevosto
L
di Treviglio mons. Pietro Cazzulani e il ‘via’ a tutti i girini. La ‘Bianchi’ è quindi parte integrante della storia del territorio e di quanti per quasi mezzo secolo ci hanno lavorato. Per il futuro c’è il progetto di una nuova sede, nella stessa area, in una struttura completamente nuova, nell’ambito di un’ ampia proposta di riqualificazione dell’area stessa, il cui nome continuerà ad essere ‘Bianchi’. La sfida continua, coniugando impegno, tecnologia e passione, ovvero l’anima del marchio storico in assoluto tra i più prestigiosi del mondo.
Le immagini
Sopra, accanto a Fausto Coppi in maglia Bianchi (in un dipinto della trevigliese Mariella Mandelli), il ministro Emilio Colombo il giorno dell’inaugurazione degli stabilimenti Bianchi e della partenza del 50° Giro d’Italia, il 20 Maggio del 1967. Sotto gli stablimenti e l Marchio ‘Bianchi’. Nel box il Sindaco Giuseppe Pezzoni consegna la Medaglia Commemorativa del Miracolo al dr. Claudio Masnada per il 130° di fondazione della Bianchi.
La medaglia della Madonna delle Lacrime
Lo scorso 28 febbraio il sindaco Giuseppe Pezzoni nell’ambito della cerimonia per le benemerenze cittadine, presso il Teatro Nuovo Treviglio, ha consegnato al dr. Claudio Masnada, Marketing Manager della Bianchi FIV la Medaglia commemorativa del Miracolo della Madonna delle Lacrime coniata dall’Amministrazione Comunale, con la seguente motivazione riportata su pergamena: “Da 130 anni una bicicletta sola al comando. 130 anni al servizio del ciclismo italiano e la scelta di Treviglio dal 1967 come sede principale dell’Azienda, artefice della diffusione nel
mondo del Celeste Bianchi”. Presenti anche l’Amministratore delegato Bob Ippolito e il dirigente Fabrizio Casellato.
’idea di realizzare un Archivio Storico è nata nel 1993 in occasione della redazione del Giornale del Centenario della Cassa Rurale. Da quella data, poco alla volta, il materiale presente nell’archivio di cui è curatore Paolo Furia, è stato organizzato, informatizzando tutto il materiale cartaceo che maggiormente testimonia la nascita, crescita e sviluppo della nostra Banca cittadina. Si conservano lettere originali di Achille Ratti (Papa Pio XI), scritte quando era nunzio apostolico in Polonia e indirizzate a Mons. Ambrogio Portaluppi (foto). Lettere commoventi che esprimono i dolori dei due sacerdoti; il primo perché nunzio dove imperava il marxismo, il secondo perché operava sotto l’egida dei liberal-massoni non certamente favorevoli alle opere sociali promosse dal fondatore della Cassa Rurale, del Popolo Cattolico, delle Case Operaie, della Soc. dei Probi Contadini di Castel Cerreto e Battaglie e di innumerevoli istituzioni volte alla promozione sociale delle classi meno abbienti. Non di meno interesse è il settore riguardante l’On. Agostino Cameroni, primo deputato cattolico al Parlamento italiano. Di lui si conservano tutti gli interventi alla Camera dei Deputati. Vari faldoni sono dedicati alle istituzioni estinte cittadine che furono la gloria e vanto di Treviglio: la Soc. di Mutuo Soccorso Maschile e Femminile, la Cucina Economica, l’Ente Fiera di Treviglio, e tante altre che qui reputiamo inutile elencare. Un appositi spazio è dedicato ai personaggi illustri cittadini come: don Sandro Mezzanotti, don Piero Perego, don Francesco Rainoni, Mons. Egidio Bignamini, don Gaetano Speroni, sen. Adolfo Engel, Camillo Terni, on. Filippo Turati, biografie degli uomini che hanno fatto la storia della Cooperazione, nonché di quegli uomini che hanno seguito le orme di Portaluppi nella Presidenza o Direzione della Cassa Rurale come Guido Pozzi, Alfredo Ferri, Ettore Mauri, Enrico Frecchiami, GianFranco Bonacina. L’Archivio Storico ha pure un nutrito settore dedicato agli audiovisivi in cui sono conservate migliaia di fotografie e filmati che illustrano i maggiori eventi della Cassa Rurale e della Città. Non trascurabili le rac-
colte di numismatica, filatelia, erinnofilia, annulli postali, medaglie, ecc. Da alcuni anni l’Archivio è stato oggetto di preziose donazioni fatte da privati come: una macchina fotografica da studio della famiglia Santagiuliana, un velocipede della famiglia Redaelli, reperti bellici, di mascalcia e podologia delle famiglie Longaretti, ecc. ecc. In fondo all’Archivio, in un’apposita teca blindata, si conservano la croce pettorale d’oro e la corona del rosario in filigrana d’argento di mons. Portaluppi. Su tutte le pareti perimetrali dell’Archivio ci sono vetrine con attrezzi dei vari mestieri d’artigianato in via d’estinzione. Insomma è un luogo da visitare e da frequentare per studiare il nostro passato, le nostre radici. Per questa ragione è predisposto un spazio per quanti vogliono fermarsi a sfogliare i documenti. Un Archivio prezioso che, pur trovandosi nel cuore della città, pochi conoscono e che merita d’essere visitato. L’ Archivio Storico si trova nell’ex edificio delle Canossiane in via Carlo Carcano. Orari: dalle 9.00 alle 12.00 Maggio 2015 - la nuova tribuna - 55
Storia/Non eravamo buoni, ma “bravi”
Le liti e banditi della Gera d’Adda di Marco Carminati
Un album di famiglia che potrebbe imbarazzarci, infatti leggendo la storia di Treviglio di Emanuele Lodi emerge uno spirito litigioso spinto all’eccesso, tanto da uccidere per dei semplici ravanelli
I
nostri vecchi? Spesso citati come esempio di virtù civile e pietas religiosa, non sempre e non tutti almeno, erano tali. Sentiamo la testimonianza di Emanuele Lodi. Spirito litigioso spinto all’eccesso anche dalla massima incertezza del diritto e clima d’intimidazione reciproca, potevano trasformare –come avvenne in un fatto trevigliese dei primi anni del Seicento– un banalissimo furto di ravanelli, nella scintilla di una sanguinosissima rivolta. Avvenne allorché un contadino di Porta Zeduro uccise il soldato spagnolo, ladro della sua verdura e il popolo in armi, istigato dal podestà Cesare Villa, che fece suonare a stormo le campane ed adunare gli armati. I Trevigliesi insorsero col proposito di massacrare tutti gli Imperiali e a fatica furono riportati a ragionare dall’avvocato Gerolamo Rozzone. Non si distingueva, in questi frangenti, dal resto della Comunità, la classe preminente, che anzi era campione di sopraffazioni e prepotenze, assurte a sistema di vita. In Gera d’Adda e nel trevigliese in modo particolare, i “bravi” -di manzoniana memoria- sembrano trovare il terreno idoneo, forse perché catalizzati anche da figure criminali di prima grandezza, come quel Bernardino Visconti, nato a Brignano nel 1579, e divenuto tristemente noto come l’Innominato. Galeazzo Maria, suo degno fratello, sposava il 24 agosto 1600 la trevigliese Paola Barbarossa, di una ricca famiglia che abitava
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in via di Porta Torre, mentre la sorella Giulia viveva nel borgo, moglie del trevigliese Giovanni Lotteri. L’Innominato fu spesso a Treviglio, dove lo richiamavano molteplici e loschi affari e dove ebbe più di un accolito, come Cesare Zavattino, Giambattista Bordone, Bartolomeo Olivo, Cesare Colpani, Camillo detto Monsignore, Giovanni Paolo Ferrandi, Marcantonio Rozzone. Molti di questi “bei ceffi” erano citati nelle grida del tempo, e qualcuno ricorreva nei documenti dei magistrati con cadenza impressionante, come quel Domenico Rozzone, “prima pestapepe presso lo speziale Cesare Colpani, poi pestacoste presso il Visconti”. E la situazione davvero problematica doveva essere talmente diffusa nelle nostre terre, che Francesco Bernardino de’ Capitani d’Arzago chiese all’autorità spagnola il porto d’armi, motivandone la necessità col fatto che “li abitanti della Ghiara d’Adda non sono sicuri in niun modo, poiché di giorno li spogliano alla pubblica strada et di notte gli scalan le muraglie delle case et sono
assassini tanto in numero che non glie se può far contrasto”. Male oggi? Ieri era peggio che andar di notte... Ci si lamenta oggi di non trovare in giro “anima viva”, a Treviglio, dopo una certa ora serale. Soprattutto i giovani, ma non solo loro, sembrano mal digerire questa... dimensione di borgo fantasma del nostro comune: una dimensione che forse abbiamo ereditato un po’ dalla storia passata. Proviamo allora a curiosare fra le carte antiche e a scoprire cosa avveniva trecento anni fa, in una notte qualunque. “Non c’era cristiano, se non le anime morte dei delinquenti, disposto a vagare a quell’ora per i boschi attorno a Treviglio, che si distingueva appena col profilo incombente dei suoi campanili e delle pusterle sbarrate. Dentro le mura, vegliavano soltanto i vicoli stretti e le abitazioni che la notte zittiva. Isolati l’uno dall’altro dalla fitta vegetazione minacciosa e selvaggia, non meno che dalle tenebre, anche i piccoli villaggi satelliti del grosso borgo, giacevano immobili. Pulcini stretti alla chioccia -contro la quale, solo alla luce del sole, osavano talvolta contrapporsi con ingenua litigiosità- attendevano anche questa volta l’alba nell’identico modo di sempre”. Soldati stranieri, pestilenze, belve feroci, da centinaia d’anni erano purtroppo familiari a quei terreni fertili e umidi, dove secoli prima regnava ancora sovrana l’immensa palude del Lago Gerundo. In parte asciugate e rese fertili, grazie al duro lavoro di generazioni di contadini, le terre un tempo sommerse non si potevano però dire bonificate; non da tutti i pericoli, almeno. Due soprattutto rimanevano di preoccupante attualità, in quello scorcio del diciassettesimo secolo: le bestie selvatiche -particolarmente lupi, proliferati in maniera incontrollata, di pari passo col regredire degli insediamenti umani, dopo le falcidie delle guerre tardo rinascimentali e delle carestie e pestilenze, che avevano pesantemente coinvolto la Gera d’Adda, e delinquenti, che a sud di Treviglio in modo speciale spadroneggiavano con impunita arroganza. Qui, in prossimità del confine fra i domini della Serenissima e del Ducato Milanese, l’incertezza ancora maggiore del diritto, propria delle terre di confine, aveva reso zona franca, e dunque ricettacolo di ogni sorta di ribaldi, una vasta fascia di boschi e di campi. Alcune cascine isolate si erano trasformate in veri e propri covi della braveria, che parlava cremasco, bergamasco, bresciano, veneto, oppure milanese, non raramente con accento spagnolo. Prima del tocco dell’una di notte –quando silenzio e oscurità erano calati sulle campagne– il coprifuoco imponeva che le porte dei borghi fossero chiuse a chiave, alzati i ponti levatoi, là dove ce n’erano, e nessuno potesse entrare nel consesso civile, né lasciarlo, senza il permesso dei Podestà. Maggio 2015 - la nuova tribuna - 57
Treviglio/Un hobby professionale
Dario Majolo: “Il mio Paradiso in cantina” di Lucietta Zanda
Da bimbo costruiva plastici, da grande, quando era dirigente della Bianchi, fece partire la produzione della Mountain Bike. Poi si mise a fare il detective nelle aziende per vedere cosa non funzionava, ma non ha mai smesso di fare plastici
A
vevo casualmente citato Dario Majolo in un mio precedente articolo su questa rivista quando, parlando di giocattoli e delle vetrine natalizie allestite da Gelmi durante la mia infanzia, ne ricordavo il grande assortimento esposto tra cui bambole pupazzi di ogni tipo e... un fantastico plastico di trenini Rivarossi. Non era da tutti avere un plastico così, ma il mio amico di allora Dario, a soli 13 anni, aveva cominciato a costruirsene uno davvero magnifico. Lo rivedo dopo circa quarant’anni di mancati contatti: qualche capello diversamente nero e con la stessa verve rafforzata da un certo piglio caratteriale, una dialettica inesorabile, attento e molto sensibile dal punto di vista umano. Lo rivedo nella sua spaziosa casa… in cielo, al quinto piano di un edificio da cui si vede il monte Rosa nelle limpide giornate e l’aria sa di orizzonti puliti. L’enorme terrazza che gira tutta attorno all’appartamento, già di per sé stessa è un progetto architettonico di questo eclettico “ragazzo”, con quelle fioriere a listelli di legno a far cornice ai numerosi archi che sostengono rampicanti e cespugli dagli strani nomi, fiori e pianticelle di ogni tipo. E’ Gemma –sua luminosa compagna da quasi sempre- la fata giardiniera, ma è Dario ad aver realizzato tutti i particolari in legno con le sue mani da mago Merlino. Parliamo di quel famoso trenino elettrico che da bambina mi aveva tanto affascinato, da in-
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durmi con insistenti preghiere a farmene regalare uno da papà per Natale. Forse mi aspettavo che arrivasse completo di ponticelli, scambi e gallerie, ma di plastici non avevo capito niente, mentre Dario sapeva già tutto cogliendo esattamente come realizzarli. Mario, il papà di Dario, lavorava nelle ferrovie come impiegato, sarà una coincidenza ma come spesso capita, i geni familiari contano
nell’influenzare le attitudini. E così i binari le stazioni e gli scambi diventano la molla per scatenare la sua creatività. Mi spiega che progressivamente si affinava in lui la capacità di riprodurre la vita vissuta nel reale cogliendo nel paesaggio in natura proprio quegli elementi in grado di rendere vivo anche l’ambiente virtuale. E come tutti i veri modellisti si limita a comprare treni e binari, creando da sé tutto il contorno paesaggistico con materiali di fortuna e rigorosamente in scala perfetta. Esattamente questo era il motore a spingere la sua passione. Alla base naturalmente vi era un esteso e complicato progetto iniziale che partendo dai disegni, modulo dopo modulo, ne inglobava l’insieme. Su quel progetto realizzava poi ogni minimo maniacale dettaglio scovando attorno il materiale più adatto per poter essere realizzato nel modo più fedele possibile alla vita reale. La scelta delle scuole superiori viene fatta in funzione di questo suo hobby che richiede competenze tecniche in grado di poter far funzionare un trenino e tutti gli annessi elettrici che non andavano certo a vapore. Si diploma quindi come perito elettrotecnico all’ITIS. Questa scuola lo forma completamente: “la cantina del plastico –racconta Dario- diventa un mondo parallelo che assorbe tutto il resto, senza condizionamenti”. L’esecuzione del plastico è una continua sfida spesso in antagonismo con gli evidenti limiti materiali della concreta realizzazione. Ma è divertente e l’impegno assiduo lo porta a provare continuamente la propria ingegnosità. Il plastico, finito finalmente dopo un po’ di anni, raggiunge le considerevoli dimensioni di tre metri per due in scala H-Z per la quale ogni centimetro ne corrisponde a ottantasette nel reale. Una stanza! I familiari, da buoni educatori, guardano con occhio benevolo e condiscendente la prorompente attitudine modellistica del figlio. Il papà che teneva i pregiati vini in cantina, poco partecipativo in genere nonostante l’attinenza professionale, ammette tuttavia con riluttanza che il plastico poteva essergli comodo per trasportare i vini sui vagoni merci direttamente dallo scaffale alla porta! Quando però mamma Angela, con evidente sollievo, viene informata da Dario circa l’imminente
Alcune immagini dei mirabili plastici realizzati da Dario Majolo. Una passione che coltiva da cinquant’anni e che continua con grande soddisfazione
uscita da casa per sposarsi, gli intima perentoriamente di portarsi via dalla cantina anche il plastico suggerendogli scaltramente di offrirlo alla moglie come dote. Più facile a dirsi che a farsi. Impossibile trasportarlo intero. E così, con la morte nel cuore, non trovando nella nuova casa una cantina sufficientemente spaziosa per accogliere la sua creatura… lo smonta pezzo per pezzo fino all’ultima vite! Nonostante l’immane frustrazione per essere stato privato con tale freddezza del suo “giocattolo”, non si dà però per vinto e trova un tollerabile palliativo nell’esecuzione di plastici per l’edilizia. L’hobby lo ripaga almeno in parte della grave perdita morale perché è anche remunerativo. Lavora per imprese e agenzie immobiliari cercando di infondere in essi lo stesso principio valido di sempre che cioè: “debbano rispecchiare un contesto di vita ricco di dettagli reali e quindi vivo”. Non si pensi tuttavia, nonostante la forza della sua creatività lo spingesse soprattutto in direzione “plastici”, che Dario dedicasse tutte le sue risorse solo a quello. Sfaccettato com’era a 360 gradi, dopo il diploma e il militare aveva trovato un ottimo impiego come project manager presso la Bianchi di Treviglio, dove si fermerà fino a cinquant’anni. E proprio qui, la sua mente leonardesca mai ferma, lo porta ad elaborare e a mettere in produzione la prima mountain bike. Cosa che resterà a memoria di lui negli annali dell’azienda. Dopo venti e passa anni gli viene offerta anche la possibilità di lavorare come analista di aziende presso una società belga. Lavoro durissimo che all’inizio richiede uno sforzo enorme soprattutto a livello caratteriale. Sono infatti necessarie non solo doti di preparazione e lungimi-
ranza, ma soprattutto un carattere ferreo e mirato a frugare senza troppi scrupoli nelle diverse procedure delle aziende, per scovarne difetti e vizi, e risolverne le problematiche. Insomma una sorta di irriducibile commissario Javert, per chi avesse letto “I miserabili” di Victor Hugo. Lavoro duro che lo porterà in giro per l’Italia e lo farà ulteriormente crescere a livello professionale. Questo impegno lo accompagnerà fino all’anno scorso quando si ritira. Ma nel frattempo, undici anni fa, ha cambiato casa. Quella nuova, in cielo, è stata prima di tutto scelta per le dimensioni della cantina oltre che della terrazza, per poter riprendere il vecchio indimenticato amore: un nuovo plastico!!! E così riparte, alè tutti in carrozza per un altro giro, ma ‘sta volta lo vuole in scala ridotta della metà rispetto al primo. Questo misurerà un metro e novanta centimetri per novanta. “Tutte le abilità conseguite e sperimentate sulla prima costruzione” -mi spiega- “dovevano essere ricalibrate per poter operare in un universo così piccolo e difficile manualmente”. Me lo mostra e rimango basita di fronte a certi dettagli che mi illustra via via. Vagoni, binari, luci e semafori, tutto in formato mignon
e fatto rigorosamente a mano. Compresa una lillipuziana edicola di giornali ottenuta fotografandone un insieme vero, miniaturizzando il tutto col computer ed applicando a mano i vari pezzettini, dopo averli ritagliati, sul materiale leggerissimo. Artigianale anche il complicato quadro elettrico di comando che muove perfettamente quel mondo robotico. Ogni struttura contenente cavi è sollevabile per potersi infilare comodamente con le mani in caso di guasto. Se ci si china e lo si guarda da sotto, ti gira la testa al pensiero del lavoro pazzesco che c’è dietro a tutto quell’infernale intreccio di fili elettrici. “Questa struttura comprende tre linee” -illustra Dario- “con tre sistemi di bloccaggio che permettono di far circolare in maniera autonoma due diversi treni per linea che a turno si fermano e ripartono. Dagli scambi, ai semafori, alle luci, tutto è perfettamente coerente con i movimenti del treno”. Partendo dalla copia esatta della vecchia stazione di Treviglio prima che venisse demolito il vecchio grazioso bar con l’aiuola che sorgeva accanto, fino alla superba stazione di Cagliari. Su tre livelli. Formidabile! Gli chiedo ingenuamente quanto tempo dedica a far girare il trenino supponendo che questo sia il target finale. “Mavà, lo scopo non è il giocarci come i bambini, il divertimento sta tutto nella costruzione in sé stessa che più dura è meglio è!”. Formulare progetti per il futuro, per una mente diabolica come la sua non è semplice. Ha due figli che hanno mutuato sì la sua passione, ma per il modellismo dinamico: motoscafi, elicotteri, aerei… “In più Paolo ha sviluppato questa attitudine all’interno del settore droni, aprendo un’azienda di produzione a Caravaggio che sta prendendo molto piede e a cui mi sto dedicando anch’io”. Ma questo nuovo progetto farà parte di un ulteriore racconto nella prossima puntata. E la storia dei Majolo continua. Maggio 2015 - la nuova tribuna - 59
Lettere & Commenti
Lettere & Commenti Cerimonia del 25 aprile ‘15
Chi c’era e chi no
Treviglio - 25 aprile 2015: erano davvero molti i trevigliesi in corteo per celebrare il 70° anniversario della Liberazione. C’ero anch’io, in sintonia con il sentimento sotteso alle parole del Capo dello Stato Sergio Mattarella: “Fare memoria in un popolo vuol dire anche crescere insieme. E la nostra storia democratica ci ha aiutato a crescere. Oggi possiamo riconoscere che nella lotta partigiana vi furono, accanto ai tanti eroismi personali e ai tanti straordinari atti di generosità, anche alcuni gravi episodi di violenza e colpevoli reticenze. Questo non muta affatto il giudizio storico sulle forze che consentirono al Paese di riconquistare la sua indipendenza e la sua dignità”. C’erano molti cittadini e, purtroppo anche questa volta, un solo rappresentante, con bandiera, delle nostre scuole. Un plauso, dunque, all’Istituto Agrario “Cantoni”, da anni puntualmente presente alle cerimonie, compresa quella del 4 Novembre. Perché gli studenti non partecipano? Forse perché non sono abbastanza motivati, o forse perché noi adulti non sappiamo trasmettere loro, con la giusta passione, il significato di questi momenti celebrativi? Pochissimi gli studenti, ma assai scarsa anche la rappresentanza dei nostri amministratori comunali. “Li vedremo tutti poco prima delle prossime elezioni”, mi ha risposto, in modo sarcastico, un’amica meno sempliciotta di me. Io, poi, sono in pena per i due ragazzi, che, imponendo a tutti la loro presenza urlante, hanno gridato a piena gola, nella parte finale della cerimonia, la loro risentita ostilità. Viso contratto, paonazzo, giugulari gonfie e pericolosamente dilatate. Insomma, a rischio d’infarto! Ripeto, caro Direttore, sono in pena per loro. Carmen Taborelli
Squadrismo da condannare
Se è vero che la presenza, intesa come esserci, tende “ad abbattere le barriere tra cultura e
vita quotidiana, tra fenomeni istituzionali ed espressioni spontanee, tra pubblico e privato e, in ultima analisi, tra soggettività e socialità”, tradotto questo concetto come contestazione in sede del discorso tenuto dal Sindaco Beppe Pezzoni in occasione della celebrazione del XXV Aprile, non si capisce il motivo della aggressione al reporter che ha ripreso detta contestazione, divulgandola nello spazio e nel tempo via web. Al di là dello sdegno, della solidarietà, non c’è interpretazione sociologica che tenga. L’esclalation che ha portato dalle parole ai fatti si ricollega a quello squadrismo fascista che doveva essere l’oggetto della diatriba, della divaricazione di pensiero e, in un’epoca dove tutti documentano tutto con cellulari e quanto altro, l’individuazione di “un colpevole” che dovrebbe essere “complice inconsapevole” è altrettanto innaturale. La mia reazione a caldo contro la protesta verbale è stata quella di pubblicare una foto tratta dal film “Accattone” di Pier Paolo Paso-
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E’ vero abbandono?
Isabella Mazza, in questo primo contributo da noi sollecitato, parlando dell’area Baslini così come oggi appare, ricorda il padre Carlo, un perito chimico che fu direttore della Rhom And Haas, azienda che aveva originariamente sede proprio all’interno della Baslini, ma completamente svincolata dalle sue politiche produttive e di sicurezza.
O
La Baslini una volta era periferia
ggi fa quasi parte del cosiddetto centro: intorno sfrecciano veloci auto e camion di ogni foggia, tutti tesi a raggiungere velocemente la propria meta. Al silenzio si sovrappongono ora i clacson del traffico locale, rumori di mezzi impiegati nella costruzione della ciclabile viola. Pochi guardano giù, verso l’area ex Baslini, distesa abbandonata, solo erba alta e trascuratezza: si aspetta che il terreno sia bonificato dai residui di sostanze chimiche per tanto tempo lavorate nei laboratori e conservati nelle cisterne. Per chi voglia sottrarsi un attimo all’incalzare delle attività quotidiane, è possibile però vedere che qualcosa si muove ancora tra i resti arrugginiti delle strumentazioni: sono i Ricordi. “Qualche volta capitava che la mamma ci preparasse e che andassimo all’uscita della fabbrica ad aspettare il babbo, per consumare anche con lui la merenda alla Stazione centrale, dove io m’incantavo a seguire i guizzi ritmati dei pesciolini della vasca rossa. Il babbo era molto alto e poteva perciò abbracciarci tutte e tre contemporaneamente: nel naso è ancora vivo l’odore dei suoi abiti, lo stesso che, negli anni a seguire,
durante le sue lunghe assenze da casa per svolgere la sua professione all’estero, mi confortava quando aprivo il suo armadio per sentirlo più vicino. Raccontava, in quelle lunghe ore del tardo pomeriggio, delle difficoltà della vita all’interno dello stabilimento, della necessità stringente di predisporre norme di sicurezza per gli operai, lavoro al quale dedicava anche i giorni di riposo, a tutela della loro incolumità, della diffusa passione di ognuno nell’attendere alle rispettive mansioni, delle soddisfazioni derivanti dalla buona riuscita di un prodotto. I “suoi” operai, il “suo” laboratorio hanno continuato a vivere con lui e con i “suoi” uomini, tutti travolti dai colpi dell’età avanzata ma sostenuti dal senso di appartenenza, dallo spirito di collaborazione ai quali ancora facevano riferimento quando si incontravano casualmente per la strada. Cinquant’anni di fatiche, di speranze, di lotte che hanno cementato vite tanto diverse, distanti solo per il ruolo rivestito in fabbrica o per la lingua parlata. Quando oggi passo dal cavalcavia, non posso trattenermi dal pensare a quanta vita, a quanto amore, a quale rispetto aleggino sopra quei fili d’erba, a come, in realtà, quell’area desolata sia più viva di tanti altri spazi del luogo, occupati adesso da edifici scintillanti, considerati indispensabili alla felicità, ma dai quali non si ode nessuna voce”.
(Isabella Mazza)
In alto la Baslini negli anni ‘50, accanto da sinistra i dirigenti della Filital (poi Rhom And Haas: Carlo Mazza, Dr. Antonio Ausari, Sig. Giuseppe Pelissero, Sig. Rosario Sollazzo, Dr. Antonio Nanussi, Rag. Basilio Corti e dott. Franco Pellaschiar
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Gera d’Adda da vedere
Lettere
A Misano i volontari salvano la chiesetta
E
ntrando in paese è impossibile non notarla: la chiesa di San Rocco dal ‘600 si trova all’ingresso del centro storico di Misano, dove si incrociano le principali cinque vie del borgo. Oggi grazie al lavoro di una squadra di volontari la chiesetta è un fiore all’occhiello della comunità e sfoggia tutta la sua bellezza. È un edificio semplice, senza particolare rilevanza dal punto di vista artistico. Tuttavia i misanesi vi sono affezionati, da sempre. Lo testimoniano i documenti presenti nell’archivio parrocchiale che parlano di confraternite ad hoc per San Rocco, le feste rionali che un tempo venivano svolte e la bellissima pala d’altare presente all’interno dell’edificio sacro. È doveroso raccontare brevemente la storia di questo luogo. Alcuni documenti confermano che l’edificio risale al 1600. A testimoniare questa informazione troviamo la grande pala d’altare conservata all’interno della chiesa che riporta la data 1653. È un bellissimo dipinto su tela che raffigura i santi Rocco e Sebastiano a fianco della Madonna, al centro troviamo una raffigurazione del borgo di Misano in cui possiamo distinguere la chiesa in questione e i pochi edifici del paesello. Qui, un tempo, vi era il cimitero cittadino: pare che durante la peste di manzoniana memoria vi si trovasse il lazzaretto in quanto il luogo era posto all’esterno delle mura del borgo. Per questo motivo la chiesa venne dedicata al santo francese che nella sua vita si dedicò agli appestati. È più recente il piccolo campanile, sorto nel 1700.La chiesa subì un restauro negli anni ’80, ma dopo vent’anni l’edificio mostrava moltissimi segni della scarsa attenzione che gli era stata riservata. Ed è per questo che un bel gruppo di misanesi si è messo una mano sul cuore e ha deciso di adoperarsi per restituire dignità alla chiesetta. Grazie alla generosità di tre famiglie misanesi che hanno pagato il ponteggio (Giuliani, Invernizzi e Zolio) i lavori sono potuti iniziare. Era l’estate del 2013: sotto il sole rovente e nel tempo libero gli “Amici di San Rocco” (così è stato chiamato il gruppo) si davano da fare per intervenire nei punti critici. Sistemato il tetto per eliminare le infiltrazioni,
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le finestre, lo zoccolino per l’umidità… Una serie di piccoli interventi necessari che hanno riportato all’antico splendore San Rocco che ora, anche nelle ore notturne, è meravigliosamente illuminata. Dopo la riconsegna alla comunità i volontari si sono dati da fare per sistemare l’interno durante l’estate 2014. Finalmente, oggi, i misanesi possono ammirare la bella chiesa, a cui in
tanti hanno contribuito dando delle offerte. I lavori, infatti, sono stati tutti pagati senza lasciare un euro di debito alla parrocchia. Un modello di volontariato molto particolare che ha unito imprenditori e semplici operai alle varie “maestranze” cittadine, tra cui un fabbro, pittori, giardinieri e via discorrendo, ma più semplicemente tutto il paese.I misanesi sono grati a questi volontari, specialmente i più anziani che ogni sera si fermano sul muretto che delimita il confine del bel giardino della chiesetta per il consueto “parlamentì” (in italiano parlamentino, o piccolo parlamento) dove si raccontano le novità e curiosità del paese… Ma questa è un’altra storia che affonda le sue origini nella Storia di Misano. Ivan Tassi
lini, rimarcando così il gap culturale insito nei vari tipi di protesta. La seconda reazione alla notizia del pestaggio del reporter Emy Zanenga mi ha portato a rileggere le lettere di Aldo Moro dal carcere delle BR. Nella lettera nr. 38, oramai conscio di essere vicino alla fine, Aldo Moro scrive alla moglie Noretta: “Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo…” Noi speriamo ancora ci sia luce anche nella nostra città, luce che certi atti non possono ottenebrare.
Giovanni Senziani
La dichiarazione del sindaco L’intolleranza non ha colore, può essere nera o rossa, verde o bianca, può venire da una parte o dall’altra. Ed anche la violenza non ha colore, ma solo vittime ed artefici. Non esiste che qualcuno possa pensare di rovinare una mattinata di festa, il più possibile condivisa, in nome delle sue ragioni che gli paiono essere “più ragionevoli” di quelle di chi la pensa diversamente da lui. Non esiste che, in nome della libertà, la propria, si possa limitare quella di altri. Non esiste che una Città, ancora una volta, debba vedere l’intervento delle forze dell’ordine per limitare gli eccessi di pochi facinorosi che si arrogano il diritto di fare quello che vogliono, impedendo ad altri l’espressione delle proprie idee. Non esiste che li si giustifichi perché “sono ragazzi”, perché “li conosco e non farebbero mai cose simili”. Non esiste che un videogiornalista locale venga atteso sotto casa, la notte, e minacciato e malmenato per aver fatto il suo lavoro, documentando quanto accaduto. La mia piena solidarietà ad Emy Zanenga; anche il suo lavoro è garanzia di informazione e si basa sulla libertà di espressione e di cronaca, duramente conquistate. Quelle libertà che anche ieri qualcuno, in nome di non so che cosa, ha voluto negare agli altri.
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Beppe Pezzoni
Senza se e senza ma
Piena solidarietà a Emy Zanenga, ma anche al sindaco, che si è trovato a gestire una situazione di disagio estremo, soprattutto perchè oltre alla manifestazione squadrista in Piazza Insurrezione, si è aggiunto il pestaggio del nostro collega e amico. Un fatto di violenza politica di cui non si ha memoria dopo le vendette, le esecuzioni sommarie e i pestaggi seguiti al 25 Aprile 1945. Nonostante questo i commenti di molti trevigliesi su Facebook hanno fatto emergere forme di comprensione verso questi giovani “che sbagliano, eccedendo nella protesta, ma il sindaco non doveva concedere lo spazio pubblico a Forza Nuova”. Come se fosse legittimo e non abuso d’ufficio, non autorizzare una manifestazione ad un movimento su cui non gravano disposizioni di legge che impediscano l’agibilità politica. Parlo di Forza Nuova. Forse meno comprensione dei cittadini, ma anche da parte delle istituzioni paludate che dovrebbero vigilare e agire, aiuterebbe. il direttore
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Maggio 2015 - la nuova tribuna - 63
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