MENSILE DI INFORMAZIONE NON CONVENZIONALE
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Il petrolio e il caso norvegese
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DECARTA Mensile di informazione non convenzionale Numero 25 – Giugno 2016 Distribuzione gratuita Direttore responsabile Maria Ida Augeri Direttore editoriale Manuel Gabrielli Redazione Gabriele Ludovici Elisa Spinelli Redazione web e photo editor Sabrina Manfredi Design Massimo Giacci Editore Lavalliere Società Cooperativa Via della Palazzina, 81/a - 01100 VITERBO Tel. 0761 326407 Partita Iva 02115210565 info@lavalliere.it Iscrizione al ROC Numero 23546 del 24/05/2013 Stampa Union Printing SpA Pubblicità 0761 326407 - 340 7795232 Immagine di copertina Athit Perawongmetha
I contributi, redazionali o fotografici, salvo diversi accordi scritti, devono intendersi a titolo gratuito. Chiuso in tipografia il 06/06/2016 www.decarta.it
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passato poco tempo dallo straparlato referendum sulle trivelle. In molti hanno criticato il governo e i mezzi di informazione per aver divulgato informazioni frammentarie, poco comprensibili e quindi insufficienti a rendere chiaro lo scopo del referendum. Effettivamente è così, pochissimi cittadini sapevano e sanno per cosa hanno votato sì o no. A parte qualche volenteroso giornalista il referendum delle trivelle ha rappresentato per molte associazioni ambientaliste la possibilità di farsi un po’ di pubblicità. È così che hanno cominciato a circolare immagini di animali sporchi di petrolio, spiagge deturpate e tanti altri disastri naturali. Fatto sta che la tutela dell’ambiente poco aveva a che fare con il referendum e l’occasione mancata è stata, come al solito, quella di fare della corretta informazione. Noi, nel nostro piccolo, non ci siamo rientrati con i tempi e quindi in queste pagine riassumiamo per quanto possibile alcuni concetti elementari su cosa è il petrolio, come si estrae e quali danni effettivamente può portare. Il tema però purtroppo è enciclopedico e confidiamo principalmente di stimolare la curiosità. Il petrolio alla nostra società e al nostro paese serve, è indispensabile, è irrinunciabile e, per quanto la via delle rinnovabili sia sicuramente quella da percorrere, l’Italia, al momento, ne usa appena il 17% sul totale. Oltre al discorso energetico c’è anche quello della incredibile quantità di prodotti a base di petrolio che usiamo e consumiamo ogni giorno. Dal colorante alimentare alla bottiglia di plastica, la maggior parte dei prodotti che passano tra le nostre mani sono derivanti da qualche idrocarburo.
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etto questo, il vero problema del nostro Paese non è di certo l’estrazione petrolifera in sé, ma la poca trasparenza italiana su questo settore. L’estrazione di idrocarburi in generale, perché gas e petrolio vanno sempre a coppia, non è di certo esente da rischi, è una violenza nei confronti del terreno e un grande disagio per chi vive vicino a questi posti. È però vero che dopo più di 100 anni di esperienza sono state messe a punto delle metodologie che, se seguite correttamente, minimizzano la parte sgradevole e ci permetterebbero comunque di usufruire dei vantaggi di avere una produzione propria. Ma in Italia c’è da fidarsi? La Norvegia, che è stata tirata più volte in ballo durante il referendum, si posiziona al sesto posto nel mondo come PIL (PPA) pro capite e al primo posto per Indice di Sviluppo Umano. Le sue riserve di gas naturale nel Mare del Nord sono sfruttatissime e si posiziona tra i più grandi esportatori di idrocarburi nel mondo. La fiorente economia norvegese, che si può permettere senza problemi di stare fuori dall’Unione europea, è accompagnata anche da un altissimo sviluppo ecologico e il consumo interno lordo di energia nel 2014 era proveniente per il 69,2% da fonti rinnovabili. Questi invidiabili risultati sono stati possibili grazie alla fortuna di avere tante riserve, di avere tanta acqua per l’idroelettrico ma soprattutto perché, quando è stato il momento giusto, si è investito. In Italia nel frattempo qualcuno si è venduto quasi tutta la compagnia petrolifera di bandiera. Manuel Gabrielli Presidente Lavalliere Società Cooperativa 3
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Come si forma il petrolio Le origini millenarie di una sostanza preziosa e “dannata”. Manuel Gabrielli | manuel.gabrielli@decarta.it
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l petrolio non ha un bell’aspetto: è oleoso, maleodorante e sembra sporcare qualsiasi con la quale viene a contatto. Dalla profondità della terra emerge l’acqua, simbolo di vita e purezza. Analogamente dalle viscere rocciose del nostro pianeta affiora il petrolio diventato, negli ultimi cento anni, uno dei simboli dell’inquinamento mondiale. Eppure si tratta di un bene prezioso per la nostra società e senza di esso, nella attuale assenza di alternative, saremmo destinati all’oblio. Che si tratti di carburante per l’automobile, per l’aereo, per la nave oppure di cosmetici, cibi, cellulari, buste, coperte, vestiti, il petrolio è onnipresente e, in molti casi, insostituibile. La sua preziosità di mercato è niente se consideriamo cosa sia il petrolio in sé, da dove proviene e cosa rappresenta nel nostro eco-sistema. Il petrolio viene classificato come combustibile fossile e il motivo è che si tratta, analogamente al gas naturale e al carbone, di materia derivante dalla trasformazione di sostanze organiche (resti animali e vegetali) rimasti seppelliti sotto terra e in seguito trasformatisi. Il petrolio deriva principalmente da resti vegetali acquatici e soprattutto da alghe lacustri. I vegetali sono le per maggior parte autotrofici, ovvero si nutrono dell’anidride carbonica presente nell’atmosfera e dei minerali e dell’acqua presenti nella terra. Il processo utilizzato per ricavare energia necessaria alla crescita della pianta è quello della fotosintesi clo4
rofilliana. Le reazioni chimiche della pianta avvengono grazie all’energia ricevuta dal sole sotto forma di luce ed è quindi giusto dire che la pianta stessa è il risultato di un accumulo di energia durato una vita. Quando la pianta muore le sue componenti (nello specifico proteine e carboidrati) subiscono un processo di decomposizione che è definibile il contrario della fotosintesi. Un normale processo di decomposizione necessità di tempo e di ossigeno e quando questi due elementi sono mancanti possono rimanere dei residui. Nell’antico Oceano Tetide – oggi scomparso – l’acqua calda e la grande quantità di alimenti fece proliferare a tal punto i microorganismi che i loro residui organici, in mancanza di tempo sufficiente per una completa decomposizione, cominciarono ad accumularsi sul fondo marino. In altri casi furono invece acque stagnanti e povere di ossigeno a non permettere la normale decomposizione e quindi a far accumulare i resti.
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ilioni di anni, per un motivo o per un altro, grandi accumuli di questi residui cominciarono il processo di sedimentazione e, sotto il peso di successivi strati di sabbia e limo, cominciarono a sprofondare nella crosta terrestre. Una volta raggiunta una certa profondità il calore proveniente dall’interno del pianeta, unito alla pressione degli strati superiori, diede inizio al processo di diagenesi, che fa parte di quei
cambiamenti chimici e fisici che intercorrono tra la deposizione dei sedimenti e la loro successiva trasformazione in roccia. In questo modo si andò a formare il cherogene, ovvero una miscela di composti chimici organici, la quale nell’ambito petrolifero è noto come roccia madre. Questo nome è dovuto dalla caratteristica di certi tipi di cherogene, in particolare quello sapropelico (derivante dalla sedimentazione di materiali organici nel fango di acque stagnanti) e da quello planctonico (originatosi invece da resti di piante e microorganismi marini) di rilasciare idrocarburi (composti di idrogeni e ossigeno) quando sottoposto a determinate condizioni.
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’intervallo di calore che va dai 60° ai 160° C di temperatura, noto come finestra del petrolio, è la condizione nella quale la roccia madre rilascia quest’ultimo. Tra i 150° e i 200° viene invece rilasciato il gas naturale. Sia petrolio sia gas una volta rilasciati dal cherogene cominciano la loro ascesa e, quando non trovano ostacoli, riescono ad affiorare in superficie per poi perdere le sostanze volatili e lasciare come residuo solo il bitume. Nel caso la risalita venisse impedita da uno strato impermeabile (spesso argilla), si viene a creare una trappola strutturale, dove petrolio, gas naturale e acqua rimangono intrappolati dentro a delle roccia serbatoio andando a formare i giacimenti petroliferi.
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Come si estrae il petrolio e quali sono i rischi ambientali Manuel Gabrielli | manuel.gabrielli@decarta.it
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’estrazione petrolifera, come dice il nome stesso, è quell’atto che consente di tirare fuori il petrolio dal sottosuolo e questo è necessario perché un giacimento posto a una profondità di migliaia di metri sotto terra non verrebbe mai fuori da solo. La considerazione non è scontata perché, per capire bene quali potrebbero essere le conseguenze dell’estrazione, bisogna avere ben presente come questa avviene. Fino alla seconda metà del 1800 il metodo utilizzato in tutto il mondo per la perforazione di pozzi consisteva in una punta di metallo attaccata ad un cavo che, issata e poi rilasciata, andava a impattare sul terreno sbriciolandolo in pezzi. Con questo sistema in Cina furono scavati pozzi per l’estrazione di acqua salata per migliaia di anni e sempre nell’800 venne raggiunta una profondità di circa 1.000 metri.
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Il sistema utilizzato oggi per la realizzazione della maggior parte dei pozzi è quello della trivellazione assistita da ricircolo di fluidi. Il sistema nel suo brutale funzionamento non è apparentemente complesso ma le competenze necessarie al suo uso sono molteplici e altamente specializzate. Per quanto il termine tri-
vellazione faccia pensare a una punta che penetra nel terreno come quella di un trapano da muro, la realtà è abbastanza diversa. La punta, che nella maggior parte dei casi è composta da 3 coni rotanti, non buca direttamente ma ha la funzione di sbriciolare la roccia. È fissata a dei tubi cavi, con una lunghezza che varia dagli 8 ai 13 metri, all’interno dei quali viene pompato un liquido chiamato fango, che ha la funzione di non far surriscaldare la punta, mantenere la stabilità del foro e riportare in superficie i detriti generati dalla punta. I pozzi possono raggiungere profondità di numerosi chilometri e ogni tubo è dotato di una filettatura maschio nella parte bassa e di una femmina nella parte alta per fare in modo che possano essere avvitati l’uno sull’altro. La parte superiore del tubo è poligonale e viene stretta in una tavola rotante con la stessa forma. Quest’ultima è la 5
petrolio parte che, mossa da un motore, trasmette il movimento ai tubi e alla punta. La struttura visibile e più caratteristica di questo sistema è il traliccio sovrastante, chiamato Derrick, che viene utilizzato per issare i tubi da aggiungere mano a mano che la punta scende in profondità, oppure da levare ogni volta che è necessario estrarre i tubi e la punta dal foro.
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er arrivare al giacimento petrolifero la punta deve passare attraverso numerosi strati ed è in questo che si presenta il primo rischio ambientale, con la possibilità di incontrare una falda acquifera. Per ovviare a questo problema all’interno del foro vengono calati e cementati dei tubi di acciaio che possano prima di tutto mettere in sicurezza il lavoro svolto, evitando che le pareti del pozzo collassino e, non meno importante, isolare qualsiasi operazione che sia di perforazione o estrazione dall’ambiente circostante. Il percorso della punta all’interno del sottosuolo viene monitorato attraverso l’analisi del fango che torna in superficie. Il tipo di detrito contenuto al suo interno è un indicatore dello strato che la punta sta scavando. È importante perché a seconda del tipo di roccia sono necessari degli aggiustamenti all’impostazione della macchina (tipo di punta e tipo di fango utilizzato) e anche
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una certa attenzione a quanto è distante il giacimento. Quest’ultimo è in pressione e certi tipi di fango vengono utilizzati proprio per impedire che gas e petrolio affiorino in superficie con violenza. Sono famose le immagini dei primi pozzi di petrolio dove alti spruzzi affioravano in superficie. Per ovviare a questo rischio sono presenti dei meccanismi di sicurezza, chiamati Blowout preventer (BOP), che chiudono il pozzo in situazioni di emergenza e permettono di ristudiare i settaggi per continuare con la perforazione. Un malfunzionamento di una valvola BOP è stato alla base dell’incendio verificatosi nel 2010 sulla piattaforma offshore Deepwater Horizon, uno dei più recenti disastri petroliferi e forse anche il più grosso della storia.
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e metodologie sviluppate nel corso dei decenni hanno permesso di ridurre, quando vengono seguite tutte le norme, l’impatto ambientale degli impianti. Purtroppo il settore è molto suscettibile ad atti di negligenza e non sono poi troppo rari anche dei veri e propri comportamenti criminali. La perforazione è una procedura molto delicata e ne va della riuscita stessa del pozzo che tutto quanto venga eseguito a regola d’arte, il vero problema sembra essere il contorno. Durante la perforazione vengono utilizzati tantissimi litri di fango, il quale viene contemporaneamente filtrato e riutilizzato. Scarti e fango stesso, a seconda della sua composizione chimica, sono dei rifiuti che andrebbero smaltiti con procedure apposite che non sempre vengono rispettate. Stesso discorso vale per la gestione dell’acqua di strato. Quest’ultima è l’acqua salata che è contenuta insieme a petrolio e gas naturale all’interno dei giacimenti e che viene in superficie insieme a questi durante il processo di estrazione. Non avendo nessuna utilità viene re-iniettata all’interno del giacimento e nonostante questo avvenga a profondità ragguardevoli, ci sono seri dubbi sulla pericolosità, sia in quanto ad inquinamento ambientale, sia per la possibilità che questa operazione possa in un qualche modo causare dei terremoti.
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L’estrazione del petrolio in Italia Più ombre che luci, tra mancanza di piani strategici e sfruttamenti intensivi. Gabriele Ludovici | gabriele.ludovici@decarta.it
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l petrolio, l’oro nero. Un tesoro dal valore che si può calcolare in numerosi parametri: alcuni quantificabili come il denaro, altri drammaticamente inestimabili come i danni causati dall’impatto ambientale. La storia ci insegna che la cupidigia, mischiata alla urgenza di tenere il passo con delle società sempre più dipendenti dai grandi consumi, non ha guardato in faccia agli aspetti legati al rispetto della qualità della vita umana. Un paradosso, un circolo vizioso che presenta luci accecanti ed ombre silenti. Per quanto riguarda l’Italia, si può prendere in esame la Basilicata. Definita come il Texas nostrano, la regione lucana ha vissuto sulla propria pelle la crescente petrolizzazione del territorio. Nell’articolo 38 dell’impianto della legge 164/2014, il noto Sblocca Italia, emerge chiaro e tondo un passaggio: “Le attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi e quelle di stoccaggio sotterraneo di gas naturale rivestono carattere di interesse strategico e sono di pubblica utilità, urgenti e indifferibili”. Tradotto in termini pratici, le vene martoriate della Basilicata sono nel mirino di nuove istanze di permesso di ricerca per garantire il successo del programma di petrolizzazione. Ma in termini di inquinamento, cosa comporta tutto ciò? Ne vale la pena? E qual è la situazione in ottica nazionale e mondiale? Partiamo da un dato amaro: il nostro piccolo regno del petrolio ha uno dei tassi di disoccupazione più alti d’Italia. A Viggiano, in provincia di Potenza (Val d’Agri), c’è la più grande piattaforma petrolifera d’Europa, ma allo stesso tempo l’inquinamento ha logorato gli altri settori dell’economia al punto che le attività
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vinicole non ottengono più riscontri di vendita. Le royalties ottenute dallo sfruttamento petrolifero non hanno fornito benefici economici ed occupazionali e i residenti lamentano le conseguenze dell’inquinamento anche in relazione alla propria salute. Il centro oli dell’ENI ha reso l’ambiente quasi invivibile, causando numerose malattie nei cittadini locali. Purtroppo la situazione lucana è speculare a quella degli altri territori nazionali dove la popolazione è costretta a convivere con il business dell’oro nero, nonostante le cronache giudiziarie abbiano evidenziato nel corso degli anni le collusioni con il malaffare. Basti pensare al processo autorizzatorio del sito Tempa Rossa per la Total nell’alta Valle del Sauro, salito alla ribalta negli ultimi mesi e che ha portato alle dimissioni del ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi. Si tratta solo della punta dell’iceberg, perché da quando in Italia si è trovato il petrolio si sono susseguiti numerosi scandali. Oltre al danno economico, la cattiva gestione di queste risorse arreca conseguenze irreparabili e vi rimandiamo ad un breve ed esaustivo dossier di Legambiente intitolato Sporco petrolio, pubblicato ad aprile. Fondamentalmente l’Italia non è un emirato che si affaccia sul golfo Persico, c’è poco petrolio e di scarsa qualità, difficile da estrarre in quanto sito in aree morfologicamente
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complesse e delicate.Tuttavia il particolare regime fiscale del nostro Paese attira numerosi investitori. Le royalties italiane sono irrisorie e si attestano sul 7% per le estrazioni di olio in mare e sul 10% su quelle relative alla terraferma; per quanto riguarda il gas, entrambi i valori sono fermi al 10% . Per fare un confronto: la Norvegia e la Russia impongono l’80%, la Danimarca il 70%, l’Arabia Saudita il 50% e la Guinea il 25%. Si, siamo il fanalino di coda mondiale in quanto a royalties ed esiste una struttura di esenzioni fiscali che nel 2015 ha permesso di esigere il “balzello” solo da 8 delle 52 compagnie in possesso delle concessioni.
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el decreto legislativo n. 625 del 25 novembre del 1996, che regola la gestione delle aliquote per la coltivazione degli idrocarburi liquidi e gassosi, emergono chiaramente i vantaggi della corsa al petrolio sul nostro territorio. Il comma 3 dell’art. 19 ci informa che “per ciascuna concessione sono esenti dal pagamento dell’aliquota (…) i primi 20 milioni Smc di gas e 200.000 tonnellate di olio prodotti annualmente in terraferma e i primi 50 milioni di Smc di gas e 50.000 tonnellate di olio prodotti annualmente in mare.” Inoltre nessuna aliquota è prevista per “le produzioni effettuate in regime di permesso di ricerca” (comma 2).
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petrolio Insomma, Much Ado About Nothing: l’Italia produce lo 0,1% del petrolio mondiale e pochi pagano il disturbo che dichiarano, per un ammontare di circa 352 milioni di euro (gettito anno 2015 dichiarato dal nostro Ministero dello sviluppo economico, buona parte erogato dall’Eni), seminando danni ambientali molto gravi.
produttivi, 27 non superavano la franchigia per il pagamento delle royalties. Si estrae decisamente più “roba” in Basilicata che sconquassando l’equilibrio del mare. In generale, occorre sottolineare che nonostante l’enfasi posta dagli esponenti governativi sull’aumento delle produzioni nazionali, ciò che viene estratto ha un’incidenza marginale sul fabbisogno italiano.
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ome riporta il dossier Trivelle in Vista pubblicato dal WWF nel 2013, l’oro nero è presente nel Mar Mediterraneo in quantità allarmanti, mettendo a repentaglio la spiccata biodiversità che caratterizza i tratti al largo delle nostre coste; in generale, si tratta di uno dei più importanti ecosistemi del pianeta. Lo sversamento in mare degli idrocarburi – spesso parallelo ad attività illegali come il lavaggio delle cisterne e lo scarico delle acque di sentina – danneggia l’economia delle aree coinvolte e minaccia l’habitat marino. Nonostante ciò l’Adriatico, il Mar Ionio e il Canale di Sicilia (definito dall’ISPRA “un patrimonio inimitabile di biodiversità”) sono minacciate dall’incremento delle trivellazioni. Inoltre le tecniche di estrazione prevedono pratiche come la batteria di air gun (una vera e propria detonazione “acustica”) e i dannosissimi fanghi e fluidi perforanti, composte da sostanze chimiche che includono metalli pesanti ed altri agenti inquinanti ignoti poiché protetti da brevetti. In aree vulcaniche come il Canale di Sicilia l’assalto petrolifero non può che destare preoccupazioni. Secondo i dati del UNEP/MAP (Piano d’Azione Mediterranea delle Nazioni Unite) nel Mediterraneo vengono immesse 600.000 tonnellate di idrocarburi e, a causa dei numerosi incidenti avvenuti negli ultimi trent’anni, questo mare ha il poco invidiabile primato mondiale dell’inquinamento. Delle circa 200.000 imbarcazioni di grandi dimensioni che transitano annualmente sulle sue acque, il 20% sono legate al trasporto del petrolio. Eppure, come accennato nel paragrafo precedente, le produzioni marine non sono così rilevanti e presentano dati così bassi che nel 2011, su 50 progetti 10
aperte per la ricerca e la produzione degli idrocarburi. Peccato che in queste porzioni di mare siano già presenti delle concessioni. Attualmente, al vaglio del Ministero per lo sviluppo economico ci sono 107 istanze domande per la ricerca, la prospezione, la coltivazione, la riattribuzione di giacimenti marginali e le concessioni di stoccaggio di petrolio e gas in Italia: le aree più interessate dalle ricerche sono ovviamente la Basilicata per la terraferma e la Zona F dei nostri mari, al largo della Puglia e della Calabria. In conclusione, nonostante la chiara pericolosità e i pochi vantaggi scaturenti da una politica di concessioni generose e semi-incontrollate, la tendenza dell’Italia è quella di puntare in maniera massiccia sul “far west” petrolifero. Le energie non rinnovabili godono ancora di grande considerazione, e i piani per il futuro non sono incoraggianti.
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a situazione delle fonti rinnovabili non appare rosea. Secondo la IEA (International Energy Agency), i sussidi alle fonti fossili nel 2012 ammontavano a circa 630 miliardi di dollari, contro gli 88 destinati alle rinnovabili. Non c’è alcuna traccia della volontà di ridurre l’impatto ambientale delle emissioni di CO2 e anche in Italia si agisce in controtendenza, partendo dal presupposto che si vogliano davvero onorare i famosi accordi internazionali sull’ambiente. Basti pensare che la SEN (Strategia Energetica Nazionale, approvata con un decreto interministeriale nel marzo del 2013) punta al raddoppio della produzione di combustibili fossili nel 2020, pur annunciando il dimezzamento delle zone marine DECARTA GIUGNO 2016
DECARTA GIUGNO 2016 Fonte: Ministero dello sviluppo economico - DGS-UNMIG - unmig.mise.gov.it - Aggiornato al 6 giugno 2016
Il petrolio italiano in cifre
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