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città • L’anno zero del turismo made in Tuscia • A San Pellegrino è guerra fredda
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L’anno zero del turismo made in Tuscia Una scommessa difficile da vincere, che necessita di strategia e visione. Roberto Pomi | www.lafune.eu - Foto di Manuel Gabrielli
urismo nella Tuscia, benvenuti nell’anno zero. 3.612 chilometri quadri di superficie “turistabile”, con alcune parti che si prestano meglio e altre meno. Succede anche nelle migliori famiglie. Un gioiello, incastonato nel capolavoro di argilla dei Calanchi, che è Civita di Bagnoregio; un palazzo che ha ospitato i papi e anche il primo conclave della storia; decine di fortezze principesche, borghi medioevali, castelli, storie da raccontare. La bellezza del lago vulcanico più grande d’Europa, che ha addirittura al centro un ombelico capace di suggestioni uniche. Il folklore e le feste di sessanta comuni e una tradizione grande, anzi grandissima (basta considerare le dimensioni), che è il trasporto della Macchina di Santa Rosa; dal 2013 patrimonio Unesco. Il fascino degli antichi etruschi, le acque termali ludoterapeutiche e la sorpresa del quartiere medioevale più grande del Vecchio Continente.
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Potrebbe essere questo il testo di uno spot promozionale del Viterbese. Dopo decenni in cui si è “ciurlato nel manico” – dove tra l’altro sono stati “sacrificati” tantissimi soldi (magari un giorno sarebbe interessante lavorare a un’inchiesta per capire su quale altare sono stati bruciati) per la
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promozione turistica del territorio – siamo arrivati a toccare con mano un dato: esiste una dimensione turistica possibile. Ce lo sta facendo capire Civita di Bagnoregio che ci racconta una storia fino a un paio d'anni fa impensabile. Il 2015 si è chiuso con 640mila turisti contati. E pensare che quando, nel 2013, il sindaco Bigiotti pensò di introdurre il ticket d’ingresso gli diedero addosso in parecchi. Civita tira la volata con 22mila visitatori in tre giorni, i dati di marzo 2015 avevano segnato 14.711 biglietti staccati mentre nello stesso mese, un anno dopo, il numero che viene fuori è 34.651. Ma le cose iniziano a girare anche nel capoluogo, dove l’introduzione della tassa di soggiorno permette di monitorare cosa accade. Entrata in vigore, non senza polemiche, nel gennaio 2015 ha portato in un anno nelle casse comunali 170mila euro, facendo registrare 100mila turisti che hanno pernottato. Nei giorni di Pasqua anche la città dei Papi si è riscoperta meta d’interesse, con tanto d’intervistati in viaggio sull’A1 pronti a indicare come luogo da vedere proprio Viterbo alle telecamere del Tg1. Proprio ora viene il difficile. Capito che è vero che si può essere terreno turistico è necessario
uscire dall’approssimazione di un’accoglienza raffazzonata e mettere in campo strategie, studio, impegno, buone idee e tanto olio di gomito. E in questo il capoluogo dovrebbe avere l’intelligenza e lungimiranza di fare da traino. a città infatti non è pronta. Tantissimi i problemi: dall’assenza del rispetto di un regolamento sull’ornato, al degrado, alla sporcizia, passando per scarsa programmazione delle attività commerciali e i bassi investimenti privati su occasioni di business e lavoro. Manca un tessuto artigiano capace di capitalizzare i flussi. Manca un’accoglienza, non c'è un’idea di sistema sul da farsi. Siamo alle buone intenzioni e all’iniziativa di qualche uomo o donna di buona volontà. I problemi sono tanti. Uno su tutti? Pensare di poter essere città turistica e permettere alle auto di scorrazzare liberamente per la parte antica della città. Fino al punto di trovare auto parcheggiate nel cuore di San Pellegrino. Se non si capiscono queste cose il sogno turistico del capoluogo, potenziale traino per il resto, rischia di trasformarsi in un'illusione. Mandando così in fumo occasioni di occupazione e benessere. Una maledetta abitudine a queste latitudini.
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La città delle (ex) belle fontane Viterbo era famosa come “città delle belle fontane e delle belle donne”. A occhio e croce le seconde dovrebbero essere rimaste, sono le prime che stanno andando in estinzione. Melma, incuria, poca considerazione da parte dei cittadini stessi stanno trasformando uno dei simboli del centro storico in pietra dello scandalo e segno di negligenza. Manca un piano organizzato di manutenzione, cosa di cui naturalmente dovrebbe occuparsi il Comune. Manca una sorveglianza e una tutela vera di questi monumenti. Una città turistica parte proprio da queste piccole e basilari cose. Proprio in questi ultimi giorni l’assessore Alvaro Ricci ha annunciato che con l’approvazione del nuovo bilancio intendono prevedere un servizio di pulizia organizzato Un centro storico da ridisegnare, per le fontane. Fosse la volta il caso dei lastroni scomparsi buona. C’erano una volta le strade e le piazze principali del centro storico di Viterbo pavimentati con dei lastroni in peperino. Poi, mano a mano, sono stati sostituiti dai sampietrini. Sampietrini tra Questa chiusura non s’ha da fare l’altro sempre più sottili, pronti a saltare via con sempre maggiore frequenza. Così piazze centrali, come la centralissima piazza del CoIl tema della chiusura della parte monumentale della mune, assumono l’aspetto di una groviera. E la situazione si ripete in città è centrale per riuscire a immaginare un futuro turistico. diversi punti. Ma anche l’aspetto estetico di base è fortemente diEppure da queste parti l’idea si è affacciata tante volte ma a un verso, al punto che sarebbe bello ripensare di poter ridisegnare la certo punto è stata fatta sempre tornare indietro. Anche questo è pavimentazione delle vecchie vie con i lastroni. C’è poi un proun mistero, proprio come quello dei lastroni spariti. blema di sparizione di un patrimonio dei cittadini. In molti inA tal proposito ci preme ricordare che a gennaio ben due varchi eletfatti si domandano: ma le lastre sostituite con i sampietrini tronici, uno in via Chigi e l’altro al Ponte del Paradosso sono stati dati dove sono finite? È roba di valore, possibile che non alle fiamme. Gesto vandalico per qualcuno, atto intimidatorio mirato se ne abbia più traccia. Anche su questo serviper altri. Una sorta di segnale mafioso per dire “no alla chiusura del rebbe un’inchiesta, magari anche della centro storico”. I varchi infatti sono stati posizionati per mettere in magistratura. funzione una Ztl ragionata nella zona di San Pellegrino e Palazzo Papale. L’ordinanza per l’entrata in vigore giace sulla scrivania del sindaco Michelini. Dice che sia molto impolverata, troppo. Senza quella firma l’idea di città turistica è morta e non firmare significa farsi intimidire dai “signori dei fuochi”.
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A San Pellegrino è guerra fredda È tutti contro tutti, mentre le istituzioni preferiscono guardare altrove. Simone Carletti | www.lafune.eu
Nel mese scorso la città ha aperto gli occhi sul lungo braccio di ferro in atto da tempo tra Istituzioni e locali pubblici. Multe e ordinanze di chiusura hanno dato un duro colpo ad alcuni dei principali luoghi di ritrovo a San Pellegrino della Viterbo-by-night. Due Righe Book Bar, Al Settantasette, Beershock Downtown (ma l’elenco sarebbe ancora più lungo) hanno pagato salate multe per infrazioni varie scatenando un dibattito tra i tifosi del dura-lex-sed-lex e quelli della movida-sempre-e-comunque. Sotto i riflettori è però finita anche l’amministrazione cittadina e la storica mancanza di un indirizzo chiaro su quel che Viterbo vorrebbe da San Pellegrino.
e multe, le ordinanze di chiusura, lo sforamento di orari di apertura, la musica ad alto volume, le rivendicazioni degli abitanti, il traffico notturno, i parcheggi selvaggi, la sporcizia, nessuna idea di che farne, il silenzio assordante delle Istituzioni e le parole scocciate dei politici una volta chiamati in causa. In una parola sola: San Pellegrino.
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Un mese dopo il boom del dibattito in merito alle notizie delle chiusure forzate di locali pubblici come il Due Righe Book Bar e Al Settantasette (entrambi per dieci giorni per musica troppo alta e apertura, seppur di pochi minuti, oltre l’orario consentito) e le multe raccolte da svariati locali per aver infranto questo o quell’altro regolamento, è il tempo di alzarsi e di guardare il tutto da una prospettiva più ampia per cercare di capire il perché è successo quel che è successo, il perché del successo di quegli articoli che hanno raccontato le vicende e il perché si siano sollevate tante critiche. Parlando e confrontandoci sia in redazione che in strada, abbiamo capito subito una cosa: che San Pellegrino è il Far West. Lo è perché è terra di nessuno ed in quanto tale è terra di conquista e lo sviluppo del quartiere è demandato allo spontaneismo puro. Ed è da qui che vorremmo partire per rilan-
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ciare una discussione pubblica, a 360°, sul come superare le grandi polemiche per immaginare un futuro più solido al quartiere. an Pellegrino ad oggi è il quartiere più amato della Città. È il simbolo di una gloriosa storia, è il quartiere architettonicamente più affascinante, è il quartiere nel quale si è sviluppata gran parte della vita notturna cittadina e nel quale si susseguono i principali eventi estivi, è il posto dal quale chi ci vive non vorrebbe mai andarsene, è il quartiere preferito dai turisti. Come è possibile, dunque, che tutto questo amore non porti a qualcosa di buono? È possibile. Perché accanto a ciò ci sono anche i parcheggi selvaggi, la sporcizia, il rispetto delle regole a fasi alterne, qualche “ras” che se la comanda e chi più ne ha più ne metta. La cosa peggiore, però, è come il quartiere sia finito nel dimenticatoio. All’interno delle istituzioni non sembra non esserci la giusta consapevolezza di quanto quel quartiere sia un tesoro e di come fare per riprenderlo in mano immaginandone un futuro più roseo.
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Quel che stupisce, di tutta questa storia, è infatti l’assenza della politica. Non solo di quella di micheliniana memoria. Bar, locali, B&B, appartamenti infatti si susseguono senza una logica ed è
evidente che ci sia qualcosa che non va. Quel che manca non sembra essere, in generale, una risposta su quel che serve affinché San Pellegrino fiorisca e diventi un fiore all’occhiello della città, ma piuttosto quel che si nota è proprio l’assenza della domanda. Ecco, noi vogliamo porla con forza, soprattutto alle menti che dovrebbero guidare Viterbo verso lo sviluppo. osa ne vogliamo fare di San Pellegrino? Se c’è un enorme vuoto, infatti, è proprio quello di programmazione: il quartiere è cresciuto senza indirizzo ed è stato lasciato al (legittimo) spontaneismo di esercenti, operatori culturali e residenti che hanno finito per farsi una sorta di guerra fredda. In tutto ciò gli opinion leader locali non hanno avuto la forza di dire la propria su un dibattito tanto vivace scoppiato nelle scorse settimane e tantomeno di prendere in mano la situazione. Ma la guerra fredda non può essere combattuta con il semplice pugno duro contro chi capita sotto tiro o con i richiami alla legalità, ma che andrebbe risolta partendo dalle basi. Dal dialogo, dall’immaginazione di un futuro e dalla guida da parte di un amministrazione consapevole. E infine dal rispetto delle regole, concetto giusto ma fine a se stesso se non inserito in una strategia più ampia.
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Sta per arrivare Fiera Terra Contadina Un mercato rionale moderno e sociale. Manuel Gabrielli | manuel.gabrielli@decarta.it
Fiera Terra Contadina è una nuova iniziativa che sta per arrivare a Viterbo nel quartiere di Pianoscarano. Il programma per l’anno 2016 prevede già numerose attività e collaborazioni. Si tratterà di un mercato rionale attorno al quale gireranno però numerose attività volte a coinvolgere il quartiere e la collettività, con l’obbiettivo di un riavvicinamento delle persone alla terra e ai suoi prodotti. Abbiamo intervistato Francesco Amendola, uno degli organizzatori, per farci spiegare l’iniziativa nei suoi dettagli.
Cosa è Terra Contadina? Terra Contadina è un movimento, perché non ha una struttura giuridica formale che la inquadri, è una rete di individui e persone, provenienti soprattutto dall’agricoltura, e dall’artigianato. È nata due anni e mezzo fa, sul tema e sulla difesa dell’agricoltura contadina, per il rafforzamento di quest’ultima nella Tuscia e conta i suoi aderenti nel territorio delle province di Viterbo e di Terni. Terra Contadina sarà organizzatrice di una fiera omonima, di cosa si tratta esattamente? Il termine “fiera” identifica al meglio la tipologia di progetto, perché parliamo di un mercato che sarà sia agricolo sia artigianale e che coinvolgerà anche altri soggetti come associazioni e altri gruppi collettivi i quali partecipano a questa rete che è Terra
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Contadina. Abbiamo scelto fiera giocando un po’ sulla possibilità di farlo diventare un aggettivo e non solo un nome, quindi una terra contadina fiera di essere tale. Quali altre associazioni partecipano all’iniziativa? La parte agricola di questa fiera e il referente legale di fronte all’amministrazione si chiama Agricoltura dalla Terra che è un’associazione di produttori che esiste dal 2008 ed è il gruppo che organizza e coordina la parte di mercato agricola e artigianale. Ne fanno parte anche artigiani che lavorano con prodotti naturali sempre inerenti alla tematica agricola. Partecipano anche l’associazione Roccaltia Musica Teatro, che darà la direzione artistica per gli spettacoli, l’animazione delle strade ed i concerti.
AUCS, un’associazione interna all’Università della Tuscia, che collaborerà per la realizzazione di attività culturali come convegni e conferenze. È parte attiva il Circolo Arci Il Cosmonauta, che è stato lo spazio in cui abbiamo iniziato a sperimentare il laboratorio da cui nasce la fiera. Là dentro abbiamo iniziato con il primo esperimento ed è tutt’ora il nostro punto di incontro e spazio logistico dove ci riuniamo per mangiare, discutere e organizzare eventi. È quindi una base che verrà utilizzata in vario modo. Da menzionare è anche la collaborazione con la Pro Loco Quartiere di Pianoscarano con cui abbiamo iniziato a lavorare a partire dalla festa dell’uva del 2015. Ci hanno offerto di organizzare la parte di mercato della festa dell’uva e quindi promuoveranno nel quartiere e nella loro rete sociale questa nostra iniziativa. Anche Slow Food Viterbo parteciperà a questa
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manifestazione aiutando con le degustazioni in piazza e con laboratori gastronomici. Oltre alla fiera sono previsti anche dei mercati fissi. Come si svolgerà quest’altra attività? La fiera come progetto procede su due gambe, una che è il mercato fisso del giovedì pomeriggio, che inizierà il 12 maggio e un’altra invece è quella delle fiere e feste tematiche dedicate ad alcuni prodotti tipici di stagione. Per queste feste il prodotto tipico di stagione diventerà motivo di mercato, allestimenti artistici, conferenze e spettacoli. Saranno eventi della durata di un fine settimana e i temi individuati per questo 2016 sono per ordine: la festa di apertura che, in quanto coincidente con il 7-8 maggio e quindi Festa della Donna, si chiamerà della Mamma Terra e della Primavera contadina. La seconda sarà sul grano e si terrà in estate mentre la terza coinciderà con la festa dedicata all’uva a settembre e quindi con i festeggiamenti del Comitato Pianoscarano. Nocciole e castagne saranno il tema della fiera autunnale che si terrà probabilmente a novembre e l’olio e coinciderà con la chiusura dell’anno. Quali sono gli obbiettivi e gli auspici di questo progetto? Da una parte, anche per la sua origine, il poter creare uno strumento per difendere, sostenere e diffondere l’agricoltura contadina del territorio. Da un’altra, fare di questo mercato un ponte tra l’agricoltura naturale del territorio e la comunità locale. La fiera sarà quindi uno strumento, un catalizzatore delle energie del territorio per un’opera di ricostruzione del tessuto sociale e della comunità. Per riportare l’agricoltura in piazza è necessario un ponte che la unisca alla terra. Lo slogan di questa fiera sarà infatti “Dall’agricoltura naturale, per la comunità locale”.
Raccolta fondi per l’iniziativa
gofundme.com/fieraterracontadin
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storia
foto @ Manuel Gabrielli
Storie e misteri di strada Signorino Il tesoro del Cataletto e la Cava di Sant’Antonio. Gianluca Braconcini ra i vari luoghi suggestivi situati nelle immediate vicinanze della nostra città vi è la serie di strette gole che si trovano lungo strada Signorino, che prende il nome dal nobile Signorino Signorini che un tempo possedeva queste terre. Si tratta delle cosiddette “vie cave” realizzate dagli Etruschi come percorsi sacri o per collegare le varie città; chi le attraversa è subito avvolto da una sensazione intensa e particolare. I loro nomi sono diversi: “La Cavarèlla”, di “Santa Rosella”, “Cava di Gorga” e di “Sant’Antonio” ed anche le loro dimensioni sono diverse e, in alcune, le alte pareti si restringono talmente tanto che la fitta vegetazione riesce a malapena a far passare i raggi del sole.
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Nel periodo medioevale, queste tagliate sono state molto utili ai viterbesi; la loro natura bellicosa e la situazione storica e politica del tempo li portava molto spesso a trovarsi in guerra con altri centri della Tuscia e perfino con i tanto odiati Romani. In-
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fatti utilizzarono queste strette gole, che tagliavano la campagna come lunghe fenditure, per organizzare e compiere pericolose imboscate e trabocchetti: coprivano l’apertura con canne, foglie, rami, frasche e poi, attirando abilmente i nemici, li facevano precipitare nel vuoto insieme ai loro cavalli. Quella di Gorga fu teatro nel Duecento di un memorabile scontro proprio tra Viterbesi e Romani; fatto che viene ricordato anche nelle diverse “Croniche” degli storici cittadini. Nel libro di Ignazio Ciampi, Cronache e Statuti della Città di Viterbo, l’autore descrive così l’episodio: “Anno 1200… li Viterbesi coprirno una cava, che si chiamava la Cava di Gorga, e la fecero fogliata, e pareva che sopra essa fosse un bello e spazioso piano: poi tutto l’orto acquatile da quel lato allagorno d’acqua, e però erano tutti fanghi. Li Romani vennero tutti a schiera e serrati l’uno appresso l’altro come pigne; ed essendo sopra detta cava fogliata, per lo gran
peso di loro la cava sfondò, e ne cascorno tanti dentro nella cava, che più de mille ne morirno…”. e varie grotte che si trovano lungo la strada e che si aprono nelle pareti rocciose, hanno da sempre stimolato le credenze popolari tanto da creare attorno a loro storie terribili e fantasiose, come la leggenda della Grotta del Cataletto. Il cataletto era la barella con la quale si trasportava un morto e che spesso veniva adornata con paramenti molto pregiati. Secondo una vecchia leggenda viterbese questa profondissima grotta, che arriverebbe addirittura alla sorgente del Bullicame, custodirebbe nelle sue profondità un baldacchino etrusco rivestito completamente d’oro ma sorvegliato da terribili spiriti demoniaci. I vecchi contadini raccontavano che qualcuno di loro avrebbe visto forti chiarori provenienti dall’interno e una lunga processione di sacerdoti etruschi che cantando trasportavano a spalla il cataletto d’oro. Tra i
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foto @ Gianluca Braconcini
In alto, da sinistra, l’affresco risalente al XVII secolo presso la Cava di Sant’Antonio; a seguire, il miracolo affrescato nella lunetta del chiostro della Cisterna presso la chiesa di Santa Maria della Quercia. A destra, sopra l’affresco attuale si vedono nella roccia i resti dell’originale. In basso a sinistra, una grotta in località Piaggia della Sala e, al centro, uno scorcio della tagliata etrusca.
pochi che ebbero il coraggio di addentrarsi nei meandri della cavità ci fu un famoso guaritore di Pianoscarano, Girolamo Vitali, conosciuto da tutti col soprannome di “Niccopiccio”. Questi, nei primi del Novecento, dopo aver percorso molta strada all’interno della grotta e malgrado le sue particolari capacità di sensitivo, non riuscì comunque a trovare quel favoloso tesoro. Mio nonno, che abitava in un casale poco lontano, mi raccontava sempre queste storie e di notte, tornando a casa dopo aver aiutato qualche vicino “a fa’ sgrava’ la vacca”, quando passava davanti a questo luogo si faceva il segno della croce, recitava qualche preghiera e allungava il passo. a strada Signorino è anche testimone di un altro particolare episodio, nel quale si intrecciano storia e leggenda, accaduto diversi secoli fa nella Cava di Sant’Antonio. È la drammatica avventura vissuta nel febbraio del 1506 dal patrizio viterbese Spirito Spiriti che fu colonnello delle
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milizie papali e la cui famiglia aveva il palazzo su piazza San Lorenzo, di fronte alla Cattedrale, inglobato poi nel complesso del vecchio ospedale. Il cavaliere, di ritorno da Roma, venne inseguito da banditi armati di arco e frecce; per sfuggire alla morte spronò il cavallo in una folle corsa al galoppo per le campagne lì vicine fino a che non giunse in prossimità della tagliata etrusca, “larga più de 10 braccia e profonda più de 60”, in località Guado del Corgnalo. Trovandosi sull’orlo del precipizio, con alle spalle i banditi che volevano ucciderlo e convinto di non potercela fare, si raccomandò alla Madonna della Quercia per avere soccorso e fu proprio a questo punto che il cavallo riuscì prodigiosamente a spiccare un balzo talmente lungo da superare la cava, portando così in salvo il suo cavaliere. A questo punto si aggiunge la leggenda popolare, secondo la quale l’animale acquistando miracolosamente la parola avrebbe gridato al proprio padrone: “Reggiti o Spirito ch’io salto!”.
L’avvenimento è documentato negli archivi dei miracoli della Madonna della Quercia e in ricordo dell’episodio venne realizzato un affresco, ormai quasi del tutto scomparso, in una nicchia lungo la Cava di Sant’Antonio, nel quale è raffigurata a sinistra la Madonna della Quercia e Sant’Antonio ai piedi di un albero, a destra dei briganti armati di freccia ed il cavaliere Spirito che, in sella al suo cavallo, salta il dirupo. Sulla pittura è presente una scritta, ormai illeggibile, che recita: “Fermati passegiero, il capo china, alla Vergine Maria nostra reggina 1854” e venne restaurato nel 1992 dal pittore viterbese Rolando Di Gaetani. In realtà questo è un affresco successivo al miracolo avvenuto nel Cinquecento. L’originale, del quale rimane qualche piccola traccia, si trova sopra di qualche metro; a quel tempo infatti il livello della strada era molto più alto. Il miracolo è inoltre raffigurato in una lunetta del chiostro con la cisterna della Basilica di Santa Maria della Quercia.
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Fundraising Viterbo Dalle tribù del Pacifico passando per gli USA fino a Viterbo.
Scena dal film Tanna, 2015
Elisa Rotellini
l fundraising è un’espressione inglese semplicisticamente traducibile con il termine “raccolta fondi” ma vuol dire molto di più. “To rise” va inteso nel senso di far crescere, coltivare, sorgere, sviluppare fondi necessari a sostenere un’idea o un progetto. Il fundraising trova le sue origini nell’azione delle organizzazioni no profit che reinvestono i loro utili per lo sviluppo delle proprie finalità sociali, ma attualmente è una pratica attuata anche da enti pubblici e privati. Lo sviluppo maggiore del fundrai-
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sing si è avuto negli States con Henry Rosso, fondatore della prima scuola di Fundraising al mondo e, in Europa, l’Inghilterra risulta essere il paese più all’avanguardia nel campo. Ma la pratica del donare ha origini ben più antiche e in altre società ha avuto uno sviluppo ben più ampio e differente. L’antropologo polacco Bronisław Malinowski, professore della London School of Economics, cento anni fa scoprì una società che mise la generosità alla base della propria dottrina
politica. Studiando gli aborigeni delle isole Trobtiand (oggi isole Kiriwina, nel Pacifico occidentale), scoprì che per questi il dono era alla base della vita sociale e che affrontavano traversate oceaniche lunghissime e piene di pericoli, a bordo di piroghe e in acque tempestose e piene di squali, per portare doni agli abitanti delle isole lontane. Tanta generosità, per trasportare beni futili e non indispensabili, risultava incomprensibile ai suoi occhi. Questi doni, spesso monili, venivano poi nuovamente regalati agli abitanti dell’isola più vicina,
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www.facebook.com/FundRaisingViterbo creando un circuito di scambi, chiamato kula, e finivano poi per tornare nelle mani del primo proprietario. Mentre nella nostra società “riciclare” i regali non è ritenuta pratica lodevole per loro questo meccanismo creava un valore aggiunto, ogni passaggio di mano in mano impreziosiva l’oggetto e lo caricava di prestigio. Questa prassi, raccontata nel libro Gli argonauti del Pacifico occidentale, divenne un rompicapo per gli economisti che non trovavano il senso di questa pratica e la bollarono come comportamento da tribù primitiva incapace di calcolare costi e benefici. Ma Malinowski comprese il loro ragionamento: la ragione di quella fatica non stava nel valore d’uso degli oggetti bensì nel loro valore di scambio che si fondava soprattutto sulle alleanze e partnership prodotte da quel circuito. Sui rapporti umani. Il dono era alla base del loro contratto sociale, di alleanze tra popolazioni differenti e potenzialmente nemiche che creavano così un sistema ordinato e coeso all’insegna del “quello che doniamo oggi ci verrà restituito in qualche modo con gli interessi (e non necessariamente da chi ha ricevuto)”. Ponendo il dono alla base del legame sociale questa popolazione ha così creato una rete di solidarietà, scambio e protezione.
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erché vi ho voluto raccontare questa storia? Perché credo che troppo spesso il dono sia visto in un’ottica pietistica o “per sentirsi più buoni”, mentre ritengo andrebbe inteso come un gesto verso la comunità, e la comunità è costituita da tutti, anche da chi dona e avrà un ritorno in un’altra forma. Il fundraising non deve assolutamente sostituirsi allo Stato perché mantenere certe realtà come le case famiglia, i centri antiviolenza o gli aiuti ai disabili è compito delle istituzioni, ma può apportare quel qualcosa in più, supportare idee o innovazioni che, solo per mancanza di fondi, non vedono la luce. Il fundraising non è il fine ma il mezzo per sviluppare progetti, idee e realtà anche territoriali. In Italia il mercato delle donazioni è al di sotto delle sue potenzialità, ma comunque è un fenomeno in crescita e lo
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sarà sempre di più quando verrà inteso come fattore di crescita della collettività. Il fundraising viaggia in Italia su una media di 5-6 miliardi di raccolta l’anno in ritardo storico rispetto all’area anglosassone. Questi dati risultano poi microscopici se confrontati con quelli che arrivano dagli Station Uniti, dove la raccolta è arrivata a 400 miliardi di dollari. La figura del fundraiser, all’estero, ha assunto da tempo uno status del tutto autorevole e in Italia è iniziata ad apparire da qualche tempo. La raccolta fondi, sostiene Valerio Melandri, docente di Economia aziendale presso l’Università di Bologna, è attualmente uno dei pochi contesti lavorativi che mostra una crescita costante.
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a cosa c’entra tutto questo con Viterbo? Dal 2015 è presente sul territorio il gruppo Fundraising Viterbo che ho cofondato con altri collaboratori che, come me, sono convinti che il fundraising sia una maniera eccellente per far nascere e crescere le idee. Ci occupiamo di campagne di raccolta fondi, crowdfunding, project management, stesura di progetti europei e locali, e sviluppo di azioni di promozione sociale sul territorio. Abbiamo competenze umanistiche, economiche e di management combinate con le tecniche del fundraising e declinate in maniera molto flessibile perché siamo convinti che l’unione faccia la forza e che ogni idea possa essere sviluppata con la creatività che più le si adatta. Speriamo di riuscire a far crescere più idee e progetti possibili sul territorio e di aprirci anche al mondo esterno rispondendo ai bisogni sociali della nostra città. Se la società è attiva migliora la qualità della vita della collettività. Il benessere dipende strettamente dal livello culturale e più questo è creativo ed economicamente sano più la società tutta si risanerà, creerà opzioni lavorative, benessere materiale e morale. Attraverso l’opzione, rivoluzionaria e ricca di opportunità, del fundraising potremmo accorgerci che è concretamente possibile una società in grado di “scambiarsi doni” che ci renderanno più ricchi e in armonia gli uni con gli altri. Utopia? No. È innovazione.
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Redazione - Foto di Cecilia Campaniello
Il gruppo che oggi è la Casa dei Diritti Sociali della Tuscia nacque in maniera informale nel 2009 per poi costituirsi ufficialmente come associazione di volontariato nel 2012. Questa realtà è sezione territoriale di una federazione nazionale, Focus Casa dei Diritti Sociali, che lo scorso anno ha compiuto 30 anni. Abbiamo incontrato Chiara De Carolis, presidente dell’associazione viterbese per farci spiegare le loro attività, i progetti futuri e come farne parte.
Di cosa si occupa la Casa dei Diritti Sociali? L’approccio che abbiamo nei confronti della persona è olistico, nel senso che tramite un clima di accoglienza e di apertura cerchiamo di rispondere a quelli che sono i bisogni di chi si trova in una situazione socialmente o economicamente svantaggiata o con difficoltà di accesso ai diritti di base. Quindi da una parte ci occupiamo della distribuzione del vestiario, dei beni di prima necessità e quando possiamo anche di mobilio, pentole, oggetti per l’infanzia, collane e in generale tutto ciò che la gente ci dona, in un’ottica di riciclo e di baratto. Poi c’è un’altra parte di orientamento e accompagnamento ai servizi. Sembra una cosa scontata ma in realtà parecchie volte di fronte alla burocrazia è sufficiente la presenza di un italiano o
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di una italiana anche in silenzio per facilitare la fruizione del servizio. Ci è capitato un sacco di volte di andare anche senza essere attrezzati per la documentazione e la sola nostra presenza ha facilitato il tutto. Spesso è questo ciò che i cittadini che assistiamo richiedono. E mi riferisco a cittadini anche nel caso di persone straniere, perché di fatto, anche se non hanno la cittadinanza, vivono nella città e definirli utenti è un termine sgradevole a tutti gli effetti. In questa parte c’è anche un aiuto e un supporto per la ricerca del lavoro e quindi riscriviamo i curriculum per chi non conosce bene la lingua italiana o per chi è fuori dal mercato del lavoro e non ha la possibilità di accedere a internet. Ulteriormente ci occupiamo dell’insegnamento della lingua Italiana in 3 livelli: base, intermedio e
avanzato. Poi abbiamo un gruppo per il supporto alla preparazione dell’esame della patente. Curiamo molto l’aspetto della socializzazione, del fare comunità a prescindere da quale paese si provenga e il mercoledì abbiamo due laboratori attivi, uno sul cucito e un’altro sul riciclo creativo. L’accesso è gratuito, le persone che coordinano il corso sono tutte volontarie e l’obbiettivo è avere un posto dove ritrovarsi. Le persone si portano la merenda, noi offriamo il tè, e gli oggetti che si producono vengono lasciati in associazione per le raccolte fondi e le pesche di beneficienza che facciamo in modo di andare a creare un percorso virtuoso. Negli anni scorsi poi eravamo riusciti durante l’estate, tramite dei finanziamenti europei, a organizzare dei laboratori interculturali per i bambini in rete con altre associazioni.
DECARTA APRILE 2016
Nell’ottica del discorso dello scambio e della valorizzazione, ogni anno organizziamo un workshop sulla lingua madre con gli studenti della scuola e con gli altri cittadini che vengono allo sportello. Questo perché crediamo che è importante conservare la propria lingua madre in quanto legata allo sviluppo dell’identità della persona. Quest’anno abbiamo organizzato la seconda edizione ed il risultato è stato molto positivo. Non c’è stata molta attenzione da parte delle persone esterne al nostro circuito, ma è anche è comprensibile, vista la tematica non facile, per chi non è sensibile a questo tema e soprattutto con il clima che c’è adesso. Per i nostri studenti il riconoscimento e il poter parlare di fronte ad altre persone e lavorare e ritirare fuori i ricordi dell’infanzia, poesie, canti tradizionali e storie è stato un lavoro di riscoperta molto importante Come si può partecipare per fare volontariato con voi? È sufficiente contattarci, sul profilo Facebook o tramite e-mail che si trova sul sito, o presentarsi in sede da noi in via San pietro 72 oppure anche tramite servizio civile. Con quali altre realtà collaborate? Collaboriamo con l’ARLAF, l’associazione di Viterbo per l’affido familiare, l’associazione Sans Frontieres che è un’associazione di mediatori culturali, l’associazione A.S.D. Vitersport, Associazione Libera e con Ecococcole con cui stiamo portando avanti il progetto Ritroviamoci al Centro. Facciamo parte della rete Scuole Migranti Tuscia, della rete Scuole Migranti Regionale, partecipiamo al tavolo tematico sociale e cittadini stranieri della ASL e all’altro tavolo tematico Coesione Sociale della Consulta del Volontariato di Viterbo. Ulteriormente siamo all’interno del Consiglio dell’immigrazione territoriale della Prefettura di Viterbo e al Tavolo per la pace che è stato ricostituito da varie associazioni. Abbiamo in attivo anche un protocollo con il DISTU per accogliere i tirocinanti e poi un accordo con il Centro per l’educazione degli Adulti (CPIA 6) di modo che gli studenti stranieri che vengono a fare il corso in associazione da noi, possano vedere riconosciute le ore per poter accedere all’esame per l’attestato A2 di lingua italiana. Da tenere presente poi che tramite Focus, che è la nostra federazione, abbiamo la possibilità di far riconoscere le ore di insegnamento valide per l’esame DITALS.
sponibilità della nostra sede, per renderla un punto accogliente e aperto dove ritrovarsi. Quindi oltre alla prosecuzione delle attività (sportello, laboratorio di cucito, corsi di lingua italiana) abbiamo potuto attivare il laboratorio di riciclo creativo, un laboratorio sulle favole tradizionali, un playgroup di inglese per i bambini e il giovedì mattina il centro ricreativo con i giochi in scatola e la possibilità di ritrovarci a fare due chiacchiere. Il 21 maggio abbiamo un orto verticale nel cortile, con l’idea che le persone del quartiere lascino una piantina da curare periodicamente e un’altra da portare a casa in ricordo della giornata.
Che cosa è “Ritroviamoci al Centro”?
Cosa avete in programma per il futuro?
Ritroviamoci al Centro è un progetto finanziato dall’Assessorato ai servizi sociali del Comune di Viterbo tramite un bando che aveva come oggetto il fare comunità con il quartiere o con il proprio condominio. C’è questo gioco di parole “ritroviamoci al centro” che è ovviamente legato al centro storico. Porta San Pietro è infatti una delle porte di accesso alla città medioevale di Viterbo e per noi è determinante che questa via, lasciata da tempo a se stessa, venga rivalorizzata. Per questo diamo la di-
L’8 maggio parteciperemo a La Città a Colori e saremo presenti per fare raccolta fondi, cercare nuovi volontari e lanciare un seme rispetto all’intercultura e all’uguaglianza. Poi fino al 30 giugno proseguiremo le lezioni di Italiano e tutte le altre attività. Durante l’estate attiveremo anche dei workshop di lingua per i minori stranieri di una casa famiglia e sempre durante il periodo estivo, quando tutti andranno in vacanza, avremo più tempo da dedicare a chi ha più bisogno.
DECARTA APRILE 2016
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