Antonio Pizzuto - Sinfonia (1927)

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Antonio Pizzuto

Sinfonia (1927)

avieri


Questa Sinfonia, oggi restituita nella sua interezza dopo un’apparizione incompleta in rivista, fu scritta durante il biennio 192728, quando Pizzuto era un ignoto commissario della questura di Palermo. Il titolo – tratto da una prova del 1923 che versa alla gemella (considerata dall’autore una seconda redazione) anche un cospicuo tributo testuale – sarà ancora assegnato a una pagina del 1943 e al libro edito da Lerici nel 1966 e dal Saggiatore nel 1974, emblema di una narrativa che intende liberarsi dagli stereotipi del romanzo naturalista. Non a caso il “manifesto” che accompagna l’opera sancisce il rifiuto dello psicologismo, la rinuncia all’unità di tempo e spazio (sostituiti da una temeraria pancronia), l’abbandono di ogni tesi particolare e, in breve, del mondo euclideo. Ne consegue lo sfiancamento dello spazio retorico, ottenuto per cumulazione, per varianti ariostevoli incalzate dalla Lust zu fabulieren: la digressione è l’eroe del racconto. Mediante quattro tableaux musicaux (quelli che il “manifesto” chiama «stati puramente fantastici, lirici e mitici, originali») Pizzuto consuma qui il suo primo vero attentato contro i montanti della Realtà e del Romanzo: tra altre fantasmagorie vi concorrono un popolo vòlto alla riconquista di terre perdute, una espressionistica città tentacolare, una leggendaria invasione di serpenti, una creatura marina antropomorfa, una caverna disseminata di scintille, una spedizione chimerica per balze montuose. In questo scenario fluido, se accade che un prolungamento logico intrecci una storia, ne sarà solo l’ombra, l’accordo segreto, la risonanza. Già a quest’altezza la realtà è per Pizzuto mera ipotesi: la scrittura, sottratta a ogni principio ordinatorio, conduce il romanzo, e con ciò la vita, al campo del possibile.


collana ar no 9



Antonio Pizzuto

Sinfonia (1927)

FONDAZIONE ANTONIO PIZZUTO



Antonio Pizzuto

Sinfonia (1927)

a cura di Antonio Pane

avieri


Antonio Pizzuto Sinfonia (1927) A cura di Antonio Pane Lavieri editore / ISBN 978-88-89312-60-5 Arno n. 9 Collana a cura di Domenico Pinto Copyright Š 2009 Ipermedium Comunicazione e Servizi s.a.s. Lavieri Via IV Novembre, 19 81020 S. Angelo in Formis (CE) www.lavieri.it / info@lavieri.it


Sommario

Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9 di Antonio Pane

I. Eroica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19 II. La Follia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 51 III. Marinaresca . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 67 IV. Marcia funebre . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 89 Coda . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 107 Appendice . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 115 Nota al testo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 117 Tavola delle varianti dal manoscritto al dattiloscritto . . . . . . . . . . 123 Tavola delle varianti manoscritte del dattiloscritto . . . . . . . . . . . 139 Appunti a margine del manoscritto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 145



Introduzione

Un appunto riquadrato sulla pagina iniziale del manoscritto di questo libro ricorda che la «prima redazione» era stata intrapresa il 19 settembre 1923.1 Da quando il remoto incunabulo è venuto alla luce,2 sappiamo che il rapporto fra i due testi non è così pacifico. Sebbene versi alla nuova un cospicuo contributo (poco più di un quinto del totale), la «prima redazione» non può essere infatti derubricata a suo semplice stadio preparatorio, perché costituisce un plesso strutturalmente eterogeneo.3 Salutiamo dunque l’opera seconda di Antonio Pizzuto, anche se rimane la prima cui l’artefice abbia osato concedere qualche credito e il diritto a una conseguente diffusione, la cui storia è depositata nelle lettere a Salvatore Spinelli.4 La storia comincia il 27 agosto 1929, a circa nove mesi dalla conclusione della stesura dattiloscritta,5 quando il commissario Pizzuto, confinato nella questura palermitana, rivolge il suo accorato appello all’amico, ora funzionario dell’Ospedale Maggiore di Milano, con cui nella studiosa giovinezza ha condiviso passioni musicali e letterarie:6 Ho scritto un libro sul quale confido quanto nella tua amicizia, un libro che dovrebbe fare grande rumore, un libro d’arte, forse il primo saggio di una vera arte fascista. Sono qui, solitario, sconosciuto, senza amicizie. Devo lanciare il mio libro. Penso a te pel caso potessi presentare a Mondadori una mia letterarecensione che ti invierei e che non potrebbe non richiamare l’attenzione 1

Per una esaustiva descrizione del reperto si rimanda qui alla Nota al testo.

2

Antonio Pizzuto, Sinfonia 1923, a cura di Antonio Pane, Messina, Mesogea («La grande»), 2005. 3

Per una puntuale disamina del problema si veda l’Introduzione a Sinfonia 1923.

4

Raccolte in Antonio Pizzuto - Salvatore Spinelli, Ho scritto un libro… Lettere 1929-1949, a cura di Antonio Pane, introduzione di Lucio Zinna, Palermo, Nuova Ipsa («Scrittura mediterranea»), 2001 (d’ora in poi abbreviato in HSL).

5  6

Vd. Nota al testo.

Ampie notizie su Spinelli e sulla sua amicizia con Pizzuto si leggono nella sopraccitata introduzione di Lucio Zinna.


e preparare il terreno per una attenta lettura del mio lavoro e conseguente interessamento. Sei in grado di aiutarmi? Mondadori ti conosce?7

L’ignoto poliziotto non vola basso; ha una stima persino esagerata del proprio lavoro e la trasmette senza requie, con disarmante protervia, al suo patrono: Occorre guardare questa «Sinfonia» con occhio nuovo, perché essa non è sorta dal passato, ma soltanto dopo il passato e non ha alcun elemento comune con le opere che sono state pensate e scritte prima. […] Ora io non ti nascondo che la mia ansietà, la mia angoscia, anzi, cresce a dismisura man mano che i primi contatti, le prime letture mi provano la difficoltà dell’intelligibilità del mio lavoro. D’altra parte non so porvi riparo. Ho già contenuto quanto potevo la mia audacia (che sarebbe stata ben maggiore se non l’avessi frenata energicamente) sacrificando ispirazioni che giudicavo troppo ardite. In un altro lavoro non potrei seguire altra strada: con essi mi inoltrerò sempre più in quella che la mia coscienza artistica mi addita.8 Tutti i grandi riformatori hanno dovuto affrontare lo scherno e sopportare, più o meno a lungo, l’incomprensione prima di avere ragione dei pregiudizi e dei facili giudizi di condanna. Io, che sono non un grande riformatore, ma soltanto un riformatore, so già le lotte che mi attendono per abbattere le mura ciclopiche dell’indifferenza e della diffidenza. […] Ma ti giuro che la mia diletta Sinfonia è qualche cosa, se non molto, e merita un po’ di attenzione: non foss’altro, pel fatto di avere dischiuso, non più a parole, ma coi fatti, nuove vie e di avere portato ad una svolta inattesa il tran tran della produzione letteraria d’oggi.9 In un momento di così pietosa miseria e sterilità intellettuale come si fa a non raccogliere una voce nuova? a contenere una curiosità quale avrai certo destata? C’è tale dovizia di scrittori degni di questo nome in

7

HSL 61 (27 agosto 1929).

8

HSL 63-64 (29 ottobre 1929).

9

HSL 66-67 (8 febbraio 1930). 12


Italia da oscurare un artista nuovo e vero che si rivela? da far sì che ci si possa permettere il lusso di trascurarlo?10

Comunque sia, i tentativi di promuovere la stampa del libro vanno a vuoto. La mediazione di Spinelli si esercita su Angelo Gatti, su Giuseppe Antonio Borgese, entrambi “cavalli di razza” della scuderia Mondadori, e su Cesare Giulio Viola. La loro sordità è denunciata in varie missive. Prima di defilarsi,11 Angelo Gatti «domanda cosa che non c’è se non a mia insaputa. Solo il critico può rispondergli ed io non lo sono».12 Giulio Cesare Viola, avuto il libro in lettura, si eclissa.13 Silente per più di un anno, il conterraneo Borgese sentenzia da ultimo «che l’insieme è arido o troppo infuocato e che non lo sente»;14 e non corrisponde nemmeno alla preghiera «di far pubblicare sulla “Lettura” qualcuno degli episodi, p. es., quello dei serpenti».15 Naufraga poi la speranza di veder tradotto per una rivista tedesca quest’ultimo brano: l’amica d’oltralpe che si è offerta di allestire la versione «non appena le copiai il pezzo e glielo diedi, non si fece più viva».16 Dopo questi brucianti rovesci Sinfonia sembra destinata all’archivio dei passi perduti. L’unica volta che acconsente di parlarne, a pochi mesi dalla morte, in risposta a una sollecitazione di Paola Peretti, Pizzuto non è tenero: «La mia prima “Sinfonia”, per me, ha uno scarso valore. Io non l’ho riguardata, perché il manoscritto è grosso così, scritto in una scrittura brutta, che avevo allora».17 Ma il ripudio, esteso peraltro all’intera produzione precedente Signorina Rosina, non dice tutto. Non dice che il libro, per quanto disconosciuto, resta comunque il vero atto di nascita dello scrittore. Perché i confidenti fervori e generici impulsi che avevano suscitato l’effusa fioritura di Sinfonia 1923 sono ora sorretti da una più macerata coscienza del compito, un rovello espresso dalle chiose a margine del manoscritto e dal breve manifesto di poetica18 che a sua volta riassume una riflessione di più vasto raggio, quella 10

HSL 69 (22 ottobre 1930).

11

Vd. HSL 73 (19 gennaio 1931).

12

HSL 62 (29 ottobre 1929).

13

Vd. HSL 72-73 (19 gennaio 1931).

14

Vd. HSL 81 (6 marzo 1931).

15

Ibidem.

16

Vd. HSL 79 (24 febbraio 1931). Fra le carte di Pizzuto si conserva un dattiloscritto di cinque fogli intitolato Episodio dei serpenti, probabilmente predisposto per queste eventualità.

17

Pizzuto parla di Pizzuto, a cura di Paola Peretti, introduzione di Walter Pedullà, Cosenza, Lerici («il laboratorio»), 1977, p. 90.

18

Le Otto rinunzie e un proposito, qui in appendice al testo. 13


affidata alla conferenza Appunti di Nuova Estetica, letta a Palermo, nella sede della «Biblioteca Filosofica», il 4 giugno 1930.19 E perché nel tessuto “brutto” del libro si annidano germi vitali, che l’autore continuerà tacitamente a coltivare, ritornando su vari motivi (e riesumando lo stesso titolo, che tiene a battesimo una breve narrazione del 194320 e l’opera scritta fra il 1964 e il 1966).21 Così Rapin e Rapier (composto tra il 1944 e il 1948) risuscita il mito dei serpenti (nel cap. II) e quello di Vaan (nel cap. XI), riproponendo, pressoché identica, la Coda; e Sinfonia 1966 rielabora, a più rapide frequenze, oltre i serpenti e Vaan (allogati rispettivamente nella prima lassa, Serpentina,22 e nella dodicesima, Marinaresca), la «foresta in cammino» (nella seconda, Venatoria) e la saga dei primi uomini (nella quattordicesima, Ipotetica).23 Meglio che come opera a sé stante, questa seconda Sinfonia va dunque vista quale snodo nevralgico del percorso creativo di Pizzuto. La sua principale novità è il passaggio dalla prevalente dimensione filosofica (intrisa del fenomenismo di Cosmo Guastella) e dal taglio spesso saggistico di Sinfonia 1923 a un respiro più apertamente narrativo, distribuito in grandi quadri visionari, quelli che il menzionato breviario estetico chiama «stati puramente fantastici, lirici e mitici, originali».24

19

La conferenza fu annunziata su «L’Ora» del 31 maggio-1 giugno e sul «Giornale di Sicilia» del 3 giugno.

20

Un racconto inedito di Antonio Pizzuto, a cura di Antonio Pane, «Microprovincia», n. 44, nuova serie, gennaio-dicembre 2006, pp. 147-150.

21

Antonio Pizzuto, Sinfonia, Milano, Lerici («Collana Narratori / Nuova serie»), 1966; ristampata, con varianti, Milano, Il Saggiatore («Opere di Pizzuto»), 1974.

22

Con un richiamo interno nell’ottava, Natalizia: «raccontami di quando c’erano sulla terra tutti i serpenti». Vd. Sinfonia, cit. (ediz. Il Saggiatore), p. 75.

23  Un ulteriore riferimento all’episodio dei serpenti raggiungerà l’incipit di Piccolo albergo: «Accorate memorie; ove Serpentina, e lo Spirit of St. Louis». In Antonio Pizzuto, Pagelle I, traduction française, notes et commentaires de Madeleine Santschi, presentazione (nei risvolti di sovraccopertina) di Silvia Longhi, Milano, Il Saggiatore («Scritture»), 1973, p. 39. 24

Per questo aspetto, il credo del giovane Pizzuto è contiguo a una proposta coeva di Bontempelli (a lui e al suo movimento si può forse ricondurre l’equivalenza che Pizzuto sembra stabilire tra arte fascista e arte moderna): «Occorre riimparare l’arte di costruire, per inventare i miti freschi onde possa scaturire la nuova atmosfera di cui abbiamo bisogno per respirare». Vd. L’avventura novecentista, in Massimo Bontempelli, Opere scelte, a cura di Luigi Baldacci, Milano, Mondadori («I Meridiani»), 1978, p. 750. L’importanza del mito sarà ancora ribadita in una lettera a Salvatore Spinelli (17 settembre 1952): «Il mito è parte essenziale ormai della coscienza estetica contemporanea». Vd. Antonio Pizzuto - Salvatore Spinelli, Se il pubblico sapesse… Lettere 1951-1963, a cura di Antonio Pane, introduzione di Lucio Zinna, Palermo, Nuova Ipsa («Scrittura mediterranea»), 2003, p. 45. 14


Certo, non tutte queste invenzioni risultano felici. L’epopea guerriera del principe Jarag che, dopo l’assassinio rituale del padre, guida il suo popolo alla riconquista delle terre perdute, vanta cadenze e scenari da “film in costume” (in auge proprio negli anni venti), con scialo di primi piani e dettagli ad effetto (spesso macabri), attingendo una solennità statuaria, monumentale, che il testo non teme di rivendicare: «Questo giorno, questo incontro, quello che oggi accadrà sono scolpiti nella pietra». E la Marcia funebre – bizzarro coacervo che allinea fanciulle accecate, un bambino paralitico, un mesto corteo, teorie di madri prone sui figli morti, una chimerica ricerca per balze montuose, un’apparizione mariana – soggiace a un patetismo mistico-devozionale degno di miglior causa. Altre invece non mancano di pregi: vivide, potenti, sorgive, e svolte con adeguata maestria, garantiranno, come si è anticipato, all’altezza di Rapin e Rapier e della Sinfonia 1966, la sopravvivenza di quel registro mitico-fantastico che l’autore sarà per il resto portato a dismettere. Assente o mimetizzata nei segmenti di nuovo conio, l’enunciazione della Weltanschauung pizzutiana resta in gran parte appesa alla zona di Marinaresca importata da Sinfonia 1923, vale a dire al tratto delle Scintille, dove l’idea di una realtà cangiante e inafferrabile come i sogni (una platonica «parvenza sullo schermo del cielo»), dello scacco sofferto da ogni tentativo di conoscere il mondo, precipita infine nel viottolo a spirale che si dissolve ad ogni passo. Esse est percipi: ogni percezione annulla la precedente; la conoscenza procede precaria di arrivo in arrivo. Lo stesso accade a ogni velleità di individuazione: «Ignorare se stesso, credere di essere, e di essere un io, e sconoscere quest’io».25 E la marca novecentesca di queste vedute è ulteriormente confermata dall’omaggio a Lorentz e alla formula delle sue celebri trasformazioni, battistrada, è noto, della relatività einsteiniana e, subito dopo, da un’allusione all’eclissi del 1919, che confermò brillantemente le predizioni di Einstein (una spia indiretta di questa temperie mentale è costituita, sempre in Marinaresca, dall’epifania del «giovinetto che, a cavallo del mostro, per primo traversava d’un fiato da un capo all’altro l’oceano»: riverbero, secondo Maria Pizzuto,26 del recente entusiasmo per la trasvolata New York-Parigi, compiuta dal ven25

Il pensiero avrà altre formulazioni: «Il compito da risolvere era ben altro: l’esplorazione di ciò che chiamiamo Persona, di quanto compendiosamente passa sotto la misteriosa sillaba io» (Antonio Pizzuto, Così, a cura di Antonio Pane, Firenze, Polistampa, 1998, pp. 94-95); «Molto lo angustiava anche questo: chi siamo noi così misteriosi, inconoscibili a noi stessi» (Antonio Pizzuto, Signorina Rosina, a cura di Antonio Pane, Firenze, Polistampa, 2004, p. 89).

26

Vd. Martin Po, Sinfonia prima (in quattro tempi), a cura di Maria Pizzuto, «Poliorama», 2, 1983, p. 233. 15


ticinquenne Lindberg, a bordo dello Spirit of Saint Louis, il 20 maggio 1927). Ai margini di questa regione, una nota inedita è invece costituita dall’empito religioso di Marcia funebre, frutto, è da credere, della conversione (seguita a un periodo di giovanile ateismo) ricordata nelle pagine di Sul ponte di Avignone:27 la fede cristiana sarà d’ora in poi per Pizzuto il provvido contrappeso del deficit gnoseologico. L’altro precipuo interesse del libro risiede nel suo rapporto con la “riforma” di cui si pretende araldo. Fra le «rinunzie» chiamate a scardinare, partendo dall’«unità narrativa» e dall’«unità di azione», i capisaldi del romanzo naturalistico, la più traumatica è il rifiuto di «limitare la narrazione nel tempo e nello spazio», passaporto degli audaci voli che segnano il corso del racconto, soprattutto nella seconda e terza parte. La Follia passa dalla crescita impetuosa e caotica di una moderna metropoli (probabilmente esemplata su New York), con un suo efferato corollario di bidonville, all’acronico e indefinito paesaggio di una spettacolare invasione di serpenti che distrugge la civiltà umana, per retrocedere, attraverso il viatico di una inverosimile glaciazione, alle origini stesse della terra, alla comparsa dell’uomo e alla scoperta della sua mortalità. Sulle movenze da commedia brillante di una luna di miele in veliero Marinaresca innesta la fiaba della creatura marina antropomorfa e dei suoi amorini (che avvisteranno l’aereo di Lindberg) e su questa l’incubo del mare che si addensa sino a solidificarsi,28 e quindi la luminaria della pioggia di scintille che cade in una caverna, svariando infine da un vecchio venditore di cartelle della lotteria in una grande città, all’Olanda di Lorentz, alla guerra siracusana raccontata da Tucidide.29 La rinunzia alla «presentazione di un ambiente, di un mondo determinato» è particolarmente attiva in Eroica, dove il popolo nomade contamina prerogative di orde germaniche, tartare, ariane,30 e percorre un terri27

Vd. Antonio Pizzuto, Sul ponte di Avignone, a cura di Antonio Pane, Firenze, Polistampa, 2004, pp. 143-144.

28

Con un ricordo, forse, del mare nordico, pigrum ac prope immotum, di Tacito, Germania, XLV.

29

Le storie, VII, 50, 78-87.

30

In Pizzuto parla di Pizzuto, cit., p. 95, lo scrittore dichiara che il libro «fu fatto anche in un momento in cui ero innamoratissimo di sanscrito, … i Veda, tutta quella roba lì… quindi l’uso dei nomi, di terminologie che oggi non ci sono più, sono tutti presi dal sanscrito». Secondo il prof. Francesco Sferra, che ringrazio per la cortese consulenza, dei nomi presenti in Eroica (Cloe, Dasa, Gianas, Jarag, Oga, Ptar, Sanirilla, Sinina, Vahas, Zankana), solo alcuni potrebbero essere in qualche modo ricondotti alla lingua dei Veda: Dasa a Dāsa, o Daśa (dieci), o Dāśa (marinaio, pescatore); Gianas a Jana; Jarag a Jaraka (nome di una pianta); Oga a Ogha; Ptar a Pitr / Pitar; Vahas a Vāha; Zankana a Śan˙kana. ˚ 16


torio composito, in cui entrano elementi mediterranei e latini: «vigneti» e «oliveti secolari», «acquedotti dalle innumerevoli arcate» e la «splendida villa di un celebre filosofo ed usuraio» (probabile allusione a Seneca). Disattesi, o non rigorosamente attuati riescono invece, in questa sezione, gli interdetti contro l’«unità narrativa» (l’azione vi è ben circoscritta sia nello spazio che nel tempo) e contro lo «psicologismo» e lo «studio dei personaggi» (il principe Jarag è disegnato in tal direzione non senza acribia, sul tipo del capo carismatico, solitario e fiero). Queste incongruenze, cui si aggiunge la faute di una scrittura che l’autore definisce «brutta» (cioè, si può credere, non bastevolmente prosciugata), ci fanno ritenere che il «proposito di realizzare una nuova espressione artistica in sostituzione del Romanzo» non sia stato, in questa sede, pienamente esaudito: l’edificio non è pari al progetto; o, meglio, il “manifesto” che lo correda ne sopravvaluta i pregi. Pizzuto sa dove andare, ma non ancora come arrivarci. Per compiere il suo viaggio non gli basterà una vita.

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Sinfonia



I Eroica

Come è, durante la notte, delle fontane nelle piazze deserte, così, nella solitudine, scrosciavano le acque sotto le boscaglie, mentre i falchi roteavano in alto, stridendo. Poi il monotono incanto fu rotto. Da tutti i margini della foresta apparvero torme di selvaggi cavalieri, dalle sciabole corte e ricurve. Scendevano pel pendio della verde montagna nella vallata. Giunti in pianura, i loro piccoli cavalli si tuffarono nell’acqua a bere. Nei bivacchi eravi pure qualche donna e dei lattanti. Accesero i fuochi e l’alone di vapore levantesi dagli spiedi tremolava nell’aria limpida sotto il sole. Le anguille, infilzate vive, si torcevano arrostendo. Saziata la sete e la fame, essi si abbatterono nel riposo. All’alba erano già ripartiti. Altre torme seguirono, giorno per giorno. Alcune, raggiunta la valle, non si soffermavano. Raddoppiavano, invece, l’andatura, come fossero inseguite. Le retroguardie si volgevano di frequente indietro a guardare in alto, verso la sommità della montagna, se dalle bocche spalancate delle boscaglie apparissero gli inseguitori. Vi erano facce esterrefatte, macilente, dagli occhi iniettati di sangue, dalle labbra livide tra le barbe arruffate o sotto radi baffi rossastri. Le compagne cavalcavano sulla stessa groppa, le gambe nude. Gli sguardi dei più erano di uomini dimentichi di tutto: provenienza, vicende, meta. Nel risalire le valli, nei guadi, nelle soste, pareva si abbandonassero al capriccio dei loro tozzi quadrupedi dalle criniere biondicce ed incolte. Gli aridi occhi ardevano di terrore o di cupidigia: sguardi di assetati in cerca di una sorgente. Una notte una di queste tribù soggiacque a tanta stanchezza che sui corpi addormentati strisciarono indisturbati i grossi rospi delle prode. Ma li incalzava un impeto cieco di proseguire, oltrepassando le valli sterminate una dopo l’altra, risalendo sempre il corso del fiume maestoso. Trasportato dalle morbide ondate, si vide, in un tardo e livido pomeriggio, venir giù nella corrente il cadavere gonfio di un decapitato. Dalle due rive le colonne di cavalieri levarono grida e clamori di scherno o di materna pietà.


Apparve, infine, nella pianura il grosso della fiumana migratrice: il popolo a piedi, turbe di ogni età e condizione avanzanti lentamente fra le soldatesche veloci. Due cose segnavano ormai la direzione ai venienti: i carcami che scendevano sempre più frequenti lungo il fiume, ed erano gonfie carogne di cavalli e di cani, pertiche su cui rimanevano attorcigliati maceri virgulti di pergole o di ortaggi, otri gonfiati in forme di grotteschi fantocci, resti di ogni genere capaci di galleggiare; e, alti nel cielo, gli stormi gracchianti degli uccelli predatori. Nella marcia lenta e tenace i sopraggiunti accendevano i fuochi sulle stesse ceneri lasciate dagli altri accampamenti e a poco a poco si disegnavano le viottole e le radure nell’erba calpestata e nella terra smossa dagli zoccoli. Talvolta al tramonto si levava dalle colonne in marcia, risonante nelle vallate, un canto solenne e vibrante. Qualche mischia sanguinosa, subitamente insorta, inchiodava per sempre, tra gli avanzi dei pasti, uno, due soldati; e subito i corvi calavano a scavarne le orbite, il naso, le labbra alle fiumane delle formiche e dei vermi. Ma, a guardare dall’alto, tutto era ancora bellezza calma e rigoglio, poiché l’invasione lasciava una traccia sottile, appena percettibile, nella distesa lussureggiante delle valli brillanti sotto il sole. Le ultime falangi, le più eterogenee e indisciplinate, varcarono la pianura molti e molti giorni più tardi. Eranvi ragazzi avidi, che si slanciavano a predare sui caduti e li rotolavano, disillusi e irritati, nei flutti. La stanchezza e l’indolenza appesantivano i più e per costringerli a riprendere il cammino non di rado furono adoperati gli scudisci. Molti, però, rimasero per sempre sul campo e per gran parte della notte, dopo la partenza dell’ultimo nucleo, durò il lamento lacerante di qualche infante dimenticato o scivolato giù da una sella, finché le bestie scendenti dai boschi a dissetarsi non lo fecero tacere. «Egli ama precederci perché predilige la solitudine, non per esplorare la via. E veramente, poiché seguiamo l’esercito, che cosa avrebbe da esplorare e a qual fine? E perché, poi, non mi chiede una scorta, ma, tanto spesso, con una brusca galoppata, quasi ci fugge e lo ritroviamo poi immobile accanto al suo cavallo, con lo sguardo sperduto a contemplare la pianura deserta dall’orlo di un precipizio?» «Forse, Sire, cerca quello che tutti noi, credo, andiamo cercando con tanta sete: una polla di acqua viva, come la descrive il nostro elegante poeta…» «Oh, no. Debbo credere non lo sappiate che non bevve mai nell’acqua vivente? Tu che lo educasti – dove sei? avvicina – non avrai certo mancato 22


di divulgarlo a tutta la corte perché tutto il regno lo sapesse. Più volte io gli feci trovare nel suo proprio letto le più acerbe frutta e mai ne volle. Io mi ponevo con costui – te ne ricordi? – dietro le fessure apposta praticate. Quando entrava, fingeva di non vederle. Si affacciava alla finestra a respirare l’aria notturna. Quelle, o sospiravano, o con piccoli gemiti lo richiamavano mormorandogli “Vieni, mio bel principe”. Allora, tranquillamente, e con quel suo benevolo sorriso, egli si avvicinava. Guardava quei corpi appetitosi senza trasalire. Come mai si può fissare il sole di mezzogiorno senza socchiudere gli occhi? Le prendeva per mano, fossero due, fossero tre, una alla volta, e le faceva rialzare. Esse allora levavano piccoli gridi di resistenza. Ma egli cessava di sorridere e con mano ferma, risolutamente, le conduceva alla porta e le rimandava con una cortese parola, senza pentimenti. Poi ritornava alla sua finestra e non si muoveva di là per quanto attendessimo.» «Tuo figlio, Sire, è uno scettico: tu sai la mia profonda conoscenza del cuore umano. Egli professa dottrine filosofiche imparate qui stesso, durante gli anni in cui tu ve lo tenesti per educarsi. Sono dottrine assai lunghe a spiegarsi, ma tendono all’annullamento del mondo mediante l’allontanamento dei sessi. Quando vedeva una donna egli la sfuggiva con orrore e mi confidava, spesso, (era allora sedicenne) che esse non lo turbavano e mi esponeva quanto i maestri di qui gli andavano insegnando. Un giorno lo accompagnai da questi maestri e, in sua presenza, li interrogai sul loro insegnamento. Contrapposi alle loro dottrine le mie, finché, vinti, mi proclamarono di non avere mai discusso con un uomo tanto sapiente, offrendomi di rimanere con loro per la fortuna della gioventù. Respinsi dicendo che il mio Re mi aveva affidato l’educazione di Suo figlio e che non avrei abbandonato il compito se non per riprendere la mia carica di grande ufficiale della Corte e di gran Maestro dell’esercito, pel bene del mio Sovrano…» «Ed egli?» «Chi?» «Il principe nostro.» «Naturalmente confessò che non poteva sostenere oltre la disputa. Allora…» «È là, lo vedete? Egli ci fa segni. Cessa le tue chiacchiere e svegliali, questi cavalli che camminano dormendo. Guarda dove è rimasta la colonna. Andrebbero più veloci se procedessero a piedi.» «Il sole è cocente, Sire, e la via erta. Or ora comandai al mio aiutante di accelerare l’andatura.» 23


«Che hai trovato?» «Guarda.» «Io guardo, ma non scorgo nulla di importante: non una casa, non una villa, non un uomo. Che vedi tu?» «Guarda meglio, Sire. Dappertutto vi sono i segni della battaglia. Di fronte a te, dietro le alture, si leva il fumo. Là si incendia e si saccheggia. Vi erano le ville estive dei grandi dignitari dello stato. Alla tua sinistra, sulle cime delle colline, dovremmo vedere, a quest’ora, accampamenti di nostri. Ne scorgi tu?» «Sono deserte.» «Io vidi rotolare giù tronchi di alberi e massi. Se i nostri non sono riusciti ad occuparle, hanno sorte terribile. Essi trovano ostacolo a ripiegare. Altri nemici calarono forse in agguato alle loro spalle.» «È certo.» «A destra, infine, laggiù, dove il fiume fa gomito, lo scintillìo dell’acqua si smorza a tratti, mentre una nuvola offusca il sole. Anche là vi è forse carneficina, e forse la corrente ci reca incontro cadaveri e cadaveri di popolo nostro.» «È vero. Che faremo? Tu hai udito il principe. Hai un piano da attuare subito per accorrere in aiuto?» «Sire, tu lo sai, non abbiamo qui che quattrocento uomini di cavalleria. È truppa stanca e non reggerebbe ad una galoppata fino al tramonto per raggiungere le colline.» «Ebbene?» «Io osservo, anzitutto, che il principe Jarag ha fatto soltanto congetture. Conosco bene il suo pessimismo. Egli è rimasto quale tu me lo affidasti fanciullo. Tutto è nero per lui e al nulla la sua fantasia dà vita e forma. Quelle fumate di laggiù sono segni di saccheggio? Ne dubito. Possono essere tante, tante altre cose e bisogna andar cauti nelle ipotesi, scegliendo sempre le più semplici e naturali. E poi, se vi è incendio e saccheggio, ciò implica che la vittoria è dalla nostra parte. Quanto al fatto che non si scorgono ancora sulle alture i nostri soldati, quello che possiamo concluderne è che le previsioni non si avverano mai e che l’esercito procede meno velocemente di quanto era presunto. Il rotolare giù di tronchi d’albero e di massi e le macchie sul fiume ci dicono, infine, ben poco. Anzitutto, chi muove alla conquista deve sapere che dovrà pagare il suo tributo di vittime. Tralascio di osservare che tali fatti possono non avere relazione con l’avanzata dei nostri e che, spingendoci avanti, avremo, con ogni probabilità, di che spiegarceli agevolmente come eventi fortuiti e, perché no?, come apparenze senza costrutto di fatti semplici e naturali. Non ci 24


sembra di vedere, di nottetempo, presso i letti, persone in agguato che erano solo le nostre vesti? Comunque, gli eventi confortano i miei sistemi di guerra che i capi, cioè, debbono seguire e non precedere le truppe per avere tempo di giudicare, libertà di intervento nell’impiego delle riserve per l’azione decisiva e scelta del punto in cui impegnarla.» «Ho fiducia in te. Ma accorriamo. Che tutti proseguano al galoppo.» Laggiù, intanto, era la strage. Nelle ville invase i signori organizzarono una difesa disperata. Ed ora, attraverso le mura, lingue di fiamma crepitanti, lambendole, salivano a bruciare le teste dei decapitati infisse sulle aste e sulle lance sporgenti dalle finestre. Altre teste umane erano confitte ovunque, sulle cime sfrondate degli alberi, sulle rocce aguzze, sui ferri contorti dei cancelli, sulle quattro zampe all’aria dei cavalli uccisi e trascinati a ridosso delle scarpate; e se qualcuno di essi si abbatteva sul fianco, i miseri resti umani si schiacciavano contro il terreno fangoso e rosso, fra cataste di corpi massacrati. La mischia si propagava sempre più verso l’interno. Ripetute volte le carovane del popolo migrante furono prese in mezzo tra le falangi delle proprie soldatesche accorrenti da tergo e quelle opposte agli invasori, e il macello riprendeva tra clamori furibondi e grida di terrore. Dopo tanta inevitabile strage tutti gli inermi e le loro donne trovarono lance, sciabole, ferri e forza per aprirsi un varco e una via di scampo. Dalla mischia caotica sorsero finalmente due eserciti fronte a fronte, trincee e difese e camminamenti, pei quali le torme del popolo decimato si avviavano a campi di concentramento riordinandovisi. Si udirono ordini militari; poi il sopore si distese greve per tutto il terreno, che si muoveva nei contorcimenti dei corpi umani ed equini agonizzanti. All’alba l’invasore trovò sgombro il cammino, credette vinto e fuggito il nemico, e riprese l’avanzata sotto lo stimolo della fame. Le turbe marciavano ora su splendide strade, linde e diritte, all’ombra di pini giganteschi. Ovunque erano i segni di una civiltà mai fino allora incontrata. I campi deserti erano tutti mirabilmente coltivati, erano tappeti di ortaglie alternantisi con magnifici vigneti e con oliveti secolari. Una fitta rete di canali recava l’acqua alle colture e ai vivai e la corrente del fiume dava vita ai molini o rigurgitava alle prese precipitando nelle vene degli acquedotti dalle innumerevoli arcate. «Supponi che uno di noi si ponga a scivolare sopra un pendio come, ad esempio, questo alla nostra sinistra, per raggiungere, poniamo, più rapidamente il fiume – e chi di noi non ha fatto qualche cosa di simile? – e che una mano ci capiti in un ciuffo d’erbe e una vipera irritata ci mor25


da un dito. Nessuno di noi penserebbe certo di bendare subito la ferita. Prima cura di ciascuno sarebbe indubbiamente di far colare abbondante sangue, che lava e porta via i veleni depositati nella carne dal dente del rettile. Poi laveremmo la ferita con l’acqua pura del fiume e solo allora si penserebbe a fasciare il dito, lasciando al tempo la cura di risanarlo. Io domando al tuo medico se ho detto bene.» «È esatto, ma bisognerebbe sorvegliare con quotidiane ispezioni la ferita e continuare a lavarla giornalmente, cambiando la fasciatura.» «Naturalmente. Ora io ti dico, Sire, che non altrimenti deve concepirsi il compito della guida militare in un caso come il nostro. Altro è condurre un esercito alla battaglia, altro spingere avanti quasi un intero popolo. Tu sai se ho saputo reggere il comando dei tuoi eserciti in tutte le battaglie. Ma un popolo non si può comandarlo: si può solo sorvegliarlo mentre esso si trova da sé la via e il suo destino. Non dolerti di questi morti. Essi sono il sangue avvelenato che doveva venir fuori. I più deboli sono caduti e cadranno. Quando arriveremo alla meta, avremo con noi solo guerrieri ed uomini validi e guai se non fosse così. Checché ne pensi tuo figlio, nostro signore, ma immemore dei miei ammaestramenti, i popoli si guidano da tergo e re e condottieri devono seguirli, non precederli.» «Non un messo mi è giunto. O tutti sono morti, o hanno dimenticato il loro re.» «Bando a questo timore. Volgi la testa. Eccoli, i nostri belli cavalieri, possenti, bene armati, intatti. Sono quattrocento. Ci seguono fedelmente, senza lamentarsi. Dove e quando li lancerò, essi avranno la vittoria e riconquisteranno. Soggiogherebbero l’intero tuo popolo, se tutto si ribellasse.» «Quando partimmo dalla Reggia, ed io ero alla testa, il popolo mi onorava come un Dio. Cantavano tutti inni guerrieri. Ora, che penseranno di me? Che li ho abbandonati e mi abbandoneranno. Che pensi tu, così taciturno, così cupo in faccia, così irato?» «Penso, Sire, che il nostro posto non è qua.» «Tu lo senti. Anche mio figlio è dello stesso avviso. Il nostro posto era laggiù, alla testa.» «Due cavalieri si avvicinano al galoppo, nella pianura.» «Dove sono?» «Vicini all’ansa del fiume.» «Essi mi cercano. Non si sa più neppure dove io mi trovi. Ptar, chiamali.» «E come? Non ci udrebbero e sarebbe pericoloso levare clamori. Fermiamoci e aspettiamo che alzino la testa: ci vedranno.» 26


«Fai rotolare giù pietre.» «Ci scambierebbero per nemici. Aspettiamo, Sire.» «Inermi, senza elmo, essi mi dicono prima ancora che giungano e parlino quale fu la sorte del mio esercito.» «Questi ufficiali ed io restiamo fiduciosi. Ma è vano, forse, sostare in attesa dei messi, perché non troverebbero sentieri per salire quassù. Lasciamo che vadano pure oltre. La città è ormai vicina e i nostri saranno certo là, o da occupanti, o da assedianti. Guarda, Sire. Noi scenderemo ora nella pianura per quel sentiero, lasciando qui i cavalli. Li ritroveremo alle falde della collina, dall’altra parte, prima del tramonto. Nella notte io vi condurrò a riposare in una splendida villa di un celebre filosofo ed usuraio che sta nascosta dietro quei grandi boschi che tu vedi là in fondo, a destra. Io vi fui, or sono quindici anni, col principe Jarag, che vi dormì. Te ne ricordi, principe? Nessun soldato vi sarà giunto certamente prima di noi, poiché essa è ben lontana dalle vie militari e da ogni sentiero. Chi sa a prezzo di quali fatiche gli schiavi di questo furbo sapientone trasportarono là dove essa sorge, nella piena foresta, i materiali occorsi per edificarla! A due giornate di cavallo è la città. Tu potrai, Sire, stabilirti nella villa per seguire le vicende dell’esercito.» «No, Ptar. Noi vi dormiremo soltanto. Domani io voglio rivedere i miei soldati e il mio popolo.» «… Durante la notte manderemo altri messi, a destra e a sinistra. Entro domani tu saprai quali furono gli eventi e le fortune dei nostri. Il principe Jarag scriverà, come egli solo sa fare, un messaggio in tuo nome ai capi delle nostre truppe e queste andranno domani alla vittoria. Noi prepareremo il tuo ingresso trionfale nella città conquistata.» «Tu credi?» «Occorre credere. Come si potrebbe vincere senza credere? Durante tutta la mia lunga vita d’armi io …» La foresta si ergeva, acclive, a perdita d’occhio, da ogni lato, arrampicandosi sui fianchi della montagna fino alla cresta, dove si addentrava nella nebbia. Il Re, suo figlio, il suo generale, gli aiutanti, il seguito, i drappelli della riserva smontarono dai cavalli e procedettero lentamente verso la vetta. La tortuosa fila di uomini e di quadrupedi stendentesi dal basso in alto lungo gli angusti passaggi e gli spazi tra albero ed albero si distingueva ora appena sotto l’ultima luce crepuscolare e scomparve infine nel fogliame. Tutto, all’intorno, sapeva di agguato, di tregua. La massa degli invasori percorse compatta le vallate, decimata alle falde delle montagne, si 27


spezzò in innumerevoli piccoli nuclei di uomini disorientati, ciascuno dei quali si annidava dove era possibile: in un cespuglio, dietro i blocchi di macigno, nelle anfrattuosità del terreno, sotto una roccia protesa sull’orlo dell’abisso. Ciascuna delle anguste grotte aperte lungo i fianchi scoscesi dell’altipiano, fino a valle, fu occupata da due, tre fuggiaschi, senza armi e brucianti di sete. Altri dispersi si nascondevano nel cavo di qualche vecchio olivo, entro la stessa cerchia nemica, ignari forse di essere ormai preda senza scampo. E ancora si disegnavano nella notte forme umane di superstiti ricercanti affannosamente un riparo introvabile. Incontro a loro pattuglie e scolte dell’esercito vincitore frugavano nelle macchie, accerchiavano le rupi e i rifugi e vi si precipitavano a massacrare quanti eranvi rannicchiati. E urli subito soffocati avvertivano della preda, lacerando la quiete apparente della notte. Allora, richiamati dalle grida, accorrevano drappelli di soldati e al loro approssimarsi altri rifugiati, presi dal panico, si staccavano atterriti dai nascondigli e si offrivano alla feroce vendetta senza resistere oltre. Giù, a valle, sotto le balze di granito che salivano a picco, impossibilitata ad avanzare e a retrocedere, urgeva una massa incomposta ed esterrefatta di lacere femmine, di bambini atterriti e di vecchi in attesa di un nuovo macello. Erano i resti del popolo invasore, spinto dal panico e dalla propria inerzia nelle gole senza vie di scampo e di ritorno. Non avevano più cavalli né carriaggi né utensili. Il fiume aveva tutto riportato indietro nella sua larga corrente, verso le impetuose cascate onde essi provenivano speranzosi e bramosi di assidersi in un impero più vasto, nelle immense città ricche di marmi e di oro. E ancora vi erano reparti armati, lontani l’uno dall’altro ed isolati, i quali non avevano incontrato il nemico e bivaccavano, nella vana attesa del grosso dell’esercito, sulle vie militari ad oriente delle montagne, quasi in vista della città. Ora, nell’alta notte, anche le forze radunate contro gli invasori si assottigliavano distendendosi in tortuose cortine di avamposti ricercanti le forze avversarie. Dovunque l’avanscoperta febbrile modificava continuamente l’arco dello schieramento, che si allungava, in certi tratti, in acute punte a raggiera, spingentisi ad avvistare il nemico; e subito, silenziosamente, i vertici acuti dei cunei che così venivano formati si arrotondavano raccorciandosi e l’esercito avanzava forte e tranquillo contro l’oste disorganizzata, dilatatasi oltre le sue possibilità ed incapace di rifarsi in unità e di resistere. Era vicina l’ora decisiva, l’ora dello scrollo sterminatore e dello sforzo supremo. E man mano che essa si approssimava, una determinazione nuova si formò negli antri, nei nascondigli, dovunque erano convenuti al riparo gli invasori. Essi si prepararono ad affrontare quell’esercito che si 28


stendeva di contro a loro fino a che con un balzo solo avesse potuto ghermirli. Tre ore prima dell’alba, anche laggiù, ad oriente, sulle vie militari, i reparti inoltrativisi e rimasti fuori della zona di battaglia iniziarono la marcia di ritorno e puntavano, forse inconsapevolmente, verso il fianco destro dell’esercito in agguato, alle sue spalle. Agli uomini che andavano a schierarsi in prossimità dei margini scoscesi dell’altipiano, al nord, giungevano a tratti le urla, i tonfi sordi ed i nitriti di quanti pei dirupi invisibili piombavano dal precipizio nel fiume scrosciante, entro le due anse a picco di alto granito. Mentre intorno, dalle rive del fiume all’altipiano sommersi nella notte illune, ferveva da una parte e dall’altra l’incessante e febrile preparativo, il Re apparve sul limitare della vasta radura praticata nella densa boscaglia dinanzi la villa. Pareva abbandonata. Quattro soldati, superato lo scoperto, ne raggiunsero i cancelli e li forzarono. Il resto della scorta, a corsa, li seguì e i più impazienti si accalcavano per balzare dentro. Ma gli ufficiali li contennero e li disposero su due file, male ordinate, e attraverso questo varco il sovrano passò, impetuosamente, e giunse nel vestibolo, che si andava illuminando, mentre una lotta soffocata e convulsa si svolgeva ai piedi delle due scale laterali. Alla luce incerta delle torce egli vide groppi di suoi soldati, coi pugnali all’aria, avventarsi su alcune forme umane che sbucavano trasportate a spalla dalle scale stesse nel vestibolo e venivano scaraventate fuori dalle basse finestre. In un attimo la villa rigurgitava di soldati che, con una doppia corrente incessante, scomparivano nel vano delle porte sconquassate o abbattute o ne provenivano recando altre vittime e bottino che trasportavano fuori. Dal piano superiore veniva il sordo rumore del calpestio e della lotta soffocata, quasi senza grida e senza lamenti, contro i sorpresi nel sonno. «Principe Jarag traditore, ti riconosco! Soccorrimi! Vivo ancora!» La voce strozzata veniva da un vecchio, dibattentesi fra le braccia di tre soldatacci, il petto lacerato da uno squarcio profondo. Egli si divincolava a tratti, pel sudore, dalla stretta, ma quelli lo punivano ferocemente, finché si abbandonò. Anfore e coppe ricolme apparivano nelle mani di tutti. Alcuni, protesi su una scaletta di pietra scavata in fondo al vestibolo, sollevavano uno dopo l’altro secchi e mastelli, onde il vino traboccava, che altri, dal basso, porgevano. Si levarono canti e scoppi di risa violenti, sinistri. Due, denudatisi, lottavano e sdrucciolarono sul pavimento ornato di cani, di uccelli e di fiori e viscido di sangue e di vino. Uno di essi batté forte la testa, ma resisteva e, riuscito a liberarsi dal braccio che lo ghermiva, sopraffece inferocito il compagno. Scudieri recavano ancora lumi. La luce 29


ora intensa stimolava tutti ad abbandonarsi all’orgia e il clamore era tale che non sarebbe stato più possibile di prevenire un’imboscata o una sorpresa nemica. Del resto, nessuno aveva forse collocato sentinelle. Si andava e si veniva, ingombre le porte e le scale, i corridoi rigurgitanti di predatori che trascinavano sacchi di bottino. Il calore, il vino, il vociare incomposto, l’andirivieni da formiche, l’aria satura delle esalazioni di tanta gente, di essenze disperse dalle fiale spezzate, di mosto, di olio e di fiaccole brucianti, davano le vertigini. Un tale calava a spalle da una delle due scale una grande statua che un ruzzolone spezzò sul pavimento, rompendone il musaico. L’ira divampò ancora, sanguinosa. Una cerchia di avvinazzati si raccolse a seguire ridendo e schiamazzando le vicende della lotta. Altri vi presero parte e insorse una nuova mischia. Si vedevano i torsi lucidi e graffiati accanirsi l’uno contro l’altro. Luccicarono ancora pugnali e coltelli e il sangue sprizzò sugli avambracci levati, sulle facce, sulle mura marmoree, tra grida di dolore ed imprecazioni. Tutti erano ormai afoni pel troppo urlare. Ora trascinavano di peso un giovinetto, sorpreso forse dietro le botti della cantina. L’espressione di terrore della sua faccia eccitò la ferocia di quella torma esaltata ed egli scomparve, come inghiottito dall’umana ondata, scagliataglisi addosso. Riprese la caccia a quanti potevano trovarsi ancora nascosti, caccia sterminatrice, da topi. D’un tratto tre o quattro che erano vicini all’ingresso balzarono con le armi in pugno fuori della porta fracassata, all’aperto. Altri accorsero scomparendo pure nell’oscurità della notte; ma nel vestibolo fumoso i più non si avvidero del movimento e continuavano il saccheggio senza sentire la stanchezza e dimentichi perfino di se stessi. Rientravano ora quelli, ad uno ad uno, seguendo i due messi laceri, storditi e coperti di neve. Una benda arrossata di sangue fasciava la testa al più giovane di loro. Essi sostarono, girando lo sguardo incerto ed abbagliato per la vasta sala, da un gruppo di uomini all’altro. Ma nessuno prestava loro attenzione, ché tutti andavano ora affollandosi verso la parete di fondo, in un fitto semicerchio. Un giovane capo, il principe Jarag, avvistatili e fattosi largo tra la folla, mosse loro incontro, li trasse in disparte e si chinò ad ascoltarli. Parlavagli l’uomo dalla testa bendata, gestendo, a tratti, con le tozze e villose braccia che tracciavano nell’aria invisibili linee o disegnavano episodi di lotta e schieramenti di forze, mentre il compagno, fissi gli occhi su quelli, dallo sguardo tanto pensoso e lontano, del suo signore, interveniva talora, con scatti concitati, aggiungendo particolari, o come a correggere quanto l’altro diceva. Quando il messo ebbe finito, il principe aperse la bocca, forse interrogando il ferito. Questi si volse al compagno e si guardarono, quasi a domandarsi o per rievocare a vicenda 30


ciò di cui erano richiesti. Poi crollarono il capo, per significare che non sapevano. Allora il principe fissò il suo interlocutore e nuovamente l’interrogò. Questa volta la risposta venne, copiosa, sottolineata con gesti, da entrambi simultaneamente. Il colloquio si protrasse così per qualche tempo ancora, dissolvendosi nel frastuono circostante. Infine egli li trasse, con un cenno, a seguirlo e si accostò con loro al gruppo serrato che faceva cerchio in fondo al vestibolo, contro la parete. Nessuno si muoveva per farli passare, poiché tutti erano intenti a guardare innanzi a sé e bisognò scuotere i dorsi compatti dei più vicini perché costoro si accorgessero e facessero largo. Il cerchio si rinserrò rapidamente dietro il loro passaggio, incuneandosi tutti per guadagnare posti migliori. Due donne erano state catturate e stavano in piedi, nell’angusto spazio libero, accanto al Re, seduto, nuda l’una, con le braccia e le mani tese a celarsi, ghermita l’altra da Ptar, il generale, che la denudava, lacerandole le vesti, sordo ai gemiti atterriti e supplichevoli con cui ella si difendeva. Ai piedi della prima, che, con gli occhi ancora stillanti, posava istintivi sguardi sulla siepe vivente e cupida onde era circondata, giacevano, intatte, le tuniche di roseo lino. Un silenzio gravido di bramosa attenzione guadagnava la sala e i lazzi si diradavano. Nelle ultime file, quanti non potevano veder bene, andavano arrampicandosi sulle basi delle colonne attorno alla sala o sui secchi ed i mastelli del vino. Il principe Jarag avanzava verso il sovrano, ma questi non si accorse nemmeno di lui e dei due messi. Non distoglieva i piccoli occhi luccicanti dalle due denudate, che il suo generale, dopo averle allacciate ai fianchi con le proprie braccia, gli appressava e le sue labbra si muovevano tra la folta barba bianca quasi mormorasse un’orazione. Quando gli furono entrambe dinanzi, il vecchio re le attirò a sé. Una di esse, la più alta, lo lasciava fare, beveva e strillava, poiché Ptar le versava addosso anfore di vino. Ma l’altra resisteva e allora il re tentò di farle protendere la bocca verso la sua. Ella si divincolava e maggiormente si acuiva la brama di lui. D’un tratto (chi sa cosa le avrà detto o fatto, ché i vecchi hanno idee tutte proprie) la donna, in una subita reazione, lo colpì alla faccia. La compagna, eccitata, la imitò e lo graffiava, quasi rovesciandolo supino dallo sgabello basso sul pavimento. Fu un attimo. Delle braccia robuste gli strapparono dal collo e dal petto quei due corpi inviperiti e li inchiodarono a terra, dove vanamente si divincolavano. Il re balzò in piedi, le guance e la barba rigate di sangue. «I miei cani! – gridava – I miei cani!» Dalle soldatesche accalcate attorno il grido fu ripetuto: «I cani del Re! Avanti i cani del Re!» 31


Tutte quelle facce erano pallide. Ammutoliti, figgevano gli occhi iniettati sulle prede distese in terra e impossibilitate a gridare o a muoversi. I due cani apparvero al cospetto del loro signore, aprendosi un varco tra le file compatte degli astanti. Il primo di essi, un giovane, forte soldato dalla pelle bruna e luccicante, aveva nudo il petto, fino alla cintola. Più attempato, di bassa statura, bizzarramente vestito di una uniforme rossastra, le dita della mano sinistra piene di anelli, il suo compagno sbirciava con gli obliqui occhi privi di ciglia ora il sovrano ora quei corpi e al lieve movimento della testa rasa la sua faccia glabra e schiacciata cangiava, sotto la luce, di colore. «Oga, Oga» scattò il vecchio, ghermendo il braccio del primo e indicando col dito tremante la donna che lo aveva offeso «Strappale la bocca!» Il giovane, di un balzo, le fu sopra. «A te l’altra, Gianas. Mangiale la gola, la gola!» Per un istante si videro i due carnefici sulle prede dibattentisi e mugolanti, poi il gruppo feroce scomparve nell’ondata di uomini che si precipitarono attorno, gli uni sugli altri, per vedere. Ma il principe Jarag si parò dinanzi al sovrano e mostrandogli i messi lo richiamò: «Padre!» La grave, sdegnosa espressione della sua faccia esasperò forse maggiormente quel vecchio. Rabbiosamente egli si fece incontro al Principe e tentò di respingerlo urtandolo con le proprie braccia distese e le mani aperte contro il suo petto. «Non padre! Io non sono tuo padre! Io sono il tuo Re! Io sono il Re! Vai via!» Jarag rimase un attimo immobile e in silenzio, esitasse o si risolvesse, ed avanzò verso il sovrano, che cinse col braccio, quasi a sorreggerlo, mentre a voce vibrante ed appassionata esclamava: «No, padre sciagurato che mi nutristi, tu non sei più il Re e non vedrai il nuovo Re!» Il Re, pugnalato, reclinò la testa, abbandonandosi tra quelle braccia, che deposero dolcemente al suolo la spoglia; e, piegato il ginocchio, Jarag impresse un lungo bacio sulle labbra dell’ucciso. Quindi, rapidamente, fu in piedi, rivolto verso la folla muta e atterrita. «In ginocchio!» disse. Tutti obbedirono. Nell’improvviso silenzio si udì un lungo nitrito di cavallo e il tonfo sordo di uno zoccolo che batteva il terreno, dinanzi la villa. Ora Ptar si rialzava da presso il cadavere e si appressava timidamente per 32


deporre sulle spalle insanguinate del nuovo Signore la tunica di porpora tolta al re estinto. Ma Jarag si volse bruscamente e gli disse respingendola: «Il tuo posto è là. Torna a Lui e ridagli le sue vesti.» E Ptar tornò dimesso a inginocchiarsi accanto alla salma e la ricoprì del rosso tessuto. Tutti i soldati e ufficiali e cortigiani stavano prostrati, immobili, muti, in una vasta cerchia attorno al nuovo signore e ne seguivano con occhi attoniti ogni mossa, ogni cenno. Soltanto qualche colpo di tosse soffocata rompeva qua e là il silenzio. Egli chiamò: «I suoi cani!» Essi stavano là, accosciati contro la parete di fondo, presso le prede dilaniate. Quando furono al suo cospetto, egli fissò gli occhi profondi sulle loro bocche lorde. Il suo sguardo li scrutò da capo a piedi, lungamente, e la voce possente risuonò ancora nella vasta sala piena di luce e di aria corrotta. «Voi sarete i miei lupi. Tu, Oga, salverai il mio popolo. Esso attende il macello, chiuso da tutti i lati, nelle gole qui sotto. Costoro ti indicheranno la via. Andrai solo. Troverai soldati risalendo da qui, pel bosco, di là dalla vetta. Se il tuo cavallo si stanca e dove non potrai cavalcarlo pel bosco, te lo caricherai sulle spalle fin dove potrai cavalcarlo di nuovo. Riordinerai i soldati e piomberai con loro alle spalle dei nemici che ci attorniano. Saprai aprirti il varco dove occorre. Scegliti quattro cavalieri. Due di essi dovranno sacrificarsi per attirare su di sé le scolte; gli altri le uccideranno; tu passerai. Questo ti comanda il tuo signore, questo farai.» «Io lo farò, Sire, te lo giuro.» «Non dormirai fino al mio arrivo.» «Questi occhi non si chiuderanno.» «Va, Oga.» Sempre prostrati, in religioso silenzio, gli altri aspettarono. «Appressati, Gianas. Tu nascesti nelle province occidentali del mio impero. Queste valli, questi boschi, la città alle tue spalle, tutto questo magnifico regno era dei tuoi avi, quando tuo padre nasceva. Un popolo cugino col tradimento e col massacro ci scacciò di qui. Tua madre fu gittata, violentata, viva ancora, con innumerevoli altre donne e fanciulli, nel fiume, come anche oggi essi hanno fatto. Tu vendicherai i tuoi morti, riconquisterai queste province alla Patria.» «A te tutto me stesso.» «Prenditi duecento soldati. Torna indietro. All’alba, con cento di loro, dovrai spezzare lo schieramento dove lo incontrerai risalendo dalle falde il sentiero a sinistra di quello che percorremmo per giungere qui.» 33


«Fossero mille i nemici lo farò.» «Affiderai sessanta degli uomini che ti rimarranno a quel ragazzo degli altipiani inginocchiato laggiù… Vieni avanti. Ti chiami Zankani, è vero?» «Zankana.» «Tu farai, Zankana, quanto ho comandato al tuo capo, aprendo il varco trecento passi alla sua destra.» «Tutto è tuo.» «Comincerai prima di lui. Dovrai studiarti di attirare verso te le furie del nemico, perché Gianas deve passare, deve accerchiare quelli che dominano il fiume dalle alture alla nostra sinistra.» «Lo farò.» «Voglio che gli altri quaranta si gettino nel bosco come tigri in caccia. Tu li avvierai, Gianas, come ti parrà. Saprai distribuirli come fossero dieci volte tanti. Dividili in due, tre gruppi, trova loro capi, di tua scelta.» Jarag tacque un istante. Poi si rivolse alla massa, tuttavia prona attorno a lui. «Voi vedeste tutto. Io vi diedi tutto. Mi strappai il cuore per la salvezza del popolo. Andate. Tutti mi rivedrete dove sarà necessario che io sia. Domani dormirete nella città riconquistata.» Gli uomini prescelti si levavano, si ammassavano, si ordinavano rapidamente. Sempre in ginocchio, i rimasti seguivano silenziosamente con lo sguardo il loro signore, fattosi ora dinanzi la porta. Le ventate gelide lo sferzavano nei capelli e nel mantello arrossato. E quelli, passando a lui dinanzi, gli dicevano appassionatamente: «A te la vita.» Si vedevano, un po’ confusamente, nell’incerto riverbero dei lumi, montare in groppa ai cavalli e allontanarsi per la radura, fino a scomparire sotto le masse nere del bosco. Quindi egli tornò nella sala. I suoi occhi abbracciarono e misurarono le forze ancora disponibili. Disse: «Vedo alcuni di quei figli della montagna che appresero da bambini il segreto per saltare di rupe in rupe e sanno scrutare e scovare il nemico. A te, Ptar, il compito di sceglierne venti, di condurli lungo gli accessi del bosco fino alla vetta, due a due, di collocarli in modo che possano dominare tutto il dorso, dai suoi versanti, per scoprire e segnalare indietro, fin qui, i movimenti del nemico e vigilare la marcia dei nostri, quando saranno sboccati dove io volli avviarli. I tuoi uomini non dovranno, naturalmente, dormire e sapranno resistere come è necessario alla neve. Sapranno intendersi tra loro, stabilire segnali brevi e precisi, che debbono propagarsi 34


in modo da giungere qui rapidamente. Ricordatevi, vedette, che vi affido innumerevoli vite e le chiavi della città, dove soltanto potremo trovare salvezza e cibo.» Anche le vedette, sfilando dinanzi a lui, lo salutarono con l’appassionato saluto: «A te la vita.» «Vieni avanti, Sanirilla, uomo dei laghi» egli riprese, quando esse furono uscite «Raccogliti questi ultimi uomini. Ti conoscono tutti, io lo so. Lanciane un terzo a piedi, per le boscaglie, dietro la prima colonna che da qui è partita. Saranno frecce viventi scoccate contro i vili che indietreggeranno e contro i nemici che riuscissero a sopraffarla o a schivarla. Io bacierò, una ad una, la fronte di quelli tra loro che cadranno, io li seppellirò. I loro nomi non si cancelleranno mai più dalla mia mente. Essi sono il peso decisivo scagliato nel piatto della bilancia. Dove sarà uno di loro, di là passeremo, là vinceremo. Tu avrai un cavallo. Manda qui messi, ora per ora. Dai un capo a quelli che ti resteranno. Questi formerà due colonne. Una sarà la tua riserva. La impiegherai all’alba, al soccorso di chi avrà primo impegnato battaglia. La seconda voglio che scali i dirupi alla nostra sinistra, per piombare sui nemici che stanno calando, dalle rocce, nella gola dove le nostre genti sono rimaste impigliate.» Anche gli ultimi reparti sfilarono dinanzi a lui rapidamente. Dalle facce dei soldati, dal loro incesso e dallo sguardo era scomparsa ogni traccia di stanchezza. Ad ogni comando dei nuovi capi essi obbedivano di slancio. Egli li squadrava uno ad uno, immobile sul limitare della gradinata che conduceva alla vasta radura e il suo sguardo ardente e profondo, uno ad uno, li salutava e li incitava. Qua e là, ad un suo cenno, qualche soldato si distaccò dalle file e si trasse in disparte. Rimasero così accanto a lui nella vasta sala, quando tutti si furono allontanati, cinque giovani. Chino sulla spoglia paterna, egli ne lavava la ferita mortale e le macchie di sangue che annerivano la bianca barba; poi gli chiuse gli occhi e la bocca, distese la gamba rimasta contratta, compose le braccia e le mani sul petto, baciò la fronte ancora tiepida, ricoperse la salma che andava irrigidendosi col pesante manto purpureo. «Veglialo, Dasa. Tu non hai perduto una parola degli ordini che ho dato. Sai quindi come marciano i nostri soldati. In questo momento la montagna sta per essere spartita tra loro e il nemico. Tre nuclei dei nostri gli vanno incontro, per le tre vie che esso può percorrere, protetti da una cortina di pattuglie che si distende per arrestarlo, attirarlo, confonderlo. Altri uomini raggiungono il versante orientale e si accingono a calare 35


pei dirupi fino alla gola, all’ansa del fiume, dove il grosso dei nostri pare sia rimasto bloccato. È probabile che le colonne delle nostre truppe, che girarono le alture alle spalle e marciavano ieri verso la città, accortesi di essere rimaste isolate, tentino di tornare verso il fiume e sorprendano da tergo il nemico. Una catena di vedette farà pervenire qui tutte le segnalazioni. I tre reparti hanno ordine di inviare messi. Ho pensato anche ad attuare un buon servizio di esplorazione. Il tuo compito è semplice. Tu dovrai provvedere in modo che l’ala sinistra del nostro schieramento sia mantenuta libera e che la pressione del nemico venga attirata per quanto è possibile verso la nostra destra, e cioè verso qui. Questi tre giovani ti coadiuveranno. Dovranno bastarti. Io li conosco poco, ma penso che sapranno rendersi degni della mia fiducia. Dirameranno gli ordini che darai. Voi siete tutti ufficiali dell’esercito rinnovato, dell’esercito che saprà vincere, che saprà aprire la strada verso la città. Voglio che domani questa salma adorata vi riceva tutti gli onori. Tu, Sinina, seguimi, sei il mio portaordini. Preparati a scendere giù con me e a rifare tre o quattro volte la strada fino qui. Voi lo sapete già tutti che non si dormirà. Riposerete domani a sera, di là dai resti del nemico rovesciato e travolto. Chi dorme sarà inchiodato nel suo letto.» Lentamente egli tornò ad appressarsi al caduto e si piegò a baciare, sollevando un lembo del manto, quella bianca fronte. Immobili, i cinque ufficiali non staccavano gli occhi da lui. Poi si diresse verso il fondo della sala, dove giacevano i corpi dilaniati delle due donne. «Si muove ancora!» esclamò, curvo su una di esse «Come lotta! Come resiste la vita!» Egli accarezzò la testa della morente. Soggiunse: «La riconosco. Si chiamava Cloe. Era tanto, tanto piccina quando io venni qui adolescente, e suo padre la batteva sempre…» Della sua bocca il carnefice aveva fatto orribile scempio. Sul seno le si irrigidiva, contratta, la rozza mano dell’altra vittima. «Io vado, Dasa» Jarag riprese «a raggiungere il mio posto, che è, come indovinerai, dove si combatte. Sappi essere degno della fiducia che in te ho riposto. Il tuo silenzio contiene più che un giuramento.» Quando egli passò dinanzi a loro per uscire, essi tornarono ad inginocchiarsi; quindi lo seguirono finché poterono per la radura. Le faci accese per rischiarare il sentiero al suo cavallo si spegnevano alle ventate gelide, recanti neve, ma Dasa e i suoi le riaccendevano e tornavano a far luce, proteggendo la fiamma con le palme delle mani, alte levandole con le fascine crepitanti, come un’offerta. Poi, allorché l’ombra del giovane capo fu impercettibile, essi si abbracciavano l’uno con l’altro mutamente, a 36


ciglio asciutto e, rientrati nella villa, si disposero ad eseguire quanto aveva loro comandato. Il cavallo, tranquillo sotto la sua mano, attraversava di buon passo lo stretto sentiero, tracciato nella boscaglia. Ad ogni più forte ventata il fragore degli alberi mossi si accentuava. Sulle foglie battevano ora la pioggia, ora spruzzi di nevischio, ma Jarag procedeva all’asciutto, guidando come per luoghi familiari il suo cavallo. Proprio alla coda era il mobile collo dell’altro, che seguiva di contatto il compagno nella tenebra. Come il ripido viottolo, scendendo, piegava lungo il versante della montagna, apparve ad una svolta la valle immensa, senza fondo, tutta chiusa da ogni lato da sagome nere di monti, appena discernibile pel cielo illune. La bufera, ora imminente, ora lontana, coi suoi vividi soffi toglieva il senso della forestale solennità, poiché versava a torrenti la vita dall’alto fin giù, verso le gole profonde, dove tutta una gente – migliaia di inermi, di pavidi e di deboli – attendeva la sorte o era già forse preda del nemico. Da una macchia sbucarono, più tardi, due uomini intimando di fermarsi ma subito lo riconobbero e tornarono a scomparire tra le fronde. Un’altra pattuglia vigilava ad un incrocio di sentieri incassato tra le balze su cui si arrampicavano fitti gli alberi là dove il bosco di querce cedeva il passo a quello di sugheri. Le fiamme di un buon fuoco si levavano, alte quanto i due soldati, tingendo di rosso, col riflesso, le loro ampie tuniche. Jarag fermò il suo cavallo. L’ufficiale che lo seguiva si arrestò dietro a lui. «Da quanto tempo sono passati?» «È una mezz’ora.» «Avete notato segni nemici?» «Nulla.» «Spegnete il fuoco. Può tradirvi, o incendiare il bosco, o addormentarvi: non lo voglio.» Egli proseguì lungo il più largo sentiero e per un pezzo i due soldati, mentre soffocavano il fuoco, litigarono rimproverandosi a vicenda di averlo acceso e studiando il modo con cui avrebbero dovuto giustificarsene. Là dove il sentiero piegava seguendo la curvatura della montagna, Jarag risolutamente spinse il cavallo per una ripida accorciatoia, che fendeva il precipizio fino alla pianura. Era buio ancora ed il cavallo, riluttante, si tirava indietro e irrigidiva le zampe; ma il suo padrone lo serrava e lo incitava e la discesa perigliosa, con l’abisso di fronte e rocce scabre ai fianchi, cominciò. Le unghie dei due quadrupedi scivolavano, in certi tratti, sulle erbe umide e intatte del viottolo. Essi avevano le orecchie tese ed 37


ansavano. Li sferzavano i soffi gelati del vento e ai primi chiarori dell’alba la valle appariva sempre più fonda ed ampia, irrigidita sotto la neve. L’ultimo tratto dovettero percorrerlo a piedi. Giunti al piano, guadarono, a cavallo, il tortuoso e sassoso torrente che costeggiava le pendici onde erano discesi, poi, di galoppo, egli si slanciò verso destra, là dove sembrava che i monti e i colli si congiungessero formando ponte sul fiume largo e profondo. L’alba era livida e rigidissima. Tutto, all’intorno, era imbiancato dalla neve, nella quale affondavano le zampe dei due cavalli. Più paurosa sembrava ora, dal basso, la discesa che avevano fatta, pel viottolo da capre. Allo scalpitare dei cavalli uccelli ed animali da preda scesi dai boschi circostanti fuggirono, per tornarvi cautamente dopo il passaggio, da un punto dove giacevano resti umani, sui quali non avevano lasciato che la neve stendesse il suo manto. Era quello, forse, l’ultimo bivacco in cui la massa aveva sostato prima di inoltrarsi nelle gole all’ansa del fiume. Più avanti Jarag incontrò un branco di fuggiaschi, soldati quasi tutti, armati, sconvolti nelle facce livide e laceri. Egli li affrontò e chiese a colui che li precedeva: «Dove li guidavi?» «Più avanti.» «Ma dove?» «Alla salvezza.» «Tu sai dov’è la salvezza, dunque?» «Innanzi a noi, alle tue spalle.» «Quanto dista da qui il luogo che dici?» «Dio ce lo dirà.» «Tu credi? Credi che Dio abbandonerà, come li hai tu abbandonati, quelli di laggiù per darti la strada?» «Egli è dovunque.» «Non l’hai già percorsa questa valle? Vi potrai incontrare quei rifugi che non c’erano quando l’hai risalita?» «Saprò trovarli.» «Come hai fatto a fuggire?» «Abbiamo ucciso quelli che ci accerchiavano.» «Allora tu dici che la salvezza consiste nel combattere e nel vincere.» «Lasciami passare.» «Ma per dove, cieco e sordo? Due colonne di soldati sono dietro a me e hanno l’ordine di tagliare a pezzi quanti fuggiaschi incontrano. Se tu riuscissi a sfuggire loro, altri miei uomini isolati vi darebbero la caccia e vi sterminerebbero. A mille passi da qui vedrai i lupi e gli sparvieri che 38


dilaniano gli avanzi di quegli stolti che hanno fatto come te. Vieni, torna indietro con me. Non temere fintantoché mi starai vicino. Noi lotteremo ma vinceremo.» «Sei tu dunque il nostro capo?» «Se hai fede, se sei soldato.» «Sì, mio signore. Noi veniamo con te. Guidaci. Vogliamo essere comandati.» «E sarete i miei diletti, l’estrema guardia della patria che dobbiamo rifare. Questo giorno, questo incontro, quello che oggi accadrà sono scolpiti nella pietra. Seguitemi. Andremo incontro a chi non ci aspetta più. Che accadrà più tardi? Tutto potrà accadere, ma certamente passeremo. Tra poche ore al nostro passaggio ciascuno sarà divenuto un soldato. Diverremo una massa enorme, possente, irresistibile che inghiottirà il nemico: un fiume più largo, più profondo, più puro, più travolgente di questo che ci incita da qui, che ci parlava quasi e che non avevamo saputo intendere. Cantate a guerra.» Allora quegli uomini non ebbero più né freddo né fame né sete e gli corsero appresso. Levavano gli inni della battaglia e l’eco li ripeteva lacerando l’aria e riempiendo tutta la conca di ritmi sonori. Alle spalle già i reparti composti sulla montagna nella notte toccavano la pianura ed avanzavano distesi a ventaglio in triplice fila. Jarag risalì l’ultimo tratto di pendio a ridosso dell’altura che chiudeva l’ansa del fiume e arrestò il cavallo apparendo, sopra il ciglio scosceso, sulla gola in cui i vinti erano stati ricacciati. Vide, per prima cosa, una testa umana, di vivo, senz’elmo, che sporgeva dalla parete a picco. Era curvata in basso, a spiare, negli ingrottati addentrantisi, fuori di mira, alle basi dell’altura, tra la roccia e l’acqua. Allora forzò innanzi il cavallo e lo inchiodò con le zampe anteriori su una sporgenza di poco più in basso. Tutto il tronco dell’animale e lui stesso rimasero protesi sul vuoto, in modo che non era più dato di ritrarsi al cavallo, che ormai si reggeva soltanto puntellandosi sul sasso con le zampe posteriori e col dorso, con tutti i muscoli contratti. L’intera parete era, quasi una spugna, forata da innumerevoli anguste buche, in ciascuna delle quali era annidato, come ragni, un soldato. Era ormai un giuoco, per essi, distruggere i superstiti nel loro ultimo rifugio, privo di profondità e contornato dalla corrente impetuosa del fiume. Gli uomini, le donne, i vecchi, i bambini si serravano disperatamente a tutti gli incavi che l’acqua, corrodendo, aveva fatto tra sporgenza e sporgenza alla base della roccia. Tuttavia gli assalitori non si abbandonavano all’ebrezza della vitto39


ria, ma, silenziosi e guardinghi, scrutavano in basso, nell’oscurità ancora non del tutto diradata dall’alba, e quando un busto o un braccio, spinto innanzi dalla pressione degli altri, offriva il suo facile bersaglio, scoccavano la freccia. Erano, allora, gemiti seguiti talvolta dal tonfo della nuova vittima ghermita dalla corrente e un urlo di terrore si levava dalle grotte, ingrandito e deformato per gli echi. Altri facevano calare giù tizzi accesi; altri spedivano macigni che l’acqua inghiottiva con le sue mille fauci. Di fronte si ergeva la prua dell’altra montagna, di pietra compatta, questa, e non meno ripida della prima. Già drappelli di nemici, bramosi di vincere subito l’ultima, passiva resistenza della moltitudine pigiantesi in quelle tane mortali, vi si andavano trasferendo e si arrampicavano o si lasciavano calare, aggrappati ai ciuffi dei pini selvatici nascenti, lungo il suo pendio, in cerca di una posizione favorevole per un facile sterminio. Qualcuno rotolava nel precipizio.

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II La Follia

A Come di un albero, del quale non è discernibile la crescita e cresce intanto, così accadeva del già vasto palazzo. Di giorno, di notte, incessantemente si ingrandivano le sue mura, aumentava il numero dei piani e delle finestre, ingrossava la folla su e giù per le scale e per gli ascensori e si moltiplicavano i piccoli globi luminosi. Lo stesso avveniva del palazzo di fronte; lo stesso in quello antecedente e in quello subito dopo; lo stesso in quelli dirimpetto a questi ultimi. Lo stesso avveniva ancora e sempre, andando innanzi per la via o retrocedendo. Anche la via si allargava e, sopratutto, si allungava sempre più, all’infinito, innanzi e indietro, per quanto si camminasse. Le sue due estremità procedevano come fa l’orizzonte di pari passo con l’osservatore e, simili all’ombra che il nostro corpo proietta, erano irraggiungibili. Fiumane di popolo escivano senza posa dagli innumerevoli maestosi androni e formicolavano, una in un senso, una nell’altro, mentre altrettante ne entravano negli stessi androni. Le due gonfie, larghe ed impetuose correnti umane procedevano quasi correndo, rigurgitando sui marciapiedi. La carreggiata interposita nereggiava di veicoli solcantila una metà in un senso, l’altra nell’altro, tra immenso clamore. Ora corrono essi veloci, ora si arrestano, tutti insieme. Riprendono la corsa e scivolano gioiosamente in innumerevoli file tortuose, innanzi, innanzi, ed ecco si arrestano ancora. Solo il clamore non ha soste. Dai tetti, d’onde la via appare come il fondo di un profondo pozzo ed insetti gli uomini, mille e mille dense colonne di fumo s’innalzano al cielo basso e pesante. Tale era la via sconfinata, tale il suo sviluppo, tale la sua vita. Simile vita, simile incessante sviluppo ferveva nella via parallela, alla sua sinistra. E lo stesso era di quella alla sua destra e di quelle che le tagliavano, una dopo l’altra, quali onde innumerevoli, in migliaia di enormi dadi, e di quelle che queste ultime pure tagliavano; ché tante erano tutte queste vie e così accompagnantisi ed intrecciantisi le une con le altre come è delle rughe sul ginocchio di un bambino. E da ciascuna di esse si levava sempre


lo stesso incessante clamore e la stessa selva di rabbiose colonne di fumo da ciascuno degli innumerevoli altissimi tetti verso il cielo basso e pesante. A notte il latte delle innumerevoli luci inondanti uniformemente tutte quelle vie, tutti quei crocicchi, tutti quei palazzi, tutti quegli alberghi, tutte le finestre fugava le tenebre perfino nel cielo. Sotto le strade, sotto le acque profonde dei fiumi treni sovraccarichi di gente d’ogni colore si inseguivano in ogni senso e la terra ne tremava. Pure sulle case neri treni in corsa laceravano l’aria; e rombavano, a tratti, al loro passaggio, quali immense conchiglie, le volte dei mille teatri gremiti mentre le veloci e fragorose sagome nere spegnevano via via nella marcia le infinite insegne luminose che si riaccendevano l’una dopo l’altra man mano che la mole passava oltre. All’alba le acque del fiume riprendevano il loro verde colore e pesanti ondate in ogni verso e la candida spuma lasciate dalle eliche innumerevoli sembravano i segni di lotte di immani mostri marini nelle profondità, mentre navi d’ogni dimensione andavano e venivano senza posa attorno alla città come sciami. Dove questa non può oltre procedere, dai suoi fianchi partono e si immergono a piombo nell’acqua gli sproni delle calate. Affiancata a ciascuno di essi è una nave: fa la discarica; poi la sua stiva e le sue cabine si riempiono, salpa le ancore e riparte. Un’altra nave si avanza: si svuota, ricarica, salpa, parte; un’altra nave ne occupa il posto e così via notte e giorno, sempre. All’altra estremità della stessa calata, su cui si elevano montagne di merci tra il formicolare dei lavoratori, le navi si succedono con il medesimo ritmo febrile, tra i rumori degli argani e delle grue sempre in azione e migliaia di ululati delle sirene. Ma un’altra calata si protende alla sinistra e un’altra alla destra. Due navi sono attaccate alle opposte estremità di ciascuna di esse. E altre calate ancora si susseguono innumerevoli da una parte e dall’altra e a ciascuna si affiancano ai lati due navi. Tutta l’intera città è stretta così da questa selva di piroscafi fumanti che sugge con innumerevoli labbra di fanciullo le linfe onde essa come gonfia mammella rigurgita. Il pelo dell’acqua tutto intorno agli scafi è pieno di polvere di carbone e di rifiuti. Su tutte le tolde, sugli sbarcatoi, perfino sugli infiniti alberi delle navi e sulle ragnatele del sartiame è un andirivieni incessante di uomini rimpiccioliti. Innumerevoli fumaiuoli mandano nubi di sporco vapore. L’aria è impregnata del sentore dell’acqua, del catrame, delle alghe, delle cucine. Si ode il tintinnio delle campane di bordo e attorno alle navi ronzano a migliaia imbarcazioni di ogni specie. Ma non è tutto ancora. Di là dal fiume, nel centro del quale sorge come lussureggiante ninfea l’isola insonne sono, lontane lontane, due rive. 54


Ecco l’una di esse: termina pure con un immenso rastrello di calate entro cui si impigliano le navi, due ad ogni dente, notte e giorno. E dietro le calate sta la terraferma, brulicante di altri milioni di uomini di ogni razza, di treni e di veicoli senza fine, popolata di palazzi, di teatri e di alberghi senza fine, di strade senza fine, di fumanti comignoli senza fine, inondata, la notte, di latteo splendore, sempre risonante di rumori senza fine. Ed ecco l’altra riva: pure questa termina con un immenso rastrello di calate piene di navi stracariche. Pure qui l’acqua non ha posa, ché la mordono le eliche e le turbine e la fendono le prore ed i remi. Dappertutto si accavallano ondate pesanti e si leva bianca schiuma come criniere di cavalli marini. E dove il traffico navale non può oltre penetrare innumerevoli schiere di palazzi si susseguono all’infinito e tra l’una e l’altra, profonde come pozzi, si stendono vie infinite, brulicanti di gente di ogni colore che corre, corre innanzi a sé, in un senso e nell’altro, e treni lacerano l’aria sopra e sotto la terra e file sterminate di veicoli scivolano gioiosamente sull’asfalto; poi si arrestano, tutte insieme; poi riprendono la corsa, inseguendosi, cercandosi, chiamandosi col suono di milioni di trombe. Ma non è tutto ancora…

1 Germi invisibili producevano ancora e ancora nuovi fabbricati e nuove strade e queste si allargavano come d’inverno i fiumi in piena e si allungavano sempre più. Il fumo si levava al cielo in innumerevoli colonne, il clamore penetrava dappertutto come sabbia di scirocco e torrenti di popolo si inseguivano per ogni dove.

2 L’acqua s’inoltra invadente intorno alla pietra. La pietra si protende quanto può verso l’acqua. Nulla le disgiunge: dove non è acqua vi ha pietra, dove non vi è pietra vi ha acqua. Eppure, avvinte come sono, un abisso separa l’una dall’altra e mai si penetreranno esse l’una con l’altra.

3 Tu puoi tutto, dunque? Ebbene, prendi il legno di questi alberi, sradicali da questi scafi, ripiantali nella terra più fertile e aspetta che le loro radici ricrescano e che i loro tronchi si rivestano di foglie. 55


4 Dove tutto bolle e ribolle come farai bollire la bollente acqua in una pentola? Con quali carboni accenderai il fuoco? come sarà questo fuoco? quale acqua raccoglierai? e come bollirà?

5 «Che fate qua?» «Lavoriamo.» «E a qual fine?» «Per gioire.» «Comprerete coi vostri guadagni di che vivere.» «No.» «È possibile?» «Così è.» «Che dite mai?»

6 Egli pensa a te, è certo. E tutti pensiamo a te, perché egli è in tutti noi.

7 Ed egli saprebbe svellere, una ad una, queste pietre e sprofondarle nell’acqua; e rifarti la stessa, o forse ancora migliore, sol che Dio lo voglia.

8 Ascendi questa estrema rupe solitaria. Ecco stendersi innanzi a te l’ocea­no. Scrosciano le onde infrangendosi sulle scogliere e sferzano la carena della barca da pesca tirata a riva.

9 Puoi chiudere gli occhi in modo da vedere una cosa sola, un solo punto di questa cosa? due, tre? 56


10 Tessi piume di aquila e di tacchino delle praterie e fanne una raggiera, a mo’ di diadema.

B Laggiù era l’acquitrino, stendentesi sotto la roccia impervia. In alto si protendeva l’estremo lembo della città. Guazzavano nella mota piccole anitre nere e trampolieri e oche e cigni. Lontano lontano erano le praterie brulicanti di cavalli e di bovi al pascolo, tra capanne e pagliai. Le sbarre di una gigantesca cancellata calavano a picco nella maremma lungo il dirupo con cui terminava, da quella parte remota, la città sprofondando nel fango nero dell’acquitrino. Qui, tra acqua e roccia, innumerevoli bambini, sporchi alcuni di fango, insanguinati altri, altri ancora gocciolanti latte e sudore strillavano e ridevano sbucando fuori dalle anfrattuosità della roccia e si arrampicavano sulle sbarre della cancellata. Ricadevano gli uni sugli altri e ritentavano tra un andirivieni incessante di nuovi giunti e di scoraggiati che si davano alla fuga incespicando e invocando le madri. Le madri, esauste, giacevano seminude nella fanghiglia. Loro accanto erano padri estenuati dalla fame, accovacciati presso le mogli sanguinanti. Una donna robusta, dalle turgide mammelle tentennanti sul ventre, inseguiva i piccini guazzanti nel fango e, via via che ne ghermiva uno, due, se li caricava addosso, riluttanti e strillanti, e andava a tuffarli in un largo mastello pieno di latte. E quelli, divincolandosi, le sfuggivano tra le gambe o la mordevano o le strappavano i capelli scarmigliati e accorrevano ancora verso la cancellata e vi si arrampicavano ancora. Per uno che ne cadeva tre altri si inerpicavano per le sbarre arroventate dal sole. E salivano, salivano; poi, giunti a metà, ruzzolavano o precipitavano a capofitto nella creta molle, aprendovi buche subito colme d’acqua. Si vedevano dappertutto gli sgambettii di quelli che cercavano di svincolarsi e di rialzarsi. Molti di questi piccoli bolidi di carne vivente piombavano sulle madri gementi e malate. Altri formicolavano in mezzo al carnaio, insensibili alle grida di dolore, tutti presi dal giuoco. Ma qualcuno dormiva, appollaiato sul seno della madre, entrambi coperti di mosconi insistenti e ronzanti. Tre o quattro tacchini, dei più audaci, finivano, al margine del doloroso bivacco, col loro becco crudele un bambino ferito e dimenticato che non poteva gridare e reagiva, cieco ormai, movendosi solo debolmente ad ogni nuovo strappo fatto nella sua carne. Tenaci e serrati duravano i tentativi dei piccoli per la scalata alle cancellate. 57


Ad un certo punto parve che ad uno sforzo maggiore dovesse arridere buona sorte, poiché i minuscoli assalitori avevano già superato due terzi dell’inferriata e raddoppiavano di lena. Ma grida di atterriti si levarono all’improvviso e si videro molti di quelli che erano più in alto abbandonarsi nel vuoto o rotolare giù traendosi seco quanti stavano sotto di loro. Lassù, dietro la cancellata, sulla strada che ne era chiusa, una grossa bestiale forma d’uomo si disegnava dietro le sbarre della cancellata. Con una spranga di ferro percuoteva le dita dei bambini più prossimi ed i colpiti si lasciavano andare giù a capofitto. Allora, nel basso, vari uomini finalmente si scossero dal torpore e facendosi strada tra il brulichio infantile raggiunsero la cancellata e ne afferrarono disperatamente le sbarre e le scuotevano con tutte le loro forze. Furibonde imprecazioni salirono fino all’uomo della strada, che si ritrasse. Gli uomini imprecarono a lungo e allontanavano i bimbi che, in nuove ondate, si avventavano ancora accaniti contro il ferreo ostacolo. Poi, sfiniti, si ritrassero d’onde erano venuti ed alcuni non ebbero neppure la forza di farlo e si abbatterono pesantemente sul posto. Allora bambini bambini e bambini accorsero di nuovo alle cancellate e si iniziò una nuova scalata. Salivano essi arrampicandosi sulle spalle di quanti tra loro si prestavano a fare da scalino ai propri compagni. I piedini scivolavano sugli spigoli delle sbarre e si scorticavano. Il sangue colava dall’alto sui dorsi rettangolari dei piccini che stavano sotto e i ferri vibravano trattati da innumerevoli pugni e dalle innumerevoli gambe che vi stavano avvinte. Di nuovo la vittoria si disegnò vicina. L’uomo di lassù, la guardia crudele e bestiale, non ricompariva e gli sforzi si facevano più serrati e più efficienti. Di quando in quando una delle madri debolmente richiamava il suo nato e le altre la imitavano. Ma lo sforzo era inane e le fioche voci rimanevano senza effetto e senza risposta. Torvi gli uomini si volgevano lentamente a guardare l’immensa cancellata formicolante di piccole creature umane ma le loro teste dalle guance emaciate ricadevano sui petti e le palpebre calavano sugli occhi brucianti. Lassù l’uomo di guardia stava ora un po’ indietro e discosto dalla cancellata per non farsi vedere. A tratti il suo tozzo dorso si piegava innanzi ed egli sbirciava in basso con gli occhietti neri affondati nelle rosse gote enfiate e purulente. E subito si ritraeva. Cominciava a giungere fino a lui l’ansimare dei respiri accompagnato dai piccoli singulti di chi rinnova la lena e si contrae nello sforzo. Allora egli si mosse e scomparve nel piccolo casotto di legno che sorgeva su un fianco della via abbandonata ed erbosa. Sulla carreggiata non vi erano che poche galline. Le imposte e le finestre delle misere case basse erano serrate e nessuno si affacciava, nessun rumore ne proveniva. La nebbia leggera velava e nascondeva 58


l’immensa città senza tregua e senza riposo tumultuante appena un miglio più innanzi. Sul margine della strada apparvero tante manine aggrappate. Poi si videro dei polsi, dei fragili avambracci, le prime testoline ricciute. Scoppi di risa argentine si levavano sull’ànsito dei piccoli petti affaticati. E la marea saliva, saliva. I più animosi apparvero infine, le bocche e gli occhi spalancati, sul livello della strada e continuarono ad arrampicarsi per doppiare le punte acuminate dell’alta cancellata. Ma l’uomo sbucò dal casotto, goffo nel suo abito bleu dai larghi calzoni che svolazzavano al vento. Teneva indietro il collo e la grossa pancia protesa sotto il peso di un bidone che trasportava stretto con entrambe le braccia. Risero più forte quei piccoli, già in alto, e strillarono di terrore quanti se lo videro incontro. Ed egli rovesciò getti di benzina su tutta quella rosea carne, sulle testine ricciute; poi, come il bidone, vuotandosi, alleggeriva, versò il resto lungo le sbarre della cancellata e tutto fu intriso del liquido acutolente. Per un istante l’uomo sostò ad abbracciare coi piccoli occhi suini il quadro tumultuoso dietro la ingabbiatura della cancellata. Poi lentamente avanzò verso quell’infanzia gioconda che ora più non lo temeva. Ed una manina impertinente si allungò tra le sbarre e gli tolse il berrettino bleu dalla lucida e nera visiera e lo lanciò nel vuoto, sulla distesa di mota e di spuma seminata di padri e di madri agonizzanti. Non si scompose egli. Solo le sue labbra accese si protesero e i grossi neri baffi si agitarono. Un’altra manina sbucò tra due piccole natiche paffute e piene di fossette e si aggrappò come le branche di un granchio sulla fitta spazzola dei suoi capelli. Egli si svincolò, disse con voce gutturale qualche parola che non fu compresa, toccò con la destra, curvandosi un poco in avanti, la sbarra dell’inferriata che gli era più vicina e si ritrasse, d’un salto. Si levarono subito grida laceranti ed azzurrognole nuvolette, ma non si vedevano fiamme perché il sole le mangiava. Immediatamente si fecero larghi vuoti nei grovigli di bimbi, poiché molti di essi abbandonavano la presa e precipitavano nel vuoto bruciando come torce viventi, chi comprimendosi la testa, chi gli occhi. Il lezzo delle carni bruciate soverchiò presto l’alito della benzina. L’incendiario guardava, ora inebetito ora crudele, immobile ad un passo dalle inferriate fumanti. Ma dai due lati di queste gruppi di bambini riuscirono infine a calare illesi nella strada e gli si avventarono addosso. Egli ebbe tempo di chinarsi, di brandire ancora il bidone, di lanciarne gli ultimi spruzzi sul più vicino, di dargli fuoco, e si diede a fuggire. Tutto avvolto nelle fiamme il bambino fece, saltellando, urlando, due, tre passi, ultima resistenza; poi soggiacque, riverso sotto il marciapiede. Dalle gu59


glie ormai violate altri bimbi calavano ormai incessantemente e inseguivano il mostro lungo la strada solitaria. Egli correva, ansimante. Si rifugiò in un lupanare, asserragliando la porta, presso una meretrice che lo conosceva e non lo voleva. Fuori tentavano di forzare la porta. Si lanciavano sassi contro le finestre e i vetri cadevano infranti. Si udirono intimazioni di poliziotti, scalpiccìi sui tetti, usci chiusi impetuosamente, voci concitate, andirivieni per le scale, richiami. La porta verde, scardinata, si abbatté sulla folla e pel varco buio e puzzolente apparvero nel lupanare uomini armati e stravolti. Ma già l’incendiario e la meretrice erano lontani. Scalavano la roccia, pel sentiero di contrabbandieri che ella conosceva. Una pioggia di calcinacci e pietre e rottami piovevano sulle loro teste dalla casa posta a soqquadro e saccheggiata ed egli la incalzava, bestemmiando. Sotto di loro era l’acquitrino pieno di agonizzanti e di oche e di anitre e di tacchini e, lontano lontano, la prateria sconfinata, la salvezza.

C A tarda sera essi sostarono sotto un albero, in un campo mietuto, e si assopirono. Era l’alba quando si svegliarono, oppressi da un calore soffocante come quello delle terre africane. Ella guardò il suolo arido e bisbigliò atterrita: «Guarda come il terreno si fende in mille crepacci neri! Ho tanta paura!» Egli guardò, trasognato. «Che orrore! Non vedi? Ancora se ne aprono, silenziosamente. Quelli già aperti si allargano e pare come se ne escano lingue di fuoco…» Egli guardò ancora, girando intorno pel vasto campo la testa appesantita. Ma, repentinamente, entrambi balzarono in piedi. Dinanzi a loro uno di questi crepacci si allargava lentamente e sembrò come se qualche essere vivente si muovesse là dentro. Poi essi udirono un sibilo e un occhio tondo e nero li fissò. Dalla bocca della fessura emerse la testa di un grosso serpente, dalla lingua rossa e vibrante come una fiamma al vento. Essi indietreggiarono, pieni di ribrezzo, mentre il serpente sguisciava fuori lentamente, così che pareva fosse interminabile. ...

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avieri Nella stessa collana

Arno Schmidt, Dalla vita di un fauno Marco Palasciano, Prove tecniche di romanzo storico Maurizio Rossi, Mare Padanum Walter Kempowski, TadellÜser & Wolff. Un romanzo borghese Arno Schmidt, Brand’s Haide Giovanni Cossu, Turritani Gherardo Bortolotti, Tecniche di basso livello Arno Schmidt, Specchi neri



Antonio Pizzuto (Palermo, 1893 – Roma, 1976) è il narratore forse più originale del nostro Novecento. Cresciuto in una famiglia di tradizioni umanistiche, si laureò in giurisprudenza e quindi in filosofia, svolgendo la carriera di funzionario di polizia, conclusa nel 1950 con il grado di questore. Dopo la pensione si dedicò interamente alla scrittura, producendo una serie di opere memorabili per audacia strutturale e perfezione stilistica, che meritarono l’ammirazione di Butor e Contini. Fra esse si ricordano Sul ponte di Avignone, Rapin e Rapier, Così, Signorina Rosina, Si riparano bambole, Ravenna, Paginette, Sinfonia, Testamento, Pagelle, Ultime e Penultime Giunte e virgole, Spegnere le caldaie. Dopo un ventennio di “oscuramento”, Pizzuto è stato negli ultimi anni oggetto di una riscoperta che ha portato alla ristampa di varie opere, alla pubblicazione di molti inediti e di numerosi epistolari.


Era un’enorme testa umana, del verde colore delle patine antiche, dalla chioma incolta, dalla pelle dura, che il sole e il sale avevano ispessita e bruciata. Come l’aria calda e pesante prosciugava l’acqua nei solchi profondi delle rughe, incrociantisi in ogni senso sulla sua larga fronte, essa si immergeva nel mare. Allora le ciocche prolisse e spesse dei suoi capelli, dopo avere fluttuato un po’ sotto il pelo dell’acqua, come le matasse delle alghe attaccate sui bassifondi, scomparivano lentamente nell’azzurro.

ISBN 978-88-89312-60-5

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9 7 8 8 8 8 9 3 1 2 6 0 5


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