Collana Quaderni dell’Atlante Demologico Campano del Ceic
Edizioni Ceic Istituto di Studi Storici e Antropologici
Il progetto "La memoria di domani" è stato co-finanziato dall’Anci e dal Dipartimento per le politiche giovanili della Presidenza del Consiglio (2011) Direzione: Ugo Vuoso Coordinamento: Orsola Lanfreschi e Sara Mancini Segreteria: Giusi Meo Gruppo di ricerca: Nicola Casciano, Pasquale Turri, Alfonsina Patrone, Vincenzo Zoppi, Romano Strazza, Marianna Vitiello, Antonio Pugliese, Alfonso Tore, Roberta Meo, Nunzio Lamanna, Giovanni Acocella, Michela D'Angola, Giovanna Russoniello Le foto storiche sono tratte dall’Archivio digitale del progetto In copertina: gruppo di famiglia irpino, inizi del XX secolo
Promotori
Comune di
Caposele
Comune di
San’Andrea di Conza
Partner progettuale
Comune di
Teora
Comune di
Conza della Campania
Comune di
Andretta
Associazione
A. di Nola
Grazie all’ANCI ed al Dipartimento per la Gioventù della Presidenza del Consiglio, i cinque comuni dell’Alta Irpinia (Andretta, Caposele, Conza, Sant’Andrea di Conza, Teora) hanno potuto realizzare la ricerca “La memoria di domani”. Interamente centrata sullo studio, la documentazione e la riproposizione delle tradizioni popolari dell’area dei cinque comuni, la ricerca ha visto l’attiva partecipazione di quindici giovani residenti nei Comuni aderenti all’iniziativa. Coordinati dal Ceic Centro Etnografico Campano-Istituto di studi storici e antropologici con l’apporto dell’associazione “A. Di Nola”, i giovani ricercatori hanno registrato, fotografato e videodocumentato decine di informatori, di feste, di eventi, raccogliendo testimonianze orali sulla storia sociale dei paesi, sulle usanze e le consuetudini relative alla vita tradizionale, sui rituali, sui repertori musicali, sui saperi tecnici e naturalistici di cui gli anziani sono tenaci portatori. In tal modo è stato assemblato un archivio che trova ragione non solo nei supporti informatici di cui è materialmente costituito o nel volume in cui sono raccolti gli elaborati curati degli stessi ricercatori, ma ha ragione di essere materia viva e attualizzata in quanto i medesimi giovani che sono stati protagonisti delle indagini sono ora essi stessi portatori delle tradizioni. Grazie alla ricerca diretta sul campo, come viene definita in ambito etnoantropologico, i giovani si sono riappropriati di molti aspetti della cultura tradizionale che altrimenti andavano perduti con la scomparsa delle generazioni più anziane. Chi ha preso parte alle varie fasi della ricerca ed ha avuto esperienza degli incontri con gli informatori, si è reso partecipe di quella eredità immateriale che veniva acquisita attraverso lo stimolo della trasmissione “provocata”. Questionari, approfondimenti, richieste, domande e dettagli hanno caratterizzato la lunga fase di lavoro nelle case degli informatori, nei luoghi di ritrovo, nelle feste. Una continua sollecitazione di informazioni, di saperi e di tecniche hanno costituito il patrimonio culturale immateriale che si è andato a redistribuire nelle passioni e nelle specificità dei giovani protagonisti, ora divenuti virtuali mediatori di cultura tradizionale. Naturalmente i documenti ed i materiali resteranno a disposizione di quanti vorranno approfondire temi e percorsi ulteriori di ricerca, molti dei quali costituiscono interessanti percorsi storici e sociali, come hanno dimostrato le immagini ed i resoconti presentati nella mostra di cui la presente pubblicazione costituisce il supporto introduttivo. Le fotografie presentate, rese tutte nelle sfumature del bianco e nero, hanno la caratteristica di essere interattive, raccontano cioè attraverso il contributo di altri elementi narrativi e di altre tecnologie, storie e testimonianze che offrono sempre un quadro complessivo e contestuale. Si tratta di una mostra che, oggettivamente, apporta una ori-
ginale visione di insieme di tali documenti, riunendo figurazioni, suoni e immagini in movimento in un’ unica e composita informazione a totale riproposizione di una realtà altrettanto composita e complessa. Alla luce di queste osservazioni, è da ritenere che i risultati della ricerca “La memoria di domani” abbiano soddisfatto un po’ tutte le parti in gioco, a cominciare dagli anziani informatori. E non è poco. Il lavoro che è stato svolto dai ragazzi rappresenta nella maniera più eloquente quel forte legame che unisce le donne e gli uomini alla propria terra. Un lavoro serio e meticoloso quello messo in campo da essi e che va dalla raccolta di notizie storiche, alle interviste, ai filmati, alla raccolta di foto d’epoca e che ci fanno riscoprire le nostre abitudini, tradizioni, il folclore (canti e balli) e le usanze delle generazioni che hanno preceduto le nostre e che noi abbiamo il dovere di tramandare alle generazioni future. La grande comunicazione, internet e la globalizzazione ci fanno giungere un messaggio distorto della realtà in cui vige l’appiattimento del rapporto tra uomo e luoghi, che ci rende la percezione che si possa vivere ovunque alla stessa maniera, avendo tutto a disposizione ovunque ci ritroviamo a vivere. E sarebbe proprio così se non ci distinguessimo per lingua, tradizioni, gastronomia ed abitudini in generale che ci restituiscono quel forte senso di appartenenza e di unicità dei luoghi che viviamo anche per il paesaggio, il clima ed i cambiamenti che abbiamo subito lungo il corso della storia. Ecco allora il grande valore che possiamo attribuire a questo lavoro che ci fa conoscere meglio quelli che siamo attraverso la conoscenza di quello che siamo stati e mai in questo particolare momento storico che stiamo vivendo, di forte crisi economica ma anche politica e sociale, in cui il nostro territorio subisce uno spopolamento, diventa fondamentale ricercare le nostre radici e lasciare traccia di ciò che è la nostra cultura. E ricordiamo che questo lavoro ha un valore ancocra più alto se si mette in risalto il fatto che è stato realizzato dai nostri ragazzi, i nostri giovani che hanno dedicato la loro passione per questo lembo di territorio e perchè essi stessi potranno essere insieme ai loro coetanei gli ambasciatori di questa nobile terra attraverso questa pubblicazione. L’Irpinia è una terra martoriata da mille problemi ma bellissima e ricca della sua nobile storia e va valorizzata, soprattutto, mettendo in risalto le sue peculiarità che in nessun altro luogo del mondo potremmo mai riscontrare e, scorrendo le pagine di questa raccolta, le andiamo a riscoprire, orgogliosi di poter trasmettere anche agli altri tutta la fierezza e la tenacia che ci appartengono e che rendono inarrandevole la gente di questo pezzo di territorio.
sindaco di Andretta sindaco di Caposele sindaco di Conza della Campania
sindaco di S.Andrea di Conza sindaco di Teora
Il centro di Andretta
a cura di Nunzio Lamanna, Antonio Pugliese, Romano Strazza
Il feudo di Andretta venne menzionato per la prima volta in un documento del 1124, in riferimento al feudatario normanno Roberto di Folleville, soggetto ai Balvano di Conza. Il documento si riferiva ad una controversia tra Ursone, l’Abate di S. Maria in Elce, Angulfo, Signore di Bisaccia, e suo figlio Guglielmo. Deceduto il feudatario Roberto, il feudo andò a Galleramo che convolò a nozze con Galiena, la quale gli diede tre figli, Fromondo, Tommaso e Roberto, il primo dei quali succederà al padre. Un Diploma del 1149, redatto durante il regno di Ruggero il Normanno, confermò i diritti ed i possedimenti di S. Maria in Elce. "Andretta è il capoluogo del mandamento di cui fa parte la mia terra nativa, ed è forse il primo nome di paese che imparai nella mia fanciullezza. Affacciato al balcone di casa mi dicevano: guarda quel paese lì dirimpetto sul monte, si chiama Andretta" scriveva Francesco De Sanctis nel suo viaggio elettorale nel 1875. Andretta, centro agricolo dell'alta valle del fiume Ofanto, sulla riva sinistra, in Alta Irpinia in Provincia di Avellino, è situata su una collina a 840 s.l.m., tra i torrenti Sarda, le cui origini sono chiuse dai fianchi dei monti di Mattinella, e l'Orato che da sotto Bisaccia corre lungo il pendio orientale del Formicoso fino sotto Cairano da dove poi, volgendo parallelo all'Ofanto, vi si immette. Giustino Fortunato, nel 1895, descrive "quel colore giallo, brullo, malinconicamente uniforme" del suo paesaggio "che dà un carattere del tutto speciale di abbandono e di solitudine alle terre spoglie di alberi". Con una superficie territoriale di 4.361 ettari di cui 4.173 agrari e forestali, Andretta confina con Bisaccia, Calitri, Cairano, Conza della Campania, Morra De Sanctis e Guardia dei Lombardi. "Il paese", scrive Carlo Aristide Rossi, "sta su conglomerato arenario ghiaioso (eocene) e su calcare con elementi argillosi, sottoposto a terreno pliocenico, con marne ed argille azzurre, sabbie gialle, conglomerati arenarii cementati. Mediocre qualità di gesso. ..... Nel vallone Sarda al Monte Airola ed al Bosco S. Giovanni vi è litantrace con deposito di torba. Nel 1905 se ne estrassero oltre 100 tonnellate con banco di lignite ricca, ottima, della potenza di cm 50 sulla quota 870 del Monte Airola (banco rinvenuto nel 1940) direzione: E-O d'immersione Sud ed un altro sottostante m. 9 al 1° con potenza di cm 7° Potere calorico: 5.000 calorie, esente da zolfo, produzione giornaliera tonnellate 38 da raggiungere le 50, impianti razionali, teleferica provvedute dalla Società Anonima Commercio Combustibile di Napoli con la Miniere Lignite Andretta S.A. di Napoli".
Il centro abitato di Caposele sorge a 415 metri su livello del mare ad est del monte Arialunga, contrafforte del Cervialto, dove nasce il fiume Sele dal quale prende il nome. Le prime notizie su Caposele risalgono all’XI secolo quando è stato costruito un Castello a forma di torrione quadrato a base piramidale in intrachite sulla collina. In quel periodo vi erano anche alcune case sparse ed un borgo di pescatori, cacciatori, contadini e mugnai a Capo di Fiume. Il torrione fu trasformato in castello dai feudatari che si succedettero. Nelle vicinanze del castello fu edificato un cenobio francescano, nel 1369, con annessa la Chiesa di San Francesco. Nel XIV-XV sec. da un lato cresceva l’insediamento di Capo di Fiume che diventava sempre più produttivo, dall’altro vi era uno sviluppo edilizio anche nella zona del castello, ore trasformato in fortezza, dove si edificava la vera Chiesa Madre del centro dedicata a S. Lorenzo. Nel XVI sec. Caposele ha avuto un'ulteriore espansione non solo nel centro ed a capo di fiume ma anche nelle zone ad esse limitrofe quali principalmente i Casali e le Grotte. Nei primi anni del XVIII sec. è stata edificata anche una nuova Chiesa dedicata alla Madonna della Sanità vicino alle sorgenti del Sele. Frazione di Caposele è Materdomini che sorge sull’omonima collina e si affaccia sulla valle del Sele. Caratteristica principale di Materdomini è la chiesetta dedicata a S.Maria Mater Domini, la cui presenza è già testimoniata nel 1527. Era meta di pellegrinaggi provenienti da tutti i paesi limitrofi e vi si venerava la statua della Madonnina in preghiera. Nel 1746 S.Alfonso de Liguori, fondatore dei Redentoristi, accettò per il proprio ordine la cura della chiesetta e il 7 maggio 1748 avvenne la posa della prima pietra per la costruzione del convento. Qui operò e mori, nel 1755, Gerardo Maiella, religioso redentorista. La fama della sua santità e dei suoi miracoli fece aumentare sempre più il numero dei pellegrini. Nel 1929, fu costruita sul posto della vecchia chiesetta una Basilica mariana. Negli anni 60-70 si costrui ina nuova chiesa, dedicata a S, Gerardo, contigua e comunicante con la Basilica. All’inizio del XIX sec. Caposele si presentava nel seguente modo: il nucleo del Castello; la zona dell’attuale Piazza F. Tedesco e via Bozio; il borgo di Capo di fiume e gli agglomerati periferici (Pianello, Casali, Grotte, ecc.). Questo assetto urbanistico è rimasto sostanzialmente intatto sino ai primi del XX secolo quando l’Acquedotto Pugliese ha avviato le opere per la captazione delle sorgenti del Sele. Infatti in quella occasione sono state realizzate le attuali via Roma e Corso Europa che diventeranno l’asse di collegamento tra i due nuclei storici. I lavori dell’Acquedotto Pugliese hanno provocato anche la demolizione dell’originaria Chiesa della Madonna della Sanità della quale è rimasto solo il campanile mentre l’edificio è stato spostato decine di metri più in là nell’attuale Piazza della Sanità. Nel 1732 e nel 1853 Caposele è stato colpito da eventi sismici, ma quello che tutti ricordano è quello del 1980. Il comune di Caposele, di 4.077 abitanti nel 1980, è stato dichiarato disastrato dal D.L. del 13/2/ 81 n.19 per i danni riportati dal sisma. Il Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica ha valutato, in quell’occasione una percentuale di danno pari all’80%. In effetti
Caposele, paese d’acqua, inizi XX secolo il terremoto colpi notevolmente il patrimonio edilizio esistente provocando 61 morti e lasciando circa il 74% della popolazione senza tetto. Senza dubbio i danni maggiori si sono avuti nel centro abitato di Caposele ed in particolare modo nelle zone del Castello, di S. Lucia, del Casale e delle vie Piedigrotta, Palladino, Imbriani, ecc., a causa della particolare situazione idrologica e dello stato di fatiscenza di numerosi edifici. Sono stati gravemente danneggiati anche gli edifici di culto come la Chiesa Madre di S. Lorenzo, la chiesa di S. Lucia e quella della Sanità a Caposele centro, mentre è parzialmente crollata l’antica Basilica di S. Gerardo nella frazione di Materdomini. Irreparabili danni al patrimonio edilizio preesistente sono stati provocati dalle demolizioni selvagge dell’immediato dopo-terremoto che hanno completamente raso al suolo anche parti storicamente molto significative di Caposele come la Chiesa Madre ed alcuni edifici prospicienti come Piazza Masi, il Castello e la cortina di case ad esso limitrofe, vico Plebiscito, il lato sinistro di Piazza F. Tedesco, alcuni palazzi del XIX ed inizio XX sec. di via Roma e via S. Gerardo, la chiesa di S. Lucia e le costruzioni circostanti. Ad oggi tutti gli edifici e le strade sono stati messi in sicurezza o costruiti totalmente ex-novo.
Foto aerea di Caposele dopo il terremoto e le demolizioni, 1982
La città di Compsa è di antichissima origine anche se non esistono ancora dati certi riguardo alla sua fondazione. Alcuni studiosi, comunque, attribuiscono alla città antiche radici greche attribuibili all’attività colonizzatrice dei Calcidesi, che, dall’isola di Pithecusa, erano passati sul continente dove avevano fondato oltre a Cuma una serie di altri stanziamenti. Il nome Compsa non è altro che il greco Kwmya e rimanderebbe al termine greco arcaico coza che significa elegante, graziosa, scaltra, maliziosa. Altri studiosi, invece, attribuiscono alla città origini enotrie o osche, che sarebbero testimoniate dal nome di Comesa. Livio e Plinio il Vecchio la menzionano come città irpina, Tolomeo la localizza in Lucania, mentre Dione Cassio e il Liber Coloniarum la indicano come città apula. Livio ci informa dell’esistenza nel territorio di Compsa di un tempio dedicato a Iovis Vicilini. Da Plinio apprendiamo come, in seguito all’ordinamento regionale dato da Augusto a tutta l’Italia, Compsa, insieme agli altri centri dell’Hirpinia ad eccezione di Abellinum, venne inserita nella II Regio (Apulia et Calabria). Riguardo all’epoca successiva sembra che la città di Compsa abbia perduto l’importanza che aveva rivestito in passato. L’importanza della città fu tale anche in epoca medievale, tanto che la diocesi di pertinenza, come documentato a partire dal XII secolo, comprendeva ben 24 centri. Il fatto che tutta l’alta valle del Sele, compresa Buccino con il suo antico territorio, fossero ricompresi nella diocesi conzana, testimonia ulteriormente il ruolo egemone della città nell’organizzazione amministrativa di quest’area in epoca medievale. Il centro sorgeva, fino al terremoto del 1980, su una collina articolata in due balze che sono separate da una piccola spianata a m. 547 s.l.m.. La sommità della collina fu utilizzata in età altomedievale per la costruzione del castello, distrutto durante la seconda guerra mondiale e definitivamente obliterato nel 1957 per far luogo al campo sportivo; la balza inferiore invece ospitava il nucleo di ampliamento urbano. All’indomani dell’evento sismico, data la distruzione quasi totale e la situazione topografica dell’antico centro, non particolarmente favorevole ad una ripresa urbanistica, si decise di ricostruire il sito in un’a-
rea pianeggiante a valle, in località “Piano delle Briglie”, situata oltre un chilometro in direzione sud-ovest rispetto al vecchio centro. Il comune di Conza è oggi uno dei 17 comuni che fanno parte della Comunità Montana “Alta Irpinia”. Il territorio comunale, che si estende su una superficie di 52 km2 è caratterizzato da quote altimetriche che oscillano dai 410 m s.l.m. del fiume ai 650 m s.l.m. verso Caposele. Queste caratteristiche morfologiche hanno portato a realizzare nel corso degli anni ’70 uno dei più grandi laghi artificiali d’Italia con una superficie di circa 550 ettari. La diga, in terra battuta zonata, fu terminata nel 1992 anche se è a regime solo dal 2001; essa presenta una lunghezza al coronamento di m. 880, e una sezione alla base di m. 180. Il paesaggio circostante, anche se trasformato dalle tante opere realizzate nel corso degli ultimi anni, prima per la creazione del lago artificiale e, dopo il terremoto, per la realizzazione degli interventi relativi alla ricostruzione ed all’industrializzazione, che ne hanno sconvolto la morfologia, conserva ancora molti dei caratteri tipici dell’ambiente rurale: le coltivazioni di cereali e foraggio, le anse meandriche del fiume a valle della diga, le balze argillose invase dai ginestreti ed i pendii ricoperti da boschi e da macchie. La particolare geomorfologia dell’altura su cui si erge Conza, formata da un massiccio conglomeratico poggiato sulle argille azzurre, e la singolare esposizione dei versanti hanno favorito la nascita di un ambiente naturale ricco di varietà floro-faunistiche. Anche la cima della collina, che un tempo accoglieva la stessa Conza, è ormai interamente ricoperta da una folta vegetazione spontanea, che si è estesa anche lungo gli stretti percorsi stradali; ciò non toglie che nella stagione autunnale e, soprattutto in inverno, quando la vegetazione si spoglia, si notano con chiarezza i ruderi del paese che fu Il profilo dei muri crollati si staglia nel paesaggio insieme alla sagoma scheletrica del serbatoio dell’acqua, tra i rami degli alberi dell’antico giardino. Ai piedi dell’antico abitato è la valle del fiume, oggi in gran parte sommersa dal lago, area di passaggio e sosta per gli uccelli migratori, e che costituisce un ambiente florofaunistico tutelato come oasi del WWF.
A sinistra la raffigurazione di Conza dell’abate Pacichelli, 1694
Sant’Andrea di Conza, sorto nell’ XI sec., è ubicato nell’alta valle dell’Ofanto lungo la via Appia 7 ed è situato tra il monte Calvo e la Cresta Cesina sotto il costone roccioso della Serra la Serpa. Il territorio di Sant’ Andrea (6,44 kmq) si estende sul versante destro orografico del fiume Ofanto e presenta una morfologia articolata: vi sono aree pianeggianti, o quasi, determinate dai depositi alluvionali (ad esempio Piano di Campo dell’Incoronata, La Specchia, ecc.) ed altre con pendenze anche elevate dovute, a volte, a vecchi movimenti franosi. La conformazione morfologica, a causa della natura litologica dei terreni e dell’idrologia di superficie e sotterranea, provoca spesso fenomeni di dissesto evidenti soprattutto nella zona a sud-ovest dell’attuale centro urbano. Questo territorio è caratterizzato, in generale, da un’alta sismicità in quanto ricade nelle aree di influenza dei terremoti con epicentro nel Molise, in Campania ed in Basilicata anche se non risente in maniera drammatica degli stessi eventi sismici probabilmente perché il fitto reticolo di faglie site a monte del centro abitato e quelle esistenti a valle di esso costituisce una direzione privilegiata di sviluppo dell’energia sismica che non investe direttamente Sant’ Andrea al contrario, ad esempio, di Pescopagano e Calitri. Solo la parte alta del nucleo storico (Largo Chiesa, Largo Ginnasiale, ecc.) è ad alto rischio sismico a causa delle scadenti proprietà meccaniche dei terreni e per la presenza di una cospicua falda idrica a pochi metri di profondità. La storia sociale ed urbana di Sant’ Andrea di Conza è sempre stata caratterizzata rispetto a quelle degli altri centri limitrofi dalla presenza degli arcivescovi di Conza feudatari del paese. Sant’Andrea è stato fondato da alcuni abitanti del contado conzano, i quali hanno edificato le prime costruzioni ed una chiesetta dedicata all’apostolo Andrea che ha dato il nome a tutto il casale. La contea di Conza nell’XI-XII sec., in particola-
La terra di Sant’Andrea, 1691
re sotto i Normanni, è stata una delle più estese comprendendo tutta l’alta valle sia dell’Ofanto che del Sele ed anche parte della valle del Calore. Sino alla soppressione della feudalità il casale di Sant’Andrea è stato sotto il dominio della Mensa Arcivescovile di Conza. Probabilmente nel XIII sec. È stata realizzata nella parte alta del borgo una costruzione fortificata (nucleo originario dell’ Episcopio) che ha poi subito varie ristrutturazioni in varie epoche. Sant’Andrea alla fine del XIII sec, de inizio del XIV è stato posseduto dalla famiglia Poncelly, successivamente è stato feudo del Del Balzo e poi, nel XV sec., dei Gesualdo. Alla fine del XV. Vi vivevano 55 famiglie per un totale di circa 300 abitanti. Dal XVI sec gli arcivescovi hanno trasferito la loro sede da Conza nel castello che è diventato, cosi, Episcopio. Il XVI E XVII sec. È stato per Sant’Andrea il periodo di maggiore crescita urbana e nel quale si è determinato l’impianto urbanistico, ancora esistente, con la caratterizzazione dei diversi tipi edilizi ed è stata costruita la cinta muraria intorno al paese nella quale vi erano ampie porte di cui una ancora visibile, “L’arco della terra”, che si apre verso Conza. In questi 2 secoli è stato notevole anche l’incremento di popolazione: i diversi censimenti hanno accertato che nel 1669 gli abitanti erano 1200 e nel 1732 circa 1350. Dalla fine del XIX sec. l’asseto urbano del centro storico non ha subito grosse manomissioni, mentre si è avuta una contenuta espansione urbana lungo le vie principali di accesso al paese. Per quanto concerne le iniziative lavorative, oltre all’attività agricole condotta da sempre a livello familiare e, perciò, molto frazionata, Sant’Andrea ha in zona un’ importanza notevole per l’artigianato ed in particolare per la lavorazione della pietra calcarea locale e del ferro battuto. Non è, infatti, un caso che sia tuttora uno dei centri storici più ricchi di elementi architettonici e decorativi in pietra molto belli.
La chiesa di San Michele
Il centro di Teora colpito duramente dal terremoto
Remota è la frequentazione umana del territorio di Teora, come attestato dal rinvenimento di reperti archeologici dell’Età del ferro, da tombe “a fossa” della Cultura di Cairano-Oliveto (VIII-VI secolo a. C.). Le caratteristiche dei reperti rinvenuti nelle tombe ha fatto ipotizzare un legame con popolazioni illiriche, che si sarebbero mescolate con le popolazioni preesistenti nelle Valli dell’Ofanto e del Sele, che raggiunsero tramite la Sella di Conza. Ignota è la storia di Teora a partire dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente, anche se non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che il paese irpino seguì le sorti di Compsa (Conza della Campania). Ai piedi del Monte Cresta del Gallo (887 metri s.l.m.), in posizione di dominio della Valle del fiume Ofanto, si trovava Teora vecchia (distrutta ed abbandonata a seguito del terremoto del 1980), che sovrasta il nuovo abitato di Teora nuova, che si sviluppa più in basso. Paese di antiche tradizioni agricole (cereali, vino, olio e frutta), pastorali (molti boschi con pascoli, tanto bestiame, con produzione di latte e derivati destinati all’autoconsumo o a limitato commercio) ed artigianali (lavorazione del ferro battuto, del legno, dell’uncinetto), la cui valorizzazione, può rappresentare il “salvagente” per questo Comune irpino gravemente colpito dal terremoto del 1980. Potenzialità turistiche non indifferenti, infatti, sono fornite anche dall’aria saluberrima, dalle verdissime campagne e dai folti boschetti, dall’abbondanza d’acqua, dalla tranquillità e dal silenzio che avvolge i luoghi. Come tanti altri Comuni dell’Irpinia, Teora ha patito duramente il fenomeno dell’emigrazione, in alcuni periodi una vera e propria emorragia, soprattutto negli anni ‘60 e ‘70. Il territorio comunale di Teora è frazionato in tante località e bor-
ghetti rurali, ed è occupato da boschi e da montagne, di cui in aggiunta al già citato Monte Cresta del Gallo, ricordiamo La Civita (724 metri s.l.m.) ed il Monte La Serra (770 metri s.l.m.). Oltre all’Ofanto, Teora beneficia delle acque del torrente Fiumicello. Interessanti passeggiate ossigenanti possono essere effettuate nella verdi campagne teoresi, a diretto contatto con la natura ancora incontaminata. Nel Medioevo, precisamente durante la dominazione normanna, l’espansione verso l’alto portò alla formazione, del borgo medievale, che si andò aggregando, inizialmente attorno al Castello e, successivamente, attorno alla Chiesa Madre di S. Nicola di Mira o Cattedrale. In questa fase si verifica l’arroccamento del paese, che ebbe come conseguenza l’aggregazione intorno ai due poli del Castello e della Chiesa, con nuclei abitativi a base familiare che, conformandosi alla fisiografia del territorio, adottarono la tipologia architettonica del lotto gotico. Il paese, immutato nella sua originaria fisionomia, che delicatamente emerge dallo sfondo del verde paesaggio collinare, ha registrato, in seguito e al secondo evento bellico, un notevole fenomeno di urbanizzazione con conseguente espansione edilizia lungo le principali vie di accesso al centro urbano. Da un punto di vista artistico ed architettonico il paese conserva esempi, anche notevoli, si portali e facciate di palazzi signorili, incastonati in un succedersi di modeste abitazioni, creando una fantastica struttura di archi e di vicoletti che ne movimentano la composizione architettonica. L’architettura religiosa, distrutta o gravemente danneggiata nel corso dei secoli dai terremoti, conserva poche testimonianze delle lontane origini.
Tab. 1 Posizione geografica
Tab. 2 Variazione demografica 1861-2001. Fonte Istat
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Tab. 2 Variazione demografica 1861-2001. Fonte Istat
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Tab. 2 Variazione demografica 1861-2001. Fonte Istat
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Tab. 2 Variazione demografica 1861-2001. Fonte Istat
Tab. 1 Posizione geografica
Tab. 2 Variazione demografica 1861-2001. Fonte Istat
Quelle che seguono sono tredici storie di vita di gente comune che vive nei cinque Paesi interessati dalla ricerca. Le storie, registrate o anche videoregistrate, non sono state trascritte secondo i criteri in uso in antropologia o in storia orale, ma sono state riportate in italiano rispettando forme e contenuti della versione narrata generalmente in dialetto. Abbiamo preferito sacrificare l’approccio “filologico-linguistico” (trascrizione in grafìa fonetica semplificata, barre di pausa invece della punteggiatura ecc.) a vantaggio di una più immediata comunicazione del “testo”. Si tratta di biografie di grande interesse storico e umano dalle quali è possibile ricavare una gran mole di informazioni sulla vita individuale e collettiva nelle società locali della seconda metà del XX secolo, un periodo denso di grandi eventi trasformativi. Fra questi sicuramente Il terremoto del 1980 è la data che suddivide il “prima” della storicità integra, della solidarietà, dei “valori”, delle “tradizioni” e il “dopo” della rapida e omologante modernizzazione, della emigrazione, della mutazione profonda delle comunità. Per conoscere nel suo reale spessore la cultura contadina da noi “osservata”, il metodo più pertinente è parso dunque essere quello dell’intervista individuale e del racconto autobiografico attraverso il quale ci sono state offerte trame di vera contro-informazione sulla realtà delle società contadine locali di questi ultimi decenni. La condizione femminile, i rapporti di lavoro diversificati e articolati all’interno di un troppo generico quadro agricolo, le differense fra chi viveva in campagna e chi in paese, la stratificazione sociale e i marcati classismi, l’emigrazione, la funzione dell’istituzione ecclesiastica all’interno di tali meccanismi, sono tematiche che ci consentono di rileggere le cosiddette “tradizioni popolari” entro contesti più ampi e storicamente strutturati. Le testimonianze sono state raccolte e trascritte da Michela D’Angola e Giovanna Russoniello
Carmelina Vallario | Sant’Andrea di Conza, 9 Febbraio 1937
Eredito la fisionomia e le caratteristiche fisiche da mia nonna materna, un tratto distintivo di famiglia è "lu vuccularo". Invece, per quanto riguarda la mia personalità e il mio carattere, penso di non assomigliare a nessun membro della mia famiglia perché sono più riservata e introversa. Eravamo sei figli: io, Donato, Gerardina, Antonietta, Teresa e Andrea; io ero la terza figlia. Mia mamma era una donna dal carattere molto forte, autoritaria. Era alta, bella e aveva un naso talmente fine che la chiamavano Naschicchij. Papà era figlio di contadini, faceva il pastore ed aveva sette fratelli. Lavorò anche come manovale presso una ditta locale, dopo essere tornato dal servizio militare; lo chiamavano due “rote” perche era solito girare con un traino con due ruote. Mia mamma lavorava presso la stessa ditta ed è lì che si conobbero con papà e si innamorarono. Sono nata il 9 Febbraio 1937, a Sant’Andrea di Conza, luogo in cui ho sempre vissuto con la mia famiglia, tranne che per un arco di tempo di sette anni in cui ho vissuto a Eboli, con mio marito. L’epoca in cui sono nata era caratterizzata dalla miseria e da una situazione economica alquanto disastrata; sono gli anni che precedono la seconda guerra mondiale. Quando avevo sette-otto anni, per dire come ho vissuto la vita mia, mia cugina mi portava fóre, dove dovevo badare a una bambina più piccola di me, figlia di alcuni vicini. Io la fasciavo, la lavavo, tutto per guadagnarmi un tozzo di pane, e le cantavo ninna ninna / e cche cos'è la ninna…, finchè non si addormentava. Quando la bambina dormiva, la lasciavo nella masseria e andavo a lavare re fasciatore al ruscello. I giochi che facevamo da piccoli erano molto semplici: giocavamo a Cè. Si bagnava una pezza e la si gettava a terra, là dove cadeva la pezza bisognava saltare, e così procedendo andavamo avanti fino ad arrivare nella parte alta del paese. Giocavamo ancora a "Zomba Cavaliere", a "Uno due tre banda", a Piripalle e une, piripalla e doje e piripalla e tre. Oppure giocavamo a Pingola Pingola: cantando la seguente filastrocca: Pingola Pingola mia Martina / cavaliere della regina / io vengo perla Spagna / per compire quindici anni / quindic anni li ho compiuti / capacchio' capacchio'/ tira il piede a te... Insieme alle mie amichette giocavamo con una corda alla Fonte a fa la tarantola, ossia attaccavamo una corda da un ramo d’albero all’altro per poi dondolarci; mangiavamo freselle e pomodori, dopo aver finito di giocare; qualche volta ci raggiungevano anche i nostri amici maschietti e stavamo tutti insieme. Questi erano i giochi di prima, non ce n’erano di altre cose, mica come oggi! All’epoca non c’era niente. Ma a noi il pane non è mai mancato, perché noi lavoravamo. Io a dieci anni lavoravo già presso una famiglia di signori: andavo a prendere la legna, l’acqua , lavavo i piatti, andavo a lavare i panni a lu Cùmendo. Ho sempre lavorato, oltre a fare la lavandaia (ho lavato i corredi delle spose e anche le divise dei soldati durante la guerra), ho fatto il manovale aiutando i muratori, andavo in campagna e ho continuato a lavorare fino a quando mi sono sposata. Dopo mi sono dedicata anima e corpo ai miei figli e a mio marito e mi sono occupata della gestione economica della casa. A dodici anni ho avuto le prime mestruazioni, mentre
ero al lavoro da quei signori di cui vi parlavo prima. Le nostre mamme all’epoca non ci dicevano niente, mica come adesso. Non sapevamo niente. L’altra amica che lavorava con me, che aiutava a fare i mestieri e a dar da mangiare alle galline, mi aveva detto qualcosa. La mia amica che era più grande di me e mi chiedeva spesso se mia madre mi aveva già preparato re pezze vecchie per le nostre cose. Ma io non capivo. Eravamo stupidi e non capivamo niente allora. Poi, man mano, io l’ho detto alle altre mie sorelle più piccole. E così è stata la mia infanzia, senza lavarci, e dove dovevamo lavarci? Acqua in casa non ce n’era. Andavamo alla fontana. Anche quando nascevano i bambini era un altro problema. Ci dicevano che i bambini erano nati dinde li caruoppeli (cavoli), oppure sotto lu mulino. In casa non si parlava di queste cose, non c’era nessun rapporto con i nostri genitori. Il rapporto con le mie figlie è stato diverso. Io a loro ho detto tutto. Alle mie figlie ho spiegato tutto, avevo comprato loro i pannolini e glieli avevo messo nel cassetto, avvisandole di cosa sarebbe successo. Ho frequentato solo i primi due anni della scuola elementare di Sant’Andrea di Conza, che si trovava nella sede dell’attuale Comune, perché in quel periodo giravano i pidocchi, che mi hanno costretta a rasarmi tutti i capelli. I compagni di scuola mi prendevano in giro e le mie compagne mi canzonavano: Caruso' caruso' / e ti pisciano e te cacano / e te metteno a lu sole, ed è per questo che ho lasciato la scuola e non ho voluto più tornarci. Ricordo con timore la signora Mastrilla, la mia maestra in quei due anni di scuola, perché ero continuamente messa in punizione insieme ad altri compagni di classe per motivi anche banali. Il semplice non saper rispondere ad una domanda o non aver fatto i compiti era motivo di punizione. Mi ricordo la bacchetta di legno sulle mani, il dolore delle ginocchia sui ceci e la stanza dei carboni dove venivamo rinchiusi. In particolare ricordo che gli alunni “bravi” erano seduti tutti ai primi banchi e venivano seguiti e interrogati quotidianamente, mentre gli altri, tra cui io, lasciati nell’indifferenza agli ultimi banchi, perché avevamo più difficoltà nell’apprendimento, venivamo interpellati solo ed esclusivamente per far ridere la classe. Ovviamente non c’era alcun mezzo di trasporto per andare a scuola né venivamo accompagnati dai genitori. Non c’era un modo per riscaldarsi durante il periodo invernale, le aule erano fredde e umide, solo la maestra aveva il braciere sotto la cattedra. Si andava a scuola dalle 8 alle 13, e durante queste ore chi aveva bisogno di andare in bagno chiedeva alla maestra di poter “andare in camerino”, che si trovava sotto un albero vicino a lu Cùmendo. Non ricordo di aver stretto amicizie particolari a scuola, ma nemmeno all’esterno perché lavoravo, ho sempre lavorato: mi prendevo cura dei bambini più piccoli mentre i genitori andavano in campagna, portavo la calce ai muratori, facevo la lavandaia; non c’era tempo per giocare e divertirsi. Ho un ricordo nitido della casa in cui ho vissuto la mia infanzia che si trovava vicino alla Chiesa Madre: una sola camera con due letti, nu cascione, nu cumò e nu tavolino. In due letti non potevamo dormire in sette e quindi io, insieme a una delle mie sorelle, ero costretta a dormire dai nonni. Di fronte a questa camera, uscendo all’esterno, c’era l'uttaro che era la nostra cucina e la casetta delle diciotto galline ammaestrate. Ricordo che ogni sera allo stesso orario rincasavano attraverso lu purtuso della porta, creato appositamente per farle passare. Non avevamo nulla, non c’era neppure il bagno in
Carmelina Vallario e altre donne al lavatoio di Sant'Andrea di Conza (anni '60)
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casa, si usava lu zi peppe (vaso di terracotta). Ogni volta veniva svuotato in una cassetta e tutte le mattine veniva portata dove c’era l’acqua corrente per ripulirla. Ricordo un episodio spiacevole successo a mia madre, proprio mentre portava la cassetta in testa: dei ragazzini per fare una bravata le hanno lanciato delle pietre per roversciarle la cassetta! Non c’era la televisione, la radio era presente solo nelle case dei signori e la luce era “a forfait”, non c’era neanche l’acqua corrente in casa, infatti per lavarci andavamo alla fontana più vicina, la situazione igienica era pessima. Avevo sei anni quando è scoppiata la seconda guerra mondiale. Non sapevo esattamente cosa stava succedendo, però ricordo di aver sentito le bombe, aver visto gente che moriva e che per un periodo di tempo mi sono nascosta insieme alla mia famiglia e a molte altre persone nelle torre vicino al Seminario, che si trova nella parte alta del paese. Ricordo tanta gente maleodorante, non si mangiava né ci si lavava fino a quando, finiti i bombardamenti, siamo riusciti a ritornare nelle nostre case. In particolare ho impresso nella mente l’immagine di mia madre che lavava i piedi insanguinati di un soldato americano, che per ringraziarla ha donato il cibo che era nel suo zaino: scatole di carne, di fagioli, gallette di riso, un pezzo di lardo e altre cose da mangiare. Mia madre ha continuato ad assistere i soldati che erano accampati alla fonte, portandogli cibi e bevande, i vestiti lavati e quant’altro avevano bisogno. Oltre la guerra, ho vissuto in modo traumatico l’esperienza del terremoto del 23 Novembre del 1980 perché ho perso mia figlia Anna, mio genero e il mio nipotino. Ho sempre fatto la lavandaia e nonostante questa tragedia ho continuato a lavorare. Ricordo che lavare i vestiti insanguinati dei soldati mi causava un grande dolore perché mi riportava alla mente il ricordo di mia figlia. E’ stato difficile e straziante riconoscere il corpo di mia figlia estratto dalle macerie. Il mio è stato un matrimonio di amore e passione. Mi sono innamorata di lui la prima volta che l’ho visto..il classico colpo di fulmine. Ricordo che scendevo dalle scale con gli abiti da lavoro (all’epoca lavoravo come manovale dietro ai muratori), e lo vidi entrare in casa con un amico di famiglia di Eboli, venuto per dichiararsi ad una mia cugina. Lui venne solo per accompagnarlo e, invece, trovò l’amore. Da quel momento in poi iniziammo a scriverci lettere d’amore perché lui viveva ad Eboli. Un giorno ricevetti una sua lettera nella quale, invece che le solite parole e promesse d’amore, c’era scritto che voleva interrompere il nostro fidanzamento. Io piangevo tutti i giorni perché non riuscivo a capire il motivo di tale decisione. Mia madre, vedendomi cosi inconsolabile, decise di recarsi ad Eboli a casa del ragazzo. Arrivata lì gli chiese subito spiegazioni sul suo comportamento e lui le disse: “Io questo volevo, aspettavo una prova d’amore”. Mio marito non cercava la dote, voleva solo la certezza che il suo amore fosse realmente ricambiato, infatti dopo quel giorno, ci sposammo. Con lui ho messo su una famiglia di cinque figli che abbiamo cresciuto con amore. Mio marito era molto serio, riservato, timido ma adorava i suoi figli, avrebbe voluto che non crescessero mai, infatti gli piaceva vederli stare in casa in pigiama. Noi dormivamo tutti nella stessa stanza quindi per noi erano rari i momenti d’intimità e ricordo con dolcezza che presi dalla passione scappavamo nelle campagne… Sono quindici anni che è morto ed io ancora oggi sento fortemente la sua mancanza.
G. Vallario durante l'intervista (foto di B. Capasso)
Gerardina Vallario | Sant’Andrea di Conza, 29 Dicembre 1941
Sono nata il 29 Dicembre 1941 a Sant’Andrea di Conza. La mia famiglia non ha un tratto somatico che ci contraddistingue, fisicamente assomiglio molto a mio padre, di cui vado fiera, invece caratterialmente sono più vicina a mia madre. Con la mia famiglia ho vissuto sempre a Sant’Andrea, tranne che per un breve periodo di sei mesi (subito dopo il terremoto dell’80), trascorsi in Australia. Le mie sorelle, invece, sono emigrate giovanissime in Australia, dove si sono sposate e trasferite definitivamente. Anche mio padre è stato emigrante, però in Belgio, infatti ricordo che lo vedevo solo a Natale. Non ho frequentato la scuola elementare, solo all’età di 12 anni ho seguito qualche lezione alla scuola serale e poi, dopo lo stato civile, mio marito mi ha pagato tre mesi di lezioni private dalla maestra Zampella. Le altre mie due sorelle più piccole e mio fratello hanno frequentato fino alla quinta elementare. I miei ricordi di quand’ero bambina sono legati solo al lavoro: ci alzavamo presto la mattina e andavamo in campagna con le mie sorelle dove restavamo fino al calar del sole. Ricordo che svolgevamo qualsiasi tipo di lavoro, anche quelli più duri e faticosi: zappavamo la terra, raccoglievamo le fave, badavamo agli animali, il tutto allietato dai canti di mia madre. Quando tornavamo in paese, andavo a “rubare” il mestiere alla sarta perché
mi piaceva imparare a cucire. Mia madre voleva che noi imparassimo a fare qualsiasi cosa, come fare la pasta a mano e impastare il pane, perché dovevamo essere preparate nel momento in cui saremmo diventate mogli e madri. Quando lavoravamo in campagna io e le mie sorelle, di nascosto da mia madre, cercavamo qualche momento per giocare sull’altalena costruita legando una fune ad una trave di legno nel granaio. In paese giocavo con le figlie dei vicini a mazza e pieuzo, a c'è e a buttune. Ricordo che andavo a scucire i bottoni dalle federe dei cuscini di mia madre… Quando sono diventata più grande mi piaceva molto andare a ballare, nelle case. Ed è stato in queste occasioni che si è concretizzato il corteggiamento di mio marito, però il nostro legame era già presente da anni, infatti io per cercare di scoprire se lui ricambiava il mio amore gli raccontavo che altri ragazzi mi avevamo mandato l'ammasciata e lui mi rispondeva: lassalu i' cá s'i troppo piccola oppure mi diceva: fatte stu' ballo e arretirate, cá è tardi. Da questo atteggiamento avevo capito cá pur' isso vulij a me. Abbiamo fatto subito lo stato civile perché io accudivo la mamma di mio marito e mia madre, che era attenta e severa, temeva che potesse succedere qualcosa, visto che ero già una signorinella. E’ stato un vero e proprio accordo tra le nostre madri, ognuna faceva il suo interesse: mia madre aveva bisogno di una promessa di matrimonio e mia suocera aveva bisogno di me. Nonostante lo stato civile e quindi, nonostante fossimo marito e moglie, vivevamo ognuno nelle rispettive case, non potevamo passeggiare da soli e neppure darci un bacio; in tre anni è capitato raramente che mia madre ci lasciasse soli, per non più di un quarto d’ora. Lei ci teneva molto alla mia purezza tanto che ripeteva sempre: Tu t'è spusa' cu la virlanda. Ricordo che una sera delle feste patronali non vedendomi passeggiare mi riempì di botte. Dopo tre anni di stato civile, fatto perché eravamo troppo piccoli, ci siamo finalmente sposati e siamo andati a vivere insieme. Il mio è stato un matrimonio d’amore e continua a esserlo, a breve festeggeremo le nozze d’oro. Da quest’unione sono nate le mie tre figlie, con cui ho avuto un buonissimo rapporto e un ottimo dialogo a differenza di quello che io e le mie sorelle abbiamo avuto con nostra madre. Lei era una donna molto severa, ha dovuto ricoprire anche il ruolo di mio padre, che è stato assente a causa del lavoro. Si è occupata di noi, della gestione economica, della casa e della campagna. Non avevamo alcun tipo di dialogo, se non quello riguardante i compiti da svolgere, nemmeno quando abbiamo avuto le prime mestruazioni sapevamo quello che ci stavo succedendo, io pensavo di essermi fatta del male. Teniermo una stanza: c’era nu focolare, nu bano, nu stipo, sotto 'ndutto c'era lu zi peppe, miezo c'era lu pane, 'ngimm 'ndutto c’erano quattro o cinque panelle tutte in fila, poi c’era il letto di mamma, nu tavulino e nu cascione, poi il nostro letto, dove dormivamo tutti insieme. Accanto alla porta c’era lu vacile dove ci lavavamo (in casa non avevamo l’acqua, andavamo a prenderla a lu puzzo, alle fontane), poi c’erano le spine per accendere il fuoco, lu graniere pe' metere lu grano e infine lu 'mbastapane. Quando nascevano i capretti, per paura che venissero rubati, li portavamo in casa e li mettevamo in una cassa di legno, sopra la quale mangiavamo in un’unica zuppiera. Ancora adesso quando passo là davanti, sento l’odore della mia giovinezza. In campagna avevamo una masseria non di nostra proprietà, ma presa in affitto come la terra, con altre quattro famiglie. Mio padre ci aveva costruito nu pagliaro de curma, sotto c’erano gli animali e sopra dormivamo noi. Abbiamo vissuto in un periodo di miseria, mangiavamo i frutti del nostro lavoro: lagane e fasule, cipolle e fave, patane e lagane, pasta a mano, verdura, tagliatelle, cucuzielle e patane, cucozza. Non c’era igiene né pulizia, infatti giravano i pidocchi, io ce l’ho avuti fino a quando
mi sono sposata; mia madre rivolgendosi al medico del paese per un rimedio si sentì rispondere: "Nun te preoccupá, ca figliete camba fino a cient' anne". Si pensava addirittura che fossero di buon augurio per la salute. L’epidemia di quel periodo, oltre a quella dei pidocchi, era lu gruppo, malattia mortale che colpiva soprattutto i bambini. Quando avevamo l’influenza o qualsiasi altra malattia, mia madre non si preoccupava più di tanto, aspettava che passasse da sola. Ricordo che quando avevamo la febbre mia madre ci ordinava di restare a dormire sotto la noce, con solo una sorella che stava attenta che non si avvicinassero i serpenti. Nonostante tutto posso dire che stavamo bene. A Sant’Andrea noi donne andavamo a lavare i panni a lu cumento, il lavatoio del paese. Usavamo il sapone fatto in casa con il grasso di maiale, che in realtà non aveva un buon odore, infatti non vi so dire se quelle lenzuola fossero pulite; sarà forse proprio a causa di questo che abbiamo preso i pidocchi. Li vicino c’era un’arcata dove i macellai del paese appendevano i vitelli e li uccidevano, tutti andavano a guardare se c’erano anche delle persone che bevevano il sangue dell’animale ucciso, perché dicevano di essere povere de sangue. Mia madre era molto religiosa e ci diceva di andare a Messa tutte le domenica, cosa che facevamo volentieri, infatti tutt’ora sono credente e praticante. Un particolare che è rimasto impresso nei miei ricordi era che chi era iscritto all’Azione cattolica portava, come segno distintivo, una fascia come quella del sindaco. Era motivo di vanto per chi la indossava, però si doveva pagare per farne parte e noi non avevamo le possibilità. Perfino durante la processione c’era la distinzione tra i bambini che avevano la fascia e quelli che non ce l’avevano; i primi venivano messi in fila dietro la bandiera, ed era una posizione privilegiata, e gli altri davanti a tutti. Io ero tra questi e, ignara di questa differenziazione, ne andavo orgogliosa. Mia madre, mi vide durante la processione e amareggiata, si rivolse alla presidente dell’Azione cattolica dicendole: "Te taglio la capa si la prossima vota nun me mitte a fìglieme addereto a la bandiera". Avevo un legame molto forte con la religione, si facevano i sorteggi per portare i Santi in processione talmente che eravamo in tante a volerlo fare. Solo una volta riuscii a portare la Madonna, ma in cambio di grano che rubai a mia madre, la quale se ne accorse e mi mise in castigo. All’epoca, chi voleva portare i Santi doveva donare qualcosa: grano, farina, ricotta e chi ne portava di più si assicurava tale onore.
Francesca Mastrodomenico | Sant’Andrea di Conza, 5 Ottobre 1932
Sono nata il 5 Ottobre 1932 a Sant’Andrea di Conza, dove ho sempre vissuto con la mia famiglia. Io assomiglio a una sorella di mio padre, che era emigrata in America, sia fisicamente che caratterialmente. Anche mio fratello Rocco è emigrato in Venezuela quando aveva 18 anni, per aiutare la famiglia, perché vivevamo in un’epoca di povertà. Ho perso mia madre quando avevo 6 anni e quando ne avevo 22 mio padre, rimasto vedovo, si è risposato con Anna Cignarella, che aveva già due figli. Ci siamo ritrovati a vivere nove persone tutti nella stessa casa; per fortuna il rapporto con la “matrigna” è stato buono e mio padre ha voluto bene allo stesso modo sia noi che i suoi figli. Mio padre ha fatto il militare nella guerra del
15-18 e mi raccontava di essere sopravvissuto perché, poco prima che scoppiasse un ordigno, si era allontanato per motivi fisiologici. I miei genitori erano contadini, hanno sempre lavorato nei campi e vivevamo con tutto quello che produceva la nostra terra. Ricordo che fin da piccola andavo a pascolare le pecore e le mucche insieme alla mie sorelle più grandi. L’unico gioco che facevamo era li tarantole, attaccavamo una fune a na cerza e ci dondolavamo. Si lavorava sempre, ci alzavamo alle 5 del mattino per andare in campagna, dove restavamo fino al calar del sole e quando dovevamo fare il pane restavamo svegli tutta la notte per impastare e infornare. C’era la furnara che andava di casa in casa e cummannava le diverse fasi della preparazione del pane. Mia madre utilizzava il lievito, poi lo portava ai vicini e così di volta in volta. Ricordo che per macinare il grano non c’era la mietitrebbia come adesso, noi stendevamo il grano a terra e con una pietra trascinata dai buoi, lo schiacciavamo. Noi ci occupavamo degli animali, mentre mia madre preparava il pranzo: foglie, patane e fasule, cucozza, cavatiello, tutto fatto in casa. Ricordo, invece, che durante la guerra ci veniva data la munuzziglia, razionata in base ai componenti della famiglia. Avevamo una casa in paese, e una masseria in campagna. Durante il periodo invernale andavamo a lavorare in campagna e prima che facesse buio rientravamo in paese, mentre nel periodo estivo restavamo in campagna tutto il tempo. Avevamo due stanze con il letto e nu cascione e tutti e nove dormivamo chi da capo e chi da piedi. C’era una cucina e lu suttano. Nella masseria in campagna c’era una stanza dove dormivamo con gli animali e la cucina. Il bagno non esisteva, si usava lu zi peppe che si svuotava la mattina presto, sotto l'arco della terra, dove c’era l’acqua corrente. Erano brutti tempi. La luce non c’era, in casa usavamo la luce a olio o a petrolio, mentre per uscire la sera, visto che le strade erano buie, si camminava cu nu tezzone appicciato. Non c’era l’acqua in casa e per lavarci o per cucinare andavamo a prendere l’acqua nelle fontane o nei pozzi; avevamo un solo vestito, ricordo che una volta mi sono bagnata sotto la pioggia e per asciugarmi giravo intorno al fuoco perché non avevo un vestito di ricambio. Io, insieme alle mie sorelle, per far vedere che avevamo le calze nuove e lucenti le passavamo 'ngoppe a lu culo della cállara, annerita dal carbone. Né io né le mie sorelle siamo andate a scuola, perché non avevamo neppure un soldo per comprare un quaderno. La mia unica amica viveva nella campagna accanto alla mia. Non si usciva come adesso, si lavorava sempre e non c’era tempo né modo di crearsi delle amicizie. Ricordo che a Sant’Andrea c’era un unico medico, Don Luigi Abruzzese a cui ci rivolgevamo quando avevamo dei problemi di salute. Ma non esistevano le medicine di oggi, infatti tra i tanti rimedi naturali c’erano le sanguette (le sanguisughe, che succhiavano il sangue aggrumito), l'aurecchiedda, una foglia che utilizzavo per i frungoli e lu rueto, sempre per le malattie della pelle. Quando avevamo la febbre mia madre ci metteva sulla fronte le patate sbucciate e tagliate a fette strette in un fazzoletto bagnato. A volte si moriva per un niente, perché non si dava importanza al proprio stato di salute anche perché solitamente, come diceva mamma: cussì cumme vène, cussì se ne vaj. La maggior parte delle famiglie aveva il maiale e ricordo che era una festa per noi la sua uccisione; le parti dove la carne è più buona venivano utilizzate per fare la salsiccia o la sopressata, non buttavamo nulla, anche l’orecchio e il muso venivano messi sotto sale e fatti essiccare appesi al soffitto. Il salame buono veniva poi venduto per ricom-
prare un altro maiale. La vendemmia, la mietitura, l’uccisione del maiale erano occasioni per stare insieme e festeggiare con canti e balli. All’epoca le malattie più frequenti erano il tifo, che anche mio marito ha avuto, e la malaria questo sempre perché c’era poca igiene e la situazione è andata via via aggravandosi durante la guerra con la spagnola, malattia letale ed emarginante che procurava la morte in pochi giorni. Il periodo più brutto che ho vissuto è stato appunto quello della guerra. Avevo 10 anni e ricordo con chiarezza che scappavamo di campagna in campagna. Gli aerei che mandavano raggi di luce abbaglianti e il rumore assordante dei bombardamenti! La sera dovevamo stare con le lampade spente per la paura di essere visti e scoperti e provavamo una continua sensazione di ansia e timore al passaggio degli aerei. I soldati tedeschi volevano catturare mio fratello, ma mio padre è riuscito a salvarlo. La situazione era talmente grave che non ci restava più nulla per vivere, tanto che due zii emigrati in America anni prima, ci spedivano pacchi di provviste. Eravamo costretti a dormire per terra nelle campagne e a causa di questo si è diffusa la rogna. In quel periodo vigeva il coprifuoco, non si poteva camminare per le strade dopo una certa ora né da soli né in gruppo, per evitare complotti contro le forze armate. Alla fine della guerra ricordo che i tedeschi hanno fatto saltare con delle mine il ponte dell’Arso per non far passare gli americani. Io non andavo in Chiesa né ci vado adesso, mentre le mie sorelle seguivano la Messa ogni domenica. Nel pomeriggio, mentre loro andavano a ballare nelle case, io preferivo restare in campagna fino a sera. Ero talmente timida che l’unica volta che mia madre mi ha cucito un vestito di colore chiaro non avevo il coraggio di uscire, infatti aprivo la porta, guardavo chi passava e scappavo in casa. Mio padre aveva un ruolo analogo a quello di mia madre, entrambi lavoravano nei campi ed entrambi si occupavano della gestione economica. Ho sempre avuto un buon rapporto con i miei genitori e anche con la mia matrigna. Ricordo che incontrai la prima volta il mio attuale marito mentre andavo a macinare. Avevo in testa un sacco di grano, lui mi guardava mentre lavorava, e così per vari giorni. Finchè finalmente si avvicinò e mi chiese se volevamo vederci (ovviamente sempre insieme a mia sorella, perché non era permesso fare altrimenti), sotto casa mia. Ma la mia risposta è stata sempre negativa. Allora lui chiese a un intermediario di mandarmi l’ammasciata, per farsi dare una risposta definitiva. Dopo avere tentennato per due anni, facendomi tirare la cauzetta, accettai questo fidanzamento. Ogni sabato fino a quando ci siamo sposati, veniva a casa e gli davo un fazzoletto bianco intonando queste parole: Te lo stiro col ferro a vapore? Te lo stiro col ferro a vapore? Ogni pieghino un bacino d'amor..!! Mi sono sposata il 18 Dicembre 1954 in chiesa, con il vestito bianco, abbiamo festeggiato per otto giorni. Potevamo uscire di casa per farci una passeggiata solo il giovedì, il quarto degli otto giorni, e poi attendere la fine della settimana. Solo dopo la domenica successiva si ritornava alla vita normale. Dopo due anni di matrimonio mio marito partì per l’Australia, come tante altre persone del resto, dato che non avevamo niente per poter vivere. Rimase lontano dalla famiglia per 26 anni. Il viaggio dall’Australia verso l’Italia era lunghissimo, la nave impiegava quaranta giorni per arrivare. Ho cresciuto i miei due figli da sola con l’aiuto di mia suocera e di mia cognata che ha vissuto sempre con noi; si sposò giovanissima all’età di 16 anni, e rimase subito sola dato che il marito partì dopo un mese dal matrimonio per la guerra, e non è mai più tornato.
Sabino Scolamiero | Sant’Andrea di Conza, 1 Gennaio 1926
Sono nato il 1° Gennaio del 1926 a Sant’Andrea di Conza. Sono il penultimo di otto fratelli, sei dei quali morti prematuramente. Mia sorella Teresa, che non ho mai conosciuto, è morta all’età di tre anni a causa di una malattia agli occhi di cui non so dirvi; l’altra mia sorella, Lucia, è morta all’età di dodici anni, per una malattia sconosciuta. Gli altri quattro fratelli sono tutti morti entro un anno dalla nascita… prima si moriva senza sapere neanche il perché. Io assomiglio in tutto e per tutto a mia madre, sono basso quanto lei, bruno come lei e ho il suo stesso sguardo austero, la stessa vivacità; mio padre, al contrario di noi, era molto alto ed era più pacato, introverso, un pezzo di pane. I miei genitori hanno sempre vissuto a Sant’Andrea, mia madre era contadina e mio padre era minatore e quando non lavorava l’aiutava in campagna. A me non è mai piaciuto andare a lavorare in campagna con i miei genitori; ogni giorno quando tornavo da scuola avevo l’ordine di raggiungerli, ma io cercavo sempre di svignarmela, preferivo rimanere in paese e giocare con i miei amichetti. Ero talmente vivace che non riuscivo a stare fermo in campagna con una zappa in mano, infatti ero io che organizzavo i giochi, per esempio giocavamo a zompa cavallia, a mazze e piuzo, a lu schiaffo ecc. Ho frequentato la scuola fino alla quarta elementare, odiavo andarci. Poi i miei genitori, per farmi prendere il diploma di quinta elementare, mi hanno mandato alla scuola serale. Ricordo che nella mia classe eravamo in ventotto, maschi e femmine, mi piaceva prendere in giro le bambine e per questo motivo la maestra, severa, mi metteva in punizione con le ginocchia sui ceci o mi picchiava con una bacchetta sul palmo delle mani. Ero un vero e proprio “Don Giovanni”, mi piaceva corteggiare le ragazze, cosa che facevo già alle scuole elementari, ho avuto tante fidanzatine ma quello che adoravo fare ancora di più era ballare. Questa passione l’ho ereditata dai miei genitori, che mi portavano sempre con loro a ballare nelle case fin da piccolo. Erano grandi ballerini e io volevo diventare bravo come loro e infatti ci sono riuscito. Il mio vicino di casa comandava la quadriglia e la tarantella, balli tipici santandreani, e io quindicenne andavo sempre ad osservarlo, perché oltre a saper ballare volevo fortemente imparare anch’io a “comandare” e diventare come lui. Questo è stato un grande traguardo per me, da quel momento in poi ho iniziato a farlo per passione fino ad oggi che ho 85 anni. Ero presente in tutti le occasioni di festa, da quelle patronali ai matrimoni e ho avuto modo di farmi conoscere anche in altri paesi dell’Irpinia. Oltre ad essere “comandante”, ero anche cantautore, infatti io e il mio gruppo di amici portavamo le serenate alle ragazze di Sant’Andrea. I miei genitori ci tenevano a farmi entrare nell’arma dei carabinieri però non riuscii ad entrare perché ero troppo basso. Mio malgrado, dovevo lavorare e per guadagnarmi qualche soldo ho iniziato a fare il manovale. In questo periodo ho incontrato l’amore della mia vita: Maria Giuseppa, la vedevo passeggiare per il paese, ma l’occasione per dichiararmi è stata quando l’ho invitata a ballare ad una festa. Lei mi ha fatto attendere per qualche tempo però poi ha ceduto al mio costante corteggiamento e sia-
mo stati fidanzati per sette lunghi anni. Ci siamo sposati che avevo venticinque anni, ho avuto la dote di cinquantamila lire e siamo andati a vivere a casa dei miei genitori. La mia casa aveva due stanze da letto, una cucina e lu uttaro; io e mia moglie dormivamo in quella che era la camera da letto mia e di mio fratello, dato che lui era emigrato in Argentina. Nonostante fosse l’unico fratello rimastomi, non abbiamo avuto modo di stare insieme perché è partito molto giovane. L’ultima volta che l’ho visto è stato nel 1990, quando sono andato a trovarlo in Argentina. Il mestiere del manovale non mi è mai piaciuto. Lavoravo per necessità, cosi decisi nel 1967 di partire per l’Australia, seguendo le orme di mio fratello. Lì, sono rimasto per otto anni senza mai ritornare dalla mia famiglia, lavoravo in una fonderia di ferro. Sono rientrato in Italia e dopo due anni sono ripartito per altri quattro per andare in Germania, a Stoccarda, dove lavoravo in una fabbrica di mattoni. Il mio continuo vagare si conclude a Monaco di Baviera, dove sono rimasto solo cinque mesi a causa di un’operazione che mi ha costretto a rientrare a casa. Nonostante il periodo di miseria in cui vivevamo, posso dire che ho vissuto bene la mia adolescenza, i miei genitori non mi hanno fatto mai fatto mancare il pane sotto i denti, né mi hanno fatto sentire il peso della sofferenza causata dalla morte prematura dei miei fratelli. Essendo rimasto l’unico dei figli, ho avuto anche quello che sarebbe spettato agli altri. Ho avuto un ottimo rapporto con i miei genitori, mi hanno sempre coccolato. Mia madre si occupava di tutta la gestione economica della casa, mio padre portava i soldi del lavoro e li consegnava immediatamente a mia madre, che ne sapeva fare il miglior uso. Io dico sempre: “La preoccupazione della casa è della donna. L’uomo porta e la donna tiene, e chi lavora di più è la donna”. Incontro conviviale fra emigrati irpini
G. Vallario e consorte (foto di B. Capasso)
Giuseppe Vallario | Sant’Andrea di Conza, 19 settembre 1944
Comincio a ricordare la mia vita dall’età di nove anni, sono nato a casa di zio Marco, in via Mazzini il 19 settembre 1944, a Sant’Andrea di Conza. La mia era una famiglia autoctona, di lavoratori, cresciuti nel paese che da sempre amiamo. All’età di dieci anni ci siamo trasferiti in un’altra casa, situata nel centro del paese, vicino all’allora farmacia. Mio padre era un minatore, mia mamma una casalinga che si occupava anche della campagna e dell’educazione dei figli: mio fratello Arturo, nato il 10 maggio del 1954, e mia sorella Lucia, nata nel 1947, ma prematuramente scomparsa. Mio padre non è mai stato autoritario forse perché lo conobbi poco, o forse perché fin da quando ero piccolo lui era in giro per il mondo a lavorare. Aveva una famiglia molto numerosa, composta da sette figli. La mia infanzia è stata quella di un bambino felice, amato dalla sua famiglia, che non mi ha mai fatto mancare nulla, nonostante le difficoltà dovute al dopoguerra. Ricordo i miei amici di allora, che ogni tanto rivedo oggi sempre con molto piacere: Martino Angelo, Giorgio Leonardo, Frino Vito, Russoniello Pompeo, Scalzullo Vincenzo, con i quali giocavamo e ci divertivamo molto spesso sulle scale della Chiesa di San Michele. La mattina andavo a scuola, il pomeriggio essendo mia mamma impegnata a lavorare, mi portava da una
mia zia a Pescopagano, dove andavo a pascolare i buoi e le pecore; tornato a casa accendevo il fuoco dove poggiavo una bacinella piena d’acqua, con la quale poi mia mamma cucinava la cena. Una sera questa bacinella mi cadde su un piede e mi scottai; ebbi tanto dolore ma passò con un po’ di tabacco posizionato sulla bruciatura. In fin dei conti la mia è stata un’ infanzia felice si, gioiosa, ma che mi ha permesso fin da subito di capire le difficoltà della vita, del lavoro, perché fin da piccolo ho capito cosa volesse dire portare il pane a casa. Ho iniziato a frequentare la scuola all’età di cinque anni, ho sviluppato tutto il percorso delle elementari, poi purtroppo qui a Sant’Andrea di Conza non c’era la scuola media, e quindi fui costretto ad abbandonare il mio percorso di studi, anche perché a casa c’era comunque bisogno di altre due braccia per lavorare visto che di lavoro ve ne era molto, tra campagna, pascoli e faccende domestiche. Nel 1957, l’allora parroco, Don Attilio, venne da me per riferirmi che stavano istituendo la scuola media a Pescopagano; mi iscrissi, ma lasciai quasi subito perché non riuscivo a conciliare la scuola con il lavoro in campagna e anche perché mi fecero capire che per la scuola non ero molto portato. Nonostante tutto ricordo gli anni scolastici come anni meravigliosi, fatti di divertimento con i compagni di allora, e anche di ottimi rapporti con i professori. Sono stato un gran lavoratore fin da piccolo, ho intrapreso il lavoro di fabbro che poi nel corso della mia vita, nonostante abbia fatto altri lavori, non ho mai abbandonato del tutto. Il mio primo vero lavoro, diciamo cosi perché venivo retribuito, fu a Santacroce sull’Arno, all’età di diciassette anni. Fui ospi-
te di una mia zia e facevo il fabbro. In questa località il mio soggiorno durò circa quaranta giorni, non riuscii a stare di più perché mi mancava troppo la mia famiglia, visto che era la prima volta che mi allontanavo da casa. Poco dopo decisi di andare a trovare lavoro in Francia; partii con il fratello di colei che poi sarebbe diventata mia moglie. Era il mese di agosto dell’anno 1963, la località era Dammaris Delis vicino Parigi. Dovevo fare il fabbro e invece mi ritrovai a fare il saldatore in una fabbrica di termosifoni chiamata la Idel standard la fabbric du radiator. Nell’agosto del 1963 tornai a casa la sera della vigilia di Pasqua, perché un amico voleva che facessi la serenata alla futura moglie; non ero molto intenzionato ma decisi di andare per non fargli torto. Comunicai al mio datore di lavoro che non stavo bene e partii. Arrivai a Foggia alle 10:30 del sabato santo, presi un taxi che con quaranta mila lire mi portò a casa. Fu una bellissima serata, ma tornato in Francia il lunedi fui licenziato, perché avevano saputo del mio viaggio. Pensate un po’ cosa non si fa per gli amici: persi soldi e lavoro!!! Decisi a quel punto di andare a lavorare in Svizzera e precisamente a Losanna, dove iniziai a lavorare in un ristorante: pelavo le patate. Nel fine settimana cercavo un lavoro più remunerativo, oppure un lavoro che valorizzasse ciò che avevo sempre saputo fare, ossia il fabbro. Trovai posto in una fabbrica sempre li a Losanna: la Iverton. Vi rimasi per tredici mesi. A quel punto presi la decisione che in qualche modo mi cambiò la vita: decisi di andare in Canada dove avevo ben sette zie. Partii il 12 marzo del 1965. Questo viaggio mi permise anche di non fare il militare, rispettando sempre le vigenti normative di allora. Tornai a casa il 22 dicembre, sistemate le ultime pratiche per il militare, mi sposai con la compagna di una vita, e ritornai in Canada con lei. Avevamo un negozio di alimentari con il quale ci siamo sempre trovati benissimo. I primi tempi furono molto duri, avevamo pochi soldi in tasca, ma con enormi sacrifici abbiamo vissuto davvero molto bene. Riuscimmo a comprare anche diverse case, che poi davamo in affitto. Dopo qualche anno le cose non andarono più bene, il Canada non era più il paese di una volta, troppi stranieri e anche il commercio andava un po’ esaurendosi. In Canada sono nate le nostre tre figlie: Teresa nata il giorno dell’Epifania del 1967,e le due gemelline Generosa e Michelina, nate il 13 febbraio 1970. In tutto, il Canada ci ospitò per tre anni. Il 28 agosto del 1967 tornammo in Italia (mai decisione fu più sbagliata), e iniziai a lavorare come camionista. Saremmo voluti stare per pochi anni per poi far ritorno in Canada, ma non fu cosi. Come camionista portavo la sabbia che poi è servita per costruire l’attuale ospedale di Pescopagano. In seguito, sono diventato socio di una carrozzeria, poi di nuovo fabbro, fino alla mia agognata pensione. Nel 1985 mi candidai per le elezioni comunali come indipendente nel partito socialista. Il risultato fu la vittoria delle elezioni grazie a un capillare e continuo lavoro di propaganda e di persuasione, almeno cosi mi dissero i miei amici. Ci controllavamo, i candidati e i simpatizzanti, a vicenda senza perderci d’occhio mai; posizionavamo le auto davanti alle case di alcune persone per fare credere agli avversari che eravamo in quella abitazione in modo che loro non entrassero. Presi 7 voti in meno del candidato sindaco vincente, fui nominato assessore al personale e successivamente solo assessore poiché lavoravo e non avevo molto tempo da dedicare all’azione amministrativa. Sono da sempre molto religioso, almeno intimamente, perché non mi è mai piaciuto mostrare la mia fede ad altri in maniera ossessiva. Per tutta la mia vita, Don Attilio, il nostro parroco,
mi invitava a raccogliere i ragazzi per portarli in parrocchia la domenica mattina; fui presidente dell’Azione cattolica. Una storia molto particolare è legata alla statua di Nostro Signore, che ho costruito e sistemato all’entrata del giardino di casa mia: sono stato molto male diverse volte, ho girato vari ospedali e consultato diversi dottori. Sono stati anni molto duri, difficili, e se sono qui a raccontare la mia vita sono sicuro che lo devo a lui, ed è per questa cosa che ho deciso di dedicargli la statua, in modo da tenerlo sempre con me, vicino a me e nel mio cuore. Le mie più grandi passioni, condivise con mia moglie, sono sempre state la danza, il ballo e la musica. Tante serate abbiamo allietato con la nostra presenza, ed io in particolare con il mio amato riganetto, “compagno di tante serate”, ho contribuito a rendere felici tanti miei amici aiutandoli nel cantare le serenate alle loro future mogli.
Filomena Petrozzino | Conza della Campania, 8 Marzo 1929
Sono nata a Conza della Campania l’ 8 Marzo del 1929, ho tre sorelle e tre fratelli. I miei genitori entrambi contadini, sono stati molto presenti. Mio padre era una persona chiusa ma non era molto severo, perciò avevo più confidenza con mia madre che era, invece, più aperta ed espansiva. Vivevamo in campagna, in una casa isolata composta da una cucina e due camere da letto, in una dormivano i miei genitori e i miei fratelli, mentre nell’altra io e le mie sorelle. Ho lavorato nei campi fin da piccola, accompagnando e aiutando i miei genitori. Nel periodo estivo, la sveglia suonava alle due di notte quando dovevamo svolgere i lavori in campagna più faticosi, come l’aratura con il carro e l’aratro trainato dai buoi, la semina e la pulizia dei campi dalla zizzania. Nel periodo invernale, invece, la sveglia suonava alle 6:30 perché dovevamo dedicarci agli animali (pecore, maiali e mucche). Svegliandoci così presto, alle 9:00 si faceva una pausa e si consumava un pasto completo, fatto di zuppe di ceci, o di fave, minestre, peperoni e patate, salumi, formaggi e latte di produzione propria. D’estate, invece, poiché l’ora di inizio dei lavori è anticipata, il primo pasto avveniva verso le 7:30, seguito da quello delle 12:00, nonchè da quello delle 16:00, più leggero, composto di frittata, insalata e pomodori e un buon bicchiere di vino. Appartengo ad una famiglia talmente umile che spesso aveva bisogno di lavorare, per conto di altri, nei campi, solo per guadagnare i tre pasti quotidiani. Le uscite erano rare, escluso il venerdì che è il giorno del mercato nella vicina stazione ferroviaria. La domenica ci si recava in chiesa, all’unica messa delle 9.00, indossando, al rovescio, gli abiti usati quotidianamente, perchè il tessuto interno è meno logoro di quello esterno. Le scarpe hanno le suole fatte con i chiodi, le centrelle. Per gli uomini è abitudine indossare il cappello, rigorosamente tolto dal capo durante le cerimonie in chiesa. La mia famiglia, pur dedicandosi a tempo pieno al lavoro in campagna, riusciva a possedere soltanto il necessario per sopravvivere, essendo numerosa. La mia famiglia consumava pochissima carne (infatti, pollo e coniglio costituiscono i pasti delle feste o della domenica). A tavola, non esistevano i piatti per ogni commensale. Le portate erano servite in un’unica zuppiera, posta al centro della ta-
vola. Ognuno si serviva utilizzando cucchiai di dimensione maggiore rispetto a quella normale, per cercare di procurarsi porzioni maggiori di cibo. Ma, nonostante ciò, dato il numero elevato dei componenti della famiglia, spesso accadeva che non tutti riuscivano ad avere il secondo boccone. Si consumava la frutta raccolta sui propri alberi o rubata, naturalmente con il rischio di essere scoperti e inseguiti! Io e i miei fratelli solitamente indossavamo larghi pantaloni, legati alle caviglie, che fungevano da sacco utile alla “raccolta” della frutta altrui. Ovviamente, in questi casi, non mancavano gli imprevisti. Ad esempio, una volta, mio fratello Giuseppe, sopraggiunto il padrone del campo in cui stava effettuando il furto, si nascose sotto un ammasso di foglie, ove rimase, in silenzio e terrorizzato, per ore, avendo il padrone deciso di riposarsi proprio lì, ignaro della presenza del “ladro”. La mia casa era priva di servizi igienici, come quella di tutti i suoi vicini. I bisogni si soddisfacevano nel rinale, che veniva svuotato lontano da casa, vicino a qualche fiume o torrente, trasportato sul capo dalle donne. Le strade, poi, erano di terra battuta, per cui quando pioveva bisognava indossare gli stivali. In paese, la comunità si riuniva nella piazza antistante la chiesa madre, imponente e ricca di preziosi arredi sacri. Le esigenze civili venivano soddisfatte dagli impiegati del piccolo comune, inizialmente collocato vicino alla fontana, al centro della piazza del paese. Vi era soltanto la scuola elementare, nella quale un’unica maestra istruiva i giovani del paese, riuniti nella classe unificata. I ragazzi che abitavano in campagna, invece, frequentavano un’altra scuola elementare, presso la quale si recavano le maestre provenienti dal paese. La mia famiglia ha avuto notevoli difficoltà economiche per acquistare l’unico libro di testo (il sussidiario), enorme perché comprensivo di tutte le materie scolastiche. Il grado medio di istruzione si aggirva intorno alla seconda elementare. I genitori degli alunni erano quasi tutti analfabeti. Mio fratello Giuseppe, una volta raggiunta la maggiore età, partì per il fronte. Rimase lontano da casa per ben sei anni, dopo un periodo di prigionia prima a Lampedusa e poi in Algeria. Ricordo che l’altro mio fratello, Vincenzo, terminata la seconda guerra mondiale, tornò a Conza, a piedi, dalla Calabria. Avevo 22 anni quando incontrai per la prima volta ad Andretta, alla Fiera primaverile sulla Mattinella, Raffaele Donatiello, di 27 anni, che è diventato mio marito dopo un breve corteggiamento. Infatti, il mese successivo al primo incontro, Raffaele si recò da un mio vicino per acquisire informazioni e ad agosto venne ospitato per la prima volta a casa mia. Il 14 marzo Raffaele mi dedicò la tradizionale serenata, con canti e balli locali. Il giorno successivo, il 15 marzo 1952, ci sposammo dopo numerose pressioni familiari, avendo ormai raggiunto i 23 anni, età considerata all’epoca già tardiva per una ragazza per contrarre matrimonio. La cerimonia venne celebrata nella chiesa madre di Conza. Ricordo che indossavo un abito bianco, con un lungo velo e un bouquet di fiori di campo essiccati, cucito dalla sarta del paese, Vincenza Criscito, presso la quale andai per anni per imparare il taglio e il cucito. Il banchetto nuziale contava circa novanta invitati, che festeggiavano nella casa in campagna consumando un ricco pranzo terminato con il classico giro di dolci e biscotti, data l’inesistenza dell’odierna torta nuziale. Non ho foto delle mie nozze perché l’unico fotografo del paese era già impegnato altrove. A Conza, per tradizione, la famiglia dello sposo paga l’abito della sposa. Ma la mia famiglia preferì pagare l’abito nuziale e preparare il materasso del letto matrimoniale con la lana delle proprie pecore, mentre la famiglia di
Raffaele ci regalò la struttura del letto e le reti. Abbiamo avuto tre figlie femmine, di cui due gemelle, delle quali una è morta alla nascita. Maria è nata nel gennaio del ’53 e Silvana nel gennaio del ’57, entrambe in casa con l’aiuto di una levatrice e con il successivo intervento del medico del paese, dott. Cantarella. Inizialmente, io e mio marito non avevamo una nostra abitazione ma siamo stati ospitati dai miei suoceri in una casa nella campagna di Conza, a confine con Andretta. Dopo tre anni, con le nostre due bambine, ci siamo trasferiti in paese. Dopo sette anni, finalmente siamo riusciti a costruirci la nostra casa in campagna, in piano San Vito, ove abbiamo vissuto per trent’anni, fino all’espropriazione avvenuta per costruire la diga di Conza. Dopo il terremoto, ci siamo trasferiti nel nuovo insediamento di Conza, in un piccolo appartamento in affitto. Contemporaneamente, abbiamo costruito una piccola casa in campagna, dove tutt’ora, rimasta vedova, vivo. I vari traslochi sono stati fatti con l’aiuto della gente del paese che possedeva un camion. Era sufficiente ogni volta un unico viaggio perché gli averi da trasportare erano pochi. Io e mio marito eravamo contadini. Raffaele, in cerca di un’occupazione retribuita meglio, nel ’59 emigrò in Svizzera, ove rimase per vent’anni. In media tornava a Conza dalla famiglia due volte l’anno, di solito in estate e a Natale. Durante il lavoro nei campi, al quale mi sono dedicata tutta una vita, quando le mie figlie erano ancora molto piccole, non potendo affidarle ad alcuno, le portavo con me in una grande cesta, la navizza o sporta, coperta da un ombrello se c’era troppo sole o pioggia. La mia prima figlia ha conseguito il diploma di scuola media e quello di taglio e cucito; la seconda ha frequentato la scuola d’arte a Calitri. Le mie figlie sono cresciute nella parsimonia, perché tutto il superfluo rappresentava lo “sfruscio”, che io non potevo permettermi. Le mie figlie hanno ricevuto il battesimo poco dopo la nascita. La prima figlia è stata battezzata in chiesa, con la madrina Gerardina; mentre la seconda in casa, perché era troppo cagionevole, con la madrina Marietta e, solo in un secondo momento, benedetta in chiesa, con la presenza del padrino Minicuccio Varraso. Entrambe le mie figlie si sono sposate con la cerimonia religiosa, intorno ai vent’anni. Ricordo la solitudine di tutte le donne del paese durante la seconda guerra mondiale,perché i loro uomini erano impegnati al fronte. Durante i bombardamenti ho perso gran parte degli animali posseduti dalla mia famiglia. I tedeschi per sette giorni occuparono la mia casa di campagna, costringendomi, con le mie figlie, a rifugiarci in paese. I tedeschi, inoltre, uccisero tutte le mie galline, lasciando le teste, chiuse in una busta. La sofferenza e la paura finirono con l’arrivo degli americani, che portarono a Conza generi alimentari e vestiti e distribuirono denaro alla povera gente. In seguito alla guerra, a causa della scarsa igiene, si diffusero epidemie di pidocchi, debellate con i medicinali portati dagli americani. Il terremoto del 23 novembre 1980 non distrusse la mia casa in piano San Vito. Crollò soltanto il box-garage, ove era custodita l’auto. Fortunatamente, non ho subito lutti. Gli abitanti di Conza, in seguito al sisma, hanno ricevuto tre milioni di lire per famiglia, ma purtroppo ho avuto oltre il danno anche la beffa, perché non ho ottenuto alcun risarcimento e, in aggiunta, sono stata persino espropriata. Ricordo i tanti rimedi naturali con i quali si affrontavano i malanni: ad esempio, la cenere calda in un fazzoletto per il mal di gola; la pietra fredda sull’ombelico per il mal di pancia; l’orzo bollente per la tosse; la polvere bianca all’interno delle canne come disinfettante delle ferite; il ferro bollente strofinato sulla cipolla bollente
per medicare le ferite. So fare le previsioni metereologiche scrutando il cielo: ad esempio, se c’è un alone luminoso intorno alla luna piena, prevedo la pioggia (lago a luongo, acqua a curto). Inoltre, sempre guardando il cielo, stabilisco l’ora: ad esempio, se le stelle sono riunite a forma di chiocciola, la voccola, è mezzanotte, se è visibile un’unica stella molto luminosa, è l’alba. Uno dei piatti tipici di Conza è la pizza e minestra cucinata con le frittole e cioè grasso di maiale fritto, finocchietto, farina gialla e verza. In casa le donne preparavano a mano ravioli, tagliatelle e cavatielli. La pasta infatti si acquistava confezionata soltanto nei giorni in cui noi donne, impegnate nel lavoro dei campi, non potevamo farla a mano.
Gerarda Ciccone | Conza della Campania, 24 Novembre 1946
Sono nata il 24 Novembre 1946 da papà Pietro e mamma Giuseppina a Conza della Campania. La mia famiglia di provenienza è conosciuta in paese con il nome Iacoviello, derivato da Giacomo, un prozio facoltoso di mio padre; la famiglia di mio marito, invece, come “la famiglia di Peppe Antonio”, suo prozio. Sono la terza di quattro figli; ho un fratello di nome Giuseppe e due sorelle di nome Teresa e Angela Maria. I miei genitori sono molto severi ma allo stesso tempo affettuosi e sempre presenti. Io e i miei fratelli abbiamo lavorato sodo fin da piccoli perché i nostri genitori lo pretendevano; infatti, all’età di cinque anni già dovevo sorvegliare gli agnelli nei pascoli e all’età di nove anni ero responsabile di sessanta pecore. Guai a perderne qualcuna! Tutti insieme grandi e piccoli, durante l’autunno, uscivamo presto al mattino per raccogliere la legna per usi domestici e per riscaldarci durante l’inverno. Pur abitando in paese ci dovevamo recare quotidianamente in campagna per lavorare, dopo aver camminato per circa un’ora. In casa non esisteva una cucina, si cucinava per terra con un treppiedi in ferro e un fuoco acceso. La prima cucina a gas l’abbiamo comprata solo nel 1956, acquisto talmente nuovo per noi donne di casa che non sapevamo neanche come pulirla! La mia casa era in cima al paese, circondata da vicini simpatici e con i quali la mia famiglia intratteneva ottimi rapporti. Spesso nelle serate invernali ci si riuniva per ascoltare dagli uomini i fatti di guerra, che mi piacevano tanto. La mia casa era composta di tre stanze e una cucina, priva di servizi igienici, perciò i bisogni fisiologici si soddisfavano in un vaso da notte o recandosi lontano da casa. Mancava anche l’acqua corrente. Ogni operazione diventava una fatica per il continuo andirivieni necessario per il trasporto dell’acqua. D’inverno la sveglia suonava alle sei del mattino, ricordo che bevevamo caffè allungato con acqua (mia zia, emigrata in America, lo spediva insieme ad altri viveri di tanto in tanto e ciò rappresentava un grande privilegio) e facevamo una sontuosa colazione a base di peperoni fritti, patate, frittata, formaggio. Da piccola, amavo alzarmi al profumo di peperoni piccanti fritti che mangiavo con piacere e voracità nonostante la tenera età. La seconda colazione avveniva verso le diciotto, al ritorno a casa, una volta finito il lavoro. D’estate, invece, la sveglia suonava ancor prima, verso le tre o le quattro. Ci si recava in campagna per zappare e innaffiare l’orto, per seminare o mie-
tere, a seconda del periodo, il grano, il granturco, il mais, le patate. Il lavoro più faticoso si svolgeva nella stalla e nel porcile. Bisognava sfamare, dissetare e pulire maiali, vitelli e capre, e governare galline e conigli. Mamma e papà si dedicavano alla mungitura delle mucche per la raccolta del latte che serviva per la preparazione di ricotte, formaggi e caciocavalli. Parte dei prodotti ricavati servivano per l’alimentazione della famiglia e il resto veniva venduto al mercato per ricavarne qualche soldo o barattato con prodotti non posseduti. Essendoci svegliati tanto presto, la prima colazione si consumava verso le dieci-undici del mattino e diventava un vero pasto, ricco e completo, costituito di ricotta, salumi, pomodori, patate, frittate e un buon bicchiere di vino. Alle ore quattordici si pranza con un pasto più leggero fatto di zuppe di legumi e fave,con cipolle e insalate. Di sera, poi, a casa, si preparava qualcosa di caldo e poche volte si consumava la pasta asciutta. La Domenica mi recavo in chiesa con mamma e le mie sorelle, libere dal lavoro in campagna. Mio padre ci accompagnava solo nei giorni di festa importanti. Il vestito era modesto ma sempre pulito. Di solito ci si faceva cucire un vestito per Sant’ Erberto, festa patronale, vestito indossato, poi, tutto l’anno. L’anno seguente lo stesso veniva usato come abito di tutti i giorni da una mia sorella e si acquistava un abito nuovo. Si viveva con parsimonia ma in maniera dignitosa e, tutto sommato, non mancava il necessario. Ho frequentato la scuola elementare fino alla quinta classe. Mi piaceva tanto studiare ed ero anche brava, ma per i miei genitori il dedicarsi allo studio rappresentava una perdita di braccia e, perciò, non acconsentirono alla prosecuzione degli studi. Per recarsi a scuola, impiegavo un’ora e un’altra ora per tornare in campagna. La sera a casa svolgevo i compiti. I miei genitori non erano analfabeti, entrambi hanno frequentato le prime due classi delle elementari e dunque sapevano leggere e scrivere. Non ho molti ricordi della guerra perché non l’ho vissuta. Ho dedicato la mia vita al lavoro nei campi e alla cura degli animali. Fino all’età di venti anni la mia vita trascorre più o meno così. A ventuno anni ho conosciuto Silvio, di undici anni più vecchio di me, presentatomi da un vicino di casa. In quel periodo, ero innamorata di un ragazzo purtroppo emigrato negli Stati Uniti, ed è per questo che non ho voluto accettare il suo corteggiamento ma, successivamente ho ceduto alle sue lusinghe, nonostante la differenza di età e la consapevolezza di dover lasciare il paese, una volta sposata, per trasferirmi in campagna con i suoceri. Il fidanzamento dura un anno, durante il quale c’è stato lo scambio dei regali. Io ho regalato a Silvio un anello di fidanzamento, bellissimo e costoso (undicimila lire, molto per quei tempi!). Silvio ha ricambiato con un anello di oro bianco e un orologio. Nel giorno delle Palme, poi, mi ha regalato una spilla con le iniziali del suo nome e cognome. Il 20 marzo 1965 ci siamo sposati in chiesa. L’abito era bianco, pieno di pizzi e merletti, con un velo lunghissimo e mi è stato regalato da mio marito. Io ho ricambiato regalandogli una camicia e tre fazzoletti. La festa si svolse in casa dei miei suoceri che prepararono il pranzo per i parenti e i vicini, costituito da pasta a mano, carne, coniglio imbottito, biscotti e taralli dolci. Accanto al mio piatto c’era un pacchettino contenente un paio di orecchini, regalo dei miei suoceri. I miei genitori, invece, ci hanno regalato la camera da letto (letto e armadio) e i materassi di lana. Finita la festa, sono stata presa dallo sconforto, non riuscivo ad accettare di vivere in quella casa isolata, ove, però, sono comunque rimasta per ben sedici anni. La mia vita è cambiata radicalmente con il matrimonio: “dalle stelle
alle stalle!”. In casa dei miei suoceri c’erano abitudini diverse e io mi sentivo quasi un’estranea. Poi la mancanza di corrente elettrica , di acqua e di servizi igienici rendeva tutto più faticoso e stancante. Ma tra il duro lavoro e la nascita della prima figlia nel 1967, Serafina, la situazione migliorò. Il parto avvenne in casa con l’aiuto della levatrice e del medico. Il battesimo è stato celebrato in chiesa e poi, con una piccola festa in casa. Nel 1971 è nato Gerardo, il mio secondo figlio. Il parto avvenne a casa dei miei genitori, con l’aiuto del medico. Il battesimo in chiesa. Entrambi sono sani e sono cresciuti senza particolari problemi, tranne le malattie esantematiche e qualche febbre. La loro infanzia e adolescenza è segnata però dal lavoro! Ci hanno seguito e aiutato nei campi fino alla maggiore età. Poi, Giuseppe è emigrato in Germania all’età di 19 anni, ove ancora vive e lavora; mentre Serafina si è sposata all’età di 18 anni e si è trasferita a Pescopagano, paese vicino Conza, ove tuttora vive e lavora. Crescere i figli è stata un’impresa per me, appesantita dalle difficoltà economiche e dalla poca comprensione di Silvio. Si lavorava tanto e gli svaghi erano pochissimi, ad esempio qualche visita alla mamma e alle feste comandate. Il lavoro che ricordo come distruttivo era l’aratura dei terreni con aratro e buoi trainati a mano. Solo nel 1972 abbiamo acquistato, finalmente, la motozappa. Il terremoto del 23 novembre 1980 mi ha coinvolto in maniera traumatica. Ricordo che ero in cucina con mia figlia quando iniziarono le scosse. Istintivamente, scappammo nell’aia. La nostra casa crollò sotto i nostri occhi! Silvio e Gerardo, però, dormivano e non si accorsero di niente. Dopo la scossa li chiamai ripetutamente. Fortunatamente, protetti da una trave messasi di traverso, riuscirono a uscire indenni dalle macerie e a riabbracciarci, dopo qualche ora. Dopo il terremoto io e la mia famiglia abbiamo vissuto in una baracca per due mesi, poi in una roulotte per un altro mese e, infine, in un prefabbricato per ventisei anni. Nel 1986 è nato Emanuele, “il mio bastone della vecchiaia”. Il parto, data l’età avanzata, è avvenuto in ospedale. Emanuele vive ancora con noi. Il battesimo è stato celebrato nella chiesa di Conza con una bella festa per l’inaspettata nascita. All’età di 59 anni, per problemi di salute, sono andata in pensione e ora trascorro le mie giornate a fare piccoli lavori all’uncinetto per figli e nipoti e mi occupo della casa. Ho ancora un piccolo orto che io e mio marito curiamo per puro diletto e per uso personale. Abbiamo venduto i capi di bestiame, abbiamo lasciato la campagna, e adesso viviamo in un piccolo appartamento in affitto in paese. Vado tutte le Domeniche in chiesa ed esco spesso con le amiche per una salutare passeggiata. La pensione di entrambi ci ha regalato una certa serenità.. A gennaio ammazzavamo il maiale. Tutti insieme, fratelli, sorelle, amici e parenti, ci recavamo in campagna di buon’ora. Prima di tutto, si preparava una succulenta colazione a base di baccalà, prosciutto, peperoni fritti, formaggi, salumi e tanto buon vino. Poi, si ammazzava il suino. Due persone portavano via la testa dell’animale, che andava ripulita ben bene e messa a bollire, per poi essere unita al sugo con il quale si condiva la pasta da mangiare il giorno dopo. La carne del maiale, infatti, deve riposare tutta la notte e successivamente veniva insaccata per farne salami, messi ad essiccare. Per curare le ferite si utilizzava un’erba, la spruie, che veniva pestata per utilizzarne la poltiglia. La slogatura veniva curata, in prima battuta, da una signora conosciuta in paese come guaritrice e, poi, si applicava sulla parte interessata impacchi di olio d’oliva e bianco d’uovo.
Le sorelle Guglielmo (foto di B. Capasso)
Angelina Gugliemo | Andretta, 27 Settembre 1923 Antonietta Guglielmo | Andretta, 26 Settembre 1926
Sono nata ad Andretta il 27 settembre 1923, mentre mia sorella Antonietta è nata il 26 settembre del 1926. Siamo figlie di Guglielmo Giuseppe, nato ad Andretta il 22 luglio del 1899, e Senerchia Lucia, nata ad Andretta il 29 dicembre 1900, uniti in matrimonio il 10 ottobre 1922. Tra noi due, nacque un figlio maschio, voluto fortemente da nostro padre, che però morì a soli 40 giorni dalla nascita. Nui roie fino a mó nun' avimmo mai sciarrato, mai!. Abbiamo caratteri alquanto diversi: io, che sono la maggiore, sono più timida, a tratti spiritosa, mentre Antonietta sembra essere più autoritaria, ma paziente, un carattere, secondo me, ereditato da mio padre. Abbiamo sempre vissuto in paese, ad Andretta, in via Annunziata, alle spalle della Chiesa omonima, in una casa con stanze piccole. Aveva un unico ingresso ed era formata da una parte anteriore, dove abitavamo composta da una cucina, focolaio tavolo e sedie e una parte posteriore, adibita a stalla, dove c’erano gli animali (asino, capra e buoi).
Non avevamo i riscaldamenti, le uniche fonti di riscaldamento erano il camino, lu fuculieri e gli animali. Il nostro lavoro è stato sempre legato alla coltivazione dei campi, anche se nostro padre non disponeva di una grande proprietà, ma aveva molti terreni in fitto, distribuiti tra contrada Schiavi, Formicoso e Lozzano. Oltre a lavorare la nostra terra, andavamo anche a lavorare alla giornata, spesso per scontare debiti o favori, la cosiddetta jurnata a scunto. Abbiamo pochi ricordi dei nostri primi anni, tra i quali la morte della nostra nonna materna mamma-Antonia, avvenuta nel 1933 e, l’abitudine di nostro padre a cena di farci sedere entrambe sulle sue gambe per farci mangiare. Quanto alla formazione scolastica, abbiamo fatto un solo anno di asilo in località Costa (in abitazioni private). Io ho frequentato la scuola fino alla IV elementare, mentre Antonietta fino alla III elementare; ciò nonostante sorema ne sape cchù re mè! Ho frequentato la prima elementare a Palazzo Miele, la seconda in una casa privata in località Costa (casa Valantino) e la terza e la quarta al Palazzo Scolastico, attuale sede delle scuole elementari di Andretta. Antonietta, invece, ha frequentato tutti e tre gli anni al Palazzo Scolastico; avevamo poche amiche fidate e dei maestri ricordiamo soprattutto la maestra Teresina Miele. L’educazione scolastica era molto rigida, si era timorosi verso gli insegnanti, che spesso punivano gli allievi mettendoli dietro la porta con le ginocchia sui ceci o sul granturco. Non abbiamo avuto malattie come il morbillo o altro, ma ricordiamo di aver passato la scarlattina, Antonietta a sette anni e io a circa dieci anni; mentre Antonietta la curò con i farmaci, io l’ho superata grazie al vino. Disponevamo di pochi abiti, era consuetudine riciclarli e passarli da un figlio a quello successivo; le scarpe si facevano ogni settembre, dopo il raccolto, quando si vendeva qualche quintale di grano e nostro padre poteva comprare l’occorrente per chiamare in casa i mastri scarpari, che cucivano le scarpe. Non abbiamo fatto né viaggi, né tantomeno pellegrinaggi; l’unico pellegrinaggio era quello che facevamo a San Gerardo una volta l’anno: andavamo a piedi, partendo alle quattro e mezzo di notte, per arrivare alle nove di mattina; spesso, durante il percorso, incontravamo persone che, munite di automobili, ci prendevano in giro perché viaggiavamo con l’asino. Eravamo solite andare in chiesa la domenica mattina, per partecipare alla messa delle nove oppure a quella delle undici. Per noi andare a messa la domenica era ed è una vera e propria tradizione, tanto che, ancora adesso andiamo a messa tutti i giorni alle ore diciotto e, quando non lo facciamo, sentiamo che manca qualcosa nella nostra giornata. In famiglia eravamo uniti, c’era più rispetto verso i genitori, si ubbidiva e si collaborava; a prendere le decisioni era quasi sempre nostro padre, il capofamiglia, in accordo con nostra madre. Ogni membro della famiglia aveva un ruolo; quando rientravamo dalla campagna, svolgevamo i servizi di casa: c’era chi provvedeva alla sistemazione degli animali nella stalla e alla mungitura, chi attizzava il fuoco per preparare la cena, chi preparava la laghena (panetto fatto di acqua e farina da cui si ricavavano vari tipi di pasta fatta a mano); si trattava di una collaborazione quasi meccanica e molto solidale. Non esistevano distinzioni affettive verso i genitori, andavano d’accordo con tutti e due, tanto che: quanne mangiammo, tata 'ngi mettìa una 'ngimma a na cossa e l'auta 'ngimma a
l'auta" (ci faceva sedere sulle sue gambe); nostro padre appariva autoritario ma ci trattava bene e allo stesso modo. Nell’ambito del piccolo quartiere in cui abitavamo, si era molto solidali, si stava più in compagnia, si rispettavano i vicini e si parlava con tutti, soprattutto perché: a tata nun' li piacìa scì sciarranno!. In realtà non mancava, però, qualche famiglia un po’ più impicciona degli affari altrui o con “le mani un po’ lunghe”, dalle quali bisognava stare in guardia. Ricordiamo che spesso d’estate, al ritorno dalla campagna, dopo cena, ci sedevamo davanti casa con i vicini e trascorrevamo la serata tra una chiacchiera e l’altra, mentre d’inverno andavamo spesso in casa di parenti anziani dove questi, davanti al fuoco, raccontavano storie passate, spesso anche inventate. Prima era tutto diverso, si stava meglio, la gente era più brava, c’era più socialità; oggi c’è molta cattiveria. Durante i lavori in campagna, ci alzavamo presto la mattina (alle quattro e mezza) per preparare non solo la colazione di metà mattinata, che era quasi sempre soffritto di peperoni, patate e baccalà, ma anche il pranzo da portare con noi, perlopiù cinguli, cavatelli fatti a mano e poca carne. La pasta secca veniva comprata una volta ogni tanto e si acquistava sfusa; c’era l’usanza di preparala in casa forse anche per risparmiare. La sera, invece, cenavamo di solito con verdure, polenta, legumi e pane. Ci accontentavamo di quel poco che potevamo ricavare dai lavori manuali, ma non ci lamentavano: ni in cielo e mango in terra; nun'è mancato niente, imo fatecato cum' a li ciucci ma imo mangiato cum'a li maiali. Mi sono sposata all’età di 22 anni, con Giuseppe Venezia di anni 20, giovedì 11 gennaio 1945 Abbiamo avuto due figli maschi: Francesco, nato il 31 agosto 1945 e Antonio nato il 6 febbraio 1948. Francesco fu battezzato, come la tradizione dettava per il primogenito, dopo otto giorni dalla nascita, il 7 settembre 1945 (si trasia in santo). I miei figli sono alquanto diversi di carattere, tanto che il primo è di poche parole mentre l’altro parla troppo. Mio figlio Francesco adora il gioco delle bocce e delle carte. Mio marito Giuseppe emigrò in Svizzera, dove lavorò per circa trent’anni 1947/1975; tornava ad Andretta, dalla famiglia, per soli due mesi l’anno. Morì il 25 settembre 1999. Antonietta si sposò a 21 anni, con Francesco Fierro di anni 25, sabato 20 dicembre 1948. Dal matrimonio dei due nacquero tre figli: Alessandra nata il 31 agosto 1949, Giuseppina nata il 22 dicembre 1956 e Giovanni nato il 25 febbraio 1959. Anche qui la primogenita fu battezzata dopo otto giorni dalla nascita, il 7 settembre 1949. Antonietta considera Giuseppina e Giovanni molti simili di carattere, calmi e ponderati, mentre Alessandra è un po’ più ribelle; ricorda che in occasione di una festa “la rottura della “pignata” la figlia Giuseppina si fratturò una gamba. Il marito Francesco morì il 9 agosto 1982.
G. Cifrodelli (foto di B. Capasso)
Giuseppe Cifrodelli | Caposele, 28 maggio 1926
Nella mia famiglia non ci sono tratti fisici particolari e caratterialmente siamo tutti molto simili. Sono nato il 28 maggio 1926 a Caposele e della mia famiglia sono il terzo figlio. I miei genitori hanno sempre fatto i contadini ed io, fino all’età di 8-10 anni, ho dovuto badare ai miei fratelli e sorelle piu’ piccoli, ma allo stesso tempo dovevo anche occuparmi degli animali. Con i miei fratelli qualche volta giocavamo alla “settimana”, ma tempo libero non ce n’era quasi mai perché si doveva pascolare le capre, le pecore e gli altri animali...altrimenti come facevamo a mangiare? Dopo aver compiuto 10 anni ho iniziato a seguire mio padre nei campi e a coltivare la terra... a “zappettare”. Poi arrivava il tempo di dover andare a scuola e chi aveva la possibilità ci andava, chi non l’aveva non ci poteva andare. Io fui fortunato, all’età di 16 anni iniziai ad andare a scuola. Anche i miei fratelli piu’ grandi ci andavano e io ricordo che dicevo sempre a mio padre piangendo:”Ma perché io non posso andarci?” e così mandò anche me. La mattina però, prima di andare a scuola, si portava il latte per il paese con una “bisaccia” contenente venti bottiglie. Il latte era degli animali che guardavamo noi, che non erano i nostri però, ma li avevamo a mezzadria, con padrone. E la stessa cosa era per la terra. Portavamo il latte per ogni casa e una volta finito tutto il giro andavo a scuola. A quei tempi poi uscivamo di casa scalzi, anche quando c’era la neve a terra e non sentivamo nemmeno il freddo perché eravamo abituati ormai. A scuola all’inizio cominciavo con il fare, come si diceva a quei tempi, l’incini e l’asta, poi il numero 1, il 2 e così via. Comunque ho fatto solo sei mesi di scuola e ogni giorno, una volta tornato a casa, non ero mai libero di sedermi e fare i compiti: dovevo andare subito a pascolare gli animali, la giornata passava e si faceva buio. Ma io dovevo comunque portare le lezioni fatte alla maestra, come dovevo fare?La casa era buia, non c’era l’elettricità prima nelle campagne. E come si fa al buio a fare le lezioni? A terra c’era il fuoco che bruciava, allora io prendevo un pezzo di legno con il fuoco vicino e con una mano scrivevo e con l’altra lo mantenevo vicino per farmi luce. Così ogni tanto cadeva una faiella e si bruciava qualche pagina, si faceva il buco. Ricordo infatti che la mia maestra, che si chiamava Maria Pizzi, a scuola mi diceva: ”Giuseppe, che hai combinato?”. Dopo sei mesi ho dovuto lasciare la scuola. La maestra allora venne a casa e ricordo che disse a mio padre: “Il bambino si è molto affezionato, devi mandarlo a scuola! Lui ha la testa per studiare! Io gli faccio la domanda per farlo studiare come prete, tu non paghi niente!”, ma i miei genitori non poterono mandarmi piu’ a scuola perché dovevo aiutarli ed accudire anche i miei fratelli. A quei tempi eravamo troppi in famiglia, eravamo poveri. Mio padre per dormire aveva preso quattro pezzi di legna e aveva fatto, per tutti noi, come si diceva prima, la littera con della paglia. Così noi ci mettevamo sopra a queste tavole, senza lenzuola e con i vestiti che usavamo anche durante la giornata, e dormivamo. Sotto di noi, invece, dormivano le mucche. A volte dormivamo anche in mezzo alle pecore. Questa è stata la mia vita e quella della mia famiglia, poi siamo
cresciuti, le cose sono cambiate, ma fino al periodo della guerra abbiamo vissuto così. Nel dopo-guerra poi ci siamo civilizzati un po’. Prima giochi non ce n’erano, ma io e i miei fratelli stavamo sempre insieme e giocavamo tra di noi a picchiarci. Ricordo un episodio in cui mio fratello Antonio aveva una zappetta e stava lavorando nei campi, io mi ero messo dietro di lui e facevo di tutto per prenderla perché volevo lavorare anch’io. Ma lui non voleva perché ce l’aveva lui in quel momento. E allora, tiro io, tira lui, arrabbiato me la diede quasi in testa! Eh, io ero vinciusu, volevo lavorare la terra perché questo eravamo abituati a fare. Oggi è tutto oro invece e spero sia sempre così. Però con il passare del tempo la terra è stata abbandonata, ma la verità è che viene tutto dalla terra e senza di essa non si può vivere. Non ne parliamo poi dei lavori che ho fatto! Di tutti i tipi. Prima il pecoraro: guardavo e mungevo le pecore; poi ho iniziato ad andare sui lavori: si facevano i carboni a quei tempi, si tagliavano i legnami alla montagna e si ricavavano i carboni. Questo l’ho fatto insieme a mio fratello Antonio; abbiamo fatto anche tavule, cioè le traverse delle ferrovie e le abbiamo fatte con le seghe a mano. Poi ho abbandonato questo lavoro e ho fatto il minatore, lavorando nelle gallerie si guadagnava qualcosa in piu’. Alla fine mi tagliai anche un dito mentre lavoravo, infatti mi è rimasta l’invalidità alla mano e porto ancora il segno. Così lasciai e feci la
domanda per fare il netturbino, vinsi il concorso e alla fine ho fatto questo lavoro per venti anni. Poi nel 1980 venne il terremoto. Io ci rimasi sotto, affianco ad un mio amico che purtroppo però non ce l’ha fatta ed è morto. Io ringrazio Dio per essermi salvato. Ero qui a Caposele, in una casa davanti al comune, rimasi qui sotto le macerie. Una porta mi cadde di traverso su un braccio, ne porto ancora i segni, mentre io ero caduto con il viso rivolto a terra e avevo moltissima difficoltà a respirare. Ho gridato per una mezz’ora, gridavo forte: “Aiuto, aiuto” poi mi venne l’idea di non disperdere le forze per non morire… Mi mancò la voce! Sentivo mia moglie che passandomi vicino diceva: “Avete visto mio marito?” e le persone che le rispondevano: “Prima era qua, adesso chi lo sa dov’è!”. Io la sentivo mia moglie, ma non potevo parlare! Poi, dopo due ore, venne un altro fratello, Gerardo, che qualche tempo prima aveva perso la moglie in Svizzera ed era rimasto solo con i tre figli. Uno di questi aveva 6/7 anni ed era molto affezionato a me, mi voleva troppo bene. In quel periodo io ero il dirigente del Partito comunista, ero il responsabile, infatti io lì facevo il cassiere, mi avevano affidato le chiavi e tutte le sere andavo ad aprire la sede del partito. Là c’era la televisione e tutti venivano a guardarla, specialmente i bambini, perché nessuno prima poteva permettersela. Allora questo mio nipotino, che era molto affezionato a me, mi accompagnava sempre al Partito. Per questo quando ci fu il terremoto mio fratello, non trovando il bambino, corse a casa mia a controllare cosa ci era successo, pensando fosse con me. La casa in cui vivevo poi era anche molto vecchia, antica. Quando entrò là dentro non si vedeva niente, non c’era luce, c’era tutta polvere, nebbia. Mentre camminava toccò la punta di una delle mie scarpe che sporgeva da tutte quelle macerie e così cominciò a togliere il materiale, io lo sentivo ma non potevo parlare, fu così che mi trovò. Mi riconobbe dai vestiti e iniziò a gridare: “Questo è mio fratello!”. Poi cominciò a tirarmi dai piedi ma io lo fermai perché non sapevo se avevo ancora il mio braccio, sentivo dolore e avevo infatti un tendine rotto, avevo avuto anche una botta in testa, ma era leggera. Mio fratello, allora, la prima cosa che mi chiese fu se suo figlio era con me, se anche quella sera era venuto da me per accompagnarmi al partito, ma io gli dissi che Antonio quella sera non era venuto. Il bambino era solito uscire con un grande cane nero e fu proprio il cane a salvarlo tirandolo fuori dalle macerie. Mio fratello andò subito a cercare Antonio e nel frattempo mandò dei soccorsi da me per liberarmi. Ricordo che ad aiutarmi venne Giovanni Cuozzo con i suoi due figli Giuseppe e Luciano, mi misero sulle loro spalle e mi portarono al campo sportivo dove però mi sentii di nuovo male, non capivo piu’ niente e così mi portarono in ospedale. Lì iniziai a riprendermi e vedendo la botta che avevo sulla testa mi fecero dei raggi. Poi mi uscì anche un po’ di sangue dalla bocca e i dottori pensavano fosse collegato alla botta in testa, ma fortunatamente non era quello. Il fatto è che io soffrivo di ulcera e forse, in seguito a tutta la polvere delle macerie, mi scoppiò. Sono stato fortunato: per le condizioni in cui mi trovavo, se mi avessero trovato piu’ tardi, non ne sarei uscito vivo. Dopo qualche anno mi sposai ed andai a lavorare in Francia, lì facevo il boscaiolo perché quello era il mestiere che sapevo fare ed era un lavoro pesantissimo. Con me non c’erano altri paesani, ero solo io di Caposele. Ho lavorato lì per tre anni, con precisione un anno completo e poi gli altri due anni soltanto nei
mesi estivi. Mia moglie non volle venire con me, quindi nei mesi invernali scendevo io a Caposele. La vita prima era dura. Quando vidi mia moglie per la prima volta, rimasi colpito perché era proprio una bella ragazza e così mi avvicinai per conoscerla. Un amico in comune poi mi aveva detto che potevo fidarmi e che era una brava ragazza. Fu così che le chiesi se volevamo unirci, se voleva sposarmi, e lei mi rispose di si. In quel periodo io avevo trentasei anni ed ero emigrato, lavoravo fuori, ma una volta sposato sono ritornato in paese per stare vicino a mia moglie, altrimenti che vita passavamo! Ho iniziato prima a lavorare in una galleria dell’autostrada e poi per nove anni ho fatto il bidello nelle scuole. Adesso sono pensionato. Qualche anno fa mi è successo un grosso guaio: ho perduto un figlio a quarantasei anni, era un geometra conosciuto ed era un tecnico del comune. Una mattina, dopo essere stato a casa mia per farmi l’insulina, se ne andò subito da un amico che gli aveva chiesto di andare da lui per controllare un confine di terra. Mio figlio una volta andato, purtroppo non è piu’ tornato. E’ morto folgorato dai fili dell’alta tensione che lì erano bassissimi, la terra poi era anche umida perché aveva piovuto. Per quanto riguarda il periodo della guerra, io sono partito dal mio paese, per far parte dell’esercito, il 20 agosto 1943, ultimo quadrimestre del ‘43. Qui già c’era la guerra e Caposele era stata dichiarata zona di guerra; c’erano molti militari, le mitraglie, i cannoni che si sparavano contro gli aerei. Siamo dovuti tutti partire per andare a piedi fino a Lioni, perché prima non c’erano i mezzi, lì prendemmo il treno per Avellino e, una volta arrivati, andammo a piedi fin sotto la zona dei platani perché lì era il distretto. Poi la sera ci fecero prendere un altro treno e durante il viaggio, verso Cancello, nelle vicinanze di Napoli, iniziò a suonare l’allarme perché c’erano le incursioni aeree e ci bombardavano. Allora ci fecero scendere dal treno e noi, spaventati, scappamo tutti verso le campagne mentre si sentiva un altoparlante che ci diceva di riunirci alla stazione di Santa Maria di Capua per prendere un altro treno ancora. Dovevamo raggiungere il nostro reggimento, il mio era a Genova. Degli altri che erano partiti con me, nessuno aveva il reggimento a Napoli, alcuni a Roma, altri a Novara, a Padova. Dopo tre o quattro giorni arrivai a Genova, nella Folgore, 42° reggimento fanteria. Ero molto spaventato perché avevo solo 18-19 anni, ero ragazzino e inoltre non ero mai uscito dal mio paese prima di allora. Ricordo che il giorno in cui l’Italia firmò l’armistizio, ero uscito con alcuni compagni del mio reggimento perché avevamo la libera uscita, eravamo in mezzo alla città quando ad un tratto sentimmo le campane suonare a festa, suonarono anche le sirene e la gente uscì tutta in strada gridando: “E’ finita la guerra! E’ finita la guerra!” Ma un anziano ci diceva: “Figli miei, cercate di salvarvi perché la guerra adesso inizia! Prima eravamo alleati con i tedeschi, ma adesso siamo loro nemici!”. Ricordo infatti che poi ci fecero ritirare in caserma, eravamo sei-settemila reclute, non una sola. Quando ad certo punto arrivò un carro armato tedesco, ci recintò la porta, ci circondò con le loro guardie e con gli altoparlanti ci dicevano: “Avete cinque minuti di tempo, altrimenti sarete bruciati immediatamente!”. Gli ufficiali che erano tutti ragazzi, furbi, se ne erano scappati ed era rimasto solo qualche tenente e qualche maresciallo. Ci fecero consegnare le armi e così i tedeschi ci rinchiusero in caserma con le guardie tutte intorno a noi. Sotto la caserma dov’ero io ci passava un
fiume, c’era una collina e intorno tutti alberi. Il Caporale Maggiore del nostro reggimento era un uomo di Calabritto; non ci conoscevamo prima, ci siamo conosciuti là. Era un uomo furbo e lo avevano mandato in riposo in Italia perché era stato ferito in Albania, per questo si trovava a comandare la mia recluta. Ricordo che una notte ci disse: “Qua non stiamo piu’ bene, dobbiamo scappare altrimenti i tedeschi ci portano in Germania e ci fanno lavorare perché siamo giovani.” Per farci scappare una notte prese delle lenzuola dalle nostre brande, le strappò e fece una corda. Non eravamo troppo alti perché eravamo al secondo piano, sotto da un lato c’era la guardia e dall’altra parte c’era il fiume, sentinelle poi non ce n’erano e così scendemmo e attraversammo il fiume nella notte. Riuscimmo ad allontanarci e dopo venti giorni di cammino arrivammo a casa, senza mangiare e senza bere; la fortuna fu che era estate e c’era molta frutta, uva, fichi, pomodori. E’ così che scappammo dai tedeschi. Questa è stata la mia vita. Una volta tornato a casa, trovai mia mamma e la mia famiglia ad aspettarmi, noi vivevamo in campagna e a Caposele c’erano ancora i tedeschi, ancora non se ne erano andati. Ricordo che un giorno a casa mia venne uno di loro, aveva il mitra in mano, aveva fame e chiedeva da mangiare; mio padre che aveva fatto la guerra mondiale ed era stato anche prigioniero, conosceva un po’ di tedesco e capì che chiedeva un po’ di pane e delle patate. All’inizio gli disse che eravamo una grande famiglia e che per questo avevamo finito quasi tutto, anche perché avevamo davvero pochissimo, ma poi quando il tedesco gli disse piangendo che anche lui aveva una famiglia e cinque figli, mio padre gli diede comunque due patate e gli tagliò anche quel poco di pane che avevamo. Ricordo anche un altro episodio. In quel periodo in casa con noi viveva anche un’altra famiglia che aveva il mulino, la famiglia di Mattia il Mulunaro e avevamo anche un pezzo della loro terra. Un loro parente poi era anche il mio compare di cresima, cumbá Amato Patrone, il marito di Cesaria. Eravamo un’unica grande famiglia e vivevano con noi vicino al bosco di Caposele. Avevano un figlio, Lorenzo Patrone, che era piu’ grande di me e che si ritirò con me una volta finita la guerra, ci incontrammo per strada e facemmo, quindi, il viaggio di ritorno a casa insieme. Un giorno a casa era finita la farina per cucinare, per mangiare e sua madre gli disse: “Lorè, la farina è finita, cerchiamo di andare a macinare un po’ di grano”. Allora facemmo un sacco di trenta chili ciascuno e lo portammo sulla spalla andando fiume-fiume, da Palmenta, vicino al bosco, verso il mulino. Una volta finito di macinare il grano uscii, con il mio sacco di farina, in mezzo alla strada e lì incontrai due tedeschi su una motocicletta a due, con il fucile a tracolla. Si fermarono proprio davanti a me e io mi impaurii così tanto che il sacco che portavo mi cadde a terra; capii che loro mi chiedevano: “Città, città… Sant’Angelo dei Lombardi”, allora gli feci segno, non sapendo il tedesco, di tornare indietro verso il cimitero e proseguire su quella strada, quando all’improvviso ricordo che si trovò a passare un aereo molto basso che andando fiume-fiume incominciò a mitragliare. Forse aveva avvistato i due tedeschi, chi lo sa. Anche quella volta mi salvai, non mi accadde nulla e quei due tedeschi se ne scapparono via veloci impauriti. Noi nella campagna dove vivevamo, eravamo a mezzadria, eravamo gente patuta e la proprietaria della terra era una persona intelligente, una maestra di scuola elementare che della
terra non capiva niente, era abbastanza anziana e non era neanche sposata. Le andavano a dire a questa maestra: “Togli la terra a stu signor qua e dalla a mio figlio, ca nun tène famiglia, quistu tène la famiglia grande, ti ruba!”. Da allora quindi questa signora veniva ogni volta a controllarci, veniva a vedere quante zucche c’erano, perché quello era il periodo in cui nascevano; quando mio padre scavava le patate lei si metteva davanti per contarle e mio padre che era analfabeta, ma non per questo non intelligente, ricordo che gli diceva, dopo aver finito: “Padrona cara, tu non ne capisci del terreno, vai a fare il tuo mestiere! Dimmi cosa hai visto? Cosa ti ho rubato?” e lei gli rispose: “Niente e sono contentissima di questo!”. Ma mio padre da un buco scavato ne aveva prese solo tre di patate, le altre quindici le aveva lasciate sotto. Così andando verso la buca, disse alla proprietaria del terreno: “Guarda, ci sono altre patate sotto, è inutile che tu vieni qui a controllare, non ne capisci, non è tuo mestiere, se ti voglio rubare lo faccio come ho fatto adesso per farti vedere!”. Allora si strinsero la mano e capì che non le rubavamo niente. Dopo quel periodo, finita la dittatura, si parlava di un mondo che stava cambiando in meglio, si diceva che il comunismo garantiva le stesse cose per tutti. Fu per questo che io, allora, mi avvicinai alla cosa piu’ giusta, al comunismo. Infatti poi nel 1948, iniziarono i primi comizi per la Repubblica, nacquero i primi partiti e molte persone venivano a parlare da noi. Ricordo un uomo, Padre Alessandro, che veniva da Salerno e diceva: “Cari cittadini, il rosso è cattivo, ma quanto è piu’ cattivo il nero!”, quest’uomo era per la monarchia. A Caposele poi c’era un industriale di Milano che viveva qui e che iniziò a riunire tutto il popolo, i contadini, a formare la Lega, a sistemare le persone. Ricordo che diceva: “Qua ci vuole l’elettricità, per queste persone ci vuole la pensione, qua ci vuole il telefono.” e così siamo diventati migliori. In quel periodo i grandi padroni erano i democristiani e dall’altra parte c’eravamo noi comunisti. Si diceva: “Ora vogliamo fare noi il martello e voi l’incudine!”. Prima qua non c’era la civiltà, eravamo schiavi, poi mano mano sono state fatte le leggi. Quando io lavoravo sul comune, infatti, in cinque anni consecutivi di lavoro non ho mai avuto delle ore di riposo, a Natale, Pasqua.. niente, questo perché non c’erano le leggi. È per questo che io, una volta nato il partito comunista e il sindacato, subito mi sono iscritto, tutto era collegato alla politica ed io stavo quindi dalla parte di chi mi difendeva: dovevo lavorare otto ore al giorno e mi spettava anche un giorno di riposo. Da allora sono rinato, non ero piu’ schiavo, mi sentivo libero, perché prima per qualsiasi cosa e a qualsiasi orario mi chiamavano per lavorare, anche se stavo mangiando. Ancora oggi mi interesso di politica e penso che dobbiamo difendere sempre i nostri diritti. Fin da ragazzo poi ho sempre letto molto, prima soprattutto libri di partito, come libri di Antonio Gramsci, Karl Marx, adesso invece qualsiasi tipo di giornale. I giovani di oggi vivono nell’oro, ma devono sapere quello che c’è stato prima. Devono ringraziare ogni giorno il Signore per tutto quello che ci dà, devono anche sapersi accontentare di quello che hanno senza pretendere di piu’, ma lottare anche per i loro diritti e per un mondo migliore.
Benito Vitiello | Teora, 14 Febbraio 1936
Cifrodelli Antonio | Caposele, 6 Gennaio 1923
Sono nato il 14 Febbraio 1936 a Teora e abitavo con i miei genitori e i miei nove fratelli in campagna. Avevo 4 anni quando scoppiò la seconda guerra mondiale, ricordo che un pomeriggio ci siamo riuniti a casa nostra, eravamo veramente tanti e parlavamo della guerra che stava per iniziare, avevamo tanta paura. Iniziarono a sparare, ricordo il rumore assordante delle bombe, poi ero molto piccolo e ci facevamo coraggio a vicenda, eravamo tutti impauriti. La casa dove abitavo con la mia famiglia era il posto più sicuro dove potersi nascondere però a sentire tutte quelle bombe io avevo veramente paura. Infatti per dormire venivano tutti da noi ma dormivano dentro la stalla perché là era l’unico posto dove c’era spazio,dentro casa era tutto pieno. Nella prima settimana vivevano tutti da noi, addirittura chi teneva gli animali li portava vicino casa nostra. Mio fratello più grande mi portò con lui, in un altro posto più sicuro e lontano. Quando sentivamo sparare, io e mio fratello andavamo a nasconderci dentro a una stanza grandissima. Altre persone invece andavano a nascondersi dentro a delle grotte grandissime. Mia madre cucinava per 40 o 50 persone e mangiavamo patate e grano. La guerra finalmente finì nel 1944. Mi ricordo quando andavo a scuola che i miei maestri mi picchiavano con la bacchetta di legno e mi mettevano in punizione sui dei chicchi di grano di faccia al muro per ore e ore. Quando tornavo da scuola andavo a pascolare le pecore; avevamo galline, tacchini, maiali e mucche, tutto questo lo facevo all’età di 6 anni per aiutare la mia famiglia e guadagnarmi un “tozzo di pane”. A l’età di 14 anni ho iniziato a fare i lavori più pesanti, zappare, mietere il grano e dare il fieno alle mucche. Fino a 15 anni sono andato a scuola e ho finito la terza media. Il mio tempo libero lo passavo giocando con amici a dei giochi tipo mazza e piuzo e lu strummolo. Mi sono fidanzato all’età di 21 anni con la mia amata moglie che amo tantissimo e stimo tantissimo. Una sera ero con i miei amici al cinema, quando all’improvviso vedo questa bella ragazza e subito ho iniziato a corteggiarla, per me è stato un colpo di fulmine. Quando dovevamo vederci trovavamo sempre un posto nascosto per paura che ci vedessero i nostri genitori, perché ai nostri tempi non potevamo avvicinarci prima del matrimonio, non è come adesso che si fa tutto quello che si vuole. Nel 1956 sono partito per il militare e sono ritornato nel 1958; tornavo poche volte a casa perché ero distante quindi dovevo aspettare che mi davano la licenza e poi finalmente potevo tornare a casa e dalla mia fidanzata. Mi sono sposato nel 1959 con Maria Bruno a Caposele perché, come si dice tuttora, ci si deve sposare nel paese della fidanzata. Nel 1961 abbiamo avuto due gemelli, uno purtroppo non ce l’ha fatta e l’altro si chiama Gerardo, attualmente è sposato, ha due figli e fa il meccanico. Nel 1963 abbiamo avuto altri due bellissimi gemelli uno si chiama Antonio, è sposato, ha due bambine ed è impiegato in fabbrica e l’altra si chiama Concetta, è sposata e lavora da un dentista. Nel 1963 purtroppo sono dovuto emigrare in Svizzera per 15 anni, ho dovuto lasciare la mia famiglia per andare a lavorare e per portare avanti tutta la casa, facevo il magazziniere ed ero responsabile di tutto. All’età di 65 anni sono andato in pensione.
Mi chiamo Antonio Cifrodelli e sono nato a Caposele il giorno della befana del 1923. Ho quasi 89 anni. Mia madre si chiamava Maria Celeste Damiano ed era di Caposele, mio padre, invece, Pasquale Cifrodelli era originario di Laviano. La mia famiglia era proprietaria di qualche terreno ed erano ricchi di pecore. Un giorno i garzoni pascolavano nei pressi della stazione ferroviaria, ma purtroppo le pecore si allontanarono e deragliarono un treno. Fu una grandissima perdita. Morirono anche alcune persone e così, la mia famiglia, andò in fallimento pagando fino all’ultimo debito. Per questo motivo mio padre si trasferì a Caposele in cerca di lavoro nella gelleria. Conobbe mia madre, si sposarono e dal matrimonio nacquero sette figli maschi e cinque figlie femmine. Con tutti i miei fratelli e sorelle ho avuto sempre un ottimo rapporto. Sono andato a scuola per due anni frequentando solo la prima e la seconda. Però ho imparato comunque a leggere e scrivere e ancora oggi leggo ogni mattina il giornale. A scuola ero molto vivace e mi dicevano “Antò, semp tu si!”. Pascolavo nei campi e un giorno, un proprietario terriero vicino casa nostra mi lanciò una sfida: se riuscivo a tagliare tutta la legna, in un pezzo di terra stabilito e in tempi brevi, mi regalava 100 lire. Imparai cosi, a dodici - tredici anni, a tagliare la legna. Per aver fatto un buon lavoro, mi regalò le 100 lire promesse e 5 lire che aveva in tasca. Avevo 105 lire, che allora erano tante. Andai a casa e dissi a mia madre che volevo subito farmi fare un vestito e un paio di scarpe. Andai dal sarto di allora, ma non me lo volle fare perché credeva che io non avessi soldi. Quando glie li feci vedere, credeva che li avessi rubati e andò a chiamare mio padre. A 19 anni, nel 1942, mi chiamarono sotto le armi, ma io non ci volevo andare. Avevo una brutta malattia, non volevo fare la guerra. Facevo il lavativo e marcavo sempre visita. Mi fingevo malato, mangiavo e lo rigettavo. E così, mi punirono mettendomi in prigione per un po’. Una volta uscito, mi mandarono a passare visita a Genova e per i raggi, mi fecero bere una schiuma bianca tipo latte. Pensavo a qualcosa che poteva essere vista nella radiografia e così, poco prima dei raggi, ingoiai qualcosa tipo un chicco di caffè. Non mi dissero niente, ma mi diedero le carte da presentare al comando con due mesi di convalescenza. Immagina la mia felicità. Quando tornai, andai a Caserta per una nuova visita di controllo e ancora una volta mi diedero quaranta giorni di non idoneo al lavoro di guerra. C’era veramente qualcosa che non andava! Dopo questi giorni di riposo, tornai al comando. Dopo un po’ i tedeschi occuparono la nostra caserma, tenendoci chiusi dentro per vari giorni e da dove nessuno poteva uscire. Io là proprio non ci volevo stare e progettavo, insieme ad un mio amico, qualche metodo per uscire. Non era semplice visto che c’erano molte guardie. La nostra fortuna è stata una macchinetta fotografica. La vedemmo su un tavolo e la prendemmo. Andammo vicino alla porta e, con la macchinetta al collo facendo il loro stesso saluto, non so come, ma riuscimmo ad essere scambiati per fotografi e finalmente a scappare. Erano giorni in cui la guerra stava per finire perché Mussolini era ormai alle strette. Partii, con questo mio amico, a piedi da Genova per arrivare a Caposele seguendo una cartina che mi consegnò il padre di
una ragazza. Montagne montagne, arrivammo a Caposele dopo 15 giorni e con 30 kg di sale sulle spalle. I sacchi col sale erano stati caricati nei treni dai tedeschi, ma all’arrivo degli americani scapparono lasciandoli là. Il sale era un bene assai prezioso all’epoca e non tutti ce l’avevano. Pensammo così di caricarcelo sulle spalle e portarlo alle famiglie. La guerra era ormai finita. Il congedo lo presi a Viterbo il 25 giugno 1945. Il generale mi consegnò anche una lettera di encomio e disse: “Ecco il famoso Caporale Cifrodelli”. Inizialmente pensavo che famoso fosse una cattiva parola, poi mi spiegarono il significato. Nonostante tutte le bravate che ho fatto, sono stato comunque un buon soldato. Ricordo una volta, dopo una dimostrazione dei superiori, dovevamo rimettere a posto tutti i pezzi della mitraglia. Mi offrii volontario e mi premiarono per averlo fatto correttamente. Tornato a Caposele, nell’aprile del ’49 mi sono sposato con Maria Sista e da allora, ancora stiamo insieme. Abbiamo avuto due figli, la prima nel ’51 ed il secondo nel ’53. Ora sono sposati e hanno la loro famiglia, però stiamo sempre tutti insieme. Ho fatto tantissimi mestieri, ma quello che più mi faceva guadagnare era il carbonaio. Sono stato a lavorare nelle miniere, nelle gallerie di autostrade, in Germania, in Venezuela e in Svizzera dove ci stavo “lasciando la pelle”. Sono stato tre giorni in coma a causa di una caduta da una impalcatura di sei metri. A Caposele non ho mai voluto lavorare perché dovevi farlo per quattordici ore al giorno e per farlo dovevi pure portare olio ai padroni. Io non l’ho voluto mai fare. Non ho chiesto mai favori a nessuno. La prima volta che ho votato? Non ricordo la data, ma il mio primo voto, il secondo, il terzo fino all’ultimo, è andato al Partito comunista. Sono sempre stato con questo Partito e non ho mai avuto paura di nessuno perché quando sei veramente chi sei, nessuno ti tratta male. E infatti avevo anche amici di altri partiti. Avevo buoni rapporti con tutti, al contrario della maggioranza della gente che se era di un partito non poteva comunicare con gli altri. Ancora oggi rinnovo l’iscrizione e ho anche la chiave della sezione dove mi riunisco con gli altri per giocare a carte. La sera del terremoto dell’80, ero andato via da poco dalla sezione e stavo tornando a casa per la cena. Fortunatamente trovai un riparo per la strada. Quando la scossa finì, andai subito a casa. Era tutta spaccata in due ma dentro non c’era nessuno. Erano, grazie al cielo, tutti rifugiati e stavano tutti bene. Andai cosi presso la sezione perché c’era mio fratello. Anche lui tutto bene, ma in paese c’era uno spettacolo assurdo. Ognuno cercava di dare una mano per trovare persone scomparse e salvare vite. Siamo stati per quattro - cinque anni presso le Saure, in piazza Sanità e inizialmente ci si arrangiava come si poteva. Costruimmo un muro in mattoni all’esterno, perché le baracche erano fatte con tavole e pali di legno, per accendere un po’ di fuoco per i bambini piccoli. Ci trasferimmo poi alle Fornaci, nei prefabbricati donati dagli americani dove siamo stati per sei anni. Agli inizi degli anni ‘90 la nostra casa a Caposele, distrutta dal terremoto, era stata ormai ricostruita e tornammo lì dove abito ancora adesso con mia moglie. Quel 23 novembre non lo dimenticherà mai nessuno. È stato un avvenimento sconvolgente. Ancora oggi, mi piace lavorare e quando non faccio niente, mi sento perso. Ho un orticello e mi piace andarci. La mattina vado al bar a prendere il caffè e a leggere il giornale. C'amma fa, questa è la vita.
Braccia Angela | Teora, 8 Febbraio 1911
Mi chiamo Braccia Angela, sono nata nel lontano 1911 precisamente l’8 febbraio a Morra De Sanctis, i miei genitori erano Braccia Giuseppe e Caputo Maria Antonia. I miei genitori erano contadini sotto padrone, dovevano coltivare la terra e raccogliere il raccolto (lo si poteva fare solo in loro presenza). Fino all’età di 5-6 anni i miei genitori mi portavano insieme a loro nei campi, nei primi anni mi lasciavano nelle ceste, dopo di che sono andata a scuola e ho frequentato fino alla 3a elementare, però non ricordo bene il periodo della scuola. Ricordo solo che ero in una classe mista in cui c’erano anche altri ragazzini più grandi di me e la mia maestra era come una seconda mamma, ci educava per farci trovare meglio nella vita quotidiana, a scuola si andava la mattina mentre nel pomeriggio andavo nei campi con mamma e papà ad aiutarli. Finita la scuola aiutavo mamma e papà a badare ai miei fratelli e sorelle, cucinare, pulire e sistemare casa. All’età di 15 anni ho conosciuto Donato Lombardi, il mio futuro marito e a 17 anni mi sposai e con lui ho avuto 4 figli di cui 3 maschi ( Vito, Giuseppe e Angelo l’ultimo arrivato) e una donna (Gerardina). Abbiamo comprato casa e per vivere avevamo animali e andavamo a coltivare i terreni sempre sotto padrone, i nostri figli ci aiutavano in tutto, a casa e pure nei terreni. Durante la seconda guerra mondiale io ero presente e con i miei piccoli mi nascondevo dentro al pagliaio con tutti i miei piccoli intorno (come una gallina con i suoi pulcini). Ad ogni ombra o luce ci nascondevamo per paura che venivamo uccisi. Dopo, con un po’ di coraggio siamo rientrati in casa, quando vedevamo passare i soldati non ci facevano nulla (perché erano i nostri alleati) li vedevamo malnutriti con vestiti rotti io e tutta la mia famiglia li chiamavamo e gli davamo da mangiare ( però non entravano dentro casa per vergogna), allora gli portavamo da mangiare sotto un albero e io gli cucivo gli abiti rotti. Pian piano si tornò alla normalità. Qualche anno dopo la seconda guerra mondiale e precisamente nel 1947 mio marito morì annegato in un pozzo. Ce ne accorgemmo io e mio figlio Giuseppe quando andammo nella stalla e vedemmo che la mucca era senza mungere e non era stata neanche pulita; poi abbiamo visto e trovato il cappello e le scarpe vicino al pozzo. Abbiamo guardato dentro e lui era lì, morto. Poi l’abbiamo tirato fuori con la speranza che era ancora vivo, invece cosi non fu. Mi lasciò sola con quattro figli da crescere, il più piccolo aveva 5 anni e mia figlia Gerardina mi ha aiutato a crescerlo, cucinava e bagnava l’orto davanti casa, mentre Vito e Giuseppe mi aiutavano nei campi (ad arare con i buoi, era Giuseppe quello che arava il terreno) e con gli animali (mucca, capre, pecore e maiali); non erano molti gli animali, erano giusto quelli che servivano per andare avanti, avevamo una scrofa che ci faceva all’anno circa 10 maialini che utilizzavo per portarli a vendere nelle fiere per poi comprarci vestiti e scarpe, da premettere che a me piace la pulizia in generale, sia intima che della casa, e proprio per questo che prima di andare alla fiera facevo alzare prima tutti i miei figli li facevo sedere da una parte e pulivo
tutta casa e poi si andava alla fiera a portare a vendere i maiali. Il raccolto dei terreni veniva preso tutto dai padroni, quindi per noi non c’era nulla. E in questo caso si utilizzava “rubare” al padrone; si usciva a notte fonda per andare nel terreno a raccogliere qualcosa per il mangiare quotidiano e li usavamo come merci di scambio (soprattutto il grano) per comprare piatti, posate, bicchieri e una bella macchina da cucire a pedale, cercavo di non farmi mancare niente. Io sono fiera di dire che non ho mai mangiato pane di grano, ma sempre farina bianca. Era fatto in casa, si accendeva due volte a settimana il forno per cucinare il pane e fare qualche biscotto. Ecco perché ai nostri padroni piaceva molto la nostra cucina, e ogni volta che venivano, dovevo cucinare per loro e dormivano da noi anche se c’erano altre famiglie. Infatti molte altre famiglia li invitavano a mangiare a casa loro, ma i padroni dicevano sempre: “Angela, mettimi da parte un bel piatto, che dopo passo e me lo mangio”. Quando andavano dalle altre famiglie non toccavano quasi mai niente. A casa mia si cucinava nel pagliaio e nella casa si andava solo a dormire, perché nel pagliaio avevamo una cucina e un tavolo per uso giornaliero. Nel 1960 mi sono risposata con Pietro Guarino; anche mia figlia si è sposata, mentre i miei figli se ne sono andati a Ravenna per lavoro, e io sono andata ad abitare a Castelnuovo di Conza a fare una nuova vita con Pietro. Con lui facevo sempre la stessa cosa, coltivare il terreno e allevare gli animali. Nel 1980 ci fu la distruzione totale e molta disperazione, li morì sotto le maceria il mio secondo marito, dopo di che sono rimasta sola. Per un piccolo periodo sono rimasta a Castelnuovo di Conza e mia figlia veniva spesso da Teora a trovarmi qui. Poi mia figlia Gerardina (dopo qualche anno) ha deciso di portarmi a Teora, insieme al sindaco mi hanno trovato una sistemazione in un prefabbricato. E da quel momento vivo al centro di Teora e mi sono dedicata al ricamo fino a quando le forze non mi hanno abbandonato. Da circa due anni ho una signora che mi aiuta nelle faccende domestiche e ora pure nelle faccende personali, si chiama Antonietta e la cerco sempre anche quando non è vicino a me. L’8 febbraio 2011 ho festeggiato i miei 100 anni con tutti i miei figli e nipoti e una pronipote che si chiama Asia. Un amore di bimba. Purtroppo da qualche mese a questa parte ho avuto un po’ di problemi di salute, ma pian piano passerà come sono passati tutti questi anni: con l’amore della mia famiglia.
La famiglia di Gerardina Castagna
La fotografia è nata nell’Ottocento come sostituto del ritratto, poi si è sviluppata tecnologicamente sia per la documentazione di varia natura che nella ricerca delle sue possibilità tecniche ed espressive. Ma la fotografia è diventata popolare in quanto quasi subito fu utilizzata come uno strumento da cerimonia. Dai prini anni anni del Novecento, quasi tutte le pubbliche cerimonie hanno previsto il momento della fotografia. Con lo sviluppo dell’industria fotografica e la diffusione di milioni di macchine la fotografia è diventata lo strumento attraverso il quale la vita familiare è stata documentata nei suoi rituali. L’album di famiglia è diventato un archivio della vita di ogni persona: sfogliandolo, si ripercorrono le tappe visive di una intera biografia. La fotografia, attraverso la funzione che ha svolto nelle classi popolari, è dunque una fonte attendibile per lo studio di quei fenomeni culturali collegati alla vita degli individui, dalla nascita alla morte. Il “ciclo della vita”, nella cultura di tradizione orale, contempla il susseguirsi di riti di passaggio che accompagnano le fasi salienti della vita di una persona. Le modalità dello svolgimento di un matrimonio in tutte le sue fasi ad esempio, palesano uno dei riti fondamentali di un passaggio esistenziale e sociale di estrema importanza nel mondo contadino e tradizionale. Nello studio delle tradizioni popolari il “ciclo della vita” e il ciclo calendariale delle feste costituiscono due classici piani di ricerca. Entrambi i piani di indagine sono stati utilizzati nelle ricerca da noi svolta in Alta Irpinia. La ricostruzione del “ciclo della vita” è avvenuta tramite un questionario e con l’ausilio degli album fotografici di famiglia. Le pratiche rituali, le consuetudini, le credenze connesse ai riti di passaggio individuali sono state elaborate in questo primo resoconto di ricerca. Le testimonianze sono state raccolte e trascritte da M. D’Angola, G.Russoniello, G. Meo e R. Meo
Angelina Guglielmo con figlio e marito (anni '40)
Fino a qualche decennio fa la donna sterile era considerata una donna a metà, in quanto questa impotenza, questa sua incapacità a generare, veniva vista come un segno di inferiorità. A Sant’Andrea la donna sterile "non era buona"1 e veniva chiamata sterpa e fortemente stigmatizzata come socialmente inutile: Chi nun tène figli, nè pe' fuoco e manco pe' consiglio2. Sono perciò numerose nella tradizione dei paesi le norme a cui le giovani devono attenersi per scongiurare l’infertilità e straordinariamente ricco è l’universo rituale e simbolico di culti, pratiche e cerimonie che avevano lo scopo di tutelare e favorire la fertilità delle donne. La mancanza di figli era una delle caratteristiche che inducevano a pensare la sterpa come una possibile máciara. Queste ultime avevano a che fare con i guasti addotti volontariamente agli infanti, con le gravidanze interrotte e con gli aborti. La donna incinta, in linea di principio, non doveva fare grandi sforzi ed era di buon augurio, durante l’attesa, preparare all’uncinetto il corredino per il futuro nascituro. Nessun cibo le era vietato anzi, la donna doveva assaporare qualsiasi vivanda ed era consuetudine che chiunque la incontrasse per strada le offrisse qualcosa secondo le sue voglie. A Sant’Andrea, durante il periodo di gravidanza si preferiva mangiare la migliazza cu re frittèle3. Gerardina Cione (1947)
La gravidanza rappresenta per la donna un momento della propria esistenza molto particolare, che viene vissuto in maniera intensa e profonda. Comporta numerosi cambiamenti sotto molti punti di vista e, in questo senso, porta alla formazione di nuovi tipi di rapporti e nuovi modi di vivere la quotidianità. Nel corso dell’esistenza umana si sono susseguite varie visioni e modi diversi di intendere e percepire, nell’ambito sociale, la donna incinta, la quale doveva in quel periodo comportarsi secondo precise prescrizioni ed usanze. Prendendo in esame questa fase della vita umana - come le successive -, sono stati riscontrati elementi di continuità come anche di discontinuità tra i comuni coinvolti nella nostra indagine, (Andretta, Caposele, Conza, Sant’Andrea di Conza e Teora). Ad Andretta l’ùliscio4 ed a Caposele lu ùliu5, erano connessi al fatto che la donna desiderava mangiare un alimento particolare. Se la voglia non poteva essere soddisfatta, la donna doveva evitare di toccarsi in una parte visibile del corpo perché il
bambino correva il rischio di portare i segni della voglia sulla pelle. Molti erano i metodi adoperati per prevedere il sesso del nascituro, alcuni dei quali ancora oggi impiegati. Uno di questi si basa sull’osservazione della forma della pancia della donna: se era piatta o tonda sarebbe nata una femmina, se appuntita un maschio. A Sant’Andrea se la donna incinta era solita vomitare nei primi due mesi, probabilmente sarebbe nato un maschio. Altri usufruivano del cosiddetto patto della luna secondo il quale se la luna era crescente al momento del concepimento, sarebbe nato un maschio; se la luna era calante, una femmina. Con lo stesso patto si indovinava anche il sesso dei successivi nascituri: se nella fase di luna crescente era nato un maschio, anche il successivo sarebbe stato un maschio. La nascita di una femmina non era considerato un evento favorevole: Ammanne' a femmena e crisce uájune6. Un altro sistema di previsione consisteva nell’utilizzare una collana d’oro, al cui interno erano state poste le fedi nuziali, che si faceva ruotare sulla pancia della donna, che in precedenza s’era adagiata sul letto del concepimento. Se il movimento era circolare sarebbe nata femmina, se verticale un maschio. Ad Andretta, come a Caposele, le fedi venivano annodate ad un filo e fatte ruotare sul palmo della mano della donna. Talvolta si chiedeva improvvisamente alla donna incinta di mostrare le mani: se le porgeva con i palmi verso l’alto avrebbe partorito una femmina, al contrario un maschio. Un ulteriore metodo caposelese consisteva nel lanciare un chicco di grano davanti alla porta di casa, se il primo a calpestare il chicco era un uomo, sarebbe nato un maschio.
Al momento del parto la donna veniva assistita dall’ostetrica, da qualche donna di famiglia e spesso anche dal marito, mentre la suocera quando partecipava, lo faceva ponendo bende sulla fronte della partoriente o sostenendola nella respirazione. Un’usanza arcaica di Teora era quella di porre subito il neonato a terra, su di un tappeto, dal quale il padre lo sollevava. A coloro che avevano assistito al parto venivano donati oggetti o alimenti che si avevano in casa. A Conza si era convinti che chi nasceva di martedì fosse meno fortunato rispetto a chi nasceva negli altri giorni della settimana, mentre a S. Andrea si riteneva che: chi nasceva di domenica era furtunato, di lunedì lunatico, di martedì mártire, di mercoledì nun te saccio addicere, di giovedì cannaruto, di venerdì sufferenza, di sabato guadagno garantito. Una ninna nanna che accompagnava la crescita dei bambini a S. Andrea era: Ninna vola/ ninna vola/ che pacienza ca ngi vole/ ma stu bimbu appena nato/ vole esse' cutulato. La scelta del nome da imporre al neonato era condizionata dall’onomastica dei nonni paterni. In forza della supponda, al bambino veniva imposto il nome del nonno paterno. Abitudine diffusa era anche quella di conferire ai nati il nome di un parente recentemente scomparso. Dopo il parto, era necessario che la neo-mamma si recasse in chiesa per ricevere la benedizione dal proprio parroco, per poter riprendere lo svolgimento delle normali attività quotidiane. Questo era un passaggio indispensabile per non essere
considerata impura. Nella maggior parte dei casi era lo stesso prete a recarsi a casa della donna per purificarla, in quanto a quest’ultima non era consentito varcare la porta di casa se non dopo otto giorni dalla nascita del proprio figlio. Ad Andretta questa usanza riguardava soltanto il il primogenito, che veniva portato in chiesa dal padre per essere appunto benedetto. Durante i primi mesi di vita il neonato riceveva il primo battesimo, vero e proprio rito di iniziazione. Lo si riceveva soltanto nel caso in cui le condizioni economiche lo permettevano. Ad Andretta il primogenito, veniva battezzato dopo otto giorni dalla nascita e questa tradizione si chiamava trasi santo. A Caposele alla donna non era consentito uscire di casa prima che il bambino avesse ricevuto il battesimo, altrimenti veniva additata come impura. A Sant’Andrea il bambino da battezzare era accompagnato in chiesa dalla bambina più piccola della famiglia e dopo il battesimo la stessa lo riportava a casa. In tutti gli altri paesi erano i genitori e i compari ad accompagnare il battezzando in chiesa. In genere il vestitino per il battesimo era bianco, ma potevano essere anche azzurro per i maschi e rosa per le femmine ed avere la bavetta ricamata con il nome. In ogni paese si usavano amuleti per preservare il bambino dal malocchio: a Teora adoperavano dei piccoli corni d’oro giallo da mettere intorno al polso del neonato, mentre a Conza nella carrozzina del bambino veniva posto il breo7, che conteneva un pizzico di sale, dei semi, un filo della stola del prete e la figurina di un santo. A Sant’Andrea veniva chiamato batiello8 era cucito a mano e su di esso era ricamato il nome del bambino; anche in questo caso al suo interno veniva inserita l’effige di un santo o di Gesù oppure qualche capello del bambino. Veniva cucito all’interno della canottiera, in modo essere a contatto con la pelle del neonato. Tutto ciò che indossava il bambino nel giorno del battesimo veniva deposto nella culla, perché si credeva che il bambino durante la notte avrebbe incontrato la fata, ovvero la Madonna, che lo avrebbe protetto. Contro il malocchio a Caposele, si riponevano sotto la culla forbici, cornetti e nastri, che adornavano anche il collo del bimbo. Ad Andretta invece si usava creare con un nastrino una croce nera, che veniva cucita sulla fascia del bambino. Nel corso del battesimo il compito di portare il cero pasquale veniva affidato al padre del bimbo. A Conza il padre, o il fratello o il compare, o qualsivoglia bambino presente alla funzione, portavano la giarla e un’arancia. A Sant’Andrea, a Caposele e ad Andretta si svolgeva un lungo corteo fino alla chiesa. Il padrino e la madrina con il bimbo in braccio, aprivano il corteo nel quale seguivano i genitori con gli invitati. Il padre del bambino si poneva al fianco o ad uno scalino più basso o dietro il padrino. Si pensava ad Andretta che se durante la funzione il padrino non recitasse bene il credo, il bimbo sarebbe divenuto balbuziente. Per annunciare il battesimo le campane suonavano a festa, in modo particolare a Caposele se il battesimo avveniva di domenica. Dopo la funzione ci si riuniva a casa per festeggiare e chi ne aveva la possibilità offriva dei confetti dopo il pranzo. A Conza era buona consuetudine sparare tre colpi di moschetto per il maschio e due per la femmina. Si donava denaro o oggetti in oro, come una catenina col crocifisso o una medaglia col disegno della Madonna rispettivamente per i maschi e le femmine ma non era difficile che venissero donati capi di bestiame, olio e uova.
La difesa dal malocchio costitutiva una priorità per i bambini. Ad Andretta, Caposele e Sant’Andrea era comune sputare sul bambino per neutralizzare ogni possibile presa d’occhio. In genere, nei casi sospetti si pronunciava la parola crisce9, che aveva un potere apotropaico. Quando il malocchio attecchiva o i tentativi di trasmetterlo era reiterati e pericolosi, era necessario rivolgersi ad una fattucchiara che non solo recitava adeguate formule incantatorie, ma con una cordicella alla quale venivano annodati nove fili alternativamente bianchi e neri, creava un talismano che la madre doveva custodire con attenzione. Le malattie più frequenti che colpivano i bambini erano le meningiti e le malattie viscerali. Se non si disponeva delle medicine necessarie ed indicate dal medico, si ricorreva ai rimedi popolari: per il mal di pancia era consuetudine fare delle croci sulla pancia del bambino; per curare i pappuli10, si posizionava l’aglio a capu a lu lietto11; spesso ci si rivolgeva alle donne più anziane e che avevano conoscenza di pratiche di guarigione. Queste visitavano i bambini due volte al giorno, prima dell’alba e prima del tramonto, praticando loro incantesimi o somministrandogli erbe. Il repertorio dei giochi che si praticavano nell’infanzia era vasto. A Sant’Andrea si giocava a ddoje, tre bande12, a cé, a piripalle e una, a pìngole pìngole, a buttune, a mazza e piuzo, o con lo strummolo, una trottola; allo schiaffo, ali tarantule ovvero all’altalena. Ad Andretta a lu ndurlu13 ossia alla trottola, a lu nvirri-nvarri14 e alla staccia15. A Caposele ci si riuniva per
giocare a trentunusalva a tutti16, alla settimana, alla trottola, alla cavallina e a mazzia e pìuzo17. Le bambine si divertivano a preparare diverse bambole di pezza. Il tempo del gioco era comunque limitato, in quanto anche i bambini erano inseriti nei cicli di lavoro agricolo e nei lavori casalinghi. A nove-dieci anni si poteva cominciare ad andare a bottega come apprendista. La comunione e la cresima erano altri due momenti socialmente importanti, che definivano la fase dell’adolescenza. Abiti speciali e piccole feste caratterizzavano questo tipo di ritualità entro la quale spiccava l’istituto del comparaggio. La scelta del compare di san Giovanni era libera ed il prescelto non poteva rifiutare la richiesta di comparaggio che gli veniva fatta in nome del santo.
La fase del fidanzamento comportava molteplici cambiamenti e modifiche nelle persone coinvolte. Il termine dialettale più diffuso per definire i fidanzati è uaglione o uagliotta, a Teora lu 'nnammurato e negli altri paesi li ziti. Nella società tradizionale i fidanzamenti non si protraevano a lungo in quanto i quanto tale periodo era considerato immediatamente propedeutico al matrimonio. Diverse erano le modalità secondo le quali era possibile trovare marito o moglie. A Sant’Andrea gli uomini, tramite amici o parenti, facevano
pervenire alla donna, l’ambasciata o mmasciata18. A Conza la famiglia dell’uomo, per evitare che il pretendente ricevesse un rifiuto, si recava presso a casa della donna per chiederne ai genitori il consenso al fidanzamento e quindi al matrimonio. Ad Andretta e a Caposele erano i genitori a combinare i matrimoni, che venivano organizzati tenendo conto delle amicizie di famiglia, o anche degli interessi economici, e poco contavano le sensibilità dei diretti interessati, il cui reciproco affetto, si dava per scontato, sarebbe venuto in conseguenza degli impegni e delle responsabilità familiari. Quando c’erano in discussione doti e interessi economici, in genere venivano stesi dei contratti, in alcuni casi dinanzi ad un notaio. Nel periodo di fidanzamento l’uomo si recava a casa della ragazza per cominciare a frequentarla. I loro incontri erano regolati da una rigida etichetta che vietava qualsiasi contatto, gesto o comportamento che poteva compromettere l’onorabilità della ragazza e dello stesso pretendente. A Sant’Andrea col fiore di san Giovanni si verificava la sincerità della promessa di matrimonio, mentre le ragazze controllavano il comportamento dei loro fidanzati attraverso pratiche magiche e divinatorie. Le uscite pubbliche erano strettamente orientate al riconoscimento sociale dei due promessi. Nel corso delle feste, anche di quelle che di solito erano organizzate il sabato nelle masserie o nelle abitazioni in paese, ai due era consentito ballare insieme agli altri. In certe occasioni calendariali, come Pasqua, i fidanzati si scambiavano doni ma in prossimità della data fissata per il matrimonio i doni si potevano intensificare. Ad Andretta, la promessa sposa regalava alla futura suocera una gonna o una camicia da notte e al futuro suocero una camicia. Se il matrimonio veniva annullato, la ragazza era tenuta a restituire tutti i doni ricevuti.
Si dovevano poi purtá li panni22. In ceste poste sul capo un corteo composto dalle donne della famiglia della sposa trasportavano il corredo in casa del futuro marito. A Sant’Andrea, il corredo si trasportava in casa dello sposo cu li taraturo23 oltre che cu li ceste. La mamma dello sposo aspettava sulla porta di casa il corteo che portava il corredo della futura nuora. L’ obbligatorietà dei doni agli sposi concerneva soprattutto i parenti che regalavano gli anelli, catene d’oro ed anche i dolci per la festa. Quasi ovunque era considerato fuori luogo donare scarpe agli sposi, perchè considerato un dono di cattivo augurio. Una credenza tuttora viva nei paesi. A Caposele e Sant’Andrea era diffuso donare il costume delle caparre24, il quale consisteva in una camicia con un busto sopra e una lunga e larga gonna, arricchito con consistenti collane d’oro. I parenti degli sposi lasciavano confetti e denaro sui rispettivi cuscini del letto nuziale che spettava alla suocera della ragazza preparare. A Caposele il letto si preparava di solito il giovedì, giorno in cui veniva portava la dote - i panni si dovevano contare in numero di venti per ogni capo -, nella nuova casa degli sposi. L’abitazione della nuova coppia era quella individuata dallo sposo, che spesso corrispondeva ad una stanza o uno spazio a casa dei genitori. Molto diffuse erano le veglie matrimoniali. Accompagnato da amici e parenti lo sposo cantava o faceva cantare serenate alla promessa sposa. Le serenate potevano durare anche tutta la notte della vigilia del matrimonio o della prima notte di nozze. Si suonava, si cantava e la famiglia della sposa offriva da bere e da mangiare. C’erano anche serenate di ingiurie, cantate quando alla promessa sposa venivano rinfacciati Corteo nuziale (1962)
L’annuncio pubblico del matrimonio veniva dato in chiesa. Ad Andretta era chiamato la prubbicazione19, negli altri paesi si diceva che la coppia aveva dato notizia o anche che aveva fatto richiesta. L’annuncio veniva letto dal parroco durante la messa e poi affisso in chiesa, dove alla futura sposa era inibito l’ngresso fino al giorno del matrimonio. La coppia offriva al parroco denaro, olio o altri beni. Ad Andretta e a Sant’Andrea tradizionalmente si donava una gallina nera. In quasi tutti i paesi, in prossimità del giorno del matrimonio, il futuro sposo celebrava il suo addio al celibato con banchetti o bevute con gli amici. Gli inviti al matrimonio venivano personalemnte portati ad amici e parenti dal giovane e dal suo futuro suocero. In questo periodo la casa che doveva accogliere gli sposi veniva abbellita, in molti casi con fiori e piante, abitudine che dagli anni Cinquanta è andata diffondendosi insieme alla trasformazione di molti altri aspetti sociali e culturali. Fondamentale per la giovane era importante preparare l’esposizione del proprio corredo che veniva apprezzato e stimato, sotto il punta di vista del suo lavoro, dalle donne di famiglia e dagli invitati. Ad Andretta ed a Caposele si stilava la lista r' li panni20, un inventario del corredo che la famiglia donava alla sposa e che, in caso di morte di quest’ultima, sarebbe stato restituito dallo sposo. In calce alla lista dei panni i genitori degli sposi apponevano le loro firme. A Teora si affermava: Guagliotta ca nun tiene guai, maritete ca rai21.
comportamenti disdicevoli. In queste occasioni a Sant’Andrea si proferiva: Cumme hai core de te curca' la primma sera?25 Mentre ad Andretta si diceva: Vaffanculo a mammeta ca nun zi' bbona cchiù, quiddo c'ha fatto mammeta ru ffai pure tu!26 Era frequente che tali tipi di serenate fossero fatte in occasione del matrimonio di vedovi o vedove o fra sposi con un’ampia differenza di età. La consuetudine delle serenate è ancora viva ed a Teora da qualche anno è stato istituito un festival che ha formalizzato la tradizione delle serenate irpine. A Conza e ad Andretta era usuale sposarsi tra settembre ed aprile. In questi mesi il carico di lavoro in campagna era più sopportabile e più ampia era la disponibilità di tempo libero. Tra i vari giorni della settimana si sceglievano il giovedì, il sabato o la domenica. Si diceva infatti a Sant’Andrea: De venere e de marte, né si sposa né si parte27. Ad Andretta la sposa poteva indossare l’abito nuziale che poteva essere bianco, ma anche blu, cenere o marrone. Lo sposo, invece, indossava l’abito migliore che possedeva. A Sant’Andrea invece le spose indossavano in genere l’abito tradizionale da pacchiana, fin quando è stato in uso, ma non mancavano casi in cui si presentavano in chiesa con una semplice giacca ed una gonna. A Conza, gli abiti nuziali potevano anche essere fittati o presi in prestito per quella occasione, e quindi si trattava di abiti di stile urbano preconfezionati. Solitamente in chiesa le spose portavano un bouquet dei fiori naturali, ma non era difficile, come ad Andretta, vedere in mano alla sposa dei fiori di carta come quelli che si usavano per la domenica delle palme. Le nozze erano anche una delle occasioni in cui
la sposa poteva sfoggiare gli ornamenti preziosi di famiglia e quelli che aveva ottenuto in dono dal marito, dalla suocera, dai parenti. Il corteo nuziale raggiungeva la chiesa a piedi, in certi casi con i carri trainati da cavalli. Il corteo era aperto dai bambini che portavano fiori, seguiti dalla sposa accompagnata dal compare o dal padre, mentre lo sposo giungeva sottobraccio alla madrina. Dietro i genitori della sposa e dello sposo seguivano i parenti e gli amici. Dopo la cerimonia il corteo nuziale, secondo il medesimo ordine, faceva ritorno a casa A Sant’Andrea ci si divideva in cortei di maschi e di femmine. Ad Andretta, il corteo aveva un ordine del tutto casuale. A Caposele ed a Teora l’ingresso dalla chiesa veniva sbarrato con un nastro, che doveva essere tagliato dagli sposi. Ad Andretta si preparava l’arco per quando gli sposi rientravano a casa. L’arco era composto di canne intrecciate, di stoffa bianca molti fiori. Sotto l’arco veniva posto un cestino per le offerte. In chiesa, a fine cerimonia, in alcuni casi, si liberava una colomba e quando gli sposi uscivano dalla chiesa si lanciava su di loro riso, sale, mel'n28. A Teora era abitudine sparare dei colpi con le carabine. La festa di matrimonio aveva luogo nella stessa giornata o anche il giorno dopo. Pietanze e bevande erano forniti dalle due famiglie. Ad Andretta e Caposele era tradizione festeggiare gli sposi con libagioni, musiche e balli nella casa della nuova coppia. A Sant’Andrea gli sposi facevano colazione a casa propria, mentre il pranzo e la cena si svolgevano a casa della sposa, a base di pasta fatta in casa, come i cavatielli cu' la mullica fritta29 accompagnata dal vino dei vigneti di famiglia. A Teora il pranzo e la cena si consumavano presso l’abitazione della famiglia dello sposo. La festa durava fino a tarda sera e la suocera offriva pasta fatta in casa, carne e vino. Ad Andretta il pranzo era composto da la fellata30, dalla pasta al forno, da carne al sugo, da spezzatino con patate al forno e talvolta anche dalla pizza e menestra31. Dopo la cerimonia, gli invitati andavano a casa degli sposi per consegnare loro i doni. A Caposele la suocera preparava un pranzo di nozze a base di matasse, cavatielli, fusilli, menestra e pizza, patane sfruculate32 e paparole chiene33. Era la suocera che accoglieva sull’uscio di casa la nuora. Le consegnava simbolicamente le chiavi, oppure un cucchiaio o anche una scopa, o - come accadeva a sant’Andrea - le lanciava addosso un pizzico di sale. Ancora fino a qualche anno fa si usava sbarrare la porta di casa degli sposi con una scopa mentre il primo pranzo della nuova coppia doveva essere la minestra col pepe. Superamento di barriere e cibi piccanti auspicavano il buon andamento della prima notte di matrimonio. La mattina dopo la suocera andava a verificare se sulle lenzuola la sposa aveva "lasciato i segni del proprio onore". Solo dopo otto giorni la coppia poteva uscire di casa e lo faceva recandosi in chiesa. A sant’Andrea era possibile che la sposa indossasse nuovamente l’abito nuziale. Era tradizione per l’ottavo giorno organizzare un pranzo per amici e parenti che proseguiva con musiche suonate all’organetto ed alla fisarmonica e balli come tarantelle, valzer, polke, o come la spaddata34 di Andretta e la quadriglia batti-culo, di Caposele. Questa ripetizione della cerimonia nuziale ad Andretta veniva chiamata cacciá la zita a la chiesia.35
Il ciclo della vita biologica si chiude con la morte, che è occasione di riunione della famiglia e di socializzazione dell’evento attraverso il funerale. Il passaggio dal vecchio equilibrio rappresenta una fase di instabilità per il gruppo sociale, una forte trasformazione della realtà. Tale cambiamento é rappresentato anche dal passaggio materiale del morto dallo spazio della casa allo spazio del cimitero, con il corteo funebre composto dai parenti e dalla comunità. Oggi la morte si occulta al nostro interno e non disponiamo di opportuni segni esterni per condividere il dolore nel tempo e per superarlo. Le esequie avvengono sempre in modo affrettato, e si segni di morte vengono per lo più occultati. In passato, nella società tradizionale, questa fase della vita otteneva un’attenzione maggiore ed intorno all’evento si costruiva un fitto reticolo rituale, teso a garantire la memoria ma anche il superamento di quel momento critico da parte dei sopravvisuti. Il rituale funebre antico, sopravvissuto nelle campagne fino a qualche decennio fa, prevedeva azioni, gesti e formule che i parenti e la comunità adottavano come elaborazione del lutto. Il grande etnologo Ernesto De Martino ha descritto e interpretato i rituali funebri in una insuperata opera antropologica (Morte e pianto rituale, Torino 1958), dove sono descritti anche i repiti campani, le tradizionali lamentazioni funebri delle donne di famiglia o di prefiche appositamente incaricate del pianto rituale. Tali strutture rituali sono state praticate nei comuni dell’Alta Irpina fino a pochi anni fa. In tutta l’area inoltre, la pratica di fotografare il morto sul catafalco, nel letto o nella bara era diffusissima. Per molti di quei
contadini quella foto era la prima e unica immagine di sé stessi che veniva utilizzata come vera e propria maschera funebre, monumento alla memoria del defunto. A Caposele, come negli altri centri irpini, l’atteggiamento nei confronti della morte era codificato nella tradizione del rituale funebre e nelle pratiche di solidarietà sociale, che iniziavano con la veglia e proseguivano col trigesimo e con gli anniversari. L’agonia era vissuta come momento di passaggio, durante il quale le donne accorse al capezzale del moribondo reiteravano, in forma rituale, gesti e parole di conforto e mettevano in atto le ultime cure palliative, con la recita del Rosario e delle preghiere della buona morte. Ecco la giaculatoria dell'ultima agonia: Gesù, Giuseppe e Maria / ti dono il cuore e l’anima mia, Gesù, Giuseppe e Maria / assistimi nell’ultima agonia, Gesù, Giuseppe e Maria / spiri in pace l’anima di … o mamma mia, o papà mio, etc. La veglia ha una duplice funzione, di solidarietà e di filtro nei confronti del moribondo e dei familiari superstiti. Luigi Lombardi-Satriani attribuisce a queste pratiche anche una funzione di controllo, “affinché il morto non superi la barriera della morte contagiando i vivi, irrompendo nello spazio della vita, per evitare l’eccessiva contiguità col morto e con la morte, perché il morto veicola morte” (L.M. Lombardi Satriani-M. Meligrana, Il ponte di san Giacomo, Milano 1982). Problemi assai incresciosi si presentano allorquando l’agonia si protrae per troppo tempo e il malato non riesce a morire, co-
I funerali di Rosa Senerchia (1965)
stringendo i familiari a mettere in atto le sperimentate strategie della tradizione. Si comincia col mettere un crocifisso sotto il cuscino del morituro insieme a qualche immaginetta del santo patrono, poi si libera il corpo dagli amuleti. Una volta accertata la morte, immediatamente le donne di casa e le donne del vicinato lavano il "corpo ancora caldo" (pratica ancora in uso), lo rivestono e lo agghindano con il corredo preparato quando egli era ancora in vita. Il defunto viene deposto nella bara e questa viene sistemata su un tavolo ricoperto da una tovaglia o da un copriletto bianco tratto dal corredo di famiglia. Il defunto è rigorosamente orientato coi piedi verso la porta. Sotto la sua testa si metteva il cuscino e nella bara, calze, mutande, ferretti per i capelli, sigarette, pantofole, scarpe, il fazzoletto che copriva il capo e altri effetti personali dei quali il defunto si serviva in vita. Qualcuno metteva anche i migliori abiti e la biancheria che il defunto aveva indossato. Molti tagliavano una ciocca di capelli, da conservare come una reliquia. Una bambina defunta veniva vestiva da sposa (alcune volte con il vestito da sposa della madre), sul capo le si poneva una corona di fiori d’arancio e nella bara tanti confetti. La comunicazione del decesso a Caposele come a Teora, avveniva con i diversi rintocchi di campane, che segnalavano il sesso e anzianità del defunto. Questo uso oggi si è perso, ora i rintocchi della campana sono uguali per tutti. Il corpo del morto, posto nei modi che abbiamo descritto, viene vegliato dalle donne, nella stanza accanto si riuniscono i maschi. La lamentazione opera delle donne di famiglia e le prefiche non vengono più chiamate da tempo. A tarda sera la stanza in cui giace il cadavere, illuminata da poche lampade, viene abbandonata e la veglia avviene nelle altre stanze con periodiche visitazioni al defunto. L’arrivo del prete e la chiusura della bara rappresentano l’apice della
manifestazione del cordoglio. Le donne si dondolano in modo sempre più veloce mentre si alzano lacerti di lai, qualche anziana signora - come abbiamo avuto modo di constatare -, dibatte il capo e le gambe con le mani aperte e chiuse a pugni. Parenti e amici donavano il cosiddetto "cuònzulu" a Teora conosciuto come "ruagne", una grande cesta con stoviglie e alimenti, perchè nella dimora del defunto, coperti gli specchi, venivano anche spenti i fuochi della cucina e interrotte tutte le faccende di casa. Cibo rituale è ancora considerato il brodo di pollo e pasta casalinga. Oggi in molti casi giungono pietanze dai ristoranti, bevande e lieviti dai bar. Il lutto, segnato da drappi neri agli ingressi e sugli specchi, veniva portato dai superstiti per un periodo di tempo che variava in relazione ai gradi di parentela intrattenuti col defunto. Le vedove indossavano abiti neri per il resto della loro vita; in altri casi il lutto perdurava per almeno quattro o cinque anni, finanche gli orecchini erano coperti con stoffa nera. Gli uomini indossano il bottone nero all’occhiello o una fascia nera. Anche ai bambini qualcuno faceva indossare il lutto. In chiesa, per la messa funebre, si allestiva la castellana, una struttura in legno ricoperta di pesanti drappi neri circondata da candele (il loro numero dipendeva dal rango del defunto), sulla quale veniva deposta la bara; oggi il feretro lo si lascia a terra, su di un tappeto. In occasione della messa di suffragio a un mese dalla scomparsa (trigesimo), i parenti facevano preparare il pane dei poveri, da distribuire per aiutare l’anima del defunto nel suo "cammino verso il paradiso". L’abitudine è caduta in disuso mentre si è diffusa l’usanza di distribuire le immaginette del defunto sia in occasione del trigesimo che nell’anniversario. Si tratta di una ritualità cadenzata che accompagna il lungo cammino del defunto nell’al di là. L’ideologia tradizionale considera infatti i morti presenti nel
Ultimo saluto a Nicola Cetrulo (1973)
contesto culturale e varie sono le occasioni in cui i due mondi si incontrano. In ognuno dei cinque paesi sono note e funzionali storie e credenze relative al ritorno rituale dei morti (due novembre, periodo natalizio, epifania) e racconti che narrano di incontri con spiriti e figure del mondo ultramondano. Questa immanenza della morte nelle società contemporanee va sempre più ridimensionandosi, a vantaggio di comportamenti più secolarizzati, meno ritualizzati e più omologati.
Era considerata impura, non degna. Chi non può avere figli, né per fuoco né per consigli. 3 Pizza da forno ottenuta con farina di granturco, carne di maiale e formaggio pecorino. 4 Le voglie del periodo della gravidanza. 5 Il volìo è un desiderio da soddisfare, pena gravi conseguenze per il nascituro. 6 E’ nata una femmina e crescila maschietto. 7 Sacchettino di tela nero. 8 Una brocca. 9 Espressione tipica contro il malocchio che vuol dire salute. 10 Vermi intestinali. 11 A capo del letto. 12 “ Due, tre bande”, era il nascondino. 13 Trottola di legno. 14 Con l’altalena. 15 Una sorta di gioco di birilli. 16 Trentuno salva tutti e il nascondino. 17 Con un bastone bisognava colpire un pezzo di legno e lanciarlo al volo lontano. 18 Proposta di fidanzamento. 19 Le pubblicazioni, previste dal diritto canonico. 20 La lista dei vestiti, ossia il corredo. 21 Ragazza spensierata, da maritata sei piena di responsabilità. 22 Trasportare il corredo a casa dello sposo. 23 I cassetti nei quali si usa mettere la biancheria intima. 24 Il tipico costume da pacchiana. 25 Come riesci a stare in pace con te stessa e ad addormentarti la sera? 26 “Non sei di nessuna utilità, quello che ha fatto tua madre in passato, lo fai anche tu!”. 27 Di Venerdì e di Martedì, né ci si sposa né si parte. 28 Confetti nel dialetto di Sant’Andrea. 29 Cavatelli con all’interno la mollica del pane fritta. 30 Antipasto a base di prosciutto crudo. 31 Pizza e verdura. 32 Patate lessate e schiacciate. 33 Peperoni ripieni. 34 Quadriglia andrettese. 35 Porta la sposa fuori dalla chiesa. 1
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Questa sintesi ha lo scopo di rendere conto dei risultati dell’ inchiesta sulle feste tradizionali condotta nei comuni appartenenti al Consorzio Alto Irpini Meridies: Andretta, Caposele, Conza della Campania, S. Andrea di Conza, e Teora. Ad un numeroso campione di uomini e di donne dai sessant’anni e oltre, di estrazione contadina e artigiana, è stato sottoposto un questionario composto da svariate domande interamente dedicato al cosiddetto ciclo delle feste. Nello studio delle tradizioni popolari la dizione di ciclo delle feste definisce l’insieme delle feste e delle cerimonie che cadenzano l’intero corso dell’anno il quale, nella cultura contadina, viene letto e interpretato come un tempo ciclico, che ritorna su se stesso al punto che l’avvio è inteso anche come la fine del periodo da rifondare. Il ciclo festivo si avvia convenzionalmente la notte di san Silvestro e si chiude in periodo natalizio, quando i dodici giorni che separano il Natale dal Capodanno vengono per analogia rappresentati come i dodici nuovi mesi che seguiranno. I risultati qui compendiati non esauriscono ovviamente le informazioni storiche sulle feste tradizionali. Tali risultati vanno accolti come provvisori e il work-in-progress che abbiamo avviato si apre a comprendere nuove feste e più recenti tradizioni festive, come indicato nella "Tabella del ciclo delle feste" che segue ed integra questo scritto.
La raccolta di informazioni è stata curata da Roberta Meo, Alfonsina Patrone e Marianna Vitiello
La notte di san Silvestro è festeggiata in modo uniforme in tutti i paesi, secondo un modello rituale che includeva l’accensione di fuochi, la distruzione di vasellame e oggetti vecchi, il comsumo di cibi rituali, convivi e balli. Da una parte si eliminava simbolicamente tutta la materia negativa accumulata nell’anno trascorso e dall’altra si auspicava l’arrivo di un tempo nuovo e favorevole. Ad Andretta della notte di capodanno si pensava che era Meglio vere' 'nu lupo indo a ri pecore / ca lu sole durante la iurnata re Santo Silviestro1 Freddo, pioggia e neve segnalavano la consuetudine di un buon pronostico d’anno. Si era anche soliti dire: Iessi fore, esprimi nu' desiderio ca te spusi2. Nella notte dei buoni asupici e delle buone previsioni era consigliato maneggiare denaro per favorie la crescita delle ricchezze (Sant’Andrea). La prima persona incontrata nelle prime ore del nuovo anno, poteva fornire preziosi segni previsionali sull’andamento del nuovo anno: buono se la persona era un’anziana donna, mediocre o cattivo negli altri casi. A san Silvestro a Caposele si usava bruciare un grande capone o tezzonu3 che doveva durare fino al giorno seguente e intorno al quale ci si riuniva per festeggiare in allegria l’arrivo del nuovo anno mangiando, cantando, giocando fino all’alba e raccontando storie e fiabe. A mezzanotte si usciva fuori dalle case per sparare con i fucili. Un’usanza particolare, in tutti i comuni, era quella di gettare dalle finestre oggetti vecchi e inutili. A Conza, la brace ricavata da lu ciuoppelo4, veniva utilizzata per cuocere la carne da consumare il primo dell’anno. Mangiare lenticchie o la pasta fatta in casa come lì cavatielli5, la menestra e fasuli cu' lu père re puorco6 ed anche baccalá, paparoli chieni7, paparuoli fritti8, spaghetti cu l'alici9, struffuli10 i e pizza cu l'alici11. In tempi recenti sono state acquisite nuove abitudini festive, come quella di appendere del vischio sulla porta principale delle abitazioni. Se un uomo e una donna si fermavano sotto il vischio, dovevano darsi un bacio. Erano soprattutto i benestanti ad usare il vischio. A Sant’Andrea si crede che durante la notte della Befana avvenga il prodigio della processione dei morti. Si racconta che i defunti si recano in processione presso la chiesa di San Michele per venerare la nascita del Bambino Gesù. Per poterla vedere è necessario prendere nu vacile12 pieno d’acqua illuminandolo con una candela accesa. Nel riflesso di luce nell’acqua si potrà osservare la processione, che è cosi composta: in testa al corteo ci sono i neonati e bambini morti precocemente, seguono le persone morte per cause naturali e infine quelle morte ammazzate, ovvero persone che portano i segni della sofferenza. Quando la candela si spegne significava che tutti i morti sono entrati in chiesa. Anche a Teora c’era la credenza nella Pasqua Bifania relativa al passaggio delle anime di coloro che sono morti nel corso dell’ anno vecchio. Uno spettacolo spaventoso al punto che si augura che tutto passasse nella via, ma mai pasqua bifania. Chi invece voleva osservare l’evento, a mezzanotte doveva piazzarsi sul sagrato della chiesa del Sacro monte dei morti di Teora, la Congrega e poggiare sulla balaustra una bacinella con dell’acqua e con due candele accese. I bambini invece, per la notte dell’Epifania appendevano delle calze al camino aspettando che la Befana le riempisse di doni. Frutta fresca, caramelle e qualche altro piccolo regalo soddisfaceva le loro aspettative per questa giornata in cui si poteva giocare per molto tempo. Tanti i giochi tradizionali (come descritti nel capitolo dedicato al ciclo della vita tradizionale) ma a Caposele raccontano che coi fagioli si giocava a arretu a li puorci.
Il 17 gennaio, in alcuni dei cinque paesi si festeggia S.Antonio Abate, protettore dei maiali, degli animali domestici e del fuoco. La festa segna l’inizio del Carnevale. A S. Andrea e Teora si recitava Sant'Antuono maschere e suoni13 e anche Chi Carnuvale buono vole fá da Sant'Antuono addà accumenzà14. I bambini giravano per le case già una decina di giorni prima per raccogliere la legna per i falò che si accendono in ogni rione. Intorno ai falò si riuniscono festosamente con canti e balli popolari. Sotto la brace vengono cotte patate che si mangiano coi ceci arrostiti, le salsicce o la carne di maiale alla brace, e poi il migliazzo accù l' frìttele15 con abbondante vino. S. Antonio Abate o sant'Antuono non rientra nelle feste caposelesi, dove invece viene festeggiato S. Antonio da Padova, il 13 giugno. Tuttavia anche a Caposele persiste l’usanza di ammazzare il maiale per il giorno di s.Antuono. Si recitava infatti A S. Antuonu, la frìttela cu l'uovo16. Ancora oggi per alcune famiglie caposelesi, il maiale costituisce una grande risorsa per il fabbisogno alimentare, anche se purtroppo questa tradizione sta man mano scomparendo poiché risulta più comodo comprare gli insaccati già confezionati quali capucuoddu, vrendresca, prusuttu, sauzicchi, subbresata, salame re' pezzienti17. Il maiale veniva nutrito con ghiande, barbabietole e patate che venivano cotte in un grande caccuvu18. Venivano poi schiacciate, insieme alla caniglia19 con il pesaturu20, ottenendo la cosiddetta ciambotta, alla quale si aggiungeva la verora21. L’uccisione dei maiali avveniva dopo un anno e mezzo di vita e si caratterizzava come una festa. Il maiale non andava assolutamente ammazzato nel giorno di S. Sebastiano, e nemmeno quando la luna era in mancanza22, pena la cattiva riuscita della conservazione dei salami. Del maiale non si gettava nulla. Lle setule23 ad esempio, venivano utilizzate dai calzolai come filo per cucire suole e tomaie. Si era soliti mettere le ossa del maiale sotto sale e utilizzarle come condimento insieme alla menestra24. Anche la parte di grasso non commestibile veniva utilizzato per ricavarne sapone, usato in acqua calda e soda. La festa della Candelora (2 febbraio) è considerata comunemente un termine prossimo dell’inverno: Alla candelora si neveca e si chiove / vierno è da fòra / si nun neveca e si nun chiove/ quaranta jiuorne ancora25. Per la cerimonia religiosa della benedizione della candele le chiese parrocchiali si affollano di fedeli. Al termine della messa, i parroci distribuiscono alle famiglie una candela grande per il capo famiglia ed altre più piccole, una per ciascun membro. La candela benedetta è serbata in casa e la si accende per scongiurare i temporali. Il Carnevale, che ha inizio con la festa di sant’Antuono, in ognuno dei paesi è raffigurato da un fantoccio o da un uomo mascherato da fantoccio. Ma ci sono anche maschere tipiche, come li squacqualacchiuni26 di Teora. Si tratta di un gruppo mascherato con il capo squacqualacchiune che impugna la scopa del comando mentre il resto del gruppo maneggia bastoni, campanacci, catene, trecce d’aglio, rami di rosmarino e di alloro. Il loro costume è composto da un sacco di tela con una giacca a rovescio e il viso coperto da un cappuccio che lascia liberi gli occhi. Girano per il paese producendo un rumore cupo di campanacci e disturbando i passanti. In cerca di cibi e vino compiono incursioni intorno ai vari Turnieddi27, soprattutto a quello nei pressi della chiesa di San Vito, dove c’è la statua di Sant'Antuonu. Da qualche
anno, in occasione della festa di s. Antonio abate si svolge la sagra delle tomacelle28 e degli scaldatelli29 con la sfilata dei carri e delle mascherine e i giochi tradizionali, fra cui quello della pignata, la corsa nei sacchi, il tiro alla fune, il palo della cuccagna. A tarda sera un tempo, a Teora si faceva vedere la maschera della Quarantana, cioè della vecchia e penitenziale Quaresima. Il martedì grasso aveva luogo il corteo funebre del Carnevale morto, processione parodica e grottesca. A Sant’Andrea il fantoccio di Carnuale era simile ad uno spaventapasseri ma imbottito di paglia (detto anche pagliaccio). I festeggiamenti avevano inizio l’ultima domenica di carnevale per proseguire fino al martedì grasso, ultimo giorno, quando compariva anche la Quaraiesima, indicata come la moglie di Carnevale. Era vestiva a lutto, cu nu maccaturo nieuro ncapa30 e seguiva il corteo funebre piangendo per i debiti che le aveva lasciato il marito, morto per aver troppo bevuto e mangiato. Carnevale veniva portato in processione in una bara dalla piazza principale fino al’ingresso del cimitero, dove veniva bruciato. Fenisce carnuale nun ze còceno maccarune / la vecchia ca le facij ha perduto lu lagnaturo, recita un proverbio. A Sant’Andrea ci si travestiva fra l’altro da “zingari”, con abiti vecchi e trasandati, o anche sacchi o tute, con il volto coperto. Carnevale era anche un’occasione per sbeffeggiare avversari o personaggi in vista e chiacchierati. Il particolare clima di questa festa consentiva di mettere in piazza i segreti di qualcuno e di prendersi gioco di altri. Lo scherzo, il gioco, la teatralità dei travestimenti e del capovolgimento del normale ordine delle cose (uomini che “diventano” temporaneamente donne, ad esempio), conferiva alla ritualità carnevalesca aspetti liberatori e rifondativi. Lo stesso processo e messa a morte di Carnevale, capro espiatorio delle contraddizioni e delle malefatte della comunità, assumeva i caratteri di ancestrale rito di annullamento e di ricostruzione del gruppo, che in tal modo si avviava a sperimentare un nuovo tempo di lavoro e socialità. Ancora negli anni Sessanta-Settanta, a Caposele per tre giorni consecutivi si metteva in scena il matrimonio e il funerale di Carnevale. Un Pulcinella con un copricapo di cartone a forma di cono e due grosse campane in mano, dava inizio ad un folto corteo di gente mascherata. Fra questi, c’era un giovane travestito da pupazzo impagliato (pagliaccio) che portava in spalla un grande sacco di paglia sulle spalle. La gente picchiava su quel sacco con i bastoni cantando: Carnuvalu chiunu re paglia/ portimi 'nguoddu ca ti so cumpagnu31. Il corteo percorreva le strade del paese ballando al suono di organetti e fisarmoniche fino a raggiungere uno slargo, dove quel sacco di paglia portato dal pagliaccio veniva bruciato fra lazzi e balli. In una bara veniva poi posto il pagliaccio - Carnevale che veniva portato in giro e pianto dalle molte persone mascherate con questi versi:Carnuvalu pecchè si muort / pane e vino nun ti mancava / la 'nzalata era ndà l'uorto / Carnuvale pecchè si muortu32, e il pagliaccio rispondeva: I so muortu / pe nun verè lu stuortu!33. Gruppi di giovani erano soliti fare giri di questua per le case del paese chiedendo: 'nzicchiu, 'nzicchiu, 'nzicchiu / rammi nu capu re sauzicchiu / si nun mu lu vo rà / ca ti puozzi 'nfracità34. Quello che si mangiava erano maccarune e carne35, foglie migliazzo e coteca36 e cavatiello cù la mullica fritta37. La sera del martedì Carnevale finiva. Aveva in genere fine con la distruzione del fantoccio che lo rappresentava, messo a morte in un falò da qualche parte del paese.
Giovedì Santo a Teora 2011
Via Crucis a Teora 2011
Il Mercoledì delle Ceneri è il primo giorno di Quaresima, il periodo di quaranta giorni che precede la Pasqua e durante il quale sono sospesi taluni comportamenti e interdetti alcuni cibi, soprattutto le carni. L’osservanza di un rigido regime alimentare rientrava fra quei comportamenti penitenziali sostenuti dalle autorità ecclesiastiche. Missioni, evangelizzazioni, visite servivano a controllare l’osservanza di tali norme ed a contenere ogni forma residua di effervescenza carnevalesca. Il dominio della Quaresima veniva annunciato già dalla maschera della Quarantana o Quaraesima che si faceva vedere negli ultimi giorni di Carnevale. La stessa maschera ritornava nei rituali di mezza quaresima o feste di sega la vecchia, che avevano luogo nel corso del periodo penitenziale, due settimane dopo carnevale, quando si rompeva la pignata (Andretta) e si bruciava o si rompeva il pupazzo impagliato che rappresentava la vecchia Quaresima. Il 19 marzo invece si festeggia S. Giuseppe preparando le zeppole fritte o al forno. A Caposele in questo giorno si mangiava il bollito cotto nelle pignatte condito con aglio, olio e peperoncino. La cerimonia di benedizione delle palme inaugura la Settimana Santa. La domenica in
chiesa vengono portati fasci di rami d’ulivo che verranno benedetti e portati in processione. La palma, a volte ornata di nastrini, viene poi posta nei campi (su di una croce o su un albero), nei magazzini, alle porte delle stalle, dietro le porte di casa o alle finestre, in capo al letto, dove sono sistemate le immagini devote. Il Giovedì santo venivano legate le campane, sostituite dalle traccole38.Nel pomeriggio ha luogo il pellegrinaggio ai sepolcri allestiti nelle chiese con piante, fiori e piantine di grano fatte germogliare al buio nei giorni precedenti. Un tempo queste piantine venivano ornate con viole e primule. La sera del Giovedì in tutti i paesi si svolge la liturgica Lavanda dei piedi, mentre il Venerdì ha luogo la Via Crucis, che in quasi tutti i paesi è una sacra rappresentazione. A Caposele un tempo la processione era acompagnata anche dagli zampognari. I cortei percorrono le strade del paese e si dirigono verso il Calvario. A Sant’Andrea un corteo processionale segue la Madonna portata a spalla dalle donne, che poi si unisce a quello del Cristo morto. Il Sabato santo le campane vengono slegate mentre in chiesa viene fatto cadere il telo che dal giovedì copriva l’altare. Quasi ovunque la sera e la notte di sabato paranze di cantanti e suonatori andavano in giro per la questua delle uova mentre altri gruppi di cantanti e musicisti portavano le serenate alle ragazze. Ad Andretta la vigilia era caratterizzata dall’accensione di falò e da veglie con balli e musiche nelle campagne, mentre a Teora i giovani si scambiavano ciambelle di pane con le uova, che a Caposele chiamano panarielli. La domenica di Pasqua ad Andretta si preparano taralli e tarallini dolci nasprati, scaldatelli, pastiere con ricotta, pizze rustiche con ricotta e salsiccia, biscotti rotondi o intrecciati ricoperti di mennolini39. In passato si usava preparare la cosiddetta cesta con biscotti e taralli, che le suocere regalavano alle nuore. Le ceste venivano donate anche alle famiglie che avevano subìto un lutto nel corso dell’anno. Il Lunedì in Albis è sempre viva la tradizione della scampagnata nelle vicinanze di fiumi, laghi o ruscelli. Ad Andretta l’usanza è chiamata casatiello. A Caposele alla gita fuori porta si preferiva la riunione di tiro al bersaglio a cui prendevano parte molti uomini, soprattutto cacciatori che poi terminavano la giornata nelle cantine a banchettare ed a bere vino.
La prima domenica di maggio a Sant’Andrea gruppi di pellegrini risalgono il monte dell’Abetina. Sulla vetta, nei pressi delle Croci, ci si ferma a consumare il pasto ed a ballare. Qualche settimana dopo, nel giorno dell’Ascensione, devoti e giovani che lanciano petali di rose e fiori di ginestre, vanno in processione dalla Chiesa Madre di Sant’Andrea fino a 'ngoppa a lu cumento, luogo canonico dal quale il parroco benedice le campagne. E’ in questo giorno che viene consumato devozionalmente un piatto rituale a base di latte e tagliolini di pasta, condito con zucchero o sale e insaporita da una foglia di menta. Il calednario liturgico delle feste di maggio prosegue con la festa della Pentecoste detta la Pasqua delle rose. Una festa che vede protagoniste le ragazze che coprono con petali di rose il pavimento della chiesa. La processione che segue percorre le strade del paese addobbate con piante e fiori di ogni genere. Nel corso della festa del Corpus Domini vengono eretti altarini con fiori, tessuti e pietanze in ogni slargo del paese. Ai balconi
Le "Maggiaiole" (Sant'Andrea di Conza, maggio 2011)
ed alle finestre le donne espongono copriletti e lenzuola ricamate tratte dai loro corredi. La festa di sant’Antonio da Padova del 13 giugno segna l’inizio della mietitura e delle ricorrenze estive. Considerato patrono del fuoco come sant’Antonio abate, il santo padovano viene festeggiato anche con l’accensione di grandi fuochi rituali, come a Caposele dove, dopo la processione, ci si ritrova intorno al falò sul quale arde anche un’immagine del santo. Sotto la brace vengono cotte le patane sfruculate40. La festa si chiude fra libagioni e danze collettive. Sant’Antonio è il patrono di Andretta, la cui festa è stata da tempo posticipata nei primi giorni di settembre, quando gli emigrati che sono rientrati in paese, consumano l’ultima parte della loro vacanza. A Conza della Campania il culto di sant’Antonio è radicato e la sua festa, soprattutto nel passato, era un’occasione di aiuto nei confronti dei poveri e dei diseredati. I pani distribuiti per la festa di Sant’Antonio un po’ ovunque, qui venivano sostituiti dalle opere benefiche che i parroci riuscivano a realizzare quali eredi di beni che le famiglie senza eredi maschi lasciavano loro. Anche la festa di san Vito (Conza, Caposele, Sant’Andrea), con la benedizione degli animali e i turnieddi (i tre giri rituali intorno alla chiesa o cappella) rappresenta una data importate nel calendario contadino. Il solstizio d’estate è un altro momento in cui il calendario agricolo-contadino e quello delle feste cristiane si sono storicamente sovrapposte e amalgamate. L’evento astronomico, il grande passaggio alla stagione estiva della calura e dei raccolti, viene festeggiato il 24 giugno, giorno dedicato a san Giovanni Battista. La vigilia di san Giovanni è considerata una notte in cui accadono prodigi ed è possibile prevedere il futuro. Quasi ovunque si crede che alcune erbe, raccolte a san Giovanni e poste a macerare nell’olio, risultino particolarmente efficaci nel curare affezioni e malattie. La scalata su qualche vetta consente poi di assistere ai primi bagliori dell’alba, periodo in cui è possibile intravvedere l’immagine del santo nella bandiera luminosa che si
crea. La vigilia di san Giovanni è il tempo delle divinazioni: un metodo diffuso è quello di tenere un uovo in un bicchiere d’acqua per tutta la notte e di aprirlo poi in mattinata. Le forme assunte dal tuorlo e dall’albume forniranno preziose informazioni sul futuro. Anche il cardone, un fiore del tutto particolare, riscaldato e poi posto in un bichere colmo d’acqua per l’intera notte, è fonte di previsioni: l’eventuale fiore mattutino ad esempio, annuncia un roseo matrimonio. Nella prima metà di luglio si svolge a sant’Andrea la festa della Madonna del Carmine (16 luglio) la cui statua viene portata in processione da gruppi di donne. A sera, nel rione Purgatorio si festeggia con canti e balli che, in questi ultimi anni, vengono accompagnati dal consumo di carni e bevande. Un dolce preparato per la festa è il melazzo, biscotto ricoperto di piccoli confetti colorati. La festa del Carmine è ormai scomparsa a Caposele dove fino a pochi anni fa si sorteggiava per l’occasione un agnello. Nel corso dell’estate sono numerose le feste e le sagre che si susseguono in ogni paese. I patroni sant’Emidio (protettore dei terremoti), s.Nicola, s.Andrea, s.Rocco, s.Erberto e altri santi il cui culto è da tempo presente nei territori dei cinque paesi, vengono celebrati con processioni, mercati, concerti e cibi festivi. Da anni in periodo estivo, quando affluiscono nei paesi le famiglie degli emigrati e villeggianti, si svolgono eventi e sagre legate alla valorizzazione del territorio e dei suoi prodotti: la sagra dei Fusilli (Caposele, nove agosto), la rievocazione della Visita del Principe (Andretta), le feste dell’Emigrante (Teora e Andretta, dove è stata eretta una statua dedicata agli emigrati), per citarne alcune dall’elenco riportato nella "Tabella del ciclo festivo". Il grande pellegrinaggio per san Gerardo Maiella. a Materdomini-Caposele, è l’occasione festiva di rilievo che, ai primi di settembre, inaugura la serie di altre feste religiose che si svolgono nei paesi prima di Ognissanti.
Nella notte di Ognissanti i morti tornano in processione per le strade del paese per visitare le case dove hanno vissuto o le abitazioni dei propri cari. E’ per questo che vengono apparecchiate le tavole con pane e vino. A Conza si preparavano delle zuppe di legumi (ceci, cicerchie, fave, piselli) in grosse pentole che poi venivano lasciate sugli usci, a disposizione di poveri e bisognosi. Ciccio cuotto pe' l l'anima de li muorti / ciccio abbruscato pe' l l'anima de li scurdati, recita un proverbio che scandisce gli usi rituali per il giorno dei Morti. Granaglie erano invece portate in chiesa per pagare la celebrazioe delle messe in suffragio dei defunti. Dalla vendita del grano i parroci ricavavano anche risorse da distribuire ai poveri. Il giorno di san Martino (11 novembre) a Teora ed a Conza si svolge la cerimonia della pizza di patate con la moneta. Chi trova la moneta avrà il diritto di comando nell’ordinare tipologie e sequenze delle portate del Cummito41, il pranzo a cui prendono parte anche decine di convitati e che si tiene il 21 novembre, giorno della presentazione della beata vergine Maria. Per santa Caterina (25 novembre) comincia il periodo di previsione meteorologica a breve e lungo termine (cumme Catarenea, cussì Natalea). Per santa Lucia (13 dicembre) si comincia a pronosticare, nei dodici giorni successivi, le condizioni del
tempo che caratterizzeranno i dodici mesi del nuovo anno: Si re calemme vuoi cunta' / ra' lu iuorno appriesso re Santa Lucia é accumincia42. La stessa previsione si potrà fare fra Natale e l’Epifania, periodo che analogicamente concerne l’anno nuovo. Dicembre è un mese particolarmente cadenzato da ricorrenze e date rituali significative: A lu primo è Lorj / a li sei è Nicola / all'otto è Maria / a li tridice è Lucia / e lu vinticinghe è lu figlio de Ddio / Natale fiesta fiesta e l'urtemo è San Silvestro43. Centrale è ovviamente la notte di Natale, nel corso della quale possono accadere eventi prodigiosi. I nati nella notte di Natale sono destinati a diventare lupi mannari o màsciare, una credenza ancora funzionale e che si trova a fondamento di molte storie che si raccontano nei paesi. Il rischio riguarda coloro che nascono intorno alla mezzanotte di Natale, epoca in cui nasce Gesù Bambino la cui statuina viene posta nel presepe. La tradizione presepiale nasce intorno agli Cinquanta e si diffonde, tramite le chiese, nei centri dei paesi coesistendo con l’albero e soprattutto con il più antico ceppo. Il ceppo collocato nel camino dovrà restare acceso fino a Capodanno o alla Befana ed i carboni serviranno a tenere lontani i fulmini ed a proteggere la casa dagli incendi. Il fuoco benefico che illumina la notte di Natale potrà così protrarsi per l’intero nuovo anno, fino al prossimo Natale.
Meglio vedere un lupo fra le pecore, che il sole durante la giornata di S. Silvestro. Esci fuori, esprimi un desiderio e ti sposerai. 3 Ceppo. 4 Grande ceppo. 5 Cavatelli. 6 Tipico piatto a base di verdure, fagioli e maiale. 7 Peperoni ripieni. 8 Peperoni fritti. 9 Spaghetti con le acciughe. 10 Struffoli. 11 Pizza rustica con le acciughe. 12 Recipiente. 13 S. Antonio maschere e suoni. 14 Chi vuole fare un buon carnevale, da S. Antonio deve cominciare. 15 Verdura mista con ciccioli di maiale. 16 “A S. Antonio, il grasso del maiale con l’uovo”. 17 Capicollo, pancetta, prosciutto, salsicce, soppressate e salsicce di polmone. 18 Grande pentolone di rame. 19 Crusca. 20 Rudimentale mestolo. 21 Resti del pranzo. 22 Luna calante. 23 Setole, peli più lunghi e duri del maiale. 24 Verdura. 25 Se nel giorno della Candelora il tempo è cattivo, vuol dire che l’inverno sta per finire, altrimenti ci saranno ancora 40 giorni di cattivo tempo. 26 Vedi le “Memorie ritrovate e nuovo folklore”, in questo stesso volume. 27 Falò. 28 Tipica pietanza locale a base di carne di maiale. 29 Taralli. 30 Con un fazzoletto nero in testa. 31 Carnevale pieno di paglia / portami addosso perché siamo compagni. 32 Carnevale perché sei morto / pane e vino non ti mancava / l’insalata era nell’orto / Carnevale perché sei morto? 33 Sono morto per non vedere le cose storte. 34 … Se non me lo vuoi dare / che tu possa infradiciare. 35 Pasta con la carne. 36 Verdure con cotica di maiale. 37 Cavatelli con la mollica di pane fritta. 38 Raganella. 39 Granella colorata. 40 Patate cotte e schiacciate con le man, condite con olio e sale. Possono essere consumate con peperoni fritti o cicerchie. 41 Pranzo. 42 Se le calende vuoi contare, dal giorno dopo S. Lucia devi iniziare. 43 “Il 1° dicembre è S. Lorenzo, Il 6 è S. Nicola, l’8 è l’Immacolata Concezione, il 13 è S. Lucia e il 25 si festeggia il Figlio di Dio. Natale in festa e l’ultimo del mese è S. Silvestro”. 1
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di Giusy Meo
L’espressione “vita, morte e miracoli” acquista un valore vero e pregnante quando la si riferisce alla storia di un Santo che compendia la secolare vicenda di emarginazione e di precarietà esistenziale che il Sud si è trovato a sperimentare. Alludiamo a San Gerardo Maiella, il cui culto ha come perno il Santuario di Caposele, frequentato durante l’anno da circa due milioni di fedeli. Da questo luogo sacro, sito su una collina di fronte agli Alburni, si irradia nelle aree più distanti del centro - sud il culto gerardino. Si tratta di un pellegrinaggio a valenza meridionale, come testimoniano i registri delle presenze e delle offerte da Muro Lucano (Pz) città natale a Cerignola (FGg), da Frosinone a Cava de’ Tirreni (Sa) ma si rilevano anche afflussi in misura minore da città del Nord come Savona, Torino, ecc. Gerardo Maiella nacque a Muro Lucano il 6 aprile 1726 da Domenico e Benedetta Galella. Gli antenati provenivano dai monti di Picerno e dai monti di Baragiano, zona di pastori e artigiani. L’esatto cognome del santo era Macchiella, ma i muresi nel loro dialetto lo pronunciavano Maiella, e così è rimasto nella memoria popolare. Nella primavera del 1732, dopo anni di stenti, la famiglia si ritrovò in miseria. Morì il padre e Gerardo dovette dedicarsi al lavoro, divenne sarto e poi cameriere al palazzo vescovile di mons. Claudio Albini. Morto mons. Albini, Gerardo ritornò a Muro Lucano e riuscì ad aprirsi una bottega per conto proprio. Lavorò fino all’aprile del 1749, quando arrivò a Muro una compagnia di missionari redentoristi. Gerardo ne rimase tanto affascinato da volerne farne parte. La madre, conoscendo le sue intenzioni, lo chiuse a chiave in casa ma egli fuggì caladonsi dalla finestra. Prestò servizio a Napoli all’ospedale degli Incurabili, dove la sua fama crebbe sempre più finché raggiunse l’apice per un miracolo strepitoso. Il 16 luglio 1752, davanti alla Madonna della Consolazione, prese i voti religiosi e iniziò un’intensa vita di apostolato nelle missioni popolari. Molti paesi della Valle del Sele furono frequentati da frate Gerardo: Senerchia, Calitri, Lacedonia, Santomenna, S. Fele, Oliveto Citra, Auletta, Vietri di Potenza, S. Gregorio Magno, Buccino, Monte Sant’Angelo, Napoli, Corato, Castelgrande, Ripacandida, Atella, Melfi, Deliceto e Muro Lucano. Nell’inverno del 1754 a causa delle abbondanti nevicate, molti rimasero senza lavoro e i poveri aumentarono. Gerardo dispensava cibo “moltiplicando le provviste”. A Caposele “padre dei poveri”. Consumato dalla tubercolosi si rammaricava per le spese che la comunità doveva sostenere per lui. Il 5 settembre - viene riportato nei libretti biografici - , il rettore in carica “gli diede l’obbedienza di stare bene e subito Gerardo si buttò dal letto e per un mese intero stette bene”. Morì il mese successivo, a ventinove anni. Il 29 gennaio 1893 San Gerardo fu dichiarato beato e l’11 dicembre 1904 proclamato santo da Pio X.
Il fenomeno del culto gerardino fu studiato negli anni settanta dall’antropologa Annabella Rossi, che lo descrive ne “Le feste dei poveri” (Bari, 1969), monografia dedicata al sistema dei pellegrinaggi liturgici ed extralituirgici dell’Italia meridionale. L’antropologa rilevava l’uso cristianizzato dell’antica incubatio, pratica che consiste nel dormire a terra all’interno della chiesa o del “sacro recinto” per favorire l’intervento della potenza divina, che opererebbe un miracolo di guarigione. Il devoto gerardino in tal modo, attraverso quello stato di non veglia, mimerebbe la condizione estatica del santo riconoscendolo come “una sorta di sublime modello levato al di sopra del mondo ordinario”. La festa del 16 ottobre, che commemora la morte del santo, è avvolta da una fitta rete di rituali che si svolgono per lo più all’interno del santuario: la visita alle reliquie, la richiesta di un figlio per le giovani spose, la cerimonia delle sementi, l’offerta dell’olio per le ventinove lampade votive (una per ogni anno di vita del santo) e così via. La centralità del santuario, luogo di conservazione delle spoglie del santo e degli oggetti che gli appartennero, è rimarcata con la novena “di aspetto penitenziale” che ha inizio il 7 ottobre. Vengono invitate le comunità del circondario e quelle dei luoghi in cui visse il santo: 7 ottobre: Contursi, Buccino, Teora, Montella; 8 ottobre: Lacedonia, Oliveto Citra, Zungoli; 9 ottobre: Calvi, Banzano di Montoro Sup., S. Felice di Montoro inf., Petina, Sicignano degli Alburni; 10 ottobre: Frigento, Andretta, Rocca S. Felice; 11 ottobre: Tardiano, Serre, Rocchetta S.Antonio, Guardia Lombardi, Morra de Sanctis, Scampitella; 12 ottobre: Palomonte, Castelnuovo, Giffoni Valle Piana, Pompei, Tre Ponti, S. Angelo all’Esca, Torre centrale; 13 ottobre: Maddaloni, Aquilonia, Castelfranci, Eboli, Quaglietta, Caposele; 14 ottobre: Arcella, Calabritto, Stornara, Colliano, Sapri, Pastorano, Tito scalo. Al santuario molti pellegrini vi giungono a piedi, lungo la salita del “Calvario”, la stessa che avrebbe percorso il Santo.Giungono in chiesa prima di mezzogiorno, ora in cui avviene la benedizione del grano. I semi verranno raccolti in piccoli sacchetti e distribuiti ai fedeli. Alcuni li seminano nei campi, altri considerano quei chicchi un augurio per il nuovo raccolto. Intorno alla statua i fedeli si accalcano per toccarla, molti strofinano i piedi della statua coi fazzoletti. Il Santo protegge le mamme e i bambini e infatti, sono numerose le donne che coi loro figli affollano la basilica. Fuori, sul sagrato, gli organetti, le tammorre e le castagnette risuonano ccompagnando cantori e danzatori che in questo modo sciolgono la tensione accumulata lungo il percorso devozionale e prima dell’incontro col Santo. Nei dintorni della chiesa ancora si usa macellare e cuocere animali per cibarsene per “devozione”. Il sacrificio rituale in onore del Santo va sempre più decolorandosi nell’uso e nel significato, com’è accaduto per la scomparsa cerimonia del “pranzo dei poveri”, che un tempo molti organizzavano per ricordare una delle azioni esemplari di san Gerardo che, appunto, sfamava i poveri. I pellegrini si intrattengono alla
fiera, allestita lungo le strade di Materdomini. Sulle bancarelle svariati souvenirs e oggetti che riproducono il Santo. Fra formaggi, ceci, castagne, salumi, erbe e semi si vendono attrezzi e utensili per gli animali da soma e, in una parte del mercato, si contrattano le vendite di animali da allevamento. Un tempo ovviamente la fiera era molto più grande e attirava persone da tutti i Paesi del Meridione. A sera, la statua del Santo è portata in processione. Al suo seguito vi sono i gruppi di pellegrini che mostrano insegne e simboli del paese di provenienza, molte le cinte o macchinette, e folta è la folla che segue la processione lungo le strade di Materdomini. In chiesa, sempre aperta, i fedeli compiono ancora una volta il loro “piccolo pellegrinaggio”visitando la tomba del Santo, le reliquie, gli oggetti che gli appartennero e che sono esposti in un’ala della basilica. Dall’altro lato della chiesa ampie stanze accolgono i vari ex voto che i fedeli lasciano in segno di devozione e di ringraziamento per la grazia ottenuta. Lasciano il loro “segno” riconoscente e promettono di ritornare.
Noi veniamo da tanto lontano: San Gerardo, ci porgi la mano; Noi veniamo piangendo d’amore e di gioia nel fondo nel cuore Da quel trono glorioso, o Gerardo, a noi volgi il tuo tenero sguardo. Tu che leggi le ansie e le pene, per noi implora dal cielo ogni bene. Rit. Glorioso San Gerardo, che sei pietoso e buono, a noi le grazie dona, impetraci mercè Guarda a noi che siam povera gente, ma dal cuore devoto e fervente Che con umile fede sincera eleviamo la nostra preghiera A te salgon devoti gli accenti ,d’una turba di bimbi innocenti Che si prostran davanti al tuo trono, e t’invocan celeste Patrono. O Gerardo, su questa collina, per noi prega la Madre divina Perché legga nel fondo dei cuori, e ci inondi di grazie e favori A te sale degli umili il canto, tu detergi dei poveri il pianto: Qual rugiada che scende nel cuore, Dhe! Lenisci ogni pena e dolore Rit. Glorioso San Gerardo, che sei pietoso e buono, a noi le grazie dona, impetraci mercè Sul cammino che ancora ci attende, una fulgida luce si accende Se ti metti sul nostro sentiero,come amico e fratello sincero. O Gerardo, ci prendi per mano, e nel mondo ci guida lontano Fino a quando verremo lassù e con te loderemo Gesù.
In alto: Iconografia classica di san Gerardo. Nella pagina accanto, dall'alto: Benedizione al Santuario di san Gerardo; arrivo di pellegrini in costume; ex voto in ceramica; ex voto per nascituri.
Già son paghi i vostri voti Di rivedere il grande Gerardo Rimirato con pio sguardo Dall’intera umanità. E noi tutti suoi devoti Ripetiamo il dolce canto O Gerardo, amato tanto Noi ti offriamo i nostri cor! Inchinata al sacro altare, dove il corpo tuo riposa, Questa gente fervorosa Sciglie l’inno dell’amor.
Chiesa di San Domenico a Sant' Andrea di Conza in una foto degli anni '40
Ogni territorio ha un’identità formata da paesaggi naturali, insediamenti urbani, attività economiche e produttive. A questi tratti caratterizzanti se ne deve aggiungere quello dei luoghi di culto. È nelle chiese, nei monasteri, nelle abbazie e nei conventi, infatti, che l’individuo ritrova il senso di appartenenza alla comunità locale. Ogni edificio religioso, con i suoi dipinti, i suoi arredi, le sue forme architettoniche, racchiude una storia a sé, in cui i cittadini si riconoscono e ritrovano tracce comuni del proprio passato. Nella mappa territoriale anche altri segni hanno assunto nella storia importanti significati per le comunità, come certe vette che sovrastano i paesi. I monti sono luoghi di incontro e mète di pellegrinaggi primaverili molto importanti. Sulle loro vette spesso si elevano croci o cappelle e sono disegnati ampi spazi in cui le comunità si ritrovano per festeggiare con musiche e libagioni. Molti cortei processionali inoltre escono dai confini del paese per recarsi in quelli del paese limitrofo. Lungo i tragitti si notano altri rilievi sacrali (cappelle rurali, croci, statue e poi rocce o alberi iscritti in certe sacre leggende) che si caricano di valenze storico-religiose di grande importanza per i gruppi che vi riconoscono il loro passato comune. Da questo punto di vista vaste aree del territorio, che includono paesi colline e vallate, si dispongono come lungo un percorso che unisce e solidifica nella comunanza di simboli e di significati. I luoghi che san Gerardo frequentò in vita sono oggi tappe che il pellegrino percorre in una ideale modellizzazione del suo percorso di vita e di esperienza. Il territorio con le sue chiese, i suoi monti e i suoi segni si dispone come un ampio spazio di permanenza delle comunità storiche e che, nel rassicurare attraverso tali reti di rimandi il viandante, il pellegrino o il migrante, richiede nel contempo attenzione e rispetto. In queste mappe il culto che nelle chiese e in altri luoghi del territorio viene riservato ai Santi patroni e taumaturghi è anch’esso frutto di scelte e sedimentazioni storiche che contribuiscono, a volte in modo determinante, a definire il valore profondo dell’identità locale. a cura di Giovanni Acocella, Pasquale Turri, Vincenzo Zoppi
Se anticamente il primo protettore era s. Michele Arcangelo ed il secondo s. Antonio da Padova, festeggiato all’inizio di settembre, ed il terzo era s. Filomena, che si festeggiava l’ultima domenica di agosto, oggi il santo protettore di Andretta è s. Antonio da Padova. Tra i protettori del paese si ricordano anche s. Rocco e s. Pasquale Baylon (17 maggio), anche se vi è chi ritiene che s. Erberto (20 agosto) abbia, in passato, svolto un importante ruolo. Tanti gli altri eventi ricordiamo la Fiera dell’Incoronata (ultima domenica aprile), la Fiera della Madonna del Mattino (ultimi sabato e domenica maggio), la Fiera di s. Giovanni (23 e 24 giugno), la Festa della Madonna dell’Assunta (15 agosto), la Festa della Madonna dell’Immacolata (8 dicembre).
Terra ad ogno hora di mattina e di mezzo giorno, di sera et di notte andavano ballando e gridando a guisa di spiritati”, scrive Giuseppe Acocella. L’abitudine di seppellire i morti nelle chiese ha fine agli inizi del XIX secolo, quando si creano i cimiteri fuori dall’abitato. Nel 1830 ad Andretta non esiste ancora un luogo dove seppellire i cadaveri e si chiede di continuare ad utilizzare le sepolture della Chiesa Madre, pur essendo piene “zeppe”. L’antica sepoltura della Chiesa ancora oggi è colma di terreno e di ca¬daveri. Nel XVIII secolo la chiesa versa ancora in cattivo stato ed i continui interventi riedificazione sembrano completarsi nel 1826.
Il tempio è documentato fin dalla seconda metà del Quattrocento. Una lapide del 1664 ricorda la protezione della Madonna del Mattino alla popolazione dal colera del 1656. Si narra che la statua della Vergine, venerata anticamente a Vallata, un giorno viene trovata nelle vicinanze di Andretta. I cittadini vallatesi, pensando ad un rapimento, la riportano nel luogo originario. Tutti i tentativi per riappropriarsi della sacra immagine e le misure cautelari più volte adottate risultano inutili: la Madonna aveva scelto Andretta per il suo culto. Infatti, la statua ancora una volta, all’alba di un bel giorno, appare su una pianta di sambuco. Si costruisce allora, in questo luogo, una piccola chiesa per la venerazione della Vergine, e si intitola “Stella del Mattino”. I monaci Cistercensi fondano per prima un piccolo convento. Dal 1818 si inizia, con le oblazioni gratuite del popolo e con il contributo del Comune, la costruzione di un edificio con l’intenzione di erigere una Congregazione di Missionari. Con la soppressione dei religiosi il Convento viene abbandonato. Nel 1963 diventa una casa di riposo. Il Santuario viene elevato a parrocchia nel 1923. L’ultimo sabato e l’ultima domenica di maggio a Mattinella, distante dall’abitato “circa due terzi di miglio” presso l’antichissimo santuario, si celebra, con riti caratteristici e con la costruzione delle cd “macchinette” con cere fuse il sabato precedente e cesti ornati con gigli, orchidee e nastri bianchi, una solenne festa in onore della Vergine Santissima della Mattina. Con il “Carro Trionfale”, sulla cui sommità è posta la Madonna e sui piani intermedi tante “verginelle” vestite di bianco e molti fanciulli alati, e un tempo trainato da buoi inghirlandati, e con le macchinette la processione, il sabato, va incontro a quella proveniente da Vallata. Lo scambio delle stole tra i parroci e delle fasce tricolori tra i sindaci sancisce la comune apparte¬nenza della Madonna..
Dal processo del 1690 a carico di Leonardo Luongo, sacerdote di Andretta, accusato di essere fattocchiaro e magaro, risulta che, nel 1677 ,le sepolture della Chiesa Madre, in particolare quelle degli in¬fanti, dette degli Angeli, vengono profanate e “molti huomini e donne in diversi luoghi pubblici di detta
Distrutta dal terremoto del 1980 e poi ristrutturata, Chiesa di s. Maria del Carmine è ubicata in una curva ristretta e quindi in posizione scarsamente soleggiata. Alla Chiesa venne annesso un Convento dei Padri Carmelitani, chiuso il 6 gennaio 1655. Nel 1720, la Chiesa appariva diroccata, tanto che fu necessario procedere alla sua ricostruzione, per opera di Alessandro della Badia. Nel 1736, lo sviluppo del paese ancora non aveva assorbito la Chiesa al suo interno, tanto da risultare ancora “extra moenia”. L’Arcivescovo metropolitano di Conza nel 1930 ha interdetto la chiesa al culto, probabilmente a causa del suo stato di degrado.
Dal monte Airola, dove vi è una piazzola con una Croce, si vedono tutti i paesi circostanti e si dominano le valli della Sarda, dell’Orato, una parte della Puglia e la valle dell’Ofanto . “Quella valle - scrive Giustino Fortunato,“ è una vera pianura di pietre e di sabbie in un fondo basso, umido, che riceve le acque senz’avere discesa, in un suolo contorto, accidentato, tra cui sono buche limacciose, polle che gemono dalla terra, stagni e paludi coperti di giunchi; una desolazione della quale non è possibile avere chiara l’idea, e che affolla il pensiero dè foschi ricordi della valle, - il brigantaggio, le carestie, le pesti, tutte le ferocie di uomini in lotta fra loro e con gli elementi”. Sulla rupe ovest del monte sono state collocate, per volere del
parroco don Leone, le statue della Madonna di Fatima con i pastorelli, della Madonna di Lourdes. E’ stata costruita una piccola cappella e un presepio permanente. Lungo la strada una via crucis con quadri di bronzo ricordano la passione di Cristo. La vetta del monte è meta di un pellegrinaggio il sabato di Pasqua.
La Chiesa dell’Annunziata risale al XVIII secolo, ma l’edificio è stato più volte modificato. E’ probabile che in passato l’Annunziata abbia svolto la funzione dell’antica chiesa del Carmine.La Chiesa, oggi ubicata in posizione centrale, ma che occupava in passato una posizione marginale rispetto al centro di Andretta, fu sede di una Confraternita dei Morti, e pertanto, venne usata, nella prima metà del XIX secolo, anche per seppellire i defunti, tanto che durante i lavori effettuati per rimuovere i residui delle sepolture, vennero rinvenuti dei sedili utilizzati dai membri della Confraternita. La chiesa ha sempre avuto l’imponente campanile, sul quale venne installato nel 1894 l’orologio realizzato da Milziade Nastri di Fisciano. All’interno, a tre navate, oltre a diversi altari marmorei, si segnalano il fonte battesimale sulla destra del portale d’ingresso, già esistente alla data del 1658, ciò che vale anche, per quanto già detto, anche per il Campanile, il Coro Ligneo risalente al XVIII secolo, una statua della Madonna ed alcuni dipinti ritenuti della Scuola di Luca Giordano.
La chiesa dedicata a santa Maria della Sanità (o della Salute) si trova nei pressi delle sorgenti del fiume Sele, dove in passato sorgeva una semplice edicola contenente un dipinto della Madonna, al cui posto, nel 1710, venne edificata la chiesa della Madonna della Sanità. La chiesa, ricostruita nel 1837 ai piedi del Monte Paflagone, venne poi spostata di qualche metro, nel 1906, a seguito dei lavori di captazione delle acque delle sorgenti del fiume Sele. Il solo campanile ha mantenuto la posizione di edificazione dell’XIX secolo.
Francescantonio Masucci di Volturara, gentiluomo divenuto eremita, restaurò la diruta chiesa di santa Maria ad Nives, costruita nei pressi dell’antico castello.Il beato, ai tempi della peste del 1656, aveva assunto impegno di governare gli appestati ma fu poi egli stesso contagiato. Nella cupola di quella chiesa maggiore si seppellirono circa 2.500 anime: solo 500 saranno gli abitanti che scamperanno al flagello. Poco distante, sopra un pietrone che si stacca isolato dalle colline, vi è l’antica cappella di San Vito, martire sepolto nella villa Marianna a poca distanza dal Silaro. Per accedere all’eremo bisogna risalire i disordinati scalini intagliati nella roccia. In cima alla gradinata, un arco spiana la via alla chiesetta. Lo stemma che porta in centro, raffigurante il blasone del feudatario del 1700, il principe Inigo Rota, ha la particolarità di essere stato volutamente incastrato capovolto. Fu lo stesso principe ( i ruderi del cui castello sono poco lontani) a farlo apporre in quel modo allor quando, persa l’autorità su quelle terre, si trasferì a Napoli donando i suoi beni al clero. Nel giorno dedicato a San Vito accorrono su questa rupe centinaia di persone provenienti da Caposele e dai paesi limitrofi per invocare l’intercessione del santo affinché li tuteli dai morsi dei cani rabbiosi.
All’ingresso del paese si trova la Chiesa dell’Incoronatella, un piccolo edificio religioso con una facciata assai elementare, corredata da un piccolo portale d’igresso in pietra. La chiesetta si affaccia su un vasto spazio, adibito attualmente a parcheggio dei veicoli.
Chiesa Madre di San Lorenzo: collocata nel cuore del centro storico di Caposele, ricostruita ex novo dopo il terremoto del
1980. E’ stata aperta al culto nel 2008. L’architettura della chiesa sulla sorgente trae ispirazione dallo spettacolo impressionante della galleria sotterranea di captazione della sorgente, con l’acqua che scorre tumultuosamente; le strutture della copertura e del soffitto, richiamano l’immagine dell’acqua fluente. Interessanti le opere marmoree (altare, ambone e battistero) e il Cristo bronzeo realizzati dallo scultore bergamasco Mario Toffetti.
da una cupola a costoloni in acciaio e sorretta da dodici colonne. E’ uno scrigno che accoglie i resti dell’antica e prestigiosa Chiesa Metropolitana. Si possono ammirare: il fonte battesimale, in pietra, del XVIII secolo, costituito da una vasca circolare sorretta da un piedistallo con stemma episcopale a bassorilievo. Sulla sinistra, vi è il sarcofago medievale che accoglie i resti mortali di S. Erberto e alcune statue lignee, recuperate fra le rovine dell’Antica chiesa.
Presso la frazione Materdomini di Caposele si trova il celebre Santuario dedicato a S. Gerardo Maiella, in Via del Santuario (tel. 0827-58118, 0827-58486, 0827-58499 e 0827-58498). Per raggiungere il Santuario si percorre la Strada Statale 165, che collega Lioni e Teora a Calabritto (e Quaglietta), lasciando su di un lato collina Pietra Tamburo (472 metri s.l.m.). Più che di Santuario, si dovrebbe parlare di complesso religioso articolato, visto che occorre distinguere la Vecchia Basilica, edificata entro la prima metà del XVIII secolo, ampliata e consacrata nel 1929 dall’Arcivescovo di Napoli, Cardinale Alessio Ascalesi, elevata a Basilica nel 1930 da Papa Pio XI e riaperta al culto il 30 aprile 2000, dopo un restauro. Presenta tre navate, un notevole altare maggiore e contiene nel presbiterio l’urna col corpo di S. Gerardo, a cui si riferisce l’ultima immagine di questa pagina; la Nuova Basilica, eretta nel 1971 su progetto dell’architetto napoletano Giuseppe Rubino, che rappresentò la tenda biblica eretta da Mosè nel deserto del Sinai. La struttura, ritenuta un gioiello della moderna architettura religiosa, ospita un organo di 2500 canne ed il Cristo Redentore in bronzo di Tommaso Gismondi; il Convento, fondato nel 1746 da S. Alfonso Maria dei Liguori, al cui interno si segnala un bel chiostro con portici e la Cappella del Transito; il Museo Gerardiano. Il Santuario, da cui si può ammirare un vasto panorama sulla Valle del Sele e sul Monte Cervialto, è meta di continui pellegrinaggi a cui prendono parte migliaia di persone. Custodisce, oltre a quelle già indicate, altre importanti opere d’arte, tra cui dipinti dell’Annunciazione, la Cena in Emmaus, la Resurrezione e la Vergine Maria dello scultore Tommaso Gismondi.
Annessa al Seminario è la Chiesa di S. Michele o “Pro Cattedrale”, in stile neoclassico, che presenta una semplice facciata con un portale d’ingresso in pietra. Venne costruita nel XVI secolo, con un’unica navata, con volta a botte e abside semicircolare per ordine dell’Arcivescovo Gaetano Caracciolo. All’interno, si segnalano un bel coro ligneo ed un ciclo di sei tele del pittore napoletano del XVII secolo Andrea Miglionic
La Chiesa Cristiana Evangelica di Caposele è stata fondata ne gli anni Settanta e fa parte dell’Unione delle Chiese Cristiane Evangeliche nella “Valle del Sele” insieme a quelle di Battipaglia, Oliveto Citra, Contursi Terme, Campagna, Eboli, Bellizzi e Olevano sul Tusciano (Sa), costituite in oltre 50 anni. Sono numerosi gli evangelici di Caposele.
La Chiesa Madre di S. Domenico venne edificata nel XVIII secolo e, successivamente, formò oggetto di diversi lavori di restauro. L’edificio religioso, che si apre su di una piazzetta su cui sporgono tante palazzine caratteristiche, è dotato di una Torre campanaria che sovrasta i tetti delle palazzine circostanti. All’interno, la Chiesa presenta tre navate. Vi si conservano diverse opere d’arte interessanti.
La Cattadrale è stata costruita al centro della nuova Conza della Campania, dopo il disastroso terremoto del 23 novembre 1980. E’ costituita da una grande aula cicolare, sovrastata
Piccola chiesa un tempo sede di una Confraternita. In questa chiesa vengono ambientate le leggende del ritorno periodico dei morti.
venienti dalla vecchia Chiesa di S. Nicola o dalla Chiesa di S. Maria delle Grazie o Congrega del Pio Monte dei Morti. Tra le varie opere d’arte custodite, si ricordano la statua lignea di S. Nicola di Mira del XVII secolo, quella di S. Emidio del XVIII secolo, un crocifisso di legno di fine XVIII secolo, due altari della chiesa della Congrega dei Morti, di cui uno di marmo (XIX secolo) e l’altro in pietra rossa locale e marmi (XVIII secolo), una statua lignea della Madonna col Bambino, tre dipinti raffiguranti gli Evangelisti ed uno relativo alla morte di S. Nicola di Mira, risalente al 1749, una delle ultime opere di Angelo Michele Ricciardi.
E’ probabile che la Chiesa Madre dedicata al Santo sia stata realizzata durante la dominazione normanna, tra l’XI ed il XII secolo, in prossimità del Castello. La Chiesa si ergeva in posizione di dominio della sottostante vallata e si affacciava su di una piccola piazza rettangolare. La facciata era quadrangolare e presentava sulla destra una torre campanaria quadrata che sovrastava Teora. La Chiesa era abbellita da uno splendido organo sopra il portale d’ingresso, da stucchi paretali, da cappelle con statue di Santi, da dipinti vari, un coro ligneo che copriva tutta l’abside. Inoltre, nell’edificio religioso si custodivano le ossa del Patrono di Teora, S. Nicola di Mira, nonchè di altri Santi (S. Vito, S. Teodoro, S. Reparata e S. Gioconda). Numerosi terremoti succedutisi nei secoli hanno colpito duramente l’edificio religioso, radendolo al suolo nel 1604, nel 1694, nel 1736 e nel 1980. Della struttura totalmente riedificata nel 1732, oggi resta solo parte della parete absidale.
La chiesa nuova dedicata a S. Nicola di Mira contiene reperti pro-
E’ di certo anteriore al 1538, risultando già da una Bolla episcopale di tale anno ed essendo stata citata dal Castellano unitamente ad una Chiesa di San Giovanni, andata completamente distrutta.La chiesa è anche nota come “Congrega del Pio Monte dei Morti”, visto che dal 1691 fu sede della Pia Confraternita dei Morti. La torre campanaria, costruita successivamente al 1746, per ordine del Vescovo Joseph Nicolaj, nel 1888 venne sostituita da una nuova quadrangolare con cupola in ferro battuto, realizzata da abili scalpellini e fabbri locali. Qualche anno prima, esattamente nel 1871, era stato effettuato uno dei tanti lavori di restauro compiuti nel corso del tempo, che avevano finito per alterare alquanto l’originaria configurazione della Chiesa, che per molto tempo costituì il centro del paese. Infatti, l’originaria pianta a croce latina ad una sola navata, venne sostituita, nel 1871, da due navate, sacrificando la Sacrestia.
Un tempo denominata Chiesa della Nunziata e di S. Vito, in quanto sorta sul sito dove insisteva l’Ospitale della Nunziata, che scomparve verso la fine del XVII secolo. La costruzione della Chiesa dedicata a S. Vito sull’originario sito dell’Ospedale di Teora e trova il suo fondamento nel fatto che a S. Vito rivolgevano preghiere i malati di coréa isterica o “ballo di san Vito”. Osservando la struttura si rimane colpiti dalla netta disomogeneità della facciata, che sembra formata dalla Chiesa e da un corpo aggiunto. Ciò deriva dalla modifica effettuata nel 1970. Infatti, in origine sussistevano due navate, ciascuna con proprio portale in pietra. Alla data indicata, soltanto la navata più piccola mantenne l’originaria destinazione di chiesa, mentre quella di dimensioni maggiori divenne centro sociale e oratorio giovanile. A destra della facciata venne ricostruito il campanile. Teora vantava numerose altre chiese, andate distrutte nel corso dei secoli: la chiesa di s. Antonio Abate, (già scomparsa prima del terremoto del 1980), ubicata fuori del paese in un luogo che ancora oggi è chiamato è della quale la memoria è rimasta tramite il mantenimento del nome del sito, ancora oggi utilizzato. La chiesa di s. Sofia era una piccola chiesa rurale probabilmente diroccata alla fine del XVII secolo. Una chiesa di San Giovanni, che dipendeva dal convento di san Francesco, risulta già distrutta nella prima metà del Settecento. La chiesa di s.Maria degli Angeli e di s.Pietro Apostolo, abbattuta nel 1963, risulta nell’elenco della visita pastorale del 1746.
C. Vallario diagnostica il malocchio (foto di B. Capasso)
L’ideologia magico-religiosa del malocchio e dell’affascino, la credenza nella potenza delle janare e di altre figure collegate al mondo inferico si sono andate formalizzando in storie e racconti ancora funzionali e tramandati oralmente. I sedici testi qui trascritti rappresentano la parte più viva di questo repertorio di tradizione orale, generalmente narrato dalle donne. Sono peraltro donne le janare o masciare, che rinnovano con le loro azioni l’antico stereotipo di una ambigua femminilità, il cui lato oscuro e socialmente pericoloso prevede che esse si adoperino a fare del male ai bambini ed alle persone. La protezione magica nei confronti di tali rischi si serve di formule, di pratiche rituali, di amuleti e oggetti sacri particolarmente adatti a neutralizzare i pericoli del magismo. La tradizione orale ha trasmesso, attraverso i canali della socialità familiare e di genere, l’ideologia magico-religiosa che residua in certi ambiti e che fino a pochi anni fa era pertinente ai contesti della cultura agro-pastorale. Le tecniche terapeutiche di rassicurazione utilizzate nei momenti di crisi individuali avevano in quei contesti una loro specifica validità. Ciò che resta di quel complesso e còmposito universo ideologico, sono i racconti esemplari ed i frammenti di talune pratiche domestiche che qui vengono documentate attraverso la trascrizione semplificata in lingua italiana dei racconti e delle testimonianze registrate. Di pochi testi vengono anche forniti i testi in dialetto standardizzato, e ciò nell’intento di offrire al lettore una più precisa caratterizzazione della provenienza orale e folklorica dei documenti. I racconti sono stati raccolti e trascritti da Michela D’Angola e Giovanna Russoniello
A Sant’Andrea si raccontano per lo più storie sulle masciàre. Chi nasce la notte di Natale, proprio allo scoccare della mezzanotte diventa, nella credenza popolare, una masciàra, cioè una strega. Per compiere la loro azione malefica, le masciàre girano di notte, penetrano nelle case attraverso il buco della serratura e qui guastano, cioè deformano i bambini che dormono nella culla, e fanno anche dei malefici alle persone adulte. C’è un detto che recita: Le janare, tienatelle ppe' cummare nel senso che è meglio tenersele come alleate per non provocare la loro ira. Per allontanare le streghe dalle case, ogni sabato si getta sul fuoco un pizzico di sale o si conficca sotto la sedia un coltello. Per impedire loro di entrare nelle case si usa mettere dietro l’uscio un ferro di cavallo o una falce o, più spesso, una scopa di erica, perché si ritiene che la strega non possa introdursi nell’abitazione senza aver prima contato i fili di saggina della scopa: intanto passa il tempo, si leva il sole e la mègera sarà costretta a fuggire nel suo “regno”, dove l’aspettano altre sue simili con le quali si crede che ogni tanto si riuniscano a convegno per decidere le loro azioni. Si usava anche mettere una croce o le crìole (lacci per le scarpe fatte con la pelle dei cani) vicino alla spalliera del letto, usate come talismano contro le masciare.
Le masciàre avevano l’abitudine di chiedere denaro, cibo e bevande varie, (farina, pane, zucca, ceuza, olio ecc..), beni essenziali all’epoca in cui si viveva con poco. Le persone che si rifiutavano di donare tali beni subivano un sortilegio: le masciàre durante la notte, si recavano a casa di coloro da cui avevano ricevuto un rifiuto e si vendicavano guastando i figli, solitamente quelli più piccoli (li deformavano). Per sciogliere questo sortilegio le mamme, facendo finta di non sapere, chiedevano alle masciàre: ”Vieni a vede’ che tène ‘sta criaturo?”; la stessa andava in aiuto sapendo di ottenere in cambio quello che aveva chiesto inizialmente.
Chi nasce la notte fra il 24 e il 25 dicembre, se è un uomo diventa pummenaro, cioè lupo mannaro. Si racconta che il mannaro esca di notte, specie quando c’è la luna piena, e cammini per le strade con gli occhi stravolti, emettendo urla bestiali rivoltandosi nelle acque di qualche fontana. Se qualcuno lo avvista, fa meglio a scappare e a nascondersi, perché il pummenaro, dotato di lunghe unghia, può graffiare oltre che mordere, fino ad uccidere la persona che sfortunatamente dovesse capitargli a tiro. Si racconta che al mondo devono sempre esserci sette masciàre, sette pummenari e sette sunnamboli; quando una di queste creature viene a mancare ne deve nascere un’altra per mantenere immutato il numero sette.
Gerardina e Antonietta Giorgio | Sant’Andrea di Conza 10 Maggio 2011
'Na femmena / cà stia ienno fora de notte / 'ngundraje a lu mulino sej masciare cà abballavano 'n cerchio // essa avia capito chi erano / ma nun se ne 'mburtaje / lassaje la iummente e iette vicine a loro dicenno // "Mo allargammo 'sta rota' // e loro' rispunnettero // "..Eh! A te, te pòzza accresce' la farina cà puorti" // Da quiddu iuorno la farina dindo a lu sacca nun fenia maj / pure si la femmena la usava // questa furtuna fernette quanne la femmena raccuntae a n'ata femmena / queddo cà era succiesso quedda notte. Una donna che si stava recando in campagna a notte fonda incontrò a lu mulino sei masciàre che ballavano in cerchio. Lei aveva intuito chi fossero e facendo finta di niente lasciò la iummenta e si aggiunse a loro dicendo: “Mo allargammo ‘sta rota” e loro risposero allegramente: “…Eh! a te, te pòzza accresce’ la farina cà puorti”. Da quel momento in poi la farina presente in quel sacco, nonostante fosse spesso utilizzata, non diminuiva mai. Questo beneficio, però, si spezzò quando la donna rivelò ad un’amica cosa le era accaduto quella notte. Gerardina e Antonietta Giorgio | Sant’Andrea di Conza 10 Maggio 2011
Antonietta Frino | Sant’Andrea di Conza, 17 Maggio 2011
I briganti che vivevano sulla montagna erano detti pumbenari in quanto uscivano sempre di notte. Vivevano in caverne, erano soliti rubare e mettere in atto le loro bravate. Chiunque li vedesse veniva da loro sequestrato e ucciso. Si racconta che erano uomini “normali” mandati da qualche “signore” importante del paese. Gerardina Cione e Anna Salvatoriello | Caposele, 25 Ottobre 2011
Una sera una signora camminando lungo la strada del ponte, andando verso l’Abetina, vide sei masciare che danzavano; queste sei streghe la invitarono a ballare dicendole che prima erano in sei e ora con lei sarebbero state in sette. Alla fine del ballo la signora si accorse che le sei masciare erano sparite. Queste masciare guastavano i bambini. Una sera una masciara andò a casa di Zaccaria e chiese un po’ di lardo, ma il padrone di casa rispose di no. La sera dopo la moglie voleva allattare la bambina, ma non la trovò nella culla perché stava sotto il letto con le gambe guastate!! Il signor Zaccaria andò subito a casa della masciara, e con la promessa di aggiustare la bambina, la masciara ricevette il suo lardo. Carmelina Vallario | Sant’Andrea di Conza, 20 Ottobre 2011
fuori per lavoro. Io dalla stanchezza mi addormentai subito Le fattucchiare erano dotate di particolare capacità, e tendevano ad illudere le persone, ad imbrogliarle ma anche a porre rimedio contro le fatture. Talvolta, negli angoli delle strade, si potevano trovare li pignatielli. Chi aveva una fattura, ad esempio a morte, riempiva quei vasetti con intrugli consigliati dalle streghe. La mattina seguente, la prima persona che passava di là e prendeva lu pignatiello si prendeva anche la fattura. Mia madre, quando era incinta, stava sempre male. Mio padre si recò con il suo asino, all’insaputa di tutti, da un uomo che, per sentito dire, era capace di liberare le persone dalle fatture. Ebbe conferma che alla moglie era stata fatta una fattura a morte e, non so con quale tecnica, la liberò. In quel preciso istante, la moglie si sentì come allegerita da un peso enorme che le premeva sullo stomaco e cominciò a stare meglio. Gerardina Cione | Caposele, 25 Ottobre 2011
mentre lei recitava il rosario. All’improvviso sentì dei rumori talmente forti provenienti da capa a lu lietto che, presa dalla paura, mi svegliò e mi raccontò l’accaduto. Io da allora mi insospettii e presi atto che tutti quegli episodi non erano frutto della mia immaginazione, ma causati da lu scazzamauriello di cui avevo sentito parlare. Raccontai anche alla mia vicina di casa quello che mi stava succedendo e lei, non affatto stupita, mi disse che aveva abitato in quella casa e che mentre a lei l’aveva resa ricca, a me avrebbe portato solo sofferenza dato che lu scazzamauriello con me si era rivelato dispettoso e mi stava dando dei problemi. Mi consigliò di andarmene da quella casa e di non essere presente nel momento del trasloco altrimenti mi avrebbe lasciato l’ultimo spiacevole ricordo. Decisi, quindi, di trasferirmi insieme a mio marito in un’altra casa sempre ad Eboli e ricordo che nel momento in cui mia sorella doveva portare via l’ultima cesta rimasta in casa sentiva che non riusciva a muovere i piedi, quasi fossero incollati. Una volta trasferitoci, la situazione ritornò finalmente alla normalità. Carmelina Vallario | Sant’Andrea di Conza, 22 Agosto 2011
Lo scazzamauriello è un folletto, uno spiritello con in testa un berretto rosso (la scazzettela) i capelli ricci, il volto da bambino; indossa un saio. Se penetra nelle case, impertinente com’è e sempre in vena di scherzare, ne combina di tutti i colori, spostandosi agilmente e senza far rumore, nascondendosi sotto il letto o in altri posti impensati, correndo lungo le pareti e facendo cadere gli oggetti appesi, spostando le sedie e i mobili. Spesso fa degli sberleffi, o va a posarsi sullo stomaco o sul ventre delle persone che dormono o tira loro le coperte. Cacciarlo dalla casa non è facile, bisogna chiamare il prete e far benedire l’abitazione. Si crede anche che lo scazzamaurieddo custodisca i tesori per cui, chi riesce ad afferrarlo e a strappargli il berretto, sarà fortunato e diventerà ricco. Della gente che ha fatto fortuna, si dice:”Ha rubato lu cappiello a lu scazzamaurieddo?!”. Carmelina Vallario | Sant’Andrea di Conza, 22 Agosto 2011
Vivevo ad Eboli con la mia famiglia ed ero incinta di mia figlia Elena. Un giorno mentre cucivo il corredino sentii la porta del piano di sopra cigolare, andai a chiuderla e ritornai giù a cucire. Dopo un po’ sentii nuovamente la porta che si apriva e risalii a richiuderla. Questo per diverse volte. Nei giorni successivi si verificarono altri episodi bizzarri: un giorno l’anta dell’armadio si apriva da sola e dal di dentro provenivano strani rumori; durante una notte, poiché ero incinta e mi capitava di andare più spesso in bagno, decisi di mettere lu rinale sotto il letto. La mattina seguente trovai lu rinalepieno e la spalliera del letto a terra senza che noi avessimo fatto o sentito niente. Un’altra notte ancora mio marito svegliandosi ha avuto la sensazione di sentirsi qualcosa addosso. A causa di questi episodi io e mio marito abbiamo iniziato a litigare, le cose non andavano più bene tant’è che io chiamai mia madre perché avevo intenzione di tornare a casa. La situazione migliorò per un po’ fino a quando una notte venne a farmi compagnia la mamma d’Aniello, una mia cara amica, perché mio marito era
Era abitudine benedire le nuove abitazioni. Se non lo si faceva, la notte, si udivano dei passi sui tetti. Erano i passi di alcuni folletti chiamati scazzamarieddi che girovagavano per infastidire. Angela Malanga | Caposele, 22 ottobre 2011
L’affascino cioè il malocchio viene gettato contro le persone (ma anche contro gli animali), per invidia o odio da parte di individui ritenuti capaci di esercitare un’azione magica. Le persone affascinate avvertono un malessere generale e indistinto, più spesso un forte mal di testa. Per verificare se una persona ha l’affascino, si usa di solito bagnare l’indice della mano nell’olio lasciandone cadere tre gocce in un piatto pieno d’acqua: se le gocce d’olio di spandono, vuol dire che quella persona è stata veramente affascinata, in caso contrario si tratterà di un comune mal di testa dovuto ad altre cause. Per togliere l’affascino ci si rivolge a delle persone “speciali” le quali conoscono formule di incantamento che pronunciano mentre col pollice della mano tracciano delle croci sul capo e sulla fronte del malato. Se durante la cerimoniail paziente sbadiglia, vuol dire che la procedura ha avuto buon esito. Esistono diverse formule contro il malocchio e diverse pratiche. Gerardina Vallario | Sant’Andrea di Conza, 26 Agosto 2011
C’era una famiglia molto ricca che aveva un bel maiale che faceva gola a tutti. Il maialino però un giorno si ammalò e non
voleva mangiare più; i padroni, preoccupati, facevano di tutto per farlo mangiare, ma il maialino non ne voleva sapere. Era una disperazione. Un giorno si trovò a passare u giovane, che, sentendo dei lamenti, chiese alla padrona cosa stesse succedendo e la donna gli raccontò tutto. Il giovane, che era povero e aveva tanta fame, non se lo fece dire due volte, escogitò un sistema per imbrogliarla. Disse:”Ma 'stu puorco tène l'affascino”. Assicurò che non c’era da preoccuparsi perché egli avrebbe saputo toglierglielo. La donna, contenta, innanzitutto diede da mangiare al giovane, convinta che a stomaco pieno certe cose si fanno meglio. Il giovane fece venire anche sua madre, dicendo che in due lo scongiuro sarebbe riuscito meglio. Cominciarono a fare segni di croce sulla testa del malcapitato maiale, a sbadigliare continuamente, a pronunciare formule magiche di loro invenzione. Questo rito durò un quarto d’ora e si ripetè per tre giorni, dopo di che, il maiale, casualmente, cominciò a stare meglio e a mangiare. Da quel giorno madre e figlio furono considerati guaritori e ciò migliorò molto la loro situazione economica.
lanterna fuori la porta di casa. Se il defunto trova una buona accoglienza, se ne va lasciando la propria benedizione, altrimenti ha la conferma che i suoi cari non lo pensano più e cosi va via rammaricato e col proposito di non tornare più in seguito. E’ raro che questo accada, perché tutti si ricordano di lasciare almeno nu tuzzone acceso nel focolare. Gerardina Vallario in Matta | Sant’Andrea di Conza, 18 Maggio 2011
Si racconta che gli spiriti sono stati vistii da numerose persone quando ritornavano a casa, nei luoghi in cui qualcuno era morto, nei pressi delle strade. Un istante dopo averli visti, sparivano immediatamente. Nel vederli, le persone più coraggiose pronunciavano Si si ommunu iessi, si si spritu sparisci. Gaetano Pallante | Caposele, 24 Ottobre 2011
Rosa Di Roma | Sant’Andrea di Conza 10 Ottobre 2011
I rami di ulivo benedetti durante la messa della Domenica delle Palme non vengono buttati via, ma fatti seccare e conservati per combattere l’affascino. Quando le foglie sono nel fuoco la guritrice recitava questa formula: Tre nomme' sfascinati: Patre, Figlio e Spiritu Santo / scatta li maluocchie a tutte quanti / Pe' nomme de la Santissima Trinità, luamme quest'infermità/. Il fumo della palma che bruciava doveva essere inalato dalla persona che era stata affascinata... Se l’affascinato era un neonato, si usava sputargli addosso. Se la mamma notava che il bambino non era guarito dal malocchio, lo portava dalla fattucchiara che, mentre pronunciava delle formule, creava nove nodi bianchi e nove neri intorno ad un filo. Questo doveva essere conservato dalla mamma del bambino che aveva il malocchio fino alla sua completa guarigione. Per preservare il bambino dal malocchio si usava mettere le forbici aperte sotto il materassino della culla oppure due spingole incrociate nella parte interna della tutina a contatto con la pelle. Un amuleto molto usato contro il malocchio per grandi e piccoli è quello che noi santandreani chiamiamo abbatina: un sacchetto di stoffa fatto a mano di forma rettangolare, sul quale veniva ricamato il nome della persona e dove venivano inseriti l’effige di un Santo o di Gesù, qualche capello e poi cucito all’interno della canottiera per stare a contatto con la pelle. Antonietta Frino | Sant’Andrea di Conza, 17 Maggio 2011
La notte fra l’1 e il 2 novembre i morti vanno in processione girando per il paese. Ognuno poi si reca alla propria abitazione, dove la famiglia lascia il fuoco acceso, del pane e del vino sul tavolo. Si usa anche lasciare la luce accesa del palazzo o la
Durante la notte della Befana a Sant’Andrea si crede che si svolga la processione dei morti. Si racconta che in questa notte i morti si recano in corteo alla Chiesa di San Michele per venerare la nascita del Bambino Gesù. Per vederla è necessario prendere nu vacile pieno d’acqua e immergerci una candela accesa. Guardando il riflesso della luce della candela nell’acqua si può osservare la processione che era cosi composta: davanti ci sono i neonati e i bambini morti precocemente, seguono le persone morte per cause naturali e infine quelle uccise, mutilate e quelli che portano i segni della sofferenza ecc. Come si dice a Sant’Andrea ce vulia curaggio e stommaco per seguire dall’inizio alla fine questa processione però una volta che s’era cominciato a guardare bisogna farlo fino alla fine, fino a quando la candela si spegne. Questo simboleggiava che tutti i morti erano entrati in Chiesa e la porta s’era chiusa alle loro spalle. Un proverbio relativo a questa notte è il seguente: Tutti li feste iessere e venessero, basta che Epifanie nun venesse maj. Gerardina Giorgio | Sant’Andrea di Conza, 10 Maggio 2011
A Sant'Andrej / la notte de la befane / la furnare cà cummannava pe' mbasta' lu pane / girava pe' li case e urdinava quedda cà avierna fà pe' fa lu pane // ddicija // " 'mbasta, scanna' fino a quanno se sfurnava // mentre cammenava / passanni 'nanez a la chiesa di San Michele / la vedette chiena de gente // trasette / e 'na femmena / la cummara soija morta / iette vicino a essa dicenne // "che fai quà? Questa nun è Messa pe' te' // essa / 'mpauruta / se ne scappaie / ma nu piezzo de la gonna rumanette dindo a la porta / quanne se chiudette // questa femmena / fu la testimonia de la mesas d' li muorti / cà se pote vede' sulo dindo a lu vacile cu la cannela.
(A Sant’Andrea la notte della Befana la furnare cà cummannave pe’ mbasta’ lu pane girava per le case e ordinava ad alta voce le diverse fasi da eseguire per la preparazione del pane. Ad esempio diceva: ‘Mbasta, scanne fino a quando si sfornava. Durante il tragitto questa donna, passando davanti alla Chiesa di San Michele, la vide piena di gente. Incuriosita vi entrò e una donna (la sua comare defunta) le si avvicinò dicendole: “Che fai qua? Questa nun è Messa pe’ te”, lei, impaurita, scappò ma un pezzo della gonna le rimase impigliato nella porta mentre si richiudeva alle sue spalle. Questa donna si era trovata ad essere una testimone oculare della messa dei morti che solitamente si poteva vedere solo attraverso il il bacile e la candela). Carmelina Vallario | Sant’Andrea di Conza, 22 Agosto 2011
Il repertorio di ricette tradizionali raccolte fra le donne intervistate nel corso della ricerca non intende rappresentarsi soltanto come una guida culinaria. Le ricette sono una stratificazione storica di saperi, di tecniche, di tradizioni familiari e collettive. Una memoria spesso lunga (molti piatti ci giungono direttamente da epoche medievale se non più tarde), che in alcuni casi è rimasta intatta, in altri è mutata, in altri ancora è stata totalmente stravolta. Ma le ricette ci informano anche sulla realtà storica, sociale e culturale in cui hanno circolato. Per esempio, molte pietanze appartengono alla quotidianità e sono costituite da legumi, poi soprattutto da verdure e ortaggi che le stesse donne coltivavano. Altri sono cibi strettamenti collegati al tempo della festa ed ai rituali calendariali, dei quali costituiscono parti integranti. Fra tutti è il caso di segnalare la “pizza di san Martino” (Conza e Teora) detta anche la “pizza col soldo”, propedeutica al consumo di un pasto con varie portate, da svolgersi il 21 novembre, a carico di un organizzatore designato dalla sorte. Biscotti, taralli, dolci a base di miele, costituiscono il repertorio dolciario della festa, arricchito da ciambelle di pane “tortano” farcito da uova che a Pasqua si scambiavano gli sposi promessi. Acqua e farina per le paste, con l’aggiuta del lievito per fare il pane che le donne impastavano e infornavano sotto la direzione della fornara, figura femminile situata fra le madri di famiglia e le masciare, pericolose frequentatrici dei paesaggi notturni. Del resto, non le sterpe ma le madri hanno avuto il compito di perpetuare alle proprie figlie la tradizione familistica della cucina di casa, vera e propria attività di amalgama e riproduzione del gruppo familiare. I cibi “poveri” sono quelli destinati ai braccianti, ai lavoratori a giornata, agli uomini di fatica. Anche in queste case, quando gli uomini mangiavano seduti al tavolo nei pressi del camino, le donne restavano in piedi. Una “etichetta” popolare applicata al consumo del cibo filtrava ruoli e funzioni all’interno del gruppo familiare. Ma più in generale, soprattutto nelle varie occasioni festive di un tempo, il cibo e il vino univano le persone. E’ quanto ancora osserviamo nelle sagre estive, dove i prodotti “tipici” richiamano forestieri e paesani. Trascrizioni a cura di M. D’Angola, G. Russoniello, R. Meo, A. Patrone, M. Vitiello.
Trippa di agnello (possibilmente di agnello piccolo perchè è più saporita), prezzemolo, qualche spicchio d'aglio, formaggio, ago e filo e, se si vuole, anche un peperoncino forte o pepe. Prendere la trippa, va lavata molto bene e tenuta in acqua con una buccia di limone per 15-30 minuti. Tagliarla in quadrati medi, condirli con qualche pezzetto di formaggio, prezzemolo e aglio spezzettati e, se si desidera, un po’ di peperoncino forte o pepe (consigliati se se è bevitori di vino). Avvolgere il tutto e cucirlo con ago e filo. “I migliatielli” vanno bolliti in acqua abbondante per alcune ore. Dopo di che sono pronti per essere mangiati, preferibilmente dopo averli fatti raffreddare, ma se li si vuole più saporiti, è bene passarli alla pizzaiola nel modo seguente: disporre ordinatamente “i migliatielli” già cotti in una tortiera, coprirli di pomodori pelati, un po’ di aglio, origano, pepe, olio abbondante e metterli in forno moderato.
(piatto tipico dell'Incoronata)
Peperoni alla composta (messi nel vino diventato aceto da settembre per essere pronti a Natale), mollica di pane, noci, uva secca, alici, vino cotto. Far soffriggere la mollica di pane con olio e aglio fino a doratura. Aggiungere tutti gli ingredienti di cui sopra e creare un composto. Prendere i peperoni alla composta, svuotarli e riempirli con il nostro preparato, il tutto viene messo in forno con olio e vino cotto fino a che non si abbrustoliscono.
(zucca e peperoncini forti) Quando è ben matura la zucca deve essere tagliata a fette rotonde come anelli, e messi ad essiccare al sole fino a che non si fanno duri. Prima di friggerla, però, va messa a bagno per diverse ore. Poi, dopo averla lavata ben bene, viene lessata e infine fritta in abbondante olio di oliva con i peperoncini. la si può preparare anche con il baccalà. Molti usano conservare le zucche intere per farne, d’inverno, tagliate a piccoli dadi, una saporita minestra con i fagioli (cucozze e fasuli), E' molto buona con la migliazza.
Carruba (si cava proprio ad aprile), olio, peperoni secchi Si sbuccia la Carruba e si mette a bollire in acqua bollente fino a cottura. Si fa soffriggere in una padella l’aglio insieme ai peperoni secchi. Infine si aggiunge la carruba e si mescola il tutto.
Per ottenere i cigoli si taglia a dadini la carne di maiale molto grassa o il lardo. Si fa soffriggere lentamente senza olio, per far uscire tutto il grasso, cioè la sugna. I pezzettini che restano ben arrotolati, si chiamano frìttele. Disporre la farina a fontana, versarvi dell’acqua bollente con tutti gli ingredienti. Si fa un impasto piuttosto molle che si lavora per un bel po’. Per questa focaccia ci vuole una teglia particolare “lu tielluzz” e si unge con olio o sugna, si mette dentro il composto, si schiaccia con le mani per ottenere una focaccia uniforme. Si mette la teglia sulla brace, coprendola con un coperchio anch’esso coperto di brace di carbone. Se si vuole una focaccia più saporita, si possono aggiungere, al momento dell’impasto, dei pezzettini di salsiccia casereccia.
Un litro di sangue di maiale, mezzo litro di latte, mezzo chilo di riso ben cotto, mezzo chilo di zucchero, cioccolata, fichi secchi, scorzette di arancia, uva passa e cacao amaro a piacere, un cucchiaino di cannella e di chiodi di garofano, 100 grammi di strutto. Il riso cotto va aggiunto a tutti gli altri ingredienti, i quali vanno fatti cuocere a fuoco lento, mescolandoli continuamente, fino a che prendono un aspetto cremoso. Naturalmente le diverse doti possono essere aumentate in proporzione. Il sanguinaccio può essere preparato anche in un altro modo, cioè a crema, usando invece del riso un pacco di biscotti secchi e aggiungendo un bicchierino di liquore. Il dolce cosi ottenuto viene riversato in una zuppiera e qui conservato e mangiato un po’ alla volta, freddo o leggermente riscaldato. Col sanguinaccio si può fare anche la pizza. Si prepara la pasta frolla, si stende una sfoglia in un “ruoto” ben imburrato e vi si stende il sanguinaccio, quindi si copre con un’altra sfoglia, si mette un po’ di zucchero e qualche fiocchetto di burro e infine, si mette a cuocere al forno a temperatura moderata. Quando la pizza è ben cotta viene tolta dal “ruoto” e mangiata a pezzetti.
(piatto tradizionale natalizio)
Frìttele a volontà (cigole di maiale), 1 Kg di farina di mais, un pizzico di sale fino, 1 cucchiaio di semetti di finocchio, un pò di pepe.
Migliazza, verdura mista (cicoria, verze, cavoli), coteca, un pò di sale, formaggio di pecora e peperoncino. Mettere la coteca (pelle di maiale) in una pignata con acqua, sale e semi di finocchio e farla cuocere vicino al fuoco per circa un’ora. Lessare le verdure in una pentola in acqua bollente, a cottura ultimata scolarle e aggiungere il contenuto della pignata. Il tutto viene mangiato con la migliazza che può fungere da pane o facendo la m banatina, (migliazza schiacciata e unita alle verdure).
Pane duro, aglio, cipolla, sale, olio, uovo.
Verdura mista (verza e cicorie), patate, fagioli, aglio, olio.
Far soffriggere la cipolla in una padella, aggiungere successivamente acqua e sale nella quantità desiderata, portare il tutto ad ebollizione. Tagliare in una "spasetta" (zuppiera), il pane duro a pezzetti e aggiungere l’acqua fatta soffriggere. Si può aggiungere anche l’uovo crudo e volendo un pizzico di peperoncino. Questo stesso piatto può essere preparato anche l’aglio non fritto per i bambini (si credeva che morivano i vermi che avevano nella pancia), far bollire con acqua aglio e sale, poi il preparato viene versato sul pane e per finire si aggiunge olio a crudo.
Far cuocere separatamente ogni ingrediente, preparare il soffritto di aglio in un tegame, aggiungere le verdure cotte, poi le patate e infine i fagioli.
Una manciata di farina a persona, acqua calda, un po’ di sale, ceci, aglio. Mettere a bagno i ceci per tutta la notte e poi farli cuocere nella pignata vicino al fuoco. Per la pasta disporre la farina a fontana sulla spianatoia tumbagno e impastarla aggiungendo acqua calda fino a quando diventa liscia e omogenea. Stenderla rotonda e sottile con il matterello laganature, e tagliarla a strisce di un cm. Far cuocere le làgane in acqua salata, scolarle e condirle con i ceci precedentemente cotti e fatti insaporire con il soffritto di aglio o col sugo. Questo piatto può essere preparato anche con i fagioli.
Una manciata di farina a persona, acqua calda, un po’ di sale, patate, aglio. Mettere a bollire le patate fino a cottura ultimata Per la pasta disporre la farina a fontana sulla spianatoia tumbagno e impastarla aggiungendo acqua calda fino a quando diventa liscia e omogenea. Stenderla rotonda e sottile con il matterello laganature, e tagliarla a strisce di un cm. Far cuocere le lagane in acqua salata, scolarle e condirle con le patate precedentemente cotte e tagliate a cubetti e fatte insaporire con il soffritto di aglio.
1 kg di ceci quelli grandi, 3 litri di acqua, un pizzico di sale, 10 kg di sabbia (quella di fiume usata dai muratori) e un ramo di alloro. In una pentola capace si fa riscaldare l’acqua alla quale si aggiunge il sale. Quando l’acqua è ben calda, si ritira la pentola dal fuoco e vi si calano i ceci, che vengono lasciati in ammollo per un po’ di tempo. Si scolano e si avvolgono in un panno di lana, poi si mettono per dodici ore sotto il materasso perché stiano ben caldi e aumentino di volume. L’indomani si mette sul fuoco alto una grossa pentola, possibilmente di ferro, contenente la sabbia. Quando la sabbia si è riscaldata ben bene, vi si versano i ceci e l’alloro. Allora si verifica uno scoppiettìo dato dal saltellare dei ceci nella pentola. Dopo alcuni minuti si versa il tutto nel crivello e i ceci, finalmente separati dalla sabbia, sono pronti per essere mangiati.
Mezzo kg di farina, 6 uova, latte (da due a tre litri, secondo le preferenze), alcune foglie di menta, un pizzico di garofano e cannella, un po’ di sale. Disporre la farina a fontana, mettervi le uova e un pizzico di sale e impastare bene, lavorando la pasta, finchè diventa liscia ed omogenea. Quindi sulla spianatoia fare con il matterello una sottilissima sfoglia a forma di cerchio e lasciarla asciugare per una mezz’oretta. Tagliare, poi, la sfoglia a strisce sottilissime come i capellini e cuocere questi tagliolini nel latte fatto precedentemente bollire con tutti gli ingredienti suddetti. E’ una pietanza squisita, che molti preferiscono mangiare fredda. (piatto tradizionale che anticamente si usava preparare il giorno dell’Ascensione).
Cipolle, fave, olio, sale. Far soffriggere le cipolle. Sbucciare le fave crude e unirle alle cipolle. Aggiungere acqua quanto basta volta per volta fino a cottura ultimata.
1 kg di farina, 4 uova intere, 1 cucchiaio di sale, 1 bicchiere di sugna, 1 bicchiere di olio, un pizzico di lievito di birra, semi di finocchio, latte e acqua quanto basta. Disporre la farina a fontana e aggiungere uno alla volta tutti gli ingredienti. Lavorare la pasta fin quando diventa liscia e omogenea. Tagliare dei pezzettini, allungarli e creare le forme (cerchio o ovale). Cuocerli in acqua bollente e salata, metterli ad asciugare e poi cuocerli al forno.
(cavatelli con la mollica fritta) Farina, acqua, sale, salsa di pomodoro. Preparare un impasto con farina acqua e sale e lasciarlo riposare per 10 minuti. L’impasto viene diviso in tanti bastoncini lunghi a loro volta divisi in tanti piccoli pezzi. Ognuno di questi pezzetti di impasto viene cavato con il dito indice. Successivamente i cavatelli vengono lessati in acqua e sale e appena questi vengono a galla si scolano e si condiscono con sugo di carne e una spolverata di briciole di pane precedentemente abbrustolite in una padella.
Mantenere a bagno i fagioli cannellini per 10 ore. Si scolano e si versano in un tegame di coccio. I fagioli vengono messi in acqua tiepida e fatti cuocere a fuoco lento per circa 2 ore. In un’altra pentola si fanno cuocere per circa 20 minuti le cotiche ben pulite. Scolate e tagliate a listarelle si mettono in un tegame di acqua fredda e si lasciano cuocere per circa un’ora e mezza. In un altro tegame si prepara una salsetta con prezzemolo, aglio, una cipolla tagliata finemente, un po’ di prosciutto crudo tagliato a dadini e un cucchiaio di burro e dopo aver fatto rosolare tutto si aggiungono i pomodori pelati. Questa salsa si aggiunge ai fagioli e si lascia cuocere il tutto per un quarto d’ora.
Uova, farina, sale, sugna, olio, miele, noci fresche. Braciolette di vitello, agnello, costine di maiale, olio, sale, salsa di pomodoro. Si lascia rosolare in un tegame alto delle braciolette di vitello, qualche pezzo di agnello e delle costine di maiale con poco olio di oliva. Quando è tutto ben rosolato si versa sopra la salsa di pomodoro e si lascia cuocere il tutto per 2 ore a fuoco lento. È un ottimo condimento per qualsiasi tipo di pasta.
Costine di maiale, olio, peperoni all'aceto, salsa di pomodoro, aglio. Le costine di maiale vengono fritte in poco olio bollente e messe da parte. Nello stesso olio vengono fritti i peperoni all’aceto lavati tagliati e privati dei semi. Una volta fritti, i peperoni, si lasciano riposare e nello stesso olio dove abbiamo fritto anche le costine di maiale si prepara un sugo con salsa di pomodori fatta in casa e uno spicchio d’aglio. Dopo un quarto d’ora di cottura si uniscono prima le costine e in ultimo i peperoni. Prima di servire, si lascia riposare almeno per 30 minuti. Patate, cardoncelli, olio, sale, formaggio pecorino, briciole di pane. In una zuppiera si condiscono insieme le patate tagliate a fette larghe e i cardoncelli con olio, sale, formaggio pecorino e briciole di pane. In un altro ruoto abbastanza capiente unto d’olio di oliva si mettono i pezzi di baccalà e sopra si sistemano le patate e i funghi. Il tutto si mette in forno per circa un’ora.
Fagioli cannellini, cotiche, salsa di pomodoro, prezzemolo, aglio, cipolla, prosciutto crudo, burro.
Si prepara una pastafrolla con farina, uova, un pizzico di sale e un cucchiaio di sugna. Si lascia riposare per un’ora. Si stende la pasta con il matterello(lacnatur) ottenendo una sfoglia sottile e da questa con una rondella si ottengono delle strisce che vengono usate per creare dei piccoli cestini che si friggono in olio bollente. Dopo la frittura vengono ricoperti di miele e cosparsi di noci fresche.
1 kg di peperoni sotto aceto, 1 kg di mollica di pane mezzo kg di mosto di vino, 1 bustina di pinoli, una bustina di uva secca, 200 gr di noci.
1 kg di farina, 200 g di strutto, semi di finocchi quanto basta, sale.
Pulire i peperoni togliendo i semi, nel frattempo prendere la mollica di pane e tritarla finemente, poi sbucciare le noci e farla a pezzetti piccoli poi bisogna prendere la mollica di pane poco alla volta e mettere in una padella con olio su fuoco e farla abbrustolire. Prendere il recipiente, mettere tutta la mollica, noci tritate, l’uva secca, i pinoli e impastare il tutto con il mosto, prendere i peperoni imbottirli e friggerli a fuoco moderato.
Mettere la farina a fontana, sciogliere lo strutto, inserire i finocchi, il sale, un po’ d’acqua e impastare il tutto. Fare dei bastoncini lunghi di circa 10 centimetri e lo spessore di un dito e farli a forma di tarallini. A parte si mette a bollire l’acqua in una pentola, appena bolle si buttano 2 o 3 per volta, lasciarli bollire per qualche minuto, con un cucchiaio se prendono e si mettono a raffreddare. Dopo che si sono raffreddati si prendono e si mettono nel forno finchè non diventano dorati.
1 kg di patate, mezzo litro di latte, 4 uova, formaggio parmigiano, 300 g di mozzarella, 100 g di salame, Sale.
1/2 kg di farina, acqua.
Cuocere le patate, schiacciarle con lo schiaccia patate e aggiungere il parmigiano grattugiato, uova, il latte, i pezzetti di salame, sale e amalgamare il tutto. Poi si deve prendere una teglia e si deve mettere un pò di burro sciolto, versare metà del composto nella teglia, tagliare a pezzetti la mozzarella e metterla sul composto. Poi versare l’altra metà della purea e coprirla con pane grattugiato e infornarla per 30 minuti.
Mettere in un recipiente la farina e bagnarla poco alla volta con acqua e poi bisogna formare delle palline. Mettere a bollire l’acqua,scaldarli e poi si possono condire a suo piacere tipo: con sugo e formaggio.
Verdura mista, olio, sale, fagioli, farina gialla.
(polpette di frattaglie di maiale) 2 o 3 uova, tomacelle, rognoni, cuore di maiale, formaggio pecorino, rafano, sale, zerpola (retina). Mettere a bollire i rognoni e il cuore di maiale,appena è cotto toglierlo e lasciarlo raffreddare. A parte grattugiare il rafano a piacere e il formaggio pecorino. Poi grattugiare il cuore e i rognoni, versare in un recipiente il tutto, le uova e sale e impastare. Si fanno a palline piccole e si schiacciano, dopo si mettono nella zerpola (retina) e si friggono.
Scaldare la verdura, su un altro fornello cuocere i fagioli. In una padella mettere olio e aglio e soffriggere,versare la verdura e aggiungere un pò d’acqua e sale, coprire e cuocere a fuoco moderato per 15 minuti. Mettere i fagioli già scaldati e farli insaporire 10 minuti.
Resti di carne di maiale grassa, cotechino, peperoncino.
Mettere a bollire acqua e sale, togliere la pentola dal fuoco e versare lentamente, girando la farina di mais, farla un pò dura. Prendere una padelle, mettere olio e versare il composto,appiattirla con la mano e mettere su fuoco moderato,girandola di tanto in tanto. Quando è diventata croccante toglierla dal fuoco,romperla a pezzetti e mischiandola con la verdura e fagioli.
Amalgamare il pasticcio di carne con il cotechino, aggiungere il peperoncino e farne una salsiccia. Viene bollita e mangiato o da sola o insieme alla verdura.
1/2 kg di prosciutto di maiale, olio, sale, peroncino piccante, 2 o 3 peperoni sotto aceto. Tagliare a pezzetti il prosciutto di maiale e farlo friggere in una padella con olio. A parte soffriggere i peperoni sotto aceto. Appena la carne è fritta aggiungere 3 o 4 pomodori pelati, sale, qualche pezzettino a piacere di peperoncino, coprire e cuocere
a fuoco moderato per una mezzora,ogni tanto aggiungere un po’ d’acqua. In fine, appena la carne è cotta versare i peperoni soffritti e lasciarli insaporire per 10 minuti.
1/2 kg di farina, 1 pezzetto di lievito, acqua, sale, 1 barattolo di filetto di alici salate. Mettere in un recipiente la farina, far sciogliere il lievito con un po’ di acqua tiepida e versare nella farina e aggiungere un po’ di sale e amalgamare e mettere a lievitare. Appena è pronta farle a palline poco più grande dell’uovo,mettere in mezzo 2 filetti di alici e friggerli in olio bollente.
ò 300 gr di fagioli secchi, 3 braciole di cotenna di maiale, prezzemolo, pecorino, semi di finocchio, sale, olio, acqua. Mettere in ammollo tutta la notte i fagioli. Prendere un contenitore di coccio,versare i fagioli e acqua. A parte prendere 3 pezzi di cotenna di maiale,mettere sopra prezzemolo, pecorino, peperoncino a piacere, semi di finocchio e sale, arrotolare e legare con lo spago e mettere insieme ai fagioli e cuocere a fuoco moderato e aggiungere un po’ d’olio e 2 spicchi d’aglio e cuocere.
300 gr di peperoni secchi, 200 gr di salsiccia secca, 5 uova, olio, sale. Tagliare a pezzetti i peperoni e la salsiccia. Mettere in una padella l’olio, i peperoni e la salsiccia, farli rosolare per qualche minuto. Sbattere le uova con un po’ di sale e versarle nei peperoni, cuocere per 5 minuti girando velocemente.
400 gr di ceci, 1/2 kg di farina, 2 o 3 pomodori pelati, olio, sale, aglio. Mettere tutta la notte in ammollo i ceci con un po’ di sale. Mettere in una pentola i ceci e coprirli con acqua e fargli cuocere. Quando sono quasi cotti aggiungere 2 spicchi di aglio, i pelati tagliati a pezzetti, olio e sale. Nel frattempo impastare le tagliatelle, stenderle e farle asciugare un pò e poi tagliarle. Cuocere in acqua bollente per 5 minuti, mescolare il tutto e lasciare riposare per qualche minuto e poi servirle.
1 kg di farina, acqua, sale, farina di granturco. Lavorare sopra una spianatoia farina, acqua e sale fino ad avere un impasto liscio ed omogeneo. Poi si forma un cilindro e lo si taglia in modo longitudinale senza incidere le estremità. Allargando il taglio si forma una circonferenza che, lavorata, si assottiglia. La pasta, durante la lavorazione, viene passata nella farina gialla, disposta sulla spianatoia. Il risultato finale sarà una specie di matassa che tagliata in due punti darà re matasse, pasta lunga circa 20 cm, dalla sezione irregolare di circa 1/4 di cm. Cotta al dente, si condisce con un sugo al pomodoro fresco oppure si unisce a ceci o fagioli lessi con il nostro olio extra vergine di oliva.
in olio d’oliva (le nostre nonne usavano il lardo), con uno spicchio d’aglio e un pizzico di sale. Si aggiunge un po’ d’acqua e si lascia insaporire. Al momento di servire si aggiunge la pizza.
Patate, olio, fagioli o ceci o peperoni all'aceto. Si lessano le patate e poi, dopo averle sbucciate, si schiacciano con le mani. Si mettono in padella con olio, sale e ceci o fagioli o peperoni all’aceto. I ceci o fagioli devono essere lessati in precedenza così come i peperoni devono essere prima fritti. Si formano delle palle (paddu) con le mani. Un tempo le sfruculate venivano mangiate dai contadini mentre si avviavano verso la campagna.
1 kg di farina, acqua tiepida, un pizzico di sale. Setacciare la farina sopra una spianatoia, aggiungere il sale e poco per volta l’acqua. Lavorare a lungo l’impasto finché sarà diventato liscio ed elastico. Formare dei bastoncini dello spessore di circa 1,5 cm, arrotolarli e tagliarli a tocchetti di circa 2 cm. Incavarli con un dito, tenendoli separati uno dall’altro. Farli cuocere in acqua salata in ebollizione e condirli con ragù di carne.
1 kg di nocciole tostate, 700 gr di zucchero, 5 uova, buccia di limone grattugiata. Alle nocciole frantumate, si aggiunge il resto degli ingredienti. Si lavora il tutto formando poi delle palline che, passate nello zucchero, si infornano per circa un’ora.
Con lo stesso impasto si preparano i fusilli, ma i tocchetti si tagliano più lunghi, circa 4 cm, e si incavano con un ferro lungo, sottile a sezione quadrata.
500 gr di zucchero, 6 uova, 1/2 buccia di limone, 400 gr di farina.
1/2 kg di farina, acqua. Mettere in un recipiente la farina e bagnarla poco alla volta con acqua e poi bisogna formare delle palline. Mettere a bollire l’acqua, scaldarli e poi si possono condire a piacere con sugo e formaggio.
Impastare le uova con lo zucchero, aggiungere la buccia di limone grattugiata e la farina. Si impasta per un po’, fino ad avere una consistenza dura. A questo punto si prende un po’ di impasto e, dopo averlo rigirato nello zucchero, spolverato sulla spianatoia, dare ad esso una forma ad “S”. mettere il tutto su di una teglia imburrata ed infarinata e far cuocere a 200° per un’ora.
Farina 00, olio extravergine di oliva, acqua, semi di finocchio, sale, lievito.
1 kg di farina di granturco, acqua bollente, sale, cicoria selvatica, verza, finocchio selvatico. Si impasta la farina con l’acqua bollente, mescolando energicamente. Al composto ottenuto si da una forma circolare dello spessore di circa 2 cm che verrà fatto cuocere alla brace sulla graticola. La verdura, una volta lessata, viene soffritta
Disporre la farina a fontana sulla spianatoia: versare al centro l’olio, il sale, i semi di finocchietto e il lievito sciolto in acqua calda. Si lavora con le mani fino ad ottenere un impasto omogeneo. Si lascia riposare per un po’. Si lavora la pasta formando delle ciambelle. Immergerli uno alla volta in una pentola con acqua bollente. Scolare quando tutti i taralli salgono a galla. Posizionarli su una tovaglia per farli asciugare e cuocerli in forno moderato per 30 minuti circa.
i taddi, un pizzico di sale marino, un mezzo cuoppo di olio di oliva e una capocchia di aglio tritato.
Peperoni, briciole di pane, olio, chicchi di uva nera secca, noci, alici salate. Far dorare in poco olio le briciole di pane. Impastare poi tutti gli ingredienti con il vino cotto fino ad ottenere un impasto umido. Riempire i peperoni e farli friggere nell’olio. Cospargere con vino cotto e servire freddi.
Patate, farina, sale, lievito. Vanno lessate le patate, sbucciate e schiacciate; alle patate viene aggiunta farina (in proporzione 1/0,5) ed il sale; si aggiunge lievito sciolto in poca acqua e quindi si aggiunge lentamente acqua fino a rendere l’impasto sufficientemente elastico e si continua ad impastare per almeno 15 minuti. L’impasto viene conservato adeguatamente coperto in un luogo tiepido per permettere la lievitazione per circa un’ora. Si preparano le pagnotte, di forma rotonda, che vengono lasciate a lievitare per un’altra ora. Si inforna ad una temperatura di almeno 180 °C, in forno tradizionale a legna.
(minestra) Fagiolini, zucchine, peperoni, patate, pomodori, fiori di zucca. Ogni ingrediente va cotto e unito agli altri. Il tutto viene condito con pomodoro.
Patate novelle, peperoni, olio, sale. Si lessano i patanielli, si scorticano e si affettano molto sottili, quindi si sfriggono peperoni secchi e pap'r'nola (polvere di peperoni essiccati al fumo e macinati) in olio abbondante e il tutto si versa fra lo scoppiettio dell’olio bollente e del sale sui patanielli che diventano una bontà profumatissima.
Taddi, patate, aglio, olio di oliva, sale. I taddi vanno cotti sul fuoco pochissimo, data la fragilità strutturale del gambo, in un callarulo di rame, laddove, dopo aver affettato le patate crude nelle forme volute, le si mettono a bollire in un altro recipiente (preferibilmente pignata panciuta di creta) vicino ad un fuoco braciato di legna di quercia, Un attimo prima della definitiva cottura delle patate si aggiungono
La musica ed i canti tradizionali sono ancora vitali nell’area dei cinque comuni dell’Alta Irpinia. Nel corso della ricerca sono stati documentate forme musicali tradizionali legate a balli in gran parte in uso nelle comunità, come le quadriglie. Il batticulo è la variante caposelese che viene eseguita nelle feste e nelle sagre estive . Varie altre forme di quadriglia (come quella comandata), sono diffuse nelle cinque comunità secondo varianti riconoscibili.Una forte connotazione identitaria assumono anche alcuni canti rituali, eseguiti in occasione di feste liturgiche calendariali mentre forme di canto tradizionali, legate a marcate funzioni sociali, appartengono ai repertori di cantori e musici interpreti delle tradizioni locali. E’ il caso delle serenate, ancora in uso nei rituali di matrimonio, o dei canti polifonici a stornello. Questi ultimi venivano eseguiti nel corso delle pratiche lavorative o durante le pause, mentre oggi sono cantati in occasioni conviviali o festive. Si tratta in genere di repertori eseguiti da cantatrici, le quali distinguono le varie esecuzioni in canti a dispetto, ingiuria ecc. In genere questi canti sono eseguiti senza accompagnamento musicale, come accade anche per i canti narrativi, che appaiono però in gran parte defunzionalizzati. Le esecuzioni musicali sono affidate all’organetto. Lo strumento viene suonato da ottimi musicisti, alcuni dei quali sono in grado di eseguire brani tradizionali anche con flauti di canna. A questi repertori, che conservano anche esecuzioni di un certo arcaismo, si affiancano, fino a sovrapporsi, musiche e canti afferenti il cosiddetto neo-folk musicale, eseguito da complessi e gruppi sorti in questi ultimi decenni. La realtà musicale tradizionale nei cinque comuni dell’Alta Irpinia appare fortemente trasformata ed alla ricerca di nuovi equilibri. Nelle pagine che seguono abbiamo riportato i testi, senza le trascrizioni musicali, di alcuni canti ritenuti significativi per genere e funzione.
Mò ca cala lu sole Stornello alla fidanzata, per la serenata prima del matrimonio Sant'Andrea di Conza (Av) Mò ca cala lu sole e cala accu li ragge oi nenna nun te sposo si prima nun t’assaggio. Quanta stella in aria tanta pisce so’ nel mare Gerardina la barchitella e Gerardo lu marinaio. Bello il tuo nome Ndunietta vi chiamate Andrej lu ‘nammurato questa sera te vole canta’. T’aggio venuta a canta’ cu lu riganetto a fruscio e miezo a st’ mennuscio quanta vasi te voglio da’. T’aggio venuto a canta’ a l’ora di mezzanotte iammenenno ch’è fatto notte e iammenenno a riposa’. T’aggio venuto a canta’ cu lu riganetto mmocca te pozza venì nu tocco quanne dici cà vuò a me. T’aggio venuto a canta’ e me so puosto de cera a la luna si Dio mi dai furtuna sembe a te m’aggia piglia’. T’aggio venuta a canta’ a l’ora de mezzanotte mammeta t’è cresciuta vengo io e te ne porto Affacciati a la finestra si vuò sentì canta’ te dico ddoje parole e po’ te mitta a ricama’. Affacciati a la finestra è venuto chi te vole bene lu sanghe ‘ndà li vène te lu sendarraie gela’. Risvegliati risvegliati non più non più dormir mò t’ha baciata l’angelo mò t’aggia bacia’ io. Tu si Carmelina ruvigliala a ‘sta’ figliola fànge sente ‘stu’ canto ca ‘nge fece lu vero amor. Quanta stelle in aria re conta a una a una chi sa si tengo furtuna
de durmi’ accanto a te. Scusate vicinanza si v’aggio disturbata ma tengo l’annammurata e m’ l’aggia veni’ a canta’. Vola palomba vola Pe’ quanto può vùlane ma dindo a queste vrazze t’ haia veni’ a pusa’ So’ juto apposta a Napoli Pe’ cumbra’ nu fiore a te si sapisse quanto me costa far l’amor ccu te. Tu chi tieni lu dulor Stornelli del fidanzato alla fidanzata Tu chi tieni lu dulor e io tengo la malatìa a pe’ te la fa passa’ la medicina la tengo io. Tu tieni lu dulore io teno la malatia pe’ te la fa passa’ tu hai veni’ a casa mia. A la f’ecocchia ammonda di notte la ngundrai e poi le domandai se voleva far l’amor. L’uocchie tui so’ belli e li mij so cchiù criusi si tu te vuo’piglia’ a mme ‘nge l’hai mette lu refuso. L’uocchhie tui so’ belli li mij so ddoje funtane cu n’ora ca nun te veco me pare ‘na settimana. Li capille d’ Angelina So’ fatti a furna d’accio Cumm’aggia fa’ nun saccio me si fatto nn’ammura’. Li capille “d’Angelina” so fatti a ‘nella a ‘nella oi figlia quante si’ bella me si fatto ‘nnammura’. Cumm’ mi piaci lu brodo de gallina ma quanno parli tu sivruse gli stendini. Cumm’ si fatta rossa e m’assumigli a ‘na cerasa te voglio da’ ‘nu vaso a ‘ndu me piace a me. Cumm’ si bella fatta m’ assumigli ‘na ricotta li capille a cannelotto
m’he si fatto ‘nnammurato Cumm’ si fatta janga m’assumigli ‘na ricotta te voglio da’ ‘na botta a ‘ndu me piace a me. Tu tieni l’uocchie niuri e li capilli castani lu cielo pure se lagna si nun fai l’amor ccu me. Io me chiamo Tirimbo e tu te chiami Tirombo e mo ca iamme sotto a lu ponte io te la dàce e tu me la rumpe. Tu duormi dinde a lu lietto e io te canto mmiezo a’ la via Teresa addio addio tu di me non ti scordar. Tu tieni quindici anni e io ne tengo diciotto so ‘nu piezzo de giovinotto tu però nun m’hai ‘nganna’. Te ricuordi mo fa l’anno dindo all’erba pazziammo pazzianne pazzianne t’addurmisti ‘mbrazza a mme. Lli prete di ‘sta via So’ bagnate di lacrime e sudor l’hai bagnate nennella ‘stu cor pe ll’assuga’ ce vuoi sulo tu.
La mamma de ‘stà figlia è nu poca vicchiarella la figlia quant’è bella e nun la vòle da’. Si nun la vole da’ di notte me’ la porta l’aggia scascia’ la porta nun’nge l’aggia fa’ trua’. Dingelle a mammeta toja cà si facie li cazzi sui ‘nge aggia spacca’ la faccia li cazzi sui nge raggia fa fa’.
Ngoppa a lu tavulino Stornelli a dispetto, dopo la rottura del fidanzamento. Canto maschile
Mò parte lu treno cu trentasei carrelli se port a li meglio meglio e li fessi restano qua’. E’ partuto a fa lu suldato a l’artiglieria di fortezza quiddo ddà nun vaje truanno la dote vòle a me e le mie bellezze. Mò passa lu treno pe sotto Cairano Ve saluta a cu la mano e statte buono Santandriani. Lu vi’ lu vi’ mò vène lu treno cà caccia lu fumo se port a li uagliuni e li uagliotte cumm’hanna fa’
‘Ngoppa a lu tavulino ‘ngerano scritte ddoie parole e io ddoie parole te dico cà tu nun si para mia. ‘Nnanza a questa porta t’aggia chianta’ ‘na croce ognun ca passa e legge quisto è muorto pe fa’ ll’amore. Alza gli occhi al cielo vidi lu sole cumme tramonta ohi nenna sei nata al mondo sei nata al mondo pe me ‘nganna’. Lu bacio chi t’aggio dato l’aggio puosto in portafoglio te vulio e mò nun te voglio m’è passata la vuluntà. La mamma de 'stà figlia Stornelli a dispetto. Ingiuria contro la suocera
Tu n'hai juto all'America Stornelli a dispetto per la partenza per l'America Te n’hai juto all’America e senza lu ritorno e quanne tuorni truova lli corna e ‘nfronta a mammeta ‘nge l’aggia mena’. Te n’hai juto a ll’America cu l’automobirle liscia quanne arrivi mmiezo a lu mare te pòzzero mangia’ li pisci. Mò parte lu treno Stornelli per chi parte militare
Quanno vaco all'Australia Stornello dell'emigrante Quanno vaco a l’Australia nun fazzo l’australiano ma me ricordo sembe ca so’ santandriano. Figliola chi cièrni farina
Stornelli popolari Figliola chi cierni farina cu lu culo nun tuculia’ lu fruscio de’ re menne la farina faie avvula’. Figliola chi vaie a la messa Vaie a sente lu predicatore Da nande te siente la messa e da ddèrete faie ll’amore. Mò vene a chiove e mò vene a neveca’ te ìnghi lu piatto de neve e chi te lu vòle scutula’. Cumme parièrmo belli quanno ìermo a messa grande ne ìermo frate e sore quanne mangiarno a la casa de mamma. E mò chi simmo spusati nun simmo né sora e manghe frati.
Dingello a mammeta toia ca se stesse nu picca citto me n’ave ditto tante la putesse fenisce nu picco. Canzone di tradimento d'amore Canzone Ma chi è che bussa al mio porton. Sono il capitano bella mia vieni ad aprire. Se sei il capitano scalza e nuda ti vengo ad aprir. Con una mano aprì la porta e con un’altra si vestì. Perdono mio marito e non t’avevo riconosciuto. E non perdono a donna ma perchè tu m’hai tradito. Io prendo il coltello e te la taglio la tonsella.
Canzone sulla confessione Canzone
Campo di fiori e donne d'amore Stornelli
Iette a Roma pe me cunf’ssa’ me cunfe’ssai da ‘nu predicatore la prima cosa ca m’addummannai da quant’ave nu l’hai visto lu primm’ ammore. Padre mò te dico la verità nun ave probbrio mò nu quarto d’ora La penitenza cà m’è iuta a da’ va lu truve ‘nda lu liette quanne è sulo.
E bella me ne voglio i’ in funtanella andù ce vanno Rit: (campo di fiori e donne d’amore) andù ce vanno le donne a lava’. E sceglieme, la voglio (campo di fiori e donne d’amore) e sceglieme la voglio la cchiù bella. E sembe appriesso (campo di fiori e donne d’amore) e sembe appriesso la voglio purta’. La gente me diceranno (campo di fiori e donne d’amore) la gente me diceranno quant’è bella. Andù l’hai fatta ‘sta (campo di fiori e donne d’amore) andù l’hai fatta ‘sta faccia di rose. L’aggio fatta al bosco (campo di fiori e donne d’amore) l’aggio fatta al bosco di Maiella. Dove la neve
E mmiezo a li cosse toie Stornelli E miezzo a li cosse toie è nata ‘na funtanella e l’acqua è fresca e bella e nun me paria a sazia’. E miezzo a li cosse toie è nata ‘na ferita è larga quattro dita profonda non si sa. Annanze casa toia nun posso cchiù passa’ c’è queddra puttana da mammeta ca sa’ mette a alluccula’.
(campo di fiori e donne d’amore) dove la neve non si leva mai. Madonna ch’è succiesso (campo di fiori e donne d’amore) madonna ch’è succiesso a li casali. Lu preuto è baciata (campo di fiori e donne d’amore) lu preuto è baciata a ‘na figliola. Statte ferma zi preuto mio (campo di fiori e donne d’amore) statte fermo zi preuto mio cà nun è cosa. Fece finta ca (campo di fiori e donne d’amore) fece finta ca la cunfessaie. Da pietto ‘nge tiraie (campo di fiori e donne d’amore) da piett ‘nge tiraie re viole. E io ‘nge lu vaco a dice (campo di fiori e donne d’amore) e i0 ‘nge lu vaco a dice a monsignor. E monsignor a me (campo di fiori e donne d’amore) e monsignor a me che m’adda fàne. E iddo me leva la messa (campo di fiori e donne d’amore) e iddo me leva la messa e io me ‘nzoro. E ‘nzurete e fatte ‘sci’ ‘ngulo (campo di fiori e donne d’amore) e ‘nzurete e fatte ‘sci’ ‘ngulo zi’ preuto mio. T'aggio venuto a cantà Canzone di Pasqua. Canto di questua T ‘aggio venuto a canta’ a l’ora de mattutino si vuo’ sape’ chi so’ so’ Luigi de Serafino. T ‘aggio venuto a canta’ a l’ora de mattutino si nun me daie de ròve
nun me move da qua vicino. E tu ca t’h’ai curcato li piedi nun l’hai stiso t’auzo in cammisa quanta rise me fai fa’. Buonasera cà so’ arruato e buonasera cà so’ venuto si nun vuo’ aprì la porta me re daie pe lu purtuso. Te lasso la buona sera pe tutta la santa notte jammenenno ch’è fatta notte jamme a letto a riposa’. Che se mangiaie la zita Canto di nozze Che se mangiaie la zita Rit: (Che se mangiaie la zita) la primma sera? Nu piatto de tingo e tango e sembe la zita la tène annanze. Che se mangiaie la zita (Che se mangiaie la zita) la seconda sera? Nu piatto de gravaiuoli e nun se putia sazia’. Che se mangiaie la zita (Che se mangiaie la zita) la terza sera? Nu piatto de cunfietti fuia fuia pe sotto a lu lietto. Che se mangiaie la zita (Che se mangiaie la zita) la quarta sera? Nu piatto de cerase chi la pizzica e chi la vasa. Che se mangiaie la zita (Che se mangiaie la zite) la quinta sera? Nu piatto de picciuni e nun re parià a spenna’. Che se mangiaie la zita (Che se mangiaie la zita) la sesta sera? Nu piatto de percoche chi da dindo e chi da fore Che se mangiaie la zita (Che se’ mangiaie la zita) l’ultima sera? Nu piatto de cannazzo e tutte li pecore avia i’ a vede’ lu iazzo. Me voglio fa’ munacella Canzone di una ragazza lasciata dal ragazzo partito per l’Albania
Per ll’ammore nun tengo fortuna io voglio prende una corona per quella Vergine voglio prega’. Voglio prega’ matina e sera finchè viene la primavera e la primavera è già tornata e il mio amore nun torna cchiù. E’ tornato a primavera con la spada insanguinata e te lassa zita e te trova maritata ma uh che pena... uh che dolor. Che pena e che dolor com’è bello a fa’ l’amor! Io voglio sta’ senza mangia’ e io l’amor lo voglio fa’. E’ partuto in Albania e chissà quando ritornerà. Tu ca tieni la dote Stornelli Tu cà tieni la dote tu te cride ca te mariti e io ca nun ne tengo tu te cride ca resto zito. E tu ca tien la dote mittatillo a la callare tieni l’uocchie da maciara iusto a mi me vuoi ‘nganna’. E tu ca tieni la casa e nun te vole cade’ lu zito mio è forte e si fide de mantene’. E cumme si fatta neura m’ assumiglie a nu carbone nu chile de sapone nun t’avasta manco a lava’. E cumme si fatta neura m’ assumigli a nu carbone te voglio i’ a venne a la fiera de Rapone. Chiov’ e mena lu viento e s’addefrescano re lenzole e la mamma vaie chiangenno ca la figlia dorme sola. M’aggio accorto da lu fumo ca cucive re patane si nun me ne daie ddoie si ‘na figlia de puttana. Quisti capilli ricci So’ fatti a furna d’acce nun tien capill ricci e manco tieni culore ‘nfaccia. E va’ fa’ ‘ngulo a mammeta
A ‘ttànete e soreta pure si ancora criaturo e già te voleno fa mmarita’. Uaglione che vaie facenno Cu’ la capa ‘ndà lu telaro uaglione che vaie facenno ‘stà figliole nunn’ è ppe’ te. Bella figliola fatte sagrestana e va’ lu suoni vietto mattutino accorta quanno la tiri la campana chi nun te cade lu battaglio ‘nzino. Bella me ne vogli i'/ e campo di fiori Stornelli caposelesi Caposele (Av) Bella me ne voglio i’ e campo di fiori e donna d’amor bella me ne voglio ì’ a la funtanella dove ci vanno e campo di fiori e donna d’amor dove ci vanno le donne a lavare me ne voglio ì’ a lavare e campo di fiori e donna d’amor me la voglio ì’ a trovare la piu’ bella ‘nnandi ca và lo’ là , e campo di fiori e donna d’amor ‘nnandi ca và lo’ la voglio portare mi scontano le genti e campo di fiori e donna d’amor mi scontano le genti della terra dove l’hai fatta stare campo di fiori e donna d’amor dove l’hai fatta ‘sta caccia reale l’ho fatta a la montagna e campo di fiori e donna d’amor l’ho fatta a la montagna oi …. dove la neve non ... e campo di fiori e donna d’amor dove la neve non ci manca mai la tòrtena ch’ha persu e campo di fiori e donna d’amor la tortena ch’ha persu la cumpagna tutti li giorni stai e campo di fiori e donna d’amor tutti li giorni stai malanguinosa poi te ne vai a la e campo di fiori e donna d’amor poi te n vai a la muntagna trova n’albero secco
e campo di fiori e donna d’amor trova n’albero secco e si riposa la trova ‘na funtanella e campo di fiori e donna d’amor la trova ‘na funtanella e si bagna e l’acqua se la beve e campo di fiori e donna d’amor e l’acqua se la beve trovologna e ‘mpiettu le purtava e campo di fiori e donna d’amor e ‘mpiettu le purtava doi palomme e io l’addummannai e campo di fiori e donna d’amor e io l’addummannai de chi ‘ddi sono so’ de lu ninnillu mio e campo di fiori e donna d’amor so’ de lu ninnillu ch’ha appriessu mi vène chiu’ biancu re la neve e campo di fiori e donna d’amor chiu’ biancu re la neve re montagna. A’ la funtanella Canzone Caposele (Av) Quanne mamma era vicchiarella Alla buon’ora mi facia alzar Mi ‘mannava all’acqua a’ la funtanella A prender l’acqua per bere e cucinar Arrivai a quella capu strada E lo incontrai un grande cavalier Si mi rissi ‘na veppeta re s’acqua Mille zecchini io ti regalerò Io nun tengu né giarla né bicchier Pe dane a beve vui grande cavalier I mò và e lu vacu a dici a mamma Si mamma vole stasera tornu qua Vacu a casa e lu ghietti a dici a mamma Tu , mamma mamma , mi vuoi mannà? Figlia , figlia tu vangi e statti attientu Questa è la rota ca rai mamma a te
Arrivammu puntu a mezzanotte Lu cavalieri comincia a suspirar Tu che n’hai grande cavalieri? Chiangisti li renari che m’hai donatu a me? I nun chiangu né soldi né renari Piango che è fattu giornu e me n’aggiu’ da parti’ zitto zitto stu grande cavaliere stanotte e n’ata notte dormirai affianco a me Il ventinove luglio Canzone per quando si miete il grano Caposele (Av) Il ventinove luglio è quando si miete il grano trullalà lalalalalà È nata una bambina con rose e fiori in mano trullalà lalalalalà non era paesana e nemmeno cittadina trallalà lalalalalà è nata in quel boschetto vicino alla marina. Vicino alla marina e quanto c’è bello stare trallalà lalalalalà si vedono le barchette sul mare galleggiare per galleggiar sul mare ci vogliono le barchette trallalà lalalalalà a far l’amore di sera ci vuol le ragazzette le ragazzette belle che l’amore non la sanno fare trallalà lalalalalà noi altri giovanotti ce la faremo fare, ce la faremo fare e ve la faremo sentire trallalà lalalalalà stasera dopo cena, quando si va a dormire. quando si va a dormire e si levano le mutande trallalà lalalalalà mamma che belle gambe ca ten ninnella mia, mamma che belle gambe ca tene la bella mia. Cecilia bella
Canzone Caposele (Av) C’erano tre sorelle Cecilia la piu’bella Cecilia la piu’ bella si mise a fare l’amore passa un capitano Cecilia sospirava Cecilia sospirava che c’è Cecilia bella che ti sospira il cuore. Tengo un dolore al petto tengo un dolore al cuore Peppino mio è in prigione Peppino mio è in prigione, lo voglio in libertà. Sienti Cecilia bella se tu mi dai il tuo amore se tu mi dai il tuo amore lo caccio in libertà. Signore capitano aspetta un momentino mo vacu addu Peppino lo vado a domandare se te lo posso dare. Sienti Peppino bello Peppino del mio cuore se io gli dò l’amore se io gli dò l’amore ti caccia in libertà. Sienti Cecilia bella io ti ho guardato tanto riguardati il tuo amore riguardati il tuo amore non ti scordare di me. Signore capitano prepara lu lettino andiamo a riposar. ‘Npunto a la mezzanotte Cecilia sospirava che è Cecilia bella che è Cecilia bella che ti sospira il cuore. Tengo un dolore al petto tengo un dolore al cuore Peppino mio è in prigione Peppino mio è in prigione lo voglio in libertà. Sienti Cecilia bella affacciati a lu balcone affacciati a lu balcone vedi a Peppino passare. Cecilia s’affacciau ma dove vai Peppino? Ma dove vai Peppino? Mi vanno a fucilar.
Signore capitano me l’hai saputa fare l’onore t’è pigliatu l’onore t’è pigliatu e Peppino è fucilato. Sienti Cecilia bella sei moglie di capitano ti metterò la serva non ti farò piu’ ascir. Io non voglio la serva voglio Peppino bello lui che mi amava a me. Voglio scavare un pozzo per sotterar le donne cosi finisce il mondo. E sopra a quella tomba ci scrivo due parole: “Arrivederci amore arrivederci amore mai piu’ ti rivedrò “. Sant'Antonio da Padova Canzone Caposele (Av) Sant’Antonio predicava e ìu’ un angelo che gli parlava: “Vui stati a predicare e vostro padre a la morte vai”. Sant’Antonio cu riverenza, dal suo popolo cercò licenza, si voleva riposare e poi si mise a camminare. E nu momento a Lisbona arrivau accu’ lu giudice andò a parla’. Ferma ferma giustizia santa, roie parole costanti e forti, roie parole costanti e forti, perché mio padre vai a la morte. Il vostro padre a la morte vaie perché nu giovane l’ammazzau. E gli rispose Sant’Antonio: questi so falsi testimoni, se vuoi sapere la verità, andiamo al morto a domandar. Santu patru vui che ddiciti, quiru è muortu e sotteratu, polvere e cenere è divendatu, polvere e cenere è divendatu, e se vuoi lu fazzu parla’. E lu ddicienno tutti quanti, so miraculi veramente. E la sua tomba batteva avanti, iàmuci iàmuci tutti quanti. Quando arrivau a la santa forza, Sant’Antonio si inginocchiò
E se la feci la santa croci e subito il morto risuscitò. E tu risusciti muortu accisu, tu le ha rici la verità, tu le ha rici la verità, chi è stu giovunu che t’ammazzau. Quistu giovunu nun è statu Ca m’ha vunutu a dà la morte, ca m’ha vunutu a dà la morte, ca Dio lu pozza perdona’. E torna morta a supplicar chi t’ha vunutu la morte a da’. Chi m’ha vunutu la morte a da’ e Dio lu pozza perdona’. Santu patru, santu patru, mi vogliu cunfessà, è ‘na scomunica ca ‘nguollu tengu, so disprezzatu ra quistu regnu, so disprezzatu ra quistu regnu. Sant’Antonio lu cunfessau, con la sua mano lu comunicau, con la sua mano lu comunicau, e in paradiso lu mannau, in paradiso lu mannau e inizia subito a predicar. Scusati popolo mio, quistu pocu c’aggiu mancato, quistu pocu c’aggiu mancato, un’anima a Dio l’aggiu salvata, un’anima a Dio l’aggiu salvata, la morte a mio padre l’aggiu liberata. E tutta sta gentaria sta cosa nun la creria, ma la scrittura ca parla e dici, 1500 miglia feci. E nu corrieree a Lisbona mannau, sei mesi per ritornar e chi lu tène pe sua memoria, questa è la storia di Sant’Antonio, e chi lu tène pe’ suo avvocatu da Sant’Antonio sarà aiutato.
chiangenno? “ Io va’ chiangenno con un filo di voce, ca l’aggiu persu a nu mio caro figliuolo. [Si tu l’hai persu, noi l’ammu truvatu, ra sotta ‘na culonna ‘nfracillatu]. Quiri tre chiuovi chi sanna ra fa’, le facessero piccoli e pungenti. Risponne nu giudeo: “Quiri tre chiuovi chi sanna ra fa’, 33 anze re fierru ‘ngianna jè. Quanne Maria sende ‘sti parole, allerta ca era gli scurau lu core, quanne Maria sende ‘sta nuvella, era allerta e carìa morta ‘nderra. [Vieni Giuvannu cu ‘sta bella forza, vieni alza a Maria che è ‘nterra morta. E si è morta noi la piangeremo, la via cammu fattu noi facimu].
Mò se ne parte Maria Canto di Passione Caposele (Av) Mò se ne parte Maria, è Giovedi santo, senza sorelle e senza cumpagnia, la sconta nu giudeo pe la via e l’addummanna: “ Che è, madre Maria, ca vai
Festival della Serenata, Teora
Da alcuni decenni l’attenzione nei confronti del folk-life è cresciuta in modo esponenziale. I media e gli operatori hanno elaborato quella tendenza in una moda culturale che nel tempo si è andata articolando intorno al turismo rurale, alla riscoperta dei borghi e dei territori, all’attenzione nei confronti della produzione artigianale e “tipica”. Un importante fenomeno culturale è stato quello della diffusione e dell’affermazione del programma di Slow Food. Il movimento, fondato da Carlo Petrini nei primi anni Ottanta, unitamente alla valorizzazione dei prodotti eno-gastronomici ha sviluppato un programma teso al recupero delle culture locali, alla rivitalizzazione dei saperi tecnici e tradizionali, al rilancio di intere filiere attraverso manifestazioni di straordinario appeal comunicativo. Slow Food ha esteso la sua rete di adesioni coprendo ampi territori con i suoi “presìdi” (zone tematiche di ri-produzione di alimenti, coltivazioni, produzioni radicate in certi territori ed a rischio di estinzione) e le sue delegazioni. In tal modo l’esemplarità di una economia ripristinata ha funzionato da volano per il rilancio di un intero universo culturale, come quello “rurale”. Il successo dell’enogastronomia o dei “prodotti tipici locali” deve molto anche al fenomeno del folk revival, in essere dai primi anni Settanta. Un fenomeno per lo più musicale che ha portato alla ribalta repertori etnici, popolari e popolareschi e che ha registrato vivaci dibattiti fra ricercatori, ripropositori e portatori della tradizione. Il folklore manieristico, in genere indirizzato alle masse turistiche e utilizzato dalle stesse comunità locali come forma di autorappresentazione immediata e compiacente, non viene sostenuto dai critici e dai ricercatori più accorti, fautori della continuità della tradizione più che della sua re-invenzione o ri-proposizione. Queste ideologie, tendenze e dinamiche sono osservabili nelle attuali conformazioni delle feste “tradizionali” e nei nuovi assetti delle “sagre”, così come nella proliferazione dei gruppi folk e dei ristoranti “tipici”. Il folklore, il “sapere della gente comune”, diventa misura e contenitore di persistenze, commistioni, trasformazioni orientate al riconoscimento ed all’affermazione delle “identità” in un “mercato” che gli “operatori” scelgono e frequentano. La complessità di tali dinamismi viene semplificata nel nostro caso dalla esposizione di alcune significative esperienze realizzate, secondo i parametri, gli indirizzi e i presupposti più vari, nei cinque paesi oggetti d’indagine. Il quadro che ne deriva mostra una vivace attenzione nei confronti della memoria collettiva e della “cultura tradizionale”, in molti casi intesa come chiave di volta di uno sviluppo locale tanto sostenibile quanto auspicabile. interviste e testimonianze raccolte da Nicola Casciano e Alfonso Tore
in cui l’intero carnevale tradizionale teorese si impoverì fino a scomparire.
Teora aveva una grande tradizione carnevalesca. Andava dal giorno di sant’Antonio abate al mercolì di Quaresima. Per tutto il periodo vi erano le uscite delle mascherate nei giorni di giovedì, sabato e domenica, fino al martedì grasso, e le rappresentazioni teatrali. Carnevale si concludeva con la sfilata degli asini, la processione di carnevale morto e con l’uscita della Quarantana, la Vecchia Quaresima che andava per le case a menare il fuso, a segnalare a tutti la fine del carnevale. Altra caratteristica maschera teorese era quella della Pacchiana. Era tradizione che tutti i ragazzi vestissero per il carnevale i panni della pacchiana. Anche per il teatro carnevalesco la parte femminile veniva rappresentata da maschi. Alle donne infatti erano vietati i travestimenti e le pubbliche rappresentazioni. Santarello, nel dopoguerra, diede inizio alle rappresentazioni teatrali nel periodo del carnevale con La Malanova e La Lucia. Da tempi immemorabili il 17 gennaio, giorno di Sant’Antuono (s.Antonio abate), per l’inizio del carnevale, prima dell’imbrunire, uscivano lì scuacqualacchiuni. La tipica maschere teorese era coperta da campanacci, catene, bastoni, coperchi di stoviglie e quant’altro serviva a fare fracasso, in mano la zéreca (sonaglio di legno con ruota dentata).Il numero di persone che costituivano il gruppo o i gruppi di scuacqualacchiuni è variabile, va da un minimo di sei ed un massimo di ventiquattro. I loro vestiti sono fatti di sacchi di tele, di canapa (rreddiche, di ortiche), gambali di pelli, camisacci, mantelli a ruota, giacche rivoltate, cenci vari etc. Oggi l’abbigliamento viene arricchito con trecce d’aglio e di cipolla, peperoncini rossi, zucche essiccate ed ancora, rosmarino e alloro come frasche per adornare i batacchi. Il volto è tinto con il carbone o con del sughero bruciato. Per mascherare ulteriormente il volto, s’infilavano in testa le calze di lana che usavano le donne dei tempi passati. Nel passato c’erano un paio di gruppi di scuacqualacchiuni provenienti dalla campagna e un paio dal paese stesso, talvolta di ceto sociale molto diverso tra loro. Quelli che provenivano dalle campagna, erano muniti di piroccola (bastone) e “si recavano presso le abitazioni dei signorotti per prendersi qualche piccola rivincita per le angherie subite durante l’anno. I signorotti non permettevano che lì scuacqualacchiuni entrassero in casa cibo e vino davanti al portone di casa.I gruppi che si formavano in paese, si recavano presso le case di parenti ed amici facendo piccoli scherzi e talvolta per dare una particolare occhiata all’amata. Le persone erano attente a non scontentare lì scuacqualacchiuni, per non essere fatti oggetti di lazzi o percosse.” In Largo Tarantino, oggi Largo Europa, dove viene acceso il falò in onore si Sant’Antuono, lì scuacqualacchiuni raggiungevano la massima eccitazione: cominciavano a saltare sui tizzoni ardenti, a danzare intorno al falò, a dimenarsi. Correvano, rincorrendosi per le strade del paese, spaventando i bambini e gli adulti; bussavano alle porte delle case per chiedere cibo e vino quale compenso per la passata della scopa fatta dal Capo Scuacqualacchione “contro gli spiriti maligni”. Queste maschere, la cui origine si perde nella notte dei tempi, scomparvero dopo il terremoto del 1980, epoca
La maschera dello scuaqualacchione è legata al ricordo dell’ultimo grande personaggio teorese che ne ha interpretato per quasi mezzo secolo la tradizione, l’eclettico Santariello, al secolo Raffaele De Rogatis (1925 – 2007). Santariello aveva raccolto dal fratello Emilio e da Rocco Nittoli la tradizione degli scuacqualacchiuni del centro abitato di Teora. Nel 1980 il prof. Luigi Chicone, della locale Pro Loco, fece fare una particolare rappresentazione de Li Scuacqualacchiuni, con Santarello, che fu filmata. Purtroppo era l’anno del catastrofico terremoto, nel quale perì il prof. Luigi Chicone e tanti altri esponenti della cultura teorese ed irpina. Così anche lo Scuacqualacchione si fermò. Fu ripreso dalla Pro Loco intorno alla metà degli anni Ottanta, quando fu chiesta la collaborazione di Emidio De Rogatis, figlio di Santarello. Per oltre un decennio la maschera dello Scuacqualacchione soppravvisse con alterne fortune e vicissitudini, sempre sul filo della dismissione. La svolta si ebbe nel 2001, quando sia la locale Pro Loco che l’Associazione Giovani di Teora con Pasquale Chirico presidente, sentirono la necessità di iniziare nuovamente il percorso carnevalesco de Lì Scuacqualacchiuni, visto che in Irpinia iniziavano a prendere corpo iniziative come La notte dei Falò di Nusco. La Pro Loco, con la presidenza di Stefano Farina, fece inserire nel calendario del carnevale irpino Lì Scuaqualacchiuni di Teora. Nel frattempo l’Associazione Giovani cessava le attività e nasceva il Forum dei Giovani di Teora, con Salvatore De Rogatis presidente, che ha rafforzato il rilancio delle maschere teoresi. Nel 2009 gli Scuaqualacchiuni, nella loro nuova versione, hanno segnato i sei anni di attività raggungendo “traguardi considerevoli, basti pensare il primo premio vinto nel carnevale di Eboli, con il Don Alfonso (maschera tipica di Eboli) tipo la Zeza della bassa Irpinia, e la rappresentazione nel Museo delle Tradizioni popolari in Caserta Vecchia. “Con“la rappresentazione della citata maschera si è pensato di proporre una particolare sagra, che è quella di alcune pietanze a base di maiale, come la tummacedda (tomacella), una polpetta schiacciata, fatta con gli scarti e le frattaglie del maiale a cui si aggiungono formaggio, uova e del “tartufo dei poveri”, il rafano. Il rafano è una radice conosciuta in alcune aree dell’alta Irpinia e nella Basilicata stessa. Questa polpetta, una volta impastata e schiacciata si avvolge nella cosiddetta zerpela (reticella della milza del maiale) e viene fritta nell’olio e servita calda. Nel 2010 lo scuacqualacchione è approdato in Sardegna, per un gemellaggio tra le scuole di Teora e Lioni con quelle di Oristano, in occasione della nota Sartiglia. Sette bambini di Teora si sono mascherati con l’ormai tradizionale abbigliamento de Lo Scuacqualacchine.
E’ fondamentale per l’amministrazione comunale puntare sul turismo. Il turismo di questi posti può far leva su due
cose: le caratteristiche geografiche del territorio (aria buona, il paesaggio del “Verde Irpino” ecc.) e la possibilità di vivere momenti spensierati, legati alle particolarità del territorio. E’ probabile che quello più interessato a proposte turistiche del genere sia quel “turismo mordi e fuggi” che potrebbe provenire dalle provincie vicine di Napoli, Salerno e Caserta. Un ruolo fondamentale in questo sviluppo potrà giocarlo il mondo delle tradizioni popolari. La comunità di Teora può contare infatti su due importanti eventi tradizionali: il primo si svolge all’inizio dell’inverno e l’altro in estate. D’inverno c’è la tradizionale giornata in cui è protagonista la maschera dello Scuacqualacchiune, figura legata all’inizio carnevale che da noi avviene il 17 gennaio, giorno dedicato a sant’Antonio abate per cui il detto recita: a Sant’Antuono maschere e suoni. Lo Scuacqualacchiune è una maschera molto particolare, per molti aspetti simile alla più nota maschera dei Mamuthones sardi. Ha il volto dipinto di nero, è coperto di catene e altri orpelli che gli danno un aspetto repellente e imbraccia un bastone, col quale entra in contatto con la gente. I nostri avi raccontano che lo Scuacqualacchiune portava bene, favoriva il raccolto e il benessere dei contadini, anche perché la sua apparizione avveniva nel periodo in cui si ammazzano i maiali e si fanno i salami. I gruppi mascherati andavano a bussare alle case del paese per riempire i loro panieri di uova, salami e quant’altro, che poi consumavano collettivamente da qualche parte. Questa tradizione è stata recuperata qualche tempo fa e si ripete ormai ogni anno. Al recupero ha provveduto la Pro loco di Teora (che ho avuto l’onore di presiedere), che ha affiancato all’evento in maschera quello gastronomico perchè è stata rilanciata l’ormai nota tommacella teorese, che io definisco come la capostipite dell’hamburger! É una specie di polpetta fatta con le interiora del maiale, confezionata con la retina delle interiora e spruzzata di ràfano, che conferisce alla tommacella un retrogusto veramente particolare. Ciò che attira molto la gente che viene a Teora il 17 gennaio è l’aspetto gastronomico e poi, dal punto di vista visivo o spettacolare, lo Scuacqualacchiune. Possono essere motivi validi per creare manifestazioni di un certo interesse turistico e culturale in paese. In estate invece, abbiamo a Teora il “Festival delle serenate”, una manifestazione canora che trae ispirazione da una antica consuetudine teorese, ancora in uso al punto che, credo, nessuna donna di questa comunità arrivi all’altare senza aver ricevuto, la prima notte di matrimonio, la tradizionale serenata da parte dello sposo. Questa tradizione noi la manteniamo in essere e l’abbiamo esaltata in un festival al quale prendono parte anche gruppi che vengono da molto lontano, e che è diventato un momento artistico e culturale la cui eco si propaga nelle comunità vicine. Quindi sono due punti sui quali si può far leva sotto il profilo della imprenditoria turistica e che l’ammiistrazione comunale deve sostenere per lo sviluppo del paese che, lo ricordo, vive nella sua ricostruzione urbana dopo la quasi totale rovina avvenuta col terremoto del 1980. Vorrei a questo punto ricordare un’altra tradizione, forse meno turistica delle altre due ma più vicina al senso di appartenenza teorese, la tradizione della pizza di san Martino. C’è l’usanza che tutti i teoresi, anche quelli sparsi per il mondo, l’11 novembre si riuniscono a tavola per consumare la pizza di san Martino, una specie di gateau di patate nel quale viene nascosta una moneta. Chi trova il soldo diventa il Re della tavola e quindi ha la facoltà di ordinare ciò che si dovrà mangiare dopo dieci giorni, il 21 novembre, in una cena cui saranno invitati parenti e amici. E’ un modo per stare insieme,
ma è anche un modo per ricordare la generosa solidarietà di San Martino, che divise con la spada il suo mantello per darlo al povero infreddolito. Cosi a Teora noi condividiamo con questa pizza solidarietà e aggregazione, e anche un’abitudine antica che riunisce i teoresi ovunque essi siano. E quindi, sono sicuro che l’aria pura, il verde, i facili parcheggi, la tranquillità, la brezza di questi monti, i paesaggi riposanti e le nostre particolari tradizioni che fanno sentire chiunque come a casa propria, sono ingredienti importanti per costruire una nuova economia locale fondata sull’ospitalità, in grado di riempire il vuoto lasciato da una economia che un tempo era manifatturiera e agricola e che oggi non riesce a rispondere alle esigenze dei giovani e anche di tutti coloro che amano il paese e non vogliono lasciarlo per altri luoghi.
La Pro Loco di Caposele è nata nel 1973 con atto notarile. I soci fondatori intendevano così promuovere il territorio, la sua cultura, le sue tradizioni e la sua storia. Prima del terremoto del 1980, Caposele era un punto di riferimento per la Valle del Sele e il ruolo della Pro Loco era quello di dare una serie di impulsi al paese, fungendo da stimolo per i caposelesi. Dopo il 1980 la Pro Loco ha interpretato un ruolo sociale fondamentale, in quanto rappresentava un luogo di incontro e di aggregazione per gli abitanti. In quegli anni si interagiva in modo diverso, le persone erano più unite e c’era meno conflittualità; le decisioni venivano prese di comune accordo, rispettando anche il punto di vista delle minoranze. Attualmente, per le varie contrapposizioni politiche, si sono create delle vere e proprie spaccature sociali, che hanno modificato i rapporti tra le persone e che non hanno consentito un giusto ricambio generazionale all’interno dell’associazione. Un importante organo informativo della ProLoco è il periodico “ La Sorgente ”, il cui obiettivo è quello di divulgare la cultura caposelese, rendicontare gli eventi del paese, la storia, il turismo e le tradizioni. Il primo numero è stato pubblicato nel 1974 e sin da subito ha rappresentato un forte collegamento con i caposelesi emigrati.Nel 1975 è nata la prima sagra di Caposele, la “Sagra dei Fusilli e delle Matasse”. E’ tradizione ormai consolidata che ogni anno il node di agosto la Pro Loco organizzi la Sagra. Qualche giorno prima del 9 agosto decine di donne si organizzano per impastare, modellare e preparare la pasta e il condimento, che è il principale protagonista di quella splendida giornata. La manifestazione accoglie migliaia di turisti che si apprestano pazientemente ad assaggiare quelle prelibatezze artigianali tramandate di generazione in generazione. Sta di fatto che la Sagra si conserva nella sua struttura e si tramanda ormai da trentasei anni. Questo evento attira una grande mole di turisti proprio perché permette il riconoscimento dei prodotti tipici locali. Le matasse, gli amaretti, il muffletto sono stati inseriti nell’elenco nazionale dei Prodotti agroalimentari tradizionali (decreto del Ministero delle politiche agricole del 17 giugno 2011). L’inserimento in questo elenco di tali prodotti tipici costituisce un passo importante per la tutela delle tipicità locali. L’ elenco costituisce uno fra i più importanti strumenti per la salvaguardia di questi alimenti ed anche delle metodiche tradizionali della loro produzione, della cultura entro la quale sono inseriti. Infatti il requisito per essere riconosciuti come Prodotti Agroalimentari Tradizionali (PAT) è quello di essere « ottenuti con metodi di lavorazione,
conservazione e stagionatura consolidati nel tempo, omogenei per tutto il territorio interessato, secondo regole tradizionali, per un periodo non inferiore ai venticinque anni ». I prodotti tradizionali grazie a queste caratteristiche sopravvivono nel tempo; il loro legame con i luoghi di produzione determina l’elemento di qualificazione e differenziazione. Un altro caposaldo della tradizione caposelese , è costituito dal ballo popolare della quadriglia batticulo, meglio tradotta come colpi di fianchi. Sia la matassa che la quadriglia identificano il nostro essere caposelesi. È importante saper conservare e migliorare le tradizioni affinchè diventino fattore di crescita per l’intero paese.
Per testimoniare le condizioni di esistenza e soprattutto di lavoro delle popolazioni e tramandarle alle generazioni future, alcuni centri irpini hanno raccolto ed esposto gli oggetti e i manufatti in questione, costituendo dei veri e propri Musei. Essi svolgono non solo un’interessante funzione conoscitiva ed istruttiva di modalità e tecniche lavorative e di produzioni passate, ma anche un’importante funzione storico-documentaria di testimonianza della storia della comunità che li ha prodotti ed utilizzati. Accanto ai modi di lavoro e di produzione, essi ci forniscono anche interessanti indicazioni sul tipo di vita della comunità, sull’abbigliamento, sull’alimentazione, sull’abitazione, ecc. Per tale finalità, la Pro Loco di Andretta ha promosso la ricerca e la raccolta di materiali vari, fino a pervenire alla costituzione di un Museo della civiltà contadina, che tramandasse alle generazioni future la memoria delle varie forme espressive della “cultura” in senso lato delle popolazioni succedutesi nei secoli sul nostro territorio. Il Museo di Andretta è da qualche anno una realtà e i vari oggetti in esso esposti documentano le fasi e le attività della comunità, di cui illustrano sommariamente le radici storico-culturali e lavorative nel proprio specifico contesto ambientale. La raccolta e l’organizzazione espositiva di tali testimonianze sono intese non solo a salvaguardare e a tramandare il patrimonio storico-artistico e a valorizzarne il territorio, ma anche e soprattutto ad assicurarne una “tutela attiva” inserendolo in un circuito di fruibilità collettiva. Gli oggetti raccolti dagli Operatori Culturali della Biblioteca Comunale, accompagnati da una didascalia e da um’antologia fotografica, sono esposti su una superficie di circa 140 mq: narrano di una civiltà quasi del tutto scomparsa e anche quelli apparentemente più insignificanti hanno un elevato valore educativo per il visitatore, il quale può ripercorrere la semplicità e l’anonimato della vita normale, ritrovando i vecchi mestieri, gli antichi attrezzi e le parole che li definiscono. Il Museo apre prospettive di progresso e di crescita civile e culturale, in una visione unificante che rappresenta il grado di sviluppo lavorativo e di vita del passato in rapporto alla complessità del presente. In questa prospettiva, il Museo non
intende provocare “nostalgia” per il passato, fatto di sacrifici e di stenti, che non si vogliono riproporre, né vuole essere contenitore di “cose morte” e, quindi, inespressive e mute, né essere considerato una “cosa compiuta” e, quindi, esaurita e chiusa. Esso deve essere visto come un ponte tra passato e presente, deve aprire alla riflessione e, infine, deve essere interpretato come una raccolta da completare, attraverso un arricchimento materiale e tematico.
Il Museo della civiltà contadina di Andretta vuole essere non solo un museo della vita, ma anche delle attività caratterizzanti la cultura rurale, come quelle artigianali ad essa legate. Esso raccoglie testimonianze della vita quotidiana e del lavoro, che della quotidianità è stato parte integrante ed essenziale, ancor più di quanto possa esserlo nella civiltà urbanoindustriale o addirittura in quella “digitale”. Dopo anni di abbandono e di indifferenza, la nuova consapevolezza genera talvolta, naturalmente, comportamenti opposti a quelli finora lamentati: chi possiede - del tutto casualmente, semmai da sempre dimenticato in un angolo dell’abitazione - un oggetto o uno strumento sopravvissuto all’ammodernamento delle attività o dell’arredo domestico, se lo tiene stretto e resiste ad ogni invito perché contribuisca all’arricchimento del Museo. Certamente è comprensibile che sopravvengano ragioni affettive, timori di distruzione di un oggetto improvvisamente divenuto caro o soltanto raro, forse anche l’impressione che un oggetto insieme ad altri in un museo divenga fittizio, fasullo, rigido perché portato fuori dal suo ambiente consueto. Questo è sicuramente uno dei rischi che corre qualunque museo, in particolar modo un museo che voglia rappresentare una civiltà, cioè una realtà viva, dunque una cultura non-apprezzabile se viene resa astratta. Visitando il Museo della civiltà contadina e artigianale di Andretta nella sua attuale collocazione, si può cogliere sia l’appartenenza della comunità andrettese alla cultura rurale comune all’Europa contemporanea, sia, al tempo stesso, la specificità che ne ha contraddistinto l’identità particolare di borgo montano dell’Appennino meridionale. È necessario che gli abitanti di Andretta vincano la ritrosia ad affidare al museo civico oggetti o strumenti semmai dimenticati nelle proprie case, perché bisogna comprendere che la storia familiare ed individuale rivela poche e scarse verità se non è inserita nella più generale storia collettiva. In un tempo come il nostro, nel quale è facile smarrire la propria identità e le proprie radici, concorrere a ritrovare e arricchire questa storia comune - anche attraverso un Museo, che vive solo se continuamente si accresce - significa contribuire a salvare la memoria e la ricchezza di una cultura che inevitabilmente, più di quanto si possa immaginare, resta il segno distintivo delle singole personalità, anche quando siano definitivamente inseriti nei mondi nuovi di ciascuno. II punto di partenza, dunque, è la consapevolezza che il passato non si conserva da sé, ma, anzi, lasciato a se stesso si distrugge, deperisce e muore. La costituzione di un museo della civiltà contadina ed artigiana andrettese, pertanto, nasce dalla necessità della Comunità di capire e di leggere il presente attraverso le sedimentazioni storiche del passato; un passato di tipo agricolo, contadino ed artigianale e un presente/futu-
ro che può essere di tipo piccolo-imprenditoriale, commerciale o agrituristico. La riscoperta e la riappropriazione di una cultura che si sta perdendo, perché si abbia consapevolezza delle proprie origini per rifarsi ad esse nelle scelte riguardanti il territorio, è motivazione sufficiente per intraprendere un lavoro che certamente non si esaurirà in un solo anno. La mentalità spesso chiusa e individualistica, tipica del contadino povero delle nostre zone, l’attaccamento alle proprie cose, anche se vecchie e dimenticate in una soffitta, in una stalla abbandonata, in una masseria, viene a poco a poco sgretolata dall’organizzazione degli operatori culturali volontari che, raccogliendo il materiale, lo schedano, ne indicano le caratteristiche, il proprietario, il nome dialettale, l’origine, la funzione, l’uso e il periodo. Soltanto una collettività consapevole delle radici della propria identità può organizzarsi per progettare e costruire con fiducia e determinazione il suo futuro. Non esiste settore della scienza e della tecnica che non sia di pertinenza dell’uomo: è dalla comprensione della realtà più vicina che egli deve partire per potersi confrontare con gli altri uomini sul piano della conoscenza e dell’azione. Partendo dalla “memoria”, senza atteggiamenti nostalgici, sarà in grado di intervenire nel presente e gettare le basi per un futuro migliore, senza ripetere né gli errori né le soluzioni inutili del passato. Da sempre i musei sono stati “i contenitori” della memoria di tante civiltà ed è fondamentale il ruolo delle istituzioni nel salvaguardare e aggiornare le strutture esistenti e creare quelle che dovranno documentare anche il nostro presente per il futuro
di Barbara Capasso
Il ritratto nell’ambito fotografico è particolarmente difficile, ma cos’e’ un ritratto? Secondo Inge Morat, un buon ritratto “coglie un momento di immobilità nei flussi quotidiani delle cose, quanto l’interiorità di una persona riesce a trapelare” ma è anche ”un segno avente lo scopo di descrivere un individuo e designare un’identità sociale”. Il ritratto fotografico in qualche modo è una “metamorfosi continua, entro la quale una singola personalità non tanto cambia, quanto respinge i codici che presuppongono, determinano e dichiarano l’identità privata e pubblica” (1). Nel XIX secolo il ritratto fotografico soppianta quello da cavalletto introducendo un modo nuovo di osservarsi e osservare portando la diffusione del raffigurarsi, cosa che prima dell’avvento della fotografia era destinata solo ad alti ranghi sociali, che si facevano ritrarre in una concezione spazio-temporale non coincidente con la realtà come ad esempio l’età e gli abiti dell’epoca oltre che mettere in luce reali aspetti psicologici della persone ritratta, anche Sorlin a sua volta scrive: “La rappresentazione umana – il ritratto – non fa che fornire informazioni sul suo modello, inoltre dice a ciascuno quello che effettivamente è e lo obbliga a domandarsi come si comporta, come sorride, a che cosa assomiglia” (2). Nel XX secolo la fotografia ha assunto un aspetto documentativo della realtà, è servita a trascrivere visivamente ciò che gli antropologi documentavano col solo uso della scrittura. La fotografia rendeva più immanenti e “oggettivi” gli aspetti della realtà investigata dagli antropologi. Oggi, molti settori delle scienze sociali si avvalgono della fotografia quale sturmento di indagine e di analisi, come fa l’antropologia visuale, che ha ispirato la parte della nostra ricerca sul campo. Nell’ambito degli incontri svoltisi nei comuni di S. Andrea di Conza, Conza della Campania, Teora, Caposele e Andretta, si è dato rilievo alle storie di vita ed alle testimonianze sulla vita sociale e tradizionale. Alle riprese audio-videografiche abbiamo correlato quelle fotografiche, particolarmente mirate a “descrivere” gli informatori ed il loro vissuto domestico-lavorativo. Le storie raccontate da talune persone erano davvero emozionanti e coinvolgenti al punto che mi è risultato un po’ difficoltoso rapportami poi a loro per la ripresa fotografica. Ritrarli dopo aver ascoltato le loro narrazioni mi sembrava un modo per esaltarli, per enfantizzare la loro performance e la loro straordinaria storia personale. La parte più intima, la loro biografia e i loro pensieri personali manifestati in pubblico, mi sembravano esserci stati offerti in un vicendevole scambio di attenzioni e di accorata partecipazione.Ci avevano insomma fatto dono dei loro ricordi, della loro memoria. Nel mese di maggio del 2011 è cominciata la mia esperienza nel comune di S. Andrea di Conza . Il 26 maggio ha avuto luogo in casa della signora Gaetana, il primo incontro. Gaetana ci ha accolto mostrandoci lenzuola, tovaglie, centrini e quant’altro, ricamati da lei stessa. Quando la signora Gaetana a cominciato a raccontarsi si è venuta a delineare il disegno della sua storia di vita; nel fotografarla ho ricambiato approfondendo la relazione che si era creata. Chi ascolta lo fa ottenendo in “dono” il racconto di una vita, e ricambia. Cartier-Bresson sosteneva
che ogni fatto, nel suo svolgersi, passa attraverso un istante privilegiato il cui significato si svela pienamente allo sguardo: ecco perche alcune di queste foto non sono in posa ma sono piuttosto “rubate”. “Gran parte della ricompensa derivante dalle relazioni interpersonali è intrinseca - ha scritto Kenneh Arow -; la ricompensa, cioè, è la relazione stessa”. Insomma vi è una condivisione, uno scambio di cultura che ben si lega alla definizione di Tylor e che quindi la cultura intesa come bagaglio di conoscenze, credenze, costume ed altro sia condivisibile e appunto dalla condivisione nasce lo scambio. La logica del dono secondo Marcel Mauss è fatta di tre momenti e cioè donare, ricevere, contraccambiare. In questo caso il dono è il racconto personale; il ricevere sta nell’ascolto, nel permesso che ci viene concesso di entrare nell’intimità di chi racconta, e il contraccambiare può stare nell’ascolto più disponibile. Nessun lavoro di questo tipo viene svolto con superficialità o distacco: oltre a non avere senso non ci sarebbe “l’osservazione partecipante”. Ovviamente il dono comporta l’obbligo della restituzione in tempi e modi determinati. Il “ricambiare”, in questo caso, coincide con lo sguardo che coglie il farsi del racconto creando la prova tangibile dell’ “hic et nunc” della narrazione sottratta così all’oblìo: ciò che il ritratto determinava qualche secolo fa, oggi invece “dona” la fotografia.
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Arace Giuseppe Nicola Bellino Angelina Cantorella Michele Cerracchio Nicola Cianci Bianca Ciccone Italia Cifrodelli Antonio Cifrodelli Celestina Rosa Cifrodelli Giuseppe Cignarella Filomena Cione Antonio Cione Gerardina Colatrella Elisa Corona Salvatore Del Prestito Rosa De Rogatis Emidio Natalino Di Roma Rosa Donatiello Francesco Donatiello Filomena Gelsomina Frino Antonietta Frino Pompeo Giorgio Antonia Giorgio Antonietta Giorgio Maria Gerarda Guarino Angelo Guarino Nicola Guglielmo Angelina Guglielmo Michele Iannuzzelli Caterina Imbriano Cristina Iarussi Maria Iarussi Michele Liloia Rosa Liloia Franceschina Malanga Angela Melillo Rosa Miele Mariateresa Miele Pasqualina Pallante Gaetano Petrozzino Vito Polico Giuseppina Puddu Bruna Rosamilla Michele Russoniello Gina Salvatoriello Anna Santamaria Orlando Sista Maria Schettino Pasquale Scolamiero Sabino Vallario Carmelina Vallario Gerardina Vallario Giuseppe Vallario Vincenzo Vitiello Benito Vitiello Corinna Zoppi Gaetano
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Andretta S.Andrea Conza Conza S. Andrea
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