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(Domi mansit, domum servavit, lanam fecit)
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Michele Ceres, nato a Caposele (AV), è stato docente di materie letterarie presso gli Istituti di istruzione secondaria superiore, più volte amministratore comunale e di altri enti. Attualmente scrive su alcuni periodici e quotidiani locali. Ha iniziato la sua attività di storico con ricerche sulla storia dei partiti politici, in particolare del movimento cattolico. È stato coautore del libro “Il Sud, un problema aperto” ed ha vinto il primo premio ex aequo del XLIII Concorso letterario della rivista “Sìlarus”con il saggio “L’Unità d’Italia e i pregiudizi antimeridionali”.
LA DONNA NELLA STORIA
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La storia è stata scritta prevalentemente dagli uomini che, almeno fino agli anni Trenta del XX secolo, hanno sistematicamente ignorato il contributo dato dalle donne al progresso dell’umanità. I criteri e i valori che gli storici hanno posto alla base della ricostruzione del passato non sono stati riferiti, infatti, al mondo femminile, che è vissuto, per gran parte del tempo della storia, ai margini o addirittura al di fuori dei valori e dei criteri che ne hanno caratterizzato la ricerca, ancorché le donne avessero partecipato ad intrecciare, nell’anonimato delle attività quotidiane, la trama fitta e resistente della cultura, che ha consentito all’umanità di progredire.
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MICHELE CERES
LA DONNA NELLA STORIA
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(Domi mansit, domum servavit, lanam fecit)
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Alle donne che, ancora oggi, soffrono i disagi di culture emarginanti e discriminanti
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Prefazione Michele Ceres regala ai possibili lettori un racconto di stu-
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pendo e singolare fascino.
Ricostruisce, in un aureo “libretto”, la vicenda dell’altra metà
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del cielo, ossia della figura femminile nella storia dell’Occidente. Lo fa con lucentezza impressionante e con uno stile davvero ammirevole. L’Autore procede attraverso un duplice registro di let-
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tura e un corrispondente duplice dispositivo narrativo: quello della ricostruzione storica e quello della galleria di ritratti capaci di rendere onore al genere di appartenenza femminile e, per con-
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seguenza, all’umanità intera, che in qualche modo ne esce potenziata nell’immagine e nell’assunzione di una ragione sacrificale che garantisce la prosecuzione della vita umana.
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Michele Ceres è un professore della scuola secondaria, ma è anche una figura di intellettuale polivalente, in grado di cogliere lucidamente la complessità del contesto storico in cui la questione
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femminile si è posta a partire dalla modernità. Condizione umana, quella della donna, a lungo negata attraverso i secoli
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(quelli pre-moderni antecedenti alla scoperta della figura universale della persona e dell’umanità intesa come coniugazione di li-
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bertà e uguaglianza), essa emerge nella pienezza della modernità
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e ne contrassegna l’anima profonda. Il libro di Ceres fornisce ai lettori anche squarci inediti sulle
vicende, tragiche e tormentose, della lenta, progressiva liberazione femminile. Ad esempio, mostra come alcune stereotipie, nel rappresentare la condizione femminile nel Medioevo, siano in contrasto con le risultanze storiche, le quali vedono nei secoli suc-5
cessivi l’avvento catastrofico di vere e proprie regressioni (basti pensare alla tragedia della caccia alle streghe). L’altro registro (quello dei ritratti di donne celebri) è, an-
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ch’esso, un approccio di sicura e originale fascinazione. Mostra il sacrificio delle donne italiane e di tante altre donne in altri paesi
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per la conquista non solo della loro sacrosanta parità in quanto persone a pieno titolo, ma anche della loro centralità in vicende storiche e in eventi di enorme portata (dalle figure femminili in-
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signi del Risorgimento italiano a quelle della Repubblica partenopea, alle donne della Rivoluzione francese a quelle della Resistenza in Italia e in Europa). Michele Ceres mostra acuta-
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mente anche alcune storture di linee storiografiche che sovrappongono vettori progressisti a dispetto dei fatti: ad esempio, fa vedere come la Rivoluzione francese non mette nelle mani delle donne risorse che possano essere riconosciute quali forme di cit-
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tadinanza politica compiuta.
Il libro è bello. Scritto con stile impeccabile. È aperto anche a una pedagogia umanistica e civile importante. È un libro che
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rende omaggio a più di metà dell’umanità, che oggi emerge sotto
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il cielo in tutta la sua bellezza intelligente. Oggi, specie nei paesi avanzati dell’Occidente, c’è sicuramente
una compatta umanizzazione e realizzazione della condizione
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femminile in molteplici campi (ad esempio, in Italia ci sono più
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laureate che laureati). Resta un gap da colmare in campo imprenditoriale e, soprat-
tutto, politico; sono settori in cui si registra una vera e propria insufficienza di rappresentanza democratica e istituzionale. Le nostre sorelle più giovani e le nostre figlie, comunque, ce la -6
faranno. E non solo perché noi tutti (genere umano maschile) siamo comunque i loro figli. Michele Ceres va letto, quindi, per questo libretto aureo anche
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nella scuola italiana. Lo dico da pedagogista. La sua è pedagogia
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umanistica e civile di grande nobiltà. Ed è la nobiltà dello spirito. Giuseppe Acone
(Professore ordinario di Pedagogia generale dell’Università di Salerno
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Direttore del Dipartimento di Scienze dell’Educazione)
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Presentazione Quando la donna ha preso coscienza della inviolabilità dei
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propri diritti? Quando sono cominciate a cadere le incompren-
sioni e gli ostacoli al suo riconoscimento di soggetto pensante alla
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pari dell’uomo? In che misura le donne hanno contribuito allo sviluppo dell’umanità? Michele Ceres risponde a questi interrogativi su una materia complessa con padronanza linguistica e sti-
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listica che ha il suo esito più felice in una scrittura, limpida, essenziale, senza stridori.
L’analisi del ruolo della donna nella società delle diverse epo-
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che storiche, dall’età del fuoco ai giorni nostri, che spazia nel più ampio panorama intercontinentale, senza essere ancorata soltanto nei confini della patria di appartenenza, obbedisce ad una logica
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narrativa rigorosa che si sviluppa organicamente senza imporre a chi legge acrobazie fastidiose di tempi e di luoghi. I personaggi noti e meno noti risultano connotati concreta-
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mente, non prettamente dal punto di vista etico ma da quello storico – sociologico, e catalogati in una inedita galleria di ritratti
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quali pedine di una tremenda partita umana che giocano sulla scacchiera della storia.
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Una storia fatta non più da grandi protagonisti, bensì da
inermi creature che hanno spinto ad agire per combattere, ancora
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nel presente, le ingiustizie perpetuate attraverso i secoli. Le eroine di ogni tempo, con le loro passioni, le proprie speranze e il proprio dramma, costituiscono il tema delle “Donne nella storia”. La casta Lucrezia, l’eroica Clelia, Caterina Sforza, Lucrezia Corner, Arcangela Tarabotti, Emilj Dickinson, George Sand, Camille Clau-9
del, Eleonora De Fonseca Pimentel, Anita Garibaldi, Cristina Di Belgioioso, Anna Maria Mozzoni, Anna Kuliscioff, solo per citarne alcune, nonché le varie donne martiri della Resistenza e le
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parlamentari della Costituente, come Nilde Jotti, sono figure talvolta rapidamente schizzate, altre volte particolarmente tratteg-
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giate che si ritrovano nell’unico alveo del tempo.
E, forse, è proprio il tempo il vero motivo conduttore del prezioso lavoro di sintesi di Michele Ceres, sorretto da una profon-
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dità di pensiero e da una ricerca ad ampio respiro. Parlare di donne e di relative rivendicazioni sociali, gridate da tempi immemori, non è cosa facile. L’autore è riuscito egregiamente nel
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suo intento.
Seguendo l’evoluzione storica di un tema poco trattato, è giunto a suggerire anche ipotesi di politiche sociali e soluzioni ai conflitti tra i ruoli che continuano, ancora oggi, a mantenere asim-
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metrie di potere nella famiglia, nel lavoro e nella politica. Il lavoro di Ceres scuote la coscienze e rende consapevoli dell’inefficienza delle politiche di pari opportunità soprattutto nel
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Mezzogiorno d’Italia, dove si avverte di più l’ansia di cambiare,
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di rivendicare la propria dignità, dove purtroppo le speranze per concretizzarsi hanno ancora bisogno delle decisioni degli uomini, dove mancano urgenti misure che siano forze trainanti dello svi-
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luppo territoriale, dove, ancor più, le donne esprimono l’anelito
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di vincere le tenebre che accecano la ragione ed iscuriscono il cuore.
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Dora Garofalo Preside
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NOTE INTRODUTTIVE
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Quando la donna ha preso coscienza dell’inviolabilità dei propri diritti? Quando sono incominciate a cadere le incomprensioni e gli ostacoli al suo riconoscimento di soggetto pensante alla pari
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dell’uomo? In che misura le donne hanno contribuito allo sviluppo dell’umanità?
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Rispondere a queste domande significa delineare il percorso
storico delle lotte che le donne hanno sostenuto, dei sacrifici, delle umiliazioni e dei patimenti che hanno vissuto per affermare la
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propria diversità, ossia l’essenza stessa di essere donna.
La storia è stata scritta prevalentemente dagli uomini che, almeno fino agli anni Trenta del XX secolo, hanno sistematicamente
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ignorato il contributo dato dalle donne al progresso dell’umanità. I criteri e i valori che gli storici hanno posto alla base della ricostruzione del passato non sono stati riferiti, infatti, al mondo femminile, che è vissuto, per gran parte del tempo della storia, ai
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margini o addirittura al di fuori dei valori e dei criteri che ne hanno caratterizzato la ricerca, ancorché le donne avessero partecipato ad intrecciare, nell’anonimato delle attività quotidiane,
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la trama fitta e resistente della cultura, che ha consentito al-
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l’umanità di progredire. Il quotidiano, non essendo percepito dagli storici come un valore, non è stato, quindi, oggetto di analisi e di riflessione.
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Il ruolo più importante che alle donne spettava era quello di
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assicurare la riproduzione biologica. Per il resto sembrava, semplicemente, che non esistessero. Anche quei pochi studiosi, che, in qualche modo, hanno di-
mostrato una certa apertura mentale verso il genere femminile, come per esempio Jules Michelet nel libro “Histoire de la rèvolu- 13
tion francaise”, non hanno fatto altro che descrivere eccezionali figure femminili, talmente lontane dall’universo delle donne comuni, da essere considerate alla stregua di eroi maschi: Carlotta
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Corday, Madame Roland, Olimpia de Gouges, donne il cui operato è stato declinato al maschile.
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Fino ai primi decenni del Novecento sono state portate alla ri-
balta della conoscenza storica soltanto straordinarie figure femminili, elevate a personificazioni sublimi degli ideali maschili:
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madri che sacrificano i figli, mogli fedeli ai mariti fino al martirio, oppure creature tragiche ed irreali che si muovono, perdendosi eroicamente, in un mondo dominato e fatto a misura del maschio.
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Poi, verso la prima metà del secolo scorso, gli storici hanno incominciato a far propri i valori, le strategie di ricerca e analisi sostenuti e divulgati dalla rivista ”Les Annales”. Si trattava di nuove metodologie che prevedevano il ricorso sinergico ai criteri pologia.
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di ricerca propri di altre discipline, quali la sociologia e l’antroIniziò così ad affiorare, grazie a questi contributi multidisci-
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plinari, tutto un mondo costituito da donne che la grande storia
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aveva fino ad allora ignorato. Indagando sui valori impliciti ed espliciti della società, ossia sul quotidiano e il vissuto collettivo, più che sui grandi eventi e le grandi personalità, la sociologia e
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l’antropologia ampliarono il campo di ricerca della storia, facendo
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emergere valori e avvenimenti fino ad allora inespressi. Il concetto di cultura come schema globale di vita, la consape-
volezza che i singoli tratti culturali sono strettamente interdipendenti e che il loro significato viene inteso soltanto attraverso una comprensione di tutto il sistema, quindi, anche dell’universo fem- 14
minile, furono i nuovi nodi fondanti della ricerca storica. Tramite queste nuove metodologie di indagine si comprese che fatti all’apparenza insignificanti, come per esempio l’adozione del con-
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tratto matrimoniale, hanno fatto la storia, condizionando la vita dei gruppi sociali in maniera determinante.
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È così che la donna è, pian piano, salita sul proscenio della sto-
ria. È così che sono man mano caduti gli ostacoli che hanno impedito per tanto tempo di capire molta parte del nostro passato.
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Non più solo la storia dei grandi personaggi, ma anche quella dei piccoli fatti, quella dei personaggi di tutti i giorni che, con la loro instancabile opera, hanno contribuito, nel silenzio delle atti-
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vità quotidiane, all’incivilimento dei rapporti umani.
È così che è emersa, in tutta la sua valenza, la presenza ineludibile della donna nel percorso storico di umanizzazione della società. Dall’esame di atti notarili della Milano del XIV-XV secolo,
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quali testamenti, contratti di apprendistato o di costituzione di società, tutti filtrati attraverso la lente di ingrandimento dello storico, sono emersi dei dati, a dir poco, impensabili solo qualche
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tempo addietro, concernenti il notevole numero di donne ap-
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partenenti al popolo minuto, che, in assenza del marito perché lontano o deceduto, svolgevano attività professionale nei più disparati settori: dal tessile al commercio, alla gestione diretta di
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imprese artigiane con operai alle proprie dipendenze. Anche se molto si è scritto sulle grandi personalità femminili,
che hanno lasciato tracce indelebili della loro presenza, non sono numerose le opere che offrono una sintesi sistematica e complessiva delle tappe del lento e sofferto processo dell’emancipazione femminile dall’antichità ad oggi. - 15
Questo studio non ha la pretesa di colmare tale vuoto, vuole essere solo un modesto tentativo, limitato alla cultura occidentale, di offrire alla riflessione dei lettori una narrazione della con-
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dizione della donna attraverso il tempo, partendo dall’assunto che non sia più sostenibile ignorare il contributo dato dalla metà
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del genere umano al progresso dell’umanità.
Una ricostruzione parziale del passato, declinata solo al maschile, non può fregiarsi del termine “storia”, in quanto questa si
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sostanzia soltanto se estende la sua analisi ai modelli totali, maschili e femminili, in cui si è svolta la vita ed attuato il divenire. Lungo tale direttrice si muove oggi la ricerca storica, che, di
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fatto, sta vivendo una stagione densa di risultati in tutti i campi. Dalle scoperte dell’archeologia alla critica dell’arte, dalla storia della sessualità a quella della medicina, dalla storia dell’economia al diritto, alla religione, al teatro, alla musica, è tutto un fer-
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vore di studi che porta ogni giorno a nuovi e suggestivi risultati. È errato, quindi, pensare che la storia del quotidiano, sia collettivo sia individuale, possa attenuare o negare l’importanza dei
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grandi avvenimenti o dei personaggi che hanno determinato, nel
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percorso dell’umanità, svolte epocali. Caso mai, è vero il contrario, perché gli avvenimenti e i personaggi di grande spessore storico prendono rilievo, consistenza e vigore proprio sullo sfondo
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del vissuto collettivo, della trama culturale di lunga durata, or-
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dita ogni giorno dai gruppi e dai singoli.
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Capitolo 1°
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Dall’età del fuoco all’antica Roma
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1.1) Preistoria Nella preistoria la donna era vista unicamente some strumento di femminili (seni e fianchi) accentuati in modo grottesco.
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procreazione. Ne fanno fede le statuette del neolitico con gli attributi
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In epoche in cui l’uomo, fisiologicamente più dotato rispetto alla donna, si dedicava alla ricerca della carne, per la cui pratica occorreva
forza fisica e coraggio, la donna, normalmente più debole, immobi-
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lizzata o frenata dalla funzione materna, si limitava alla raccolta dei prodotti vegetali, rimanendo in tale ambito per tutto il paleolitico, senza poterne evadere mai.
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Le cose non cambiarono nemmeno con il passaggio dall’economia predatrice del paleolitico a quella produttrice del neolitico. La condizione sociale, subalterna al maschio, della donna contadina e vasaia del neolitico, della donna della protostoria e della storia fu do-
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vuta, spesso, alla lenta, lunga ed oscura specializzazione dei compiti, abbozzati in epoca acheuleana centinaia di migliaia di anni prima.
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1.2) Mesopotamia ed Egitto Il ruolo della donna non subì profondi cambiamenti in Mesopotamia, ove essa era prevalentemente considerata nella sua capacità di perpetuare la vita. In alcune tavolette veniva, infatti, rappresentata soltanto con un segno grafico, che stava ad indicare la vagina. Sono pochi i testi che contengono riferimenti alle donne che, per - 19
lo più, erano viste come esseri inferiori. Tuttavia, dalla lettura di un antico testo sumerico, si apprende dell’esistenza, nell’XVIII secolo a.C., di una regina reggente in assenza del marito.
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Importanti reperti archeologici e documenti vari, di grande inte-
resse, testimoniano, invece, che nell’antico Egitto vigeva la monogamia
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e che la moglie aveva una condizione di relativa parità con il marito.
Nel patrimonio dell’arte figurativa egizia si vedono donne di condizione servile intente a pesanti lavori domestici ed agricoli, mentre
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le spose dei faraoni e dei funzionari appaiono immote per l’eternità in quell’inattività ostentata, che era un aspetto distintivo delle classi elevate. Nella lunga storia della civiltà egizia, già a partire dal 1800
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a.C., gli artisti hanno rappresentato una bellezza assai leggiadra: danzatrici, donne della nobiltà e regine raffigurate in forme slanciate, con curve armoniose, braccia e gambe flessuose, portamento spavaldo e giovanile.
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Nei periodi di maggiore splendore delle varie dinastie, la donna di ceto elevato godeva di notevolissimi privilegi e svolgeva anche un ruolo di importanza primaria nella vita politica, religiosa e sociale.
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Il faraone stesso era tenuto a considerare la sua regina di pari li-
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vello e non era raro che questa occupasse addirittura una posizione di preminenza. La terra d’Egitto apparteneva, infatti, sempre alla regina ed ogni re, per diritto dinastico, sposava la figlia del suo prede-
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cessore, pur essendo sua sorella. L’obiettivo era quello di preservare
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questo diritto di proprietà. Il rispetto dei maschi verso la donna egizia è testimoniato anche dalle numerose massime contenute in molti testi, le quali esortano l’uomo a trattare la propria compagna con premura, stima e cortesia. Il matrimonio non comportava nessuna cerimonia di tipo civile o - 20
religioso. Era la coabitazione che, di fatto, rendeva legale l’unione di un uomo con una donna. Nettamente distinto dal matrimonio era, poi, il contratto matrimoniale, che si stipulava come garanzia per la
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donna in caso di divorzio, che non richiedeva alcuna formalità né la redazione di documenti scritti. Tuttavia, nel caso di separazione, vo-
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luta unicamente dal maschio, questi era soggetto a pesanti obblighi finanziari a beneficio della moglie.
Una prova ulteriore della considerazione della donna nell’antico
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Egitto era data anche dalla tutela prevista per le ragazze madri. Se, infatti, un uomo commetteva l’imprudenza di diventare padre prima del matrimonio, era obbligato ad assumersi le proprie responsabi-
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lità. Dagli stessi testi apprendiamo pure che, al tempo dei faraoni tolemaici, spesso, i contratti di matrimonio trasferivano alla moglie tutti i beni del marito.
Un atteggiamento così magnanimo verso le donne finì per avere
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notevoli influssi, oltre che nei vari aspetti della vita civile e sociale, anche nell’ambito magico – religioso. Basti ricordare, in campo religioso, l’enorme importanza di Iside, la dea a cui si attribuiva la na-
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scita di creature straordinarie e, in politica, l’impronta lasciata nella
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storia da grandissime regine, come Hatshopsout, Tiy, Nefertiti, Arsinoe, Berenice, Cleopatra. Anche nel campo della poesia, la donna nell’Egitto faraonico go-
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deva di ampia libertà sociale. In tal senso, un papiro, conservato nel
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Museo Egizio di Torino, riporta due raccolte di poesie scritte da un’innamorata che così poetava: “Galoppa il mio cuore quando penso al mio amore. Non mi permette di camminare come un essere umano, e trasalisce. Ecco, non mi lascia prendere i vestiti; trascuro i miei ventagli, non metto più cosmetico sugli occhi, non mi profumo più d’odori soavi”. - 21
E in un’altra lirica: “Non mi rimproverare, o uccello! Ho trovato il mio amato nel suo letto, e il mio cuore è molto felice [….]. Egli ha fatto di me la prima delle fanciulle, e non fa soffrire il mio cuore”. Sono versi sensuali di
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sorprendente modernità.
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1.3) Grecia
La funzione riproduttiva della vita della donna provocava nell’uomo greco at-
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trazione e al tempo stesso paura: la nascita e la morte si verificano nel dolore. È forse per questi motivi che i Greci attribuivano
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sembianze femminili alle immagini del terrore: la Gorgone dal ghigno che impietrisce; le immonde Arpie; le Sirene, che cantavano in mezzo a ossa umane bian-
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cheggianti; Scilla e Cariddi; le Parche, tra le cui dita scorreva il filo dell’esistenza; la terribile Chera, la morte che ghermiva il cadavere e lo affondava nell’orrore della decomposizione.
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Negativa era anche la figura di Pandora, che Zeus inviò tra i ter-
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reni per ritorsione contro il furto del fuoco perpetrato da Prometeo. Dotata di tutte le grazie, Pandora era, come Eva, disobbediente e curiosa. Fu lei ad aprire il vaso in cui erano rinserrate tutte le sciagure
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che avrebbero afflitto l’umanità. Il mito di Pandora è un esempio di
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come presso tutte le civiltà, la storia sacra sia sempre stata maschilista. Non sempre, però, nell’antica Grecia, la funzione della donna è stata di completa e totale sottomissione al maschio. Dall’esame delle quattro figure femminili dei poemi omerici, Elena, Clitennestra, Penelope ed Andromaca, gli storici hanno dedotto che nel II millennio
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a.C. (l’età eroica che Omero rievocò nell’VIII secolo a.C.) la donna aveva nella società una posizione di autorità e di prestigio. A Creta, nella Grecia insulare, le donne partecipavano attivamente
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alla vita sociale. Le pitture di Cnosso ci mostrano donne pugiliste,
donne cacciatrici, donne intente a conversare fra loro, vestite ed ab-
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bigliate con un’eleganza e una civetteria che potremmo dire mo-
derne. Per esempio, le chiome muliebri, che da noi sono state ammesse solo dopo la prima guerra mondiale, a Creta rappresenta-
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vano la più seguita delle acconciature femminili. La lunghezza dei capelli spesso veniva ridotta a pochi centimetri. Discorso analogo si e gonne scampanate.
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può fare per l’abbigliamento, che era costituito da indumenti scollati Non ha molto importanza indagare sulle vere cause della guerra di Troia, perché, sia che essa abbia rappresentato l’ultimo atto delle scambievoli razzie di bestiame e di donne, sia che l’impresa di Aga-
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mennone abbia avuto come scopo la libera navigazione dei Dardanelli e l’espansione commerciale achea nel mar Nero, il fatto che gli aedi abbiano posto come movente della guerra il ratto di Elena sta ad
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indicare il rilievo che la donna possedeva nella società e nella co-
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scienza dell’uomo miceneo. Per ottenerla in sposa, l’uomo doveva superare, in competizione con altri pretendenti, prove non prive di difficoltà oppure guadagnarsela offrendo cospicui doni. Trasferita
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in casa del marito, la donna era signora “domina”, comandava sugli
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schiavi, sovrintendeva e partecipava ai lavori del telaio, possedeva le chiavi della dispensa e dei mobili in cui si conservavano i tripodi di bronzo, i vasi d’oro, le vesti tessute in casa. Ben diversa era, invece, la posizione della donna nell’età classica. Nelle famiglie agiate le figlie e le mogli vivevano come monache di - 23
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clausura. Il gineceo, dove erano rinchiuse, era un settore appartato della casa. In tale ambiente esse prendevano i pasti, attendevano alla tessitura e ai lavori domestici insieme alle schiave. Uscivano soltanto in occasioni speciali: matrimoni, funerali, feste religiose. La loro istruzione era limitatissima e si sposavano a seguito di accordi tra genitori di famiglie affini, cioè dopo un regolare contratto. Questa creatura, tenuta all’oscuro di tutto, isolata, trovava naturale che il marito, che non dormiva con lei, oltre ai rapporti con le schiave, avesse un’altra compagna, concubina o etèra che fosse. Molto noto è il rapporto di Pericle con l’etèra Aspasia, amabile, istruita, intelligente. Se, poi, nascevano dei figli, questi erano sì illegittimi, ma non venivano completamente esclusi dall’eredità paterna. Per giustificare la stridente disparità tra la condizione femminile e quella dell’uomo, cittadino di diritto, si era creata della donna un’immagine deteriore. Lo stesso Aristotele la definiva “inferiore per natura”, destinata all’obbedienza come lo schiavo. Qualsiasi espressione di un pensiero o di un diritto da parte sua sarebbe apparsa così assurda da costituire un argomento per la commedia. “Lisistrata” e “Le donne in parlamento”, due commedie di Aristofane, suscitavano il riso degli spettatori, appunto perché le trame erano avulse dalla realtà, come se l’autore avesse messo in scena animali parlanti. Occorre dire, però, che i grandi autori della tragedia greca, al contrario dei commediografi, forse perché capivano, diversamente dal pensare comune, che la realtà umana era ben diversa da quella sociale, crearono personaggi femminili di intensa passionalità e di alta coscienza morale, come: Deianira, custode del vincolo coniugale; Alcesti, capace di mirabile abnegazione; Ifigenia, pronta a morire con dignità; Antigone, che si sacrifica per non venir meno ai propri principi; Elettra, fedele alla memoria del padre. - 24
In genere, quando parliamo di Grecia dell’età classica ci riferiamo ad Atene, ma cosa avveniva nell’antagonista Sparta? A Sparta, rispetto ad Atene, la condizione della donna era molto diversa. In
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quella che fu la superpotenza dell’antichità le donne non indulge-
vano alle cure estetiche. Certo, anche a Sparta il ruolo femminile era
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principalmente quello di procreare, ma le donne non vivevano da re-
cluse. Esse gareggiavano nude come gli uomini nelle competizioni atletiche. Sin da bambine venivano educate all’esercizio fisico, perché
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si pensava che una donna sana avrebbe potuto generare figli sani. L’arte figurativa spartana ci mostra donne dedite all’allenamento sportivo, alla corsa, all’equitazione ed alla caccia. Inoltre, mentre ad
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Atene e nelle altre città greche le donne erano escluse dalla successione ereditaria, a Sparta le figlie ereditavano i beni paterni. Tutto ciò ci porta ad osservare che se Atene è stata la culla della democrazia, della filosofia e delle arti, Sparta, in quanto ai diritti delle donne, si è
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situata ad un livello superiore. Non a caso le donne spartane sconcertarono i colti ateniesi con il loro stile di vita.
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1.4) Roma
A Roma la condizione della donna era nettamente definita sin dalla promulgazione delle XII Tavole, ovvero la prima legge scritta (450 circa a.C.) per la quale la donna non era un soggetto di diritto. In epoca arcaica e fino al II secolo a.C. il marito aveva finanche il diritto di uccidere la moglie colpevole di adulterio. La donna viveva sotto la tutela giuridica del “pater - 25
familias” fino a che, attorno ai dodici anni, andava in sposa e passava sotto la tutela del marito o, in mancanza di questi, del suocero. Le matrone si emanciparono quando al matrimonio “cum manu”,
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per cui la donna passava dalla completa potestà paterna (manus) a
quella del marito, si passò a quello “sine manu”, che non concedeva
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al marito alcun tipo di potere sulla moglie, la quale restava legata
alla propria famiglia di origine, ma, di contro, non poteva avere nessuna aspettativa ereditaria dalla famiglia del marito.
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Alla donna romana spettava, comunque, una quota dei beni della famiglia nella successione ereditaria della famiglia di provenienza, quota che veniva tutelata con sottili accorgimenti, per impedire che
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essa fosse interamente gestita dal coniuge, con il pericolo, non infrequente, che venisse dilapidata. Bastava, a tal fine, che la moglie trascorresse, in un anno, tre notti fuori casa, cioè non sotto il tetto coniugale, perché il suo avere rimanesse nel patrimonio della fami-
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glia d’origine. Inoltre, per evitare che il marito, sperperata la dote della moglie, ambisse a rifarsi un patrimonio sposando un’altra fanciulla ricca, la legge poneva dei limiti al ripudio.
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Inoltre, la donna portava sempre il nome della famiglia di prove-
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nienza, che poi era quello del padre. Ad esempio, Cornelia, la madre dei Gracchi, apparteneva alla gens Cornelia. Con la formula, elogiativa per il loro comune pensare, “domi mansit, domum servavit, lanam
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fecit” (rimase in casa, la preservò, filò la lana) i Romani riassumevano
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in poche parole l’esistenza della donna. Ciò non toglie che in epoca imperiale le donne romane godessero
di molta libertà. Potevano studiare e dedicarsi persino alla politica. Qualcuno, come il filosofo Musone Rufo (1° secolo d.C.), giunse
persino a teorizzare l’uguaglianza fra i sessi, basata su un rapporto - 26
di reciproco scambio. Va comunque detto che questi atti di emancipazione non potevano che riguardare solo e soltanto le donne di condizione patrizia, non certamente il resto dell’universo femminile, che
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era alle prese con la dura realtà quotidiana.
Quando poi l’arricchimento determinato dalle conquiste e il gran
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numero di schiavi produssero abitudini al lusso, all’ozio ed alla cor-
ruzione, i costumi frugali della Roma delle origini furono sempre rimpianti come la mitica età dell’oro. Alle famigerate ed emancipate
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donne descritte da Sallustio, da Giovenale e da Svetonio, alle imperatrici corrotte come Messalina, nell’immaginario collettivo dei Romani facevano riscontro le donne virtuose dell’agiografia stoica: la
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casta Lucrezia, che si uccise per non sopravvivere all’oltraggio subito da parte del figlio di Tarquinio il Superbo; l’eroica Clelia che, data in ostaggio all’etrusco Porsenna, fuggì a nuoto traversando il Tevere e, riconsegnata dai Romani agli Etruschi, fu liberata dal re ne-
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mico per il suo coraggio; la venerabile Vetruria, madre di Coriolano, che distolse il figlio ribelle dal marciare contro Roma. A queste figure candide ed impeccabili, di cui sono ricche le iscri-
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zioni funerarie, i Romani ripensarono sempre con ammirazione e no-
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stalgia, ma nell’alveo di una cultura prettamente maschilista. Quelle donne leggendarie, che nel ricordo dei Romani perpetuavano le virtù familiari e l’amore per la patria, non rappresentavano la donna ri-
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presa nella quotidianità della sua dura esistenza, bensì la donna ec-
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cezionale, l’eroina, alla quale i maschi romani attribuivano qualità proprie degli uomini.
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IL MEDIOEVO
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2.1) Secoli bui!
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Ancora in tempi recenti, la donna medioevale è stata vista in negativo o, meglio, per contrasto. Ha rappresentato un modello astratto, mai verificato nella ricerca storica, al quale è stato contrapposto quello della donna moderna. Molto diffusa è stata l’opinione che, in un’epoca in cui la spiritualità di fondo era quella monastica, considerata come ideale da perseguire da parte di tutti gli uomini, la bellezza femminile esprimeva il turbamento più istintivo della coscienza maschile, che vedeva nella donna la fonte stessa della sessualità, l’anello intermedio tra il bene e il male. È, questa, una rappresentazione della donna, che rientra nella lunga serie di luoghi comuni e di pregiudizi della condizione femminile nei cosiddetti “secoli bui”. Certo nel Medioevo (come in tempi non lontani dai nostri) la donna era sostanzialmente un’emarginata, essendo confinata prevalentemente nel ruolo di moglie, madre e custode della casa. Ma è sbagliato pensare che alle donne fossero precluse altre attività al di fuori dell’ambito familiare. Diversamente, non si capirebbero l’autorità che in Francia era attribuita alla regina, la quale veniva incoronata alla pari del re, e l’importante ruolo politico svolto da eminenti figure femminili, quali Bianca di Castiglia, Eleonora d’Aquitania, Beatrice e Matilde di Canossa. Il Medioevo, secondo la corrente scansione temporale, comprende circa dieci secoli di storia. È assurdo, pertanto, pensare che in mille anni le situazioni siano rimaste immutate e uguali in ogni luogo. Qualche esempio rende più esplicito il concetto. - 31
Se è vero che nel XII secolo, presso la nobiltà genovese, le figlie venissero dotate e, quindi, escluse dall’eredità anche se il padre, per sua ventura, non avesse avuto figli maschi, è altrettanto vero che a
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Venezia, nello stesso tempo, le cose andassero diversamente, perché la donna aveva un ruolo più rispettato nell’ambito della parentela.
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Per entrare a far parte del patriziato veneto si consideravano, infatti, non soltanto gli antenati paterni, ma anche quelli della madre, tant’è che spesso capitava che il principale punto di riferimento per la car-
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riera politica dei giovani nobili non fosse il padre o un altro esponente del proprio lignaggio, ma il fratello della madre o un altro parente della sua linea.
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La ricerca storica ha dimostrato che, con la rinascita delle città e lo sviluppo dell’economia cittadina, le donne non solo collaborarono con gli uomini al funzionamento dell’azienda di famiglia, ma fornirono, nonostante l’avversione delle corporazioni, anche buona parte
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della manodopera indispensabile ai mercanti-imprenditori dei principali centri tessili: Bruges, Gand, Genova, Venezia, Milano, Firenze. Studi recenti concordano nel ritenere che le donne abbiano ap-
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portato un contributo fondamentale all’economia urbana dei secoli
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XI–XV, lavorando all’esterno dell’ambito familiare, anche, al di fuori del tessile.
Finanche il campo delle imprese mercantili non era del tutto pre-
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cluso alle donne. A Genova e a Venezia la presenza femminile nel set-
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tore commerciale risultava nei secoli XII–XIV, tutt’altro che trascurabile. Tra il 1191 e il 1236 oltre un quinto delle operazioni relative alle “commende” (contratti per il finanziamento dei viaggi a scopo commerciale) e circa un settimo del giro d’affari che queste implicavano erano gestiti da donne, in larga maggioranza sposate e talora vedove.
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In pratica, non vi sarebbe stato settore economico (dalla distribuzione dei prodotti alimentari alle costruzioni navali, dalla confezione non utilizzasse una qualche forma di lavoro femminile.
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dei vestiti al trattamento dei metalli e alla lavorazione delle pelli) che Persino presso i cantieri edili medioevali si è attestato l’impiego di
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manodopera femminile. Si trattava per lo più di prestazioni occasionali, che consentivano di integrare il reddito familiare, spesso ai limiti della sussistenza. A Siena, per i lavori di costruzione dell’acquedotto
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Fontebecci, negli anni 1300-1342, furono impiegate 53 donne. A Frosinone, nel 1332, per il restauro della rocca, a fronte di 715 giornate valanza maschile.
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di lavoro femminile, si ebbero solo 526 giornate di lavori di manoQuesta libertà, sia pure limitata, della donna medioevale non sorprende più di tanto, se si considera che, nelle comunità ebraiche, essa godeva di un’autonomia ancora più grande, tant’è che spesso era instito di denaro.
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serita nella principale attività economica della comunità stessa, il preUna recente indagine condotta dalla prof.ssa Elena Woodacre
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della “Bath Spa University“ (un’accademia anglo-americana) ha evi-
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denziato un dato sorprendente: tra il 1274 e il 1512 le donne occuparono il trono del regno di Navarra per il 40% del tempo. Dei dieci sovrani, che governarono il Regno in quest’arco di tempo, ben cinque
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furono donne. La successione femminile al trono, oltre ad impedire
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che uomini stranieri potessero reclamare diritto di possesso sulla Navarra, consentì, così, al piccolo stato pirenaico di mantenere l’indipendenza per ben 200 anni, nonostante le mire espansioniste dei potenti vicini: Francia, Castiglia ed Aragona. Ed ancora, dall’esame di atti notarili o di altro genere, aventi va- 33
lore storico, è risultato che, nel Medioevo, oltre ad esistere forme di democrazia diretta a livello locale, in molte assemblee cittadine e rurali votavano sia gli uomini che le donne.
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Anche nel campo dell’educazione dei figli la moglie non era del tutto emarginata. Esercitava, infatti, congiuntamente al marito, il
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compito di seguirne la crescita e di proteggerli, nonché, al caso, di amministrarne i beni.
Non poche sono le donne dell’età di mezzo che hanno lasciato il
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segno della loro presenza con opere che le hanno rese degne di essere annoverate nella storia. Rilevanti, in tal senso, sono le figure di Christine de Pizan, prima donna scrittrice di professione, di Odile Her-
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rada di Landsberg, autrice della prima enciclopedia illustrata, di Rosvita, badessa dell’abbazia di Gandersheim, scrittrice e drammaturga, di Trotula, famosa ginecologa della Scuola Medica Salernitana, di Eleonora d’Aquitania, moglie prima del re di Francia e poi di
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quello d’Inghilterra, che accolse presso la sua corte poeti, scrittori ed artisti. Insigni personaggi femminili si distinsero anche in campo religioso per zelo e santità: Santa Chiara, Santa Caterina da Siena, Santa
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Gunegonda, Santa Brigida e Santa Scolastica.
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Fu, inoltre, una donna, la regina Isabella di Castiglia a finanziare
l'impresa di Cristoforo Colombo, che condusse alla scoperta dell’America, la quale segna, convenzionalmente, la fine del Medioevo
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e l'inizio dell'epoca moderna. Ed ancora, non possiamo non ricordare che una donna del po-
polo, Santa Caterina da Siena, era ascoltata dai più grandi potenti del suo tempo e che, durante la sanguinosa guerra dei cent'anni tra Francesi ed Inglesi, una semplice ragazza di umili origini, Giovanna d’Arco, riuscì a convincere i regnanti di Francia a metterla a capo di - 34
un esercito di uomini. Sarebbe oggi accettata, tranquillamente, una cosa del genere? Per alcuni aspetti la figura della donna del Medioevo si presenta
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con una disinvoltura invidiabile finanche dalle donne del nostro tempo. Un amore adulterino ha ispirato una delle più struggenti li-
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riche cortesi. Fin qui niente di insolito, ma forse qualcuno rimarrà sorpreso nell’apprendere che l’autore di questi versi pieni di nostalgia, di rimpianto e desiderio sia una donna, la contessa Dia, la più ce-
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lebre voce femminile della poesia trobadorica.
“Io sono stata, ahimè, in gran pensiero/per un cavaliere che mi ha conquistata,/e spero si sappia per l’eternità quanto l’ho amato. Ora mi accorgo
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di essere tradita poiché non gli ho concesso il mio amore:/e ciò mi ha provocato un gran dolore,/sia nel mio letto che quando son vestita. Io vorrei il mio cavaliere/tenerlo a sera tra le braccia nudo e ch’egli si sentisse soddisfatto/se solo gli servissi da cuscino. Poiché mi sento ardere per lui più di Florio per
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Biancofiore:/io gli offro il mio cuore e il mio amore,/il mio senno, i miei occhi, la mia vita. Caro amico, cortese e affascinante,/quando vi avrò del tutto in sionati.
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mio potere? Per giacere una sera al vostro fianco/e riempirvi di baci, appas-
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Sappiate che io muoio dalla voglia di coccolarvi al posto del mio
sposo,/purché mi promettiate seriamente di assecondare il desir amoroso”. È difficile trovare nella lirica moderna un esempio di versi così
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erotici ed appassionati.
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IL RINASCIMENTO
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3.1) Un’età incoerente Il Rinascimento, celebrato da letterati e artisti come l'epoca della "rinascita", in me-
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rito alla questione femminile fu espressione di una cultura incoerente. Se per un
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verso fu un’età in cui venne rivalutata la
figura della donna, è pur vero che questo processo di emancipazione riguardò esclu-
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sivamente le donne appartenenti ai ceti alti della società. La donna, nel complesso della società rinascimentale, era ancora vista, sempre e solo, in rela-
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zione al suo rapporto con l’uomo, come figlia, sorella, moglie o come madre. Ancora non era considerata, generalmente ed ovunque, un soggetto pensante, titolare di diritti.
Relativamente alla possibilità di poter ereditare non vi era uni-
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formità di norme e di comportamenti tra le varie zone d’Italia. A Firenze era piuttosto diffusa la famiglia agnatizia, che era rigorosamente patrilineare ed escludeva le donne dalla linea genea-
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logica. A Venezia, invece, la situazione era alquanto differente. Pre-
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valeva la famiglia cosiddetta cognatizia, che includeva anche le donne nella linea genealogica. Nel primo caso, figlie e mogli non potevano ereditare; l’eredità an-
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dava ai maschi, anche se appartenenti a rami collaterali. Solo ad estin-
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zione totale degli eredi maschi, cognati inclusi, alle donne era consentito di entrate in possesso dei beni ereditari della famiglia. Nel secondo caso, invece, la donna era vista come agente di costruzione della famiglia stessa e, pertanto, quale titolare di diritti, ereditava i beni della propria famiglia e poteva, altresì, disporre del testamento del marito. - 39
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Nei ceti alti la donna godeva di alcune libertà, confermate dalla possibilità di studiare e di condurre una vita autonoma, sempre, però, nei limiti imposti dalla morale comune. Tra le classi borghesi, sia nei paesi protestanti dell’Europa del Nord sia in quelli cattolici, le donne sposate erano soggette a convenzioni molto restrittive. Non potevano e non dovevano uscire di casa da sole né vestirsi troppo sontuosamente. Una buona moglie non doveva neanche bere vino. In poche parole una donna saggia, secondo l’opinione al tempo molto diffusa, doveva uscire di casa tre volte nella vita: per il suo battesimo, per il suo matrimonio, per il suo funerale. È chiaro che si trattava di limitazioni non estensibili ovunque e per tutte le situazioni, perché, ma questo avveniva anche nel Medioevo, non erano rari i casi di mogli di mercanti che coadiuvavano il marito nell’esercizio del negozio o che, alla morte del congiunto, continuavano in proprio l’attività imprenditoriale. Il lavoro femminile, sia per le classi agiate sia per quelle popolari si svolgeva, in genere, all'interno dalla casa ed era tutt'altro che leggero. Alla donna era riservato il compito di assistere i familiari anziani o malati, la direzione della servitù quando c'era, la cura e l'educazione dei figli e tutto ciò che riguardava la cucina e l'alimentazione. Molto pesanti erano, poi, i lavori a cui dovevano assolvere le donne più povere: il trasporto dell’acqua, la raccolta della legna e dello sterco, l'allevamento degli animali domestici, la cura dell’orto e la raccolta dei prodotti del sottobosco. In genere, il lavoro femminile, all’esterno dell’ambito domestico, era considerato e giudicato non positivamente, poiché diminuiva il prestigio stesso della donna e, di conseguenza, anche del marito. Nei ceti più poveri era più facilmente accettato, perché contribuiva al sostentamento della famiglia.
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Gli atti parrocchiali offrono numerosi dati del lavoro femminile, che nei momenti di crisi assunse un ruolo cogente ed importante per il bilancio della famiglia. Dall’esame di tali atti risulta, per esempio,
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che a Milano nel 1576, relativamente alla Parrocchia S. Michele alla
Chiusa, ben 422 donne delle 1350 residenti lavoravano nel settore tes-
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sile, ossia la quasi totalità di quelle appartenenti al popolo minuto in
età compresa tra i 12 e i 60 anni. Non mancavano anche donne imprenditrici, soprattutto vedove, che avevano alle proprie dipendenze
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un numero non trascurabile di addetti.
Il matrimonio era, comunque, la tappa più importante nella vita di una ragazza. Le ragazze di bassa condizione sociale, al fine di po-
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tersi maritare, non esitavano ad andare a lavorare lontano da casa, magari al servizio di una famiglia benestante, pur di mettere insieme la dote necessaria per contrarre matrimonio. Lo scopo del matrimonio era, come sempre, quello di assicurare la procreazione.
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Il padre, in linea di massima, non aveva con il bambino nessun tipo di rapporto, tantomeno di natura affettiva. Le cure del piccolo erano demandate esclusivamente alla madre, che nei ceti sociali più
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alti ricorreva alla balia. Neonati deformi o una morte prematura dei
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bambini venivano interpretati come un castigo per la madre, perché, di sicuro, si era macchiata di chissà quali colpe segrete, la cui esistenza veniva svelata proprio dall'incapacità di generare un figlio
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sano o abbastanza forte da sopravvivere. Erano pregiudizi partico-
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larmente diffusi tra le classi popolari. Nei ceti alti della società la riscoperta dell’estetica classica dava vita,
invece, all’idealizzazione della donna, esaltando la giovinezza e la bellezza. “Quant’è bella giovinezza che si fugge tuttavia! Chi vuol essere lieto, sia: di doman non c’è certezza”, poetava, in tal senso, Lorenzo il Magnifico. - 41
Trucchi, creme e lozioni venivano usate in abbondanza. Una pelle bianca era l’immagine della ricchezza. L’abbronzatura era segno, invece, di una donna non ricca, costretta ad un duro lavoro, spesso
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sotto il dardeggiare del sole. Le mode cambiavano in continuazione ed i vestiti erano disegnati per evidenziare la bellezza del corpo, che
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veniva ulteriormente esaltato dall’uso eccessivo di ornamenti.
L’immagine della donna idealizzata e quella della cortigiana finivano, così, col fondersi. Roma e Venezia erano rinomate per le loro
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cortigiane. Una prostituta come Tullia d’Aragona era anche una famosa poetessa, sapeva suonare vari strumenti musicali ed aveva una voce incantevole.
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L’apertura dei costumi sessuali divenne una realtà. Erasmo, il famoso umanista olandese, riferisce che il lesbismo era una pratica diffusa. Ma ben presto questa libertà sessuale fu vanificata dal flagello della sifilide, che uccideva, ma prima ricopriva il corpo di putride
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pustole. Così una cortigiana descriveva la fine della sua carriera: “Io ero pulchra e piena de ogni odore/hor piena son di puzza e di vil fezza/e ciò pensando si me creppa il core”. A dare il colpo di grazia alla liberalità dei
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costumi intervenne, in aggiunta alla sifilide, la Controriforma.
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Non mancarono, nel Rinascimento, donne che dimostrarono ar-
ditezza virile e temerarietà, le cosiddette “virago”, che costituirono un’altra personificazione dell’ideale della donna rinascimentale. De-
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finire virago una donna era un elogio, perché voleva significare es-
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sere coraggiosa e temeraria come gli uomini migliori. Virago fu Caterina Sforza, ammirata per aver impavidamente difeso la sua città da Cesare Borgia. Virago fu la celebre poetessa francese Louise Labé, eccellente cavallerizza e valente spadaccina, la quale combatté a sedici anni a Perpignano con il nome di capitan Loys. Louise incorag-
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giò le donne ad “elevare le loro anime un po’ più in alto dei tegami e del filatoio”, a guardare avanti e combattere per l’uguaglianza. Non mancarono, neppure, donne che si dedicarono con successo
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alla politica. Margherita d’Austria, Luisa di Savoia, Isabella di Castiglia ed Isabella Gonzaga, solo per citarne alcune, ebbero una visione
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politica, spesso, più incisiva di quella dei rispettivi mariti.
Fu, sicuramente, l’invenzione della stampa ed il conseguente aumento dell’istruzione a liberare le donne, almeno quelle che appar-
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tenevano ai ceti alti, dall’ignoranza e dalla condizione di completa sottomissione al maschio. L’istruzione, infatti, divenne per queste donne una sorgente di libertà. Una poetessa poteva diventare una
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celebrità, persino un’autorità politica. I versi di Vittoria Colonna, Giulia Gonzaga, Isabella di Morra, Gaspara Stampa, Tullia d’Aragona costituiscono esempi incontestabili di questo processo di emancipazione, anche se interessava solo poche fortunate. La maggioranza
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delle donne, perlopiù di ceto modesto, non furono, difatti, lontanamente sfiorate da tale crescita culturale. Le famiglie non ricche, che erano la maggioranza, si liberavano delle figlie mandandole nei con-
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venti di clausura, dove non c’era neppure il contatto con la natura o
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il conforto della musica. Abbiamo definito il Rinascimento un’età ricca di contraddizioni.
Un esempio dell’incoerenza dell’epoca è rappresentato dalla esten-
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sione del fenomeno della superstizione. Può sembrare paradossale,
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ma il secolo di Leonardo fu fortemente caratterizzato dalla credenza nella magia e nella stregoneria, credenza che, pur presente nelle età precedenti, si diffuse maggiormente a partire dal XVI secolo. Risale, infatti, al 1486, e non al lontano Medioevo, la pubblicazione del manuale degli inquisitori, il “Malleus Maleficarum”. Ogni paese, persino - 43
ogni villaggio, aveva una strega, che soddisfaceva una necessità sociale. Le donne andavano a confessarle i loro amori ed i loro odi, a comprare erbe e liquidi magici.
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La strega era, spesso, un’emarginata, un’anticonformista, un’eccentrica; ma tale era, forse, perché povera o deforme. Contro le stre-
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ghe si scatenò un’atroce persecuzione, che interessò i paesi cattolici, ma ancor di più quelli protestanti.
In conclusione, si può affermare che il Rinascimento, come tutti i
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grandi movimenti, fu assorbito da pochi e vissuto da una ristretta élite. Relativamente ai diritti politici delle donne, quest’età costituì, nel concreto, un arretramento della condizione femminile. Infatti, se
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nel Medioevo le donne potevano esercitare, in talune comunità, il diritto di voto nelle assemblee popolari per la elezione degli organi istituzionali, con la trasformazione dei liberi comuni in signorie, esse furono confinate in un ruolo marginale, privo di ogni possibilità po-
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litica di poter scegliere o essere scelte.
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Capitolo 4째
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LA CACCIA ALLE STREGHE
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4.1) Salem, Triora e altri casi La caccia alle streghe, che costituisce una delle più crudeli e vergognose pagine
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di storia, non si verificò nel Medioevo, come molti credono, bensì nell’Età Mo-
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derna ed interessò più i paesi protestanti
che quelli cattolici. La repressione raggiunse il culmine della crudeltà nel XVI
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secolo, nel “boom” dell’occultismo rinascimentale, e declinò verso la fine del XVII secolo, quando cambiò il clima culturale e religioso.
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Nel 1486 fu pubblicato dai domenicani Heinrich kramer e Jakob Sprenger il “Malleus Maleficarum” (Il martello delle streghe), una sorta di manuale per gli inquisitori.
La persecuzione più cieca e violenta si ebbe in Germania, anche se
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ovunque si verificarono casi drammatici, come nel sud della Scandinavia, in Svezia ed in quel territorio che oggi costituisce la Norvegia, ove con il passaggio dal cattolicesimo al luteranesimo si ebbe un
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altissimo numero di processi per stregoneria. Oltre mille streghe fu-
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rono in un secolo condannate al rogo, di cui centotredici in un solo giorno. Si è stimato che, complessivamente, furono circa trecentomila le persone condannate per stregoneria, nella stragrande mag-
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gioranza donne, di cui circa settantamila al rogo. Ciò che più sorprende è che famosi studiosi, come Jean Bodin, il
grande teorico dello stato moderno, Descartes e Newton mostrarono di essere convinti dell’esistenza delle streghe e contribuirono con il loro prestigio e la loro autorità alla diffusione della credenza nella stregoneria. Oggi sorridiamo di simili superstizioni, ma quella gente - 47
era seriamente convinta dell’esistenza della stregoneria e della sua capacità di nuocere. Su chi fossero le streghe sono state avanzate varie ipotesi. Le stre-
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ghe, in genere, erano donne che si credeva fossero possedute dal demonio, perché avevano rinnegato Dio e accettato satana come
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padrone. Alcuni studiosi hanno spiegato storicamente il fenomeno
della stregoneria, individuandone l’origine nella sopravvivenza, specie nelle campagne, di riti e culti pagani che, sia per le autorità ec-
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clesiastiche sia per quelle civili, andavano repressi, perché manifestazioni ostili alla religione e all’ordine sociale. Altri hanno sviluppato un’ipotesi sociologica: le tensioni vissute nei villaggi ru-
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rali, durante la transizione dal Medioevo all’Età Moderna, si scaricarono, prevalentemente, sulle donne che erano più refrattarie al cambiamento. Altri hanno, invece, analizzato il problema dal punto di vista psichiatrico: le streghe altro non erano che povere malate di
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mente. Non è mancata, infine, l’interpretazione femminista: le streghe, portatrici di una cultura alternativa, rappresentarono il tentativo delle donne di uscire dalla sottomissione all’uomo in cui erano
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relegate.
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Il fanatismo e l’isteria collettiva investirono, in maggior misura, il
Nord europeo e le colonie inglesi dell’America (New England), ove particolarmente truce fu la repressione che si verificò, in tutto il suo
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orrore, a Salem nel Massachussets nel 1692. Ventiquattro donne ven-
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nero incarcerate, torturate e giustiziate. Stessa sorte toccò a due uomini. Anche in Italia, benché la caccia alle streghe non raggiungesse le
punte esasperate dell’Europa del Nord e del New England, si verificarono casi simili all’atroce vicenda di Salem. Il caso più raccapric- 48
ciante si ebbe a Triora, paesino dell’entroterra ligure, territorio della Repubblica di Genova, attualmente in provincia di Imperia. Qui la persecuzione raggiunse punte estreme, nonostante che i Genovesi
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avessero sempre dimostrato di mal sopportare le ingerenze ecclesiastiche negli affari interni della Repubblica ed avessero sempre tolle-
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rato la presenza di ebrei, schiavi e “diversi” di ogni condizione. La vicenda ebbe inizio sul finire dell’estate del 1587, quando i cittadini di Triora, riuniti in parlamento, incaricarono il podestà Stefano Car-
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rega di accertare se le cause della grave carestia, che imperversava da due anni, fossero imputabili alle fatture di streghe. Così, ai primi di ottobre, giunsero a Triora il vicario del vescovo di Albenga, Girolamo
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Del Pozzo, e un vicario dell’inquisitore di Genova. L’inchiesta iniziò con una terrificante predica di Del Pozzo, il quale invitò tutti i fedeli a denunciare le persone sospette, invito che fu ben presto raccolto. Iniziarono subito a fioccare le denunce. Le sospette streghe, una
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trentina, vennero arrestate per essere interrogate. Che cosa si imputava alle sventurate? Delitti non molto diversi da quelli che portavano al rogo donne tedesche, spagnole, francesi o inglesi: rapporti
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carnali con il diavolo, rapimenti e uccisioni di infanti non ancora bat-
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tezzati, fatture di ogni tipo. Per arrivare alle confessioni gli inquisitori non esitarono ad im-
piegare i sistemi più feroci. La prima a cedere e a confessare per sot-
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trarsi alla tortura fu Isotta Stella, che fece i nomi di altre donne ed
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inventò ogni genere di colpe per far terminare il supplizio, ma morì dopo pochi giorni per i patimenti subiti. Per il timore di subire le stesse torture, un’altra accusata si suicidò, gettandosi dalla finestra. Nel gennaio del 1588 erano più di duecento le persone che le “streghe”, sotto tortura, avevano tirato in ballo. Gente di ogni strato so- 49
ciale, dalle povere contadine alle matrone delle famiglie più antiche e nobili. Il consiglio degli Anziani, composto dalle famiglie più importanti
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della zona, denunciò al doge di Genova il comportamento eccessi-
vamente severo e sommario del vicario, che tratteneva in carcere
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donne arrestate sulla base di prove assolutamente indiziarie. Le re-
cluse non avevano confessato alcun crimine e, cosa ancor più grave, Del Pozzo aveva puntato il dito verso donne appartenenti a famiglie
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(nobili e ricche), che erano al di sopra di qualsiasi sospetto.
Il doge e il consiglio di Genova passarono il problema al vescovo di Albenga, che si mise in contatto con Girolamo Del Pozzo. Questi
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rinunciò a perseguire le donne della nobiltà. Il Consiglio degli Anziani si ritenne soddisfatto. Le accusate continuavano, però, a languire in prigione, senza che l’indagine procedesse di un passo. Per far luce definitiva sulla vicenda, il Governo genovese inviò a
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Triora un commissario straordinario, tale Giulio Scribani, il quale trasferì a Genova le tredici donne che ancora stavano in galera e procedette a nuovi arresti e a nuovi interrogatori anche di donne dei paesi
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vicini. Per quattro presunte streghe di Andagna, Scribani propose ad-
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dirittura la pena di morte. Questa richiesta suscitò la perplessità dello stesso governo geno-
vese, che sostituì Scribani con un auditore giudiziario e due aggiunti,
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i quali confermarono le condanne a morte. Erano già state alzate le forche (le streghe venivano impiccate e poi
bruciate), quando avvenne il colpo di scena. Il padre inquisitore di Genova ordinò la sospensione del procedimento, accusò l’autorità civile genovese di sconfinamento in ambito giuridico ecclesiastico ed inviò gli incartamenti dei processi a Roma. Il Sant’Uffizio invalidò le condanne. - 50
Scribani fu messo dapprima sotto inchiesta, poi scomunicato per “aver invaso il campo dell’autorità ecclesiastica”, ma, infine, assolto perché aveva sbagliato per “eccesso di cattolicesimo”.
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La misura dei tormenti che dovettero subire le supposte streghe
sta nel verbale dell’interrogatorio di Franchetta Borelli, la quale fu
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interrogata dopo essere stata denudata, depilata e legata al “caval-
letto”. L’accusata veniva stesa su una tavola con mani e piedi stretti da corde che venivano tirate fino a che le membra non si slogassero.
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Franchetta Borelli non confessò e fu, alla fine, rilasciata. Nessuna delle presunte fattucchiere di Triora e dei paesi vicini finì sul patibolo, ma cinque di esse morirono per i tormenti patiti. Diversamente
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da quanto comunemente si crede, di fronte al delirio collettivo e alla fobia demoniaca del tempo, la Chiesa, ancora imbevuta della filosofia scolastica medievale, conservò un atteggiamento razionale e spesso intervenne per assolvere povere ed infelici donne dall’ accusa
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di stregoneria, per invalidare o mitigare condanne già sentenziate. Se si storicizza il fenomeno, inquadrandolo nel suo contesto, ci si accorgerà, infatti, che l’Inquisizione fu più mite e tollerante dei tri-
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bunali civili. Nei paesi, ove vigeva la legge dell’Inquisizione catto-
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lica, vi furono, infatti, meno vittime rispetto ai paesi protestanti, in quanto i tribunali dell’inquisizione applicavano regole omogenee ovunque ed erano retti da giudici forniti di nozioni basilari di diritto,
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che, rispondendo ad un unico potere, applicavano la legge seguendo
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canoni universali. In Germania, invece, ove il numero di streghe uccise fu altissimo,
la realtà si presentava completamente diversa. Il contesto politico tedesco era, infatti, costituito da oltre trecento principati e staterelli, ciascuno dei quali aveva un sovrano con un suo tribunale, che ap- 51
plicava la legge a suo piacimento. In una situazione siffatta i pericoli per le presunte streghe, ovviamente, aumentavano. Difatti, i tribunali laici del nord e del centro dell’Europa condannarono a morte
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molte più streghe di quanto fecero quelli dell’Inquisizione cattolica romana, che facevano maggiore attenzione al rispetto di garanzie le-
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gali, limitando, tra l’altro, il ricorso alla tortura.
Tale comportamento più garantista è testimoniato, oltre che dalla vicenda di Triora, anche da altri casi, come quello del famoso pro-
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cesso alla cosiddetta “strega di S. Miniato”, Costanza da Libbiano, la quale aveva confessato, ma sotto tortura, di aver praticato la stregoneria nelle forme più orribili e raccapriccianti. La confessione di Co-
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stanza era talmente poco credibile che l’inquisitore di Firenze, Dionigi di Costacciaro, ordinò la scarcerazione della presunta strega ed ingiunse all’autorità civile di restituire alla donna quanto le era stato requisito. Questo accadeva nel 1594 nella Toscana medicea,
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sempre celebrata come luogo di cultura, di arte e di mecenatismo
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edonista e sfarzoso.
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DAL SEICENTO ALLA RIVOLUZIONE FRANCESE
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5.1) L’Alba dell’emancipazione Con la crisi della società medioevale ebbe inizio il processo di formazione dello stato moderno. La struttura delle comunità, sia pure lentamente, cambiò radicalmente. Da una parte si rafforzò lo Stato, dall’altra crebbe l’idea dei diritti dell’individuo. Ma il ruolo della donna, che diversamente dai maschi non era dotata di diritti naturali, continuava ad essere limitato alla famiglia. La sua era una condiElena Lucrezia Corner zione di totale soggezione al potere del “pater familias”, che disponeva, con assoluto arbitrio, della vita e del destino delle figlie. In un simile contesto non poteva non suscitare grande scalpore il caso della veneziana Elena Lucrezia Corner Piscopia (nota anche con il nome di Cornaro). Elena è stata la prima donna al mondo a conseguire una laurea. Ottenne l’alloro in filosofia a Padova il 25 giugno 1678, dopo aver chiesto, invano, di potersi laureare in Teologia. Lo studio padovano aveva accolto la sua richiesta senza difficoltà, ma trovò la decisa opposizione del vescovo di Padova, Gregorio Barbarigo, il cui consenso era vincolante per l’assegnazione della laurea in Teologia. Alla fine si giunse ad un compromesso: Elena non si sarebbe laureata in Teologia, bensì in Filosofia. Si dice che, non essendo sufficiente l’aula dell’Università a contenere la folla che voleva ascoltare la dissertazione della laureanda, la cerimonia fu spostata nella vicina cattedrale. Le cronache riferiscono che, per la circostanza, nella piazza antistante la cattedrale, vi fossero adunate non meno di 30 mila persone. - 55
Tuttavia, fino a tutto il XVIII secolo, soltanto cinque donne riuscirono a conseguire la laurea, di cui le prime tre in Italia: Elena Lucrezia Corner a Padova, Laura Bassi Verati a Bologna e Maria Pellegrini
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Amoretti a Pavia.
Anche se in modo isolato, incominciarono a sentirsi delle voci di
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protesta, come quella della scrittrice veneziana Arcangela Tarabotti,
che formulò una spietata denuncia del sistema, mai fatta fino ad allora. Arcangela Tarabotti, costretta dal padre a farsi monaca, rimase
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in convento dall’età di sedici anni fino alla morte, avvenuta nel 1652. Le sue opere, tutte dedicate alle donne, affermando che l’inferiorità delle donne non era dovuta ad incapacità biologica, ma alla concreta
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situazione storica che si era andata consolidando nel corso dei secoli, costituirono un potente atto d’accusa al potere assoluto dei padri di famiglia e alla politica dell’aristocrazia veneta. “Quale intelligenza scriveva la Tarabotti - può possedere una donna lontana da tutti i traffi-
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chi, che a guisa di infelice augelletto se ne sta rinchiusa, anzi sepolta, in angustie insoffribili?” Il rimedio, per lei, non poteva che consistere nel
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vita.
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concedere alle donne libertà di istruzione e autonomia nelle scelte di
Arcangela Tarabotti
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Mentre Arcangela Tarabotti consumava la sua vita nella sofferenza e nel rimpianto per le gioie del mondo che le erano state negate, in Francia nasceva e si diffondeva il fenomeno
delle
“preziose”
e
del
“preziosismo”. Le “preziose” erano donne che si riunivano nei salotti per discutere, sia pure con la pedanteria e il sussiego dei neofiti, di problemi di diversa natura: lingui-
stici, esistenziali, psicologici. Per la dirompente novità che rappresentavano, subirono gli strali ironici anche di uomini di cultura come Moliere. Certo, agli occhi di molti intellettuali maschi, le “pre-
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ziose”potevano apparire ridicole, perché si esprimevano con un linguaggio esageratamente ricercato e affettato, ma furono loro ad
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inaugurare la moda dei salotti letterari.
Una svolta decisiva nella lunga e travagliata storia dell’emancipazione femminile doveva venire dal razionalismo di Cartesio e dei
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suoi discepoli. Per Cartesio lo stato di emarginazione delle donne nella famiglia e nella società rappresentava il caso limite dell’ingiustizia del costume e della tradizione. Il filosofo francese poneva, così,
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in maniera ufficiale, con l’autorità del suo prestigio, un tema che non poteva più essere eludibile; ma molta acqua doveva ancora passare sotto i ponti per il riconoscimento della parità dei diritti tra i sessi. Il Settecento, il “secolo dei lumi”, caratterizzato da vivaci dibattiti
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culturali, proponeva, è vero, richieste di crescita sociale, ma le inquadrava nell’universo dei maschi e mai in quello delle donne. Anche per gli illuministi più avveduti l’istruzione femminile non do-
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veva andare oltre l’acquisizione di un po’ di grammatica, molta mo-
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rale, un po’ di storia, un po’ di poesia, ma niente diritto e niente filosofia.
Per quale motivo, allora, il Settecento è stato anche definito il se-
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colo delle donne? In quegli anni, grazie alla crisi dell’Ancien Régime,
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in tutti i settori avvennero grandi trasformazioni. Le donne della piccola e media borghesia artigianale e commerciale, pur tra incomprensioni e difficoltà, incominciarono a inserirsi nel mondo del lavoro, coadiuvando i mariti nelle loro attività lavorative, mentre quelle appartenenti al cosiddetto “quarto stato”, grazie alla rivolu- 57
zione industriale, iniziarono ad essere occupate nelle nascenti fabbriche, che stavano sostituendo il lavoro a domicilio. Le industrie tessili, infatti, non avrebbero potuto conoscere quello sviluppo
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prodigioso senza la partecipazione delle masse femminili. Ma, pure nel contesto della fabbrica, alle donne furono assegnati compiti mar-
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ginali e meno retribuiti rispetto ai maschi.
La stessa Rivoluzione Francese, nonostante le sue istanze di libertà ed uguaglianza, nei fatti, sosteneva che principi validi per un
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sesso non lo erano per l’altro. Le trasformazioni sociali ed economiche, le idee nuove, le leggi, come espressione della volontà popolare, erano ancora pensate in funzione degli uomini. Quando se ne chie-
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deva l’estensione alle donne, si paventava il pericolo dell’anarchia e dell’allentamento dei legami sociali. C’è poco da meravigliarsi, quindi, se lo stesso Rousseau, in “Emile”, descriveva Sophie come una donna istintiva, la cui esistenza era finalizzata all’uomo e alla
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maternità. Sophie non aveva bisogno d’istruzione. Per comprendere il ruolo che le spettava nella vita le bastava soltanto leggere nel suo cuore e sviluppare le sue capacità intuitive.
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La ricerca filosofica e le conoscenze scientifiche erano precluse al
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mondo femminile. Le donne si videro respinte tutte le loro richieste dai governi nati dalla rivoluzione: parità dei diritti politici, libertà e autonomia dall’uomo, accesso al diritto di proprietà, abolizione dei
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divieti inerenti all’esercizio di alcuni mestieri e professioni, ugua-
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glianza di retribuzione. Eppure, avevano preso parte attiva alle varie fasi della rivoluzione; avevano scritto “cahiers de doléances”; avevano partecipato alle dimostrazioni di folla; avevano creato giornali e club femminili. Nel 1791, Olimpia de Gouges pubblicò a Parigi la Dichiarazione dei - 58
diritti delle donne, con la quale la scrittrice, ispirandosi alla dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789, chiedeva l’estensione alle
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donne dei diritti di cui godevano gli uomini, sostenendo, tra l’altro, che se le
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donne, come gli uomini, avevano il diritto di salire sul patibolo, dovevano avere anche quello di parlare dalla tribuna. Ro-
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bespierre non le concesse questo riconoOlimpia De Gouges
scimento, ma le accordò quello di salire
sul patibolo. Nel novembre del 1793 Olimpia de Gouges fu ghigliotconvengono al suo sesso”.
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tinata “per aver voluto essere un uomo di stato e dimenticato le virtù che si L’esperienza della rivoluzione era terminata, di lì a pochi anni, anche il codice napoleonico, destinato a essere esportato in tutta Eu-
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ropa con le armate francesi, avrebbe sancito la funzione subalterna della donna nella famiglia e nella società. Più consapevoli della propria forza erano le donne nelle colonie
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inglesi dell’America del Nord. Qui, il
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ruolo che le stesse ebbero nella fondazione delle comunità cittadine diede loro una conoscenza più diretta della realtà della
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vita e le predispose, fin dai tempi della co-
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lonizzazione, a dare alle loro rivendicazioni una maggiore concretezza. Non pochi storici sostengono che fu una donna, Abigail Smith, moglie di John Adams, il secondo presidente degli Stati
Abigail Smith
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Unti, a concepire il progetto di separazione delle Colonie dall’Inghilterra. Durante i lavori di elaborazione della Costituzione americana, Abigail scrisse una lettera al marito con la quale gli ricordava
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di non dimenticare le speranze delle donne e di rispettare i loro di-
ritti. “Se alle signore - ella scriveva - non sarà data un’attenzione speciale
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siamo decise a fomentare una ribellione e non ci considereremo legate da
leggi nelle quali non abbiamo alcuna voce né rappresentanza”. Ma la risposta di John Adams fu, per lei e per tutte le donne americane, estre-
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mamente deludente. John Adams riteneva, infatti, che il riconoscimento dei diritti politici alle donne avrebbe costituito il primo passo verso il disordine e la sovversione.
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Le istanze di emancipazione delle donne, maturate nel corso del Settecento in Europa e in America trovarono nella scrittrice inglese Mary Wollstonecraft una grande interprete. Grazie alla sua instancabile attività, i fermenti emancipazionisti ebbero nell’ Inghilterra
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dell’Ottocento uno sviluppo prodigioso. Al primo posto la Wollstonecraft metteva il diritto all’istruzione, perché solo con l’istruzione la donna avrebbe finito di stare in gabbia come quei pappagalli che
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“non hanno altro da fare che pulirsi le piume
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e passare da un trespolo all’altro con andatura maestosa”. Il nucleo fondante del pensiero di Mary Wollstonecraft resta, quindi, la ri-
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cerca dell’autonomia morale, intellettuale
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ed economica da parte della donna. Fu un’antesignana del femminismo e, come tale, patì le sofferenze dei pionieri.
Mary Wollstoncraft
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Capitolo 6°
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IL PROCESSO DI EMANCIPAZIONE FEMMINILE DALL’OTTOCENTO AL NOVECENTO
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6.1) Gli anni eroici delle prime conquiste La condizione della donna nel secolo XIX non si discostava molto da quella del
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tempo della Controriforma. “Non devi imparare, non devi guadagnare, non devi posse-
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dere, non devi,.......”. Così Virginia Woolf
riassumeva in una lunga serie di divieti lo spirito dell’epoca e lo stato di soggezione
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delle donne che, solo con la poesia, riuscivano a denunciare e a descrivere il torEmily Dickinson
mento della loro emarginazione.
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La poetessa statunitense Emily Dic-
kinson (1830–1886) così descriveva il vuoto e la grandezza della vita femminile: “Mi annodo il cappello/ mi aggiusto lo scialle/ i piccoli doveri della vita adempio, proprio come se il più piccolo fosse immenso per me/
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metto nel vaso nuovi fiori, e i vecchi getto via/ scuoto dalla veste un petalo che s’era lì impigliato/ peso il tempo che ci vuole da qui alle sei/ ho tanto da fare”. Sono versi di semplice ma struggente lirismo, con i quali la Dic-
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kinson esprimeva la rassegnazione e il rimpianto per un tempo che
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avrebbe potuto essere speso meglio, invece che passarlo ad annodarsi il cappello, ad aggiustarsi lo scialle e a scuotersi dalle veste i petali.
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Negli Stati Uniti, in quegli anni, le donne parteciparono attiva-
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mente al movimento per l’abolizione della schiavitù negli stati del Sud, ma ben presto si accorsero che le discriminazioni colpivano non soltanto la razza, ma anche il genere femminile. Al congresso antischiavista di Filadelfia alle donne fu concesso il diritto di parlare, ma non di firmare la dichiarazione conclusiva e in quello antischiavista - 63
di Londra, del 1840, le partecipanti furono addirittura escluse dai dibattiti. In segno di protesta, la delegazione americana abbandonò i lavori. Due congressiste, Lucretia Mott ed Elizabeth Stanton, decisero,
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allora, che era giunto il momento di organizzarsi in movimento. Le donne si dovevano preoccupare, oltre che della liberazione dei neri,
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della loro emancipazione.
Il 19 luglio 1848 ebbe luogo a Seneca Falls la prima convenzione del movimento, che costituì il trampolino di lancio della campagna
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per le rivendicazioni femminili, in primo luogo, la richiesta del voto politico. La dichiarazione di Seneca Falls, prendendo spunto dai valori democratici espressi dalla Dichiarazione d’indipendenza ameri-
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cana del 1776, affermava che le donne, come gli uomini, possedevano diritti inalienabili e che la legittimità stessa del governo, poiché si basava sul consenso di tutti i governati, si reggeva, di conseguenza, anche su quello delle donne. A Seneca Falls si posero le premesse per
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la campagna di emancipazione femminile sia in America sia in Europa. In particolare, si reclamava il diritto di godere dell’esercizio del voto politico, disporre dei propri guadagni, possedere proprietà,
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avere libero accesso all’istruzione e alle professioni liberali, poter di-
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vorziare, avere la tutela dei figli. Le rivendicazioni femminili investirono anche il campo della
moda. L’americana Elizabeth Stuart Phelps esortava le donne a libe-
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rarsi di quell’orribile strumento di tortura che era il corsetto, scri-
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vendo: “Fate un falò delle crudeli stecche d’ acciaio che per così tanti anni hanno tiranneggiato sul vostro torace e addome. E tirate un sospiro di sollievo per la vostra emancipazione che, ve lo posso assicurare, inizia da questo momento”. Fu in Inghilterra che la protesta per il riconoscimento del suffra- 64
gio femminile venne condotta in maniera più decisa ed ebbe la più vasta diffusione. Un rilevante contributo alla campagna di sensibilizzazione del-
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l’opinione pubblica per la parità dei diritti tra i sessi, lo diede il filo-
sofo John Stuart Mill con l’opera pubblicata nel 1869 “La soggezione
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delle donne”, tradotta in Italia da Anna Maria Mozzoni. Privo di pregiudizi e sensibile all’idea del progresso democratico, Mill comprese
che la situazione delle donne costituiva la più vistosa anomalia della
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società, che si proclamava “liberale”, ma tale nei fatti non era. L’emancipazione femminile comportava, per Mill, il riconoscimento dei diritti civili e politici e quello delle uguali opportunità d’inseri-
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mento nel mondo del lavoro. Egli fece proprio il principio dell’economista e filosofo Fourier, secondo cui la civiltà di un paese si misura dalla condizione che le donne vi occupano.
Le tesi di Mill erano anche il risultato
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dell’influenza che esercitò su di lui Harriet Taylor, con la quale ebbe una lunga re-
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lazione che si risolse in matrimonio,
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Harriet Taylor
durato solo sette anni per la morte prematura di Harriet. Mill la conobbe nel 1830, epoca in cui la Taylor aveva solo ventitré anni, ma era già sposata da quattro anni, aveva due figli ed era in attesa del terzo. Nell’opera “Autobiografia”, Mill la descrive come una donna eccezio-
nale, intelligente e di sentimenti profondi, che solo la condizione d’inferiorità sociale e culturale delle donne le aveva impedito di realizzarsi in modo adeguato alle sue capacità. Le sue qualità umane - 65
e spirituali ne fecero una compagna ideale, tanto da divenire, per il filosofo, “il principio guida del suo sviluppo intellettuale”, tant’è che, quando Mill pubblicò “La soggezione delle donne”, sua moglie era
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già morta da alcuni anni, ma con quest’opera gli sembrò di portare a termine un impegno comune.
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Dopo il fallimento di varie iniziative parlamentari finalizzate a
concedere il voto alle donne, l’agitazione dei gruppi femministi riprese con più intensità con dimostrazioni, cortei e scioperi della fame.
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Nel 1913 una giovane femminista, Emily Davison, una suffragetta di 35 anni, laureata ad Oxford, nel tentativo di attirare l’attenzione sulle richieste delle donne, volle fare un gesto clamoroso: fermò un cavallo
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in corsa, ma l’animale la travolse, uccidendola. Il suo funerale diede luogo ad un’imponente manifestazione. Tutte le compagne di Emily parteciparono commosse, tranne la loro leader, Emmeline Pankhurst, che era stata arrestata tre giorni prima.
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Emmeline era una donna di straordinaria cultura. Aveva fondato nel 1903 l’associazione WSPU (Women’s Social and Political Union), con la quale intendeva portare avanti le istanze di liberazione e di
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emancipazione delle donne anche con gesti plateali e violenti. La pro-
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testa delle suffragette si risolveva, spesso, nel loro arresto. Ma era proprio questa la strategia della Pankhurst. Le dimostranti non si dovevano ribellare agli arresti, ma si dovevano far vedere dai giornali-
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sti mentre venivano ammanettate e, tradotte in carcere, dovevano
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fare lo sciopero della fame. Per evitare morti imbarazzanti, i direttori dei penitenziari ricorre-
vano, spesso, all’alimentazione forzata, che, però, si rivelava nulla più che un’atroce tortura. Fu lo stesso re Giorgio V a porre fine a tale barbarie. La Pankhurst ottenne, così, ciò che voleva: essere presa sul serio. - 66
Il movimento femminista divenne, in tal modo, un interlocutore con cui i politici dovettero confrontarsi, sia pure per combatterlo. La protesta fu portata in Parlamento, ma il muro di gomma contro il
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voto alle donne continuava a rimanere in piedi. La svolta era, tuttavia, vicina.
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La storia delle suffragette era destinata ad intrecciarsi, infatti, con
quella della prima guerra mondiale. Gli uomini erano al fronte e le donne, sostituendoli nel lavoro in fabbrica e nella gestione e condu-
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zione dei servizi, dimostrarono di saper fare quanto e come gli uomini. Emmeline colse, abilmente, l’occasione per mostrare a tutto il paese il patriottismo delle suffragette, le quali furono invitate a so-
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spendere le azioni delle loro rivendicazioni ed a mettersi a disposizione della patria per la salvezza della libertà. Fu il colpo di genio della Pankhurst.
Il mondo politico inglese fu favorevol-
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mente impressionato dal contributo offerto dalle suffragette allo sforzo bellico.
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Difatti, nel gennaio 1918, finalmente, il
Emmeline Pankhurst
Parlamento inglese concesse a tutte le donne sopra i trent’anni il diritto di eleggere ed essere elette. Poi, nel 1928, anno della morte della Pankhurst, l’età per l’esercizio del voto venne abbassata al ventunesimo anno. Così la scrittrice inglese Virginia Woolf commentò amara-
mente questa conquista: “L’unico grande successo politico [della donna] è costato oltre un secolo di fatiche estenuanti e di umili lavori; l’ha veduta trascinarsi in cortei, lavorare nel chiuso di un ufficio, tenere comizi agli an- 67
goli delle strade; l’ha veduta, quando si è decisa ad usare la forza, trascinata in prigione, dove con ogni probabilità ancora si troverebbe se, abbastanza paradossalmente, l’aiuto prestato ai fratelli nella violenza non le avesse valso
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il diritto a farsi chiamare se non proprio figlia, almeno figliastra del suo paese.[....]”.
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Le suffragette avevano vinto la loro battaglia politica, ma conti-
nuava la lotta per il riconoscimento dell’effettiva parità tra uomo e donna in tutti i settori della vita, che interesserà tutto il Novecento e
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tuttora continua, non essendo stata ancora scritta la parola fine. Basti pensare che gli Stati Uniti, solo nel 1966, hanno abolito i test di cultura e di alfabetizzazione per l’esercizio del voto; che solo nel 1946 il
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diritto di voto alle donne è stato riconosciuto in Francia e in Italia;
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che solo nel 1971 l’ha concesso la civile e democratica Svizzera.
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ESPEDIENTI PER ESALTARE IL PROPRIO TALENTO
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7.1) Si travestivano da uomini Fino a tempi non molto lontani, le
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donne non sono state ritenute soggetti di pensiero, tant’è che, per sfuggire ai rigidi
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condizionamenti di una cultura così di-
scriminante, non poche donne, poi divenute celebri, hanno celato la propria
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femminilità dietro un travestimento maschile per svolgere, in maniera egregia, compiti che la cultura dominante considerava di completo dominio dei maschi.
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George Sand
Donne travestite da marinaio, da soldato, da esploratore hanno, così, dimostrato che il loro genere era in grado di operare, come gli uomini, nei campi più diversi delle attività umane. Ne sono esempi
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importanti George Sand, George Eliot o le artiste italiane del tutto dimenticate del primo Novecento, come Linda Bonaiuti e Deiva De Angelis, che hanno dipinto se stesse in abiti da uomo. Altro esempio
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significativo è rappresentato dalla moglie di Francesco Crispi, la sa-
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voiarda Rose Montmasson, che, per seguire il marito nella spedizione garibaldina nel Sud d’Italia, non esitò a travestirsi da uomo con regolare camicia rossa, unica donna tra 1088 uomini.
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Anche nel campo delle scienze, l’emarginazione socio-culturale
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della donna è testimoniata, in maniera talvolta pittoresca, altre volte drammatica, da donne ostinate che, per intraprendere una professione riservata agli uomini, non hanno esitato a crearsi un’identità maschile. Nel 1767 Jeanne Baret si imbarcò travestita da maschio come assistente del naturalista Philibert Commerson nella spedizione - 71
attorno al mondo guidata da Louis de Bouganville. Nel 1812 Miranda Stuart si laureò in medicina ad Edinburgo e compì un’invidiabile carriera come medico militare sotto le mentite spoglie maschili di James
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Barry. Sophie Germain aveva la passione per la matematica e, per
poter frequentare la “Ecole Politennique”, istituto riservato ai soli uo-
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mini, si appropriò dell’identità di Antoine Le Blanc, uno studente che si era ritirato dagli studi. Uno degli insegnanti, il celebre Louis Lagrange, fu insospettito da alcune originali soluzioni che non pote-
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vano essere certo di mano di Le Blanc. Convocò l’ignoto studente e scoprì che si trattava di una donna. Lagrange fece di tutto per favorire la formazione e le ricerche di Sophie, ma la comunità scientifica come monsier Le Blanc.
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non fu altrettanto incoraggiante, tanto che lei continuò a firmarsi Nel 1892, a seguito dell’emanazione di un apposito decreto imperiale, Maria von Linden poté iscriversi all’università di Tubinga.
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Quando si accorse che tutta la programmazione era in funzione di studenti maschi, adottò un taglio di capelli molto corti, indossò giacca, pantaloni, cappelli e scarpe di tipo maschile. Adottò anche il linguag-
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gio e i modi camerateschi degli studenti. Si laureò ed intraprese con
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successo la carriera universitaria e, pur non essendo stata ammessa, in quanto donna, a sostenere l’esame di libera docenza, divenne nel 1908 la prima professoressa di un’università tedesca. Caso unico fu
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quello di Marie Curie, che riuscì a vincere due premi Nobel in
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un’epoca in cui il mondo scientifico si declinava al maschile. Anche nel campo delle arti le donne hanno subito per secoli
emarginazione e discriminazione. Non libere, quasi sempre represse, dal Rinascimento al XIX secolo, le donne si sono mosse con cautela, quasi timorose di intralciare il percorso artistico dei colleghi maschi. - 72
Talvolta hanno operato nell’ombra di un artista, spesso loro compagno, come Camille Claudel (1864-1943), che, a quindici
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anni, senza aver frequentato alcuna scuola
d’arte, modellò con la creta un Napoleone,
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un Bismarck, un David e un Golia. Molti critici ravvisarono in quelle opere la mano dello scultore Francois-Auguste-René
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Rodin, ma Camille non aveva mai conoCamille Claudel
sciuto Rodin. Lo incontrerà più tardi, ne
diventerà l’amante e lavorerà nel suo atelier. Molti critici furono con-
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cordi nell’affermare che, da quella data, l’opera di Rodin era divenuta”più carnale e più sensuale”. Il maestro non faceva altro che firmare le sculture che Camille realizzava con la sua instancabile energia e con una precisione di cui egli non si sentiva capace.
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Camille non fu la sola a subire umiliazioni di tal genere. A fronte di pochissime artiste, a cui ha arriso accidentalmente la fortuna, ve ne sono state altre, la maggior parte, che sono state ignorate e dimenti-
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cate a dispetto dei meriti e dei valori personali.
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Emerge, quasi costantemente, dallo studio delle artiste del pas-
sato una drammatica ambivalenza. Da un lato, nel tentativo di raggiungere il successo, hanno dovuto rinunciare alla propria essenza
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femminile per identificarsi con modelli maschili, dall’altro, per man-
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tenere intatta la propria femminilità, hanno dovuto accontentarsi di un ruolo assolutamente di secondo piano. Improntati ad un realismo di intensa drammaticità sono i dipinti
di Artemisia Gentileschi (1593-1652). Figlia di uno dei migliori seguaci di Caravaggio, Orazio Gentileschi, nonostante gli oltraggi su- 73
biti in giovane età e la nomea di prostituta costruita surrettiziamente dall’uomo che la violentò, fu una lavoratrice instancabile.
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Ma, guadagnò pochissimo, appena da vivere, tanto che talvolta, per invogliare
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possibili committenti, regalava loro un
suo autoritratto. Inasprita dalle difficoltà così si autodefinì, scrivendo ad un com-
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mittente, “….un animo di Cesare nell’anima Artemisia Gentileschi
di una donna”.
È curioso, tuttavia, osservare che, in molti casi, quando non vi fu-
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rono nell’ambito familiare figure maschili (padri, mariti, fratelli o amanti), la donna artista ebbe una vita creativa più felice, come nel caso delle francesi Susan Valadon (1865–1938) e Rosa Bonheur (1822– 1899), e dell’americana Cecilia Beaux (1855–1942).
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Ancora nella prima metà del Novecento non erano del tutto spente le riserve verso le donne artiste. Nel 1922 il Metropolitan Museum di New York acquistò un dipinto di Jacques-Louis David al
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prezzo di 200 mila dollari, che rappresentava una fanciulla nell’atto
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di disegnare, seduta davanti ad una finestra da cui si vede una coppia in preda a una certa disarmonia. Alcuni studiosi osservarono che il quadro era più ricco di segnali di quanto solitamente non fosse
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l’opera di David. Nacque una contestazione che fu risolta solo nel
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1951, quando il prof. Charles Sterling, storico dell’arte del Metropolitan, sentenziò che il quadro non era un David, ma opera dell’allieva di questi, Costance Marie Carpentier (1767-1849). Sterling non si rallegrò affatto della sua scoperta. Anzi, da quel
momento, decise che il quadro non gli piaceva più, annotando che - 74
“La sua liricità, letteraria più che plastica, le sue evidentissime attrattive e le debolezze abilmente celate, l’insieme creato con mille sottili artifici, tutto rivela uno spirito femminile”.
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Eppure si era in pieno XX Secolo.
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Capitolo 8°
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LE TAPPE DELL’EMANCIPAZIONE FEMMINILE IN ITALIA
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8.1) Le giacobine della Repubblica Napoletana del 1799 Alle 14,30 del 21 gennaio 1799 fu innalzata su Castel Sant’Elmo la
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bandiera gialla, rossa e blu dei rivoluzionari napoletani. Era il se-
gnale che i francesi aspettavano per fare il loro ingresso in città. Na-
Repubblica Napoletana, detta impropriamente
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sceva, così, la
Partenopea, che vide, nel corso della sua breve esistenza, la partecipazione degli spiriti più illuminati della città, uomini e donne uniti
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da un comune ideale.
Ad eccezione di Eleonora Pimentel Fonseca e di Luisa Sanfelice, gli storici non hanno considerato, nella giusta dimensione, la parte-
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cipazione delle donne alla nascita e alla vita della Repubblica, sebbene le stesse avessero svolto un ruolo importante, combattendo con onore e coraggio e pagando persino con la vita il loro eroismo. Si era nel XVIII secolo ed, anche per i rivoluzionari, il ruolo delle donne era
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ancora prevalentemente quello di spose e di madri. A loro, comunque, il Governo repubblicano affidò il compito importante e delicato di educare il popolo alla pratica delle virtù e dei valori democratici.
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Ma le donne non si limitarono solo a questo. Per la prima volta le
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si vide, infatti, frequentare i circoli culturali e politici ed intervenire nelle discussioni riservate, prima, ai soli uomini. Nella circostanza del secondo centenario della proclamazione
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della Repubblica Napoletana, sono stati condotti studi approfonditi
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sulla presenza e la partecipazione femminile all’evento rivoluzionario. Sono, così, salite alla ribalta della storia donne che fino ad allora erano state invisibili, di cui tuttora non si conoscono i nomi, come quelle che si distinsero per il coraggio nella presa della fortezza di Vigliena, come la gran parte delle donne che il 21 gennaio parteci- 79
parono alla conquista di Castel Sant’Elmo o come quelle che la sera del 24 gennaio occuparono la Certosa di S. Martino. Di certo, tra di esse, vi era Eleonora Pimentel Fonseca, l’unica donna a cui il Governo
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repubblicano conferì un incarico prestigioso: la direzione del Monitore Napoletano. Oltre alla Pimentel vi erano anche Margherita FaClarizia e tante altre donne rimaste ignote.
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sulo, la cui casa era un luogo di riunione dei cospiratori, le sorelle Il concorso femminile nei vari momenti della Repubblica fu,
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quindi, rilevante, soprattutto in considerazione della condizione di emarginazione delle donne nella Napoli del ‘700, dove altissimo era il tasso di analfabetismo. Nel momento più difficile della Repubblica,
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esse resistettero alla pari degli uomini.
Alcune furono in prima fila come combattenti, altre organizzarono il servizio di assistenza ai feriti, ricavando bende dai loro corredi di spose. Altre furono strappate con la forza dalle loro case, violen-
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tate e poi gettate in carcere, non solo a Napoli, ma ovunque passasse l’esercito sanfedista del cardinale Ruffo. Atroce fu, per esempio, la sorte di Maria Francesca Alcubierre che, finita in carcere, pur essendo
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incinta, partorì dietro le sbarre una bambina, che, come si disse, fu
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uccisa dai seviziatori borbonici. Di tante altre sconosciute sappiamo solo che, prima di essere assassinate, subirono violenze di ogni sorta.
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8.1a) Donne giustiziate
- Eleonora de Fonseca Pimentel costituisce una figura di primo piano nella breve stagione della Repubblica Napoletana del 1799. Gli studi che sono stati condotti su di lei ci restituiscono la complessità e la grandezza di questa donna, che molti
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storici annoverano tra i protagonisti del Risorgimento nazionale. Jessie White Mario, giornalista inglese ed ardente garibaldina, moglie del patriota Alberto Mario, in uno scritto sullo “stato delle opere pie”, collocava la Pimentel in una sorta di genealogia femminile che arrivava fino ad Adelaide Cairoli, con l’intento di richiamare le italiane ad una ripresa dell’azione patriottica e all’impegno sociale. Non solo. Eleonora fu anche celebrata dal successivo movimento di emancipazione femminile. Nata nel 1752 a Roma, dai portoghesi Clemente e Caterina Lopez, Eleonora de Fonseca Pimentel dimostrò, sin da bambina, grande intelligenza e propensione agli studi del greco, del latino, della matematica e della storia naturale. In seguito al peggioramento, nel 1759, dei rapporti diplomatici tra la S. Sede e il Portogallo, per l’espulsione dei gesuiti, ordinata dal primo ministro Sebastiano Pombal, la famiglia Pimentel de Fonseca, nel 1760, si trasferì a Napoli, ove non mancavano gli stimoli all’approfondimento culturale e al dibattito politico favoriti dalla stagione riformatrice di Bernardo Tanucci, che legò il suo nome soprattutto alla lotta anticuriale. A sedici anni, grazie alla sua produzione poetica, delicata e ricca di pathos, Eleonora fu chiamata nell’accademia dei Filaleti e successivamente in quella dell’Arcadia. Nel 1776 fu nominata bibliotecaria della regina Maria Carolina d’Asburgo e, in - 81
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questa posizione prestigiosa, ebbe la possibilità di frequentare importanti esponenti dell’Illuminismo, avviando, addirittura, un rapporto epistolare con Voltaire. Il fallimento del suo matrimonio, che era stato deciso dal padre per motivi economici, non ne fiaccarono lo spirito di conoscenza e la volontà di scrivere, tanto da ottenere un sussidio mensile dalla corte per i suoi meriti letterari. Nel ’90 tradusse dal latino l’importante opera del Caravita “Niun diritto compete al Sommo Pontefice sul Regno di Napoli”, che costituì una potente denuncia dei rapporti di vassallaggio feudale del Regno di Napoli verso il Papato. Intanto le idee della rivoluzione francese giungevano a Napoli. Eleonora aderì con entusiasmo alle novità che provenivano dalla Francia. Per questo fu licenziata dalla sua funzione di bibliotecaria. Accusata di promuovere riunioni di sediziosi, nel 1798 fu imprigionata. In carcere scrisse un “Inno alla libertà” , che, successivamente, fu recitato al momento della proclamazione della Repubblica Napoletana. Nel gennaio 1799, prima dell’arrivo delle truppe francesi, guidò un gruppo di donne che, travestite da uomini, conquistarono il Forte S. Elmo. Le fu affidato dal Governo repubblicano il compito di dirigere il "Monitore napoletano", organo della Repubblica, di cui rimase direttrice fino alla fine. Il giornale costituì un documento di elevato spessore morale, ma, forse, un po’ troppo utopistico nelle finalità per i tempi. Con il suo giornale Eleonora intendeva conquistare il popolo alla - 82
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causa progressista, in adesione alle nuove idee provenienti dalla Francia, che avevano già infiammato gli animi di non pochi aristocratici e borghesi, convinti assertori dell’uguaglianza dei diritti dei cittadini e della necessità di educare la plebe per migliorarne le condizioni. Con la restaurazione borbonica fu nuovamente incarcerata, prima nelle prigioni della Vicaria e poi in quelle del Carmine, dove patì la fame, la sporcizia e l'isolamento. Processata, fu accusata di tradimento, insieme ad illustri personaggi (Gennaro Serra, Giuliano Colonna e il principe di Torella) e condannata a morte tramite impiccagione. Le testimonianze raccontano che, perfino nel supplizio, proprio perché donna, le si vollero imporre condizioni particolarmente vergognose. Eleonora, appellandosi ai suoi nobili natali, aveva chiesto di essere decapitata anziché impiccata, ma questo privilegio non le fu accordato, perché non ritenuta di nobiltà napoletana. Le fu pure negata la cordicella con la quale avrebbe voluto legare l'orlo della sua veste, affinché non le si aprisse quando il suo corpo avrebbe penzolato dalla forca. Il 20 agosto del 1799 fu condotta al patibolo in piazza Mercato tra la folla sghignazzante. Il boia Tommaso Paradiso che aveva appena mozzato le teste di Gennaro Serra e di Giuliano Colonna, esitò di fronte alla fiera Eleonora, ma la nobildonna gli offrì il collo senza esitare, citando, come riporta Vincenzo Cuoco, le parole con le quali Enea nelle avversità incoraggiava i compagni: “Forsan et haec olim meminisse iuvabit “. Per un giorno intero il suo corpo rimase penzoloni in piazza - 83
Mercato, poi fu sepolto nella chiesa di Santa Maria di Costantinopoli.
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- Luisa Fortunata de Molina Sanfelice
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Luisa Fortunata de Molina Sanfelice era figlia di un generale borbonico di origine spagnola, don Pedro de Molino e di Camilla Salinero. A diciassette anni sposò suo cugino, il nobile napoletano Andrea Sanfelice. Il matrimonio le conferì anche il titolo di duchessa, perché il marito era duca di Agropoli e Lauriano (oggi Laureana Cilento). Il suo rapporto d'amore con Andrea fu, tuttavia, molto irrequieto e dissoluto. La triste storia della Sanfelice è strettamente racchiusa nella vicenda della congiura guidata da una famiglia di banchieri, i Baker o Baccher, di origine svizzera contro la Repubblica. Gerardo Baccher, ufficiale dell'esercito regio, perdutamente innamorato della Sanfelice, seppure non ricambiato, tentò di proteggerla dalle conseguenze della congiura, consegnandole un salvacondotto. Luisa svelò il complotto al suo amante del momento, Ferdinando Ferri, il quale denunciò la trama. I congiurati furono arrestati e condannati a morte, mentre la Repubblica si avviava alla fine. I Baccher furono fucilati, inutilmente e in gran fretta, nel cortile di Castel Nuovo il 13 - 84
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giugno 1799, ossia il giorno stesso della capitolazione della Repubblica di fronte all'armata sanfedista del cardinale Fabrizio Ruffo. Ferdinando IV non perdonò la Sanfelice di aver collaborato con i repubblicani, svelando la congiura. Tornato al potere, la fece condannare a morte. L'esecuzione della sentenza fu rimandata più volte, perché Luisa si dichiarò incinta. La gravidanza fu confermata da due medici compiacenti. La Sanfelice era giovane e bella, il suo caso impietosì anche molti accesi nemici della rivoluzione. Allora il re, sempre più infastidito dalle proporzioni che prendeva il caso, dispose il trasferimento della Sanfelice a Palermo, dove una commissione medica escluse la gravidanza. Luisa Sanfelice fu giustiziata pochi giorni dopo, l'11 settembre 1800, tra la commiserazione generale.
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- Altre donne giustiziate
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Moltre altre furono le donne vittime della reazione sanfedista, di cui si ignora quasi tutto. Si hanno notizie più precise: di Chiara Barone e due sue compagne, trucidate ad Altamura (Bari) tra il 9 e il 10 maggio 1799; della signora Berlingieri, assassinata ad Ascoli Satriano (FG) il 3 maggio 1799; di Eleonora Busico, uccisa il 12 febbraio 1799 nell’eccidio di Casoli (CH) dai realisti in tumulto; di Francesca De Carolis, moglie del sindaco di Tito (PZ) Scipione Cafarelli, giustiziata per essersi rifiutata di fornire notizie sui suoi familiari. - 85
8.2) Le eroine del Risorgimento Quando pensiamo alle donne protagoniste del Risorgimento, l’im-
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magine che subito ci sovviene alla mente è quella di Adelaide Cairoli, la “mater dolorosa” che offre in sacrificio per la patria i propri figli.
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Adelaide Cairoli è, però, un’icona che, se per un verso costituisce la privazione più grave che una madre possa sostenere, dall’altro testimonia il ruolo marginale della donna nella società civile, in cui, anche
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negli anni successivi alla conclusione del processo di unificazione nazionale, essa fu relegata. Un ruolo, assolutamente irrilevante, che si materializzava nell’esclusione del genere femminile dai diritti civili
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e politici, esclusione sancita, peraltro, dal “Codice Civile Pisanelli” del 1865.
Eppure non erano state poche le donne che, nel corso del Risorgimento, avevano contribuito alla costruzione dello Stato unitario.
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Molte, per lo più appartenenti alla borghesia colta e progressista, si impegnarono, rischiando finanche la vita, nell’attività cospirativa della Carboneria e della Giovane Italia. Le sottoscrizioni per le rac-
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colte di fondi, le veicolazione di messaggi, che più facilmente pote-
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vano essere celati sotto le vesti femminili, furono i campi di azione in cui esse si cimentarono con successo. Sostanziale fu anche il ruolo che esse svolsero nei cosiddetti salotti, ove, sotto l’apparenza di con-
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versazioni letterarie e culturali, si organizzavano azioni di propa-
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ganda e proselitismo. Ciò malgrado, per troppo tempo, il contributo dato dalle donne
italiane all’unità della Nazione e alla sua crescita culturale, politica e sociale, è stato sepolto sotto una coltre di silenzio. È occorso, infatti, più di un secolo, affinché gli storici incominciassero a mettere in evi-
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denza la valenza sociale, culturale ed etica della partecipazione femminile al processo risorgimentale. Il 21 ottobre 1866, nello stesso giorno della celebrazione del ple-
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biscito per l’annessione del Veneto al Regno d’Italia, un’emblematica
manifestazione ebbe luogo a Venezia. Una folla enorme di donne,
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sventolando un mare di fazzoletti bianchi, inscenò un’appassionata protesta. In questo modo le Veneziane, per un verso vollero esprimere la loro gioia per la realizzazione dell’agognata annessione alla
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Patria italiana, dall’altro intesero manifestare l’amarezza e la delusione per il mancato riconoscimento alle donne dei diritti civili e politici da parte del nuovo Stato italiano, che aveva codificato il loro zione suffragista in Italia.
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essere “cittadine senza cittadinanza”. Fu questa la prima manifestaDi alcune famose figure femminili, la cui vita si è intrecciata con il processo risorgimentale, è stato scritto, anche in forma romanzata,
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ma poco si è detto sulle tantissime donne, per lo più dimenticate dalla storia, che, anche in chiave di assoluta e spoglia quotidianità, hanno contribuito, non poco, alla conclusione positiva del processo
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unitario.
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Narrare, sia pure in sintesi, l’apporto di tutte queste donne, fa-
mose e non, significa andare ben al di là dei limiti di spazio di questa trattazione. Ragion per cui, di alcune, le più famose, ne tracciamo
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brevemente la storia, di altre, pur meritevoli di ben diversa conside-
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razione, ne ricordiamo doverosamente soltanto il nome : Nina Schiaffino Giustiniani, Teresa Casati Confalonieri, Teresa Agazzini, Amalia Cobianchi, Camilla Fé, Maria Gambarana Frecavalli, Olimpia Rossi Savio, Bianca De Simoni Rebizzo, Clelia Piermarini, Bianca Milesi, Giuditta Sidoli, Enrichetta Di Lorenzo, Giulia Calame, Giulia di Barolo, Ernesta Bisi, - 87
Jessie White Mario, Margaret Fuller Ossoli, Costanza d'Azeglio, Elena Casati Sacchi, Luisa Solera Mantegazza, Emilia Peruzzi, Tonina Masanello in
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Marinello, Teresa Durazzo Doria.
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8.2a) Le Giardiniere d’Italia
Furono la versione femminile della “Carboneria”. Le prime notizie certe dell’esistenza di questa società segreta femminile risalgono
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ai moti rivoluzionari del 1821. Si chiamarono “Giardiniere” per l’abitudine delle affiliate di riunirsi nei giardini, tra le aiuole. Erano donne appartenenti prevalentemente alla borghesia, animate da un forte pa-
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triottismo nella lotta contro gli Austriaci. Le Giardiniere erano note, anche, per portare un pugnale infilato nella giarrettiera. Tre erano i gradi di affiliazione a questa società segreta: apprendista, maestra e sublime maestra. Molte di loro subirono l’umiliazione del carcere.
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Tra le Giardiniere più famose ricordiamo: Bianca Milesi Moyon, Maria Gambarana Frecavalli, Matilde Viscontini Dembowski, Teresa Ca-
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sati Confalonieri.
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8.2b) Figure di patriote - Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva, più nota come Anita Garibaldi, [Morrinhos, stato di Santa Caterina, Brasile 1821 circa – Fattoria Guiccioli, Mandriole di Ravenna 1849]. È considerata l’eroina per eccellenza del nostro Risorgimento.
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Anita conobbe Giuseppe Garibaldi quando la “Revolucao Farroupilha” (letteralmente rivoluzione degli straccioni), che mirava all’indipendenza dal Brasile del “Rio Grande do Sul”, giunse nella città
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di Laguna nello stato di Santa Caterina. A quattordici anni era andata in sposa ad un calzolaio di Laguna, tale Manuel Duarte de
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Aguiar, parecchio più anziano di lei. Il matrimonio non fu un’unione
felice. Allo scoppio della rivoluzione , Manuel Duarte si arruolò tra gli imperiali e, all’arrivo delle truppe rivoluzionarie, abbandonò La-
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guna con i soldati in ritirata. La moglie non lo seguì, diversamente da come facevano le donne brasiliane e da come avrebbe fatto lei con Garibaldi, il quale racconta che la vide, per la prima volta, col can-
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nocchiale dal cassero della sua nave, all’ancora nel porto di Laguna. Fu un colpo di fulmine. L’eroe scese a terra in cerca di lei e, al primo incontro, subito le disse “Tu devi essere mia”. Lei riconobbe nel pretendente l’invincibile italiano che tutti ammiravano. Ne fu af-
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fascinata e, senza indugi, decise di seguirlo. Numerosi furono gli atti di coraggio e di eroismo, di cui Anita diede prova a fianco di Garibaldi. Ne ricordiamo solo alcuni.
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Imbarcata con Garibaldi sul “Rio Pardo” per le scorrerie corsare,
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fu lei a sparare la prima cannonata contro la preponderante flotta nemica nella sfortunata difesa di Laguna. Fu sempre lei che, sprezzante del pericolo, oltrepassò, non vista, le linee nemiche per andare a chie-
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dere al generale in capo Cannabarro l’invio di rinforzi, e fu sempre
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lei che tornò indietro per portare la notizia negativa al suo capitano. Nella battaglia di Forquillas, Anita, che stava a guardia del deposito di munizioni, fu catturata dagli imperiali, nonostante un’accanita resistenza. Ma, nella notte, si impadronì di un cavallo e dopo quattro giorni di dura marcia raggiunse i suoi. - 89
Divenne, ben presto, una leggenda. A soli 12 giorni dal suo primo parto, per evitare di essere catturata, fuggì a cavallo col bambino (Menotti) sul davanti della sella per raggiungere Garibaldi, vagando per
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quattro giorni al freddo e alla pioggia. Seguì, quindi, il marito, con in
braccio il bambino, nelle tappe forzate per sfuggire agli imperiali.
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Ormai la causa del Rio Grande era persa.
Garibaldi e Anita presero congedo da quella guerra e si trasferirono a Montevideo, in Uruguay, dove rimasero sette anni. Nel 1842
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si sposarono nella parrocchia di San Bernardino. Negli anni successivi nacquero i figli Rosita (1843) che morì a soli 2 anni, Teresita (1845) e Ricciotti (1847). Ma in Uruguay soffiavano venti di guerra insurre-
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zionale, questa volta contro l’Argentina. Garibaldi, nominato colonnello dell’esercito e comandante della flotta uruguayana, condusse diverse battaglie, alla testa della sua Legione italiana, con alterne vicende, fra le quali rimane famosa la battaglia di San Antonio del Salto
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(febbraio 1840) dove con soli 190 uomini sconfisse 1.500 avversari. Ad essa partecipò come infermiera sul campo, la stessa Anita. Nel dicembre 1847, insieme ai suoi figli Menotti, Teresita e Ric-
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ciotti, Anita raggiunse a Nizza la madre di Garibaldi. Il marito la
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seguì dopo alcuni mesi con sessanta legionari, portando con sé l’urna contenente i resti mortali di Rosita. Nel 1849, Garibaldi fu chiamato a Roma, dove era stata instaurata
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la Repubblica. Ma le cose, a Roma, presto si complicarono. Solleci-
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tati dal Papa, intervennero i francesi, comandati dal generale Oudinot, che il 30 aprile 1849 sferrarono l’attacco decisivo verso il Gianicolo. Erano più di 30mila uomini muniti di numerose artiglierie. La lotta fu dura, feroce, spietata, impari. Fu in questa situazione di estremo caos, con i francesi che bom-
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bardavano la città, che Garibaldi fu, di nuovo, raggiunto da Anita. A nulla valsero le insistenze del marito, affinché si mettesse in salvo, perché Roma stava per essere presa dai Francesi. Lei, ostinatamente,
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volle stare accanto al suo uomo, per seguirne le sorti. Eccola, come ai
bei tempi, cavalcare al fianco del suo Josè. Eccola, con l’abituale fie-
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rezza di amazzone, gridare il suo disprezzo ai legionari che sbanda-
vano per l’attacco degli austriaci alle porte di San Marino, guidandoli, così, a rompere l’accerchiamento.
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Ma, Anita, per di più incinta, soffriva terribilmente gli infiniti disagi di quell’ affannosa fuga. Fu colpita da una forte febbre, che la fece deperire ed indebolire rapidamente. Non riuscì a riprendersi, il
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4 agosto 1849 la morte la colse in una misera capanna nei pressi di Ravenna. Molto si è chiosato sulla morte di Anita, ma questa è un’altra storia.
- Antonietta De Pace [Gallipoli (LE)
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1818 – Napoli 1893]. Nobildonna d’origine spagnola, singo-
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lare e indomita figura femminile che, nella vicenda risorgimentale, occupa un posto di primo piano. Ancor giovane entrò a far parte della Giovine Italia. Trasferitasi a Napoli presso la sorella Rosa, entrò in contatto con i
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mazziniani della città. Fondò nel 1849 un circolo femminile, composto, prevalentemente,
di donne di estrazione nobile o alto borghese, i cui parenti si trovavano nelle carceri borboniche. Compito di queste donne era quello di far pervenire ai carcerati viveri, lettere ed informazioni politiche. An- 91
tonietta, fingendo un prossimo matrimonio con un recluso, tale Aniello Ventre, ottenne il permesso di occuparsi della biancheria dei detenuti, consentendo, così, ai patrioti reclusi di comunicare con
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l’esterno.
Ma il gioco fu scoperto dalla polizia borbonica e, il 26 agosto 1855,
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Antonietta fu arrestata. Le accuse di cospirazione erano suffragate
dal fatto che nella sua cella del convento di San Paolo, ove temporaneamente si era trasferita per non compromettere i familiari, erano
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state rinvenute delle lettere, che, nel loro frasario, facevano pensare a documenti politici cifrati, cosa che in effetti era.
Il processo fece molto scalpore, perché l’imputato era una donna
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e, per giunta, appartenente all’alta borghesia. Vi partecipò ad ogni seduta una gran folla, tra cui gli ambasciatori di Gran Bretagna, di Francia e dello Stato Sabaudo. I giudici furono così forzati ad assolvere l’imputata.
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Nell’ottobre del 1858 Antonietta incontrò Beniamino Marciano, un giovane liberale di Striano di origini bergamasche, che più tardi divenne suo marito. Insieme favorirono la spedizione garibaldina
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con raccolte di fondi, armi e adesioni. Quando il 7 settembre Gari-
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baldi entrò trionfalmente a Napoli, aveva al suo fianco Antonietta De Pace, vestita con i colori della bandiera italiana. Nel decennio successivo Antonietta si batté per l’annessione di
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Roma al nuovo Stato. A tal fine fondò a Napoli un comitato di donne
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per Roma capitale. Fu arrestata dalla polizia pontificia mentre, in treno, si recava da Napoli a Firenze per presentare al governo italiano una relazione circa la possibilità di organizzare una spedizione militare di volontari nell’agro romano, guidata da Nicotera. Antonietta fu rilasciata per le proteste del Governo italiano e per la sua - 92
abilità di distruggere le carte compromettenti che portava con sé. Dopo la presa di Roma, il sindaco di Napoli, Paolo Emilio Imbriani, le conferì l’incarico di ispettrice scolastica. A Napoli morì il 3
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aprile 1893.
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- Cristina Trivulzio di Belgioioso [Milano 1808 – Locate di Triulzi (MI) 1871].
Dimostrò fin dall’infanzia una sincera
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passione per la politica.
Cristina, per l’elevatezza del pensiero e per l’influenza che ebbe nella vita cultu-
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rale e politica nei decenni coincidenti con le tappe dell’unificazione del Paese, è tra le figure di maggiore rilievo del pantheon del Risorgimento. In contatto con la Carboneria, partecipò a molte
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cospirazioni. Scoperta, fu costretta a fuggire e a riparare in Francia, ove si diede al giornalismo ed intrattenne fitte relazioni con personaggi di prestigio della cultura e della politica. Tornata in Italia nel
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1840, si stabilì a Locate di Triulzi (MI), ove prese diretta conoscenza
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della miseria dei contadini. Maturò, allora, in lei, influenzata dalle teorie utopistiche di Saint-
Simon e Fourier, l’idea di dedicarsi a migliorare le loro condizioni di
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vita, aprendo asili e scuole per figli e figlie del popolo. I moti del 1848 la sorpresero mentre era a Napoli. Passò subito al-
l’azione. Reclutò duecento volontari; noleggiò a proprie spese un piroscafo e con i suoi volontari raggiunse Genova per proseguire fino a Milano. Al ritorno degli Austriaci fuggì a Roma, ove era stata proclamata - 93
la Repubblica. Insieme ad Enrichetta di Lorenzo, compagna di Carlo Pisacane, organizzò, durante l'assedio della città, l’assistenza ospedaliera ai feriti, creando le infermiere laiche e chiamando a questo
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compito donne nobili, donne borghesi e persino prostitute.
Alla caduta della Repubblica (4 luglio 1849), dopo essersi battuta
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per salvare feriti e prigionieri, fuggì a Malta. Iniziò, così, un viaggio che la portò prima ad Atene e poi in Turchia nei pressi di Ankara.
Qui, sola con la figlia Maria e pochi altri esuli italiani, senza soldi e
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mantenendosi a credito, creò un'azienda agricola.
Nel 1855, grazie ad un’amnistia, tornò a Locate. Morì nel 1871 all’età di 63 anni.
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Cristina accompagnò sempre alla passione politica quella per la scrittura, che si tradusse in una vasta produzione giornalistica e saggistica. Il saggio “Della presente condizione delle donne e del loro avvenire”, pubblicato nel 1866, costituì una tesi lucida e convinta a favore
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della concessione del diritto di voto alle donne, lasciando trasparire amarezza e delusione per la chiusura della classe politica verso le le-
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gittime aspirazioni delle donne.
- Elena Chiara Maria Antonia Carrara Spinelli, detta Clara [Bergamo – Milano 1886]. Sposò a 18 anni il poeta e traduttore Andrea Maffei, che lascò, in seguito, per il patriota Carlo Tenca. Sensibile agli alti ideali ottocenteschi ed al legame tra Romanticismo e Risorgi-
mento, Clara fu l’animatrice di un proprio salotto che, nella Milano - 94
risorgimentale, divenne il luogo privilegiato in cui si incontravano uomini di elevato intelletto, artisti, letterati di grande valore e ferventi patrioti. La conversazione, incentrata su argomenti artistici, let-
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terari e culturali, era sostenuta, infatti, da un sincero sentimento patriottico anti austriaco.
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Il salotto di Clara divenne ben presto una fucina di idee e di amor
patrio, alimentata dalla varietà stessa e dalla complessità delle opinioni a confronto. Uomini famosi, come Alessandro Manzoni, Gio-
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vanni Visconti Venosta, Giuseppe Verdi, Giovanni Prati, Giulio Carcano, Ippolito Nievo e tanti altri furono frequentatori assidui di
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casa Maffei.
- Anna Grassetti Zanardi [Bologna
1815 - Bologna 1896]. Ardente mazziniana, servì come infer-
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miera la causa italiana nella 1a guerra d’indipendenza e nel 1849 nella difesa della
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“Repubblica Romana”. A Roma aveva seguito il marito Carlo Zanardi. Dopo la restaurazione pontificia, Mazzini le diede l’incarico di creare comitati
insurrezionali a Roma e nei centri vicini. Sorvegliata dalla polizia, fu
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arrestata nel 1851 e tradotta nel carcere di Ferrara. I resoconti giornalistici di fine Ottocento la segnalavano, ormai
vedova, in camicia rossa, sempre in testa al gruppo dei reduci garibaldini durante i cortei patriottici.
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- Giuditta Tavani Arquati [Roma 1830 – Roma 1867]. Nel 1867, partecipò al movimento in-
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surrezionale che tentò di liberare Roma
dal dominio papale. Nell’arco di tre
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giorni, dal 23 al 25 ottobre, la città fu tea-
tro di aspri scontri tra insorti e zuavi pontifici. Il primo nei pressi del Campidoglio,
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il secondo a villa Glori, ove morirono i fratelli Cairoli, e l’ultimo a Trastevere nel lanificio Alani, che era diventato il principale deposito di armi degli insorti.
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Giuditta, incinta del quarto figlio, si trovava nel lanificio insieme al marito Francesco Arquati, al figlio dodicenne, Antonio, e a molti altri cospiratori, che stavano preparando l’insurrezione in attesa di Garibaldi, che da Monterotondo avanzava verso Roma. L’arrivo
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degli zuavi pontifici scatenò un aspro combattimento. Dopo una strenua resistenza i patrioti furono sopraffatti e Giuditta, che aveva spronato, aiutato e soccorso i rivoltosi, venne massacrata dopo aver visto
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uccidere il marito e il figlio. - Sara Levi Nathan [Pesaro 1819-Roma 1882]. Fu una fervente patriota e grande amica di Mazzini, che, nel 1872, morì a Pisa proprio in casa della figlia di Sara, Janet. Dopo la morte del marito, Sara svolse un importante ruolo politico nel movi- 96
mento mazziniano. Accusata di cospirazione, prima di essere arrestata, riparò a Lugano. Tornata a Roma, dette vita a numerose iniziative educative, filan-
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tropiche e sociali. Fondò, tra l’altro, nel quartiere di Trastevere, una
scuola intitolata a Mazzini, destinata alle ragazze, e aprì una casa per
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prostitute (l’Unione benefica) con l’intento di prevenire la prostitu-
zione, offrendo a ragazze indigenti o in difficoltà alloggio, mezzi e
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possibilità di lavoro.
- Giorgina Craufurd Saffi [Firenze 1827- Forlì 1911].
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Di famiglia inglese, nel 1857 sposò Au-
relio Saffi, esule italiano a Londra, già triumviro della Repubblica Romana del 1849. Dalle idee di Mazzini, Giorgina
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trasse un profondo interesse per l’educazione delle donne e dei giovani, che, per lei, andavano educati al rispetto dei diritti
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e alla religione dei doveri. Giorgina era convinta che, solo attraverso
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l'emancipazione e la partecipazione alla vita civile e politica, era possibile trasformare i sudditi in cittadini. Inoltre, ebbe anche una chiara visione del ruolo della donna nella
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società. Una visione che aboliva le differenze di genere e prevedeva
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per l’uomo e per la donna l’uguaglianza e la parità dei diritti e dei doveri. Queste considerazioni la portarono ad appoggiare i movimenti emancipazionisti, che, ovunque, in Europa come in America, ancora stentavano a farsi strada.
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- Marianna De Crescenzo detta la Sangiovannara [Napoli 1830]. Appartenne alla schiera di donne che
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imbracciarono il fucile e salirono sulle barricate.
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Nel 1860 Marianna capeggiò la rivolta popolare a sostegno dei garibaldini nel
suo quartiere di Pignasecca, incitando la
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folla a conquistarsi la libertà sparando dalle barricate. La sua ultima apparizione pubblica è del 1861 quando, portata in trionfo dalla folla, guidò un corteo di donne alle
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manifestazioni di giubilo per l’Unità.
Dopo questi avvenimenti nulla si è saputo di lei, ma ne è rimasta la leggenda.
Qualcuno ha ipotizzato che Marianna fosse legata alla camorra,
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essendo la cugina del camorrista Salvatore De Crescenzo. Per altri, ed è la maggioranza, resta solo una delle tante donne dimenticate, che combatterono, al pari degli uomini, per dare un senso ai propri sogni
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di libertà, di uguaglianza e di unità. - Colomba Antonietti [Bastia Umbra (PG) 1826 – Roma 1849]. Dopo il matrimonio con il patriota Luigi Porzi, Colomba seguì nel 1849 il consorte a Roma, per combattere al suo fianco. Si tagliò i capelli e vestì l'uniforme di bersagliere. Partecipò alle battaglie di Velletri e di - 98
Palestrina contro le truppe borboniche, dimostrando coraggio, valore ed intelligenza, tanto da meritarsi l’elogio di Giuseppe Garibaldi. Combatté, poi, a Porta San Pancrazio, dove morì sotto il fuoco del-
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l'artiglieria francese. La tradizione vuole che, morendo tra le braccia del marito, mormorasse: “Viva l’Italia”.
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Fu sepolta nella Chiesa di San Carlo ai Catinari. Nel 1941 le sue spoglie furono traslate nel Mausoleo Ossario Garibaldino sul Giani-
colo, che accoglie i caduti delle battaglie per Roma Capitale e per
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l'Unità d'Italia.
- Rose Montmasson, detta Rosalia
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[Saint-Jorioz 1825 – Roma 1904]. Nativa della Savoia, allora parte del
Regno di Sardegna, fu moglie e compagna di lotta di Francesco Crispi, che Rose co-
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nobbe nel 1849 durante l'esilio piemontese del patriota siciliano, quando lei svolgeva
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le mansioni di lavandaia e stiratrice. Crispi era un giovane rivoluzionario,
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che si era rifugiato in Piemonte dopo il fallimento della rivoluzione indipendentista siciliana del 1848. L’amore fra i due era, però, destinato a morire con l’ascesa politica di Crispi.
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Nel 1853, per la sua attività di propraganda mazziniana, Crispi fu
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esplulso dal Piemonte e riparò a Malta. Rose lo seguì. I due si sposarono e si trasferirono prima a Parigi e, poi, a Londra. La coppia tornò in Italia nel 1859, durante la seconda guerra d'indipendenza. Entrambi parteciparono ai preparativi della spedizione dei Mille. Nel marzo 1860, Rose, a bordo di un vapore postale, raggiunse - 99
Malta per avvertire i rifugiati Italiani dell'imminente spedizione. Sempre con il vapore postale, tornò a Genova, in tempo per unirsi ai Mille, dei quali fu l'unica partecipante femminile. La leggenda vuole
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che si travestisse da militare per imbarcarsi sul "Piemonte", contrav-
venendo all'ordine del marito di restare a Quarto. Nel corso delle
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operazioni militari, Rose si occupò, prevalentemente, della cura dei feriti e dell’organizzazione ospedaliera. I Siciliani la ribattezzarono Rosalia, nome che contrassegnò poi tutta la sua esistenza.
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Dopo l’elezione di Crispi a deputato, Rose venne da questi ripudiata, con il pretesto dell'irregolarità del matrimonio celebrato a Malta. Il motivo del dissidio tra i due, probabilmente, fu il passaggio
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di Crispi dai repubblicani ai monarchici. Fu una scelta che a Rose dovette apparire come un vero e proprio tradimento dei compagni di tante avventure e degli ideali per i quali avevano combattuto. Il 26 gennaio 1878 Crispi prese in moglie Lina Barbagallo. Lo scan-
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dalo portò a un processo per bigamia nel quale lo statista venne assolto. Rosalia rimase a Roma, sopravvivendo con la pensione assegnata ai Mille. Morì in povertà. La sua salma fu tumulata in un
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semplice loculo concesso gratuitamente dal Comune nel cimitero del
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Verano, ove ancora oggi riposa. - Luisa Battistotti [ Stradella (PV) 1824 USA 1876]. È nota come l’eroina delle Cinque Giornate di Milano, ove si era trasferita per sposare un tale Sassi. Il 18 marzo 1848, durante l’insurrezione, le riuscì di strappare le pistole ad - 100
un soldato austriaco e con queste intimò ad altri cinque militari austriaci di arrendersi, consegnandoli, poi, agli insorti. Per tutto il periodo insurrezionale non lasciò mai le armi.
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Nei giorni successivi, la sua popolarità crebbe a tal punto che il
suo ritratto si vendeva per le vie di Milano. Nel 1849 partì per l’Ame-
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rica, dove trascorse gli ultimi anni della sua vita.
- Peppa la cannoniera [Barcellona di
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Gotto (ME) 1826 – Catania 1885].
Il suo vero nome era Giuseppa Bolognara, nota ai Catanesi come “Peppa ‘a
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cannunèra”, una delle più eroiche figure dell'insurrezione antiborbonica del 31 maggio 1860.
In una fase dell’accanito combatti-
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mento tra rivoltosi e soldati borbonici, gli
insorti, tra cui vi era Giuseppa Bolognara, riuscirono a trasportare un cannone alle spalle dei borbonici e a piazzarlo nell’atrio di un pa-
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lazzo. Ad un ordine preciso di Peppa, i rivoltosi spalancarono il por-
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tone e la popolana, accesa la miccia, scaricò una cannonata dietro i nemici, che, colti di sorpresa, si diedero a precipitosa fuga, abbandonando sulla strada un altro cannone. “Prendiamolo”, gridò Peppa,
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ma, per il fuoco nemico, tutti gli sforzi riuscivano vani. Peppa
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aguzzò l'ingegno, prese una lunga e robusta fune, fece un cappio e lo lanciò sul cannone, proprio come fanno i cow boy, per tirarlo a sé, restando al riparo dal fuoco dei soldati. Il tentativo riuscì appieno, suscitando negli insorti un grande entusiasmo. Il prosieguo dell’azione è così narrato dallo storico Vincenzo Fi- 101
nocchiaro: “un gruppo di insorti, con alla testa Giuseppa Bolognara, sboccava in piazza S. Placido dalla cantonata di Casa Mazza, trascinando il cannone guadagnato ai borbonici, per cercare di condurlo
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sul «parterre» e lanciare qualche palla contro la nave di guerra che già bombardava la città, coadiuvata dal fuoco di due mortai posti sui tor-
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roni del Castello Ursino. Appena però quei popolani sboccarono sulla
Via del Corso, videro in fondo a Piazza Duomo due squadroni di lancieri che si apparecchiavano alla carica. Temendo d'essere presi, sca-
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ricarono all'improvviso i loro fucili, abbandonando il cannone già carico; ma Giuseppa Bolognara restò impavida al suo posto e con grande sangue freddo improvvisò uno stratagemma dando nuova
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prova del suo meraviglioso coraggio. Sparse della polvere sulla volata del cannone e attese tranquilla che la cavalleria caricasse; appena gli squadroni si mossero, essa diede fuoco alla polvere ed i cavalieri borbonici credettero che il colpo avesse fatto «cecca» prendendo sol-
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tanto fuoco la polvere del «focone». Si slanciarono perciò alla carica, sicuri di riguadagnare il pezzo perduto, ma, appena avvicinatisi di pochi passi, la coraggiosa donna, che li attendeva a piè fermo, diede
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fuoco alla carica con grave danno degli assalitori, e riuscì a mettersi
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in salvo”.
A Peppa, la Cannoniera fu conferita dal Governo Italiano la me-
daglia d'argento al valore militare e fu assegnata una pensione di 9
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ducati mensili dal Comune di Catania.
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- Jessie White Mario [Gospot, presso Portsmouth (GB) 1832 – Firenze 1906). Jessie, inglese naturalizzata italiana, è
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stata una patriota, una giornalista e una scrittrice.
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Per comprendere la sua grandezza
nella vicenda risorgimentale è significativo quanto disse, nel 1879, Giosuè Car-
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ducci in un discorso, con il quale sferzava l'inoperosità della sinistra italiana verso le classi più deboli: “La democrazia conta un solo scrittore sociale: ed è un inglese, ed è una donna; la
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signora Jessy Mario, che non manca mai dove ci sia da patire o da osare per una nobile causa”. Fu tanta la passione che Jessie profuse nella lotta per la libertà dell’Italia, che fu soprannominata "Miss Uragano" o la “Giovanna d'Arco della causa italiana", come la definì Giuseppe Mazzini.
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L’adesione ai valori e agli ideali del nostro Risorgimento avvenne quando Jessie scelse di venire in Italia come inviata del “Daily News”, il quotidiano inglese di orientamento liberale fondato da
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Charles Dickens. Nel 1855, Jessie accompagnò in Sardegna, come se-
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gretaria e dama di compagnia, Emma Roberts, che aveva una relazione con Garibaldi. Fu così che conobbe Garibaldi, rimanendo estasiata dall’eroe, che le parve coraggioso e saggio, tanto da farle
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dire: “D’ora in poi dedicherò la mia vita a combattere gli oppressori. Con-
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sigliatemi voi il modo per cominciare”. Garibaldi le rispose che sarebbe stata “l’infermiera dei miei legionari nelle prossime battaglie”. Nella primavera del 1855 tornò a Londra nella vana speranza di diventare la prima donna medico dell'Inghilterra. Non ci fu verso, la rifiutarono 14 ospedali londinesi. Alle donne era vietato tutto. Ma Jessie - 103
non si arrese. Studiò e si prestò a lavorare nelle corsie degli ospedali per imparare e fare pratica. Divenne una brava infermiera. A Londra conobbe Giuseppe Mazzini, da lei definito “Il Cristo del secolo”, du-
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rante un interrogatorio di polizia.
Tornata in Italia, fu l’esecutrice testamentaria di Carlo Pisacane,
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che proprio a Jessie, alla vigilia della spedizione di Sapri, aveva lasciato il suo testamento politico.
Il 4 luglio 1857 fu arrestata per aver partecipato al mancato tenta-
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tivo insurrezionale di Genova, legato a quello di Pisacane. Nello stesso giorno fu arrestato anche il patriota e giornalista Alberto venne suo sposo.
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Mario. Fu così che Jessie conobbe colui che, l’11 dicembre 1857, diNel 1860, Jessie partecipò come infermiera alla spedizione dei Mille; fu ancora al fianco di Garibaldi quando gli estrassero la pallottola che l’aveva colpito sull’Aspromonte, occupandosi della rudi-
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mentale anestesia; fu ancora lei che organizzò, come corrispondente per l’Italia del “Morning Star”, la trionfale trasferta dell’eroe in Inghilterra. Partecipò alla terza guerra di indipendenza come infer-
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miera del corpo di sanità garibaldino; fu di nuovo con Garibaldi nella
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campagna per liberare Roma nel 1867 ed in quella del 1871 in aiuto dei Francesi nella guerra franco-prussiana. Il 2 giugno 1882 morì Garibaldi. Un anno dopo, lo stesso giorno,
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morì anche Alberto Mario. Jessie continuò l'attività giornalistica, scri-
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vendo per giornali italiani, inglesi e statunitensi. Scrisse le biografie di Garibaldi, Mazzini, Bertani, Cattaneo, Nicotera. Scrisse, altresì, saggi su problemi sociali, quali la pellagra nelle campagne, le condizioni dei poveri di Napoli e lo stato di salute dei minatori nelle solfatare siciliane. - 104
Morì il 5 marzo 1906 a Firenze. Le sue ceneri furono tumulate nel cimitero di Lendinara accanto a quelle di Alberto Mario. Postumo, nel 1909, fu pubblicato il libro “The birth of modern Italy”, che forse,
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oltre a una maggiore fama, le avrebbe regalato, da viva, un po’ di be-
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nessere economico. 8.3) Dall’Ottocento al fascismo
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Tra le donne che in Italia, nel corso dell’Ottocento, sostennero una dura battaglia per l’approvazione, da parte del Parla-
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mento, di una legislazione più avanzata e più favorevole per il genere femminile, spicca la figura di Anna Maria Mozzoni. La Mozzoni era una pensatrice origi-
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nale, culturalmente influenzata dai grandi
Anna Maria Mozzoni
filosofi europei ed attenta a seguire in ogni angolo del mondo l’evolversi della
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condizione femminile.
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Nella sua opera del 1864 “La donna e i suoi rapporti sociali” criti-
cava l’opinione, allora prevalente, della “missione” della donna nella famiglia. Per la Mozzoni, la famiglia non era un’istituzione naturale
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immodificabile, ma un prodotto della storia, un’istituzione che si era
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sedimentata nel corsi dei secoli su rapporti di comando ed obbedienza. Al suo interno si doveva, invece, praticare l’eguaglianza dei diritti tra i coniugi. Di pari passo, le istituzioni dovevano promuovere, tramite l’istruzione, l’accesso delle donne a tutte le professioni. Nel 1876 con l’avvento della sinistra al potere si incominciò a par- 105
lare dell’opportunità di ampliare le basi dello Stato, estendendo il diritto di voto a cittadini fino ad allora esclusi dall’esercizio di tale diritto. La Mozzoni si inserì nel dibattito, chiedendo, con ogni mezzo,
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il voto politico per le donne, benché fosse consapevole che la sua ri-
chiesta non avesse sostenitori, ma solo avversari, all’interno e al di
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fuori del Parlamento. Persino la sinistra si opponeva al voto femminile, poiché temeva che questa concessione avrebbe favorito le forze cattoliche conservatrici.
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Sulla possibilità di legiferare, in senso favorevole alle donne, ancora pesava l’ipoteca della cultura tradizionale cattolica, nonostante che tra la Chiesa e lo Stato italiano vi fosse una netta e decisa con-
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trapposizione. Finanche il cattolico liberale Vincenzo Gioberti, la cui ipotesi federativa tra gli stati preunitari era, fra tutte, la proposta più concreta, riteneva che “la donna è verso l’uomo ciò che il vegetale è verso l’animale, o la pianta parassita verso quella che si regge e sostenta da sé”.
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Giudizio che non si discostava molto da quello del filosofo Antonio Rosmini, per il quale “la natura della donna .......è di essere completamente subordinata a quella dell’uomo”. Nella seconda metà del secolo, con la
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rivoluzione industriale e, quindi, con la diffusione delle fabbriche si
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verificò un forte incremento della produzione industriale, che, se da un lato aumentò lo squilibrio tra il Nord e il Sud, favorì, dall’altro, il massiccio ingresso delle donne, nonché dei bambini, nel mondo del
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lavoro. L’impiego della manodopera femminile nell’industria ren-
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deva ancora più palese l’ipocrisia e l’astrattezza di certe posizioni, che parlavano di “missione familiare” della donna. In tal senso, se da una parte si impediva alla donna borghese di lavorare, dall’altra si concedeva alla donna operaia un lavoro massacrante in condizioni durissime. - 106
In Italia, l’interprete più sensibile dei problemi della donna lavoratrice fu Anna Kuliscioff, la grande militante socialista,
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compagna di Filippo Turati. Attenta ai
problemi della classe lavoratrice, soleva
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sottolineare che il diritto al lavoro non era
per le donne solo una questione formale, ma una necessità.
Senza questa possibilità le donne
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Anna Kuliscioff
erano, infatti, condannate alla dipendenza economica, alla prostituzione o al matrimonio di convenienza che, spesso, si traduceva in
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una forma autorizzata e voluta di parassitismo morale e fisico. Più tardi, discutendo sulle leggi di tutela del lavoro femminile, la Kuliscioff entrò in vivace polemica con la stessa Anna Maria Mozzoni, la quale temeva che, a forza di essere tutelato, il lavoro femminile ve-
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nisse del tutto soppresso.
Ma, nonostante le grandi energie spese e le numerose iniziative realizzate per la concessione del voto alle donne, la campagna di
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emancipazione non conseguì nessun risultato. Le suffragette, non
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comprese dalle altre donne, derise dalla borghesia conservatrice, giudicate borghesi dai socialisti e rivoluzionarie dai cattolici, rimasero politicamente isolate.
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Finanche Filippo Turati, leader del Partito Socialista, si espresse
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contro la concessione del voto alle donne, sostenendo che "la pigra coscienza politica e di classe delle masse proletarie femminili" avrebbe finito col rafforzare le forze conservatrici. Giolitti, dopo aver detto alla Camera che concedere i diritti politici alle donne significava fare “un salto nel buio”, estese, nel 1912, il suffragio a tutti i maschi, persino - 107
agli analfabeti, escludendo le donne, i condannati e i dementi. Questa sconfitta pesò duramente sullo sviluppo successivo del movimento femminile italiano, facendo calare un pesante sipario,
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una vera cortina di ferro su mezzo secolo di lotte e di discussioni. Nel primo dopoguerra chi, fra i politici dell’epoca, si rese convinto e
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deciso interprete delle richieste delle suffragette fu don Luigi Sturzo, fondatore e primo segretario del Partito Popolare Italiano, il quale inserì tra i punti programmatici della nuova formazione politica la
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concessione alle donne del diritto di voto: "Noi che abbiamo nel nostro programma cristiano l’integrità e lo sviluppo dell’istituto familiare, sentiamo che a questo programma non si oppone, in alcun modo, la riforma del
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suffragio alla donna”. Il 6 settembre 1919 la Camera approvò la legge sul suffragio femminile con 174 voti favorevoli e 55 contrari, ma la stessa non trovò applicazione perché, prima che anche il Senato potesse ratificarla, vennero convocate le elezioni.
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Il fascismo, in un primo tempo, parve venire incontro alle richieste di concessione di voto alle donne con una serie di norme che prevedevano la partecipazione femminile alle elezioni amministrative.
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Ma, nel 1926, con l’abolizione degli organismi rappresentativi locali
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chiuse ogni discussione sui diritti politici non solo per le donne, ma anche per gli uomini. Il fascismo andò ben oltre, perché, eticamente, si preoccupò di re-
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stituire la donna alla sua “missione procreatrice e domestica”. Così
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recitava, nel 1939, un articolo a firma Ellevì sulla rivista “Gerarchia”, testata ufficiale del regime, diretta da Margherita Sarfatti, amante e biografa di Mussolini: “E poiché la donna intellettuale è il volto femminino della vanità borghese, e quella professionista e addottorata è l’ideale borghese dell’ambizione democratica, la nostra Rivoluzione vuol sostituirvi - 108
un modello muliebre più fecondo e più sano. Vi sono ancora dei gusti traviati e degli atteggiamenti artificiosi da correggere. La donna intellettuale, che saldezza dell’istituto familiare e al potenziamento della razza”.
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l’aurea mediocritas ancor predilige, è una fra le figure meno necessarie alla In pratica, con il fascismo le donne furono spinte sempre più den-
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tro le mura domestiche, secondo lo slogan: "la maternità sta alla donna come la guerra sta all’uomo", scritto sui quaderni delle “Piccole Italiane”. I salari delle donne vennero fissati per legge alla metà di quelli
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degli uomini e la presenza femminile nel pubblico impiego fu limitata in genere al 10%.
Fu inasprito il Codice di famiglia, che pose le mogli in uno stato
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di totale soggezione al marito. Per esempio, sul piano economico tali inasprimenti stabilivano che tutti i beni appartenessero al marito e, in caso di morte del medesimo, venissero ereditati dai figli, mentre alla moglie sarebbe spettato solo l’usufrutto. Il fascismo varò anche
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un nuovo Codice Penale, il quale, oltre a confermare tutte le norme contrarie alle donne, aggiunse il famigerato art. 587, riferito al cosiddetto “delitto d’onore”, che prevedeva la riduzione di un terzo della
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pena per chiunque avesse commesso un omicidio per difendere
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l’onore suo o della famiglia.
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8.4) Le donne della Resistenza La prima guerra mondiale ha rappresentato un evento eccezio-
nale per le rivendicazioni femminili. Le donne, infatti, contribuirono allo sforzo bellico con la partecipazione massiccia al “fronte interno”, sostituendo, egregiamente, gli uomini impegnati in guerra, in lavori che, prima del conflitto, erano di competenza esclusiva dei maschi. - 109
Ma è stato nella seconda guerra mondiale, in particolare nella fase dell’occupazione nazista, che le donne diedero prova di coraggio, sacrificio ed abnegazione, svolgendo ruoli delicati ed importanti al-
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l’interno del movimento della Resistenza, finanche quello combattente vero e proprio.
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Vasta e varia fu, difatti, l’attività che svolsero. Nelle città e nelle campagne fondarono vere e proprie unità di servizio ospedaliero per
aiutare i feriti e gli ammalati; si impegnarono nella raccolta di fondi,
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indumenti, cibo e medicinali; si occuparono dell'identificazione dei cadaveri e dell'assistenza ai familiari dei caduti; all’interno delle unità combattenti, oltre a cucinare, lavare, cucire e prodigare le prime
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cure ai feriti, diedero un valido contributo politico ed organizzativo e, all'occasione, diventarono combattenti alla pari degli uomini. Particolarmente prezioso fu il contributo fornito dalle cosiddette staffette che, con astuzia, riuscivano ad eludere i posti di blocco nazi-
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fascisti, per portare messaggi e stabilire collegamenti tra le varie unità di combattimento partigiane. Le loro azioni erano soggette a rischio quanto quelle degli uomini e, quando cadevano in mano nemica, su-
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bivano, come gli uomini, le più atroci torture. Il loro apporto alla vit-
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toria finale fu rilevante dai primi momenti della lotta partigiana fino alla completa liberazione del Paese. La gran parte di esse, a liberazione avvenuta, silenziosamente, rientrò nell’anonimato della vita
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quotidiana, mentre altre si dedicarono alla politica. Non è possibile indicare cifre precise sulla dimensione della parteci-
pazione femminile alla lotta partigiana. Stando ai calcoli di esperti militari, si potrebbe affermare che circa 70.000 (20% dei resistenti) furono le donne impegnate nella Resistenza, di cui 35 mila combattenti. Diciannove furono le partigiane decorate con medaglia d’oro al valor militare.
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La Resistenza è stata, nei fatti, un momento fondante dell’ emancipazione femminile in Italia. Essa ha rappresentato il presupposto fondamentale per il pieno riconoscimento dei diritti civili e politici
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delle donne. Significativo della dimensione della partecipazione femminile alla lotta partigiana è il contenuto del messaggio che, nel giu-
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gno del ’44, il Comitato nazionale dei Gruppi di Difesa inviò al
Comando di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia (CLNAI): “All’appello hanno risposto le donne italiane delle fabbriche e delle case, delle
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città e delle campagne riunendosi e lottando. I Gruppi sono sorti e si sono sviluppati nei grandi come nei piccoli centri. A Milano nelle fabbriche si contano ventiquattro Gruppi con circa duemila aderenti; un ugual numero
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esiste a Torino e a Genova. […] Sono sorti gruppi di contadine, di massaie, nelle case e nelle scuole; la loro azione viene coordinata dai Comitati femminili di città e di villaggio, regionali e provinciali, attorno alle direttive indicate dal Comitato nazionale.”
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Il 31 gennaio 1945 il Consiglio dei ministri emanò il decreto, noto più tardi come decreto De Gasperi – Togliatti, con cui veniva riconosciuto il diritto di voto alle donne, che avessero compiuto il ventu-
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nesimo anno di età al 31 dicembre 1944, nonostante i molti dubbi del
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Partito Comunista dettati dalla paura che il voto femminile, specie nelle campagne, potesse favorire i partiti conservatori. L’Italia democratica e repubblicana, finalmente, riconosceva l’ine-
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ludibile ruolo della donna nella società civile. Il 2 giugno del 1946
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ben 12.998.131 donne, su un totale di 14.610.845 di iscritte nelle liste elettorali, si recarono alle urne, ossia il 91,40% del totale delle elettrici.
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8.4a) Partigiane decorate con medaglia d’oro al valor militare
d’oro al valor militare, di cui ben quindici alla memoria:
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Sono state diciannove le donne partigiane decorate con medaglia
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- Irma Bandiera [Bologna 8 aprile 1915 – Bologna 14 agosto 1944].
Di famiglia benestante, si arruolò nella
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Resistenza e divenne staffetta partigiana della “VII brigata GAP Garibaldi” di Bologna col nome di battaglia di Mimma. Fu
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catturata dai fascisti, mentre trasportava armi a Castelmaggiore, base della sua formazione. Fu torturata e, poi, fucilata al Meloncello di Bologna il 14 agosto 1944. Il suo corpo fu esposto dai
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fascisti nei pressi della sua abitazione per un intero giorno, come monito per tutta la popolazione.
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- Ines Bedeschi, nome di battaglia
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"Bruna" [Conselice (RA) 31 agosto 1911 – Riva del Po (TN) 28 marzo 1945]. Dopo l'Armistizio di Cassibile aderì
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alla Resistenza. Nel 1944 entrò a far parte
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del “CUMER” (Comando Unificato Militare Emilia-Romagna) con il ruolo di staffetta. Mancava poco alla liberazione, quando fu catturata dai nazifascisti, che, dopo averla torturata, affinché svelasse i nomi dei compagni di lotta, - 112
ma senza alcun risultato, la fucilarono il 28 marzo 1945. - Gina Borellini [San Possidonio (MO)
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24 ottobre 1924 – Modena 2 febbraio 2007].
Insieme al marito, dopo l'8 settembre
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1943, partecipò attivamente alla Resistenza come staffetta partigiana. Dopo la fucilazione del marito, che era stato cattu"Remo".
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rato dai fascisti, entrò nella Brigata Il 12 aprile 1945, a seguito di uno scon-
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tro a fuoco con i fascisti, venne ferita e perdette una gamba. Nel 1948 fu eletta deputato nelle file del Partito Comunista Italiano. - Livia Bianchi nome di battaglia
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"Franca" [Melara (RO) 19 luglio 1919 – Porlezza (CO) 21 gennaio 1945].
Rimasta sola con un figlio piccolo,
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senza marito, prigioniero degli Alleati,
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e senza lavoro, sul finire del 1942 si trasferì a Torino, ove entrò in contatto con ambienti antifascisti.
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Dopo l’armistizio dell’8 settembre
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1943, si unì alla lotta antifascista, inquadrata con il nome di battaglia "Franca" nella 52ª Brigata Garibaldi "Luigi Clerici". Fu operativa come staffetta porta-ordini e combattente nella regione montuosa del Lago di Lugano. Il 21 gennaio 1945, a seguito di un violento combattimento con- 113
tro le forze nazi-fasciste, fu fatta prigioniera insieme al suo gruppo partigiano. I partigiani che, prima di arrendersi, avevano avuta la promessa di aver salva la vita, furono speditamente con-
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dotti nel locale cimitero, ove furono fucilati.
A Livia fu offerta la grazia e la libertà, in quanto donna, che
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lei, dignitosamente, rifiutò per seguire la sorte dei suoi compagni di lotta.
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- Carla Capponi [Roma 7 dicembre 1918 – Zagarolo (Roma) 24 novembre 2000].
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Studentessa di giurisprudenza, aderì
alla Resistenza subito dopo l'8 settembre 1943, divenendo vicecomandante di una formazione GAP romana. Insieme
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a colui che sarà suo marito, Rosario Bentivegna, partecipò all'attentato di via
Rasella contro un contingente militare tedesco, che costituì il pre-
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testo per la terribile strage delle Fosse Ardeatine.
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Individuata dalla polizia nazista, abbandonò Roma e divenne
vicecomandante di una unità partigiana operante tra Valmontone, Zagarolo e
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Palestrina. È stata parlamentare eletta
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nelle file del PCI. - Cecilia Deganutti [Udine, 26 otto-
bre 1914 – Trieste, 4 aprile 1945]. Durante la guerra fu infermiera della - 114
Croce Rossa Italiana e, come tale, dopo l’armistizio si dedicò all’assistenza dei militari italiani internati in Germania. Rientrata in Italia prese parte alla Resistenza, militando nelle Brigate
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“Osoppo-Friuli”. Eseguì, come staffetta partigiana, rischiosi mis-
sioni informative, soprattutto a Udine e nella Bassa Friulana. Cat-
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turata dai tedeschi, fu trasferita a Trieste, ove, dopo essere stata torturata dalle SS, fu internata nel lager “Risiera di San Sabba”.
Poche settimane prima della liberazione, fu uccisa ed arsa nel
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forno crematorio.
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- Paola Del Din [Pieve di Cadore (BL) 22 agosto 1923] . Subito dopo l’armistizio aderì, con il fratello Renato, medaglia d'oro al valor militare alla memoria, alla Resistenza in Friuli-Venezia Giulia con il nome di battaglia "Renata", arruolandosi nelle file della Brigata “Osoppo”. Partecipò, come staffetta portaordini, a numerose e rischiose azioni. Dopo l'uccisione del fratello da parte dei tedeschi, raggiunse, su incarico della "Osoppo", gli alleati a Firenze per consegnare importanti documenti.
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Frequentò, come volontaria, un corso per paracadutisti e, quindi, si lanciò, fratturandosi una caviglia, in una zona del Friuli per prendere contatto con una missione alleata e con la formazione Osoppo. Riuscì, comunque, ad adempiere ai suoi compiti e a consegnare i documenti che aveva con sé. In seguito, attraversò più volte le linee per stabilire collegamenti tra le varie formazioni partigiane e gli alleati. - 115
Dopo la Liberazione, per aver vinto una borsa di studio, si trasferì negli Stati Uniti, ove all’Università della Pennsylvania conseguì il titolo di "Master of Arts".
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Tornata in Italia, si dedicò all'insegnamento nella scuola pubblica. È stata designata presidente nazionale della Federazione Ita-
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liana Volontari della Libertà, carica che ha lasciato nel giugno 2008.
- Anna Maria Enriques Agnoletti
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[Bologna, 1907 - Sesto Fiorentino (FI) 12 giugno 1944].
Figlia di un docente universitario
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ebreo, trascorse la giovinezza tra Napoli, Sassari e Firenze. Dopo essersi laureata in storia medievale, trovò impiego presso l'Archivio di Stato di Firenze, ma
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fu sollevata dall'incarico dopo la pro-
mulgazione delle famigerate leggi razziali. Fu, quindi, assunta come paleografa nella Biblioteca Vaticana.
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Dopo l'8 settembre, Anna Maria aderì al Movimento Cristiano
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Sociale e fu inviata a Firenze per collaborare con il Partito d'Azione toscano. Entrò a far parte di un'organizzazione di spionaggio (Radio CORA), destinata a raccogliere informazioni da
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trasmettere, via radio, agli Alleati. Fu arrestata, assieme alla madre, il 12 maggio 1944. Dopo es-
sere stata interrogata dagli aguzzini della "banda carità", fu fucilata il successivo 12 giugno insieme al capitano Italo Piccagli (uno dei fondatori di Radio CORA), a quattro paracadutisti alleati e ad un partigiano cecoslovacco, rimasto ignoto. - 116
- Gabriella Degli Esposti [Calcara di Crespellano (BO) 1 agosto 1912 – San Cesario sul Panaro (MO) 17 dicembre
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1944].
Nacque in una famiglia contadina di
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orientamento politico socialista. Dopo l'8 settembre 1943 Gabriella trasformò la propria casa in una base della Resi-
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stenza. Nonostante fosse madre di due bambine piccole e fosse in attesa di un terzo figlio, partecipò ad azioni di sabotaggio e si impegnò anche nell’organizzazione dei
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primi “Gruppi di Difesa della Donna (GGD)”.
Il 13 dicembre 1944, a seguito di un rastrellamento dei tedeschi, Gabriella fu catturata da un gruppo di SS. Benché fosse incinta, venne torturata, affinché rivelasse il nascondiglio del
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marito, partigiano comunista.
Il 17 dicembre, Gabriella e nove suoi compagni di prigionia furono trasportati sul greto del Panaro a San Cesario e giustiziati.
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Prima di essere fucilata, fu anche seviziata. Il suo cadavere fu ri-
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trovato senza occhi, con il ventre squarciato e i seni tagliati. - Norma Pratelli Parenti [Monterotondo Marittimo (GR) 1 giugno 1921 – Massa Marittima (GR) 22 giugno 1944)]. Dopo l’armistizio, partecipò attivamente alla guerra di liberazione nelle file della Resistenza grossetana, “Raggruppamento Amiata” della 23ª Brigata - 117
Garibaldi. Raccolse denaro e materiale di diverso genere per i partigiani; diede ospitalità ai fuggiaschi; ospitò ex prigionieri alleati; procurò armi e munizioni per i partigiani e partecipò di persona
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a varie azioni di guerra.
Fu arrestata, insieme alla madre, la sera del 22 giugno 1944 e
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fu fucilata la sera stessa, dopo essere stata ferocemente seviziata
dai Tedeschi in ritirata. Il suo corpo straziato fu rinvenuto il
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giorno successivo.
- Maria Assunta Lorenzoni detta Tina [Macerata 1918 – Firenze 21 agosto
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1944].
Figlia del professor Giovanni Loren-
zoni, docente a Firenze e segretario generale dell’Istituto internazionale di
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agricoltura, durante la seconda guerra mondiale prestò servizio come crocerossina. Dopo l’armistizio aderì al mo-
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vimento antifascista fiorentino.
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Entrò a far parte della V Brigata “Giustizia e Libertà”, ove si
occupò dei collegamenti con il comando della divisione. Svolse numerose missioni pericolose. Durante la battaglia per la libera-
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zione di Firenze, riuscì, più volte, ad attraversare le linee di com-
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battimento per portare ordini al Comando d’Oltrarno. Catturata da una pattuglia tedesca, venne portata a Villa Ci-
sterna e rinchiusa in una stanzetta per essere interrogata. Rimasta sola tentò di fuggire, ma una raffica di mitra la uccise. Nella stessa mattinata suo padre, che, dopo aver saputo della cattura - 118
di Tina, aveva raggiunto un avamposto degli Alleati per organizzare uno scambio di prigionieri, cadde colpito da una granata
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tedesca. - Ancilla Marighetto [Castello Te-
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sino (TN) 27 gennaio 1927 – Castello Tesino (TN) 19 febbraio 1945].
Era una partigiana della Brigata Ga-
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ribaldi “De Bortoli”, che operava nella zona di Castello Tesino (TN). Aveva solo diciassette anni quando
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nel febbraio 1945, durante un rastrellamento, si trovò isolata in una zona innevata. Spezzato uno sci da una raffica del nemico che l'inseguiva, salì su un albero e da lì sparò fino ad esaurire le mu-
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nizioni. Catturata, fu torturata e, quindi, fucilata. - Clorinda Menguzzato, nome di
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battaglia Veglia, [Castello Tesino (TN)
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15 ottobre 1924 – Pieve Tesino (TN) 11 ottobre 1944].
Staffetta partigiana della divisione
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“Gramsci” operante nel Trentino, parte-
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cipò alla conquista della caserma del Corpo di sicurezza trentino. Quest’azione portò alla cattura di 55 militari fascisti e di alcuni ufficiali tedeschi. Fu catturata l'8 ottobre 1944. Una volta in mano ai nazisti, Veglia fu violentata e fu fatta az- 119
zannare da cani feroci, affinché rivelasse le basi della resistenza, ma sopportò stoicamente la tortura senza tradire i suoi compagni. Fu fucilata.
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Si dice che prima di morire abbia urlato in faccia ai suoi aguz-
zini: "Quando non potrò più sopportare le vostre torture, mi mozzerò la
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lingua pur di non parlare".
- Irma Marchiani [Firenze 6 febbraio
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1911 – Pavullo nel Frignano (MO) 26 novembre 1944].
Staffetta partigiana e
vicecoman-
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dante del battaglione “Matteotti” della “Divisione Garibaldi Modena”, fu catturata dai tedeschi nella battaglia di Montefiorino. Destinata alla deporta-
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zione in Germania, riuscì ad evadere e a
rientrare nei ranghi della Resistenza. Fu nuovamente catturata e,
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quindi, fucilata.
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- Rita Rosani [Trieste 20 novembre
1920 – Verona (Monte Comun) 17 settembre 1944].
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Di famiglia ebrea, pur perseguitata
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non lasciò Trieste. Dopo l'8 settembre decise di entrare nel movimento resistenziale. Prima a Portogruaro e poi a Verona fu attiva nell'organizzazione dei collegamenti tra le varie formazioni partigiane della zona. - 120
Fondò la banda "Aquila" formata, compresa lei, da quattro partigiani, che combatté per mesi in Valpolicella e nella zona di Zevio. Dopo un anno di attività, i partigiani della banda diven-
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nero quindici. Accerchiati, durante un rastrellamento, all'invito dei compagni di fuggire, mentre loro avrebbero creato un diver-
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sivo, Rita rispose: “Vuialtri g'avì voia de scherzare “. Catturata, fu uccisa con un colpo alla testa.
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- Modesta Rossi [Bucine (AR) 1914 – Solaia di Monte San Savino (AR) 26 settembre 1944].
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Madre di cinque figli, dopo l'8 set-
tembre 1943, insieme al marito Dario Polletti, prese parte alla Resistenza nella formazione partigiana “Banda Ren-
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zino”. Il 29 giugno 1944 i tedeschi scatenarono feroci repressioni in quella parte
della provincia di Arezzo dove Modesta abitava.
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Fu catturata durante un'azione di rastrellamento, mentre si tro-
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vava in casa insieme ai figli, il maggiore dei quali aveva sette anni. Rifiutò di dare informazioni ai tedeschi, che cercavano il marito e gli altri partigiani della banda.
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Dopo aver assistito, impotente, all'uccisione del figlio di tre-
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dici mesi, che teneva stretto in braccio, fu assassinata a pugnalate. Il suo corpo, con il bambino ancora al seno, fu poi ritrovato assieme a quelli di altre quattro vittime in una capanna data alle fiamme.
- 121
- Virginia Tonelli [Castelnovo del Friuli (UD) 13 novembre 1903 – Trieste 29 settembre 1944].
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Nata in una famiglia povera, nel
1933 emigrò in Francia, a Tolone. Nel
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1937 sposò Pietro Zampollo, un compagno comunista, che andò a combattere in Spagna nelle “Brigate internazionali”
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per sostenere la Repubblica. A Tolone Virginia ospitò diversi antifascisti, tra i più noti: Giorgio Amendola, Giuseppe Dozza, Giancarlo Pajetta ed Emilio Sereni. Nei
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primi mesi del 1943, con il fascismo ormai in difficoltà, la direzione del partito le ordinò di rientrare a Castelnovo per svolgervi azioni di propaganda e di protesta. In una di queste, il 14 giugno, fu arrestata, ma la caduta del regime la fece tornare in libertà.
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Dopo l'8 settembre, con la costituzione della Repubblica di Salò, Virginia dovette rientrare nella clandestinità, impegnandosi attivamente nella Resistenza con il nome di battaglia di Luisa. Il
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19 settembre 1944 fu arrestata dai fascisti e rinchiusa in carcere,
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dove, per strapparle informazioni, fu torturata per giorni, ma inutilmente. Fu portata nella Risiera di San
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Sabba e arsa viva il 29 settembre 1944. - Vera Vassalle [Viareggio (LU) 21
gennaio 1920 – Cavi di Lavagna (GE) 1985]. Subito dopo l'armistizio entrò nelle
file partigiane. Le fu affidato la missione - 122
di raggiungere gli Alleati nell’Italia già liberata, per chiedere lanci di armi per i partigiani della Versilia. Gli esperti dell’OSS (il servizio segreto statunitense) la addestrarono per un breve periodo.
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Quindi, con il nome di battaglia di "Rosa", ripartì verso la Cor-
sica per proseguire verso la Versilia. Il 18 gennaio 1944 sbarcò da
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un sommergibile presso Orbetello insieme con un radiotelegrafista. Raggiunse Viareggio, ma non riuscì nella sua missione.
Perso il contatto con il telegrafista si spostò a Milano, dove le
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furono consegnati nuovi piani di trasmissione. Insieme al nuovo telegrafista, Robello, inviò agli Alleati oltre trecento messaggi, dai quali derivarono sessantacinque aviolanci di armi e altri riforni-
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menti a brigate partigiane toscane e liguri.
Il 2 luglio 1944, poiché i tedeschi avevano individuato la ricetrasmittente, Vera e Robello, dopo aver distrutto codici, documenti e l'apparecchio radio, si spostarono in Lunigiana, ove si
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aggregarono alla formazione partigiana “Giustizia e Libertà Marcello Garosi”. Da Lucca, con una nuova ricetrasmittente, continuarono la missione fino alla liberazione della zona, avvenuta il
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5 settembre 1944. Richiamata al comando dell'OSS a Siena, Vera
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continuò nell’opera di sostegno alleato ai partigiani italiani. - Iris Versari [Portico di Romagna (FO) 12 dicembre 1922 – Tredozio (FO) 18 agosto 1944]. Per aver ospitato un gruppo partigiano, la sua abitazione fu incendiata. Iris riuscì a scappare, mentre i suoi familiari (il padre, la madre e due dei suoi tre fra- 123
telli) furono arrestati. All'alba del 18 agosto 1944, Vera, Silvio Corbari (suo compagno nella vita), Arturo Spazzoli e Adriano Casadei, truppe nazifasciste a Ca' Cornio, frazione di Tredozio.
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tutti componenti della “Banda Corbari”, furono accerchiati dalle Vera riuscì ad impossessarsi di una pistola di un soldato nazifa-
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scista, con la quale lo uccise. Con la stessa arma si suicidò, per evi-
tare di subire l'umiliazione di essere seviziata ed assassinata. Il suo cadavere fu esposto penzoloni una prima volta sotto i portici di Ca-
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strocaro Terme e successivamente a Forlì in piazza Aurelio Saffi.
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8.5) Le parlamentari della Costituente
La massiccia e significativa parteci-
pazione femminile al movimento della Resistenza costituì il momento nel quale
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le donne conquistarono, sul campo, il diritto di poter partecipare attivamente
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alla vita politica del Paese.
Nilde Jotti
Il Decreto Luogotenenziale n. 23 del 1° febbraio 1945 estese, finalmente, alle donne il diritto di voto, che fu applicato
per la prima volta nella primavera del 1946, in occasione delle
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prime consultazioni amministrative parziali per i consigli comu-
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nali e provinciali. Ma la svolta epocale si era già avuta nell’aprile 1945 con la de-
signazione di quattordici figure prestigiose dell’antifascismo femminile nella Consulta Nazionale che, composta da esponenti dell’antifascismo designati dal CNL, aveva il compito di dare pa- 124
reri sui problemi generali e sui provvedimenti legislativi del governo e di predisporre, altresì, le norme per l’elezione dei deputati all’Assemblea Costituente.
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Cadevano, così, gli ultimi steccati che fino ad allora avevano impedito alle donne di eleggere ed essere elette. Alcune avevano
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militato nella resistenza: dalla comunista Floreanini, alla romana Marisa Musu della sinistra cristiana, dalla vedova di
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Piero Gobetti, Ada Marchesini, alla democristiana Laura Bianchini. Altre veni-
vano dai sindacati prefascisti, come la
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democristiana Angelina Guidi Cingolani, o avevano conosciuto il carcere fascista come Adele Bei.
Angela Guidi Cingolani
Fu proprio alla Consulta Nazionale che si ebbe il primo inter-
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vento di una donna ad una assemblea rappresentativa politica italiana, discorso che tenne Angela Guidi Cingolani, responsabile del Movimento Femminile DC.
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La Cingolani espresse in termini inequivocabili l’insoddisfa-
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zione per i limitati spazi politici concessi alle donne: “Colleghi consultori, nel vostro applauso ravviso un saluto per la donna che per la prima volta parla in quest’aula. Non un applauso dunque per la mia
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persona, ma per me quale rappresentante delle donne italiane che ora, per
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la prima volta, partecipano alla vita politica del Paese. (…) Parole gentili, molte ne abbiamo intese nei nostri riguardi, ma le prove concrete di fiducia in pubblici uffici non sono molte in verità. Qualche assessore (…) una vicesindaco come la nostra di Alessandria e qualche altro incarico assai, assai sporadico: eppure nel campo del lavoro, della previ- 125
denza, della maternità e infanzia, della assistenza in genere e in quella post-bellica in specie, ci sarebbe stato modo di provare la nostra maturità e capacità di realizzatrici”. La Cingolani diceva il vero.
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L’insoddisfazione che ella lamentava è testimoniata, ad esem-
pio, dall’esiguo numero di donne che i tre maggiori partiti - DC,
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PSIUP e PCI - presentarono nelle proprie liste in occasione delle elezioni del 2 giugno 1946: solo 110 donne, pari al 6,5% dei candidati. I numeri assumono un valore ancor più penalizzante se ci ri-
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feriamo alla percentuale delle donne che vennero elette, perché esse rappresentarono soltanto il 4,6% di tutti gli eletti dei tre partiti. E così, una pattuglia di solo ventuno donne (pari al 3,7% dei
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Costituenti) entrò nell’Assemblea Costituente. Esse erano nove comuniste (Adele Bei, Nadia Gallico Spano, Nilde Iotti, Teresa Mattei, Angiola Minella, Rita Montagnana Togliatti, Teresa Noce Longo, Elettra Pollastrini, Maria Maddalena Rossi), nove demo-
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cristiane (Laura Bianchini, Elisabetta Conci, Filomena Delli Castelli, Maria De Unterrichter Jervolino, Maria Federici, Angela Gotelli, Angela Guidi Cingolani, Maria Nicotra, Vittoria Tito-
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manlio), due socialiste (Bianca Bianchi e Angelina Merlin), una
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dell’Uomo Qualunque (Ottavia Penna Buscemi).
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8.5a) La “Commissione dei 75” Nonostante il numero esiguo, le prime parlamentari della sto-
ria d’Italia diedero un contributo significativo alla definizione della Costituzione, specialmente quelle che presero parte ai lavori della “Commissione dei 75”, nominata il 19 luglio 1946. Questa Commissione si divise in 3 sottocommissioni. La prima - 126
interessava i diritti e i doveri dei cittadini, la seconda riguardava l’ordinamento costituzionale, la terza si riferiva ai diritti e doveri economico-sociali.
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Della prima sottocommissione fece parte la comunista Nilde Iotti, della terza la democristiana Maria Federici, la socialista An-
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gelina Merlin e la comunista Teresa Noce. Nessuna donna fece parte della seconda sottocommissione. In seguito venne chiamata a far parte della prima anche la democristiana Angela Gotelli in
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sostituzione della dimissionaria Penna Buscemi.
Pur militando in partiti diversi e, spesso, in conflitto tra loro, le donne costituenti più volte rappresentarono un fronte unitario
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sui temi dell’emancipazione femminile e dei diritti civili in generale. Spesso, infatti, furono chiamate a relazionare e a proporre soluzioni riguardanti delicatissimi argomenti, quali la famiglia o i diritti delle donne sul posto di lavoro, argomenti che ancora oggi
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rappresentano un terreno di confronto ed anche di scontro tra sensibilità diverse della politica italiana.
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8.6) Dalla Costituente ai nostri giorni
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Una nuova storia è iniziata per le donne con la promulgazione della Costituzione repubblicana. Ma, sebbene la stessa garantisca l’uguaglianza formale fra i sessi, ancora oggi non risulta compiutamente attuata e molto lenta ne è stata, fin qui, l’applicazione dei contenuti. Solo nel 1975, per esempio, è stato introdotto nella legislazione italiana il nuovo Diritto di Famiglia che, finalmente, ha sancito la parità legale fra i coniugi ed ha stabilito la possibilità della comunione dei beni. - 127
Solo nel 1976 una donna, la democristiana Tina Anselmi ha assunto la titolarità di un importante dicastero: il lavoro. Solo il 5 agosto 1981 sono state abolite le disposizioni dell’art.
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587 del Codice Penale, che prevedevano la pena, più che mite, da
3 a 6 anni di reclusione per chi avesse commesso un delitto per di-
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fendere l’onore della famiglia, macchiato da violenza esercitata
su una donna della famiglia o da comportamento adulterino della donna medesima.
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Solo il 5 maggio 1981 è stato abolito l’articolo 544 del Codice Penale, relativo al matrimonio riparatore, che annullava gli effetti penali di uno stupro.
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Ma, a tal proposito, già nel 1965, una ragazza di 18 anni di Alcamo (Trapani), aveva avuto il coraggio di spezzare la tradizione del matrimonio riparatore, unico modo, fino ad allora, per il costume siciliano di lavare il “disonore” della perduta illibatezza.
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Vale la pena di ricordare la vicenda per la rinomanza che ebbe in campo nazionale. Il 26 dicembre 1965, Franca Viola fu rapita e violentata da un pretendente respinto, tale Filippo Melodia, spal-
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leggiato nell’atto criminale da 11 complici armati. Liberata dopo
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otto giorni e tornata a casa, Franca si rifiutò di sposare il suo rapitore, costituendosi parte civile nel processo che ne seguì. L’opinione pubblica si divise. Per alcuni Franca era una “svergognata”,
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per altri, invece, era una “eroina”. “Io non sono proprietaria di nes-
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suno, l’onore lo perde chi fa certe cose, non chi le subisce”, affermò in
aula la ragazza. Melodia fu condannato a 11 anni di reclusione e a 13 in appello. A partire dagli anni Ottanta, le conquiste femminili si sono suc-
cedute a ritmo serrato. Secondo dati recenti del CENSIS e di - 128
CONFCOMMERCIO le donne imprenditrici hanno fatto registrare una crescita superiore del 2% rispetto a quella degli imprenditori uomini e, cosa ancor più sorprendente, questa crescita,
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in particolare nel settore terziario, ha assunto valori particolar-
mente significativi nel Sud e nelle Isole. In pratica, oggi, non vi è
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settore professionale in cui la donna non si sia affermata con suc-
cesso, anche se permane, secondo un recente rapporto della UNIONCAMERE, una differenza retributiva a svantaggio delle
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donne che, ad esempio, per le manager delle imprese private è di oltre il 3%.
Negli ultimi decenni la scolarizzazione femminile ha rag-
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giunto livelli elevati. Nella fascia di età compresa dai 20 ai 40 anni, le donne che hanno conseguito un titolo di studio di scuola secondaria di 2° grado sono il 53% del totale dei diplomati contro il 45% degli uomini. Malgrado ciò, la condizione delle donne in Ita-
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lia non è tra le migliori, specie se la raffrontiamo con quella dei paesi progrediti d’Europa.
Secondo dati del “Sole 24 Ore”, il tasso di occupazione fem-
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minile in Italia si attesta al 46,9%, dato che pone il nostro Paese al
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penultimo posto (davanti a Malta) nell’ Unione Europea. Questo dato va, però, esaminato con più attenzione. Se scom-
posto per macroaree geografiche vien fuori che l’Italia del Nord
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si avvicina ai paesi più progrediti di Europa, anzi, talvolta, li su-
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pera addirittura. A far calare sensibilmente l’indice del tasso di occupazione femminile è il Mezzogiorno che, anche in questo campo, registra valori sconfortanti. Tuttavia, ad un’analisi ancor più approfondita, emerge che i dati ufficiali non riflettono la reale situazione del Paese, perché questi non tengono conto del lavoro - 129
nero, molto diffuso e praticato nel Mezzogiorno. Nel concreto, in Italia, anche la condizione femminile soffre delle conseguenze del divario esistente tra il Nord ed il Sud della penisola.
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Una situazione più favorevole alle donne la si riscontra nella
pubblica amministrazione, ove le donne costituiscono i 2/3 dei
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funzionari-quadri, mentre gli impiegati non quadri ed il perso-
nale operativo è composto maggiormente da uomini. Un caso significativo e penalizzante per le donne è dato dalla discrasia nel
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campo dell’istruzione. Nella scuola, comprensiva di tutti gli ordini e gradi, la femminilizzazione ha raggiunto livelli alti, attestandosi intorno all’85% degli operatori scolastici. Ma, a fronte di
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una così elevata presenza femminile, il numero delle dirigenti scolastiche si aggira soltanto intorno al 42%.
In generale, a penalizzare il mondo femminile contribuisce notevolmente la mancanza di servizi per l’infanzia e lo scarso so-
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stegno alle madri che lavorano.
Stante l’attuale situazione, il tratto di strada da percorrere, quindi, per la completa parità tra i generi è ancora piuttosto
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lungo. Non si può, tuttavia, negare che la donna, oggi, gode di
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una ben diversa considerazione rispetto ad un passato non molto lontano. Ciò è testimoniato, anche, dalle svariate sentenze della Magistratura, che tutelano in maniera accentuata la figura della
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donna, quando, per esempio, in materia di procreazione, affer-
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mano il principio della “non bilateralità”, ossia che le decisioni in merito spettano soltanto alla donna. Se poi, spostiamo il discorso ai fallimenti matrimoniali, no-
tiamo che il 71% delle richieste di divorzio, secondo dati recenti, è stato presentato da mogli. In caso di divorzio, l’assegnazione - 130
della casa, ove la famiglia viveva, indipendentemente dalla proprietà, è stata attribuita alle donne nel 57% dei casi e solo nel 21% ai loro ex mariti.
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Le cronache cittadine, spesso, narrano le condizioni estreme e disperate di uomini che vivono in strutture precarie, perché non
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sanno dove alloggiare, e né possono stare vicino ai figli che nella
quasi totalità dei casi vengono sempre affidati alle madri, le quali con mille pretesti, forse per un malinteso senso di giustizia com-
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pensatrice dei torti storicamente subiti dalle donne, di fatto, impediscono ai padri di intrattenersi con i ragazzi, malgrado le diverse disposizioni dei giudici.
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Ma è in politica che la partecipazione femminile procede molto lentamente. Sono poche, infatti, le donne che siedono in Parlamento o che rivestono cariche governative, ma anche se poche le stesse hanno dimostrato di avere capacità di analisi e di pro-
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grammazione non inferiori agli uomini. Ancora nel 2000 la presenza femminile nel Parlamento italiano sfiorava per difetto il 10% del totale dei parlamentari, oggi la percentuale è del 21,3%,
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ben al di sotto, comunque, del 31,6% della Germania, del 32,2%
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dell’Austria, del 35,1% della Spagna, del 34,7% del Belgio, del 36,9% della Danimarca e del 47,3% della Svezia. Tuttavia, siamo in buona compagnia, perché, quantunque sia
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bassa la percentuale di donne elette alla Camera dei deputati,
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l’Italia supera la Francia ed il Regno Unito che si attestano, rispettivamente al 18,5% e al 19,7%. Dove, però, il divario rispetto a Francia ed Inghilterra è sfavorevole all’Italia è nella partecipazione al Governo, ove, per di più, alle poche donne ministro vengono, in genere, attribuiti ministeri secondari, solitamente senza - 131
portafoglio. Nel Parlamento il divario tra uomini e donne risulta ancora più marcato se consideriamo che solo tre su quattordici commissioni della Camera dei deputati sono presiedute da
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donne, al Senato soltanto una. Solo due volte, dalla Costituente ad
oggi, la presidenza della Camera è stata affidata ad una donna: la
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prima a Nilde Jotti, la seconda ad Irene Pivetti. Mai una donna
ha presieduto l’assemblea di Palazzo Madama. Eppure è stato ampiamente dimostrato che un paese cresce se è capace di utiliz-
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zare appieno il capitale umano di cui dispone. Illuminanti sono in tal senso gli studi compiuti da Gary Bacher, premio Nobel per l’economia del 1982. Ciò significa che difficilmente l’Italia potrà
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crescere in base alle sue reali potenzialità, se continuerà a non valorizzare compiutamente, sempre ed ovunque, il genere femminile, che costituisce la metà del capitale umano di cui dispone. Alcuni hanno proposto di adottare la legge francese, che ri-
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duce automaticamente fino al 50% i fondi pubblici destinati ai partiti che non rispettino le pari opportunità. Altri hanno pensato di creare una nuova “authority”, quale garante della parità tra
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uomini e donne nell’accesso ai massimi livelli della pubblica am-
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ministrazione. Si tratta, a nostro avviso, di interventi non risolutivi, perché non incidono in maniera determinate sulle radici del problema, che per noi resta di ordine culturale, riducendosi, pre-
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valentemente, nell’acquisizione da parte delle donne della con-
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sapevolezza del proprio valore. Molte volte, infatti, non sono i politici uomini a discriminare le
donne, ma sono le donne stesse ad estraniarsi dalla politica, pur avendo tutte le qualità per imporsi nelle istituzioni rappresentative. Spesso, esse preferiscono affidarsi alle umilianti e mortifi- 132
canti “quote rosa”, quando la stessa diversità biologica dovrebbe costituire, invece, una ricchezza per tutti, perché consentirebbe di collocare la persona giusta al posto giusto.
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Solo con questa consapevolezza si potrà realizzare la completa parità di genere, il sogno sofferto di Anna Maria Mozzoni, di
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storia dell’emancipazione femminile in Italia.
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Anna Kuliscioff e di tante protagoniste della lunga e tormentata
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RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
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- AA.VV., La vita privata a Firenze nei secoli XIV e XV, Olshki Firenze, 1966 - ALEMANNO Sibilla, La donna e il femminismo. Scritti, Editori Riuniti, Roma, 1978 - BERNARDINI Emilia, Antonietta e i Borboni, Capone Edizioni, Lecce, 1999 - BERTOLO Bruna, Donne del Risorgimento. Le eroine invisibili del Risorgimento, Ananke, Torino, 2011 - BRAVO Anna, Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Bari – Roma, 1991 - CAMILLERI Rino, Storia dell’inquisizione, Newton, Roma, 1997 - CANOSA Romano – COLONNELLO Isabella, Gli ultimi roghi. La fine della caccia alle streghe in Italia, Sapere 2000, Roma, 1983 - CANTERELLA Eva, Tacita muta. La donna nella città antica, Editori Riuniti, Roma, 1985 - CERTINI Rossella, Jessie White Mario una giornalista educatrice: tra liberalismo inglese e democrazia italiana, Casa Editrice Le Lettere, Firenze 1998 - E. DONI, C. GALIMBERTI, M. GROSSO, L. LEVI, D. MARAINI, M.S. PALIERI, L. ROTONDO, F. SANCIN, M. SERRI, F. TAGLIAVENTI, S. TAGLIAVENTI, C. VALENTINI , Donne del Risorgimento, Il Mulino, Bologna, 2011 - FUGAZZA Mariachiara – RORIG Karoline, La prima donna d’Italia. Cristina Trivulzio di Belgiojoso tra politica e giornalismo, Franco Angeli, Milano, 2010 - HARDING Eter, I misteri della donna. Un’interpretazione psicologica del principio femminile come è raffigurato nel mito, nella storia e nei sogni, Astrolabio, Roma, 1985 - HUIZINGA Johan, L’autunno del Medioevo, Newton, Roma, 1992 - KLAPISCH – ZUBER, La famiglia e le donne nel Rinascimento a Firenze, Laterza, Roma, 1995 - KING Margaret L, Le donne nel Rinascimento, Laterza, Bari – Roma, 1991 - LEO Peppe, Posizione giuridica e ruolo sociale della donna romana in età repubblicana, Giuffré, Milano, 1984 - MAGLI Ida, La femmina dell’uomo, Laterza, Bari, 1985 - MORI M. Teresa, Figlie d’Italia. Poetesse patriote del Risorgimento (1821 – 1861), Carocci, Roma, 2011
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IV I
O
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TE
- MURRAY Margaret A, Le streghe nell’Europa occidentale, Sapere 2000, Roma, 1983 - NOUGIER Louis Rene, a cura di Pierre Grimal, Histoire mondiale de la femme, Nouvel libraire de France, Parigi, 1974 - NOUGIER Louis Rene, L’avventura umana della preistoria, Editori Riuniti, Roma, 1976 - PALUMBO Valeria, History n. 3, BBC History Italia, Sprea, Milano, 2011 - PARCA Gabriele, L’avventurosa storia del femminismo, Mondadori, Milano, 1981 - PEPPE leo, Posizione giuridica e ruolo sociale della donna romana in età repubblicana, Giuffré, Milano, 1984 - PERNOUD Régine, Medioevo un secolare pregiudizio, Bompiani, Milano, 1983 - PRESIDENZA CONSIGLIO DEI MINISTRI, La donna italiana dalla Resistenza ad oggi, Roma, 1975 - SAVALLI Ivana, La donna nella società dell’antica Grecia, Patron, Bologna, 1983 - SCIROCCO Alfonso, Giuseppe Garibaldi, Corriere della Sera, Milano, 2005 - SERVADIO Gaia, La donna nel Rinascimento, Garzanti Vallardi, Milano, 1986 - SOBOUL Albert, La rivoluzione francese, Newton, Roma,1991 - WESSEL Uwe, Il mito del matriarcato, Il Saggiatore, Milano, 1986
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INDICE 5 9 11
Capitolo 1° - Dall’età del fuoco all’antica Roma ..
”
17
Par. 1. 1 Par. 1.2 Par. 1.3 Par. 1.4
Preistoria ................................................ Mesopotamia ed Egitto ........................ Grecia ...................................................... Roma .......................................................
” ” ” ”
19 19 22 25
Capitolo 2° - Il Medio Evo ..........................................
“
29
Par. 2. 1
Secoli bui! ...............................................
”
31
Capitolo 3° - Il Rinascimento....................................
“
37
Par. 3. 1
”
39
“
45
Salem, Triora e altri casi........................
”
47
Capitolo 5° - Dal Seicento alla Rivoluzione Francese ...
“
53
Par. 5. 1
L’alba dell’emancipazione................
”
55
Capitolo 6° - L’emancipazione femminile dall’Ottocento al Novecento ...............
“
61
Par. 6. 1
”
63
EN
R G
SO
LA
O
Un’età incoerente...................................
IV I
Capitolo 4° - La caccia alle streghe ...............
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Par. 4. 1
TE
- Prefazione ................................................................. Pag. - Presentazione ........................................................... ” - Note introduttive ..................................................... ”
Gli anni eroici delle prime conquiste.
- 137
69
Par. 7. 1
71
Si travestivano da uomini....................”
Donne giustiziate ................................. “
80
Par. 8.2
Le eroine del Risorgimento .................“
86
Par. 8.2a
Le giardiniere d’Italia ..........................“
88
Par. 8.2b
Figure di patriote ................................. “
88
Par. 8.3
Dall’Ottocento al fascismo ................. “
105
Par. 8.4
Le donne della Resistenza .................. “
109
IV I
O
Par. 8.1a
Partigiane decorate con medaglia d’oro al valor militare ..........................”
112
Le parlamentari dell’Assemblea Costituente ........................................... “
124
Par. 8.5a
La Commissione dei 75 .......................“
126
Par. 8.6
Dalla Costituente ai nostri giorni ...... “
127
Rassegna bibliografia .............................................. “
135
C
Par. 8. 4a
Par. 8.5
AR
79
SO
R G
Le giacobine della Repubblica Napoletana del 1799 ............................ “
LA
Par. 8.1
77
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Capitolo 8° - Le tappe dell’emancipazione femminile in Italia.............................. “
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Capitolo 7° - Espedienti per esaltare il prorpio talento............................... Pag.
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Donne della letteratura
IV I
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Grazia Deledda Premio Nobel 1926
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Herta Muller Premio Nobel 2009
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Donne della scienza
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Rita Levi Montalcini Premio Nobel 1986
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Maria Curie Premio Nobel per la fisica nel 1903 e per la chimica nel 1911
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TE
Donne del cinema
IV I
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LA
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Anna Magnani Premio Oscar 1956
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Sophia Loren Premio Oscar 1962
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TE
Donne dello sport
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O
LA
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Ondina Valla Prima donna italiana medaglia d’oro Olimpiade di Berlino 1936
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Sara Simeoni Medaglia d’oro Olimpiade di Mosca 1980
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Donne dei diritti umani
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Aung San Suu Kyi Premio Nobel per la pace 1991
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Rigoberta Mench첫 Premio Nobel per la pace 1992
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Finito di stampare nel mese di novembre 2011
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MICHELE CERES
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La storia è stata scritta prevalentemente dagli uomini che, almeno fino agli anni Trenta del XX secolo, hanno sistematicamente ignorato il contributo dato dalle donne al progresso dell’umanità. I criteri e i valori che gli storici hanno posto alla base della ricostruzione del passato non sono stati riferiti, infatti, al mondo femminile, che è vissuto, per gran parte del tempo della storia, ai margini o addirittura al di fuori dei valori e dei criteri che ne hanno caratterizzato la ricerca, ancorché le donne avessero partecipato ad intrecciare, nell’anonimato delle attività quotidiane, la trama fitta e resistente della cultura, che ha consentito all’umanità di progredire.
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Michele Ceres, nato a Caposele (AV), è stato docente di materie letterarie presso gli Istituti di istruzione secondaria superiore, più volte amministratore comunale e di altri enti. Attualmente scrive su alcuni periodici e quotidiani locali. Ha iniziato la sua attività di storico con ricerche sulla storia dei partiti politici, in particolare del movimento cattolico. È stato coautore del libro “Il Sud, un problema aperto” ed ha vinto il primo premio ex aequo del XLIII Concorso letterario della rivista “Sìlarus”con il saggio “L’Unità d’Italia e i pregiudizi antimeridionali”.
LA DONNA NELLA STORIA (Domi mansit, domum servavit, lanam fecit)