Italia 1861

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In memoria di mia madre

che davanti al focolare nelle lunghe serate invernali, con i suoi racconti fece sorgere in me la passione per la storia.

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Titolo del volume pubblicato: ITALIA 1861 LA DIFFICILE INTEGRAZIONE TRA NORD E S UD I Edizione: 2018 Copyright © 2018 A.B.E.

Titolo originale dell’opera riunita in collana DIARI. Copyright © 2018 A.B.E. In copertina: libero adattamento dell’Autore.

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PREMESSA Nell’ultimo ventennio, suppergiù a partire dagli inizi del nuovo secolo, sulla scorta di interpretazioni revisionistiche del processo di formazione dello Stato unitario da parte di una ristretta cerchia di storici accademici, che pur dissentendo dal come il medesimo si venne a costituire, non hanno mai messo in dubbio la soluzione unitaria, è fiorita una diffusa pubblicistica antiunitaria di giornalisti e storici estemporanei, che hanno proposto una lettura dell’unificazione nazionale dissacratoria, priva delle più elementari conoscenze del lungo ed articolato dibattito svolto sui temi risorgimentali da grandi storici: Croce, Salvemini, Omodeo, Candeloro e tanti altri che un cultore di storia, che tale ama definirsi, non può né sottovalutare né ignorare. Una vulgata pervasa, in particolare negli autori revisionisti meridionali, da nostalgismo per il Regno delle Due Sicilie, ossia per un regno felice di sviluppo e benessere, che in realtà non è mai esistito. È pur vero che la storia non si scrive una volta per sempre, in quanto il suo studio è oggetto sempre della ricerca di nuove testimonianze, che possono rafforzare tesi espresse in precedenza oppure, come talvolta capita, di rimettere in discussione ciò che prima sembrava acquisito in via definitiva, ma, in ogni caso, l’analisi storica mai e poi mai può essere viziata da stati d’animo emotivi e passionali. Se tanto è vero per i 7

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nostalgici neoborbonici, altrettanto lo è per leghisti, autonomisti e indipendentisti delle regioni dell’Italia del Nord, i quali dimenticano o ignorano che il divario, esistente già prima dell’unificazione a favore degli Stati preunitari del Centro-Nord, subì un incremento già all’indomani della proclamazione del nuovo Stato. Con l’unificazione del debito pubblico vi fu, infatti, un trasferimento di risorse dal Sud al Nord, ossia dalle parti meno ricche e meno indebitate della penisola verso quelle più ricche e più indebitate. La stesa cosa successe, in seguito, con la grande emigrazione, quando le rimesse degli emigranti meridionali presero, tramite le banche, la via del Nord per finanziare iniziative di investimenti produttivi. Lo stesso avvenne con le politiche protezioniste degli anni Ottanta dell’Ottocento, che favorirono le industrie del Nord e incisero in maniera negativa sulla già mortificata agricoltura meridionale. Certo, successivamente, molte delle risorse destinate allo sviluppo delle regioni meridionali non hanno sortito l’effetto sperato, per cause spesso addebitabili ai meridionali stessi e alle loro classi dirigenti, ma anche in questi casi ad avvantaggiarsi dei sussidi statali spesso sono state le imprese del Nord. Tuttavia, al di là delle mode revisionistiche degli uni come degli altri, è giunto orami il tempo di interrogarsi su come effettivamente siano andate le cose, ossia su come sia stata articolata la costruzione politica, amministrativa e giuridica dello Stato unitario, quando il 78% della popolazione non sapeva né leggere né scrivere, 8

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quando poche centinaia di migliaia di cittadini eleggevano un Parlamento per la quasi totalità composto di aristocratici e borghesi possidenti terrieri, i cui interessi collidevano drammaticamente con quelli della gente comune sia del Sud sia del Nord, ma soprattutto del Sud. Ma fu il Sud e non il Nord a lasciarsi rappresentare da una classe parlamentare che, ad eccezione di alcuni personaggi di indiscutibile valore, quali: Francesco De Sanctis; Antonio Scialoja; Pasquale Stanislao Mancini; Silvio Spaventa; Francesco Crispi; Ruggiero Bonghi; Emerico Amari; Francesco Ferrara e non molti altri, fu una semplice e pura espressione del notabilato locale, costituito di proprietari terrieri, signori della rendita e sensali di voti, interessati soltanto a conservare il loro potere e totalmente estranei alle esigenze di vita dei loro concittadini. Ecco perché, anche a costo di sconfessare miti e credenze della storiografia libresca postrisorgimentale, occorre guardare al passato con onestà intellettuale e senza farneticanti pregiudizi. Diversamente fatti e fenomeni della nostra storia sfuggirebbero al criterio dell’obiettività e rischierebbero l’esaltazione acritica e la mistificazione. Questo libro costituisce il quarto volume di una tetralogia: «Il Sud, un problema aperto»; «Il re è morto, viva il re – il Sud dai Borbone ai Savoia»; «La notte del Risorgimento – cause e sviluppo del Brigantaggio postunitario». Mentre i contenuti dei tre precedenti ineriscono alle condizioni del Sud prima dell’Unità, agli anni difficili e turbolenti del 9

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grande brigantaggio e alla nascita e sviluppo della questione meridionale, con quest’ultimo volume abbiamo inteso concludere il ciclo con uno studio il più possibile obiettivo e scevro di pregiudizi sulla formazione del nuovo Stato e sui suoi primi difficili e incerti passi. Il percorso dei contenuti si snoda dal confronto delle condizioni economiche e sociali tra il Regno delle Due Sicilie con quelle degli altri Stati preunitari per approdare al come e al perché lo Stato unitario venne a formarsi proprio nei modi e nelle forme in cui si venne a costituire e alle reazioni che ne seguirono, tra cui, la più importante, quella violenta del “Grande Brigantaggio”. In particolare il paragrafo l’economia meridionale prima dell’Unità e il capitolo relativo al brigantaggio sono, in parte, rielaborazioni sintetiche degli stessi argomenti trattati in altri volumi della tetralogia. Abbiamo cercato di condurre la nostra analisi basandola essenzialmente sulla comparazione delle tesi di supporto all’una e all’altra parte, ossia a quella dei nostalgici del Regno del Sud e a quella degli autonomisti, federalisti o indipendentisti del Nord, sfrondando le une e le altre dei giudizi arbitrari non suffragati da testimonianze concrete e costruiti sulla fantasia e sull’emotività. Il risultato forse non potrà piacere a tutti, ma a costoro ricordiamo che la storia, ancorché scritta dai vincitori o dai vinti, dovrebbe contemperare e non obliare le ragioni dell’altra parte. L’equilibrio non è un principio soltanto della fisica, ma una categoria

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che comprende anche l’analisi storica, in quanto questa, già di per sé, richiede ponderazione e oggettività. Una seria analisi storica non può e non deve porsi al servizio di scelte ideologiche, non può e non deve rinfocolare antipatie e alimentare nostalgie. Deve, piuttosto, agevolare, attraverso lo studio del passato, la comprensione e la consapevolezza dei problemi del presente. Un paragrafo a sé è costituito dal banditismo sardo che, pur non direttamente connesso alle vicende risorgimentali, trasse alimento, agli esordi dello Stato italiano, dai provvedimenti di legge di modernizzazione dell’agricoltura, a seguito dei quali in Sardegna una nuova e rapace borghesia si appropriò di terre e pascoli. MICHELE CERES

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INTRODUZIONE SGUARDO D’ASSIEME DEL DOPO UNITA’ Il 17 marzo 1861 veniva proclamato il nuovo Regno d’Italia. Dopo circa 1400 anni dalla fine dell’Impero Romano d’Occidente, gli Italiani avevano un proprio Stato, che si estendeva dalle Alpi alla Sicilia. Il re Vittorio Emanuele, in quanto re d’Italia, avrebbe dovuto essere Vittorio Emanuele I. Volle, invece, conservare l’ordine di successione dinastico del Regno Sardo per dimostrare che tra il Regno subalpino e quello italiano non vi era discontinuità. Fu, questa, una decisione non da tutti condivisa, che contribuì a rafforzare il convincimento, specie tra democratici e federalisti, che l’unificazione, in sostanza, si era ridotta ad un’annessione da parte del Piemonte degli altri Stati preunitari. Il Risorgimento, tuttavia, ebbe quella e non altra conclusione, perché in quella situazione e in quelle condizioni un’altra soluzione, democratica o federalista, sarebbe stata oltremodo difficile se non impossibile da realizzare. I Savoia, pur con tutte le loro pecche, ebbero, comunque, il merito, rispetto ai Borbone di Napoli, di aver ampliato l’orizzonte della loro politica, ossia di aver saputo adeguarsi allo spirito dei tempi.

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Il Risorgimento avrebbe potuto avere un esito diverso se Ferdinando II, re delle Due Sicilie, il più esteso e il più popoloso tra gli Stati preunitari, non avesse rinchiuso il proprio Regno in un anacronistico isolazionismo, non capendo che in un modo o nell’altro l’Italia si sarebbe unificata, e se suo figlio Francesco II, fedele alla politica estera paterna, non avesse respinto nel giugno 1859 l’invito del Piemonte di entrare in guerra contro l’Austria a fianco dei franco-piemontesi, nonostante che il corso della guerra stava procedendo favorevolmente agli alleati. Il 4 giungo, infatti, i franco-piemontesi già avevano sconfitto gli austriaci a Magenta. Proclamato il nuovo Stato, la cosa più urgente da fare era di infondere il senso dello Stato medesimo in un popolo che uno Stato di siffatte dimensioni non l’aveva avuto sin dal crollo dell’Impero Romano. Occorreva, pertanto, dargli consistenza attraverso l’adozione di adeguati ordinamenti amministrativi e giuridici. Il primo quindicennio di vita postunitario rappresentò perciò, un periodo in cui la classe dirigente fu più occupata a fare l’Italia che gli Italiani, contrariamente a quanto affermava Massimo d’Azeglio. La Destra storica, che allora governava il Paese, adottò una serie di azioni energiche di centralizzazione dei poteri. Riuscì, così, a salvare lo Stato dal fallimento cui sembrava destinato, secondo un’opinione largamente diffusa tra le cancellerie delle potenze europee, ma fece poco o

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niente per migliorare il rapporto tra paese reale e paese legale. Era difficile per un popolo, in gran parte costituito di contadini poveri e analfabeti, sentirsi parte attiva e partecipe di uno Stato, che li sottoponeva ad una politica distante dalle loro aspettative e a un regime di pesante tassazione. La classe dirigente della Destra storica era costituita prevalentemente di aristocratici e borghesi possidenti terrieri, uniti intorno ai Savoia e partecipi del progetto politico di Cavour. Si dice che fosse di proverbiale onestà, anche se già all’indomani dell’unificazione, nel 1868, fu interessata dallo scandalo della reggia tabacchi, il primo dei tanti scandali della tormentata storia dei parlamentari italiani. Fu una classe dirigente che compì sforzi enormi nel dare forma e sostanza al neostato italiano, ma non fu sufficientemente interessata all’ampliamento democratico delle basi dello Stato medesimo con l’emancipazione politica delle plebi. Dopo il plebiscito furono istituite nell’ex Regno delle Due Sicilie due luogotenenze, l’una a Palermo retta dal marchese piemontese Massimo Cordero di Montezemolo e l’altra a Napoli retta da Carlo Luigi Farini, il quale, scrivendo a Cavour, ebbe a dire: - Che paesi sono questi, il Molise e la Terra di Lavoro! Che barbarie! Altro che Italia! Questa è l’Affrica: i beduini, a riscontro di questi cafoni, sono fior di virtù civile. Non diversamente si espressero altri

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esponenti di spicco della Destra storica, quali per esempio Giovanni Lanza e Diomede Pantaleoni. Il disprezzo verso i Meridionali connotava la miopia politica di non pochi esponenti di quella classe dirigente, che lessero la realtà del Mezzogiorno in chiave etnica, vista per di più in un momento di disordine e di anarchia, conseguente al crollo verticale di un regno ultracentenario. Una realtà a loro sconosciuta, che andava letta, invece, per quella che in effetti era, ossia una realtà complessa bisognosa di attenzione e di comprensione, che presentava non pochi problemi lasciati in eredità dai Borbone, cui era doveroso e necessario porvi rimedio. I liberali al governo usarono, invece, metodi draconiani, quali la centralizzazione di tutti poteri e la repressione senza quartiere del fenomeno del brigantaggio. Per la classe dirigente unitaria non vi potevano essere soluzioni di autonomismo locale con gente che, secondo essa, incarnava l’anti-Italia e che costituiva una seria minaccia per l’unità dello Stato appena nato. Di qui e non soltanto di qui le origini della diffusione tra le popolazioni del Sud del fenomeno del manutengolismo, che si sostanziava nel sostegno e nel supporto ai briganti. Nel 1865 il grande brigantaggio poteva dirsi sconfitto, ma altre rivolte scoppiarono in altre parti del Paese. Toccò alle popolazioni del Nord ribellarsi, quando nel 1868, per esigenze di bilancio, fu introdotta la tassa sul macinato, fra tutte la più odiosa. Anche in questo caso non si andò per il

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sottile, fu scelta la linea dura. La repressione fu, infatti, feroce; lasciò sul campo 257 morti e 1099 feriti. Se tali furono i limiti della Destra storica, alla stessa vanno comunque ascritti anche meriti indubitabili, connessi prevalentemente all’individuazione e alla risoluzione dei tanti problemi conseguenti all’Unità e di altri lasciati in eredità da un pesante passato, la cui soluzione non poteva essere procrastinata; problemi che richiedevano tempo, ponderazione e condivisione, che nel seguito della nostra riflessione cercheremo di trattarli in maniera più puntuale e approfondita. Ne citiamo solo alcuni a mo’ d’esempio: l’unificazione doganale e quella de pesi e delle misure; la creazione di un mercato unico nazionale; la costruzione delle infrastrutture necessarie alla modernizzazione del Paese, in particolare la rete ferroviaria; i primi provvedimenti tesi a combattere l’analfabetismo, a potenziare l’istruzione secondaria e ad assorbire nel sistema dell’istruzione le università degli stati preunitari e, infine, le annessioni al Regno italiano del Veneto e di Roma. Nel 1876 la Destra storica conseguì l’obiettivo del pareggio del bilancio, per anni perseguito. Si trattava, però, di un risultato più formale che sostanziale, in quanto il pareggio non significò affatto l’introduzione di un equilibrato andamento delle imposte e delle tasse e, soprattutto, non significò un effettivo sollievo delle condizioni di vita dei ceti medi e delle plebi rurali.

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I. NORD E SUD PRIMA DELL’UNITA’

1. ESISTEVA UN DIVARIO INIZIALE? Sull’esistenza o meno di un reale divario tra Nord e Sud nel 1861 si sono cimentati non pochi storici. Alcuni, prossimi ai neoborbonici, sulla scorta della lettura delle opere di Francesco Saverio Nitti, hanno negato e negano l’esistenza di un divario e attribuiscono all’economia meridionale preunitaria capacità autopropulsive di sviluppo autonomo. Questa tesi è stata confutata dalla storiografia liberale e da quella di sinistra. Entrambe hanno sostenuto e sostengono che un divario tra le due parti della penisola esisteva al momento dell’Unità e che le condizioni economiche dei territori dell’ex Regno delle Due Sicilie non consentivano di avviare concrete e significative iniziative di sviluppo. Esiste, infine, una terza interpretazione di storici, per esempio quella di Luciano Cafagna, secondo cui il divario era pesante e avvertibile in tutti gli aspetti della vita economica e civile. Di queste tre letture, noi propendiamo per la seconda, sostenuta, tra l’altro, da storici ed economisti del calibro di Richard S. Eckaus del MIT 19

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Economics di Boston e di Pasquale Saraceno, i quali indicano a vantaggio del Nord un divario del reddito pro capite variante dal 15 al 25%. La nostra opzione è coerente, altresì, con i dati delle produzioni agricole e zootecniche e di quelle industriali, che segnavano per il Sud un notevole ritardo rispetto al Nord. Del resto, già la mancanza di estese ed efficienti reti stradali e ferroviarie, il numero ridottissimo di istituti di credito, due nella parte continentale e due in Sicilia, l’alto costo del danaro che si aggirava intorno al 20%, quando a Parigi era del 6% e a Torino del 4%, rappresentavano una grave remora allo sviluppo. Una prevalenza del Sud rispetto al Nord si registrava, invece, nei trasporti marittimi, che ovviamente non potevano interessare le zone interne, che erano, tra l’altro, scarsamente o per nulla collegate tra loro e con i porti delle fasce costiere. Tali erano le condizioni del Mezzogiorno al momento dell’Unità, condizioni rese ancor più dure dai costi onerosi che le politiche dello Stato unitario fecero gravare sulle popolazioni meridionali, al fine di sviluppare l’industrializzazione del Nord, ove, in realtà, già esistevano concrete possibilità di crescita, favorite, tra l’altro, dalla vicinanza ai mercati dei paesi più progrediti d’Europa. Un divario iniziale che, nel corso dell’Ottocento, invece di ridursi, si sarebbe ulteriormente ampliato, grazie alle politiche protezioniste che saranno adottate tra gli anni Ottanta e Novanta. GUIDO PESCOSOLIDO nel saggio

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La ricostruzione dell’economia unitaria, sostiene che alcuni storici, anche di notevole spessore, come Rosario Romeo, hanno giustificato tali politiche alla luce del superiore interesse nazionale, rappresentato dallo sviluppo industriale localizzato al Nord, grazie al quale, in seguito, il Sud avrebbe potuto recuperare l’antico e persistente svantaggio Il Sud, a nostro avviso, già penalizzato dall’unificazione del debito pubblico, che assommava a 2.402, 3 milioni di lire, cifra iperbolica per i tempi, la cui provenienza era per 1321 milioni di lire dal Regno di Sardegna, per 657,8 dal Regno delle Due Sicilie, per 219,3 dal Granducato di Toscana, per 151,5 dalla Lombardia, per 22,5 dallo Stato Pontificio, per 16,1 dal Ducato di Modena e per 14,1 da quello di Parma, necessitava di politiche capaci di accrescere e non di ridurre, in qualche caso fino alla soppressione, realtà industriali preesistenti, anche se non adeguate a reggere la concorrenza di quelle del Nord e ancor di più di quelle europee. L’unificazione del debito pubblico sicuramente non poteva essere procrastinata, ma è doveroso, per gli Italiani del Nord, ricordare che rappresentò un trasferimento di risorse, sia pure non eccezionali, dai territori meno indebitati verso quelli più indebitati, ossia dal Sud al Nord. L’adozione di una politica doganale liberista, già in vigore da un decennio nel Regno di Sardegna, che ridusse i dazi doganali fino all’80%, favorì senza alcun dubbio gli scambi commerciali all’interno e con i paesi europei, ma danneggiò gli impianti

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tecnologicamente meno avanzati e le industrie meridionali, le quali, dopo decenni di protezionismo statale, si trovarono improvvisamente esposte a un’agguerrita concorrenza interna e internazionale. Per di più l’estensione del regime fiscale in vigore in Piemonte a tutto il territorio nazionale diede il colpo di grazia alle industrie meridionali. Tuttavia, l’adozione del libero scambio favorì, in qualche modo, l’agricoltura meridionale, perché promosse l’espansione e l’esportazione dei prodotti di colture pregiate (vite, agrumi, olivo, ecc.). Ma questi risultati rimasero limitati a poche aree, come la Vesuviana e la Conca d’oro, per la persistenza nelle campagne del Sud di rapporti agrari e sociali ancora di stampo feudale. L’Unità coincise, quindi, con una crisi dell’industria meridionale, che di per sé era già asfittica, come documenta un recente libro di LUIGI DE MATTEO, Un’economia alle strette nel Mediterraneo: «Il passaggio al liberismo e la cessazione delle commesse contribuirono alla crisi dell’industria meridionale. Il Nord godette, invece, di non pochi vantaggi: infrastrutture più sviluppate, una maggiore disponibilità di fonti energetiche, una più diffusa scolarità, una geografia più favorevole, che furono alla base di concrete scelte politiche, che, come scriveva LUIGI EINAUDI, portarono al Nord più costruzioni di ferrovie, di porti e altri lavori pubblici, di scuole e di istituti governativi».

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Fu così che si determinò la crisi delle officine meccaniche di Pietrarsa, che in quanto a dimensioni non temevano, ad esempio, il confronto con l’Ansaldo di Sampierdarena, e quella irreversibile delle ferriere di Mongiana in provincia di Vibo Valentia. Mentre le prime, tra privatizzazioni e successive statizzazioni, ebbero una vita altalenante di crisi e di rilanci (nel 1873 una locomotiva ivi prodotta vinse una medaglia d’oro nell’esposizione Universale di Vienna) fino alla loro definitiva trasformazione nel 1975 in Museo Ferroviario, le seconde furono, invece, interessate da provvedimenti di soppressione. Una politica più attenta alle condizioni dell’economia e dei lavoratori meridionali avrebbe potuto suggerire altre soluzioni. Così non fu, grazie anche ad una classe dirigente meridionale chiaramente disattenta e legata ad interessi elettorali di piccolo cabotaggio o, nel migliore dei casi, talmente di visione unitaria da privilegiare, nell’ambito dell’interesse nazionale, aree più suscettibili di sviluppo a scapito di quello specifico dei territori di provenienza. I parlamentari meridionali non alzarono la voce neanche quando, più tardi, nel 1884, fu localizzata a Terni la costruzione del più grande stabilimento siderurgico italiano, che, viceversa, avrebbe potuto essere ubicato in Calabria per ripagare le popolazioni calabresi della chiusura di uno stabilimento di antica storia: le ferriere di Mongiana.

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2. L’ECONOMIA MERIDIONALE L’esistenza o il livello dell’industria nel Sud alla vigilia dell’Unità è un argomento largamente dibattuto, che mira a stabilire se, prima dell’Unità, sia esistito nel Mezzogiorno un sistema industriale adeguatamente produttivo o se la sua reale consistenza sia stata, invece, così scarsa da non consentire di parlare di industria vera e propria o, ancora, se quell’apparato industriale sia stato o meno sacrificato dalle politiche liberiste dello Stato unitario a vantaggio delle regioni settentrionali. È fuor di dubbio che prima dell’Unità sia esistito nel Regno delle Due Sicilie un discreto apparato industriale. Tra il 1823 e il 1824 il governo borbonico aveva varato una serie di provvedimenti protettivi dell’industria nazionale, che ebbe, così, la possibilità di crescere al riparo dalla concorrenza straniera. Fiorì, specialmente in Calabria, la lavorazione della seta; si sviluppò l’industria laniera esercitata prevalentemente a domicilio e fece grandi progressi l’industria tessile cotoniera. Si svilupparono anche le industrie meccaniche e quelle delle costruzioni navali. Notevoli impulsi ebbero, pure, le industrie della carta, dei cuoiami, dei guanti e dei cappelli. Le industrie più progredite e di maggior rilievo nell’economia del paese erano, comunque, quelle del ferro, quelle delle costruzioni navali e quelle cotoniere. Queste ultime erano, però,

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prevalentemente nelle mani di un gruppo di industriali svizzeri: Wenner, Vonwiller, Zueblin, Egg e Meyer. Gli utili di queste aziende rimanevano, ovviamente, all’interno del capitale straniero e non avevano, quindi, che un lieve riflesso nell’economia circostante. Al momento dell’Unificazione nazionale, l’industria meridionale era, comunque, caratterizzata da una serie di debolezze che P ASQUALE V ILLANI , in Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione, così sintetizza: «1°) la grande industria era quasi soltanto sostenuta dallo Stato; 2°) la media industria viveva al riparo di una fortissima protezione doganale; 3°) le altre imprese avevano soprattutto carattere domestico e familiare e sopravvivevano grazie alle difficoltà delle comunicazioni». La forte presenza di capitali stranieri all’interno del sistema produttivo e le politiche di protezionismo economico del Governo sopperivano all’assenza, pressoché totale, di una moderna borghesia imprenditoriale, che se fosse stata presente non avrebbe mancato di proteggere i propri interessi e indirettamente quelli del Sud, come non mancò di fare la borghesia del Nord a vantaggio proprio e delle regioni settentrionali. Secondo stime riportate da vari saggisti, tra cui A NTONIO C APRARICA e G IANNI C USTODER O in rispettivamente “C’era una volta in Italia” e “Borboni & Briganti”, all’atto dell’unificazione, nel Nord veniva prodotto oltre l’85% della seta filata e

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tessuta. Non molto diversi erano i numeri relativi all’industria cotoniera, di cui i 70 mila fusi delle Due Sicilie rappresentavano soltanto il 15% del totale della Penisola. Percentuali analoghe si riscontravano nelle industrie della lana, della carta e del cuoio. Nel 1861 l’Italia del nord produceva 17.500 tonnellate di ghisa, la Toscana 8000 e il Regno delle Due Sicilie 1500 tonnellate. Sono numeri che da soli indicano l’arretratezza in campo industriale dell’Italia nella sua globalità e non solo del Regno delle Due Siclie. Infatti, nel periodo di tempo considerato, la Gran Bretagna produceva ben 3.772.000 tonnellate di ghisa, la Francia 967.000, la Germania, considerata nella totalità dei suoi staterelli, 592.000, il Belgio 312.000. Arretratezza che si riscontrava anche nell’industria tessile, ove la sola Inghilterra contava ben 30 milioni di fusi, al cui confronto impallidiva non solo l’industria cotoniera dell’ex Regno delle Due Sicilie, ma quella complessiva dell’intera Penisola. Non molto diversa era la situazione nell’agricoltura, anche se alcune pregiate produzioni di zone fertili, quali l’area vesuviana e la conca d’oro: vini, olio, frutta e altri prodotti di buona qualità alimentavano un apprezzabile scambio con l’estero. L’agricoltura meridionale, in realtà, difficilmente poteva bilanciare e superare l’agricoltura padana, già interessata in precedenza da investimenti di capitali e ammodernamenti delle tecniche produttive, come le risaie in Piemonte e le marcite in Lombardia. Solo nel settore zootecnico

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e in particolare nell’allevamento di bestiame non bovino, cavalli, pecore e suini, il Sud superava il Nord. L’economia meridionale era, per di più, penalizzata dalla carenza di adeguati istituti di credito, che determinava una situazione poco suscettibile di sviluppo. Soltanto nel 1857 fu istituita una prima succursale del Banco di Napoli a Bari, scrive Pasquale Villani nell’opera già citata. Due erano, altresì, le sedi del Banco di Sicilia: Palermo e Messina. Queste debolezze denunciavano l’esistenza di seri sintomi di crisi dell’industria nel Regno delle Due Sicilie ancor prima che l’introduzione della legislazione piemontese sconvolgesse l’antico sistema. Nel 1856 re Ferdinando II aveva avviato un programma di sviluppo economico che, se opportunamente applicato, avrebbe potuto salvare la monarchia borbonica dal tracollo. Invece, non fruttò che l’apertura della filiale del Banco di Napoli a Bari, un allargamento della telegrafia elettrica, settore privilegiato dal Governo, poche bonifiche in Terra di Lavoro, altrettante nella provincia di Salerno e in Puglia, qualche strada e pochi ponti. Tra il 1830 e il 1859, gli anni del regno di Ferdinando II, la spesa pubblica fu molto contenuta. Nel 1858, ultimi dati contabili attendibili, a fronte di un bilancio complessivo di circa trentasei milioni di ducati, ne furono assegnati poco più di tre ai lavori pubblici. E non si spesero nemmeno tutti. Anche le concessioni ferroviarie restarono al palo. Eppure,

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motivo di propaganda dei nostalgici della dinastia borbonica è l’esistenza all’atto dell’Unificazione, come essi sostengono, di molti progetti di ampliamento della rete ferroviaria, pronti per l’esecuzione. La verità è, purtroppo, diversa. Il 3 agosto 1839 Ferdinando II inaugurò la linea ferroviaria Napoli – Portici della lunghezza di circa otto chilometri. Era, in assoluto, la prima ferrovia costruita in Italia. Essa, però, fu voluta da un re più per la sua personale ambizione che per un vero desiderio di progresso, più per curiosità e vanità regale che per favorire lo sviluppo delle industrie e dei commerci, come non mancarono di rilevare già i contemporanei, come la Gazzetta Privilegiata di Milano del 9 agosto 1840. Al momento del suo crollo, il Regno delle Due Sicilie, pur essendo lo Stato più esteso d’Italia, aveva una rete ferroviaria di appena 99 km, il Piemonte ne vantava 850, il Lombardo – Veneto 607, il Granducato di Toscana 323, lo Stato Pontificio 136, il Ducato di Parma 99 e quello di Modena 50. Raffaele De Cesare nel saggio “Al tempo di Re Ferdinando” scrive che con Decreto Reale del 16 aprile 1855 Ferdinando II aveva concesso all’ing. Emanuele Melisburgo la costruzione e l’esercizio della ferrovia delle Puglie, da Napoli a Brindisi, con stazioni principali ad Avellino, Foggia, Bari, Barletta. Melisburgo era sicuro di raccogliere il capitale, preventivato in 22 milioni di ducati, fra i proprietari residenti nelle cinque province, che la linea avrebbe attraversato

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o lambito. Egli supponeva che su tre milioni di abitanti, 55 mila avrebbero potuto investire 100 ducati all’anno per quattro anni, per di più da versare in piccole rate, a cui sarebbe stato corrisposto un interesse annuo variabile da un minimo del 5% ed un massimo del 12,4%. La delusione fu enorme. Dei cinquantacinquemila cittadini, che avrebbero dovuto costituire il capitale, se ne trovarono meno di mille. La borghesia preferì, ancora una volta, non abbandonare la rendita per avventurarsi in investimenti che riteneva poco sicuri. Miglior sorte non ebbe, continua De Cesare, la concessione di costruzione e gestione della linea ferroviaria dell’Abruzzo, che si doveva raccordare con quella degli altri Stati italiani, rilasciata al barone Panfilo De Riseis. Anche in questo caso non si trovarono i capitali necessari e re Ferdinando fece decadere la concessione. Non buona era anche la situazione della rete stradale, perché di limitata estensione e di non agevole percorribilità. Le strade meridionali, scrive, in tal senso, Gianni Custodero in “Borboni & briganti, intervista di Silvio Trevisani”, avevano un’estensione di appena 13.800 km contro i 37.400 Km del Piemonte, della Liguria e del Lombardo-Veneto. In Lombardia, nel 1861, vi erano 6 km di strade per mille abitanti, in Campania, che era la regione meridionale più dotata di infrastrutture, ve n’erano, invece, appena 0,8 km. Ancora più ridotta era l’estensione delle strade in Sicilia, ove il rapporto era soltanto di 0,2 km per mille abitanti. Giuseppe Barone, docente

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universitario di storia contemporanea, nel volume di saggi “Aa.Vv. Le vie del Mezzogiorno: storia e scenari”, edito da Donzelli, scrive che nella parte continentale del Regno su 1828 comuni ben 1431 erano privi di collegamenti stradali e che solo quattro strade nazionali attraversavano il Regno: da Terracina a Napoli, da Tronto a Napoli, da Napoli a Bari e Lecce e da Napoli a Reggio Calabria. Tali strade erano per di più mantenute in pessimo stato e in alcuni tratti erano addirittura impraticabili. Inoltre i due sistemi viari, adriatico e tirrenico, erano collegati soltanto da due bretelle. In Sicilia il sistema viario era in uno stato peggiore rispetto al continente. Era, infatti, in esercizio un’unica strada nazionale, che collegava Palermo con Catania attraverso Caltanisetta. Ed ancora, su 328 comuni siciliani ben 182 erano totalmente sprovvisti di collegamenti stradali. Con una rete viaria di così ridotte dimensioni e con un’industria in buona parte in mano a capitale straniero e per di più protetta da politiche di stampo mercantilistico, il Regno delle Due Sicilie non aveva molte possibilità di sviluppare un’economia moderna e di porsi in competitività concorrenziale con gli altri Stati italiani e con quelli europei progrediti. Mancava al Regno delle Due Sicilie la presenza di una moderna classe dirigente di governo capace di avviare concrete politiche di sviluppo.

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3. LA BORGHESIA MERIDIONALE Mentre al Nord si affermava, già a partire dai liberi comuni, un intraprendente ceto borghese dedito agli affari e alle attività produttive, nel Mezzogiorno lo sviluppo borghese era impedito dalla persistenza di rapporti di lavoro ancora legati al feudalesimo, che solo giuridicamente sarà abolito dalla legge eversiva della feudalità del 1806. Eppure, nel XVIII secolo con re Carlo (VII come re di Napoli, VI secondo gli annuari di corte delle Due Sicilie, III come re di Spagna) si era aperta una stagione di riforme e di speranze, quando il Re aveva affidato l’incarico di primo ministro al giurista toscano Bernardo Tanucci, che era un deciso sostenitore delle prerogative e dell’indipendenza del Regno rispetto alla Curia Romana. Il Tanucci dominò la scena politica napoletana anche quando re Carlo si trasferì in Spagna, lasciando sul trono di Napoli il figlio minorenne Ferdinando IV. Il periodo tanucciano coincise con una ricca fioritura di studi economici e giuridici, che fece di Napoli, insieme a Milano, un centro importantissimo dell’Illuminismo riformatore. Nel 1754, presso l’Università di Napoli, fu istituita la cattedra di economia, la prima in Europa, che fu affidata ad Antonio Genovesi, le cui “Lezioni di commercio o sia di economia civile” precedettero di circa dieci anni la “Ricchezza delle nazioni” di Adamo Smith.

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Socialmente ed economicamente tra i paesi più arretrati d’Europa, il Regno di Napoli acquistò, in quel periodo, un’importanza europea per l’apporto di grandi ingegni come Antonio Genovesi, Ferdinando Galliani, Gaetano Filangieri, Giuseppe Maria Galanti e tanti altri. Ma né le denunce del Genovesi e del Galanti, né le critiche del Galliani, che, contro le tesi fisiocratiche, esaltavano il commercio e l’industria come fonti di ricchezza, né le proposte di rinnovamento amministrativo di Gaetano Filangieri riuscirono ad imprimere al corpo anchilosato del Regno di Napoli il dinamismo necessario per inserirlo tra i paesi progrediti d’Europa. Il processo di irrobustimento della borghesia non fu, perciò, uniforme e omogeneo tra Nord e Sud della penisola. La stessa borghesia agraria assunse una fisionomia diversa tra Nord e Sud. Accanto ad uno strato di contadini che in Piemonte erano riusciti a rendere vitali le loro aziende con la coltura della vite, prese corpo, specie in Lombardia, un ceto di affittuari medi e grandi, che gestirono in proprio, con manodopera salariata e bracciantile, terre prese in fitto dai grandi proprietari, nobili e ricchi borghesi, o da enti assistenziali, investendo capitali e capacità imprenditoriali. I fittavoli padani, verso la metà dell’Ottocento, apparivano a C ARLO CATTANEO , acuto osservatore delle realtà agrarie, un aggregato di individui i quali, più che agricoltori, erano «intraprendenti di industria agraria che, sciolti

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d’ogni manuale fatica e d’ogni cura servile, dirigono sopra vasti spazi il lavoro dei mercenari, anticipando grandi valori riproduttivi al terreno, e vivendo in mezzo ai rustici come cittadini». Nel Mezzogiorno, invece, accanto alla proprietà nobiliare si venne a rafforzare una frangia di proprietari terrieri borghesi, i quali, similmente ai nobili, vivevano nelle città o nei centri maggiori, ove spendevano le rendite ricavate dal lavoro dei contadini, che erano costretti ad accettare patti agrari molto penalizzanti. La creazione della proprietà borghese, che costituisce una delle tante facce della poliedrica questione meridionale, non portò, quindi, nell’agricoltura meridionale, la modernizzazione capitalistica. Continuò, infatti, ad essere largamente praticata la coltura granaria estensiva, la quale non richiedeva investimenti di grandi capitali. Ancora nel 1851 l’ economista inglese Nassau Senior notava che in Sicilia la produzione per ettaro fosse rimasta invariata fin dai tempi di Cicerone. È naturale che, in queste condizioni, con l’unificazione politica del Paese, diversa sarebbe stata la reazione dell’economia settentrionale rispetto a quella del Mezzogiorno. La presenza nel Regno delle Due Sicilie di una borghesia poco numerosa e poco imprenditoriale è attestata, tra l’altro, dal basso numero di società commerciali e industriali, presenti al momento della conclusione del processo di unificazione nazionale, rispetto agli altri stati preunitari, come riportato dall’Annuario

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Statistico Italiano del 1864, riferito alla situazione preunitaria: ANTICHE

PROVINCE

REGNO DI SARDEGNA TOSCANA REGNO DUE SICILIE EMILIA LOMBARDIA

N° SOCIETÀ CAPITALE

157 75 52 39 56

755.776 425.047 225.052 117.846 59.435

Sono dati, questi, che testimoniano la debolezza economica del Regno delle Due Sicilie, debolezza ancor più grave se si considera che il Regno meridionale, sia per estensione sia per numero di abitanti, costituiva quasi i due quinti della Penisola. Nata e cresciuta all’ombra del feudo, la borghesia meridionale non fu in grado di maturare le qualità proprie della borghesia settentrionale, qualità che potevano farla assurgere a classe dirigente capace di proporre prospettive di crescita e soluzioni di rapido e sicuro sviluppo economico e sociale. 4. LA LEADERSHIP DEL PIEMONTE Non pochi storici sostengono che se i Borbone fossero stati più aperti e lungimiranti avrebbero potuto guidare da soli o insieme ai Savoia il movimento di unificazione nazionale. Ma essi non seppero confrontarsi con le aspirazioni e le rivolte dei liberali se non usando la dissimulazione e la 34

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forca. Fu così nel 1799, nel 1820-21, nel 1828 nel Cilento e nel 1848, che segnò, per loro, il primo rintocco funebre della campana della storia. I Savoia, invece, seguendo il solco della loro plurisecolare politica di espansione territoriale, seppero interpretare i nuovi tempi e dimostrarono verso l’unificazione dell’Italia, un po’ per calcolo un po’ per convinzione, un’apertura che li portò ad assumere la guida del processo unitario. Non fu un caso, infatti, che dopo il disastro della Prima Guerra di Indipendenza, l’unico tra gli Stati italiani a non revocare la Costituzione fu il Regno di Sardegna, tant’è che dopo il 1848 la storia si spostò definitivamente e irreversibilmente da Napoli a Torino. Fu allora che il Regno delle Due Sicilie, che avrebbe potuto essere grande, perse definitivamente la sfida con la modernità. Tuttavia, già in anni precedenti, mentre re Ferdinando relegava il suo Regno in un isolazionismo, che non consentiva possibilità di utili scambi commerciali, tali da porre l’economia meridionale in competizione vincente con quella settentrionale e con quelle europee, il Piemonte, pur retto dal tentennante Carlo Alberto, altalenante com’era tra conservazione e innovazione liberale e, talvolta, non men duro di Ferdinando nella repressione, stava diventando un polo di attrazione per i patrioti moderati degli altri stati preunitari, grazie alle politiche riformatrici che, comunque, il discusso re stava introducendo nei suoi domini, ben prima della concessione dello Statuto. Segni tangibili della tendenza attrattiva sui patrioti furono le riforme 35

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amministrative in senso moderno dello Stato, come per esempio la riforma dei Codici Penale e Civile e la promulgazione di quello del Commercio, la soppressione dei tribunali speciali (tranne il militare e l’ecclesiastico), l’istituzione della Corte Suprema di Cassazione e del Consiglio di Stato, l’abolizione degli antichi privilegi feudali in Sardegna, la riforma della legge di censura sulla libertà di stampa e la stessa predisposizione del Re verso la causa nazionale testimoniata dalla risposta che Carlo Alberto diede a Massimo D’Azeglio, quando questi andò a riferirgli i particolari del suo viaggio in Romagna: - Faccia sapere a quei signori che stiano in quiete e non si muovano, non essendovi per ora nulla da fare, ma che siano certi che, presentandosi l’occasione, la mia vita, la vita dei miei figli, le mie armi, il mio tesoro, il mio esercito, tutto sarà speso per la causa italiana. Non ci è dato sapere se Carlo Alberto fosse totalmente sincero, se cioè in lui, sulla scia dei suoi antenati, prevalessero gli interessi dinastici di allargare i propri domini alla vicina Lombardia o quelli di un re disponibile a mettersi alla testa del movimento di riscossa nazionale. Sta di fatto che con tali parole egli manifestava un’attenzione verso la causa nazionale, che, invece, era totalmente estranea alla concezione politica di re Ferdinando. Un’attenzione, quella di Carlo Alberto, che si giovava della contemporanea presenza in Piemonte di personaggi, nati in Piemonte e votati alla causa italiana anche se con differenti vedute, quali:

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Vincenzo Gioberti, Cesare Balbo e Massimo D’Azeglio. Tutti e tre ricopriranno la carica di Presidente del Consiglio del Regno di Sardegna. Ma fu nel decennio 1849-1959 che il Piemonte divenne il faro dell’unificazione nazionale. Artefice del primato piemontese fu Camillo Benso conte di Cavour. Ministro dell’Agricoltura e Commercio, poi delle Finanze e quindi Presidente del Consiglio del Regno Sardo per oltre dieci anni, Cavour, oltre ad adottare una lungimirante politica estera, che nell’arco di un decennio si concluderà con l’unità d’Italia, intraprese una decisa politica liberista di sviluppo economico, aggravando, è vero, il disavanzo pubblico, ma, così facendo, rese l’agricoltura e l’industria del Regno competitive con quelle straniere. Il Piemonte divenne, così, fra gli Stati preunitari, il più progredito, il meglio amministrato e il più efficiente. L’economista napoletano Antonio Scialoja, esule a Torino, in un interessante saggio mise a confronto le politiche economiche del Regno Sardo con quelle del Regno delle Due Sicilie e previde con esattezza ciò che sarebbe successo all’atto dell’unificazione, quando le industrie meridionali, fino ad allora sostenute da una forte politica di stampo protezionistico, non furono in grado di reggere l’urto di quelle piemontesi che, grazie alle politiche liberiste di Cavour, offrivano prodotti migliori e più a buon mercato. L’agricoltura, invece, avrebbe potuto sostenere la concorrenza di quella settentrionale, ma solo risparmiando sui costi del

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lavoro e rendendo ancora più miserabili le condizioni dei contadini. Cavour incentivò, altresì, anche il sistema creditizio, grazie al quale nacquero le banche, che diffusero le loro succursali in tutto il Regno, ed istituì le Borse di Genova e di Torino, che trattavano titoli di tutta Europa. Grazie a queste politiche liberiste, si inaugurarono stabilimenti industriali, come gli arsenali Ansaldo a Sampierdarena, i cantieri Odero e quelli dell’esule siciliano Orlando; si migliorarono i trasporti con la costruzione di circa 950 km di ferrovie; si favorì lo sviluppo dell’agricoltura con bonifiche, trasformazioni di colture, innovazioni tecniche. E, per favorire le iniziative imprenditoriali si ridusse il saggio di sconto dal 10 al 4%, quando nelle Due Sicilie era del 20%. I rapporti di Cavour col suo re Vittorio Emanuele talvolta furono di schietta comprensione, altre volte furono conflittuali. Non era semplice avere a che fare con un re di complessa e forte personalità, un re, comunque, che seppe mantenere in vita il sistema parlamentare, anche quando le situazioni del momento sollecitavano una svolta di conservazione. Fu così nel 1851 quando, a seguito del colpo di stato in Francia di Luigi Napoleone, si ebbe in tutta Europa una ventata reazionaria. Vittorio Emanuele seppe resistere alle pressioni che gli provenivano da Vienna, Berlino, Firenze, Napoli e dall’interno stesso della sua corte, che lo sollecitavano a liquidare Costituzione e

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Parlamento. All’ambasciatore delle Due Sicilie, che lo invitava a nome di re Ferdinando II di ritornare a un regime assolutistico, rispose bruscamente: La condizione in cui versa il vostro Stato vi autorizza più a sollecitare consigli che a darne. In quello mio non ci sono né traditori né spergiuri. Una risposta da Re. Forse, più che la fedeltà alle istituzioni, come dice Indro Montanelli nel suo volume “L’Italia del Risorgimento”, agì in lui l’orgoglio ferito dalle ingerenze straniere. Sta di fatto, però, che in questa occasione seppe meritare la qualifica di “re galantuomo” che a Vignale gli era stata attribuita gratuitamente. A Vignale, infatti, egli non ebbe l’opportunità di difendere la Costituzione concessa dal padre, come invece sostiene la retorica risorgimentale, perché, semplicemente Radetzky non gli chiese di revocarla. Torino divenne la meta preferita di trentamila esuli italiani, provenienti da tutte le regioni d’Italia e di tutte le professioni: giuristi, economisti, storici, scienziati, giornalisti; tutta la futura classe dirigente dell’Italia unita. L’integrazione fu lenta e non sempre facile, ma già nel 1857, secondo il siciliano La Farina, duemilatrecento rifugiati erano impiegati nella pubblica amministrazione, moltissimi altri avevano ottenuto la cittadinanza e quasi tutti il permesso di soggiorno, che venivano regolarmente rinnovati. Alcuni, come Carlo Farini, furono eletti deputati; due, Enrico Cialdini e Manfredo Fanti, entrambi

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modenesi, diventarono generali dell’esercito sardo; altri come Pietro Paleocapa, scienziato e ingegnere di provenienza veneziana, ma nativo di Nese nel Bergamasco, e il milanese Gabrio Casati furono nientedimeno nominati ministri; anzi, già in precedenza, sia pure per un brevissimo periodo, dal 27 luglio al 15 agosto 1848, lo stesso Casati aveva assunto l’incarico di Presidente del Consiglio dei Ministri; altri esuli, che costituivano l’élite della cultura italiana, o furono valorizzati con incarichi di prestigio, Nicolò Tommaseo, Antonio Scialoja, Silvio Spaventa, o con l’assegnazione di cattedre nell’università: Pasquale Stanislao Mancini, Francesco Ferrara, Emerico Amari, o, infine, con l’assegnazione di corsi di libera docenza: Francesco De Sanctis. Fu così che il Piemonte divenne la speranza dei patrioti e il punto d’incontro del moderatismo risorgimentale con le diverse dissidenze del rivoluzionarismo mazziniano.

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II. LUCI E OMBRE DELL’UNIFICAZIONE

1. L’ INCOMPRENSIONE DEI VINCITORI Conseguita l’Unità d’Italia il problema più immediato, che si pose all’attenzione della classe dirigente, fu come far convivere, nell’ambito della stessa comunità nazionale, cittadini che fino ad allora erano stati estranei gli uni agli altri. Invero, si trattava di un obiettivo non facile da raggiungere per la reciproca ignoranza tra gli Italiani del Nord e quelli del Sud, ignoranza che, oltre a determinare dannosi pregiudizi, costituiva un serio ostacolo all’unificazione non soltanto politica della Nazione italiana. Da parte sua, il Governo commise l’imperdonabile errore di adottare provvedimenti che non tenevano in alcun conto le specificità dell’ex Regno del Sud e dell’identità meridionale, che pur si era formata in circa 126 anni di governo borbonico. Tanto fu rilevato anche dalla stessa Commissione Massari, che attribuì al potere centrale non poche cause della lunga persistenza del brigantaggio: - Dal giorno in cui la dinastia borbonica cessò da regnare, il principio politico del nuovo governo delle province napoletane è stato indubbiamente

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il medesimo, quello vale a dire della unità monarchica e costituzionale; ma i rappresentanti, gli esecutori del concetto sono stati diversi, ed hanno adoperato per attuarlo sistemi e mezzi diversi. E tutti hanno commesso errori [….]. Commisero errori il governo della dittatura e quelli delle quattro luogotenenze e le successive amministrazioni. Errori gravi che portarono, finanche, ad escludere, a priori, i Meridionali da appalti, uffici e decisioni operative, spazi che furono tutti monopolizzati dai centri direzionali settentrionali. In una siffatta situazione, il malcontento, che ne conseguiva, non poteva che trasformarsi in protesta, che divampò, ben presto, violenta e senza controllo. La repressione non ebbe solo un carattere militare. Il Mezzogiorno fu soggetto, anche, a una graduale e traumatica “deborbonizzazione”, basata sull’adozione dello Statuto Albertino e sul radicamento delle caserme dei carabinieri su tutto il territorio, le quali costituivano una novità assoluta nell’ex Regno delle Due Sicilie. L’Italia fu divisa in province, a ognuna delle quali fu assegnato un prefetto, il più delle volte di origine piemontese, mentre in campo economico si procedette, in parallelo, alla rimozione di tutte le barriere doganali con il conseguente inevitabile collasso dell’industria meridionale, che si reggeva prevalentemente sulle commesse e sul protezionismo dello Stato. Che la strategia usata dai Piemontesi per unificare il Paese non fosse

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scevra di errori l’avvertirono non pochi spiriti sinceramente patriottici. In tal senso, Massimo D’Azeglio, politico, scrittore, pittore, patriota, Presidente del Consiglio del Regno di Sardegna dal 1849 al 1852, così si esprimeva in una lettera inviata al suo amico Carlo Matteucci il 2 agosto 1861: «A Napoli, noi abbiamo cacciato il sovrano per stabilire un governo fondato sul consenso universale. Ma ci vogliono e sembra che ciò non basti, per contenere il Regno, sessanta battaglioni; ed è notorio che, briganti o non briganti, niuno vuol saperne. Ma si dirà: e il suffragio universale? Io non so nulla di suffragio, ma so che al di qua del Tronto non sono necessari battaglioni e che al di là sono necessari. Dunque vi fu qualche errore e bisogna cangiare atti e principi. Bisogna sapere dai Napoletani un’altra volta per tutto se ci vogliono, sì o no. Capisco che gli italiani hanno il diritto di fare la guerra a coloro che volessero mantenere i tedeschi in Italia, ma agli italiani che, restando italiani, non volessero unirsi a noi, credo che non abbiamo il diritto di dare archibugiate, salvo si concedesse ora, per tagliare corto, che noi adottiamo il principio nel cui nome Bomba (Ferdinando) bombardava Palermo, Messina, ecc.». Agli inizi, quando Nord e Sud si resero conto delle reciproche diversità lo sconcerto fu grande. Ben presto, su questa diversità venne fondato il convincimento, oggi ancora diffuso, della concreta impossibilità di giungere ad una completa fusione tra meridionali e settentrionali.

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Cavour era cosciente dei gravi problemi che il Governo italiano avrebbe dovuto affrontare con l’annessione dei territori del Regno delle Due Sicilie. Egli, perciò, era restio a compromettere con tale annessione il piano abilmente portato avanti dalla spedizione di Crimea fino ai plebisciti dell’Italia centrosettentrionale, successivi alla 2a Guerra d’indipendenza. Ma Garibaldi ne scompigliò i disegni. La campagna militare del Mezzogiorno fu, infatti, più un atto di forza dei garibaldini che una scelta ragionata del partito moderato al governo. Ben presto i Mille rimasero delusi e scandalizzati per le sconcertanti reazioni delle masse popolari meridionali, così poco sensibili agli ideali del riscatto nazionale. Da qui al pregiudizio la distanza era minima. E i pregiudizi non tardarono a nascere e a diffondersi. Varia era la loro natura. Vi erano pregiudizi di ordine storico e politico, altri di natura psicologica ed altri, infine, derivavano da assurde pretese di diversità antropologica. Nel loro insieme costituivano un coacervo di luoghi comuni, che esprimevano un complesso di superiorità verso i Meridionali. Apodittici e ingenerosi, per esempio, furono le opinioni sui Meridionali di Carlo Luigi Farini e del generale Giuseppe Govone. Carlo Luigi Farini, inviato a Napoli come luogotenente del Regno nell’ottobre 1860, scrivendo a Cavour affermava: Che barbarie! Altro che Italia! Questa è Affrica: i beduini, a riscontro di questi caffoni, sono fior di virtù civile;

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mentre Giuseppe Govone, generale impegnato nella repressione del brigantaggio, così si esprimeva: - Quelli sono barbari e incivili e devono essere trattati con durezza. Duro e sprezzante verso i Meridionali fu il giudizio espresso dal presidente della Camera dei deputati Giovanni Lanza già nel dicembre 1860: Assuefatti da secoli a subire un governo scettico, immorale e corrotto… sono privi di spirito pubblico e pare che abbiano persino smarrito il senso del giusto e dell’onesto. […] Agl’Italiani del Nord spetta l’ardua missione di rigenerare civilmente e politicamente gl’Italiani del Sud. Diomede Pantaleoni era un medico maceratese, deputato ed intimo amico di Cavour. Fu inviato dal ministro dell’Interno Marco Minghetti nelle province meridionali per una relazione sulla situazione locale. Ribellioni contadine, reazione borbonica e brigantaggio gli apparvero soltanto come questioni di ordine pubblico, da risolvere con criteri repressivi. Truppa, truppa! Fu il suo consiglio, accolto prontamente dalla classe politica al governo e trasmesso alla gerarchia militare con il compito di riportare l’ordine nel Meridione. Così egli si esprimeva nella relazione al ministro: «La popolazione è nella sua gran maggioranza fiacca, indifferente, corrotta, piena di sua importanza, si crede mal trattata quando ci deve tutto e se non fosse per noi e pel nostro esercito si troverebbe nello stato il più orrendo di anarchia. Se le nostre truppe

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si ritirassero, il paese si troverebbe in mezzo alla più sfrenata, alla più feroce, alla più selvaggia guerra civile. Queste popolazioni, se abbandonate da noi, avrebbero la sorte del Messico, delle repubbliche meridionali d’America, della Grecia e della Turchia. Questo è un paese che non si tiene che con la forza o col terrore della forza. […]. Truppa, truppa, truppa. Ci vogliono almeno 40 o 50 mila uomini effettivi e 3000 gendarmi. Se noi esitiamo […..] questo popolo di codardi si rivolgerà al Borbone ed ai Briganti che mostrano più risolutezza ed ai quali stimeranno perciò che appartenga la forza ora, la vittoria poi». Fatto è che per la quasi totalità delle popolazioni meridionali, termini “Italia unita” e “patria libera e indipendente” non erano che semplici espressioni verbali. Va ricordato, in tal senso, che la percentuale di analfabeti, ad esempio, in Basilicata superava il 90%. Unica forma di libertà, intellegibile da una massa contadina abbrutita dal sottosviluppo economico e da un asservimento sociale ancora feudale, era quella dell’emancipazione dalla miseria e dalle angherie dei potenti. Significative, in tal senso, erano le parole che padre Carmelo rivolgeva a Cesare Abba riportate nel libro Da Quarto al Volturno, parole che esprimevano la speranza di riscatto delle plebi meridionali raccoltesi intorno a Garibaldi. Invitato da Abba a seguire Garibaldi per conquistare la libertà, padre Carmelo rispondeva che non poteva, perché «la libertà non è pane. Ci vorrebbe una

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guerra non contro i Borbone, ma degli oppressi contro gli oppressori grandi e piccoli, che non sono soltanto a corte, ma in ogni città, in ogni villa». Confortati sulle prime dai proclami rivoluzionari di Garibaldi, i contadini del Sud ritennero di poter identificare il loro concetto di libertà con quello dichiarato da garibaldini e piemontesi, ma l’alleanza, che in breve tempo si sarebbe instaurata tra aristocratici e borghesi terrieri meridionali con la borghesia conservatrice settentrionale, avrebbe ben presto frustrato le loro speranze. Mentre nelle intenzioni di Garibaldi e dei democratici il Sud avrebbe dovuto avere un assetto amministrativo attento alle particolari fisionomie regionali, per Cavour e i moderati era irrinunciabile l’immediata ed incondizionata annessione al Piemonte, che fu subito sancita con apposito plebiscito. La battaglia fu così vinta dai moderati, preoccupati di improntare la loro politica a principi di rigido centralismo. Di qui gli sforzi del Governo di unificare al più presto l’amministrazione nazionale con l’estensione del sistema giuridico ed amministrativo piemontese al resto d’Italia. Si produsse, così, un circolo vizioso. La debolezza del consenso favorì la centralizzazione; la centralizzazione, a sua volta, come un cane che si morde la coda, fece aumentare la piemontizzazione di realtà sconosciute e ritenute potenzialmente ribelli.

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2. LA CONFISCA DEI BENI ECCLESIASTICI Superato il primo periodo di crisi, dovuto al passaggio da un regno ad un altro, da un’amministrazione ad un’altra con caratteristiche profondamente diverse, i governati dell’Italia unita si trovarono di fronte a problemi di enorme portata, la cui risoluzione richiedeva coraggio, elasticità e apertura mentale. La loro attenzione fu catturata prevalentemente dal problema di Roma e Venezia non ancora congiunte alla patria italiana, che fece passare in secondo ordine i gravi mali che affliggevano le popolazioni dell’ex Regno delle Due Sicilie e non solo. Il vero e grosso problema del Mezzogiorno restava la questione della terra. Problema vecchio di duemila anni, appena scalfito dalla soppressione giuridica della feudalità del 1806 e dalla quotizzazione dei demani, il latifondo sembrava destinato a perpetuarsi costantemente nelle mani dei pochi possessori di capitali. La grande legge eversiva della feudalità del 1806 aveva suddiviso più di un terzo del demanio feudale e comunale tra oltre 230.000 contadini, che, poveri com’erano, non possedendo i mezzi necessari per la conduzione dei terreni, li vendettero alla borghesia terriera, che, possedendo i capitali, poté ampliare ed estendere il numero dei suoi latifondi. Da allora in poi, tutti i tentativi nel Mezzogiorno di quotizzazione della terra si riveleranno, nel giro di pochi anni, un fallimento.

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Il nuovo stato unitario ci riprovò con la vendita dei beni fondiari confiscati agli enti religiosi e alle istituzioni di beneficenza ecclesiastiche. Furono incamerati e messi all’asta, divisi in piccole quote, circa un milione di ettari che la legge del 1867 prescriveva di cedere a pagamento dilazionato, al fine di soddisfare il desiderio dei braccianti agricoli di condurre finalmente come proprietari un appezzamento di terreno. Ma il risultato non fu quello sperato. Ancora una volta, come al tempo dei napoleonidi, a beneficiare dell’operazione fu la parassitaria borghesia terriera, che spese nell’intero Mezzogiorno oltre 600 milioni; un capitale che, con più avvedutezza e lungimiranza, poteva essere destinato ad investimenti produttivi. 3. PRIMI SEGNI DI PROGRESSO FRANCESCO GALASSO , storico napoletano, in Il Regno delle Due Sicilie Tra Mito e Realtà così scrive: «L’azione svolta dallo Stato italiano nel Mezzogiorno, dalle ferrovie alle strade, alla scuola, alla pubblica amministrazione e a pressoché tutti i campi della vita civile fu un’azione di grande impegno. E, certo, si deve anche a questa azione se, nel grandioso progresso realizzato da tutto il paese dal 1861 in poi, il progresso del Mezzogiorno è stato inferiore a quello del Nord, ma in se stesso è stato ugualmente cospicuo e di molto maggiore di quello realizzato nell’equivalente periodo di centocinquant’anni prima dell’unità».

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Indubbiamente, ed è ingeneroso affermare il contrario, vi fu in tutto il territorio nazionale, ma più Nord che al Sud, un impegno del Governo unitario, che spaziava dalla scuola alla pubblica amministrazione e alle infrastrutture necessarie a determinare sviluppo economico e crescita sociale, quali ferrovie e strade. Infatti, a partire dall’indomani dell’Unità d’Italia, lo sviluppo della rete ferroviaria ebbe in tutta Italia un impulso straordinario, tant’è che, nei cinque anni successivi, fu raddoppiata la sua estensione raggiungendo circa 5.000 km e fu, altresì, avviata la costruzione di grandi opere, la cui realizzazione permise un notevole abbattimento delle distanze con una sensibile riduzione dei tempi di percorrenza. Il primo esempio si ebbe con la solenne inaugurazione, il 17 settembre 1871, del traforo del Frejus da Bardonecchia a Modane. Per lo sviluppo del Mezzogiorno fu costituita il 18 settembre 1862 la “Società per le strade ferrate meridionali”, la prima grande azienda ferroviaria d’Italia, con presidente il conte Pietro Bastogi e vicepresidenti il barone Bettino Ricasoli ed il conte Giovanni Baracco. La costituita Società disponeva di un patrimonio sociale formato da capitali misti, italiani e stranieri, che assommava a 100 milioni di lire, i cui titoli azionari erano quotati in borsa. Alla fine del 1864 erano stati costruiti nel Sud 482 Km di binari ferroviari, rispetto ad un totale generale di 3.396 Km, di cui 2015 preesistenti all’Unità.

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Nel medesimo tempo fu messa in esercizio la tratta Ancona-Brindisi della “ferrovia adriatica”, che assicurava all’Italia il passaggio della “Valigia delle Indie”, il cui itinerario italiano costituiva una delle parti terrestri del collegamento ferromarittimo Londra-Bombay. Si realizzava, così, il primo grande itinerario ferroviario nord-sud attraverso la penisola. Era ormai possibile andare da Torino a Lecce e da Milano Centrale a Roma, via Perugia-Terni. In Sicilia si poteva andare per ferrovia da Palermo a Trabia. Nel 1867 la predetta Società portò a termine anche la costruzione della grande Stazione Centrale di Napoli, i cui primi progetti risalivano al 1860, con la grande copertura in ferro e vetro progettata dall’ingegnere napoletano Alfredo Cottrau. Nel 1870 il governo unitario aveva già decuplicato la rete ferroviaria meridionale, estendendola al Sannio (Benevento) e attraverso esso al Molise (Termoli), a sua volta collegato, attraverso la costa adriatica, alla Puglia (Foggia, Candela, Barletta, Taranto, Bari, Brindisi, Lecce, Maglie) e alla Calabria (Rossano, Cariati). Furono, inoltre, costruite le linee: Reggio-Bianconovo in Calabria e, in Sicilia, Palermo-Lercara, LeonforteCatania-Messina, Lentini-Catania. Nel contempo, però, mentre si dava corso alla costruzione di tali infrastrutture, nel Sud divampava la protesta violenta del “Grande Brigantaggio”.

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III. LA PROTESTA VIOLENTA

1. BRIGANTAGGIO, FENOMENO ENDEMICO Il brigantaggio non ha interessato soltanto l’Italia meridionale, ma è nel Meridione che ha imperversato più a lungo e in maniera virulenta. Tutti: re, nobili e borghesi hanno avuto a che fare con i briganti. Spesso per combatterli, altre volte per utilizzarli a proprio vantaggio, specie in particolari circostanze in cui veniva pericolosamente messo in forse il loro potere. Dai Normanni in poi, le continue guerre, le lotte fratricide tra monarchia e baroni, cioè tra potere centrale e potere periferico, ridussero le città e le contrade meridionali in balia di organizzazioni criminali e di bande di predoni. Il fenomeno subì un notevole peggioramento con gli ultimi Angioini, gli Aragonesi e gli Spagnoli. La struttura sociale alimentava il disagio delle popolazioni e favoriva la proliferazione di forme malavitose nelle città e nelle campagne. Da una parte vi era una nobiltà terriera, che traeva la propria ricchezza dalla rendita fondiaria, intorno alla quale gravitavano professionisti

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(soprattutto avvocati), artisti, artigiani, preti e i pochi alfabetizzati. Dall’altra, vi era un mondo rurale costituito da contadini, che servivano il padrone alla stregua di servi della gleba e che difficilmente si sarebbero potuti allontanare dalla terra nella quale erano nati e nella quale erano destinati a vivere, lavorando per il benessere dei signori. In una tale situazione, il confine tra l’indigenza delle plebi e la protesta violenta era, di conseguenza, molto labile. Testimonianza del secolare fenomeno del brigantaggio in Italia meridionale è la legge che il Viceré spagnolo Duca di Alcalà emanò nel 1595, che così recitava: - Coloro che ardissero taglieggiare qualsivoglia persona con lettere, imbasciate, o pure bruciando i seminati, e uccidendo gli animali di coloro ai quali ha mandato a chiedere danari, si dovranno punire con la pena di morte naturale. Gli interventi legislativi si susseguirono nel tempo: così la prammatica del Duca d’Alba nel 1622; le tre di don Ferrante Afan de Rivera Duca di Alcalà e le altre quattro del Duca di Medina. Neanche Carlo, re illuminato e propugnatore di riforme ed opere pubbliche, riuscì a debellarlo. Il brigantaggio era così forte e preoccupante che lo stesso Bernardo Tanucci, accorto uomo di governo, confessò la sua impotenza facendo affiggere un avviso, che così diceva: - Non si vedono che briganti sulle strade e nelle campagne; non si vedono che persone obbligate a difendersi dalle violenze degli assassini. Non si vede che brigantaggio, scellerataggine, incendi commessi da ogni parte. Il commercio ha perduto ogni

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sicurezza […]. Si comanda quindi ai magistrati di arrestare ed uccidere i disturbatori della pubblica pace. Ma potendo ciò non essere sufficiente, si consiglia ai commercianti ed ai viaggiatori di viaggiare a carovane e bene armati. Particolarmente grave era la situazione dell’ordine pubblico negli anni della Restaurazione, quando il sovrano Ferdinando I di Borbone, al fine di sradicare la malapianta del brigantaggio che infestava il regno, emanò il 30 agosto 1821 un decreto con il quale esprimeva la sua precisa volontà d’impiegare «misure straordinarie ed efficaci per la punizione ed esterminio» dei briganti. A tal fine, l’editto imponeva la nomina e l’istituzione di quattro corti marziali, che ebbero giurisdizione su tutto il territorio continentale del regno borbonico. In pratica, l’intero Mezzogiorno, con la sola eccezione della Sicilia, era posto in stato d’assedio. Il decreto prevedeva, altresì, che chiunque avesse ucciso un brigante, avrebbe ricevuto un premio di 200 ducati per un capobanda e di 100 per un semplice gregario. Ovviamente tanto non bastò a debellare il brigantaggio, tant’è che Francesco II si vide costretto ad emanare il 24 ottobre 1859 il Decreto n. 424 con il quale conferiva ai tribunali di guerra delle guarnigioni di Cosenza, Catanzaro e Reggio Calabria il potere di processare e condannare secondo le leggi di guerra coloro che si macchiavano dei reati di comitiva armata, resistenza alla forza pubblica, brigantaggio e favoreggiamento al brigantaggio.

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Non di rado, ad aureolare le imprese dei briganti, interveniva una letteratura d’appendice, che vedeva, spesso, nel brigante l’eroe che riparava i torti, l’uomo onesto costretto alla macchia per non sottostare alla spavalderia e all’arroganza di una giustizia non giusta, forte con i deboli e remissiva con i forti. La realtà, ovviamente, era profondamente diversa da quella descritta dai romanzieri. Vi poteva pur essere un brigante vittima di ingiustizie e di soprusi, tipo Angiolillo Del Duca, che rubava ai ricchi e dava ai poveri, o il brigante (insorgente) che lottava per un fine politico, ma nella generalità dei casi si trattava di personaggi usi a violenze efferate e nefandezze senza pari. 2. IL BRIGANTAGGIO POSTUNITARIO, COS’È STATO Molto è stato scritto sul brigantaggio postunitario, ma molto è stato taciuto dalla storia ufficiale. Poco si sa, ad esempio, delle ingerenze delle potenze europee nello scontro tra esercito e briganti. Non poche altre scomode verità ancora non sono del tutto emerse. A distanza di oltre 150 anni dai loro accadimenti è bene che le stesse vengano completamente a galla; ma, allo stesso tempo, è doveroso che, da parte di certi storici revisionisti, non siano glorificate, nel loro insieme, azioni, che altro non furono se non manifestazioni di pura brutalità. 55

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Il grande brigantaggio, che si sviluppò nel decennio 1860-70 nell’ex Regno delle Due Sicilie, ebbe origine da un complesso di motivazioni: economiche, sociali, politiche e internazionali. Conseguita l’Unità, le masse dell’Italia Meridionale si ritrovarono nelle dure e misere condizioni di sempre. Le condizioni di arretratezza e di miseria non erano certo addebitabili a Garibaldi o a Cavour, ma ora, nell’animo di quelle popolazioni, l’astio per l’oppressione e per lo sfruttamento secolare era reso ancor più aspro dalla delusione per il fallimento di una grande speranza e per le promesse non mantenute. Il brigantaggio, per la complessità delle forze variamente motivate che in esso confluirono e per l’altissimo prezzo umano di cui fu causa, costituì una seria minaccia alla stabilità del nuovo Stato unitario. Questo fenomeno fu molto di più di un puro e semplice fatto di delinquenza comune, perché assunse anche gli aspetti di un vero conflitto sociale e politico. I briganti costituirono un mondo variopinto. Erano pastori, contadini, criminali comuni, banditi di strada, sbandati dell’esercito napoletano, ufficiali, gentiluomini e studenti, spesso aiutati da una borghesia incolta, trasformista e gattopardesca. Alcuni combattevano e morivano per avventura e bottino; altri per un confuso ideale, guidati da emissari borbonici e sobillati da borghesi conservatori, da preti e nobili timorosi di perdere i propri privilegi col cambiamento. Il ribellismo meridionale esisteva già molto prima dell’arrivo

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dei Piemontesi. In un certo senso esso era fisiologico al sistema instaurato dai Borbone, così come lo era la reazione, che trovava sempre un cardinale Ruffo pronto a combattere le idee nuove che minacciavano l’ordine costituito. Gli anni 1861, 1862 e 1863 furono anni di violenza inaudita. Alla rabbia cieca, per secoli repressa, dei contadini briganti rispose la violenza sistematica e disumana dei generali del neoesercito italiano. Molto è stato scritto sul brigantaggio, ma un po’ tutte le ricostruzioni difettano di obiettività, perché poggiano su pregiudizi ideologici. Specie nell’ultimo ventennio, è invalsa una tendenza revisionista, che ha interpretato l’unificazione nazionale come una pura ruberia delle ricchezze del Sud perpetrata dagli invasori Piemontesi e il Brigantaggio postunitario come un movimento armato di popolo contro l’occupazione straniera e, in quanto tale, antesignano della Resistenza al nazifascismo. Si tratta, a nostro avviso, di esagerazioni e interpretazioni storiche condotte in totale libertà e prive di metodo scientifico. Garibaldi, Vittorio Emanuele, Cavour, Mazzini e tutti gli uomini del Risorgimento non erano stranieri, ma italiani, come italiano era Francesco II, e la Resistenza, contrariamente al Brigantaggio, è stato un movimento di forze e partiti politici che, oltre a combattere davvero lo straniero, hanno elaborato e proposto concreti programmi di prospettive politiche di sviluppo economico, di crescita sociale e di diversa organizzazione dello

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Stato. Nessuna ipotesi di sviluppo sociale ed economico il Brigantaggio seppe generare, nessuna prospettiva di ordine politico seppe avanzare, se non un generico ritorno del Borbone sul trono delle Due Sicilie. La Corte borbonica pensava di ripetere l’impresa del 1799, quando il cardinale Ruffo era riuscito a raccogliere un esercito di volontari lealisti e di noti briganti per sconfiggere la Repubblica Napoletana. Ma nel 1861 e anni successivi non vi fu un personaggio con il carisma del cardinale Ruffo, che potesse ripetere l’impresa. E così il sogno di Francesco II di ritornare sul trono che gli era stato sottratto durò soltanto pochi mesi. E il brigantaggio, deposta l’aureola politica, si mostrò per quello che era sempre stato: un fatto delinquenziale senza alcun nobile fine. Certamente la complessa e variegata vicenda del Brigantaggio costò molto in vite umane, sia da una parte sia dall’altra. Certamente la realtà non è quella dei dati ufficiali, ma è improprio e fuorviante, come fanno i revisionisti neoborbonici, applicare all’Ottocento categorie e termini linguistici specifici del Novecento, di sicuro effetto emotivo: lager, genocidio, sterminio di massa, gulag. Bisogna, tuttavia, riconoscere, che le analisi dei revisionisti, quantunque fortemente viziate da pregiudizi ideologici, hanno messo il dito sulla piaga delle verità non dette dalla storia ufficiale. L’Unità, infatti, non avvenne solo con baci, abbracci e sventolii di bandiere, ma anche attraverso una sanguinosa repressione. 58

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3. I MANUTENGOLI DEI BRIGANTI Il brigante aveva bisogno di protettori, da solo non aveva molte possibilità di successo. Aveva bisogno di mangiare e aveva bisogno di qualcuno che gli fornisse i viveri; aveva bisogno di armi e munizioni, e, quindi, aveva bisogno di qualcuno che gliele assicurasse; aveva bisogno di conoscere i movimenti dei soldati e della guardia nazionale, e, di conseguenza, aveva bisogno di chi gli desse informazioni in merito e gli indicasse, altresì, le persone da sequestrare. Il solo aiuto dei contadini non era sufficiente. Stare alla macchia, in centinaia o, come nel periodo iniziale, in migliaia di uomini, era una cosa molto difficoltosa e molto cara da sostenere. A chi conveniva, oltre ai contadini non proprietari, tenere operativi i briganti? La risposta è semplice: ai baroni e alla parte più retriva della borghesia meridionale, che, in quel tempo di sconvolgimenti istituzionali, temevano di perdere i privilegi e le ricchezze, accumulate, anche illegittimamente, con usurpazioni di terre demaniali, consentite da un sistema, in generale, iniquo e vessatorio, ma protettivo versi pochi. Nobili e borghesi utilizzarono le bande come arma di pressione nei confronti dei nuovi governanti, per conservare quel potere politico e quei privilegi che a qualcuno erano già sfuggiti di mano. I ricchi possidenti giocarono, cinicamente, 59

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la carta del brigantaggio: da una parte foraggiandolo e dall’altra fingendosi liberali. Famoso è il caso di Michele e Donato Rago di Lacedonia, come riportano Manhés e Mc. Farlan nel volume “Brigantaggio”. Il generale Pallavicini aveva avuto una soffiata che il capobanda Agostino Sacchitiello e la sua banda trovavano rifugio presso i Rago. Questi, per allontanare i sospetti, organizzarono nel loro palazzo una festa alla quale invitarono gli ufficiali dell’esercito presenti in zona. Nella medesima notte, mentre nelle sale dei piani superiori si svolgeva la festa, in altri locali, ben protetti, i Rago davano ospitalità alla banda brigantesca. Verso le undici i bersaglieri, ben informati, fecero irruzione nel palazzo e riuscirono a scovare i briganti, mentre banchettavano in una sala cui si accedeva da una porta nascosta dietro un armadio. I briganti furono catturati e tradotti ad Avellino. I Rago, uomini e donne, furono arrestati, processati e condannati a pene varianti da dieci a vent’anni di lavori forzati Quando, poi, fu chiaro a borghesi e a nobili, che tutto cambiava, ma tutto restava com’era, i briganti ebbero i giorni contati. Venuto meno l’importante sostegno di nobili e borghesi, molti briganti furono indotti a consegnarsi alle autorità in cambio della vita. Qualcuno come il capobanda Giuseppe Caruso, si consegnò al generale Pallavicini e divenne un accanito persecutore dei suoi vecchi compagni. Colto il vento sfavorevole, Crocco, il più famoso dei briganti, riparò, nel 1864, nel territorio dello 60

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Stato pontificio, ove, però, fu arrestato. Fu condotto a Parigi per essere interrogato e, di qui, riportato in carcere a Roma nel 1867. Il territorio pontificio ormai non era più un porto sicuro per i briganti. Il 15 settembre 1864 il Governo italiano aveva stipulato con quello francese una convenzione, con la quale l’Italia garantiva l’integrità territoriale dello Stato pontificio, in cambio del ritiro delle truppe francesi da Roma e del trasferimento della capitale da Torino a Firenze, a cui seguì nel 1865 analoga convenzione con lo Stato pontifiio.

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IV. CAUSE E SVILUPPO DEL BRIGANTAGGIO

1. CONDIZIONI SOCIALI ED ECONOMICHE Le radici del brigantaggio vanno individuate, anche e soprattutto, nel profondo malessere sociale, che era alimentato dalla condizione di estrema miseria e di abiezione delle masse contadine, le quali furono ancor più penalizzate e traumatizzate dalla condotta del governo di Torino, che parlava di libertà e portava, invece, repressione e tribunali speciali, come tra l’altro non mancò di osservare la Commissione Parlamentare di inchiesta, nominata il 22 dicembre 1863. Le cause del malcontento popolare erano molteplici e le loro origini, in parte, erano vecchie di secoli: miseria; promesse non mantenute; distribuzione di terre invano reclamate, di cui si erano impossessati i cosiddetti “galantuomini” con l’abuso e con l’acquiescenza degli amministratori pubblici; odio verso i latifondisti, filoborbonici al tempo dei Borbone, liberali all’arrivo dei garibaldini. La protesta esplodeva in ogni occasione, che poteva comportare un cambiamento. Era già successo nel 1799 ai tempi della Repubblica Napoletana e si riproponeva, ora, nel trambusto del passaggio da 62

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un sistema politico-istituzionale ad un altro. Garibaldi era appena entrato a Napoli è già in varie parti del Regno, come in Irpinia a Carbonara, Montemiletto e in altri comuni, i contadini insorgevano contro i “galantuomini”, reclamando le terre che da sempre avevano lavorato per un tozzo di pane. La delusione verso Garibaldi e il nuovo Stato fu enorme. I contadini incominciarono a non avere più paura dei briganti. Anzi, nei briganti, spesso, videro i riparatori delle loro ingiustizie. Molti si diedero alla macchia andando a ingrossare le bande brigantesche, altri, ancor di più, sostennero l’attività delle medesime con aiuti materiali e con informazioni circa lo spostamento delle truppe. La Commissione d’inchiesta parlamentare, presieduta dall’abruzzese Giuseppe Massari, individuò alcune motivazioni di fondo del brigantaggio e propose anche dei rimedi, ma non riuscì a interpretare compiutamente il fenomeno. L’assoluta precarietà dei rapporti economici e sociali e la “infausta” influenza del passato regime borbonico furono indicate, comunque, tra le più incisive “cause predisponenti”: - Le prime cause adunque del brigantaggio sono le cause predisponenti. E prima fra tutte la condizione sociale, lo stato economico del campagnolo che in quelle province dove appunto il brigantaggio ha raggiunto le proporzioni maggiori è assai infelice. Quella piaga della moderna società che è il proletariato ivi appare più ampia che altrove [….].La sola miseria forse non sortirebbe effetti cotanto perniciosi se non fosse congiunta ad altri mali che la infausta

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signoria dei Borboni creò ed ha lasciato nelle province napolitane. Questi mali sono l’ignoranza, gelosamente conservata ed ampliata, la superstizione diffusa ed accreditata e segnatamente la mancanza assoluta di fede nelle leggi e nella giustizia […]. La “Relazione Massari” non si discostava molto dal vero. Se s’indagano i fatti in profondità, si scopre che le violenze dei briganti furono l’ultima manifestazione di quelle rivolte contadine, disperate e senza precisi programmi di rivendicazioni, che dal secolo XIV insanguinavano le campagne europee. FRANCO MOLFESE, nel suo libro Storia del brigantaggio dopo l’Unità parla chiaramente di lotta di classe, pur individuandone i limiti: «I briganti aspirano al pane, alla libertà e alle vendette, come forma di rozza giustizia, mossi da impulsi anarcoidi e distruttori. Il brigantaggio si presenta come la manifestazione estrema, armata, di un movimento rivendicativo e di protesta che si eleva fino a rozza forma di lotta di classe». Sennonché a smentire il conflitto di classe è lo stesso CARMINE CROCCO, quando scrive nella sua autobiografia: «Alla nostra salvezza contribuirono in massima parte i signori col loro potente ausilio, od almeno il loro silenzio. Io stesso che scrivo, nei vari anni della mia vita di bandito, dormii poche volte al bivacco, e trovai alloggio e ristoro presso personalità da tutti ritenute intangibili sotto ogni rapporto».

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2.SCIOGLIMENTODELL’ESERCITOBORBONICO In ordine di tempo, la prima causa politica del brigantaggio, fu la decisione di Garibaldi di sciogliere l’esercito borbonico. Furono proprio gli ex soldati borbonici, ovunque ingiuriati e fatti oggetto di scherno e di derisione, che nelle campagne ingrossarono le bande brigantesche, costituendone uno dei nuclei essenziali, come scriveva già nel 1863 Fabio Carcani in un “esposto” (Sul brigantaggio nelle province napoletane) indirizzato alla Commissione d’inchiesta presieduta dal deputato Giuseppe Massari: Annovero tra le cause principali una serie di errori governativi. […]. In primo luogo vi è il congedo in massa dato verbalmente il giorno istesso che giungeva alla Capitale l’invitto Eroe Nizzardo a tutti i soldati borbonici, che avessero voluto ritirarsi alle proprie famiglie... e formarono così il primo nucleo del brigantaggio. 3. IL CONGEDO DEI VOLONTARI GARIBALDINI La seconda causa fu lo scioglimento dell’esercito garibaldino, composto di circa trentamila uomini, che provocò una serie di conseguenze simili a quelle che avevano accompagnato il congedo dei militari borbonici: umiliazione, aumento degli sbandati e un grave vuoto di forze militari, che

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sarebbero state utili per garantire la stabilità del nuovo assetto politico. Questo provvedimento fu voluto dal Cavour, il quale era ben convinto che il primo nemico da battere al Sud fossero le camicie rosse e i democratici, suddivisi tra chi sosteneva l’autonomia del Mezzogiorno e chi avanzava la proposta dell’assetto federativo dello Stato, ma uniti nel ritenere non procrastinabile la liberazione di Roma e di Venezia. Dal suo punto di vista Cavour non aveva tutti i torti. Carlo Cattaneo, il più deciso sostenitore dell’idea federalista dell’Italia, si era spostato da Milano prima in Sicilia e poi a Napoli per promuovere e favorire le tesi federaliste. L’obiettivo di Cattaneo era di costruire dal Sud l’alternativa repubblicana e federalista. Ma il suo disegno si scontrava sia con i moderati di Cavour sia con i repubblicani unionisti di Mazzini. Non fu difficile ai moderati, in una situazione siffatta, avere la meglio sui democratici sia unionisti sia federalisti. 4. LA LEVA OBBLIGATORIA La terza causa, tra quelle politiche, fu l’estensione a tutta l’Italia della legislazione del Regno Sardo che, tra le altre cose, introdusse la leva obbligatoria. Il sacrificio della leva risultò troppo pesante per le famiglie contadine del Meridione, tanto da acuire le delusioni e rendere ancor più impopolare il governo nazionale.

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Allontanare per tre anni - tanto durava il servizio militare - un giovane dalla propria famiglia significava penalizzare la già debole economia agricola di sopravvivenza delle plebi meridionali, perché si sottraevano braccia di giovani indispensabili nel lavoro dei campi. Per di più, nell’ex Regno delle Due Sicilie l’arruolamento non era regolato da norme rigide come nel Regno di Sardegna: si poteva evitare l’obbligo di leva, derivante da sorteggio, facendosi sostituire o pagando duecento ducati; per di più i Borbone avevano esonerato i Siciliani da quest’obbligo. Di fronte a tale sconvolgente imposizione, i renitenti si moltiplicarono numerosissimi e si diedero alla macchia, andando a ingrossare le bande dei briganti. Fu, comunque, l’esercito, tramite la coscrizione obbligatoria, a tentare, per primo, di amalgamare gli Italiani. 5. L’AZIONE DEI COMITATI BORBONICI Il 14 dicembre 1860 Francesco II di Borbone, ultimo re delle Due Sicilie, smobilitò, perché non più utili alla difesa, la Guardia e parte della guarnigione della fortezza di Gaeta, dove si era asserragliato dal 7 settembre dopo il crollo del suo Regno. A ogni soldato fu dato un congedo provvisorio, tre giorni di viveri e otto di paga con l’obbligo di stare nel reame. Pochi giorni prima il

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Re aveva indirizzato ai suoi popoli un proclama in cui, riconfermando la costituzione e l’amnistia per tutti i reati politici, si appellava ai sentimenti patriottici dei sudditi, assicurandoli che «l’ora inevitabile della giustizia» avrebbe ben presto modificato la situazione a suo favore. Con questi atti il sovrano inaugurava la sua nuova strategia politica e militare per recuperare il trono perduto, i cui punti più rilevanti erano: rimandare nel Regno reclute pronte a insorgere, rianimare la lotta e proporre all’opinione pubblica europea un quadro della situazione politica diverso da quello suggerito dai facili successi militari riportati dalle forze garibaldine e da Vittorio Emanuele. Le prime insurrezioni, guidate dal colonnello tedesco Theodor Friedrich Klitsche de la Grange, si ebbero negli Abruzzi, ma furono, già nel dicembre 1860, represse dal generale piemontese Enrico Morozzo della Rocca. Il 13 febbraio 1861 la fortezza di Gaeta, ormai allo stremo, capitolava. Francesco II e la regina Maria Sofia, imbarcatisi sulla nave francese “Monette”, si rifugiarono nel vicino Stato pontificio, che li riconobbe come sovrani legittimi. Nelle stesse ore gli sbandati, i congedati e i capitolati di Gaeta si saldavano alle jacquerie contadine diventando il fulcro della reazione borbonica. Iniziava così il vero braccio di ferro tra il Regno sabaudo, dal marzo 1861 ormai d’Italia, e gli “insorgenti” meridionali, associati, un po’ per caso, ma più per preciso

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disegno, a mercenari stranieri e a delinquenti e criminali comuni. Per conseguire l’obiettivo, Francesco II alimentò i fermenti sociali nel suo ex regno, cavalcando, in modo spregiudicato la tigre della guerra sociale incubante da molto tempo, a causa di vecchie e recenti responsabilità della sua dinastia, e bisognosa solo di piccole e adeguate spinte per esplodere ferocemente. La reazione del Borbone trovò terreno fertile. Ben presto iniziarono le più importanti campagne brigantesche del 1861 con operazioni militari miranti alla restaurazione legittimistica, caratterizzate, però, anche da innumerevoli rapine, saccheggi e omicidi. L’ex re sperava di arrivare al congresso internazionale di Varsavia, proposto dall’imperatore d’Austria, forte della diffusa sollevazione contro il nuovo Regno d’Italia da parte dei suoi ex sudditi. Le potenze europee avrebbero, così, potuto sentenziare il ritorno del Regno delle Due Sicilie alla legittima dinastia. I ritardi del riconoscimento internazionale del nuovo Stato italiano sostenevano le speranze e l’attività cospirativa dei comitati borbonici, i quali cercarono e ottennero l’appoggio delle bande di briganti che già infestavano le contrade meridionali. Il brigante, come già era successo ai tempi della reazione sanfedista del 1799, divenne, così, un rivoluzionario partigiano dei Borbone che egli vedeva come simboli di giustizia e non, come in

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realtà erano, storicamente corresponsabili della miseria delle plebi meridionali. In teoria Francesco II disponeva di prestigiosi e devoti paladini, i quali però preferivano ai rischi della guerra la tranquillità e gli agi della Roma papalina. A scendere in campo e a rischiare la vita furono, per lo più, alcuni aristocratici e ufficiali stranieri, spesso abbandonati a se stessi. E così, mentre formazioni di volontari militarizzati, al comando di ufficiali legittimisti giunti da tutta Europa, esercitavano la guerriglia sui confini pontifici, Carmine Crocco detto Donatelli dal nome del nonno paterno, un bandito passato dalla milizia garibaldina a quella lealista, nell’aprile 1861 si poneva, in Lucania, a capo di una vasta insurrezione. Occupava, anche se in via temporanea, Venosa, Lavello, Melfi e molti altri centri alla testa di quarantatré bande, che nell’insieme assommavano a centinaia e in alcuni casi a migliaia di uomini, effettuando scorribande anche in Irpinia. Il piano insurrezionale, su imput del Comitato borbonico romano, fu accuratamente preparato da quello lucano, guidato sul posto dall’ufficiale legittimista francese Augustin Olivier De Langlais, meglio conosciuto come Langlois, un misterioso avventuriero bretone, di cui non si sono potuti mai ricostruire i precedenti e la figura. Un particolare potrebbe far riflettere sulle vere intenzioni di questo personaggio; lo scrive Paolo Zanetov nel saggio “Il grande complotto dietro il brigantaggio”. Esaminando la composizione dei Comitati Borbonici, preposti ad organizzare 70

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localmente l’insurrezione, si rileva, dice Zanetov, che i loro più autorevoli esponenti erano quasi tutti murattiani, i cui obiettivi, nei fatti, come vedremo, non erano coincidenti con quelli di Francesco II, ma con quelli di Napoleone III. Spiccava tra essi la figura di Giustino Fortunato senior, costituzionalista nel 1820, leader del partito murattiano in Lucania, principale roccaforte di tale formazione politica. Maggior latifondista della regione con ben 6000 ettari di proprietà, Fortunato era universalmente considerato l’uomo di punta del Comitato borbonico lucano, che egli dirigeva dalla nativa Rionero in Vulture, patria dello stesso Crocco, suo ex dipendente. 6. LE INGERENZE INTERNAZIONALI I documenti, finora rintracciati, scrive ancora Paolo Zanetov, non parlano in maniera chiara di ingerenze di potenze europee nella guerra fratricida, che insanguinò, per alcuni anni, le contrade meridionali. Esistono, però, numerosi e seri indizi di una loro occulta intromissione in quella che era una questione interna, tutta italiana. Verosimilmente, interessi economici e geopolitici, dovuti ai cambiamenti in corso nella seconda metà dell’Ottocento, non potevano non destare la loro concreta attenzione. Nel 1859 erano stati avviati i lavori per l’apertura del Canale di Suez, progettato dall’italiano Luigi Negrelli e realizzato dalla Francia in collaborazione con l’Egitto. L’Italia 71

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meridionale acquisiva, in tal modo, un primario interesse strategico nella rinnovata centralità del Mediterraneo. In previsione dell’inaugurazione dell’opera, che poi avvenne nel 1869, Napoleone III, già con gli “Accordi di Plombieres”, aveva indotto Cavour ad accettare, in caso di vittoria nella guerra con l’Austria, una ripartizione dell’Italia favorevole agli interessi d’Oltralpe. L’accordo italofrancese prevedeva, infatti, che il Regno di Sardegna, esteso a tutta la pianura padana fino all’Isonzo e comprendente l’Emilia-Romagna già pontificia, si trasformasse in Regno dell’Alta Italia. Toscana, Umbria e Marche avrebbero dato vita al Regno dell’Italia Centrale, affidato a Leopoldo II di Toscana o, preferibilmente, a Maria Luisa di Borbone, duchessa di Parma. Il Regno delle Due Sicilie sarebbe rimasto inalterato sotto la guida di Ferdinando II di Borbone e dei suoi eredi o, in ben più gradita opzione, di Luciano Murat, discendente dell’ex re di Napoli Gioacchino. Al papa sarebbe restato il solo Lazio, ma, in compenso dei territori perduti, avrebbe ricevuto la presidenza onoraria della Confederazione dei quattro stati italiani. Nelle Due Sicilie, già prima di Garibaldi, il partito murattiano si presentava forte e particolarmente diffuso tra borghesi e ufficiali dell’esercito. E così, già all’indomani della capitolazione di Gaeta, sembrò che i murattiani guadagnassero consensi, aiutati, inconsapevolmente, dall’improvvida scelta del Borbone, che, anziché dar vita a una guerriglia condotta da soldati provetti, ne affidò la gestione a comitati segreti, 72

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spesso formati da murattiani poco interessati ai destini della spodestata dinastia. Come e chi indusse Francesco II a compiere tale scelta? I documenti, finora esaminati, non ne parlano. L’unica strada per chiarire il dubbio è quella che porta ai maneggi di Napoleone III, che, come sottolinea Paolo Zanetov, si era posto l’obiettivo di far assegnare l’ex Regno meridionale a Luciano Murat, al posto di Francesco II, nel progettato e mai realizzato congresso di Varsavia. Per conseguire il risultato, la sollevazione primaverile del 1861 doveva fallire, come in effetti avvenne. Il fallimento avrebbe determinato condizioni di grande caos e di pericolo per l’equilibrio europeo. Francesco II sarebbe così apparso, agli occhi dei delegati al congresso di Varsavia, inadatto a governare la situazione di straordinario disordine e di incerte prospettive che si era creata. Di tanto non vi sono prove certe e, quindi, non stiamo illustrando verità storiche incontrovertibili. L’argomento abbisogna di ulteriori ricerche e approfondimenti. Ma nemmeno si tratta di semplici ipotesi campate in aria. I sospetti sono confermati da tre fatti. Il primo è costituito dalla scelta, poco ragionata, del Comitato borbonico romano di considerare la Basilicata come base della nascente guerriglia, in quanto la stessa era la provincia ove più numerosi e agguerriti si presentavano i comitati costituiti, prevalentemente, da murattiani. Il secondo, come vedremo meglio più avanti, è rappresentato dalle precise

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disposizioni del generale borbonico Clary al legittimista spagnolo José Borjes, mandato in Basilicata per guidare le bande di Crocco. Tali disposizioni dicevano di non fidarsi di alcuno e di riferire sulle operazioni di guerriglia soltanto e direttamente a S.M. Francesco II. Il terzo fa riferimento al comportamento poco chiaro del Comitato borbonico lucano, che aveva affidato il comando dell’insurrezione all’ambiguo e misterioso avventuriero francese Augustin Olivier de Langlais. Infine, altre dubbie vicende rafforzano i sospetti sugli intrighi dell’imperatore dei francesi. Non si piegherebbe diversamente, ad esempio, la protezione accordata dalle autorità francesi ai fratelli briganti Giona e Cipriano La Gala. Questi, per sfuggire alla cattura, si rifugiarono, trovando asilo politico, sul postale francese “Aunis”. Scoperti a Livorno, furono arrestati a Genova su concessione del console francese, ma il Governo d’oltralpe, smentendo l’operato del proprio console, ne pretese la restituzione. Giona e Cipriano La Gala furono, quindi, portati a Marsiglia e, solo dopo pressanti ed energiche proteste italiane, furono estradati in Italia. Ovviamente gli Inglesi non potevano restare indifferenti di fronte alle mene di Napoleone III. La loro antica aspirazione, di costituire un protettorato britannico sulla Sicilia per stabilire la loro egemonia nel Mediterraneo, ove già avevano Malta e Gibilterra, sarebbe svanita, se gli intrighi francesi avessero avuto successo. Quindi, anch’essi, ribaltando la loro precedente adesione alla causa 74

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italiana, studiarono il modo di trarre profitto dalla caotica situazione in cui si trovava l’Italia meridionale. Fu per questo che, e non si potrebbe spiegare diversamente, lasciarono partire da Malta la spedizione legittimista di Borjes e consentirono che l’isola diventasse la base operativa di spedizioni successive. Anche in questo caso prove certe ancora non ve ne sono, ma indizi. Indizi che, però, diventano molto attendibili, di fronte all’apparire sulla scena del capitano di marina inglese James Bischop e ai misteriosi viaggi a Londra di emissari di Francesco II, tra cui il generale Cutrofiano. Il capitano Bischop, sospettato di portare armi agli insorti borbonici, fu arrestato insieme al conte alsaziano Emile Theodule de Christen nell’ambito della cosiddetta “Congiura di Frisio”, che mirava, nel luglio 1861, all’insurrezione di Napoli. Rilasciato, fu di nuovo arrestato nell’aprile 1862, ma fu rimesso in libertà a seguito dell’intervento della diplomazia britannica. Sempre in compagnia di de Christen, riapparve a Palermo nel 1866 in quella strana insurrezione indipendentista di legittimisti, ultramazziniani e picciotti. 7. L’AZIONE DEL CLERO Al momento dell’unificazione nazionale, il clero meridionale si presentava pletorico, ignorante, influente, economicamente potente e per tradizione

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fedelmente legato all’assolutismo dei Borbone, di cui, con la polizia e l’esercito, costituiva un sostegno tra i più efficaci. Il Concordato del 1818, improntato a un giurisdizionalismo moderato, aveva, di fatto, sancito l’alleanza fra trono e altare. I vescovi, sempre più legittimisti, si legarono alla monarchia. Con un decreto del 1843 Ferdinando II delegò ai vescovi le competenze in materia d’istruzione. La Chiesa meridionale divenne, così, meno legata a Roma e più all’assolutismo borbonico, tant’è che i suoi vescovi furono in gran parte contrari alla Costituzione che Francesco II concesse il 25 giugno 1860 in un ultimo e disperato tentativo di salvare il Regno. Dopo l’Unità, l’aggressivo giurisdizionalismo repressivo dei decreti luogotenenziali di Pasquale Stanislao Mancini, che abolivano il concordato del 1818 e applicavano alle provincie meridionali le riforme ecclesiastiche vigenti nel Regno di Sardegna, irrigidirono le posizioni. Secondo una ricerca condotta da Franco Molfese, relativa all’anno 1848, gli ordini monastici nelle Due Sicilie erano trentanove, contavano più di 12.000 membri e possedevano 848 case, con un patrimonio stimato in quasi 40 milioni di lire dell’epoca. Gli ordini religiosi femminili erano, a loro volta, tredici, con 250 case e circa 5.000 componenti. Una pletora di prelati completava l’elenco: venti arcivescovi e sessantasette vescovi. In media un vescovo su 70.000 abitanti, quando in Francia, nello stesso periodo, ve n’era uno su 437.500 abitanti.

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I citati decreti luogotenenziali, sebbene mai attuati, paventavano l’incameramento dei beni degli enti ecclesiastici, tra cui anche quelli delle chiese ricettizie. Anche se la minaccia si concretò solo nel 1867, con la legge di liquidazione dell’asse ecclesiastico, al momento la Chiesa meridionale fu, comunque, letteralmente sconvolta. Fu così che l’opposizione clericale si saldò all’antiliberalismo e al legittimismo borbonico in un fronte meridionale antiunitario. A condurre la lotta in campo intellettuale e culturale fu la rivista dei Gesuiti “Civiltà Cattolica”. Più tardi alcuni tra i più prestigiosi redattori della rivista divennero convinti unitari, come il suo stesso fondatore Carlo Maria Curci e padre Carlo Passaglia.

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V. L’AVVENTURA DEI LEGITTIMISTI EUROPEI

1. JOSÉ BORJES La vicenda di José Borjes e degli altri legittimisti europei accorsi in difesa di Francesco II costituiscono un esempio lampante degli intrighi, delle diffidenze e del pressapochismo che accompagnarono il brigantaggio, specie nella fase politica del suo sviluppo. A pochi mesi di distanza dal fallimento della rivolta in Lucania, cioè della fase prevalentemente politica del brigantaggio, il generale José Borges, catalano carlista al servizio di Francesco II di Borbone, sbarcò il 13 settembre 1861 in Calabria, alla testa di un piccolo gruppo di compatrioti. Arrivava da Malta. Gli ordini, impartiti dal generale borbonico Clary, prevedevano dettagliate istruzioni, che mettevano sull’avviso Borges da «infiltrazioni» di altri comandi: «All’oggetto di evitate la confusione o gli ordini dubbi, resta in massima stabilito che il generale Borjes e tutti coloro che dipendono da lui, non obbediranno che agli ordini del generale Clary, anche quando altri si facessero forti di ordini del

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Re. Questi ordini non li giungeranno che per mezzo del generale Clary [...]. In questi tempi al primo splendido successo il generale Borges si vedrà circondato da generali e ufficiali che vorranno servirlo; egli li terrà tutti lontani, perché S.M. gli manderà gli ufficiali che Essa stimerà degni di tornare sotto le bandiere». L’avocare a sé ogni decisione, denunciava il grado di sospetto della corte borbonica verso i precedenti fallimentari tentativi insurrezionali organizzati dai comitati e lasciavano, addirittura, supporre l’ipotesi del tradimento. Che cosa aveva indotto Francesco II ad assumere tali cautele? Poco chiare sono le stesse origini della missione di Borjes, a cominciare dalla scelta della località d’imbarco, l’isola di Malta, destinata nei piani borbonici a fungere da base operativa di questa e altre successive spedizioni; poco chiari sono anche i motivi per i quali le autorità inglesi lasciassero partire dal loro territorio una spedizione legittimista, ribaltando il loro precedente orientamento favorevole alla causa unionista. La spiegazione, secondo Paolo Zanetov, andrebbe ricercata nella preoccupazione degli inglesi verso i maneggi di Napoleone III. Verosimilmente, c’è da supporre, che Francesco II si fosse reso conto della dubbia condotta della precedente campagna insurrezionale di aprile, diretta dai comitati lucani e dal legittimista Augustin Marie Olivier de Langlais (Langlois).

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Non è azzardato supporre, visti i successivi sviluppi, che il Langlois fosse un agente dei francesi con l’incarico di rendere la situazione ingovernabile in coerenza con i piani di Napoleone III. Di qui il frettoloso e poco pianificato invio di legittimisti spagnoli, che erano estranei agli intrighi dei comitati locali. Quando Borjes raggiunse il quartier generale di Crocco, l’incontro tra i due fu semplicemente interlocutorio. Crocco disse che era in attesa di disposizioni da parte di un generale francese, che il giorno seguente sarebbe arrivato da Potenza. Si trattava del Langlois. Borjes lo incontrò il giorno dopo, come Crocco aveva preannunciato. L’impressione che ne ricevette non fu tra le migliori, tanto da annotare sul suo diario: «Si spaccia generale e agisce come un imbecille». Lo scontro con lo spagnolo era inevitabile. Borjes, osteggiato da chi avrebbe dovuto appoggiarlo (Crocco e altri), il 27 novembre 1861 tentò di raggiungere Roma con un piccolo gruppo di fedeli seguaci. Braccato dalle truppe italiane, traversò avventurosamente l’alto Molise e l’altopiano delle Cinque Miglia arrivando in prossimità della frontiera pontificia. Le sue intenzioni, come lui stesso annotava, erano quelle di riferire direttamente a Francesco II le infamie, le inettitudini e i doppi giochi cui, nel corso della sua missione, dovette assistere. L’8 dicembre giunse alla cascina “La Luppa” in prossimità dello sguarnito confine pontificio. Qui

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decise di passare la notte. Le strade erano innevate, uomini e cavalli probabilmente molto stanchi. Un breve riposo era plausibile, ma non una lunga sosta fino alle dieci del mattino seguente, dando, così, tempo ai bersaglieri del maggiore Franchini di catturarlo con tutto il suo gruppo. Come fu possibile che un eccellente comandante venisse arrestato come uno sprovveduto ladro di polli? Di sicuro le cose seguirono un altro corso. Borjes, non arrivò a caso alla cascina “La Luppa” e attese tutto quel tempo, perché così gli era stato ordinato di fare. Ma catturato, fu sommariamente interrogato e poche ore dopo, alle quattro del pomeriggio, fu fucilato senza che fosse verbalizzata alcuna rivelazione. Una vicenda strana, la cattura di Borjes, che nascondeva un’ultima strabiliante sorpresa. Lo scrive ancora Paolo Zanetov. Il rapporto ufficiale del maggiore Franchini accennava a cinque sentinelle uccise a baionettate dai bersaglieri all’esterno della cascina. Ma una di esse, e il maggiore ne era perfettamente a conoscenza, perché proprio con essa aveva avuto a che fare, era riuscita a fuggire. Si trattava dello spagnolo Sebastian Rivas che, casualmente imbattutosi nella banda Chiavone, era stato da questi accompagnato a Roma, ove preferì non fermarsi neanche un giorno, partendo immediatamente per la Spagna. Aveva sicuramente capito di trovarsi in una storia più grande di lui. Se, come appare dai fatti, Borges fu tradito perché non parlasse, ciò che aveva da

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dire non riguardava faccende di poco conto, ma un segreto di Stato. Un segreto, probabilmente, scomodo per tutti: per i Borbonici, per gli Italiani, per il Pontefice, per i Francesi. Confermano l’ipotesi le parole stesse che Borjes rivolse a un tenente italiano che lo scortava: «Andavo a dire al re Francesco II che non vi hanno che miserabili e scellerati per difenderlo, che Crocco è un sacripante e Langlais è un bruto». Dopo la fucilazione dello spagnolo, il Langlois rimase ancora, per qualche tempo, in Basilicata; poi ritornò in Francia, ove s’impiegò come commissario di stazione. 2. RAFAEL TRISTANY Nell’inverno fra il 1861 e il 1862 il compito di imprimere un carattere organico all’azione delle bande fu assunto da un altro legittimista spagnolo, il generale Rafael Tristany. Ma anch’egli abbandonò il campo, perché fallì nel tentativo di dare un carattere unitario alla guerriglia dei briganti. Anche in questo caso, la causa del fallimento fu il dissidio tra i legittimisti stranieri e i briganti presenti nella zona delle operazioni. Il capobanda Luigi Alonzi detto Chiavone, che operava nel sorano, era un uomo coraggioso, un comandante abile ma, allo stesso tempo, spavaldo, vanaglorioso e indisciplinato. Già all’indomani dell’incontro di Teano, aveva costituito una numerosa banda con la quale imperversava nel basso Lazio, occupando

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molti paesi e dando del filo da torcere agli ufficiali piemontesi. All’occorrenza trovava rifugio nelle abbazie della zona: Casamari, Trisulti e Scifelli o nel confinante Stato pontifico. Per mettere ordine e coordinare le operazioni di guerriglia, Francesco II, all’inizio del 1862, inviò il generale legittimista spagnolo Rafael Tristany de Barrera. Luigi Alonzi, però, non ne riconobbe l’autorità. Il conflitto tra i due portò alla frantumazione della banda. «Un povero uomo che vanta la sua fedeltà alla casa borbonica, ma è incapace di difenderla ; anzi la scredita», così RAFAEL TRISTANY scrisse di Alonzi nel suo diario. Verso la fine di giugno l’odio tra le due fazioni portò alla drammatica conclusione del rapporto di forza tra il capobanda sorano e gli stranieri. Sulle montagne di Sora, dove sempre rientrava per star vicino alla sua donna, Chiavone venne intercettato da una compagnia di “tristanisti” ed arrestato. Un tribunale improvvisato lo condannò alla pena di morte. La sentenza fu eseguita lo stesso giorno della cattura, il 28 giugno 1862 in un bosco vicino all’abbazia di Trisulti. Ma ciò non valse a nulla. Il Tristany fu costretto, infatti, poco dopo, ad abbandonare il campo e riparare a Roma. Con l’uscita di scena di Borjes e di Tristany, che intendevano condurre operazioni militari regolari, senza perdersi in vendette e ruberie, si concluse sostanzialmente la fase cosiddetta politica del “Grande Brigantaggio”.

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VI. LA REPRESSIONE

1. MERIDIONALI CONTRO MERIDIONALI Il numero degli uomini impiegati nella repressione del brigantaggio fu enorme. La protesta era di tale violenza che metà esercito italiano, circa 120 mila soldati, furono utilizzati contro la guerriglia, che insanguinò le contrade meridionali e gettò una luce fosca sugli esordi del Regno d’Italia. Alla fine, seppure con lentezza, il brigantaggio fu sconfitto. Mancò ai briganti una conduzione sicura e unitaria delle loro azioni. Francesco II era un giovane debole, privo di abilità politica, che spesso finiva per subire le decisioni altrui e, perciò, era incapace di imprimere alle direttive una spinta incisiva. Inoltre dietro di lui e in suo nome operavano personaggi il cui comportamento non era molto chiaro e molto leale verso di lui. Non sempre queste persone agirono nel totale interesse della dinastia borbonica. Molti sono i dubbi in proposito.

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Ci furono, infine, molte bande e troppi capibanda, disuniti nell’azione, spesso in urto tra loro. Particolarmente gravi furono, come abbiamo visto, i dissidi tra i capi dei briganti e i legittimisti europei, venuti in Italia per abbattere lo Stato unitario nato dalla rivoluzione liberale e borghese. Chi erano i soldati che repressero il brigantaggio? In genere si parla di Piemontesi, ma non si considera che l’esercito piemontese fosse ormai diventato esercito italiano con uomini arruolati nella varie parti d’Italia, anche in quella meridionale. Non erano tutti piemontesi di nascita i generali tristemente noti nel Sud per la ferocia della loro repressione. Enrico Cialdini era di Modena, Ferdinando Pinelli era nato a Roma, Emilio Pallavicini era di Genova, Manfredo Fanti era di Carpi in Emilia. Non erano, altresì, tutti settentrionali i soldati che sconfissero i briganti. In tal senso, lo storico di vicende militari Pierluigi Romeo di Colleredo in “Storia in rete”, numero speciale gennaio-marzo 2011, sostiene che già nell’aprile 1861 furono costituiti a Capua quattro battaglioni di bersaglieri (XXVI, XXVIII, XXIX e XXX) con ex “cacciatori” delle Due Sicilie, che furono subito impiegati contro il brigantaggio con “risultati eccellenti”. Altri battaglioni di bersaglieri (sino al XL formato a Capua nel 1865) furono, in seguito, composti di cacciatori borbonici. Con la fanteria furono costituite le brigate: Abruzzi, Calabria, Sicilia, Palermo e Puglie; con l’ex guardia reale i

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Granatieri di Napoli, per un totale di dodici reggimenti. Nel concreto, annota Colleredo, su diciannove battaglioni di bersaglieri, impiegati nella lotta al brigantaggio, dodici erano formati da ex soldati duosiciliani; su trentaquattro reggimenti di fanteria dodici erano costituiti da vecchi reggimenti borbonici; e ancora, su quattro reggimenti di cavalleria, due erano veterani di Francesco II. Nel 1861, nel Regio Esercito italiano la percentuale di soldati provenienti dall’esercito napoletano era di poco inferiore a quella dei veterani piemontesi e il doppio di quella del resto d’Italia. Dei centomila soldati e ufficiali dell’esercito borbonico, almeno sessantamila furono assorbiti dal nuovo esercito italiano. Altri, non pochi, finirono nelle bande dei briganti, altri si rifiutarono di prestare giuramento di fedeltà a Vittorio Emanuele II e furono deportati, anche se per un breve periodo, nelle prigioni sabaude, tra cui la fortezza di Fenestrelle. Un capitolo a sé, nella storia della resistenza borbonica, spetta alla fortezza di Fenestrelle che, arroccata sulle montagne torinesi, servì da prigione per soldati rimasti fedeli al Borbone. Fu così descritta da EDMONDO DE AMICIS: «Uno dei più straordinari edifizi che possa aver mai immaginato un pittore di paesaggi fantastici: una sorta di gradinata titanica, come una cascata enorme di muraglie a scaglioni». La denuncia delle dure condizioni in cui erano tenuti i prigionieri borbonici fu diffusa dalla rivista

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dei gesuiti Civiltà Cattolica, che spiegò ai suoi lettori come «per vincere la resistenza dei prigionieri..., furono fatti scortare nelle gelide casematte di Fenestrelle... uomini nati e cresciuti in clima caldo ...gittati, peggio che non si fa coi negri schiavi, a spasimar di fame di stento». È doveroso, però, ricordare che Civiltà Cattolica, per la forte avversione dei Gesuiti verso il nascente Stato unitario, non è una fonte tra le più attendibili. ALESSANDRO BARBERO, che sulla vicenda ha scritto il libro I prigionieri dei Savoia, così scrive: «Qualcuno ha paragonato la fortezza a un lager, con i prigionieri costretti a portare palle ai piedi prima di venire gettati nelle calce viva, ma in realtà si trattava di una struttura che fungeva da caserma e dove, in tempo di guerra, erano detenuti prigionieri per brevi periodi, incluso un contingente di 1.186 soldati napoletani che vi sostò nel novembre 1860. Qualcuno di loro morì di malattia, così come, negli anni seguenti, altri soldati del Sud (e del Nord). Ma di stermini e supplizi non vi è notizia. In breve la leggenda nera di Fenestrelle è un falso fomentato dalla pubblicistica neoborbonica». 2. LA FINE DEL BRIGANTAGGIO Finita nel vicolo cieco della violenza fine a se stessa, la guerra dei briganti era destinata fatalmente a fallire, anche perché la loro protesta, ancorché in qualche parte fondata e legittima nelle

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motivazioni, si manifestava in senso contrario alla storia, ossia in favore del dominio politico papale e dell’assolutismo borbonico e contro la borghesia e gli istituti liberali, che avevano trionfato in Europa e si stavano affermando in Italia. Nel 1870, con la presa di Roma da parte dei bersaglieri di Cadorna, il brigantaggio meridionale poté considerarsi virtualmente cessato. Ma già prima lo stesso governo pontificio, che in precedenza ne aveva fatto i campioni di “Trono e Altare”, attuò contro i briganti, nel suo territorio, gli stessi metodi spietati utilizzati dagli italiani con la famigerata legge Pica. Nel 1865 fu firmata a Cassino tra il Governo italiano e quello pontificio una convenzione analoga a quella stipulata nel 1864 tra Francia e Italia. La campagna delle truppe papali contro il brigantaggio costò la bella cifra di due milioni e mezzo di lire e mobilitò, a rotazione, circa diecimila uomini, ossia la quasi totalità dell’esercito pontificio. Furono eliminati 701 tra manutengoli e briganti, gran parte dei quali uccisi. Il brigantaggio fu la manifestazione del fallimento, nel Meridione, della rivoluzione liberale e borghese in termini democratici. I “cafoni” non furono in grado di capire i contenuti unitari e gli ideali della borghesia, perché le loro esigenze primarie erano quelle del pane, del lavoro e dell’affrancamento dalla servitù. Chi ne trasse vantaggio fu la retriva borghesia agraria, che rafforzò il proprio potere sulle spalle dei cafoni medesimi e si pose come classe dominante. A

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quest’ultima riuscì, infatti, di impossessarsi dei beni demaniali e degli ordini religiosi soppressi con la legge del 1866, che furono posti in vendita per coprire le urgenze dell’erario. Secondo le intenzioni del Governo quei terreni (circa un milione di ettari) avrebbero dovuto incrementare la piccola e media proprietà fondiaria. Le perdite umane e materiali di quella che fu definita la “sporca guerra” furono enormi. Ovviamente la stampa nazionale si guardò bene dall’informare l’opinione pubblica, la quale continuò a credere che l’Unità si fosse realizzata nell’armonia tra tutti gli Italiani. La storiografia ha giudicato il brigantaggio privilegiando, a seconda dei casi, un aspetto rispetto all’altro della questione. In un primo momento e fino agli anni Ottanta del secolo scorso, sulla scia della lezione marxiana, sono stati privilegiati gli aspetti sociali. In tal senso, il brigantaggio è stato visto alla stregua di una guerra sociale, combattuta soprattutto dai contadini contro le usurpazioni di terre massicciamente operate dalla borghesia, vera e sola beneficiaria del moto risorgimentale. Tra la fine del secolo scorso e l’inizio di quello attuale, l‘interpretazione classista ha lasciato il posto ad altre interpretazioni, tra cui quella di giornalisti, improvvisatisi storici, prossimi al movimento neoborbonico, che hanno considerato il brigantaggio come una rivolta contro l’occupazione straniera, ossia una come vera e propria Resistenza nazionale.

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3. I NUMERI DELLA REPRESSIONE La guerra, che dal 1861 al 1865 si combatté nel Mezzogiorno d’Italia, fu una lotta senza quartiere. Una pubblicistica fiorita negli ultimi anni parla addirittura di genocidio di un popolo con un milione di morti. «Io non sapevo che gli italiani del Nord fecero al Sud quello che i nazisti fecero a Marzabotto». Così inizia il libro Terroni del giornalista PINO APRILE. Per i nostalgici dei Borbone, migliaia furono i soldati borbonici che perirono nei «lager del Nord». Cinquantaquattro paesi furono rasi al suolo. Secondo Alessandro Romano, coordinatore dell’Associazione Culturale Movimento Neoborbonico, meglio conosciuto come Capitano Romano, perché insignito del titolo di capitano dalla principessa Urraca di Borbone, dal 1861 al 1872 le perdite dei briganti ammontarono a 266.370 uomini, di cui: 154.850 morti in combattimento e 111.520 fucilati o morti in carcere (GIUSEPPE RESSA, La Repressione, da IL PORTALE DEL SUD). Si tratta di cifre inverosimili, emerse da analisi storiche prive di rigore scientifico. Il Regno delle Due Sicilie, nel 1860, contava circa nove milioni di abitanti, di cui circa 2 milioni 500 mila in Sicilia e 1 milione 200 mila in Calabria. Sicilia e Calabria non furono interessate dal fenomeno del brigantaggio politico se non marginalmente la Calabria che,

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quantunque da secoli terra di briganti, fu percorsa nella fase del Brigantaggio postunitario da una sola grossa banda di circa 120 uomini, quella di Ferdinando Mittica. Il che significa che il numero dei morti indicato dal “Capitano Romano”, essendo riferito a una popolazione di circa 6 milioni e 500 mila abitanti (Sicilia esclusa) costituisce una percentuale altissima, di oltre il 4% del totale delle popolazioni interessate, che supera il 5% se si esclude anche la Calabria. Sono numeri al cui confronto, se fossero veri, rabbrividirebbero i più feroci esecutori dei più grandi genocidi della storia. Rabbrividirebbero ancor di più se fosse vera l’affermazione di Pino Aprile contenuta nel suo bestseller “Carnefici” , secondo cui le stragi di meridionali della guerra garibaldina e del regio esercito in un solo anno, dal 1860 al 1861, ammonterebbero inverosimilmente a circa 400 mila vittime. Si tratterebbe, se la cifra corrispondesse al vero, di una orrenda carneficina superiore ai carnai della 1a e della 2a guerra mondiale, che costarono all’Italia per l’intera durata dei due conflitti rispettivamente 650 mila morti nella prima e, tra militari e civili, 472 mila caduti nella seconda. Al tempo della spedizione garibaldina, ossia dei fucili ad avancarica, le mitragliatrici, i bombardamenti aerei a tappeto e le camere a gas erano impensabili anche per le menti più fertili di immaginazione. Con questo non intendiamo giustificare gli ufficiali del regio esercito, che in quanto a protervia, cinismo e boria

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non erano secondi a nessuno, la cui efficienza fu, del resto, ampiamente dimostrata il 24 giugno 1866 nell’infausta battaglia di Custoza, ma i numeri indicati dai nostalgici della “Borbonia felix” sono numeri di fantasia, che non reggono il confronto con la realtà dei fatti. Le cifre della repressione indicate dai neoborbonici appaiono, tra l’altro, totalmente non veritiere se confrontate con i dati dei censimenti generali della popolazione del 1861 e del 1871. Se fossero state vere, nel 1871 si sarebbe dovuto registrare un forte calo della popolazione rispetto a 1861. Ma così non fu. Pur considerando le stime del tempo non totalmente precise, dai dati del secondo censimento emerge un incremento medio della popolazione nell’ex Regno delle Due Sicilie del 5,6% ABITANTI 1861 Basilicata 509.060 Campania 2.402.355 Molise 355.138 Abruzzo 858.524 Puglia 1.334.619 Calabria 1.154.810 Sicilia 2.408.321

AB. 1871 524.033 2.520.095 374.415 906.001 1.440.079 1.218.842 2.590.165

INCREMENTO % 2,3 4,9 5,4 5,5 7,9 5,5 7,5

(FONTE ISTAT – ELABORAZIONE TUTTITALIA.IT)

In contemporanea o all’indomani dell’arrivo di Garibaldi a Napoli e dopo la resa di Gaeta, in alcuni paesi delle province dell’entroterra appenninico, 92

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per esempio in Irpinia e nel Salernitano, si ebbero delle sommosse contadine di inaudita ferocia verso i possidenti locali, che causarono centinaia di morti. Erano rivolte che, se per un verso anticipavano il brigantaggio vero e proprio, dall’altro non vanno con esso confuse, perché rientravano nella plurisecolare tradizione delle jacqueries contadine, che, puntualmente, si manifestavano ad ogni segno di cambiamento politico. A smentire le iperboliche cifre delle vittime della repressione contribuisce, altresì, il fatto che nei comuni maggiormente interessasti dal brigantaggio non si ha memoria storica, né scritta né tramandata oralmente di generazione in generazione di eccidi e di stragi. Eppure si tratta di piccoli comuni in cui tutti si conoscono e tutti sanno tutto di tutti. Gli stessi fatti raccapriccianti ed esecrabili di Pontelandolfo e Casalduni sono stati recentemente molto ridimensionati da Davide Fernando Panella, autore del saggio “L’incendio di Pontelandolfo e Casalduni: 14 agosto 1861". Panella riporta nel suo volume l’elenco dei morti dovuti alla rappresaglia, mostrando come il Registro dei defunti della parrocchia Santissimo Salvatore di Pontelandolfo li enumeri ad uno ad uno, indicandone nome, cognome, genitori, età, causa della morte (ucciso in casa, ucciso per strada, morto per le fiamme ecc.). Pannella fornisce, così, un quadro esatto delle vittime della rappresaglia, riportandone tutte le generalità anagrafiche e il luogo di sepoltura. Nel totale, i morti furono 13, di cui 10 vennero

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intenzionalmente uccisi, mentre 3 morirono bruciati. Costoro erano persone anziane, che, presumibilmente, non erano riuscite a sfuggire alle fiamme. Fra i 13 morti, 11 erano uomini e 2 erano donne, rispettivamente di 94 e 18 anni. Non risultano adolescenti o bambini fra le vittime. Pino Aprile nel suo “Terroni”, afferma che una donna di Pontelandolfo, di nome Maria Izzo, per la sua bellezza sarebbe stata appetita dai bersaglieri, cosicché fu legata nuda ad un albero per essere violentata, prima d’essere uccisa con una baionettata nella pancia. L’archivio parrocchiale, redatto da testimoni oculari, riporta invece che Maria Izzo aveva 94 anni e che morì in maniera orrenda nell’incendio della propria abitazione. Panella poi confronta il totale di decessi avvenuti a Pontelandolfo nell’intero 1861 (furono 291) con quelli del 1860 (furono 142) e del 1862 (furono 171). L’ipotesi di questo ricercatore è che l’aumento della mortalità nel 1861 sia stato condizionato dall’incendio delle case e dalle sue conseguenze indirette, tanto che nei mesi d’agosto e di settembre del 1861, dopo la rappresaglia, si registrò una insolita crescita della frequenza dei trapassi. Egli però constata che, anche attribuendo all’incendio ed ai suoi effetti a posteriori tali decessi, si resterebbe comunque ben lontani dalle cifre che giornalisti di parte e storici viziati da ideologismo hanno diffuso. In merito al numero complessivo delle morti causate dalla repressione, di fronte alle cifre

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ballerine e inverosimili dei nostalgici neoborbonici (c’è chi parla di ventimila, chi di centomila e chi addirittura di centinaia di migliaia di vittime), in assenza di dati incontrovertibili, noi preferiamo attenerci alle cifre ufficiali, che Franco Molfese riporta nella già citata “Storia del brigantaggio dopo l’Unità”, precisando, però, che tali cifre dovrebbero essere riviste in incremento, dato che, di solito, quelle ufficiali non comprendono casi di morti parallele, cioè dovute a conseguenze indirette dell’azione militare. L’analisi di Molfese resta la più attendibile e paradigmatica. In base alle ricerche condotte su documenti d’archivio inediti, compilati dalle autorità militari e sulle relazioni a stampa del Ministero della Guerra e della Camera dei Deputati, è stato possibile al Molfese ricostruire un quadro, sufficientemente completo, dei dati inerenti alle perdite dei briganti: «fucilati e uccisi 5212; arrestati 5044; presentatesi 3597; con un totale di briganti posti fuori combattimento di 13853 unità». Come si nota, sono dati molto distanti da quelli indicati dai neoborbonici, ma ugualmente danno un quadro drammatico della repressione del brigantaggio. Il Molfese, nell’appendice terza del suo libro, pubblica anche un elenco delle bande brigantesche attive fra il 1861 e il 1870 e ne individua ben 388, dalle piccole, composte di pochi individui (515), fino alle grandi, che raggiunsero e superarono talvolta i 100 uomini, con punte fino a 300-400. Fra le grandi bande, Molfese

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cita quelle di Giovanni Piccioni, Giacomo Giorgi, Berardo Stramenga nell’Abruzzo Teramano ed Aquilano; di Pasquale Mancini e Salvatore Scenna, Domenico Valerio [Cannone] e Policarpo Romagnoli, Giovanni Di Sciascio, Domenico Saraceni (Pizzolungo) nell’Abruzzo Chietino; di Domenico Coja (Centrillo), Luigi Alonzi (Chiavone), Cedrone, Capoccia, Alessandro Pace, Francesco ed Evangelista Guerra, Domenico Fuoco, Luigi Andreozzi, Rafael Tristany nella Terra di Lavoro, Sorano e Stato Pontificio; di Nunzio di Paolo, Giuseppe Schiavone nel Molise, Sannio e Irpinia; di Cipriano e Giona La Gala e di Agostino Sacchitiello nell’Irpinia e Salernitano; di Carmine Donatelli (Crocco), Giuseppe Nicola Summa (Ninco-Nanco), Giovanni Fortunato (Coppa), Paolo Serravalle, Pasquale Cavalcante, Donato Tortora, Angelo Antonio Masini, Giuseppe Caruso in Basilicata; Michele Caruso, Angelo Maria Villani (lo Zambro) in Capitanata; Sergente Romano in Terra di Bari e Terra d’Otranto; Ferdinando Mittica in Calabria; Vincenzo Barone in Provincia di Napoli.

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VII. OLTRE IL BRIGANTAGGIO

1. LA RIVOLTA DI PALERMO DEL 1866 La Sicilia non fu toccata dal Brigantaggio, ma fu in Sicilia, a Palermo, che il 15 settembre 1866 scoppiò una violenta rivolta, detta “Rivolta del sette e mezzo”, perché durò sette giorni e mezzo. Una rivolta che vide una strana e innaturale alleanza tra filoborbonici, radicali mazziniani, picciotti che erano stati al seguito di Garibaldi, autonomisti e indipendentisti, componenti politiche queste ultime perennemente presenti nella storia dell’isola. Tra le numerose motivazioni della sommossa vi furono in primo piano quelle che traevano spunto dalla degradazione sociale ed economica locale, come non mancava di far rilevare la relazione del commissario straordinario del 24 settembre 1866 al Presidente del Consiglio. Non vanno, tuttavia, trascurate altre cause predisponenti, quali: la spocchia dei funzionari pubblici, per lo più settentrionali, che consideravano le popolazioni a loro affidate alla stregua di barbari o semibarbari, non ancora pervenute al loro livello di civiltà; lo scioglimento delle corporazioni religiose, che

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travolsero nella loro caduta migliaia di famiglie abituate a vivere a spese delle corporazioni medesime; il quasi inaridimento degli investimenti, causato dal ritiro dei capitali in circolazione e dalla mancanza di lavori pubblici, che aveva ridotto sul lastrico numerosissima gente che viveva del lavoro delle proprie braccia; il numero alto di renitenti alla leva; una troppa estesa applicazione della legge 17 maggio 1866, che prevedeva il domicilio coatto per facinorosi e vagabondi, per cui molte migliaia di cittadini, credendosi in pericolo di essere arrestati e confinati al domicilio coatto, avevano preferito costituirsi in bande armate; infine l’opera incessante della reazione borbonica. 2. IL BANDITISMO SARDO Ai suoi esordi il nuovo Stato italiano dovette far fronte non solo al brigantaggio propriamente detto nelle regioni meridionali dell’ex Regno delle Due Sicilie, ma anche al banditismo sardo che, già presente da secoli, ricevette nuovi impulsi dai provvedimenti del governo unitario. Il banditismo sardo fu un fenomeno molto diverso dal brigantaggio del Sud continentale. Infatti, mentre il brigantaggio si innestava sul filone delle rivolte contadine che, a partire dal Medioevo, avevano insanguinato le campagne europee con moti scomposti di ferocia anarcoide, senza realistici programmi di trasformazioni sociali, il banditismo

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sardo si legava, essenzialmente, alle strutture arcaiche di una società pastorale di pochi individui, che vivevano in solitudine tra le impervie montagne della Sardegna. Fu sostanzialmente una rivolta di piccoli gruppi e non un fenomeno di massa come il brigantaggio. Inoltre, mentre il brigantaggio conobbe un’eccezionale fioritura per l’abbondanza di mezzi provenienti dall’esterno, il banditismo sardo operò in condizioni difficili e, non costituendo una minaccia per il nuovo Stato italiano, poté prosperare come espressione di una confusa protesta sociale, sino alle soglie degli anni Settanta dell’Ottocento, per trasformarsi poi in un fenomeno di pura delinquenza, che persiste ancora oggi. Del banditismo rurale in Sardegna, pur essendo un fenomeno antico, si hanno scarse notizie fino al periodo della dominazione aragonesecatalana, che introdusse nell’isola profonde modificazioni strutturali e mutamenti nelle sue istituzioni politiche e sociali. Vennero meno, infatti, i quattro stati autonomi, detti anche giudicati, in cui sin dal IX secolo era divisa la Sardegna: Giudicato di Calari (o Cagliari), Giudicato di Torres (o Logudoro - Locu Torres), Giudicato di Gallura e Giudicato di Arborea. Aragonesi e Catalani introdussero, altresì, nell’isola il sistema feudale di stampo iberico. Le ripercussioni furono gravissime, in specie nelle campagne, dove il sistema feudale era stato fino ad allora estraneo alle consuetudini secolari degli isolani. In questo clima, aggravato dal precipitare delle condizioni economiche,

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crebbero tensioni e atteggiamenti di ribellione, che sfociarono spesso in aperte rivolte e alimentarono il fenomeno già presente del banditismo, il quale continuò ad imperversare, con particolare acutezza, anche dopo il 1720, quando i Savoia vennero in possesso dell’Isola. I nuovi governanti Sabaudi, oltre ad una dura repressione militare, applicarono anche metodi alternativi, che si basavano sulla persuasione tramite editti o “pregoni”, con i quali, ad esempio, introdussero regole generali sul possesso e la fabbricazione di armi da fuoco e istituirono dipartimenti territoriali controllati da pastori o altri individui, che avevano finanche il potere di arrestare ladri e malviventi. In conseguenza delle operazioni militari, degli arresti e delle condanne si determinò una concentrazione di banditi nella zona settentrionale dell’isola, perché vicina alla Corsica, ove poter, all’occorrenza, facilmente riparare. Anche le modificazioni apportate al sistema fondiario, tra la fine del XVIII secolo e i primi anni del XIX, ebbero un notevole impatto sulla criminalità rurale. Nel 1820 con “L’Editto delle Chiudende”, Vittorio Emanuele I introdusse nell’isola, in maniera definitiva, il vincolo della proprietà privata. Prendendo a modello le “enclosures” inglesi, autorizzò chiunque a chiudere liberamente qualsiasi terreno in suo possesso. Con tale atto, consentiva, la recinzione di terreni, che, per antica tradizione, erano considerati proprietà collettiva. La nuova normativa favorì i grandi proprietari, perché erano gli unici a disporre dei mezzi economici necessari 100

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per la recinzione delle terre. I pastori risultarono i più danneggiati, perché le recinzioni rappresentarono un ostacolo strutturale alla pastorizia brada e transumante. Le popolazioni dell’area interna si opposero alle chiusure con l’abbattimento dei recinti, le distruzioni delle coltivazioni e, persino, con l’uccisione di agricoltori. Nel 1865, mentre nel Sud continentale il brigantaggio si avviava al tramonto, il Governo italiano emanò per la Sardegna una legge che prevedeva il frazionamento e la privatizzazione dei “terreni ademprivi”, che fino a quel momento erano stati sfruttati in maniera collettiva per legnatico, macchiatico, ghiandatico, pascolo ed altri fini. Ancora una volta, come in altri casi simili e in altre parti del Paese, ad avvantaggiarsene furono i possidenti, che erano i soli a disporre dei capitali utili per la loro conduzione agricola. Questo fatto portò, tra l’altro, ad un’azione di disboscamento dell’Isola a vantaggio di imprenditori del continente, che utilizzavano il legname per la realizzazione delle reti ferroviarie italiane ed europee. Le popolazioni e le autorità sarde non condivisero tale legge. Il malcontento sfociò in violente manifestazioni popolari, raggiungendo il suo apice con i moti di Nuoro del 1868, ricordati con la dicitura dialettale “torramus a su connottu”, che significa “torniamo al conosciuto”, ossia allo status precedente all’editto. Il popolo, inferocito, dette alle fiamme il palazzo del municipio di Nuoro, rivendicando il ripristino

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del tradizionale sfruttamento comune dei terreni. Il bandito divenne, così, agli occhi della gente un giustiziere che combatteva i potenti e, come un novello Robin Hood, dava dignità a chi aveva poca voce nella Sardegna del tempo. Il banditismo sardo, così aureolato, grazie al sostegno di contadini e pastori poté prosperare per oltre un decennio. Poi perse l’aureola di difensore dei deboli, perché si inserì nel quadro più vasto e più preoccupante della delinquenza organizzata, nota, oggi, come “anonima sequestri”. 3. LA PROTESTA PER LA TASSA DELLA DISPERAZIONE Dopo la terza guerra d’indipendenza la politica finanziaria dello Stato unitario, pur avendo superato ostacoli notevolissimi, era ancora ben lontana dal conseguire un proprio assetto equilibrato. Le spese ordinarie erano quasi raddoppiate, quelle straordinarie continuavano a salire in modo inarrestabile. La guerra con l’Austria aveva comportato spese ingenti. Si fece ricorso, di conseguenza, a provvedimenti estremi, necessari per allontanare l’incombente minaccia della bancarotta dello Stato, quali: l’introduzione del corso forzoso, la liquidazione dell’asse ecclesiastico e, infine, l’applicazione di una nuova tassa, tra tutte la più odiosa, che fu definita la “tassa della disperazione”, ossia la tassa sul macinato. Il 21

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maggio 1868 fu approvata, infatti, la legge che istituiva, con decorrenza 1 gennaio 1869, un’imposta sul macinato di lire 2 per ogni quintale di grano, di lire 1 per ogni quintale di granoturco o segale, di lire 1,20 per quintale di avena e di lire 0,50 per quintale di legumi secchi o di castagne. Tutti capivano che la legge era di difficile applicazione. In un paese povero e ridotto allo stremo come era l’Italia, la sua attuazione poteva dare origine a gravi perturbamenti. Ma le necessità imperiose del bilancio e la debolezza organica della classe dirigente, che non seppe e non volle trovare vie alternative a svantaggio dei ceti più abbienti, fecero sì che il Governo italiano facesse approvare prima ed eseguire poi la più impopolare legge che mai sia stata emanata in Italia. Le ripercussioni furono immediate. Scoppiarono tumulti popolari che dall’Emilia, ove per prima si manifestarono, si estesero a tutta l’Italia, prevalentemente alla parte centro-settentrionale, per poi estendersi, sebbene non diffusamente, anche al Sud: a Bari, Potenza, Campobasso e Avellino. Per la prima volta dalle Alpi alla Sicilia il mondo contadino si mosse per le stesse rivendicazioni. A sobillare i contadini alla rivolta ci pensò il clero. Ancora recenti erano i provvedimenti di scioglimento degli ordini, delle corporazioni e delle congregazioni religiose. Ad appena un anno prima, nel 1867, risaliva la legge di liquidazione dei beni ecclesiastici. Mancò ai contadini in rivolta una conduzione unitaria dei moti, che avvennero in maniera disordinata, tant’è

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che alcuni gridavano “Viva il Papa”, altri nel milanese “Viva il governo austriaco”, altri ancora, come a Reggello “Viva le leggi antiche”. Qualche storico ha voluto attribuire a questi moti il significato di lotta di classe, ma così non è stato, perché a sollecitare i rivoltosi non fu un’ideologia, ma solo e soltanto l’obbrobriosità di una legge che andava a colpire i bisogni più elementari della loro esistenza. Agli inizi del 1869 i moti declinarono per forza propria e per la repressione della truppa e dei carabinieri, che fu dura: lasciò sul campo 257 vittime e 1099 feriti. Gli arrestati furono 3788. I grandi assenti in queste rivolte furono i repubblicani, se escludiamo la banda dei fratelli Manini, costituita da non più di 50-60 componenti, che fu l’unico caso di saldatura tra democratici mazziniani e contadini. Mazzini, forse spaventato dalla furia popolare, aveva preso le distanze da quelle rivendicazioni, quando forse poteva essere il momento opportuno per attuare la sospirata rivoluzione in senso repubblicano attraverso un moto di popolo.

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VIII. I PRIMI PASSI DELLO STATO ITALIANO

1. L’ECONOMIA DOPO L’UNITÀ All’indomani della proclamazione del Regno d’Italia, il Paese si trovava in condizioni di estrema arretratezza. In politica estera il primo obiettivo che la classe dirigente perseguiva era il riconoscimento delle potenze europee, che tardava ad arrivare ed era ineludibile per le annessioni di Venezia e Roma. All’interno, invece, gli sforzi erano diretti principalmente alla creazione delle nuove istituzioni, alla formazione di un mercato unico nazionale, alla creazione delle infrastrutture utili per lo sviluppo e all’introduzione di una moneta unica, cose non facili da realizzare, tant’è che solo verso la fine dell’Ottocento l’economia italiana iniziò un processo di convergenza verso le economie dei paesi più progrediti. Alcuni esempi sono sufficienti a descrivere la povertà assoluta del nuovo Regno. Secondo i dati riportati da GIANNI TONIOLO nel saggio La crescita economica italiana dal 1861 al 2011, il prodotto interno lordo pro capite (PIL) non si discostava molto dalla media attuale dei quarantadue stati africani più ricchi.

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L’aspettativa di vita alla nascita era di circa trent’anni. Quasi un bambino su tre non compiva un anno. Quattro italiani su cinque erano analfabeti e vi era una grande disparità nella distribuzione del reddito. I consumi calorici del 30% degli italiani non raggiungevano le 2.000 calorie al giorno. Il che significa che versavano in uno stato di denutrizione cronica. Circa il 40% della popolazione viveva in condizioni di povertà assoluta, cioè con un reddito sufficiente appena ad acquistare i beni essenziali alla vita, che raffrontato al potere di acquisto dei nostri giorni è pari a circa 1,5 euro al giorno a persona. Al tempo dell’unificazione, il reddito pro capite, a parità di potere d’acquisto, era più o meno la metà di quello della Gran Bretagna, allora al vertice della produttività, e circa i due terzi di quello della Francia. La composizione dell’occupazione era tipica di un’economia arretrata: la forza lavoro equivalente a tempo pieno in agricoltura era pari al 63,2% del totale, seguivano il settore dei servizi (19,1%) e quello dell’industria (17,7%). Poche erano, inoltre, le infrastrutture rispetto alle aree più avanzate d’Europa. Nel 1861 erano in funzione solo 2.404 chilometri di ferrovie, quasi interamente situate nella valle del Po, contro i 14.603 chilometri della Gran Bretagna e gli 11.603 della non ancora unificata Germania. Sono dati, questi, che dimostrano l’arretratezza dell’Italia rispetto alle economie più avanzate europee, non solo del Sud, ma del Paese nella sua totalità. L’emancipazione

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da questa umiliante condizione di arretratezza fu un’impresa quanto mai difficile, che comportò costi ingenti e riuscì a colmare solo in parte le distanze che ci separavano da paesi dell’Occidente europeo. Né poteva essere diversamente. Non solo perché è impensabile, pur nei casi più favorevoli, un processo di sviluppo privo di forzature e squilibri, che si svolga in modo del tutto armonico e omogeneo, ma anche perché l’Italia dovette allora misurarsi da una parte con difficoltà derivanti dall’agguerrita concorrenza di imprese straniere sul mercato nazionale e su quello internazionale, dall’altra con oggettive e pesanti difficoltà interne di ordine strutturale: dalla povertà naturale di estese zone della Penisola alla miseria cronica di intere popolazioni, dalla carenza di materie prime e di fonti energetiche alla scarsità, specie nel Mezzogiorno, di infrastrutture necessarie allo sviluppo e all’insufficienza di capitali disponibili per gli investimenti. La tesi sostenuta da alcuni storici di un divario inizialmente piuttosto contenuto fra il reddito dell’area nord-occidentale e quella meridionale del Paese non è coerente, sia con i dati relativi alle produzioni industriali e agricole, che abbiamo riportato in precedenza, sia con alcuni indicatori di benessere, generalmente associati piuttosto strettamente al PIL pro capite. Nell’ex Regno delle Due Sicilie, per esempio, solo il 15% della popolazione sopra i quindici anni sapeva leggere e scrivere, contro il 47,9% del NordOvest.

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Da un punto di vista economico, l’unificazione politica italiana avvenne in un momento in cui si erano intensificati gli scambi commerciali tra paesi anche lontani, grazie a una progressiva tendenza verso il libero scambio e all’innovazione tecnologica nei trasporti e nelle comunicazioni. Ciò avrebbe dovuto favorire il commercio, l’afflusso di capitali, la mobilità dei lavoratori e la diffusione delle tecnologie. Ma così non fu, per circa trentacinque anni il Regno d’Italia non beneficiò di un’accelerazione sostenuta della crescita. Eppure, l’interesse per l’economia, anche se non fu il principale motore ideologico e politico del Risorgimento, era presente nelle menti dei patrioti. Infatti, negli anni Quaranta dell’Ottocento era stata proposta un’unione doganale forgiata sul modello dello Zollverein tedesco, ritenendo il protezionismo, applicato in particolare nelle due Sicilie, una scelta poco saggia per paesi relativamente piccoli in un momento di rapida integrazione delle economie dell’Europa occidentale. Negli anni Cinquanta dell’Ottocento, in Piemonte, il libero scambio, associato a un programma di investimenti pubblici, aveva dimostrato come politiche di questo tipo potessero portare a un’accelerazione della crescita. Per i liberali, l’unificazione politica, comportando la formazione di un mercato unico nazionale, avrebbe dovuto favorire lo sviluppo economico, che sarebbe stato incentivato, altresì, dall’adozione dei nuovi codici civile e di diritto

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commerciale, dalla formazione di una moderna burocrazia, dalla diffusione dell’istruzione elementare obbligatoria, dall’accresciuta libertà d’impresa, dalla creazione di una moneta unica, dall’omogeneità dei pesi e delle misure, dalla tassazione uniforme, da una tariffa doganale unica e così via. Purtroppo i risultati furono inferiori alle attese. Perché? Parte della risposta è nell’ordine stesso delle cose. L’unificazione politica, in quanto tale, era solo una precondizione all’unificazione dei mercati, la cui effettiva attuazione richiese tempo. Come richiese tempo la riduzione del costo dei trasporti, perché essa dipendeva dalla costruzione di ferrovie, strade e porti. L’Italia contrariamente alla Francia e alla Germania e agli altri paesi dell’Europa nord-occidentale, ha un’orografia difficile ed estesa, che rese l’impresa lunga e costosa. Ciononostante, il nuovo Regno fu, comunque, relativamente efficiente nel collegare i principali centri urbani attraverso la rete ferroviaria. Se nel 1861 il punto più a Sud sul versante adriatico raggiunto dai treni era Ancona e sul versante tirrenico non c’era alcun collegamento a Sud di Genova, già nella metà del 1864 si poteva arrivare in treno fino a Brindisi. Nel 1870 era possibile raggiungere Napoli da Milano e Torino e attraversare la penisola da Roma ad Ancona e da Napoli a Bari.

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L’integrazione dei mercati finanziari, misurata dai differenziali dei prezzi dei titoli nelle borse regionali, ebbe luogo solo nei primi anni Ottanta dell’Ottocento e solo allora, dopo la realizzazione di buona parte delle infrastrutture e dopo la fondazione delle istituzioni del mercato, cominciarono ad essere tangibili i vantaggi del mercato unico. 2. PRIMI INTERVENTI PER UN POPOLO DI ANALFABETI Anche nel campo dell’istruzione, i governi unitari, alle prese con altre impellenze, procedettero con lentezza nell’avviare iniziative di concreta e diffusa lotta all’analfabetismo. Nel 1861, anno dell’unificazione nazionale, la scuola italiana si trovava in una drammatica situazione, dovendo fronteggiare un diffuso analfabetismo. Infatti, su ventidue milioni di Italiani ben diciassette milioni erano analfabeti. Su 100 cittadini 78 non sapevano né leggere né scrivere. Certo il quadro era diverso da regione a regione e il divario tra Nord e Sud, anche nel caso della scuola, era sensibile. Nel Piemonte sabaudo gli analfabeti erano 57 persone su 100, in Lombardia 59, in Toscana 77. Il record negativo spettava alla Sardegna e alla Basilicata con il 91% di analfabeti. In totale i bambini italiani che frequentavano le scuole elementari (esclusi quelli del Veneto, che

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resterà sotto l’Austria fino al 1866) erano un milione e ottomila, di cui 579.000 maschi e 429.000 donne. Queste scomparivano quasi del tutto nelle scuole superiori. Solo 6 Italiani su 10.000 frequentavano le scuole secondarie e solo 3 su 10.000 andavano all’università. Ben diversa era la situazione nel resto d’Europa e in America del Nord. In Germania, Svizzera e Stati Uniti gli analfabeti costituivano il 20% circa della popolazione, il 31% in Inghilterra e il 47% in Francia. Nel 1861, la scuola italiana era, in sostanza, appannaggio delle classi sociali più agiate e due terzi degli insegnanti erano preti e frati. Gran parte delle scuole era, infatti, in mano alla Chiesa, che da secoli, in molte regioni, gestiva, pressoché in esclusiva, l’istruzione. Eppure, nonostante tale desolante panorama, i politici, che stavano prendendo in mano le redini dell’Italia unita, vollero affidare alla scuola il ruolo fondamentale di unificare la coscienza degli italiani. La missione costituiva una vera utopia. Un’istituzione carente, retriva, disorganizzata e bisognosa, essa per prima, di investimenti e risorse difficilmente avrebbe potuto assolvere la funzione di formare la coscienza nazionale. Del resto, voci autorevoli denunciavano l’esistenza di problemi assai più a monte e assai più impellenti. In tal senso Pasquale Villari così scriveva: «Che volete che faccia dell’alfabeto colui al quale manca l’aria e la luce, che vive nell’umido,

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nel fetore, che deve tenere la moglie e le figlie nella pubblica strada tutto il giorno? Se gli date l’istruzione, se gli spezzate il pane della scienza, come oggi si dice, risponderà come ho inteso io: “lasciatemi la mia ignoranza, poiché mi lasciate la mia miseria”». Non pochi, infine, temevano che la scuola, se allargata indiscriminatamente a tutti, comprese le classi subalterne, non potesse che fatalmente trascinare con sé germi di futuri scontenti e ribellioni. Con la proclamazione del Regno d’Italia, fu estesa a tutto il territorio nazionale la legislazione vigente nel Regno di Sardegna. In campo scolastico fu applicata ovunque la legge Casati, dal nome del ministro dell’istruzione Gabrio Casati, che l’aveva predisposta. Questa legge era stata promulgata nel 1859 ed era composta di ben 380 articoli. Essa rompeva il monopolio ecclesiastico dell’istruzione e rendeva obbligatoria e gratuita l’istruzione elementare per un biennio, delegando, però, le competenze ai comuni. Ne conseguiva che l’obbligo scolastico veniva applicato solo in quei comuni che avevano possibilità finanziarie per farlo. Cosicché al Centro e al Sud, cioè nelle zone d’Italia più povere, questa nuova regolamentazione influì poco o nulla sull’istruzione delle masse. Più importante fu invece la sua influenza nelle scuole secondarie superiori e nell’organizzazione dell’insegnamento universitario. La legge, inoltre, non poteva non suscitare diffidenze e riserve nel mondo cattolico, perché, laicizzando la scuola,

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finiva per intaccare il tradizionale monopolio della Chiesa nel campo dell’istruzione. Relativamente alle scuole di istruzione superiore, il suo asse portante era il ginnasio-liceo, mentre marginalizzava l’istruzione tecnica e il suo adeguamento ai nuovi ritmi di produzione. In altre parole, la Legge Casati trascurava un aspetto che già, allora, stava assumendo un carattere sostanziale nel campo dell’istruzione, cioè il collegamento tra il mondo della scuola e quello del lavoro, ancora oggi un nodo difficile da saldare. Lo sperimentarono, da subito, legislatori e pedagogisti in un’alternanza di progetti, ipotesi e sperimentazioni. Qualcosa, però, pur tra la diversità delle opinioni, si fece. Fu introdotto, fra i programmi, il lavoro manuale e la ginnastica. Considerati i tempi, non erano innovazioni di poco conto; anzi, apparivano rivoluzionarie. L’esempio giungeva dall’estero, specie dalle scuole tedesche. Il principio pedagogico, come scrive DINA BERTONI JOVINE, era di «porre in primo piano la cura delle energie fisiche dell’alunno, la formazione di abitudini alla solerzia, come mezzi per vincere la poltroneria e quel senso di apatica rassegnazione alle cose che era il vizio morale più grave della popolazione». E fu tutto un fiorire di manifestazioni pubbliche. Saggi ginnici, feste ginniche per i maschietti, esercitazioni ritmiche e danze per le ragazze. Dopo la ginnastica giunse un nuovo metodo a solle-vare entusiasmi, dibattiti, contrasti: il “gioco”

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o meglio il “gioco-lavoro”. Anche in questo caso si trattava di un metodo importato dall’estero, più precisamente dalla scuola del pedago-gista tedesco Friedrich Fròbel. Il gioco–lavoro, per Fròbel, era qualcosa di più di un semplice metodo didattico. Era un principio mistico-spirituale, secondo il quale l’istruzione era considerata come un processo formativo della personalità dell’alunno, attraverso il quale il ragazzo acquisiva conoscenza del divino che si realizzava nell’universo e s’identificava con esso. Il collegamento gioco-lavoro-cultura pareva destinato a trovare la sua soluzione più spontanea nelle scuole rurali, là dove già il mondo del lavoro era parte integrante dell’attività degli scolari. Nacquero, così, i “campicelli scolastici”, che nelle intenzioni del legislatore avrebbero dovuto avviare un rinnovamento dell’attività agricola con l’insegnamento e l’adozione di tecniche e teorie moderne. Già, ma i maestri non possedevano le necessarie competenze per poterle insegnare. Cosicché anche i “campicelli scolastici” finirono presto nel limbo delle buone intenzioni, relegati a orari e interessi sempre più marginali e riempitivi L’aggancio tra scuola e mondo del lavoro non si riuscì a trovarlo neppure con la scuola tecnica. Si provava ora ad aggiungere ora a togliere qualche materia, a ispirarsi ora a questa ora a quella nazione europea, a trasferire le responsabilità da un ministero all’altro (dalla P.I. all’Agricoltura e poi all’Industria e Commercio), ma proprio non si

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decollava. «Nella nostra scuola tecnica», commentò amareggiato alla camera QUINTINO SELLA, «di tecnico non c’è assolutamente nulla». E il pedagogista ARISTIDE GABELLI, più demolitore ancora, rincarava: «Le scuole tecniche in Italia sono sorte sotto l’influenza di una stella comica». Ma di comico c’era poco: classi superaffollate (con punte di 70-80 al-lievi), insegnanti che si sentivano (e in parte lo erano) declassati nei confronti dei colleghi dei ginnasi, ambiguità dei programmi, a loro volta rivaleggianti con quelli delle scuole a indirizzo classico. In altre parole, insegnanti e allievi non volevano sentirsi di categoria B nei confronti delle “classi privilegiate”. Soprattutto le famiglie degli allievi non intendevano che i figli dovessero essere fatalmente destinati a rimanere entro l’ambito di determinate fasce sociali. L’ordinamento scolastico della legge Casati, invece, aveva previsto, nei fatti, una collocazione per ogni ordine sociale attraverso i tre tipi di scuola: per la borghesia il liceo e l’università, per i figli “degli artieri e piccoli commercianti” la scuola tecnica, per il popolo le scuole elementari con le discrezionali appendici di scuole domenicali, di arti e mestieri. Un filo esile, ma esistente, collegava, tuttavia, i tre ordinamenti, consentendo, quantomeno teoricamente, la possibilità di circolazione fra i diversi ceti sociali. Ed era a quel filo che si attaccava tenacemente l’ambizione degli artigiani e dei piccoli

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commercianti, ansiosi di far compiere ai loro figli un salto di classe sociale Nel 1870 l’ala pedagogica più progressista fece la proposta di annullare il divario fra liceo e scuola tecnica. Il ministro Cesare Correnti presentò alla camera un progetto che prevedeva la fusione fra i due tipi di scuola. Ma la riforma Coppino nel 1879 ignorerà tali istanze rifiutando ogni progetto di unificazione, nell’assunto che «anche il senso comune dice utopia il voler obbligare tutti allo stesso sistema di educazione e poterla dare a tutti nel medesimo grado». Nel 1871, dieci anni dopo l’Unita d’Italia e ad un anno dall’ingresso dei bersaglieri a Roma, il quadro non era granché mutato. La piaga dell’analfabetismo restava ancora gravissima, anche se, in percentuale, gli analfabeti costituivano non più il 78 ma il 73 per cento della popolazione italiana. In Piemonte il tasso di analfabetismo era sceso al 50 per cento, in Lombardia al 52,8, in Liguria al 62,2 e in Veneto al 69,9 per cento, ma in Basilicata era ancora dell’89,9 %. Nel complesso, il problema scuola era ancora di una gravità enorme. Ed era sempre e innanzitutto un problema politico. Per attenuarne i mali erano necessari maggiori stanziamenti. Invece, all’epoca, le spese per l’istruzione pubblica erano pressoché insignificanti. Occupavano il settimo posto nelle spese dei vari dicasteri e venivano di gran lunga (con uno stanziamento globale di appena 16 milioni di lire) dopo quello delle finanze (391 milioni), della guerra (250 milioni), dei lavori pubblici (95 milioni), 116

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della marina (78 milioni), degli interni (71) e di grazia e giustizia (31). Un rapporto di spesa che rimarrà invariato per più di un decennio. 3. L’EREDITÀ DELLA DESTRA STORICA L’eredità più significativa trasmessa dalla Destra storica fu, senza dubbio, l’Italia, ossia il nuovo Stato nato dalle ceneri dei vecchi Stati preunitari, considerata fino ad allora, nel contesto delle potenze europee, una mera “espressione geografica”. Ma l’Italia unificata dalle armi dei franco-piemontesi e dai volontari garibaldini in pratica era un paese unificato soltanto politicamente. Occorreva comporre le tante diversità, che si erano specificate nel corso dei secoli e che costituivano un ostacolo molto serio e gravido di conseguenze per la costruzione del nuovo assetto politico e amministrativo dello Stato, che tale fosse dalle Alpi al Lilibeo. Certo, fu un compito immane che la Destra volle assumere e seppe portare a compimento, anche se le misure adottate in quest’opera, per molti versi titanica, non furono di ampie visioni strategiche. Infatti, il nuovo Stato nacque come estensione del Regno Sardo, invece di sintesi e composizione di realtà geopolitiche storicamente diverse e, in taluni casi, socialmente divaricanti. L’Italia unita nacque reggendosi su un patto tra i liberali del Risorgimento, fedeli al progetto Cavour, e le classi dominanti dei vecchi Stati preunitari, che, senza 117

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eccessivi compromessi con il loro passato riconobbero la monarchia dei Savoia e lo Stato italiano. Fu così che i ceti dominanti, vecchi e nuovi, si trovarono uniti nel proteggere i propri interessi di gruppo, rigettando le istanze che miravano a realizzare uno Stato di diritto, che comprendesse, come ineludibili, le esigenze e le aspirazioni delle classi popolari. Frutto di tale patto fu anche la convergenza di intenti e di interessi tra la parassitaria borghesia terriera del Sud e quella imprenditoriale del Nord, come più tardi evidenzieranno Salvemini e altri grandi meridionalisti. Una convergenza che, difendendo lo status quo sociale, finiva con l’aggravare il divario tra Sud e Nord. Se per un verso la “Destra storica” ebbe, quindi, il merito di impiantare e consolidare l’assetto politico–amministrativo di uno Stato, che per popolazione ed estensione era tra i più grandi d’Europa, dall’altro dimostrò chiusure, rigidezze e i limiti dottrinali dell’educazione dei ceti da cui proveniva; ossia un forte senso dello Stato, ma un debole senso della società civile e delle sue esigenze. Le popolazioni del Sud nel 1861, tranne poche élite, non avevano il senso dello Stato, né lo Stato seppe e volle raccogliere e organizzare i bisogni e le istanze dei Meridionali, costretti da secoli di dominazioni straniere a rinchiudersi nel proprio individualismo. Le conquiste che si erano succedute nel coso dei secoli non avevano, infatti, favorito e

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promosso una coscienza comune di appartenenza ad uno Stato, tant’è che ancora oggi, nonostante che l’Italia faccia parte del gruppo dei sette paesi più avanzati al mondo, sembra che, su tale problema, la strada da percorrere sia ancora molto lunga. Lo sviluppo economico e la prosperità degli anni del “boom”, pur garantendo al Sud uno sviluppo mai registrato in precedenza, paradossalmente, hanno accentuato le differenze politiche e culturali fra Nord e Sud. Per di più, l’accresciuta ricchezza ha generato corruzione al Nord, non a caso tangentopoli è nata a Milano, e al Sud ha perpetuato e in alcuni casi esasperato il fenomeno della criminalità organizzata. Non è un caso che, spesso, in occasione di arresti di mafiosi e camorristi gli abitanti di quel quartiere protestano contro le forze dell’ordine. E la risposta dei Meridionali non compromessi con la criminalità organizzata altra non è stata che sventolare lenzuola bianche e attribuire soltanto allo Stato, in tutte le sue articolazioni, la responsabilità dei propri mali. Probabilmente, nel 1861, una diversa scelta di forma Stato, più rispettosa delle diversità territoriali, come prevedeva lo stesso progetto di Marco Minghetti sull’autonomia dei governi locali, che non fu mai approvato, avrebbe favorito l’integrazione economica, sociale e culturale tra le diverse parti del Paese. In tal modo, quasi certamente, si sarebbe ridotto notevolmente anche lo spazio vitale per la criminalità organizzata.

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INDICE PREMESSA

pag. 7

DELL’AUTORE

INTRODUZIONE Sguardo d’assieme del dopo-unità

pag.13

I. NORD E SUD PRIMA DELL’UNITÀ Esisteva un divario iniziale? L’economia meridionale La borghesia meridionale La leadership del Piemonte

pag. 19 pag. 24 pag. 31 pag. 34

II. LUCI E OMBRE DELL’UNIFICAZIONE L’incomprensione dei vincitori La confisca dei beni ecclesiastici Primi segni di progresso

pag. 41 pag. 48 pag. 49

III. LA PROTESTA VIOLENTA Il brigantaggio fenomeno endemico Il brigantaggio post-unitario, cos’è stato I manutengoli dei briganti

pag. 52 pag. 55 pag. 59

IV. CAUSE E SVILUPPO DEL BRIGANTAGGIO Le condizioni sociali ed economiche Scioglimento dell’esercito borbonico Il congedo dei volontari garibaldini La leva obbligatoria L’azione dei comitati borbonici Le ingerenze internazionali L’azione del clero

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V. L’AVVENTURA DEI LEGITTIMISTI EUROPEI José Borjes pag. 78 Rafael Tristany pag. 82 VI. LA REPRESSIONE Meridionali contro meridionali La fine del brigantaggio I numeri della repressione

pag. 84 pag. 87 pag. 90

VII. OLTRE IL BRIGANTAGGIO La rivolta di Palermo Il banditismo sardo La protesta per la tassa della disperazione

pag. 97 pag. 98 pag.102

VIII. I PRIMI PASSI DELLO STATO ITALIANO L’economia dopo l’Unità Primi interventi per un popolo di analfabeti L’eredità della Destra storica

pag.105 pag.110 pag.117

FONTI

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BIBLIOGRAFIA WEB

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DIARI

I Edizione: 2018 Copyright © 2018 A.B.E.

IL FINE DEL VOLUME

IV.

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FINITO

DI

COMPORRE E DI STAMPARE DICEMBRE 2018

NEL MESE DI

PER CONTO DI AB E

ARTURO BASCETTA EDIZIONI VIA MANCINI, 52 - 83100 AVELLINO INFO WHATSAPP: 393.333.9838 bascetta@katamail.com

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