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Reinventarsi tra innovazione e autenticità: le nuove sfide e tendenze nella ristorazione

Un'analisi di Anna Prandoni: giornalista e divulgatrice enogastronomica da oltre 20 anni

La piattaforma logistica che diventa mercato a domicilio, i negozi di quartiere che fanno rete, il peschereccio che crea un abbonamento per portare il pesce a casa nostra: sono innumerevoli le piccole realtà che stanno cercando di trasformare questo momento complicato in un’opportunità, e in poche settimane hanno modificato radicalmente la loro attività e si sono inventati una versione alternativa per mantenere un minimo di fatturato ma soprattutto per continuare a pagare gli stipendi dei dipendenti. Stessa sorte per i ristoranti e i locali, che hanno dovuto reinventarsi per sopravvivere a un anno e mezzo di apri e chiudi e senza la flessibilità e la dinamicità non avrebbero potuto riaprire.

Il clima è teso, gli chef sono in crisi d’identità: con i ristoranti chiusi il loro ruolo è stato decisamente ridimensionato. In lockdown i più creativi ci hanno fatto compagnia con ricette preparate in diretta instagram, hanno ideato servizi di delivery sempre più fantasiosi, aggiungendo al pasto a domicilio messaggi vocali, video, foto e lettere di affetto. Ma l’impatto e l’appeal che avevano sta man mano calando, e la loro stessa figura è stata messa in discussione. È a rischio estinzione? Ne dubitiamo. Siamo tutti un po’ chef, adesso: per volontà o per necessità abbiamo ripreso il controllo delle nostre vite gastronomiche e ci stiamo cimen-

tando nel duro lavoro di chi cucina a colazione, pranzo e cena per tutta la ciurma. E dopo il fuoco di paglia dell’innamoramento collettivo ai fornelli, solo un manipolo di convinti sostenitori della cucina fai-date resiste con i manicaretti sempre diversi, mentre gli altri si stanno sempre più votando al pollo arrosto, e stanno tornando ai surgelati prêt à manger. Oppure decidono di investire nella loro attività prediletta: andare al ristorante.

Nel frattempo gli chef stanno ripensando le loro cucine e soprattutto stanno riprogettando il ristorante stellato del futuro: che sarà profondamente diverso da come ce lo ricordiamo. Nel senso che cambierà proprio l’approccio alla cucina, soprattutto nell’alta ristorazione. Innanzitutto per una questione tecnica: se – nelle cucine con le brigate – per finire un piatto servivano tre o quattro persone ravvicinate in uno spazio minimo, quel piatto andrà semplificato. Quindi meno estetica, e più sostanza. Meno particolari da aggiungere all’ultimo minuto e più concentrazione sull’essenza. Ma anche meno finiture al tavolo: e un servizio di gran lunga privo di orpelli. Perché è in sala che il potenziale contagio va evitato, e quindi i ‘passaggi’ al tavolo del cameriere devono essere limitati all’indispensabile.

E questa forzata clausura domestica e allontanamento dai fornelli professionali come avrà inciso sull’estro degli chef? Dalle prime impressioni, parrebbero tutti orientati a tornare a ricette più autentiche, meno effimere, meno modaiole e ricondotte al puro gusto. Ho sentito persino qualcuno innamorato del prezzemolo, abolito dalle cucine stellate da un decennio almeno, se non sotto forma di estrazione. Andrà profondamente ripensata anche la critica gastronomica: saremo più attenti a scegliere un ristorante per la sua promessa covid-free o per le sue stelle Michelin? Un modello intero da ripensare, dunque, ma anche una straordinaria opportunità di imparare a concentrarci nuovamente sulla sostanza prima che sulla forma. Sul contenuto prima che sul contenitore. E a pretendere che siano il piatto, il cibo, la materia, al centro della nostra nuova fame di bontà e bellezza.

Magari scoprendo quello che succede all’estero, dove le idee si moltiplicano e la velocità di reazione è sempre alta, gli spunti sono tutti positivi. A partire dal mercato della tecnologia. È di Nick Kokonas una delle idee più brillanti e redditizie: proprietario di cinque ristoranti di alta gamma a Chicago, ha convinto lo chef Grant Achatz e il suo team a cambiare genere e target: da 250 dollari di cena a 35 dollari, con un menu necessariamente molto semplice, ma di grande soddisfazione e golosità. Sono bastate poche settimane perché gli introiti del ristorante tornassero al 75% degli incassi precedenti, con molti meno costi. Dai pochi coperti del ristorante, oggi Alinea produce e recapita 1250 cene a domicilio, menu fisso più vini e libri dello chef inclusi.

Ma Kokonas non si è limitato a questo. Ha anche cercato un nuovo modo di utilizzare la sua app, creata nel 2015: prima del virus ci si potevano accaparrare posti a prezzi scontati nei ristoranti di livello, i prezzi erano dinamici a seconda del momento della prenotazione. Molto amata dai patron, questa app permetteva così di eliminare il problema delle cancellazioni e di ottimizzare i posti a sedere. Oggi, l'app è diventata Tock to Go e, in sei giorni, gli ingegneri l’hanno reinventata: invece di prendere prenotazioni per i tavoli, permette di pianificare gli ordini da asporto. Sempre con la stessa filosofia di prima: la programmazione. La app infatti permette di spalmare le prenotazioni su tante fasce orarie, senza ‘ingolfare’ le cucine dei ristoranti negli orari di punta. Inoltre, tiene traccia dell’inventario, eliminando automaticamente dal menu i piatti man mano che si esauriscono. L’app non offre un servizio di consegna, e questo è un duplice vantaggio per il ristoratore: può far consegnare ai suoi dipendenti (dando così lavoro ai camerieri, per esempio) e ha una commissione del 3% e non del 30% come richiesto dalle maggiori app di delivery.

Un esempio per tutti? Seven Reasons, un ristorante da 90 coperti a pochi passi dalla Casa Bianca. Chiuso il 10 marzo, ha riaperto il take away dalla app: ha venduto 900 cene in 15 minuti, causando il crash del sistema. L’app funziona, i ristoranti guadagnano e pensano di mantenere questa opzione anche dopo l’apertura dei locali: fatturato ulteriore che si sommerebbe a quello da ristorazione ‘pura’. Ed è la tecnologia ad aiutare anche Lucas Sin, lo chef di Junzi Kitchen.

È stato tra i primi a reagire alla crisi organizzando quelli che chiama ‘i pranzi a distanza’. Tre portate – cucinate ma abbattute, quindi spedite fredde – arrivano a domicilio del cliente. Lo chef, all’orario prestabilito per la cena, spiega su Instagram live come rigenerare il tutto a casa, raccontando i piatti e donando il vero valore aggiunto dello chef a tavola con te: l’esperienza, anche se da lontano. Che coinvolge tra l’altro tutti i clienti alla stessa ora, dando l’impressione di essere davvero a tavoli diversi ma dello stesso ristorante. Lo chef ha investitori e fornitori in Cina, e ha vissuto sulla sua pelle l’epidemia di Sars, da piccolo.

Questa consapevolezza, unita alla sua voglia di costruire qualcosa di nuovo, gli ha permesso di reagire subito e di creare un progetto con un ottimo riscontro tra il pubblico, che può in qualche modo sentirsi al ristorante, avendo un’esperienza simile, ma senza uscire di casa e sentendosi al sicuro. Junzi, grazie a questo successo, ha deciso di offrire pasti quotidiani agli operatori sanitari, finanziati da donazioni dei suoi stessi clienti. Un perfetto esempio di economia circolare efficace.

E poi ci sono i super ottimisti, come Ana Roš, chef slovena di Hiša Franko: la sua idea di ristorante è sempre stata alternativa e visionaria. Intanto, lavorando sullo staff, e cercando di ampliare le conoscenze di tutti attraverso una formazione puntuale e reciproca: ogni persona del team insegnerà alle altre una cosa che ha approfondito, e imparerà a sua volta. E poi con una formazione da parte di artigiani e contadini locali, che insieme collaboreranno alla realizzazione di nuovi piatti e soprattutto di nuovi prodotti, come caramelle, salse, formaggi e salumi, da vendere ai clienti per un vero e proprio lavoro di sinergia e di valorizzazione reciproca. Con l’idea, nel futuro, di avere una possibile industrializzazione che dia valore alla filiera e che diventi uno strumento di promozione turistica, con il sostegno dello Stato.

Costruire un brand legato alla ristorazione che fosse perfetto per la consegna è uno dei passaggi fondamentali del cambiamento in corso nell’ultimo anno e mezzo. Uber Eats stima che il numero di marchi virtuali sulla sua piattaforma sia più che triplicato nel 2020, arrivando a oltre 10.000 brand. La piattaforma americana Grubhub riporta un boom simile: secondo un rapporto pubblicato quest’anno dalla società, il 15% dei ristoranti gestiva un marchio virtuale prima della pandemia. Alla fine del 2020, è il 51%. Non sono ristoranti, dunque, ma cucine fantasma – a volte all’interno di un ristorante – nelle quali la proposta ristorativa è diversa da prima, e di solito molto verticale.

In Italia l’ha fatto per esempio il bistellato Philippe Léveillée, proponendo per lunghi mesi solo gelato e cannoncini, l’ha fatto in Francia la tristellata Anne Sophie Pic, con le sue proposte semplici e alla portata di tutti, anche in versione stress food. Lo hanno fatto, negli Stati Uniti, moltissime realtà che hanno costruito brand dal nulla, spessissimo legati a un solo prodotto, o a pochissime proposte sfruttando un solo ingrediente e costruendo intorno ad esso tutta la loro carta. Come hanno scelto che cosa proporre? Anche in base alla ricerca degli utenti. «Con i marchi virtuali molto si riduce davvero all’ottimizzazione della ricerca», afferma su The Verge Melissa Wilson, preside della società di consulenza di servizi di ristorazione Technomic. Perché le persone cercano sulle app di consegna del cibo più o meno allo stesso modo in cui cercano qualsiasi altra cosa online. Da lì a dover imparare anche a lavorare sul SEO, a posizionarsi bene sui motori di ricerca, a fare clickbait per vendere hamburger, il passo è breve.

Negli Stati Uniti a fare il gioco grosso sono state le ali di pollo: croccanti, facili da preparare, facili da trasportare, perfette anche a distanza, un “cibo da divano” goloso che allo stesso tempo dà l’illusione di non essere troppo calorico. E estremamente facili da vendere, da capire, da trovare. In teoria, le persone quando ordinano online sono libere di provare cose strane; in pratica, quasi tutti poi si fermano alle opzioni che conoscono e che trovano confortanti. Per far diventare il proprio ristorante quello che verrà scelto, serve spesso solo l’ottimizzazione digitale. Un buon

posizionamento fa la differenza, una buona comunicazione cambia il business, e il ristorante modifica pelle e volto, diventando a tutti gli effetti un’azienda con bisogni nuovi.

Occorre cambiare pensiero, e cambiare anche menù, andando a capire quale sarà il trend una volta che

Chi è Anna Prandoni

Giornalista e divulgatrice enogastronomica da oltre 20 anni, ha diretto diverse riviste tra cui La Cucina Italiana e Grande Cucina, oggi è alla guida di Gastronomika, il magazine del cibo le cose cambieranno nuovamente. Ma i brand virtuali potrebbero anche offrire a chi le sa cogliere delle nuove opportunità: perché senza sala e investimenti, si possono sperimentare nuove idee, e avere l’occasione di mettere alla prova format o progetti che fino a due anni fa sarebbe stato difficile testare su un pubblico vasto. Allo stesso

del quotidiano Linkiesta. Ha lavorato con Gualtiero Marchesi nella sua accademia, ha scritto più di 36 ricettari tradotti in molte lingue. È stata inoltre speaker a TEDxArezzo e presentatrice a TEDx nella sua città, Busto Arsizio, con Lapam ha tempo, la disponibilità di dati su ciò che funziona, le piattaforme che premiano algoritmicamente il successo e il modo in cui le persone cercano prodotti generici, sono tutti elementi che creano una spinta evolutiva nella stessa direzione. Intercettare è la vera sfida per la ristorazione.

collaborato nell’iniziativa congressuale in occasione dell’elezione del consiglio del turismo e pubblici esercizi svoltasi lo scorso 22 giugno.

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