8 minute read

“Non bastano più incentivi e disincentivi. Per stare tutti meglio dobbiamo collaborare”

Secondo il filosofo Luciano Floridi politica e rappresentanza dovrebbero prendere ad esempio i processi di co-ownership e co-design delle filiere produttive, condividendo le scelte e mettendo a fattor comune i benefici

In un momento storico complesso può essere utile rivolgersi alla filosofia. Se poi questa è concreta e calata sui grandi temi contemporanei (la trasformazione digitale, la sostenibilità ambientale, il diritto delle persone di essere rappresentate degnamente nei loro diritti fondamentali) bÈ ancora meglio. In occasione della pubblicazione del suo ultimo saggio, “Il Verde e il Blu” (Raffaello Cortina Editore ndr.) e del suo nuovo incarico all’Università di Bologna, abbiamo raggiunto il professor Luciano Floridi.

Professor Floridi, che idea si è fatto della crisi politica italiana e dell’avvicendamento del governo Conte con il governo guidato da Mario Draghi?

«L’idea che mi sono fatto è che la politica, a livello partitico e nazionale, abbia perso il contatto con il territorio. Dico territorio e non paese perché questa parola evidenzia le tante diversità regionali, culturali, economiche italiane. La politica non mira esclusivamente a soddisfare egoismi, è chiaro, ma ha perso la capacità di rapportarsi alle necessità dei tanti territori che costituiscono il “mosaico” italiano. L’attenzione esclusiva verso i propri interessi e il gioco delle parti, hanno prodotto una situazione gravissima. Questo “gioco uno/due” è totalmente sganciato dalle esigenze reali del paese ed è per questo che la politica viene percepita come estranea, sorda al mondo ordinario al quale non sembra dare conto del proprio operato (accountability)».

Un gioco pericoloso, perché ha delle conseguenze reali sulla vita delle persone…

«È così. Il disequilibrio provocato dalla politica è unidirezionale, cioè la politica è sganciata dal territorio, ma il territorio vive le decisioni assunte dalla politica. E queste decisioni hanno un impatto vitale sulle generazioni presenti e su quelle future. Tutto questo è scoraggiante. Non bisogna però cadere nell’errore di pensare che questo processo sia irreversibile».

Al di là della situazione particolare in cui si dibatte il nostro Paese, è evidente che senza un intervento europeo, la pandemia avrebbe avuto conseguenze ancora più devastanti sul tessuto economico italiano. Eppure molti sono ancora scettici sul ruolo dell’Unione Europea e delle sue istituzioni. Perché?

«Anche in questo caso assistiamo a un disallineamento tra ciò che viene deciso dalla politica e i territori che vivono queste scelte. Il Recovery Plan non è deciso a Bologna o in Emilia Romagna, allo stesso modo la legislazione sulla privacy e sull’utilizzo dei dati sensibili sono scelte assunte a livello comunitario. Le persone vedono queste cose come lontane, ma non è così. Se non mi sento rappresentato dall’Europa, non significa che l’Europa non abbia effetto sulla mia vita, è bene quindi che me ne occupi da vicino».

Eppure leggi efficaci come il GDPR e soluzioni a tutela dei consumatori, come quelle adottate recentemente dall’Antitrust europeo, faticano a fare presa sui cittadini. È solo questione di “cattivo” marketing politico?

«Ci sono diversi fattori che limitano la percezione di questi spostamenti, coerenti e costanti che esercitano pressione sulle grandi aziende. Sicuramente uno è il fattore temporale, parliamo di tempi lunghi. Pensi che la prima versione del GDPR è la Convention 108, approvata dal Consiglio Europeo e che risale agli anni ’80. Sono processi lunghissimi e spesso non fanno notizia. Allo stesso modo non è sempre possibile fare più in fretta, perché esiste il libero mercato e serve cautela prima di assumere decisioni che impattano su imprese, lavoratori e cittadini. Credo comunque che l’Europa stia facendo bene, anche per l’Italia, e si stia muovendo nella direzione giusta».

In una fase storica in cui servirebbe condivisione, le associazioni datoriali e sindacali italiane, faticano a far fronte comune e a sollecitare la politica nazionale ad azioni concrete come una buona riforma fiscale, della giustizia o della PA. Da dove partire per costruire un dialogo che rimetta al centro le relazioni e la fiducia tra le parti?

«Bisogna avere una volontà costruttiva. È necessario guardare a dove le cose funzionano, chiedersi perché funzionano e cercare di replicarle. Le cose funzionano bene in certe regioni e si vede, quando c’è un forte tessuto sociale e c’è una politica che non è sganciata nel bene e nel male dai cittadini. Se avessi la bacchetta magica partirei dal fare bene localmente per poi fare lobbying nazionale. In altre parole bisogna rompere il meccanismo per cui si pensa che tutto debba essere risolto dal governo nazionale. Non bisogna aspettare la grande riforma, valida per tutta Italia, cominciamo dal locale, e dalla rimozione degli ostacoli, delle inerzie, delle resistenze. Se il tuo comune funziona, se la tua regione funziona, stai un po’ meglio. E le soluzioni buone adottate in un punto, possono essere adottate anche in un altro punto della “rete”, creando un network, un sistema di cose fatte bene».

Serve più lobbying regionale?

«In un certo senso sì. Pensi che a Bruxelles il land tedesco della Baviera ha un suo palazzo con tanto di funzionari e capi delegazione. Questi fanno gli interessi di chi vive e lavora in quella regione. Dobbiamo pensarla così. Fare un investimento sul futuro del territorio, indicando priorità chiare e comprensibili a tutti. Si deve puntare sulla formazione, che è anche scuola e ricerca; sul lavoro, che è anche lotta alla povertà e creazione di ricchezza ben distribuita; e sulla salute, che è anche prevenzione e benessere».

Ne “Il Verde e il Blu” (Raffaello Cortina Editore, 2020) lei sostiene che: “l’interesse egoistico non può essere combattuto dalla ragionevolezza”. Dunque su cosa dobbiamo far leva per risolvere problemi come il riscaldamento globale (“egoismo occidentale”), lo spreco di risorse (“egoismo individuale”) o la cattiva politica (“egoismo incompetente”)?

«C’è una forza più potente dell’egoismo, la speranza. Pensiamo al martire che sacrifica la propria vita terrena nella speranza di raggiungere il paradiso. Sulla speranza la politica ha investito poco e male, a volte addirittura prendendola in giro. Poi c’è un altro fattore da considerare, l’interesse particolare. Prendiamo ad esempio un’azienda. Se offriremo a questa azienda un incentivo per andare in una direzione, riusciremo a scalzare l’egoismo particolare di quella realtà. È anche vero che spesso questo non basta. Purtroppo il meccanismo di gestione dell’egoismo e degli interessi particolari attraverso l’incentivo o il disincentivo, non è più sufficiente. Servono anche coordinamento, cooperazione e collaborazione».

Cioè?

«Coordinamento significa non intralciarsi nel fare le cose. È il minimo richiesto. La collaborazione significa distribuire i compiti e operare in modo modulare e complementare. La cooperazione vuol dire condividere tutto, dalla scelte strategiche iniziali ai benefici e costi finali di un qualsiasi processo o attività. Con una metafora, possiamo mangiare quello che vogliamo in cucina senza intralciarci; oppure portare ciascuno una parte del pasto, chi il primo chi il secondo; oppure possiamo fare la spesa e cucinare insieme, cooperando. Fuor di metafora se guardiamo ad alcune soluzione di co-ownership o di co-design adottate all’interno delle filiere produttive, vediamo che non c’è un mero coordinamento di funzione, ma un sistema di expertise volto a raggiungere un risultato che coinvolge tutti dall’inizio alla fine. Questo è un modello a cui la politica oggi deve guardare».

Sempre nel suo ultimo libro lei scrive che “l’opinione pubblica non esiste, si forma”. Ne consegue che data la loro centralità - al momento - solo i populismi (di destra come di sinistra) sembrano in grado di influenzare il dibattito e l’opinione pubblica…

«Prendiamo ad esempio la questione vaccinale. Il vaccino fa bene o male? Se a causa di una cattiva informazione o di un’eccessiva polarizzazione del tema, formiamo una cattiva opinione pubblica il problema diventa reale. Il populismo tende a compiacere il proprio elettorato, assecondandolo per ottenere consenso. Quindi distorcendo la realtà dei fatti. Non ha importanza che contenuto veicola il messaggio, ma quale presa ha sull’elettorato. Purtroppo ciò che fa presa è sempre il messaggio semplificato e polarizzante».

Quindi come si dà sostanza e credibilità alle buone idee?

«Le buone idee devono essere sostenute da una buona comunicazione. Pensiamo al discorso sulla democrazia di Pericle o alla frase “I have a dream” di Martin Luther King, o ancora a quella di Mario Draghi “whatever it takes”. Questi esempi rappresentano una possibile alternativa a quanto detto sopra. L’efficacia delle buone idee, accompagnate da una buona comunicazione, sono il miglior antidoto ai populismi, di destra come di sinistra».

Quanto può aiutare il digitale a dare trasparenza ai processi decisionali?

«Dipende da che tipo di democrazia vogliamo avere. Oggi non esiste un co-design, o meglio una governance condivisa delle scelte. Se ti presento un menù con due opzioni, magari non te ne piace nessuna. Pensiamo a Brexit. Quando è stata presentata la scelta ai cittadini del Regno Unito era troppo tardi. La governance è efficace quando c’è il co-design e la condivisione delle scelte possibili a monte, non quando si offrono solo opzioni preconfezionate a valle. Riprendendo la precedente metafora culinaria “o mangi la minestra o salti dalla finestra” non è un buon esempio di democrazia diretta o governance preferibile».

Un’ultima domanda professore. La pandemia ha accelerato in molti di noi la consapevolezza di vivere, come sostiene lei, onlife (continuamente connessi gli uni agli altri, circondati da oggetti intelligenti e da costanti flussi di dati). Allo stesso modo ha aumentato la percezione di “fragilità” del nostro sistema (le conseguenze del virus hanno intaccato vasti settori dell’economia globale). Da quali presupposti dobbiamo partire per disegnare una “nuova normalità”?

«Se dovessi scegliere un punto di partenza, vorrei che non dimenticassimo ciò che abbiamo imparato. Riflettiamo su quanto di buono è emerso in questi mesi. Pensiamo ad esempio all’e-commerce. L’Italia è un grande paese esportatore eppure molte delle sue imprese, anche artigiane, non hanno un canale di vendita online. Se vogliamo rilanciare un paese come il nostro, con una grandissima tradizione artigiana, dobbiamo puntare al digitale, al “tutto a portata di clic", senza nostalgie per il passato».

Con il suo nuovo incarico all’Università di Bologna potrebbe sostenere questo processo più da vicino…

«Sì, mi piacerebbe molto. Collaborare con le imprese italiane, comprendere meglio il loro approccio al digitale, aiutare dove possibile a sostenere lo sviluppo sociale e la crescita economica, sarebbe davvero molto stimolante e gratificante».

This article is from: