UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI NAPOLI FEDERICO II
DIPARTIMENTO DI SCIENZE SOCIALI CORSO DI LAUREA IN COMUNICAZIONE PUBBLICA, SOCIALE E POLITICA Elaborato in Sociologia della Conoscenza
IL MONDO OPALESCENTE DELL’IMPOSTORE DIGITALE
Professore: Gianfranco PECCHINENDA
ANNO ACCADEMICO 2017 - 2018
Studente: Alessandro GRIECO M15/1019
Introduzione In seguito agli interessanti spunti proposti dal Professore Gianfranco Pecchinenda, in merito al corso di Sociologia della Conoscenza, è sorto per me spontaneo trattare in questo elaborato la tendenza dell’uomo a fuggire dalla sua vita istituzionalmente costituita. Uno degli strumenti che dal nuovo millennio si è imposto come territorio al confine, frontiera di inusitate esperienze, è il web. Internet, la Rete, il cyberspace, questo non-luogo ha molteplici denominazioni, ma esso si distingue certamente per le sue capacità di riscrivere i rapporti tra l’uomo e le dimensioni spazio-temporali, ponendolo dinanzi a nuove relazioni sociali ed evoluzioni cognitive. Il signore che padroneggia indefesso sul mondo è ora immerso nell’iperspazio della comunicazione, rispetto al quale non è più il centro, si trasforma nel cosiddetto “terminale uomo” 1. L’essere umano diviene un host, un nodo ospite, che abita e si lascia abitare dallo spazio digitale in un’interconnessione sempre più invadente, che spesso lascia l’essere in balia delle fitte trame binarie in costante mutamento. Questo immenso continente di bit è divenuto un sistema di possibile fuga, di accesso a vite plurime e impensabili fino a pochi anni fa. Su Internet sembrerebbe possibile simulare la scrittura del proprio genoma che, dai mirabili studi di James Watson e Francis Crick sul DNA, pareva essere qualcosa di assolutamente immutabile, spesso adombrato da un velo di crudele fatalità. Dall’Umanesimo in poi l’uomo, infatti, si riappropria della sua appartenenza terrigena, rinnegando le tesi trascendentiste di aspirazione alla vita ultraterrena come fine unico della propria esistenza. A questa riconfigurazione dell’esistenza si associano anche nuove consapevolezze, prevalentemente di natura scientifica, che attraverso la giustificazione dettata dalle leggi naturali si propongono come vero e proprio sistema di controllo e determinazione della società. Imponendo, per motivi di sintesi, un balzo in avanti di non pochi secoli, approdiamo all’accesso democratico ai mezzi di produzione offerta dalle nuove tecnologie. Con queste non solo è possibile produrre artefatti di vario genere, eliminando l’esigenza di disporre di grossi capitali, ma diventare dei produttori di se stessi. In questo elaborato sarà mia intenzione investigare il modo in cui l’agire umano si esprime in Rete secondo canoni predefiniti e in linea con quelli che sortiscono effetti ordinativi anche nella realtà che per chiarezza, da ora in poi, chiameremo “fisica”, ponendo lo sguardo sul paradosso per cui uno strumento che promette capacità escatologiche, in realtà, si dimostra l’ennesima 1
C. Formenti, Prometeo e Hermes, Napoli, Liguori, 1987, p. 98.
narrazione che l’uomo si racconta. In particolare, sarà di mio interesse non interrogare tutte le sfere di significazione che compongono la società, ma quelle che interessano l’identità, il Sé, le soggettività, i ruoli istituzionalizzati e la tendenza, tutta umana, a lasciarsi soggiogare entro dei cuscinetti di realtà costruita che portano l’individuo ad assumere comportamenti che lo definiscono un “impostore”.
L’impostore digitale
La svolta virtuale che stiamo noi tutti sperimentando da diversi lustri, induce a ripensare alle esistenze umane, sempre più protese a sperimentare processi di defisicizzazione e delocalizzazione, in uno stato di interdizione tra materialità e immaterialità in cui coesistono due modalità di articolazione della soggettività contemporanea, una che vive “in un tempo differito, nella città reale, l’altra tra le reti di comunicazione” 2. Se questo assunto è vero, allora esistono anche due modi di comportamento differenziati. Se agisco in un modo nella spazialità fisica, avrò la possibilità di determinarmi in un modo potenzialmente altro in quella virtuale. Uno degli strumenti di azione dell’uomo fa affidamento all’orientamento, corrispondente spaziale tra ricordo, istinto e luogo. Gli spazi simulati della digitalità, pur essendo il prodotto di una creazione umana, non offrono alcuna mappa per questi territori globalmente condivisi. Questo perché la mappa digitalizzata, è sia un referente perfettamente simulato della realtà, sia qualcosa di completamente altro. In una mappa senza coordinate, senza punti di riferimento fisici, posso andare ovunque, fare qualsiasi cosa, essere ciò che desidero. L’appartenenza territoriale, il radicamento di ognuno di noi ad una definita spazialità, diviene un problema secondario, quasi un fastidio da eliminare. L’uomo si lascia contaminare da plurime influenze provenienti da tutto il mondo e un ragazzo di Pozzuoli può, a sua scelta, essere pressoché paragonabile ad uno di Manchester senza averla mai visitata, se l’assunzione del territorio natio come sostrato di valori non fosse un processo fondamentale per la creazione della propria identità. Nello spazio informatico, diventato centro di gravità della comunicazione, gli enti immateriali sono riconducibili a costrutti di dati che presentano “una forma, un’identità e una realtà effettiva” 3
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P. Virilio, Marginal Groups, Daidalos, 1993. M. Benedikt, Cyberspace: primi passi nella realtà virtuale, Padova, Muzzio, 1993.
differenti e alternative rispetto alla forma, all’identità e alla realtà effettiva che posseggono nel mondo gravitazionale. Si sono ormai realizzati il processo di deterritorializzazione dell’identità e le possibilità di una sua costruzione su orizzonti translocali e transtemporali fa accedere l’uomo a nuove configurazioni della personalità. Si espande lo spazio della socialità da luogo della comunicazione a luogo della comunità, dislocando e ricollocando il senso di appartenenza e di convivialità. Questo spazio comune aggredisce l’Io del soggetto mettendolo difronte ad una scelta, soprattutto nei casi in cui la fisicità del mondo reale risulta inospitale e le definizioni oggettive che la società ha attribuito al soggetto collidono con i suoi progetti identitari. Per il prosieguo del ragionamento sarà utile porsi un quesito: il non-luogo cibernetico è un’estensione di me, o un altro me? Premesso che l’essere umano vive, dunque è rivolto alla salvaguardia e al mantenimento della sua esistenza, qualora il caso il soggetto si trovi sufficientemente a suo agio nella società propinata dalle istituzioni e dalla relazione con gli altri, la Rete può diventare il megafono per una delle tante identità in nostro possesso (che non sarà necessariamente la migliore, pensiamo a quei cosiddetti haters che, magari, non hanno un motivo particolare per comportarsi in tal modo), dimostrazione di congruità tra identità oggettiva e soggettiva. Nel momento in cui tra me e la società non vi è uno scambio di aspettative reciproche o un’inerzia che non mi permette di integrarmi come vorrei, troverò nella comunità digitale un rifugio ideale. Ma se lo spazio digitale altro non è che la medesima comunità in un flusso di rete, come posso desiderare maggiormente di vivere nella sua controparte binaria, anziché quella materiale? Tralasciando i concetti espressi da Levy, secondo cui il virtuale produce un altro tipo di articolazione del reale, potremmo ridicolmente asserire che nell’immissione delle attività cognitive nell’universo digitale l’uomo, svincolato dalla sua natura relazionale che gli impone di osservare certe regole comunitarie condivise, trovi ugualmente modo per fare del cyberspace una bolla confortevole e illusoria. Nonostante i più integrati e ottimisti asseriscano che nel flusso virtuale del web sia possibile riappropriarsi di un’essenza totalmente avulsa dalle ansie opprimenti dell’individuo che agisce nel mondo, è molto più probabile che questo si offra consapevolmente di programmare la sua esistenza simulata, in modo tale da imbattere esclusivamente in ciò che gli aggrada. Questa è una delle prime, e fondamentali, caratteristiche dell’impostore. Crogiolarsi nell’improbabile capacità del web di estrapolare senza filtri e censure ciò che crediamo di essere, è una visione di cui mi permetto di dubitarne l’efficacia.
Sembrerebbe apparentemente più sensato affermare che il cyberspace sia quella noosfera di interconnessioni che, attraverso la programmazione, riesce a soddisfare il bisogno creativo e ordinativo dell’uomo, ma soprattutto, lo affranca momentaneamente dall’essere ciò che le aspettative della società e i processi di soggettivizzazione e oggettivizzazione dell’identità gli impongono d’essere. Sopravvivenza oltrepassando il reale, ovvero sfuggendo alle costrizioni rigide delle norme grazie alle nuove risorse di cui l’evoluzione ha dotato il cervello, per trovare delle soluzioni originali ai problemi posti dall’interazione con l’ambiente o con gli altri individui, innescando quel processo di creazione di mondi possibili (o sistemi mimetici) di cui l’uomo è uno straordinario specialista 4. L’uomo si sente come spinto da un divenire sul quale non ha un controllo totale e non sempre riesce a scovare un senso plausibile per tutto ciò che concerne la sua sfera d’azione. Ciò si palesava 100 anni fa come adesso, senza eccessive turbolenze. Tornando all’asserzione che siamo impostori, possiamo ricercarne le basi teoriche dall’assunto che continuiamo a nascondere parti di Sé frammentate nello spazio cibernetico che spesso non abbiamo intenzione di ricondurre pubblicamente al Sé originario. Mentiamo anche quando ci convinciamo del fatto che sul web non seguiamo pratiche circoscritte, imposte, talune volte disagianti e innaturali. Dal mio punto di vista gran parte dell’autocoscienza della società non ha fatto che lasciarsi impressionare dal riverbero delle prescrizioni comuni a cui tutti facciamo capo, per ripristinarle nel luminescente media landscape. Durante il corso, e attraverso le letture a noi corsisti offerte, ci siamo spesso imbattuti nella figura di un uomo schiacciato dalle responsabilità, dalle imposizioni istituzionali, da una vita già segnata sul nascere. Autori come Kafka, Camus, Bove, Pirandello, descrivono al meglio queste dinamiche e ci mettono difronte all’imprevisto, all’assurdo, come qualcosa di inevitabile, ancorato alle nostre esistenze. Con l’approdo del virtuale queste pratiche non sono sparite, come visto poc’anzi, ma certamente mutate. Se è vero, ad esempio, che posso farmi scudo attraverso uno schermo e diventare ciò che nella vita reale mi costerebbe sacrificio, è vero anche che le basi di competizione, ma soprattutto di comparazione con l’altro, si sono allargate a dismisura. La comunicazione ha permesso di esportare modelli unici simultaneamente in tutto il mondo con estrema efficacia, risultando come dogmatici, quasi a definire una nuova religione. La bellezza è confezionata, i metodi per raggiungerla pure. Stare in forma, mangiar sano, risultare immuni all’età e sensuali, si configurano come il nuovo onore shakespeariano. Esercizi che 4
G. Pecchinenda, Appunti di Sociologia della Conoscenza.
trovano applicazione nel mondo fisico, per raggiungere nuove potenzialità comunicative in quello digitale. L’onore cade anche vittima delle possibilità digitali di ispezione e tracciabilità del soggetto, illuso di poter assumere comportamenti alternativi nel cyberspazio senza finire sotto l’occhio inquisitore della società, quando questi atteggiamenti oltrepassano il confine digitale compromettendo quello fisico. Non sono più rari, ad esempio, i casi di infedeltà che trovano plausibilità giuridica grazie alla prova offerta dal referto digitale. Qui l’onore è leso non solo nel mondo fisico, ma anche online, dove a parlare delle proprie sventure non è solo la sfera di relazione prossima, ma migliaia di ipotizzabili utenti. Quello che la stampa e i media di massa erano riusciti a raggiungere, il web lo ha fatto proprio, rimodulandolo per divenire definitivamente globale. Non solo, il bacino di utenza è immenso e frastagliato. La mia persona viene messa al giudizio di milioni di spettatori potenziali, dunque è costantemente sottoposta ad esame. Questo crea un bisogno incessante di approvazione, condotta da simboli come il like, che assumono l’aspetto di simulacri contemporanei, componente tra i molteplici che affollano gli universi simbolici della nostra modernità. Curare la propria immagine è una pratica tortuosa che con l’avvento di Internet si è trasformata in qualcosa di estremamente importante, in grado di rendere il modo in cui mi descrivo più reale della realtà stessa. I processi di iperrealizzazione, secondo Baudrillard, attivati dalle tecnologie della simulazione, producono un’infinita proiezione di immagini, che creano un’inesorabile distacco dalla realtà consueta 5. Questa moltitudine di realtà necessita altrettante identità che vi agiscono tra le fitte trame, sotto forma di proiezione dell’identità centrale, i cui atti sono tradotti in pura informazione. Disancorate dal transeunte corpo biologico, possono vagare auto assemblandosi come meglio preferiscono. Sia per premiare il proprio Sé, sia per crearne di nuovi, il web offre un’alternativa che prima non era altrettanto semplice da raggiungere, quella di decidere cosa essere agli occhi degli altri. Tale capacità decisionale mette la persona nella condizione di non sentire il peso delle proprie bugie, della costruzione falsa di un’identità costruita secondo i propri gusti o dell’emersione di caratteristiche che nel mondo fisico eviteremmo di rappresentare. L’uomo cerca consolazione dalla mera esistenza, primordiale, inevitabile del corpo materiale, in un’allucinazione che, attraverso la simulazione, appare più satura della realtà da cui nasce. 5
J. Baudrillard, La trasparenza del male, SugarCo, Milano, 1991.
Amplifica le percezioni sensoriali pur contando quasi esclusivamente sulla vista e sulle dita, alle quali non viene chiesta alcuna prova di tatto, ma sono strumento di accesso, di linguaggio, per di più in via di estinzione data la capacità sempre maggiore degli assistenti vocali, con cui è possibile comandare la macchina attraverso l’apparato fonatorio. Il cervello, dunque, con il quale si intende tutta la complessità di reti nervose e corporee che fungono alla comprensione del mondo circostante, assume un significato sempre più centrale, perché diventa mediatore quasi esclusivo di ciò che i panelli LCD trasmettono. Si stanno sviluppando, cioè, dei presagi di uomo neuronale, ossia di individui il cui comportamento è determinato sostanzialmente dal cervello 6. Alla luce di ciò, il mondo circostante riconfigura anche la sua mappa sensoriale. Non è (ancora) possibile simulare gli odori, i sapori, il vento sulla pelle, il sole cocente, ma è possibile percepirne una dose infinitamente minore in proporzione, grazie alla visione di un video prodotto da un vlogger su YouTube, ad esempio. La suggestione (magari condotta dai neuroni specchio) è quindi indice di una finzione, segno dell’impostore che è in noi, così avvezzo a voler vivere un’esperienza altrui, lontana, impossibile da replicare nelle medesime condizioni, da mentire al nostro organismo. Chiaramente queste sono perlopiù teorie da me proposte, dovute soprattutto alla non completa adesione di tali fenomeni a tutti i soggetti. Nel virtuale, come dicevo, si intrecciano luminose scie cangianti, che appaiono e scompaiono ad intermittenza, seguono i flussi, nascono e muoiono nel giro di pochi istanti. Sono le nostre storie, quelle che ci raccontiamo e che descriviamo agli altri. L’uomo moderno è abile nel costruire svariate storie di sé, mostrare determinati lati del proprio sé, oscurarne altri a piacimento. La stessa costruzione del proprio profilo digitale è un atto di autoerotismo narrato ad un pubblico senza volto, che si inerpica nella ricerca ossessiva del fabbisogno di un insaziabile ego e diventa attività quotidiana attraverso l’abitualizzazione del controllo e dello studio del miglior modo per rappresentarsi. Le informazioni, le immagini, i video che catturano la nostra presenza, o il nostro pensiero, sono fonte di potenziale disturbo se non si adeguano alla nostra aspettativa di noi stessi. Com’è possibile io abbia un naso così prominente? Ho davvero i capelli così radi? Catturare la realtà spesso è una manifestazione di riappropriazione di una parte del Sé che sarebbe destinata a rarefarsi se venisse legittimata dalla nostra sola esigenza di essere ciò che vorremmo essere. Le nostre biografie digitali pullulano di auto-elogi che abbiamo l’ardire di esplicare solo in nostra absenzia, grazie alle migliori immagini a nostra disposizione, 6
G. Pecchinenda, Appunti di Sociologia della Conoscenza.
le frasi più belle per esibire una vivace intelligenza, gli eventi più interessanti a cui abbiamo partecipato, le pratiche socialmente accettate. Non facciamo altro che mentire, nella lucida consapevolezza di tessere una storia personale che è mendace, adultera, traditrice rispetto alla vera realtà. Per di più, vi è la deficienza quasi totale della relazione faccia a faccia, componente fondamentale dell’uomo della strada per determinare le intenzioni dell’altro 7. Il desiderio massimo è piacere a se stessi, osservare una galleria di immagini in cui siamo perfetti, felici, erotici, immortali perché sempre giovani. La compressione spaziale e il presente eternamente attualizzato del tempo virtuale ci ha reso ipersensibili alla progressione temporale. L’estrema velocità degli apparati comunicativi digitali è causa di una ridefinizione del quotidiano, che pare aver cambiato la sua unità di riferimento. Ogni giorno pare composto da infinitesimali cicli del giorno e della notte, costringendo l’individuo a vivere nell’urgenza di racimolare, conservare ed usare un tempo che scivola inesorabile tra le mani, schiavizzando ogni attività, anche quelle del loisir. Motivo per cui ci sentiamo vecchi prima del tempo, come affetti da obsolescenza programmatica, diretti verso il nostro declino organico. L’aumento di interventi estetici per fissare, ritardare o ritornare ad un tempo specifico è teso a far diventare chi vi si sottopone un soggetto che ha perso la propria identità biologica, intenzionato a riscrivere la propria biografia come qualcuno a cui è stata offerta una seconda chance. Chi come me ha 25 anni, ne ha accumulato un vissuto di almeno 10 nel cyberspace. Svariati Me più giovani continuano a riversarsi nelle pagine di social, blog e forum, provocando guizzi di nostalgia misti a repulsione molto simili a quelli che potrei ottenere con una polaroid o un vecchio tema risalente alle scuole superiori. Eppure, quest’ultime sono custodite lì dove solo io posso accedervi, e soprattutto, nessuno può attualmente intervenire su di esse dimostrando quanto sia cambiato in questi anni. Da un’intima prospettiva la mia identità non ha mai vissuto mutamenti degni di nota. Tuttavia, questi Alessandro che vagano e si agitano nel regno digitale, mi mettono nelle condizioni di sentirmi incoerente, un impostore appunto, e lo fanno incidendo sullo statuto di tempo presente, sulla mia coscienza autobiografica. Nell’imbattermi in “loro” prendo atto dello stridere tra la soggettività impostami e ciò che ipotizzo di essere o di essere stato, provocando crepe che mi spingono a riflettere sulla profondità dell’identità d’ognuno di noi. Non riesco insomma, a trovare le spiegazioni e le giustificazioni adatte per ogni situazione che affiora dall’oblio tecnologico. La realtà digitalizzata effettua un passaggio di stato che volge il tempo a un 7
P. L. Berger, T. Luckmann, La realtà come costruzione sociale, Il Mulino, Bologna, 2001.
presente persistente e rende difficoltoso calcificare tratti di Sé che oramai non hanno più senso d’essere, costringendo ad offuscare il ricordo per renderlo allineato con l’idea che ho di me stesso. Il soggetto, in tal senso, è legato ad un itinerario che ne eternizza la vita in un loop perverso, rappresentato nel mito della caverna di Platone. Le apparenze, le ombre che si stagliano sui nostri schermi, sono rassicuranti, ci mettono al riparo dall’orrenda consapevolezza del tempo, ci aiutano ad energizzare il nostro ego famelico, invitano a non pensare la propria vita così com’è ma a sognarla per ciò che potrebbe essere. Per poter agire l’uomo dev’essere vittima di un’illusione, direbbe Nietszsche; lucida analisi della natura umana tendenzialmente narcolettica, che aspira ad un avvenire trasognato. Per lo stesso Platone “tutto il cammino dell’anima e tutto il cibo dell’anima, quel cibo che rende anima l’anima, che la anima, è l’amore” 8, copula mundi. Nel Simposio, a sua volta, vede nell’Eros un qualcosa che spinge l’uomo alla ricerca del bene e della felicità 9. Le estreme potenzialità entro cui si dispiega l’universo digitale, assoggettano l’uomo alla promozione della sua persona. Se per la cultura borghese chi era povero lo è per un motivo frutto di contingenze naturali, a cui è quasi impossibile porre rimedio, così nell’era tecno-digitale chi non adopera gli strumenti a disposizione per allargare la propria rete sociale e di conseguenza le sue interazioni, viene considerato come al di fuori di questo tempo, una bizzarria. La vera felicità quindi, secondo questo punto di vista, si paleserebbe soltanto nel momento in cui viene condivisa e riconosciuta dagli spettatori della nostra vita. Un vero e proprio paradosso, frutto dell’allucinazione onirica che stiamo vivendo, capace di ingabbiare l’uomo in scatole di significato a sostituzione di altre che pensava di aver dissolto. In questa spasmodica e delirante assuefazione alla catarsi, in cui ci sentiamo in dovere di commentare le vite altrui e di immedesimarci in esse attraverso la costruzione di un immaginario comune, l’ingannatore che è in noi ci obbliga, spesso e volentieri, a manomettere la realtà per apparire in modo tale da appagare il voyeurismo altrui e assumere un ruolo pirandelliano. È chiaro che l’erotismo più potente è quello che proviamo per noi stessi, siamo innamorati, ma per esserlo sempre di più e non smettere mai, abbiamo bisogno che questo essere non cambi mai e, al tempo stesso, si rinnovi frequentemente, come un mito pagano. È possibile altresì constatare che queste pratiche sono state perfettamente assorbite all’interno dell’agire quotidiano, routinario,
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Platone, Fedone, BUR, Milano, 2007. Platone, Simposio, BUR, Milano, 1986.
quasi del tutto meccanico e la loro naturalezza chiarisce che sono in atto dei moti della coscienza mentre ragioniamo su come rendere appetibile la prossima immagine su Instagram. È la nascita non solo dell’esigenza di mostrazione perenne e destituzione della privacy, di elargizione pubblica della propria ragione (“Io penso”), ma anche il ritorno del “Io sento” illuministico, espressione di un concerto di valori passionali, romantici ed estatici. Il libero arbitrio è il progetto attorno al quale l’uomo digitale si avviluppa con sacro impegno, senza rendersi conto di seguire dei frame cognitivi piuttosto definiti e degli script che ne stabilizzano il contesto. I prodotti digitali, infatti, sono fortemente contesto-riferiti, necessitano di una struttura tutt’attorno che ne dichiari la provenienza, il contenuto e lo scopo, difatti è inusuale trovare qualcosa che non sia lì dove dovrebbe o puramente fine a sé stessa, ermetica. Tutto ciò che è stato fino ad ora descritto è possibile solo attraverso le storie, così come le abbiamo qui intese, ossia la necessità di esibire qualcosa di noi che sia strutturato sulla sicuranza che al di fuor di qualsiasi dubbio piacerà anche agli altri (o principalmente agli altri). Siamo tutti dei fake, dunque, fantocci della nostra identità fluttuano nel web sotto il nostro nome e dopo una meticolosa approvazione. Come Don Chisciotte, amiamo osservare placidi un’identità che potrebbe continuare a vivere oltre il nostro corpo, fino a leggere di noi stessi e non esser più in grado di ricondurre quell’identità alla propria persona, perché nel frattempo si è diventato altro, o perché si è talmente intrecciati in quell’identità da manifestare bipolarità latenti. Citando Camus, ci sono “stranieri” digitali che agiscono sotto uno dei nostri nickname, senza che vi sia necessariamente un’effettiva relazione tra loro e noi. E mentiamo, quando pensiamo di averne totale controllo, perché, in taluni casi, essi evolvono senza il nostro beneficio, vengono cancellati a nostra insaputa, fatti ammutolire o resi celebri oltre il nostro volere. I cibernauti sono da sempre ammaliati dalla promessa di liberazione dalla carne, ma anche intimoriti dal pericolo che il proprio Sé, mutato in alter ego che vive l’esperienza di un corpo dislocato, venga fagocitato dalla virtualità digitale, che, realizzando un nuovo livello di immaginario, stagliato sugli orizzonti di pratiche simulative, rischia di alterare inesorabilmente le condizioni in cui si forma l’identità individuale. Una cultura che non riesce a dar vita a un’immaginazione del mondo, risulterà storicamente indecifrabile, suggerisce Fuentes, ma nella virtualizzazione di esso a perdere i confini sono le tolleranze del possibile, del progresso, causa di una fiducia accelerata verso le trasformazioni in atto che ci rende vulnerabili. La comunicazione elettronica tende a esasperarsi sotto forma di soggetti instabili, multipli e diffusi.
Le persone diventano fluide, disperse, frammentate, trasformate in parole su uno schermo. Siamo nuova soggettività ricostituite in entità polimorfe, disseminate, senza un centro. Il soggetto non si traduce più nella puntualità di un’esistenza biologica, bensì nell’attualità variabile di un’identità molteplice, in una realtà densa e complessa che si immerge nel regno di una continua creazione seriale, diventando un processo, qualcosa di più che la somma delle nostre personalità. Torna con importanza centrale la condizione del linguaggio sotto il punto di vista di Berger e Luckmann che, da quotidiano, passa ad un’intensità molto più alta. Mancando nel virtuale la corporeità fisica, componente fondamentale del linguaggio, essa trova rimedio attraverso manifestazioni appariscenti ed elaborate le quali, nonostante la loro carica spettacolare, sembrano perfettamente coerenti. Di conseguenza il web appare come oggettiva fattualità, si carica di una serie di fenomeni a cui non diamo più conto, considerandole come socialmente costruite. Questa realtà vive al di fuori di me e la riconosco perché si presenta alla mia coscienza. La stessa potenzialità offerta dal web che parte dall’assunto di poter costruire qualunque cosa si voglia, e che essa sia dipendente da noi, è una mera falsità. Oltre al dover sottostare alle regole di un linguaggio di programmazione estremamente rigido e strutturato (ma non a sufficienza come quello fonetico), il cyberspace presenta inaspettate disponibilità all’autopoiesi. Ci illudiamo che si dispieghi esclusivamente attraverso la nostra produzione culturale, di idee, sogni, valori, regole, ma in realtà sarebbe perfettamente in grado di sussistersi al di fuori dell’attività umana. È stata effettuata una virtualizzazione della società così come la conosciamo. La società ciberspaziale è oggettivata, vive in un tempo al di fuori di quello cognitivamente percepito ma è disponibile hic et nunc in qualsiasi momento, pronta ad essere elaborata dalla coscienza nucleare. Inoltre, è intersoggettiva rispetto ad un senso comune che avviene attraverso l’interazione tra soggetti partecipanti, è guidata da schemi di tipizzazione, autoevidente e non problematica, c’è sempre e mantiene coerenza con la mia quotidianità. Diverso è il discorso per la spazialità fisica e temporale, che corrisponde al reale punto di differenziazione tra i due mondi, seppur possiamo affermare che queste due caratteristiche impinguano più l’immaginario collettivo che l’effettiva possibilità di viaggiare ovunque e manipolare il tempo. Altro esempio efficace per descrivere questi processi in atto, è reso dai MMORPG (Massive Multiplayer Online Role Playing Game) che stanno riscoprendo nuova linfa grazie alle
avanguardie della computer grafica, in grado di rendere l’avatar sempre più dettagliato e capace di assorbire i desideri e gli slanci creativi degli ideatori armati di controller. Nei MMORPG l’interazione avviene in una significazione condivisa, gli autori diventano anche autori delle proprie fattezze, appunto, costruendo nuovi Sé attraverso l’espressione di aspetti inesplorati della propria identità. Si acquisiscono soggettività parallele, interpretando persone differenti, recitando il personaggio che si desidera essere. I partecipanti diventano creatori dei propri inediti Sè, subendo cambiamenti profondi nell’intima struttura soggettiva, attraverso l’interazione con il computer. Accettiamo con estasi di indossare i panni di un personaggio fantastico, dentro cui però, riversiamo una parte del nostro vissuto. Non solo, effettuiamo ibridazioni di genere, di specie, di classe, senza preoccuparci del giudizio altrui, consapevoli che da quella finzione vi sarà sempre la possibilità di estraniarsi. L’anonimato, dunque, consente alle persone di esprimere uno o più aspetti inesplorati del proprio Sé, giocare con la propria identità e sperimentarne di nuove. I MUD consentono la creazione di identità talmente fluide e multiple da esplorare i limiti del concetto stesso di identità. Ci sentiamo pronti ad essere tutto ciò che vogliamo, anche se questo devia del tutto il percorso biologico al quale tutti noi siamo fortemente dipendenti. Come per come l’artista raffigurato da Velasquez nell’opera Las Meninas, siamo confidenti di poter raggiungere risultati straordinari, che diventano obsoleti da un giorno all’altro. Pensare il proprio Sè come un sistema multiplo distribuito ci suggerisce Turkle, un Sè decentrato che abita più mondi e incarna ruoli differenti 10. Ma quando questo agire non è circoscritto ad un gioco, una piattaforma in cui è lecito attribuirsi ruoli disparati per esercitare la finzione? Pensiamo ad un sito di incontri, di cui si stanno sperimentando anche versioni esplicitamente pensate per l’adulterio al femminile, come la piattaforma newyorkese Gleeden 11. I limiti che fino a pochi anni fa erano considerati invalicabili, i tabù maggiormente condivisi, si stanno sgretolando sotto l’incipiente esigenza di essere altro rispetto a ciò che nostra vita ha precostituito. Cosa mi impedisce di uscire regolarmente dalla mia vita per impersonarne un’altra? Oggi sono un avvocato, domani impiegato, il giorno dopo dottore. Gli strumenti digitali permettono di mentire con leggerezza, narcotizzare la coscienza per risvegliarla solo quando serve.
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S. Turkle, La vita sullo schermo. Nuove identità e relazioni sociali nell’epoca di Internet, Apogeo, Milano, 1997. Gleeden: https://it.gleeden.com
La secolarizzazione, che ci distanzia sempre più da una cosmologia tradizionalista, ci sta facendo precipitare in un Iocentrismo. Le divinità che oggigiorno accumulano proseliti attorno a noi sono sempre più spesso personalità particolarmente abili a comunicare se stessi attraverso i social network. Gli influencer assolvono il compito di indirizzarci in un mondo dove l’offerta di svago e appagamento dei (presunti) bisogni è variegato come non lo è mai stato. Maestri nell’ottimizzare la nostra sociale predisposizione al desiderio che attraverso il web raggiunge efficacia epocali. Ho parlato non a caso di divinità al plurale, perché il Dio, la figura dentro il quale si concentrano tutti i paradossi di questa nostra contemporaneità, siamo proprio noi. Nulla di tutto ciò che sto qui affrontando avrebbe efficacia se la nuova cosmologia non fosse costituita attorno e dentro la persona. L’impostore digitale pensa di aver perso l’imposizione divina, l’etica dogmatica, ma ciò che constatiamo è una mera sostituzione sotto forma di un succedaneo informatico che ne ha vagamente assunto le caratteristiche. L’uomo ha ancora bisogno di tranquillizzarsi attraverso delle regole, degli assunti imprescindibili oltre il quale non è possibile scrutare, solo che li plasma più frequentemente in base alle occasioni che la storia gli offre e con le quali ridefinisce la propria soggettività. Donna Haraway, a supporto di ciò, mette in rilievo come la soggettività corporea sia costituita dalle strategie di potere e non si configuri come una semplice costruzione teorica, un dato naturale da giustapporsi all’artificialità delle macchine o una superficie passiva su cui analizzare l’oggettività scientifica del dato, ma come un’area di incrocio di multipli codici di informazione, un oggetto di conoscenza 12. Mi soffermerei su quest’ultimo concetto. Osservando la mia coorte, e quella che mi succede, l’impressione è che a causa di una frammentarietà così evidente dell’identità, ma soprattutto della sua mutevolezza incontrollata, la persona sia sempre più pervicacemente rivolta verso la conoscenza di ogni anfratto del Sé, come ripiegata verso il suo interno. Non essendo ben in grado di definire quale Sé investigare, la persona naviga alla cieca, nella speranza di trovarne uno soddisfacente a cui ancorarsi. È evidente come questo si palesi quando, specialmente in gioventù, troviamo qualcosa in cui crediamo testardamente. Un modo di essere che ci completa, in cui ci identifichiamo senza latenze. Per noi nativi digitali gran parte di questi stimoli provengono dal cyberspace e per trovare ristoro e coerenza in questo nuovo Sé, mentiamo a noi stessi assicurandoci che sarà quello definitivo, lo step conclusivo a cui approdare. Chiaramente anche in età adulta si procede con la determinazione della propria 12
D. J. Haraway, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, Milano, 1999.
identità, attraverso il processo relazionale del senso comune, ma anche durante il corso è stato appurato che le fasi fondamentali di questo processo avvengono in un’età in cui si vanno definendo i confini del proprio Sé e il modo in cui questo aderisce con le strutture sociali istituzionalizzate. Fin dove posso spingermi allora? Parte di questa ricerca si manifesta attraverso il mutamento corporeo, non solo biologico, ma quello derivante dalle modifiche che riteniamo opportuno impartire a questo corpo. Capelli di un colore innaturale, micro-mutazioni epidermiche, piercing, abbigliamento, tatuaggi e quant'alto, descrivono non solo noi stessi ma anche una certa manifestazione di pensiero. Il corpo assume, quindi, un significato relativo non soltanto al fisico, ma anche al territorio, cioè alle funzioni vitali che il soggetto occupa, i suoi gesti, le passioni, i desideri, i dispositivi sociali, i campi relazionali in cui si colloca. Quando non riesce a spingersi oltre i propri confini, si rifugia negli alter ego virtuali, in cui può esibire se stesso in qualsiasi forma si desideri. L’io si riconfigura nella pluralità degli eventi, nella complessità della definizione sempre penultima del soggetto, che non è una dimensione invariante, ma relazionale e dinamica, un sistema dai limiti arbitrari suscettibile di costante cambiamento, temporalmente circoscritto, prodotto dall’intricato inanellarsi di accadimenti storico-culturali. Una complicata casualità si agglutina attorno l’accidentalità biografica, che galleggia sull’imprevedibilità della vita. La morte è uno di questi imprevisti, un sistema generatore di cultura per qualsiasi civiltà. La possibilità di estrinsecarsi da essa, costituisce uno slancio per superare qualsiasi delle civiltà che si basano sulla vita che volge ad un termine. Se lo spazio diventa un’impasse aggirabile grazie alla velocità ottica delle dorsali oceaniche, attraverso cui il mondo si riverbera nella sua rappresentazione virtuale, il tempo diviene una risorsa incommensurabilmente preziosa. I tre grandi cicli cosmici, diurno della terra, mensile della luna e annuale del sole hanno evocato l’idea di un tempo circolare, che si riproduce per l’eternità, lontano dalla consunzione. Si è poi definito il tempo moderno del consumo, in cui il vissuto quotidiano rimane privato di decisione e sottomesso non più all’ordine naturale, ma alla pseudo-natura sviluppata nel lavoro alienato. La concezione del tempo sacro, adagiato sulla lentezza dei ritmi biologici, si è dapprima spezzata nella linearità del tempo profano, scandito dai ritmi serrati del lavoro industriale, per poi rapprendersi nel tempo condensato di connessione alla Rete, dimensione in cui il giorno del tempo astronomico è sostituito dal giorno della velocità tecnica, prodotto dalla velocità della luce diffusa dall’elettronica: il fotone soppianta lo spazio e il tempo assoluto dei secoli scorsi.
Al tempo della durata, è succeduto quello dell’istantaneità consentita dalle tecnologie della comunicazione. Oggi abbiamo un tempo intensivo, dunque, che si adatta al microscopico. La realtà è degenerata, la velocità prevale al tempo e sullo spazio, la luce sulla materia, l’energia sulla massa. La storia delle tecnologie è guidata dalla volontà di conquistare il tempo, dunque accelerare i processi, di velocizzare l’elaborazione e la trasmissione delle informazioni fino all’attuale raggiungimento di un’istantaneità assoluta, una perfetta simultaneità di cause ed effetti. L’entusiasmo tecnologico, di cui si legge tra queste righe, si basa tutta su una menzogna di cui non è possibile far a meno in un’epoca in cui il presente viene teso fino a mettere in crisi le sue proprietà plastiche. Abbiamo bisogno di esercitare tali pressioni perché l’intero sistema economico si sta determinando in questi termini, spronato alla ricerca ossessiva della novità ultima. Siamo impostori perché crediamo di poterci adeguare ai ritmi innaturali, esenti da fatica, della macchina. Di poter accettare tutte le innovazioni proposte, gli sviluppi disponibili, i mutamenti richiesti per sincronizzarsi con una società che sembra avanzare alla cieca, tanto da non avere tempo per recuperare i ritardatari, colpevoli di condurre un’esistenza “fuori dal mondo”. Ci mettiamo a confronto con qualcosa che abbiamo noi stessi voluto, come se vivesse ormai di vita propria, perdendo quotidianamente la partita contro di esso. Il tempo percepito si appiattisce su un’attualità pervasiva, sostituendosi alla storia, e costituendosi attraverso miliardi di micro-storie personali, più o meno opalescenti, che confondono il limite fragile tra realtà e finzione, sempre se questa dicotomia abbia ancora senso d’esistere. La dimensione virtuale sembra avulsa dalla temporalità fluente, in nome di una presenza concepita come palesamento, rivelazione, realtà piena e dispiegata, totale e compiuta, eppure nasconde il sogno del ladro professionista di poter mutare aspetto e identità quando si appresta il momento di fuggire. Il cyberspace è stato creato da noi ma non è esplicitamente pensato per noi, perché di fatto non possiamo del tutto abitarlo, siamo solo presenze che si aggirano tra i suoi interstizi. È il motivo per cui abbiamo necessità di affidare delle copie di noi in questo spazio regolato dalla transitorietà, non importa che siano fedeli, anzi, la bellezza insita in esso sta proprio nel recitare l’assurdo, divenire l’assurdo. La concezione dell’essere come accadimento, a cui appartiene il destino dell’apparire nascondendosi, è la sintesi del paradosso della talpa kafkiana di cui abbiamo piacevolmente discorso durante le lezioni. Tutto ciò che questi perspicaci autori hanno contribuito a descrivere,
si è riversato in ciò l’uomo ha potuto costruire da zero, ponendosi nell’agognato ruolo di divinità creatrice. Se la talpa di Kafka si aggira anche tra le piazzeforti digitali, slogan di libertà incondizionata dalle ansie, dalle prescrizioni, dall’identità assegnataci, vuol dire che le due entità, virtuale e fisico, si sono compenetrate con perfetta soluzione di continuità, pur essendo identificabili separatamente. Ma si sa, dietro uno slogan c’è sempre l’intenzione sottesa a trarre in inganno l’ignaro. L’uomo delle piazzeforti non è in grado di esimersi completamente dalle proprie turbolenze, ma mente di poterle arginare per darsi completamente ad una spazialità senza coordinate. La sconfinata capacità delle banche dati consente di custodire la totalità delle informazioni, impedendo l’attività selettiva dell’oblio, che contribuisce a delineare il senso della storia, e crea un universo mnemonico in cui si vive come in una sorta di passato attuale. Lo stesso tempo platonico è immagine mobile dell’eternità in cui l’ora è costantemente presente, benché possa mutare, svanendo nel momento in cui sopraggiunge un altro “ora”. Viviamo un’ingannevole ed eterna transitorietà, vittima del nostro stesso autocompiacimento di poter ipostatizzare piccoli attimi di noi stessi, tralasciando il complessivo come se fosse un’inutile bagaglio da trascinarsi dietro. L’enfasi della digitalità celebra una realtà svincolata dal tempo e dallo spazio, che induce a disconoscere il corpo come sede dell’essere, negando il radicamento dell’uomo in un mondo fisico di estrema complessità e lasciando riemergere il già sottolineato antico dualismo tra la condizione di finitudine della materia e l’eternità inorganica dell’informazione che ricerca la libertà dai condizionamenti fisici. La soggettività è spinta a trascendere l’hic et nunc, perlustrando i limiti della propria finitezza, nell’aprirsi alla domanda della propria sparizione, nello smarrimento della certezza del soggetto come fondamento e nel riconoscimento di una possibile soggettività nuova. Siamo distanti dalle concezioni essenzialiste che fanno dell’homunculus il principio dell’identità, essere in miniatura che compie, in scala ridotta, ciò che noi esteriorizziamo con i nostri comportamenti (Appunti). Il palesamento, il non nascondimento agito dalle nuove identità accessibili a tutti, rende legittimo intendere la società informatizzata come l’orizzonte su cui si staglia il sapere assoluto, che si incarna nell’universo delle macchine intelligenti, dove la totalità non corrisponde più alla Storia, ma all’intero insieme virtuale delle interconnessioni. Se la storia non è più nella totalità, le Storie digitali, che si ramificano senza apparente controllo, sono diventate le nuove strutture
omnicomprensive. I personaggi che abitano il ciberspazio adoperano tecniche ad hoc per isolare dal proprio vissuto gli eventi che potrebbero non risultare accattivanti, incapaci di sviluppare hype, per restituire alle interconnessioni (banalmente gli utenti) soltanto una facciata. Il non nascondimento che trasuda dalle manifestazioni del codice binario sono soltanto degli esempi potenziali di trasparenza assoluta. Gli impostori digitali sfruttano, insomma, le estreme doti di indeterminatezza che la Rete offre loro, ridefinendo continuamente l’identità che gli altri potenzialmente possono catturare. Eppure, l’opalescenza stessa dello strumento digitale che abitano, rende il loro agire più spontaneo, rassicurante, fedele ad un comportamento che trova continui feedback retroattivi rispetto ai valori in cui si posiziona la massa indefinita degli users. Gli spettatori li assurgono a modello, esempio degno di imitazione, la loro semplice presenza farebbe apparire le cose per come sono, messa in opera della verità indiscutibile. Un esempio di ciò che sto provando a dimostrare lo possiamo riscontrare nel fenomeno degli influencer, di cui ho già parlato precedentemente. La relazione corpo-tecnologia funziona come realizzazionefrustrazione del desiderio, proprio perché è la società tutta a funzionare secondo la dimensione organizzativa di tale rapporto 13. Se questo rapporto resta vivido, tutto il sistema continua ad autoprodursi senza frizioni. L’uomo non si ferma al primo giro della sequenza bisogno-soddisfazione ma innesca un ciclo del desiderio che affiora dal vissuto quotidiano, reiterato senza controllo, dando vertiginosamente origine a un perenne slittamento delle aspettative, mai esaudibili in senso compiuto: la società, che si evolve grazie anche alla tecnologia, muta infatti in modo tale da esigere sempre più freneticamente continui avanzamenti di tipo tecnologico, instaurando una sorta di feedback, con passaggi di soglia che promuovono lo sviluppo di possibilità funzionali. Il dispositivo artificiale, nello stesso momento in cui viene costruito non fa più parte di ciò che avviene, è superato; da qui la necessità del record di velocità, che avvicina il congegno elettronico ad un immaginario senza fine. Questo medesimo bisogno di superare costantemente le capacità hardware attualmente offerte, si riflette sugli abitanti ciberspaziali che attraverso il calcolatore danno vita ai propri Sè. Con modalità egualmente frenetiche, la materia identitaria si aggrega e si disfa anche nel giro di poche ore. Un impostore digitale con una fan base corposa, sarà costretto a contrattare la sua immagine secondo canoni che mutano senza apparente controllo, perdendo, di fatto, gli stimoli per restare coerente al Sè originario. Diverso è il caso di 13
A. Abbruzzese, La grande scimmia. Mostri, vampiri, automi, mutanti, Napoleone, Roma, 1979.
fenomeni del web che hanno durata estremamente limitata, capaci di eseguire centinaia di volte il giro del mondo attraverso le connessioni gigabit, ma incapaci di fissarsi nella quotidianità dei naviganti. Il motivo, come spiegato poc’anzi, è nella capacità della Rete di rovesciare il sistema tipicamente gerontocratico che vige nelle istituzioni tradizionali, estremizzandosi nella necessità di rinnovarsi attraverso un comportamento psicastenico, in preda ad una nevrosi. Ciò che è nuovo, in definitiva, ha un tempo di sedimentazione più basso di qualsiasi altro strumento di comunicazione. I processi di digitalizzazione, realizzano il cambiamento radicale delle condizioni esperienziali, riplasmando le modalità percettive e i modelli di funzionamento dell’attività mentale attraverso la destrutturazione di parte degli schemi cognitivi acquisiti e dei paradigmi dominanti. L’utente in rete tende a far vacillare la capacità di percepire quale siano i suoi gusti, pulsioni, atteggiamenti, lasciandosi trasportare dalla vicariance, che trova definitiva forma nella serendipity. In tal modo noi tutti siamo impostori, mentiamo nei riguardi di ciò che siamo, o saremmo, al di fuori del circuito infinito del cyberspace. Mentiamo quando con un amico, giuriamo con convinzione di non visitare quel tal sito, di non ascoltare mai quel gruppo così in voga nelle ultime settimane, di non guardare i video di quel content creator. È come se in noi venissero incentivati dei processi di disinibizione dell’Io, lasciato vagare nel flusso binario senza sistemi di autoguida. Se solo non fosse che nello strumento digitale riconosciamo una frontiera piena di possibili rischi, ci lasceremmo immergere totalmente in esso. Se è vero che l’identità è un processo, nella struttura computerizzata costituita essa stessa da processi logici, tale richiamo identitario diventa uno strumento in mano alla tecnica. Perdiamo, insomma, il comando su ciò che abbiamo ingegnerizzato, rendendolo sempre più autonomo grazie all’intelligenza artificiale. L’uomo impostore, quindi, produce una fuoriuscita del Sé, prodotto di esteriorizzazioni ed interiorizzazioni oscillatorie e frenetiche. Come sappiamo, il cervello umano effettua delle selezioni mnemoniche di ciò che intende conservare, riservando il restante all’oblio cognitivo. Nel web ciò stenta ad avvenire, soprattutto nell’universo dei social network. Mi capita spesso di essere contattato da amici che, attraverso i ricordi di Facebook, mi fanno impattare in una persona che non riconosco più, che non mi appartiene, non sento mia, giungendo ad un sentimento di rigetto, quasi disgusto. Ho già anticipato precedentemente questo discorso, ma è per me vitale ricalcare questo fenomeno che sto in prima persona sperimentando. L’oblio, a mio modo di vedere e in via del tutto speculativa, è un processo che ci permette di
poter mentire a noi stessi senza accusare alcun rimorso. Se non so di essere stato, non posso esserlo mai stato e mi sento capacitato a diventare ciò che voglio. Ecco l’impostore nella sua forma più articolata. Quando, cioè, nel momento della verifica tra qualcosa che la tecnica (il social network in questo caso) rappresenta di me su schermo, immateriale tangibilità palese a tutti, e ciò che io ricordo di me stesso, affetto da oblio, dunque vago, sfumato e possibilmente incoerente, io scelgo la mia memoria caduca e fallacea. La possibilità di essere qualcosa senza metterci necessariamente la faccia, l’aggravio di peso corporeo, mi permette di sbugiardare ciò che ero con molta più leggerezza, pur sapendo di star mentendo quando dico: “quello non sono (più) io!”. La virtualità offre un’estensione dell’identità oltre l’umano, oltre i confini offerti dagli schemi biologici, struttura di legamenti semiotici e culturali, grumi di pensiero di un Io esteso, che scaturisce dall’Io individuale sino a giungere ai più remoti confini di tutto ciò che è possibile indagare con le umane estensioni percettive e motorie in continua espansione e totale esplorazione. Il web è ciò che l’uomo ha sempre sognato, un luogo dove si può esperire il senso di comunità senza i fastidi tipici che l’appartenenza ad un gruppo di persone comporta. Tuttavia, nonostante queste possibilità di poter sperimentare nuove forme comunitarie, l’uomo liquefatto nelle matrici digitali si imbatte, con frequenza maggiore che nel mondo fisico, in intere popolazioni a lui aliene, tanto lontane dal suo modo d’essere da non riuscire a trovare rifugio altrove se non nell’ennesimo personaggio che si accinge ad impersonare. Dunque in conclusione, se tutti fingono, chi è l’impostore fra noi? Probabilmente tutti e nessuno, complici di questo gioco che parrebbe tutto un malinteso, ma che altro nome non ha se non: vita.