Maurizio Rossi - Mare Padanum

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Maurizio Rossi

Mare Padanum

Lavieri


A quasi dieci anni di distanza da Mille non più Mille, Maurizio Rossi torna a invitarci, a nostro rischio e pericolo, nella sua minuscola valle piacentina, prodigiosa fornace di invenzioni ad alto tasso esplosivo. Nei quattro racconti di Mare Padanum, Gerbasius e Panfilius, in fuga dall’Ufficio Pergamene per cui lavorerebbero, sperimentano la problematica arcadia delle terre del Rosello. Tra Baggini e calaie s’innescano a catena, in successioni esilaranti, galli taumaturgici, galline cubiste, velivoli spaziali, vetture Zil/Zis 110, diligenze Wells Fargo Express o vascelli fantasma. L’elegia rurale, vagheggiata ma irrimediabilmente perduta, è sottoposta a una trance ritmica e alimenta l’industria a ciclo continuo delle analogie. Eppure questa centrifuga di comicità presta al lettore, tra le pieghe del racconto, un sillabario tanto faceto quanto implacabile del sistema Italia, con la sua carovana di maghi, medium, otelmi, nuove pesti e untori, virus dell’aviaria, spin doctors e pescecani della finanza. Cosí potrà accadere anche a noi, come ai filologi di Pollaio di notte, di trovarci «sporti sulla storia senza muoverci di casa».


collana arno 3



Maurizio Rossi

Mare Padanum

L

avieri


Maurizio Rossi Mare Padanum Postfazione di Claudio Vela ISBN 978-88-89312-30-8

Š 2006 Ipermedium comunicazione e servizi s.a.s.

Lavieri editore - via IV Novembre, 19 - 81020 S. Angelo in Formis (CE). info@lavieri.it www.lavieri.it


Sommario

Mare Padanum . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7 Rudo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 29 Rune al pelo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 53 Pollaio di notte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 79 Nelle spire della sintassi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 153

di Claudio Vela


Desidero ringraziare i compagni di immersione, grazie ai quali i fondali di Mare Padanum consentono al lettore piĂş pescoso bottino: Domenico Pinto, Claudio Vela, Antonio Pane, Alessandro Fo, Anna Riva, Lucia Zanangeli e Sara Rossi.


Mare Padanum

Nel pomeriggio afoso dei Baggini, a lato del Rosello, nella frescura di bardane e sambuchi cresciuti serrati a nasconderne l’acqua, disegnavano la calaia, di storti graffiti, segni serpentini di bisce nella sabbia, trascinati per traverso con le forze arse delle spire, piú larghi nelle anse dove i rettili, rilassando la pancia di sorci e di rospi indigesti, nel bussare tentoni all’uscita, formavano solchi piú netti d’impronte. Quelle strisce sbilenche di curve e tornanti, erano la traccia continua di stradini ubriachi al delineare smarrito mezzerie, dividendo carreggiate e sensi di marcia, in piste larghissime o strette, per ciclisti e pedoni, che seguirle portavano ai fossi, emergendo, piú avanti, per finire di nuovo in cunette. Le bisce della Costa di Sariano, discese a frotte per dissetarsi in quell’ora deserta, quando il sonno prendeva i contadini piú vecchi, con gli altri a figliare al riparo, inseguite ruzzoloni da galline e da tacchini di guardia, varcavano esauste la calaia del Rosello – ultimo tratto nudo a rischio elevato di cattivi incontri – prima di sparire, con guizzi veloci, nella frescura verde delle pozze, finalmente in salvo. Si vedevano ancora, dietro al loro scorrere, col tendersi di poderose ragnatele gremite di prede asseccate e di ragni alla mensa, muoversi appena razze ed erbe alte, discrete nel fruscío di spire nascoste, al rilascio di un senso di freddo, pur nell’afa dell’ora. Sopra la calaia, cortecce ferite da roncole invernali, fronde cascanti di robinia e di ciliegio distillavano resina pastosa, piovendola da foglie disposte a minuscoli condotti, raccolta in rivoli sui tronchi, in lentissime colate trasparenti, in gocce d’unto finite per terra a legarsi di sabbia e scambiate, da formiche e insetti ormai prigionieri di colle, col miele in grumi di favi pencoloni.


Era quello il momento del pericolo maggiore, che si annidava in sosta nell’ombra breve delle siepi confuso coi rovi, dove un attimo prima c’era niente; tutto quieto, tutto tranquillo, e subito dopo, chiuso un occhio solo – vigilanza e controllo sciolti nel sudore di un istante –, la guerra era già persa, il nemico accampato in casa a far festa, all’inventario delle cose, alla stima dei beni, a decidere, coi soldi altrui, sulle spese e gli acquisti massicci di mutande e accendini, di calze, tappeti e scendiletto per la notte. A Gerbasius, affondato dopopranzo nella sdraio del lamento, sul rialzo in pietra davanti a casa, faccia a faccia col Rosello – il telo gatteggiava sui legni d’appoggio simile alla placenta di una mucca lucida di parto – pareva impossibile, in quell’aria ferma che precedeva e aggrumava come caglio nel latte l’addensarsi di complotti, non dovesse capitare qualcosa di improvviso, qualche sorpresa, qualche nuovo imbroglio. Quell’attesa, che l’aveva piú volte irriso, proclamandolo sconfitto per un colpo di sonno, nel timore di nuove sortite, gli generava ora un malessere cieco nella costrizione di visceri irrequieti, di fastidio per la resa giornaliera, registrata a denti stretti come vittoria concessa per buon cuore; ma guai stavolta, lo sentiva, guai a lasciarsi prendere dal pisolo incombente, che avrebbe dilagato nuovi greci stupiti dentro Troia, presa alfine col caldo e con l’abbiocco, senza piú l’inganno macchinoso del cavallo. Ogni tanto – sembrava un ufficiale di Legione, sotto Algeri calcinata dal sole – dava una voce a Panfilius, per sentire se era sveglio o dormiente bocconi alla garitta d’ingresso sui Baggini; la punta della lingua all’infuori, assiso sbilenco sulla vecchia comoda forgiata a tronetto di gottosi, con un buco abbrunito nel mezzo, nascosto da un cuscino di cuoio, nella fossa centrale di un gorgo, per la funzione originale del seggio nel richiamo a sgravarsi. Davanti avevano entrambi – uno ritratto rispetto all’altro, nella collocazione strategica di posti di blocco – la calaia diritta dei Baggini, nel bianco di sabbie marine, contrastata alle spalle dal fondale di boschi d’agrifoglio e di castagni in ripida salita, e piú in alto ancora, solubili nella calura, dalle cime di Chiesa Vecchia, coi picchi di pioppi moai rivolti inclinati al Rosello, a scrutarne il percorso sottile. Panfilius rispondeva, con parole tronche già cotte di sonno, nel garbuglio onirico di dormiveglia interrotti a sentinelle sfinite da pugnette, che avrebbero, in quell’istante, sparsi segreti nucleari, svenduto caserma, 10


commilitoni e comandante insieme, per un’ora di riposo stravaccato in branda, con fucile, giberne e cartucciere addosso. A fianco delle vedette schierate in difesa, sotto il portico degli attrezzi, pieno di ruote e di cerchioni alla rinfusa, di mole e di lame arrugginite come alabarde sbrecciate di spagnoli, sul trattore Bubba a testa calda, mani strette sulle leve, il vecchio Canaja dormiva da cavallo, asciutto, aspro, senza sudori, insensibile al caldo e al freddo, che prendeva come compagni alternati di stagione, senza lodarne o lamentarne vizi che, farlo, significava sprecare inutili parole, accodarsi a commenti banali di gente comune senza niente da dire. Immobile al suo posto, era la mummia rinsecchita di un carrista al coperchio di un blindato colpito da mine e lanciafiamme, testarda ai comandi, in attesa di un ordine a partire, nonostante i danni al mezzo e le ustioni sofferte nel silenzio. Da giovane, per scommessa coi compagni coscritti, aveva sposato Mariella, la maestra del paese, tutta grazia e lusinghe, devota al Regime nel crescere bimbi guerrieri, e il giorno dopo – calzoni corti e grembiulino, colletto e fiocco azzurro stretti al collo – studiava sui banchi della scuola aperta in casa – mani in prima, mani in seconda, sulle dita la bacchetta quadrata, segnare alla lavagna buoni e cattivi, compiti e dettati, riassunti e problemi – per lacune formative da colmare in tempi brevi che, trascorso metà dell’anno in quello stato, la bocciatura sarebbe apparsa quasi certa, precludendo vacanze in colonia marina. Di pomeriggio, letture amene e marmellata di prugne per merenda, brodi magri con erbette appena sera, e la notte, prima di salire al talamo nuziale bardato di scuri e fasci del Littorio, lezioni educative sulle imprese culturali d’Oltremare; speranzoso, sulle prime, il camiciotto appuntito a naso di Pinocchio, via via zampillo spento di fontane estive, fra le risa dei compagni sul martirio dell’amico, implacabili nel rimarcare la sorte di chi s’appressava a una maestra, non essendole superiore almeno in fatto di cultura, con la quale preparare approcci raffinati, come rapporti e circolari della scuola inviati mensilmente al ministero. Quando, ormai rassegnato alla rinuncia per amore della scuola, secchione col massimo dei voti, pensando di far bene, di dare una scossa a quel pantano di studi e merendine, via di colpo il camiciotto dal luogo dei supplizi, s’era concesso di festeggiare, prendendo Mariella di sorpresa nell’imperio d’usanze coloniali – messa di spalletta, glutei al consorte e mani giunte rivolte al federale erano stati un chia11


ro nullaosta a quell’impresa –, nel buio dei Baggini accanto ai fasci del letto a baldacchino s’era sentito un urlo agghiacciato per la valle del Rosello, con tassi e volpi ad annusare, dalle tane del riposo, l’aria di un contratto messo in crisi; in fuga la maestra nella notte di bauli e valigie, vessilli e gagliardetti; chiusa la scuola elementare, via le cartine d’Italia, il pallottoliere e le lavagne dalla casa; e tutti guardavano Canaja con sospetto, in partenza frettolosa, volontario per l’Africa Orientale, ancora bianco di gessi e cancellini, col sette in condotta impresso a vita per atti osceni in spregio all’insegnante. I legionari del fortino sotto Algeri, uno a sdraio e l’altro sulla comoda sbilenca per gottosi, erano immersi nei giochi d’ombra e nelle correnti fresche dei muri delle case; meglio evitare in quelle ore il sole a picco, che macchiava la pelle di tumori, sfogliandola a trucioli di betulle, scoprendo il rosso vivo delle carni. L’effetto serra, riferivano i giornali nell’allarme balneare di notizie diffuse da scienziati, percorso in un soffio la Romagna e l’Emilia troppo piatte, avrebbe sospinto entro breve il mare balcano dalle parti di Piacenza, e piú oltre ai contrafforti d’Appennino, e intanto aveva condotto Gerbasius all’agenzia immobiliare Per Piccina Che Tu Sia, e il giorno stesso da Canaja, che, possidente bonaccione, pareva ansioso di regalare case e stalle ai Baggini, raccontando mani al cuore – «le balle non son buone» – che era ormai stanco del lavoro e degli affanni del raccolto, dopo una vita intera trascorsa in mezzo ai campi, e che proprio per quello in cambio di due soldi si disfaceva volentieri della roba, degli attrezzi da lavoro, beni necessari di una volta, e ora insopportabile gravame di vecchiaia. «Non ho nessuno io; non consumo tutta nemmeno la pensione: che mi giova tribolare; a chi lascio, a mia moglie, mai piú vista dai tempi delle nozze per un guizzo regolare fra sposini? Non sposate una maestra, ve’, vi raccomando!». Due soldi, una pacca e uno sputo asciutto d’accordo sulle mani – il geometro aveva ritirato le sue per tempo –, messa la firma in calce al compromesso, disattesi i consigli alla prudenza, a non fidarsi troppo di lavori intrapresi alla leggera, di bestie e di trattori, un giorno buoni e l’altro ostili, specie se capivano di poter fare voce grossa davanti agli inesperti. Massimamente, passi di piombo con Canaja, novant’anni e oltre, volontario d’Etiopia all’Amba Alagi, che sembrava un mite vecchietto bisognoso di parole buone e caramelle molli in gelatine, 12


e un minuto dopo compariva unto di costine di maiale sfilacciate mezzo crude per la fame da caserma, rompeva mandorle e nocciole coi denti sani di un ventenne, usati al posto di soverchi schiaccianoci; riconduceva alle stalle, esausti e perdenti nella lotta, tori fuggiti dalle greppie all’esca di giovenche in calore, stiracchiati vergognosi per le orecchie, a testa bassa come discoli in collegio, alla gogna dei compagni. Ma la notte, sicuro d’esser solo nei campi, piangeva ancora, nei ricordi di guerra; occhi neri di fanciulle infossati al passaggio di truppe, incursioni ai villaggi di donne ospitali, avvolte scalze da teli aragosta, di bimbi ricciuti in spalla alle mamme sapienti d’antiche mattanze; le capanne già in fiamme, nel fuoco di pelli e di legni riarsi. Piú d’uno l’aveva sorpreso in ginocchio, a battere coi pugni tam-tam di memorie, richieste di perdono respinte col silenzio dei boschi, e chi l’aveva scosso, pensandolo ubriaco e chiamandolo per nome, s’era trovato davanti due occhi smarriti, impensabili sul volto legionario di Canaja, costretto all’Africa Orientale, dopo violenze sponsali inflitte a Mariella, e quindi alla Scuola. Gerbasius, con la storia del mare fino ed oltre le mura romane di Piacenza, aveva atterrito anche Panfilius, il collega chino dell’Ufficio Pergamene, cui non aveva concesso tempo bastevole a riflettere; uno taciturno, che a furia di lavorare di destro con la lente, aveva ridotto l’occhio sinistro a chiocciola, nell’opercolo di pomate oftalmiche bigine, e l’altro a ingrossarsi in un grandangolo sporgente che sembrava inquisire il mondo intero in uno sguardo, ed era sempre, anche di notte, con gli occhiali neri, per la brutta impressione che faceva rimanendogli spalancato. Lui, che aveva sempre visto la terra solo nei sacchetti di plastica per fiori, e barriva incontrando un bruco o un topo di campagna, aveva fatto con Gerbasius il giro delle banche in un vortice di firme, fidi e prestiti a tasso agevolato per l’acquisto di rustici e terreni agricoli in aree depresse, presentandosi da Canaja col contante, nell’offerta a un dio agreste goloso di valuta, presa però come volgare imposizione di contratto, con lo schifo d’accostarsi a roba infetta, senza verificarne l’ammontare per la fiducia espressa ai suoi clienti: «Un regalo, un vero regalo vi ho fatto quest’oggi; mi avete colto nel momento adatto; ieri, ad esempio, che mi sentivo piú in forze, vi avrei chiesto almeno il doppio di quanto pattuito». Poi il suggello drammatico di chi d’improvviso si separa da cose cedute a 13


malincuore, generando la certezza assoluta, la controprova del buon affare appena fatto: «Ma se per caso non siete contenti, se siete pentiti, se ci volete ripensare, ecco i soldi – anzi, ci metto su qualcosa, perfino –, e mi ripiglio di nuovo tutto quanto, trattenendo la caparra; cosa dite?». «No, no» s’erano affrettati i due aspiranti agricoltori a ricacciare verso il vecchio i soldi delle banche in piccole mazzette – la caparra copriva circa un terzo del contratto – nel gesto deciso di croupier alla paletta di consegna di fiches appena vinte, «ci mancherebbe altro!». «Allora, se siete soddisfatti come dite, in caso di bisogno» recitava accomodante Canaja, offrendosi al lavoro da garzone sottoposto «semmai vi servirà un aiuto in avvenire, un consiglio, una parola, a una paga onesta, vi darò una mano, per meglio introdurvi a questa vita, ma poi vedrete che in breve tempo sarete voi a farmi da maestri...». Dopo una vita insieme trascorsa a inventariare Carlo Magno e il Barbarossa, Goffredo di Buglione e Alberto da Giussano, bolle, anatemi e scomuniche di papi, beghe di feudatari folli per la terra e prole folle per natura, carestie, pesti bubboniche e sortite del colera, era parso ai due soci ragionevole intitolare la neonata azienda agricola All’Ospitale, con tanto di insegna rustica sopra a due pali uniti da un traverso, come all’ingresso di un ranch americano del Nevada, con disappunto di Canaja che vedeva in quel nome un’ombra di morbi medievali pieni di sfiga e pellegrini da curare, fra oli e grassi, vini e clisteri come unici rimedi. «Però, contenti loro...» borbottava il vecchio, tastando e accarezzando la sacca in cuoio, giorno e notte a tracolla nel bagaglio di un cowboy provvisto di fagioli e carne secca, abbicata a rotoli compressi coi soldi di una vita e con quelli dell’affare appena fatto, in banconote nuove da cinquecentomila a sigillarne il mucchio, come strato conclusivo di lasagne gonfie di cottura e brinate di formaggio. Il giorno dopo col passaggio di consegne – in realtà il venditore si comportava da perfetto proprietario e gli acquirenti da garzoni per timore d’irritarlo, di perderne l’aiuto – era iniziato il tour pomeridiano di strani pellegrini all’Ospitale, agricoli del luogo e commercianti d’ogni sorta d’attrezzi e di concimi, d’erbicidi dei vigneti, di mangimi per le bestie, di motoseghe e motozappe, di ricambi e d’estintori, di petroli e grassi da motrici; assicuratori di polizze del fuoco e della brina, della grandine e dei ladri, e Canaja, monarca al vaglio di pro14


poste, accoglieva tutti in parlatorio per gli omaggi della stampa estera o di potenti venuti a visitarlo, e accordava, scacciava, prometteva e acquistava, chiamando alla fine Gerbasius e Panfilius a siglare qualche assegno in doppia firma, per il controllo rigoroso delle uscite. «Ma chi è il padrone qui, insomma?» chiedeva quella folla d’imbroglioni, consorziata nel lucrare sprovveduti. «A voi che importa; non basta che vi paghi? Vi si deve qualcosa? No? allora a casa...». Diffusa la notizia di grana fresca in mano a un vecchio, erano apparsi da Canaja funzionari d’istituti misteriosi, che parlavano di briganti e soldi falsi e volevano vedere proprio quelli riscossi dai ragazzi, emessi da zecche clandestine, e portarseli tutti in sede per controlli, dietro rilascio beninteso di regolare ricevuta. Il reduce d’Etiopia – era chiara la sua buona fede, l’avevano rassicurato i funzionari, e non sarebbe incorso in nessun guaio – aveva tolto di saccoccia qualche mille lire con il volto della Montessori sgualcito, monetine da cinquanta e caramelle di pomo saldate insieme a dei bottoni per il caldo. Nella tasca del bustino, da pile di fazzoletti ingialliti nei raffreddori d’anni prima, da gagliardetti delle Squadre del Coraggio, guarniti di teschi sorridenti estratti insieme a soldi coloniali, era comparso un coltellaccio, apertosi di scatto nella presa – lama a scimitarra etiope lunga una spanna, col verso arioso dell’affondo negli addomi –, e il controllo dei soldi, pur pressante, era stato rimandato per la fretta dei bancari, pretesi in sede da questioni d’altissima finanza. «Volevano qualcosa quei signori?» avevano chiesto Gerbasius e Panfilius, in tuta già lacera per l’incontro di stoppie e fili spinati. «No, no; erano pittime che volevano comprare quello che è ormai vostro di diritto; davano il doppio, pensate la scalogna, ma ormai l’affare è fatto, e indietro non si torna. Eh, mai avere fretta nel disfarsi delle cose. Lo dicevano i miei vecchi: quando hai venduto, ragazzo, sta’ sicuro d’aver fatto un brutto affare; tenetelo a mente il tesoro che vi dico!». In margine al compromesso concluso con Canaja c’era una specie di contratto-testamento a voce – garanti il prete e il geometro del luogo – e gli acquirenti si impegnavano a occuparsi tutti i giorni del vecchio venditore, a sostenerlo nel momento del bisogno, ad accudirlo come un padre ormai prossimo alla fine, visto il prezzo mite accordato ai transfughi dello Stato. Da una parte, l’uno, senza congiunti, 15


senza Mariella, per il brutale assalto subito dalla donna appena sposa, evitava di finire al lazzaretto – cosí Canaja chiamava le case di riposo, in mano ad aguzzine ingorde di lasciti e regali degli ospiti in parcheggio – e, dall’altra, i novelli agricoltori, alla sua morte, ne diventavano, beni e danari, gli unici eredi. «Ma sarà questione di poco, ve’...» li avevano rassicurati i garanti, a bassa voce per l’udito finissimo del vecchio, che tuttavia sentiva o non sentiva a seconda d’interessi «di qualche mese, al massimo qualche anno; al primo colpo d’aria, al secondo starnuto, cosa volete: ciao Canaja!...» e poi, occhi al cielo, avevano fatto, con le mani, il gesto di liberare una colomba, nella spinta di partenza a quell’anima. Erano invece trascorsi molti inverni, ed ora si era di nuovo all’estate, una stagione un poco strana, con freddo e caldo, pioggia e neve insieme, che sembravano i colori vorticati della pace, il temuto segnale di tempi inauditi, di ghiacci disciolti, di pianure invase dall’acqua salmastra di fiumi respinti alla foce. Canaja, con le Nazionali senza filtro, via una l’altra sempre accese in bocca, mostrava di stare molto bene, e solo la testa ogni tanto, con la memoria che andava e veniva, dava piccoli segni di stanchezza ma, come diceva il medico, era l’arterio, e avrebbe voluto vedere altri di città, con quegli anni in groppa, fare cosí il galletto tutti i giorni. Per virtú del compromesso sottoscritto e dell’aggiunta a voce, Canaja, soldi e roba, di nuovo padrone del convento cui faceva da custode, accontentandosi di un fisso tutti i mesi, rilasciava in cambio un biglietto a matita con su scritto riscosso, senza nessun altro segno che indicasse il mese e l’anno, il valore e il motivo per quanto incamerato. Gerbasius e Panfilius, di là a fare danni nei poderi – non si era mai certi di vederli ritornare, una volta partiti – uno diceva tira e l’altro molla, sballottati come fuscelli da camiazze e trattori malvagi, che decidevano loro da che parte andare (bisognava allora scendere, toccarli e accarezzarli come buoi testardi offesi dalla sferza), se procedere avanti o indietro, forte o piano, dritti verso cime asciutte, o in folle, su due ruote, ai campi molli, dove impantanarsi pachidermi, nel fresco delle mote. Poco importava cosa volesse il conducente stretto alle leve ed irto sui pedali, e Pompilio Scoppi, il meccanico del paese che lavorava ormai solo per loro a tempo pieno, era quasi ammattito nell’assistere passivo alla ribellione quotidiana delle cose, 16


all’avviarsi inatteso di ruote e di pulegge, di cinghie e di cinghioni, di moltipliche dentate e bilancieri; via le mani per tempo dagli ingranaggi sanguinari, smossi di colpo – ancora un istante di ritardo e avrebbe ritratto, al loro posto, spezzatino –, dove pareva che le macchine bizzarre volessero avere solo Canaja come addetto di manovra, che ne conosceva slanci e bisogni, sentimenti e tempi di riposo, e per quel lavoro non previsto, per ogni giorno passato sopra i mezzi, il vecchio avrebbe avuto la paga sindacale, esclusi i contributi, piú il dieci per cento sul totale dei raccolti a fine anno. E quando i temporali, in bilico fra i pioppi, levitanti a panna espansa su Chiesa Vecchia e Monterosso, rotolavano al Rosello per spinte di titani ai giochi estivi, Gerbasius e Panfilius riparavano, veloci guerriglieri, sotto carri e camiazze delle messi, attenti ai complotti di cingoli, di ruote e freni a cremagliera manomessi all’improvviso da fantasmi agrari, richiamando inutilmente Canaja, al centro della corte a sfidare scamiciato tuono e baleno, ridendo a venticelli, a pioggerelle da nonnulla, a chicchi di grandine benigna, che raccoglieva anzi nelle mani dal palmo a scodella, aspirandoli alla bocca come rinfrescanti confetti di granite. Sentivano, nella nebbia fitta che avvolgeva il frastuono, vento e tempesta in combutta flagellare vigneti e campi di frumento maturo, boschi profondi di querce e castagni, nello sfascio di flutti rurali agli scogli dell’Emilia Romagna, ed era prossima – s’intuiva dai fragori d’ondate alla risacca – la comparsa di galere e di triremi, piene di schiavi nelle stive, del vascello nero, vele a brandelloni, alberi rotti e lucerne accese, con la bandiera svolacchiata della Filibusta, nel ghigno nautico della morte bella. Allora Gerbasius, da coniuge timoroso di un diniego, si avvicinava a Panfilius, un poco ritirato, e mormorava all’orecchio, con la voce di un santone che conoscesse la data esatta del Diluvio imminente: «È la volta buona, sai; credo che ci siamo, senti anche tu il mare che avanza da lontano? Il respiro delle onde, il canto d’uccelli marini, le voci saracene dei mercanti di cristiani? A quest’ora deve avere già sommerso Piacenza, Cremona e tutta la Bassa; sepolto per sempre sott’acqua Palazzo Farnese, con quadri e carrozze, pergamene e disegni di chiese e castelli. Non senti, perbacco, lo iodio che allarga le narici e i polmoni? Guarda là in fondo; non sono gabbiani grassocci rigonfi di triglie?...» e perforava con gli occhi – indici delle mani a doppia mitragliera ai volatili marini – il cielo scuro veleggiato da borse della spesa, da sac17


chetti e cartocci di agricoli insensibili all’ambiente, nei volteggi fra nubi di piccoli alianti. Panfilius, ottenebrato dal santone, osservava davvero il cielo e la calaia percorsi dai rifiuti biancacci, e fissava, balbettando nel dialetto al torrone dolce di Cremona, teli e lenzuola ad aquilone, scambiati per mezzi aerei dei pompieri della protezione civile al soccorso di bagnanti sorpresi da un’onda anomala partita dai Balcani piú irrequieti. Saltellava di qua e di là sotto carri e camiazze – «Potevano mica, la miseria, Lassú aspettare un altro poco?» – occhi spiritati al precipitare degli eventi; maghi santi e profeti per una volta concordi, e si disperava, pugni in terra, a martellare di proteste il Cielo, che metteva buoni e cattivi nella stessa tinozza, per costumi dissoluti importati dall’Olanda. Trascorso un quarto d’ora di diluvio e d’arrembaggi, di marosi e di risacche, splendeva di nuovo il sole di terraferma, con l’afa di nebbie maligne, di cotture a vapore in ascesa sui boschi; sciolta la grandine a confetti, odore d’erbe rotte intorno. Il Mare Padano ritirava le acque al di là di Piacenza, e Canaja, dalla corte di casa, compatiti con gli occhi i garzoni, risparmiati per la farsa gustosa di saltimbanchi campagnoli, scuoteva la testa negriera, nel rimedio sicuro a quei mali: «Qui, se non trovano una donna, quei ragazzi sono persi!...». Dopo i campi, i boschi e i vigneti – non si sapeva chi aveva piú bisogno di soccorso e d’intervento urgente – Gerbasius e Panfilius, nell’aspetto di satiri pelosi di ritorno da un convegno baccanale, a casa verso sera, erano attesi da Canaja affamato sulla porta, che ticchettava con un dito all’orologio in mano, nella protesta per l’ora tarda della cena. Dovevano mettersi dunque, secondo la stagione – via le tute, era il momento di grembiali e grembiulini – uno alle stalle a mungere mucche, l’altro in cucina a preparare zuppe di verdure e polentine, sformati di spinaci e di carote, galletti da riempire per il brodo dei festivi, pasticci di pasta all’uovo e mozzarella, ricchi zabaioni per la fiacca estiva. Seguivano i panni da stirare, il pollaio e la gabbia dei conigli, i conti giornalieri, col quadernuccio degli incassi e quello piú grosso delle spese, a segnalare in rosso lo stato del bilancio. A notte fonda – Canaja davanti al bottiglione di Fruttano che assopiva appena storie di donne coloniali – Gerbasius e Panfilius, l’uno accosto all’altro spalla a spalla, una testa sola a doppia mela, tenevano 18


consiglio carbonaro, con occhio torbido e voce roca da sicari, con la mano già pronta sull’elsa di spadoni. Si chiedevano quale scafista li avesse prelevati dai Balcani per venderli agli agricoli locali a basso prezzo, e del come uscire in fretta dall’imbroglio: disfare tutto, indietro la roba, riavere i soldi, e amici come prima; una bell’impresa, si fa presto a dirlo. Poi, superato quello scoglio, subito domanda al Ministero, di tornare in servizio senza grilli, e bussare infine all’Istituto delle Case Popolari, e forse, bontà del direttore, si era ancora in tempo a ricucire lo strappo della fuga, decisa troppo in fretta, per il business di case e di poderi, ingrandito a dismisura da Canaja, fonte di sperpero e fatiche, di pericoli e malanni, bastando appena il povero guadagno a pagare il vecchio un tanto al mese. «Domani» li complimentava Canaja, che fiutava da tempo una cert’aria di rivolta «domani ci faremo un’arrabbiata con cotiche arrostite, braciole di maiale sulla griglia, una crostata di prugne Sangiovanne per gradire, e da bere, un bianco dolce d’uve passe, un Moscato, un Malvasia; cosa ne dite, non v’attira?» li interrogava, collo e faccia asciutti scavati all’Amba Alagi, sporti in avanti di continuo, a sollecitare entusiasmo alla proposta alimentare, e rimaneva in attesa, guardando sbalordito, ora Gerbasius, ora Panfilius, per la lentezza della risposta che tardava. Sapevano, quei servi della gleba, che era meglio accontentarlo il piú possibile, pena il sentirlo protestare di accordi disattesi, e che se doveva, giunto alla sua età, patire anche la fame e accogliere la morte a pancia vuota, come lamentava da solo, ben sicuro del pubblico in ascolto, pur a malincuore si sarebbe proceduto alla risoluzione del contratto, che nelle clausole piccine, a voce, a pacche e a mani sputacchiate, tra scritte ambigue sibilline, assicuravano al vecchio comunque andassero le cose, il ritorno in possesso dei suoi beni, tenendosi in quel modo soldi e roba. Conclusa l’esperienza sfortunata – s’affettava Canaja le mani messe a taglio avanti e indietro, nell’impatto dei palmi di Pilato – per carità, amici come prima, senza rancore, senza cattiverie; ciascuno a casa propria contento; in fondo non ci si era mica sposati in chiesa, mantenendo ciascuno il diritto di decidere le cose, di fare e di disfare, ovviamente pagando l’ammenda stabilita. «Come sta Canaja?» chiedevano i contadini veri ai due colleghi, guardati con sospetto – traditori dell’Ufficio, di un posto al sicuro nello Stato – e tuttavia accolti come motori poderosi di ripresa, come insigni benefattori del paese, ai quali, col tempo, avevano finito con 19


l’appioppare in blocco, un tanto al chilo, tutti gli aratri, gli erpici, i trattori, le macchine monumento pagate come nuove, che andavano anche loro dove volevano, ribelli o intempestive, testarde come bestie, invariabilmente rincorse da Pompilio Scoppi, dalle dita amputate alterne nelle bende brune, per le bizze di ferraglia arrugginita, alla messa in moto capricciosa di cinghie e di cilindri. «Tenetelo in gran conto, quel vecchio, ve’; che con lui se ne impara una nuova tutti i giorni; che se dovesse morire!...» e giravano la faccia rossa che scoppiava, inghiottita la tosse delle risa, gonfi come tacchini alla ronda distesa delle pite. Gerbasius e Panfilius avevano finito presto col tenersi alla larga dal paese, per sfuggire alla salacia degli agricoli arricchiti, e cosí, al tribolare quotidiano, s’era aggiunto quello del pane e della pasta fatti in casa, chiusi come in un’abbazia medievale, sufficienti di tutto, alte mura intorno, porte sprangate, con Canaja allo spioncino che faceva da padre portinaio, al presidio sicuro del convento. A suo modo, il vecchio conduceva anche discreti sondaggi d’opinione incentrati su se stesso, e l’ultima volta si era messo a barcollare, gridando braccia aperte di tenerlo, che – vero o falso, riusciva difficile saperlo con certezza – era divenuto cieco all’improvviso, avvertendo, poco prima, lo strappo di una vena che portava gasolio dritto al cervello, seguito da un gran tonfo al cuore; e la pompa, per la falla, era sicuramente andata su di giri, e c’era il rischio concreto di grippare. Steso sul divano, respiro affannoso, occhi socchiusi e parole smozzicate, osservava la preda avvicinarsi ignara. La trappola era in azione, e Gerbasius e Panfilius gli si erano fatti intorno, liberando in volto il piú largo dei sorrisi ereditieri, virato troppo tardi in pieghe di rimedio, studiandolo bocconi, mani prima focaie e infine giunte, piú nel ringraziamento al fato avverso che nella preghiera elevata per mutarlo. «Ah» si era ripreso quasi subito, puntandoli di sbieco, come avesse avvertito, nell’aria infida, fruscío di sarti e di monatti compiaciuti, prendergli precise le misure innanzitempo «a Dio piacendo, dovrebbe essere passata anche stavolta; forse ci si può mettere una pezza, ma il segnale non è bello, vuol dire che la macchina è stanca di girare, e d’altronde, raggiunto il mio tempo, nessuno, un po’ avveduto, può pensare di rimanere ancora a lungo da semente...». Però la convalescenza necessitava di un aiuto, di uno speciale riguardo 20


alimentare, con cibi buoni ma leggeri, sostanziosi e facilmente digeribili dai vecchi: «Mi sentirei di prendere un brodino, quello buono con la gallina piena, il manzo e una costina di maiale; non col dado, ve’, che chissà cosa c’è dentro...». Gerbasius e Panfilius, smesse le divise di sarti e di becchini, presi nella ragnatela di quelle mani che annaspavano cieche l’aria a brandelli come forconi meccanici da fieno, superata la crisi, osservavano il vecchio che mangiava di gran gusto, lodando il cuoco e il cantiniere, lusingandoli che se continuavano cosí a far del bene, lui avrebbe messo volentieri la firma, sopportando di buon grado altri cent’anni di dolori come quelli: «O volete forse ammazzarmi col mangiare?». Lo guardavano, Gerbasius e Panfilius, disossare galline fatte lesse, estratte grondanti dalla pentola del brodo, con l’aprire carnoso di libri antichi in mano agli adepti, divaricandone petto e alucce, staccandone cosce nell’opporsi nervoso di snodi resistenti all’appiglio. Spolpate le ossa, sfilate sotto il naso col moto di un archetto di viola, Canaja, convalescente continuo, passava le carni alla bocca con fischi di presa, rilasciando, da un lato, ossicini puliti come pula e paglia scisse dal grano di un trebbiatoio di frumento San Pastore. Fermava ogni tanto tramoggia e trebbiatoio, per la sosta dei condotti ingolfati; la testa e gli occhi in alto, socchiusi a lama nell’aspirazione fonda dei profumi, messi insieme da cuochi sopraffini. «Eh ma ragazzi» vorticava una mano unta a mulinello nel lodare per aria tanta grazia «voi cosí mi viziate; e chi muore mai, messe le cose in questo modo?...». L’ora calda passava sul pianerottolo di casa e alla garitta di presidio, trascinando obliqua di poco o nulla l’ombra di pergole e di muri sospesi sui dormienti, parendo la città di Troia, il convento, l’abbazia dalle alte mura vinti molto prima dell’inizio della pugna; inutile spargere sangue, azzuffarsi con quel caldo, con quell’afa; meglio abbozzare, formulare convenevoli ospitali, confidando nel cuore tenero di nemici dilagati in forze dalle porte aperte. Gerbasius, sfavillante di sudore, sembrava un vitello partorito sulla sdraio, col telo unto al posto della sacca lacerata delle acque; braccia riverse sui sostegni, testa penzoloni che scendeva e risaliva di colpo per l’incontro a punta del petto con il mento; e dopo una scossa, lo svegliarsi torvo d’ubriachi, ricominciava daccapo la complessa animazione, cambiando positura, radunandosi a spalletta, nel tirare fasti21


dioso di canottiere ammollate, fuse alla schiena e alle ascelle grassocce col sudore di colle moschicide. Cosí deposto sulla sdraio, in attesa di un lenzuolo e dell’arrivo del coroner dal distretto di Chicago, era la carcassa insaponata di un boss americano, sorpreso di pomeriggio sul seggio del barbiere, traforato dai clarini della Mala; vetri infranti di bottega, damerini in fuga con torpedo. Aveva davanti a sé, infine sottocasa, le acque un poco limacciose del Mare Padanum, lo sciacquo delle onde ai piedi scalzi, nello srotolarsi intorno di reti in mano a pensionati, che avessero recluso pesciolini, per ghiotte grigliate da fare quella sera. Invano si accostavano ai suoi piedi, infilandosi tra calette di dita accoglienti, pergamene sperse e codici miniati, incunaboli, diplomi imperiali e privilegi di biblioteche e archivi padani, risospinti al largo con calci di fastidio a granchi importuni, rincorsi a nuoto da custodi e commessi, come tanti bagnini coi grembiali di sala: «Piú svelti, piú in fretta, gaglioffi; oddio, oddio, quando lo sapranno al Ministero!...». Gerbasius beveva in un ghigno il sudore del labbro condotto dal canale di mezzo alla bocca socchiusa nel sonno. Panfilius, alle spalle il cuscino di cuoio a frenarne la discesa, risucchiato pressoché per intero dal buco della comoda per ricchi gottosi – a una cert’ora l’attrezzo s’appressava da solo all’antica funzione, bisognevole o meno d’aiuto si mostrasse il paziente –, chiuso a regesto su se stesso, scivolava verso terra nel parto podalico di una sedia patrizia, e per salvarlo, per estrarlo ci sarebbero voluti forcipi seghetti e cesoie, nel pericolo concreto d’asfissia. Il nascituro, scolando con le reni e la patta a una spanna dal suolo, dato inizio al travaglio, aveva battuto al catino di raccolta escrementi, di un bianco smaltato col fuoco, aggredito nel mezzo da ruggini uriche, per l’azione congiunta dei germi. Canaja, sul vecchio Bubba a testa calda, era in Etiopia con Graziani, che gli mostrava Addis Abeba vinta grazie al suo slancio da vero legionario, e ora il generale sul palco – schierati gli onori solenni – appuntava al valoroso una medaglia sul petto, per l’ardore profuso nell’impresa, specialmente nell’attacco alle scuole – soprattutto elementari –, incubatrici e covi, secondo il decorato, di ribelli insofferenti all’ordine italiano. «No, no!» supplicava Canaja incontro allo spillone, ricalcitrando fra leve che lo saldavano al trattore, come al supplizio infernale di un contrappasso per carristi. Ma la medaglia di Graziani, con lo stelo a punta di una lancia tonnara, gli aveva già trafitto giubba coloniale, 22


camicia e petto, ed era emersa ricurva ad ago di sutura, alloggiando a molla nella nicchia dello scatto, a fine corsa, la pelle raccolta a montagnola. Il medagliato gridò nel dolore del tetano introdotto in pieno petto – occhi sbarrati nel risveglio di Don Rodrigo con la peste dentro casa – arrestandosi madido allo schienale del sedile, e vide, disteso per sé, il gran mercato della casbah, le mercanzie sonagli di Dogali e Massaua: tappeti ondeggianti in dune solari di cammello, collanine in fila di pietruzze e vetrini, canottiere e mutande rinforzate sospese su fili, nell’aroma afrodisiaco di lane e di lini in naftalina; orologi e borse fasulli di marchi prestigiosi, parapioggia e ventagli, calze vinaccia per piedi giganti, lunghissime cinture in finta pelle, vasetti di pomate e d’unguenti speciali per vecchi, dove l’etichetta allusiva raffigurava, sullo sfondo di palme e minareti, l’incombenza affollata di un harem e, in primo piano, un pascià nello strizzare l’occhiolino ai clienti. Ad una spanna dagli occhi e dalle orecchie di Canaja, una donna alta e sorridente gli dondolava, aiutata dall’anziana mamma, amuleti e catenelle africane, per sciogliere o imbastire, con voce di regina, incantesimi e cantilene ipnotiche del Sud Sahara. Accarezzavano insieme, con mani colore del miele, terrecotte e sculture in cedro d’elefanti e ippopotami ritratti nel largo sbadiglio, statuine guerriere dai falli a leva piú grossi di gambe, ebani di fanciulle dai lunghi seni di salame gentile, nella scena sconveniente di giungle selvagge, per inglesi bigotti azzimati, giunti in quei posti con caschi e frustini. «Prendi? Compra?...» invitava la giovane donna, e sorrideva la mamma, tonda e ovale nella faccia e nel tronco, da sembrare una palla e un pallino, messi insieme nella forma del numero otto. «Sí, sí, prendo, compro tutto...» balbettava incantato Canaja, che aveva già al collo vetri e luccioli, e ai polsi bracciali di filo e perline, che perfino ragazzi, pezzenti per moda, avrebbero esitato a portare scoperti, col timore di apparire orecchioni. In braccio, la regina d’Etiopia stringeva un bimbetto ricciuto, ambrato dal secco africano, che guardando fisso quel vecchio dava segno di voler finalmente approdare a un parente di sangue reale, parlandogli adagio, da dignitario istruito in un college. La mamma lo tratteneva, baciandolo ogni tanto sollecita ai commerci, asciutta nel caldo, coperta di veli e di toghe nei pigmenti di terre bruciate, e Canaja farfugliando qualcosa di dolce, allargava le braccia nel gesto affettuoso dei nonni. 23



L

avieri

Nella stessa collana Arno Arno Schmidt, Dalla vita di un fauno Marco Palasciano, Prove tecniche di romanzo storico In preparazione Walter Kempowski, TadellÜser & Wolff Arno Schmidt, Brand’s Haide



Maurizio Rossi è nato a Piacenza nel 1950. Ha esordito come poeta, pubblicando la raccolta Orme sulla terra (1979). Seguiranno le opere narrative Vanno a morire gli eroi (1980), Poi viene il vento (1981), Racconti piacentini (1985), Mille non piú Mille (1998) e Tre racconti di Maurizio Rossi (2002).


Il corrierino a trazione integrale, azzurro cielo e nubi bianche della ditta Senectus Fons Aureus – a vederlo in lontananza sembrava un cumulo di bel tempo slittare veloce sulla Parma-La Spezia – mostrava, sull’intera ancata destra, nell’ellisse ammante di una giostra spaziale, nebulose sturate nel gorgo del cosmo, con stelle e pianeti, pentacoli, banconote, monete e numeri del lotto, emessi da zecche aliene agli estremi conni dell’universo. Sull’altra ancata – sovrimpressa in oro la ragione sociale in latino – giganteggiava la Creazione di Adamo, dove cielo e terra parevano toccarsi a breve nell’incontro di due dita, cosicché il torpedone, a seconda del lato esposto – sulla corsia di destra piú lenta o su quella di sorpasso – poteva apparire come il mezzo collettivo di un circolo d’astrologi, d’astroli e occultisti in vista di un’eclisse solare, quando non d’anziani religiosi, chierichetti e catechisti in gita estiva, con merenda al sacco curata dalle suore.

ISBN 978-88-89312-30-8

12,50 (i.i.) ISBN 978-88-89312-30-8

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