[Digitare il testo]
2015
Il XVI° Secolo Pillole di Storia e Civiltà Un secolo di trasformazioni.
Classe IV° A 01/04/2015
Sommario Introduzione al Periodo (Leonardo Bagaglia) .................................................................................................... 2 La caccia delle streghe nel 500 (Benedetta Mocci) ........................................................................................... 4 Il teatro nel rinascimento (Davide Polidori) ...................................................................................................... 8 L’indice dei Libri proibiti (Leonardo Bagaglia) ................................................................................................. 15 La Controriforma (Alessandro Amicucci) ......................................................................................................... 21 La Medicina del XVI Secolo (Marco Russo) ...................................................................................................... 25 La Moda del Rinascimento (Alessandro Valtieri) ............................................................................................ 29 La musica del 500 e il madrigale (Clelia Generali) ........................................................................................... 32 La Questione della Lingua................................................................................................................................ 39 La Rivoluzione Scientifica (Runa Alessandri) ................................................................................................... 43 L’alimentazione nel 500 (Leonardo Pieri) ........................................................................................................ 48 Le Guerre d’Italia nel 500 (Fabrizio Piroli) ....................................................................................................... 50 La donna nel rinascimento (Lucrezia Cernusco) .............................................................................................. 56 Il Concilio di Trento (Mario Ciccarelli) ............................................................................................................. 60 Rinascimento (Giovanni Castaldo)................................................................................................................... 68 Rinascimento Urbinate (Andrea Dolente) ....................................................................................................... 79 La Chitarra (Simone Lisi) .................................................................................................................................. 85 La Stregoneria nel 500 (Emanuele Cracolici) ................................................................................................... 91 Le abitazioni del '500 (Marco Guerrini) ......................................................................................................... 107 La Roma del'500 (Luca Compagnucci) ....................................................................................................... 110
1
Introduzione al Periodo (Leonardo Bagaglia) Rinascimento: designa il periodo storico e il movimento di pensiero fioriti in Italia e poi diffusi nel resto dell'Europa nei secoli XV e XVI, caratterizzati dall'affermarsi di un nuovo ideale di vita. In questo periodo la società di feudale del Medioevo, basata soprattutto sull'economia agricola e su una vita intellettuale e culturale ispirata al pensiero religioso, si trasformò in una società dominata dalle istituzioni politiche centrali, che propugnavano un'economia commerciale di tipo urbano e il patrocinio laico nell'arte e nella letteratura. Il termine "rinascimento" venne usato per la prima volta nel 1855 dallo storico francese Michelet in riferimento alla "scoperta del mondo e dell'uomo" nel XVI secolo. Il grande storico svizzero Jakob Burckhardt, nella sua opera La civiltà del Rinascimento in Italia (1860), ampliò il concetto di Michelet, indicando il Rinascimento come il periodo che nelle arti figurative viene aperto da Giotto e chiuso da Michelangelo, egli definì l'epoca come quella in cui vennero alla luce l'umanità e la coscienza moderne dopo un lungo periodo di decadimento.
2
L'Umanesimo. Altro aspetto importantissimo del Rinascimento è l'Umanesimo.Comincia a farsi strada un nuovo concetto dell'uomo: l'uomo non è più necessariamente subordinato alla verità religiosa del dogma cristiano, l'uomo si riporta al centro del mondo, riscopre la propria importanza storica, valorizza il mondo naturale entro il quale è immerso, vuole capire il mondo per piegarlo alle sue esigenze. E' un cambio di visione epocale: se durante tutto il medioevo l'uomo ha accettato di essere limitato, peccatore di fronte a Dio, essere ferito e incompleto, l'Umanesimo rinascimentale vede il ritorno della piena consapevolezza dell'uomo nei propri mezzi, l'affermazione di una dignità e di una volontà umana. Se durante il medioevo si era data importanza solo all'anima e alla spiritualità, con il Rinascimento torna l'interesse anche per l'aspetto fisico (iniziano nel Rinascimento gli studi approfonditi sull'anatomia). L'uomo rinascimentale si identifica in Leonardo da Vinci: esempio di genio poliedrico e dalla curiosità instancabile per tutto ciò che riguarda l'uomo e la possibilità di migliorarne la condizione non solo spirituale, ma soprattutto terrena. Questa importanza data ai valori inerenti all'uomo portò alla riscoperta della classicità greca (l'antico umanesimo socratico e platonico) e dei testi classici nelle loro edizioni originali, non mediate dalla cultura cristiana. L'uomo rinascimentale vedeva nella filosofia e nella cultura classica lo sforzo più grande e nobile dell'uomo, il dignitoso tentativo di indagare e giustificare la realtà per mezzo del solo contributo umano. Questa riscoperta dei classici portò inoltre a una nuova visione delle arti: la pittura, l'architettura e la scultura si impregnarono dei canoni classici dell'antichità, l'artista stesso cominciò a svincolarsi dallo stile e dai precetti artistici cristiani per seguire una più libera e personale interpretazione artistica.
3
La caccia delle streghe nel 500 (Benedetta Mocci) La caccia alle streghe è la ricerca e la persecuzione di donne sospettate di compiere atti di magia quali sortilegi, malefici, fatture, legamenti o di intrattenere rapporti con forze oscure e infernali dalle quali ricevere i poteri per danneggiare l'uomo, specialmente nella virilità, o nello sciogliere o stringere legami amorosi; connotati, questi, che nell'immaginario popolare hanno da sempre delineato la figura della strega. Non sono mancati tuttavia accuse, processi e condanne contro uomini (stregoni), addirittura prevalenti per numero nell'est dell'Europa. Il fenomeno della caccia alle streghe nacque all'incirca alla fine del XV secolo e perdurò fino all'inizio del XVIII secolo all'interno dell'occidente cristiano. Benché le prime tesi sulla stregoneria vengano fatte risalire alla letteratura cattolica del 1400 circa, fu in particolare nelle regioni protestanti che durante l'Umanesimo e il Rinascimento il fenomeno ebbe maggiore rilevanza e recrudescenza. In quell'epoca, le streghe, ritenute sospette e pericolose dalle autorità civili e religiose, furono oggetto di persecuzioni che sovente terminavano con condanne a morte a seguito delle quali le stesse venivano arse vive sul rogo. Nella terminologia moderna, per estensione, con "caccia alle streghe" si indicano fenomeni persecutori di determinate categorie di persone basati sul fanatismo ideologico e su un presunto pericolo sociale atto a scatenare il panico, per cui si giunge a negare i normali diritti di difesa agli accusati e ad avere scarsa considerazione della loro reale colpevolezza o innocenza, come nel caso del Maccartismo negli anni cinquanta del Novecento negli Stati Uniti. Fra il 1227 ed il 1235 fu instaurata l'Inquisizione contro le "streghe" e contro gli "eretici" con una serie di decreti papali. Nel 1252 Papa Innocenzo IV autorizzò l'uso della tortura per estorcere "confessioni" di stregoneria da parte delle donne sospettate. Questo papa criminale alla sua morte fu sepolto nel Duomo di Napoli. Successivamente, Alessandro IV diede all'Inquisizione ogni potere di torturare ed uccidere, in caso di stregoneria coinvolgente l'eresia. Il 5 dicembre 1484 Papa Innocenzo VIII emette la bolla “Summis desiderantes affectibus” sulle streghe, che 4
ordinava di inquisire sistematicamente, per scoprire torturare e giustiziare le streghe in tutta Europa. Nel "Malleus Maleficorum" (il maglio delle streghe) una sorta di "Manuale del perfetto inquisitore", gli "esperti" della Chiesa Cattolica (ovvero i frati domenicani Heinrich Kramer Institor e Jacob Sprenger) elencavano dettagliatamente quello che combinavano le streghe: «uccidono il bambino nel ventre della madre, così come i feti delle mandrie e dei greggi, tolgono la fertilità ai campi, mandano a male l’uva delle vigne e la frutta degli alberi; stregano gli uomini, donne, animali da tiro, mandrie, greggi ed altri animali domestici; fanno soffrire, soffocare e morire le vigne, piantagioni di frutta, prati, pascoli, biada, grano e altri cereali; inoltre perseguitano e torturano uomini e donne attraverso spaventose e terribili sofferenze e dolorose malattie interne ed esterne; e impediscono a quegli uomini di procreare, e alle donne di concepire…». Dal 1257 al 1816 l'Inquisizione torturò e bruciò sul rogo milioni di persone innocenti. Erano accusate di stregoneria e di eresia contro i dogmi religiosi e giudicate senza processo, in segreto, col terrore della tortura. Se “confessavano" erano dichiarate colpevoli di stregoneria, se invece "non confessavano" erano considerate eretiche, e poi arse sul rogo. Non sfuggiva nessuno. Alcune erano sottoposte alla prova della pietra al collo, la presunta colpevole veniva cioè gettata in acqua legata a una pietra. Se annegava era innocente, se invece restava a galla era una strega ... in ogni caso moriva! In tre secoli alcuni storici hanno stimato che furono sterminati nove milioni di streghe, all'80% donne e bambine. Le donne venivano violentate oltre che torturate; i loro beni erano confiscati fin dal momento dell’accusa, prima del giudizio, poiché nessuno era mai assolto. La famiglia intera veniva spossessata di ogni bene; si dissotterravano persino i morti per bruciarne le ossa. Il Malleus Maleficorum stabiliva che la strega accusata doveva essere "spesso e frequentemente esposta alle torture". Le cacce alle streghe erano campagne ben organizzate, intraprese, finanziate ed eseguite dalla Chiesa e dallo Stato. Questo regime di terrore durò cinque secoli, sotto la 5
benedizione di almeno 70 papi, tutti in qualche modo compromessi con questi orrendi crimini. Il terrore serviva a dominare e sfruttare le popolazioni, sottomettere i ribelli, imporre una religione non voluta dal popolo e arricchire i dignitari (le autorità religiose) e i loro complici (gli inquisitori). Questi ultimi godevano di privilegi particolari ed erano al di sopra della legge. Le donne costituivano il bersaglio preferito perché si voleva eliminare il principio femminile. Il ruolo naturale di guide da esse esercitato nella comunità minacciava il potere delle autorità (principio maschile). Le donne si occupavano della salute (gli uomini imparavano da loro) e trasmettevano le tradizioni; le più anziane arbitravano con saggezza le contese. Avevano un potere e una forza naturali, incarnavano la sovranità del principio femminile con i suoi valori di conservazione, protezione, aiuto reciproco, condivisione trasmettevano forza alla popolazione. Alcune personalità famose caddero vittime dell’Inquisizione. La più nota è senza dubbio Giovanna d'Arco, la pastorella che assunse il comando dell'esercito, salvò la Francia dall'invasione nemica e rimise in trono il legittimo sovrano. Fu però accusata di stregoneria ed eresia perché indossava i pantaloni e cavalcava come un uomo e fu quindi bruciata viva. Ora però è canonizzata. Uomo o donna, chiunque usasse la testa costituiva una minaccia alla ricchezza e al potere di una minoranza di privilegiati e andava quindi eliminato. Una donna simile veniva giudicata una strega e bruciata, dopo di che ci si impadroniva dei suoi beni. Qualunque donna non sposata dotata di un'abilità insolita o caratterizzata da un tratto particolare (per esempio i capelli rossi) rischiava l'accusa di stregoneria e quindi la morte. Le presunte streghe (e a volte anche i loro figli, soprattutto se femmine), appartenevano per lo più alle classi sociali inferiori ed erano di solito vedove, prostitute, levatrici ed herbarie. Soltanto una piccola minoranza di loro poteva essere realmente annoverata tra i veri e propri criminali (fu il caso della cosiddetta “Voisin”, per esempio, prestatrice di servizi satanici per le messe nere della Marchesa di Montespan, pure lei criminale, favorita di Luigi XIV di Francia, al fine di assicurasi a lungo i favori del re), colpevoli di omicidi, o di altri gravi reati. La stragrande maggioranza era invece composta da 6
persone innocenti, di ogni età e condizione, spesso “levatrici” e guaritrici o prostitute, in un tempo in cui decotti ed infusi a base di piante usati dall’empirico sapere tradizionale delle guaritrici risultavano non meno efficaci e sicure di medicine e medici: e, d’altra parte, la popolazione, essenzialmente rurale, non aveva altre possibilità per curarsi del ricorrere ai loro rimedi, meno costosi di quelli dei medici. Veniva considerata “strega” anche chi possedeva gatti neri, aveva i capelli rossi o un neo nell’iride dell’occhio (il cosiddetto “segno del diavolo”). Molte “streghe” vennero torturate e bruciate vive, con le motivazioni ufficiali più varie, ma spesso in base a delazioni anonime mosse anche da futili ragioni e in molti casi, perché sotto tortura, in cambio della riduzione dei tormenti, facesse il nome di persone possibilmente benestanti, ree di complicità, in modo da poter istruire il processo successivo, considerato fortemente remunerativo, dato che il condannato subiva anche la confisca dei beni.
7
Il teatro nel rinascimento (Davide Polidori) Il teatro rinascimentale è l'unione dei generi drammaturgici e delle diverse forme di rappresentazione teatrale scritti e praticati in Europa tra la fine del Medioevo e l'inizio dell'età moderna. In questo periodo si assiste ad un fenomeno di rinascita del teatro, preparata dalla lunga tradizione teatrale medioevale che si era manifestata nelle corti, nelle piazze e nelle università in molteplici forme, dalla sacra rappresentazione fino alle commedie colte quattrocentesche. Il teatro rinascimentale in Italia Il Rinascimento fu l'età dell'oro della commedia italiana, anche grazie al recupero e alla traduzione nelle diverse lingue volgari, da parte degli umanisti di numerosi testi classici greci e latini (sia testi teatrali come le commedie di Plauto e Terenzio e le tragedie di Seneca che opere teoriche come la Poetica di Aristotele, tradotta per la prima volta in italiano dall'umanista Giorgio Valla nel 1498). I generi sviluppati e proposti furono la commedia, la tragedia, il dramma pastorale e, soltanto in seguito, il melodramma, i quali ebbero una notevole influenza sul teatro europeo del secolo. Ma si continuò anche nella tradizione medievale della Sacra rappresentazione che ebbe numerosi esponenti anche nel corso del Rinascimento. La commedia Uno dei commediografi più rappresentativi del teatro rinascimentale è stato Niccolò Machiavelli; il segretario fiorentino aveva scritto una delle commedie più importanti di questo periodo, La mandragola (1518), caratterizzata da una carica espressiva e da una linfa inventiva difficilmente eguagliate in seguito, ispirata da riferimenti satirici alla realtà quotidiana dei personaggi e non più necessariamente legati ai tipi della tradizione classica.
8
Firenze Fra i primi commediografi molti erano fiorentini, a partire da Agnolo Poliziano con l'L'Orfeo (1480), una commedia di stampo pastoral- mitologico. Ma nel secolo successivo si affermarono dei veri professionisti della commedia come Anton Francesco Grazzini detto Il Lasca,Giovan Battista Cini, Giovan Battista Gelli, Giovanni Maria Cecchi e Raffaello Borghini nonché il giovane Lorenzino de' Medici che scrisse un'unica commedia L'Aridosia (1536) prima di essere assassinato dai sicari del Granduca Cosimo come tirannicida per l'uccisione del cugino il duca Alessandro. Commedie nelle corti italiane Un posto particolare occupano Pietro Aretino, Ludovico Ariosto e Ruzante, che furono tutti intellettuali al servizio delle corti. Per quella estense di Ferrara, Ariosto, oltre Orlando furioso, scriverà delle divertenti commedie d'origine plautina come La Cassaria (1508) e La Lena (1528). La Roma dei Papi Nella Roma di Leone X imperverserà Pietro Aretino con le sue pasquinate ma anche con commedie come La Cortigiana (1525), nella quale trasgredirà molte convenzioni linguistiche e sceniche. A Roma il teatro venne riscoperto e, per la prima volta, avallato dai papi, che intuiscono la possibilità di strumentalizzarlo a fini politici. Il teatro rinascimentale a Roma non ebbe rappresentanti al pari delle altre corti italiane, con l'unica eccezione di Francesco Belo che scrisse Il pedante (1529) e il già citato Annibal Caro (originario però di Civitanova Marche, ma da sempre a Roma al servizio dei Farnese). Farsa cavaiola La farsa cavaiola fu un fortunato genere letterario dialettale, partecipe dell'«ultima grande stagione del teatro comico cinquecentesco [...] quella fiorita in, e attorno, a Napoli», legato soprattutto al nome di Vincenzo Braca. Il genere dovette conoscere una notevole fioritura tra la fine 9
del XV e il XVI secolo, ma di questa cospicua produzione, su un arco di un secolo e mezzo, è sopravvissuto ben poco. Il genere è incentrato sull'archetipo farsesco del cavaiuolo, ovvero un ignorante e stolto villico cavese (ossia un abitante della città di Cava), immaginato dai cittadini salernitani nella rozzezza del suo dialetto, e nei suoi tratti più grossolani e caricaturali: esempi ne sono la Farza de lo Mastro de scola e la Farza de la Maestra di Vincenzo Braca, in cui il carattere del cavaiolo diviene l'archetipo del tipico «popolano sciocco». Commedie in dialetto veneto Un caso a parte è rappresentato dalla figura e l'opera di Angelo Beolco detto il Ruzante dal nome del contadino padovano protagonista delle sue opere. La particolarità del teatro di Ruzante, anticipata di qualche anno dall'opera di Andrea Calmo, era quella di introdurre nel teatro italiano, che sino ad allora aveva usato il volgare fiorentino, l'uso del dialetto. Ruzante lavorava alla corte padovana di Alvise Cornaro il quale fece costruire un'apposita scenografia nella sua villa di Padova che fu detta la Loggia del Falconetto dal nome dell'architetto Giovanni Maria Falconetto che la ideò, spazio atto alla rappresentazione delle commedie ruzantiane come la Betìa (1525) e l'Anconitana (1535) per citare le più famose fra le commedie di Beolco. Del 1535-1537 è una commedia esemplare in dialetto veneziano, con un titolo inequivocabile: La Venexiana che pure se di autore anonimo dimostra la maturità del teatro della città di Venezia, fino ad allora legata ad autori della terraferma. Nel caso di Ruzante il dialetto con il quale si esprimeva la sua drammaturgia era il padovano cinquecentesco delle campagne venete: le sonorità onomatopeiche della difficile lingua furono di ispirazione, a distanza di molti secoli, per artisti contemporanei come Dario Fo, che trasse ispirazione appunto dalla lingua di Ruzante per il suo grammelot. 10
Il teatro in dialetto cominciò a svilupparsi in questo periodo con la Commedia dell'Arte, le sue maschere, come il bergamasco Arlecchino (che poi assumerà come lingua il veneziano), il napoletano Pulcinella con le sue invenzioni mimiche e gestuali e il vecchio mercante veneziano Pantalone fra i più famosi. Altri frequentatori del teatro veneto-padano furono il piacentino Girolamo Parabosco e Ludovico Dolce che scrisse due commedie e due tragedie. La tragedia e il dramma pastorale Nel Rinascimento anche il teatro tragico trovò un suo spazio; i rappresentanti più importanti della tragedia rinascimentale furono il conte Gian Giorgio Trissino, autore di Sofonisba (1514) e Giambattista Giraldi Cinzio autore, tra le altre, della tragedia Orbecche (1541). Anche Torquato Tasso compose tragedie di carattere mitico ed epico- pastorale, genere a metà strada fra la tragedia e la commedia. La più rappresentativa di questo periodo, fu un dramma pastorale di sapore molto arcadico: Il pastor fido (1590) di Giovan Battista Guarini. Il Dramma pastorale stesso ebbe un'origine classica in quanto ispirata alle Bucoliche di Virgilio. Anche l'Aminta (1573) di Torquato Tasso è considerato un capolavoro di questa tipologia pastorale, non solo per la fortuna editoriale e teatrale ottenuta, ma soprattutto per la sua notevole influenza sulla drammaturgia europea e sul melodramma seicentesco ma la tragedia vera d'ispirazione senechiana del Tasso fu il Torrismondo (1587), d'ambientazione nordica. Nobili dilettanti e attori professionisti Questi testi teatrali venivano rappresentati da giovani dilettanti, come le Compagnie della calza dei nobili veneziani per i quali lavorarono il Ruzante e l'Aretino. La professionalità dell'attore non era riconosciuta, sebbene la professione esistesse già dal tempo dei giocolieri di piazza e i buffoni di corte, ma si sviluppò, nel tempo con progressi notevoli dal punto di vista dell'arte drammatica e dell'interpretazione del testo, nonché dell'allestimento scenico, spesse volte a carico delle compagnie girovaghe che si affermeranno dalla metà del XVI secolo (la prima testimonianza di una compagnia di attori professionisti è citata in un atto 11
notarile del 1545) fino a tutto il secolo successivo con la Commedia dell'arte. La sacra rappresentazione rinascimentale Durante il Rinascimento la produzione di teatro sacro, che proveniva dalla sacra rappresentazione d'ascendenza medievale, non s'interruppe ma ebbe una fioritura importante che traghettò i temi religiosi anche nelle corti italiane fra il Quattrocento e il Cinquecento. Anche se diffuso in tutta Europa questo genere si affermò principalmente a Firenze con la presenza di importanti autori come Feo Belcarie Lorenzo de' Medici nel Quattrocento e con Giovanni Maria Cecchi nel Cinquecento. Nonostante ciò la maggioranza delle sacre rappresentazioni rinascimentali rimase in forma anonima come era nella consuetudine medievale. Così rimasero anonimi gli autori (o l'autore) dell' Ascensione, recitata nella Chiesa del Carmine di Firenze e quella dell'Annunciazione nella Chiesa fiorentina di San Felice in Piazza allestite per il Concilio di Firenze (14381439) e apparate da Filippo Brunelleschi nella sua inconsueta veste di scenografo[8], come testimoniato da Vasari nella Vita dello stesso architetto. Il mimo Se da una parte la nascita della commedia rinascimentale permise lo svilupparsi di una forma autonoma di prosa teatrale, dall'altra la tradizione dei giullari e dei guitti non andò perduta, permettendone la perpetrazione grazie ai buffoni di corte e ai mimi. I loro lavori non si ispiravano in alcun modo alla tradizione latina, distaccandosi così dalle forme di spettacolo coeve e presentando moduli che in parte confluiranno nella Commedia dell'Arte. È tuttavia errato considerare le buffonate e le burlesche come il contraltare della letteratura teatrale colta: i temi dei giullari e dei mimi del Quattrocento sono gli stessi dei loro antenati, incastrati in una sceneggiatura modesta e breve, nella quale i temi della città si confrontano con quelli del villano, che diviene punto di riferimento della burla e del beffeggio.
12
La nascita del melodramma Sempre nel corso del Cinquecento si fecero i primi esperimenti che avrebbero condotto alla nascita del genere più rivoluzionario del teatro italiano: il melodramma. Nel palazzo fiorentino di Giovanni de' Bardi si riunì un gruppo d'intellettuali che prese il nome di Camerata dei Bardi. Cercando di riesumare l'antica tipologia del recitar cantando attribuita al teatro greco classico, fecero nascere quello stile che poi si affermerà nel corso dei secoli successivi grazie al genio di autori del calibro di Claudio Monteverdi, Metastasio fino alla grande opera ottocentesca di Giuseppe Verdi e Giacomo Puccini. I primi sperimentatori della camerata fiorentina, nata intorno al 1573, erano Jacopo Peri, Giulio Caccini, Vincenzo Galilei (padre di Galileo), Emilio de' Cavalieri, Jacopo Corsi e il poeta Ottavio Rinuccini che scrisse i primi libretti. I nuovi spazi recitativi All'inizio del Quattrocento le rappresentazioni avvenivano in luoghi privati come giardini, cortili di conventi e saloni dei palazzi addobbati per le rappresentazioni come nel caso del Salone dei Cinquecento nel Palazzo della Signoria a Firenze adattato a teatro dal Vasari. Con la rimessa in scena dei testi greco- latini si cominciò a costruire degli spazi atti a contenere scenografie, alle volte anche molto complesse: in questo periodo vennero costruiti nuovi spazi teatrali, a cominciare dalla Loggia del Falconetto di Padova. Ma l'esempio più eclatante dell'applicazione scenografica rinascimentale fu il Teatro Olimpico di Andrea Palladio, a Vicenza, che ancora oggi conserva la scenografia originale cinquecentesca di Vincenzo Scamozzi dell'Edipo re di Sofocle, opera con la quale fu inaugurato il teatro nel 1585. In seguito, nel1590, allo stesso Scamozzi i Gonzaga affidarono la costruzione di un altro teatro per il Palazzo Ducale di Sabbioneta che prese il nome di Teatro all'Antica. 13
Una nuova tipologia di teatri s'affermò alla fine del XVI secolo: i teatri privati a pagamento, aperti ad ogni classe sociale e non più esclusivo divertimento dell'aristocrazia. A Venezia, più che altrove, iniziò questa imprenditoria, ma che si affermerà nel secolo successivo con la lunga stagione della commedia dell'Arte. Il diffondersi di questi teatri anche nel resto d'Italia fece in modo che nascessero delle apposite Accademie nate per gestire questi nuovi spazi teatrali, non più ad uso esclusivo delle corti.
Fonti: Teatro rinascimentale- wikipedia
14
L’indice dei Libri proibiti (Leonardo Bagaglia) fu un elenco di pubblicazioni proibite dalla Chiesa cattolica, creato nel 1558 per opera della Congregazione della sacra romana e universale Inquisizione (o Sant'Uffizio), sotto Paolo IV. Ebbe diverse versioni e fu soppresso il 4 febbraio del 1566 con la fine dell'inquisizione romana, sostituita dalla Congregazione per la dottrina della fede.
15
Lo scopo Lo scopo dell'elenco era quello di ostacolare la possibile contaminazione della fede e la corruzione morale attraverso la lettura di scritti il cui contenuto veniva considerato dall'autorità ecclesiastica non corretto sul piano strettamente teologico, se non addirittura immorale. Secondo la legge canonica, le forme di controllo sulla letteratura dovevano essere principalmente due: una prima, di censura preventiva, che poteva concedere il classico imprimatur ai libri redatti da cattolici su tematiche riguardanti la morale o la fede; una seconda, di aperta condanna, per volumi considerati offensivi: quest'ultima prevedeva l'inserimento nell'index dei libri incriminati. Secondo alcune stime [senza fonte], dopo il 1559 la detenzione di libri divenne il capo di imputazione piÚ frequente nei processi per eresia. Buona parte dei documenti relativi all'istruzione dei procedimenti fu trafugata a Parigi dalle truppe napoleoniche nel periodo che va dal 1809 al 1814 e durante il pur breve periodo della Repubblica Romana (1849); tuttavia, l'archivio della Congregazione della Fede fu ricostruito ed è a tutt'oggi intatto; dal 1998, dietro richiesta motivata, è consultabile pubblicamente.
16
La storia
Il primo indice del 1559 Tra i compiti del Sant'Uffizio, istituito da papa Paolo III nel 1542, era compresa la vigilanza e la soppressione dei libri eretici[2], compito affidato a una commissione di cardinali e collaboratori, finanziariamente indipendente dalla gestione della Curia romana. Sotto papa Paolo IV, venne pubblicato un indice dei libri e degli autori proibiti, detto "Indice Paolino", redatto dall'Inquisizione e promulgato con un suo decreto, affisso a Roma il 30 dicembre 1558. Il decreto dell'Inquisizione romana prescriveva, pena la scomunica, ÂŤChe nessuno osi ancora scrivere, pubblicare, stampare o far stampare, vendere, comprare, dare in prestito, in dono o con qualsiasi altro pretesto, ricevere, tenere con sĂŠ, conservare o far conservare qualsiasi dei libri scritti e elencati in questo Indice del Sant'UffizioÂť[2]. L'elenco dei libri proibiti comprendeva l'intera opera degli scrittori non cattolici, compresi i testi non di carattere religioso, altri 126 titoli di 117 autori, di cui non veniva tuttavia condannata l'intera opera, e 332 opere anonime. Vi erano inoltre elencate 45 edizioni proibite della Bibbia, oltre a tutte le Bibbie nelle lingue volgari, in particolare le traduzioni tedesche, francesi, spagnole, italiane, inglesi e fiamminghe. Veniva condannata l'intera produzione di 61 tipografi (prevalentemente svizzeri e tedeschi): erano proibiti tutti i libri che uscivano dai loro torchi, anche riguardanti argomenti non religiosi, in qualsiasi lingua e da qualsiasi autore fossero scritti; questa disposizione aveva l'obiettivo di dissuadere gli editori di autori protestanti di lingua tedesca. Infine si proibivano intere categorie di libri, come quelli di astrologia o di magia, mentre le traduzioni della
17
Bibbia in volgare potevano essere lette solo su specifica licenza, concessa solo a chi conoscesse il latino e non alle donne.
Tra i libri proibiti c'erano: Dante Alighieri (De Monarchia), Agrippa di Nettesheim (Opera omnia), Talmud, Ortensio Lando (Opera omnia), Guglielmo di Ockham (Opera omnia) e Luciano di Samosata (Opera omnia), Niccolò Machiavelli (Opera omnia), Giovanni Boccaccio (Decamerone) e Masuccio Salernitano (Il Novellino). Nel 1583 Antonio Ciccarelli espurgò Il Cortegiano eliminando i personaggi ecclesiastici (il vescovo di Potenza diventò podestà) le espressioni cattoliche (Guardate bel becco! pare un san Paolo diventò Guardate bel becco! pare un Dante), vennero eliminati passi come questo (Il cortegiano, II, LXXVI):
« Di questo modo rispose ancor Rafaello pittore a dui cardinali suoi domestici [amici], i quali, per farlo dire tassavano [criticavano] in presenzia sua una tavola che egli avea fatta, dove erano san Pietro e san Paolo, dicendo che quelle due figure eran troppe rosse nel viso. Allora Rafaello sùbito disse:«Signori, non vi meravigliate, ché io questi ho fatto a sommo studio, perché è da credere che san Pietro e san Paolo siano, come qui gli vedete, ancor in cielo così rossi, per vergogna che la Chiesa sua governata da tali omini come siete voi» »
Il secondo indice dopo il Concilio di Trento Il secondo elenco ("Indice tridentino" o "Index librorum prohibitorum a Summo Pontifice") venne emanato dopo la conclusione del Concilio di Trento nel 1564, sotto papa Pio IV e per impulso del cardinale Carlo Borromeo. L'elenco fu poco meno restrittivo del precedente ed era prevista la possibilità di "espurgare" i libri che comprendessero solo brevi passaggi 18
proibiti. Restava valida la necessitĂ di una licenza per la lettura della Bibbia in volgare, ma questa venne concessa senza le precedenti restrizioni. A differenza dell'Indice Paolino, l'Indice tridentino venne applicato in quasi tutta l'Italia e in gran parte dell'Europa fino al 1596. La Spagna applicava invece l'indice redatto dall'Inquisizione locale nel 1559. Papa Pio V istituĂŹ nel 1571 la "Congregazione dell'Indice", con lo scopo di provvedere a tenere aggiornato l'indice e ad inviarlo periodicamente alle sedi locali dell'Inquisizione, da dove veniva diffuso presso i librai.
La storia successiva Nuovi indici vennero redatti anche dal Santo Uffizio sotto i pontefici successivi e le due congregazioni furono spesso in conflitto in merito alla giurisdizione sulla censura dei libri. Anche i vescovi si opposero al potere dato all'Inquisizione in questo campo. Nel 1596, sotto papa Clemente VIII venne redatta una nuova versione dell'indice ("Indice Clementino"), che aggiunse all'elenco precedente opere registrate in altri indici europei successivi al 1564. La censura ecclesiastica ebbe pesanti conseguenze: le "espurgazioni", a volte neppure dichiarate, potevano arrivare a stravolgere il pensiero dell'autore originario e i testi scientifici non conformi all'interpretazione aristotelico-scolastica erano considerati eretici. Nel 1616 furono bandite le opere di Copernico. Gli scrittori si autocensuravano e l'attività dei librai diventò difficile per le richieste di permesso e i pericoli di confisca. Le "patenti di lettura", tuttavia, che in teoria avrebbero dovuto essere rilasciate solo a studiosi di provata fiducia da parte del Santo Uffizio e 19
durare solo per tre anni, si ottenevano invece in pratica abbastanza facilmente[4]. Dopo la metà del XVII secolo di fatto si cessò di perseguire la semplice detenzione di libri proibiti [senza fonte]. Nel 1758, sotto papa Benedetto XIV, le norme furono riviste e l'indice venne corretto e reso piÚ comodo. Fu inoltre eliminato il divieto di lettura della Bibbia tradotta dal latino. Le competenze per la compilazione e l'aggiornamento dell'indice passarono a partire dal 1917 al Sant'Uffizio.
20
La Controriforma (Alessandro Amicucci) La Controriforma è quella parabola storica, culturale e religiosa che ebbe origine in seguito alle disposizioni conciliari tridentine, in cui la Chiesa Cattolica attuò una serie di disposizioni disciplinari, teologiche e culturali volte a mantenere salda l'ortodossia religiosa contro le novità realizzate dal protestantesimo. Di fronte al disastro che il Cattolicesimo stava subendo in tutta Europa a causa dell'avanzata del movimento protestante, la gerarchia romana cominciò a preparare una controffensiva. Papa Clemente VII, memore del conciliarismo affermatosi a Costanza e a Basilea nel secolo precedente, preferì non convocare alcun concilio, timoroso che questo potesse mettere in discussione il primato petrino. La situazione cambiò con Paolo III (1534-1549), il quale affidò ai cardinali Contarini e Pole di mettersi d’accordo con l'imperatore Carlo V per trovare una città dove i luterani e i cattolici potessero confrontarsi. Si scelse Trento, perché uno apparteneva all’Impero, due perché era geograficamente vicina alla Germania luterana. Il percorso fu lungo e travagliato: convocato prima per il 1542, fu poi definitivamente convocato dal pontefice per il 1545 con la bolla Laetare Jerusalem. Il successore di Giulio III, l’intransigente Paolo IV (1555-1559), non volle che si continuasse in quanto riteneva che spettasse solo alla sede romana il compito della Riforma e quindi lo bloccò. Ripreso sotto Pio IV (1562), si concluse soltanto nel 1563. La conclusione dei decreti conciliari furono completamente opposti rispetto a quelli progettati inizialmente. Se costoro erano desiderosi di trovare un compromesso con i luterani, l'ala reazionaria guidata da Paolo IV prese il sopravvento, grazie alla morte dei fautori dell'ala mediatrice quali Contarini e Pole. Difatti, i decreti conciliari che furono approvati andavano a consolidare i punti dottrinali opposti a quelli 21
promossi dal Protestantesimo, sottolineando il rapporto tra fede e opere, l'autorità della Chiesa nell'interpretazione delle Scritture e il ripristino della monarchia assolutista papale. Riassumendo: 1. La validità delle opere insieme alla fede. 2. L'imposizione della Vulgata geronimiana come unica versione valida della Bibbia, e il divieto di uso del volgare per le traduzioni della Sacra Scrittura e nel culto. 3. L'interpretazione delle Scritture è affidata esclusivamente al clero .Oltre alla Scrittura, si deve considerare come fonte rivelata anche la Traditio Ecclesiae. 4. Si rinnova un “ottimismo antropologico” per cui l’uomo è capace di scegliere fra bene e male. 5. Riaffermazione dei 7 sacramenti 6. Riaffermazione del sacrificio eucaristico durante la Consacrazione (transustanziazione). 7. Riaffermazione del celibato dei preti. 8. Riaffermazione del Primato petrino e della gerarchia ecclesiastica. Decreti disciplinari Perché i decreti trovassero una concreta applicazione, si procedette alla definizione di una prassi ecclesiale estremamente rigorosa, volta all'edificazione del popolo attraverso una condotta esemplare del clero, stabilendo che: 1. I sacerdoti debbano essere preparati culturalmente e teologicamente. Si procedette all'erezione di seminari diocesani. 2. I vescovi dovessero risiedere nelle diocesi, compiere delle visite pastorali e controllare direttamente l’operato del clero]. 3. Il clero dovessero controllare scrupolosamente la moralità dei loro fedeli e annotare in appositi registri le date dei battesimi, di matrimonio, di morte[12]. 4. Ci fosse una "bonifica morale" de conventi e monasteri di tutti quei soggetti indegni o di persone costrette alla vita monacale contro la loro volontà[12]. 22
Conseguenza di queste riforme, fu un'accentuazione del clima di intolleranza che si poteva già percepire all'indomani della Riforma luterana. Dagli anni '60 del XVI secolo, infatti, l'Europa sprofondò in una serie di guerre di religione tra protestanti e cattolici. Le più importanti guerre sono la guerra dei Trent’anni ma anche le varie guerre che ci furono in Francia ed Inghilterra che portarono ad esempio all’Editto di Nantes in Francia. Elemento caratteristico della cultura religiosa post-tridentina fu l'affermazione definitiva dell'assolutismo papale e la morte del conciliarismo. I pontefici della seconda metà del XVI secolo si impegnarono, infatti, a sottolineare il decreto conciliare tridentino che ribadiva il carattere divino della sede episcopale romana. La prima metà del secolo vide il papato impegnato nel tentativo di imporre la sua supremazia in campo religioso. La concretizzazione di questo progetto si trovò nell'autoritario Paolo V (1605-1621), allorché scagliò l'interdetto contro la Repubblica di Venezia (1606) per essersi rifiutata di consegnare a Roma dei preti rei di aver commesso dei delitti e per non aver accolto le richieste pontificie in merito alla legislazione ecclesiastico. Paolo V, però, non si rese conto che la sua presa di posizione era anacronistica, E non riuscì ad ottenere il risultato sperato.Il papato della seconda metà del XVII secolo dovette constatare amaramente la fine del suo sogno di restaurazione cattolica, accontentandosi di essere la guida morale delle coscienze e di influire, sulle decisioni politiche degli Stati cattolici. I pontificati di Innocenzo X (1644-1655) e di Alessandro VII (1655-1667) continuarono da un lato nel consolidare quella cultura controriformista attraverso disposizioni disciplinari; dall'altra, ad impedire la diffusione delle "devianze" ortodosse tridentine. Tra queste, spiccava il giansenismo, dottrina sviluppata dal vescovo olandese Cornelius Jansen (1583-1638) vicina alle posizioni calviniste sul problema della grazia e della predestinazione. La spinta riformatrice e pastorale fu seguita da Innocenzo XII (1691-1700), che emise la bolla Romanum decet pontificem(1692) con cui condannava esplicitamente il nepotismo, e da Clemente XI (1700-1721), che continuò la lotta contro il giansenismo. Con quest'ultimo pontefice, però, il prestigio del papato in campo internazionale cominciò lentamente a scemare. In seguito ci fu un 23
rinnovamento spirituale attraverso la popolazione, e un ruolo importante lo giocarono i vari ordini ecclesiastici, come ad esempio gesuiti e cappuccini. La Controriforma ha subito varie interpretazioni: alcuni storici hanno notato che alcune delle direttive della Controriforma ebbero conseguenze che ironicamente crearono sfide ancora più ardue all'autorità della Chiesa cattolica e alla sua visione del mondo. Ciò accadde con l'iniziativa di rendere la Chiesa cattolica più attraente per la gente comune. Oltre a tentare di migliorare l'istruzione del clero, le attitudini e le attività della Chiesa dovevano essere più affascinanti per i laici. Parte di queste ampie decorazioni che vi erano incluse avrebbero eventualmente incoraggiato lo stile artistico del barocco. Il bisogno di far sì che questi eventi fossero seguiti da vicino attraverso le diocesi sollevò il problema dell'accuratezza di un calendario. Nel XVI secolo il calendario giuliano aveva perso il passo. Tra gli astronomi a cui fu chiesto di lavorare al problema di come il calendario potesse essere riformato c'era Niccolò Copernico. Nella dedica al De revolutionibus orbium coelestium (1543), Copernico menzionò la riforma del calendario proposta dal Concilio Lateranense V (1512-1517). Come egli spiega, una giusta misurazione della lunghezza dell'anno era un necessario fondamento per la riforma del calendario. Implicitamente, la sua opera che sostituiva il sistema tolemaico con il modello eliocentrico fu stimolata in parte dal bisogno di una riforma del calendario. Un reale calendario nuovo doveva attendere però sino al calendario gregoriano del 1582. Tuttavia, il fatto che il movimento della Terra contraddicesse direttamente i passi letterali della Bibbia e la filosofia di Aristotele divenne alla fine un inevitabile problema.
24
La Medicina del XVI Secolo (Marco Russo) LA MEDICINA DEI SEMPLICI
Questa epoca è caratterizzata dall'attenzione per la cosiddetta medicina dei semplici. Medici di nome che cominciarono ad attingere da queste risorse che in fondo erano il risultato di tentativi ed esperienze di secoli, furono Gabriele Falloppio, Leonardo
Fioravanti,
Girolamo
Cardano,
Ulisse
Aldrovandi, in cui spesso (chi più e chi meno) magia e botanica si confondevano. Ancora sono da segnalare alcuni clinici, come il francese Jean François Fernel, autore de Universa Medicina, 1554, al quale si deve il termine malattia venerea. Il rinascimento è anche l'epoca dello sviluppo della psicologia con Juan Luis Vives, della biochimica, con Jean Baptiste van Helmont, o della anatomia patologica: Antonio Benivieni riassunse nella sua opera i risultati delle autopsie di molti dei suoi pazienti, confrontandoli con i sintomi prima della morte, allo stesso modo dell'empirismo scientifico moderno. La più grande figura dell'anatomia patologica è sicuramente Giovanni Battista Morgagni appartenente al secolo successivo. La malattie vengono divise in "interne" (ovvero da causa interne) trattate dal medico-fisico ed in "esterne" (trattate dal chirurgo).
25
RISTRUTTURAZIONE DEGLI OSPEDALI
Un'altra istituzione che nacque nel medioevo furono gli ospedali. I primi ospedali sorsero come ospizi per persone non abbienti, più che come luoghi di cura. Solo negli ospedali femminili si potevano tenere animali. Le condizioni igieniche erano alquanto sommarie, ad esempio: non venivano mai cambiate le lenzuola. Non doveva però mancare l'immagine del Signore, in quanto gli ospedali erano considerati dei luoghi dove ci doveva essere la presenza guaritrice dello spirito santo. Gli ospedali medievali (ma questo andò avanti fino all'età moderna, e vale anche per l'ospedale civile San Giovanni di Dio di Cagliari) hanno la porta rivolta verso il Vaticano, perché lo Spirito Santo possa entrare meglio. Erano costituiti con una cappella che potesse essere vista da tutti i reparti ospedalieri. Il primo ospedale fu quello di Santo Spirito a Roma, il secondo fu quello di Santa Maria Novella, a Firenze costruito grazie ad una elargizione di Folco Portinari, il padre di Beatrice ricordata da Dante. L'ospedale da' meno spazio alla carità e pone l'attenzione sulla salute del corpo. Si tendono a creare ospedali maggiori per malati suscettibili di guarigione, ed ospedali minori per malati cronici (non suscettibili di guarigione). Si comincia a creare un personale giuridico amministrativo.
26
FIGURE DELLA MEDICINA In età moderna si formano una grossa varietà di figure che operano nell'ambito sanitario, a volte anche in contrasto tra di loro. Queste sono: Curatori regolari: Medico
laureato:
è
la
figura
ufficiale
del
medico,
studia
all'università, in corsi triennali, attraverso il metodo dei dibattiti. La sua preparazione è, quindi, concentrata sulla logica, sulla retorica e sulla cultura classica; Speziale-farmacista:
lavora
come
venditore
di
spezie
e
medicamenti in una sua bottega; Barbiere-chirurgo: si occupa della cura "esterna" dell'uomo, ossia i suoi compiti vanno dai salassi alla cura di tumori cutanei ai compiti del barbiere. Curatori irregolari: (perlopiù itineranti) Stufarolo: offre come servizio i bagni caldi; Cavadenti: il precursore del dentista; Fabbricatori e venditori di cinti per ernie: questa categoria lavorava in bottega; Ciarlatano: il nome probabilmente deriva da "ciarla" o "cerretano" (ordine religioso); la sua professione è legata allo spettacolo: ad esempio, poteva lavorare con musicisti o scimmie. Questa categoria è in concorrenza ai medici; Levatrice: a margine delle figure sanitarie si trova l'unica figura esercitabile dalle donne; suo compito è ciò che riguarda la sessualità femminile, compresi i parti. Ad eccezione del medico laureato, queste figure si formano per apprendistato.
27
DISSEZIONE
Si ebbe un certo periodo di stallo intorno al 1299 perché il papa Bonifacio VIII promulgò una bolla papale chiamata "De sepolturis", in cui si vietava la manipolazione dei cadaveri, cioè questi non potevano essere bolliti e ridotti in scheletro. Questo aveva lo scopo principale di limitare il florido commercio di reliquie. La bolla cui si è accennato non aveva alcuna intenzione di impedire le dissezioni, però in pratica le bloccò. Pochi anni dopo, le dissezioni ripresero grazie ad altri papi che capirono l'equivoco
e
divulgarono
delle
bolle
che
permettevano le dissezioni in particolari periodi dell'anno (soprattutto in quaresima sulle donne, da taluni ritenute prive di anima, e solo successivamente sugli uomini). Da illustrazioni dell'epoca appaiono chiari il ruolo assunto nella pratica della dissezione dal medico togato (laureato, legge Galeno) e dal chirurgo inserviente: il primo indossava una lunga toga da cui spuntano solo le scarpe (per evidenziare la sua statura culturale), mentre il secondo, che è colui che opera, indossa una corta veste che lascia scoperte le gambe per dimostrarne il rango inferiore.
28
La Moda del Rinascimento (Alessandro Valtieri) L’esplosione del Rinascimento, oltre che l’arte, invase anche il costume, prendendo il via proprio dall’Italia e andandosi poi a radicare nelle varie realtà europee. Due punti sono da evidenziare per quanto riguarda i cambiamenti che interessarono la moda dell’epoca: • •
La nascita di una classe mercantile che permetteva una grande circolazione di stoffe e preziosi. Il cambiamento artistico architettonico che sposta l’attenzione dalla linea verticale a quella orizzontale.
Ciò portò da un lato all’enorme arricchimento dei tessuti: seta cinese, velluto, stoffe tramate di metalli preziosi, bottoni incastonati di gemme. Dall’altro lato, poi, il costume divenne più “tozzo”: enfasi quasi ossessiva veniva data alle spalle, al petto ai fianchi, imbottiti con ogni sorta di oggetto (sabbia, farina, lenzuola, suppellettili). Non fu più di moda il tipo gotico longilineo, ma la donna rotonda come le Veneri di Tiziano. L’abbigliamento femminile Venezia fu in particolare la città italiana dove il costume femminile si espresse con maggior libertà: scollature profonde, che dipendevano dall’età e dalla condizione sociale della dama, ed elementi tratti dall'abbigliamento orientale, come i primi orecchini che, come riferisce un cronista scandalizzato foravano le orecchie "a guisa di mora". Le gonne erano ampie e con lo strascico, per i primi decenni del 500 non erano attaccate al corpetto. Verso il 1530 si verificò un’importante novità: la gonna del vestito spesso era aperta sul davanti a forma di V rovesciata dalla vita all’orlo in modo da mettere in risalto la sottoveste. 29
Alcune stranezze del vestiario femminile colpirono i contemporanei: ad esempio l'uso di portare sotto la gonna, braghe rigonfie lunghe fino al ginocchio, moda probabilmente importata da da Lucrezia Borgia. Le parti del vestito (bustino e vari lembi della gonna) erano unite da laccetti, che lasciavano intravedere la biancheria candida delle signore: la dame nobili amavano evidenziare il loro distaccamento dalla plebe anche attraverso la pulizia ed il candore della biancheria. Questa traspariva dalle scollature, dalle gonne e dalle attaccature delle maniche.
L’abbigliamento maschile L'uomo cercò di accentuare la sua virilità: muscoloso, con spalle larghe e barba folta, metteva in mostra anche i suoi attributi sessuali, indossando la braghetta: una sorta di rigonfio sull'inguine chiaramente fallico. Si continuarono a usare più abiti sovrapposti, spesso con maniche tagliate da cui uscivano gli sbuffi della camicia; il mantello a cappa, nel secolo precedente di tessuto pesante e con usato più che altro a fini pratici per ripararsi dal freddo, assunse una funzione puramente decorativa, sostituito dal corto mantello a ruota, ora di tessuti ricchi e splendenti. A volte era più lungo, fino alle ginocchia, con tagli sui lati o maniche. Dalla seconda metà del Cinquecento mentre nel resto d'Europa si erano già formati gli Stati nazionali, l'Italia fu divisa in principati, alcuni retti direttamente da dinastie non italiane. Da questo momento in poi iniziò un processo di maggior irrigidimento dei costumi, forse a causa dell'influenza della moda Spagnola, e dell'intervento morale della Controriforma. Anche gli uomini cambiarono stile, chiudendo come le donne il collo del busto, ma continuando a mostrare le gambe, a cui si sovrapponevano nella parte superiore bragoni rigonfi e tagliati 30
verticalmente, di forma ovoidale. Le gambe muscolose furono una vera e propria esibizione di vanità : sappiamo che Enrico VIII d'Inghilterra andava fiero delle sue. Altri cronisti, scandalizzati, riferiscono che alcuni uomini con le gambe smilze si imbottivano i polpacci. La rigidezza degli abiti, che trasformava la figura in forme geometriche e impediva movimenti sciolti, dava al corpo una forma ieratica che sottolineava la superiorità morale dell'aristocrazia rispetto alla volgarità della plebe. Si andava delineando con molta forza il vestito delle classi alte, che trovò un parallelo anche nell'arte, dove il popolo era dipinto in forma grottesca e caricaturale.
31
La musica del 500 e il madrigale (Clelia Generali) La musica rinascimentale Nel cinquecento l'unità religiosa dell'Europa occidentale si spezzò con la riforma protestante promossa da Martin Lutero nel 1517. Dalla Germania il movimento riformatore si diffuse in molti paesi d'Europa, fra cui la Svizzera con Giovanni Calvino e l'Inghilterra, dove nel 1534 il re Enrico VIII si proclamò capo della chiesa anglicana. La chiesa romana non poté ignorare la generale richiesta di rinnovamento, così il Papa Paolo III convocò il concilio di Trento, che durò dal 1545 al 1563. Iniziò, dunque un processo di eliminazione della corruzione e del malcostume diffusi nel clero,nel frattempo le arti e le scienze conobbero una fase di rifioritura e di rinnovamento. In Italia ci furono due grandi centri di produzione della musica sacra (Roma e Venezia) e la nascita dell'editoria musicale. Nel 1501 a Venezia venne per la prima volta pubblicato ad opera di Ottaviano Petrucci l'Harmonice Musices Odhecaton, un intero volume di musica a stampa. Nell'ambito della musica popolare, gli anni trenta e quaranta del secolo videro la diffusione di un nuovo genere musicale, la chanson parigina, un canto sillabico a più voci generalmente omoritmico (le voci cantano simultaneamente note della stessa durata). Questa subì molti mutamenti ed evoluzioni; nella seconda metà del secolo una forma, puramente strumentale, derivata da questa, detta canzone da sonar, divenne l'antenata delle forme strumentali che saranno successivamente sviluppate nel periodo barocco. Un'altra importante diramazione della 32
chanson parigina fu in Italia il madrigale, nato ad opera del francese Philippe Verdelot e del fiammingo Jacques Arcadelt. Per la prima volta la musica strumentale acquistò una reale autonomia dalla musica vocale. La varietà di strumenti testimonia la ricerca di modi di suonare innovativi e il desiderio di sperimentare nuovi timbri. Lo strumento musicale più diffuso era il liuto. Gli altri erano: quelli ad arco (la lira da braccio, da gamba, il lirone da gamba e l’archiviola da lira), a tastiera ( l’organo, il clavicembalo e la spinetta), a corde ( l’arpa), a fiato ( il flauto, il fagotto, la tromba, i tromboni, i corni e la bombarda). L'avvento della Riforma Luterana e la reazione cattolica controriformista, culminata nel Concilio di Trento ebbero un profondo influsso sulla musica sacra. Nel mondo tedesco, la traduzione in tedesco dei canti liturgici e la loro messa in musica spesso su melodie profane creò la tradizione del corale protestante,mentre nel mondo cattolico, si creò un movimento di ritorno alle origini del gregoriano, che proibiva ogni messa di derivazione musicale profana. Allo stesso tempo, negli ambienti umanistici si sviluppò una polemica tra i proponenti delle forme polifoniche e i proponenti delle forme monodiche, dove questi ultimi vestivano i panni degli innovatori. Fondamentale fu il circolo fiorentino della Camerata de' Bardi che verso la fine del secolo produsse ben due versioni (tra loro in concorrenza) di un dramma musicale, l'Euridice, dove veniva impiegata una tecnica nuova (detta recitar cantando) da cui nel XVII secolo il genio di Claudio Monteverdi avrebbe fatto nascere il melodramma. Alla fine del secolo il trattato "De Institutioni Harmonicae" (1589) di Gioseffo Zarlino, uno dei conservatori e difensori della polifonia nella 33
polemica sopra accennata, definisce finalmente in modo completo ed esauriente le leggi dell'armonia (e quindi della polifonia).
Madrigale L'origine della parola è a tutt'oggi discussa: se ne ipotizza l'etimologia dal latino volgare “mandria-mandrialis” in riferimento al contenuto rustico e pastorale; da matrix-matricalis, "di lingua materna, dialettale" o dal Provenzale “mandra gal”, "canto pastorale" o ancora dallo spagnolo “madrugada”, "canto dell’alba”. Il madrigale è un brano di musica profana molto raffinato, in stile polifonico, che nasce dall’incontro fra la poesia italiana e la musica fiamminga. In quel tempo, la poesia italiana era stata rinnovata per iniziativa del letterato Pietro Bembo, che invitava a prendere come modello le rime di Francesco Petrarca. Il musicista cercava di creare una perfetta unione di poesia e musica, scegliendo all’interno del testo le parole più adatte a favorire l’aderenza della musica al loro significato. In alcuni casi furono inventati delle corrispondenze precise tra parole e musica, secondo convenzioni chiamate madrigalismi. La dimensione produttiva del madrigale musicale cinquecentesco, di cui si conservano a stampa circa 40.000 brani, è tale che supera ampiamente l'intera produzione polifonica vocale non liturgica di tutte le altre forme vocali profane e di tutte le lingue europee messe insieme. Nel 1520 venne pubblicato a Venezia un libro di musiche di Bernardo Pisano su testi del Petrarca che, vicine al mottetto fiammingo, possono costituire l’atto di nascita del madrigale cinquecentesco insieme con i Madrigali nuovi da diversi eccellentissimi musici, raccolta di musiche, edita a Venezia nel 1533, di Costanzo Festa, Sebastiano Festa, Philippe Verdelot, Jacobo de Toscana e Maistre Jan. 34
I maggiori compositori furono soprattutto fiamminghi, come Adrian Willaert, del quale è la Musica Nova del 1539, Jacques Arcadelt, Cipriano de Rore. I compositori della seconda metà del secolo, sulla scia del de Rore, dedicarono particolare cura alla corrispondenza del testo con la musica, attraverso ricerche cromatiche ed espressive, con effetti d’eco e contrappunto, fino a giungere alla cosiddetta musica visiva, in cui si facevano corrispondere a sillabe testuali come sol, mi, fa, re le note omonime, a utilizzare le note nere (o, al contrario, le note bianche), per esprimere sentimenti di tristezza o di gioia. I madrigalisti più importanti furono: Il fiammingo Orlando di Lasso,che dedicò a questo genere un'ampia parte della sua produzione, che si caratterizzava per raffinatezza e complessità contrappuntistica Giovanni Pierluigi da Palestrina, il quale fu autore di madrigali profani e sacri Il veneziano Andrea Gabrieli, che adottò il recitativo corale e il dialogo Giovanni Gabrieli
Luca Marenzio Carlo Gesualdo, che diede la precedenza al testo, tutta la sua audacia ritmica e armonica e l’estremo cromatismo erano giustificati dalla necessità di ottenere la massima corrispondenza musicale alla rappresentazione poetica
Claudio Monteverdi, con lui si concluse la stagione aurea del madrigale italiano: i suoi Nove libri di madrigali ripercorsero l’evoluzione del genere. Ai madrigali del Quinto libro, 1605, ancora polifonici a 5 voci, venne aggiunto il basso continuo e venne introdotta la monodia, cioè la preminenza di una voce, normalmente il soprano, sulle altre. La 35
tendenza giunse a prevalere nel corso dei quattro libri successivi (il Sesto libro, del 1614, contiene il famoso Lamento di Arianna, tratto dall’opera Arianna del 1608) a 1, 2, 3 voci con basso continuo e strumenti obbligati, che costituiscono un tratto d'unione del madrigale classico con la monodia barocca
Venivano usati:
contrappunto ad imitazione
episodi accordali
ritmi rapidi o lenti
registri gravi o acuti
salti melodici inusitati
accordi con cromatismi o consonanti
La forma più diffusa nel '500 era a 5 voci, tutte con valenza polifonica, cioè senza una voce principale e altre d'accompagnamento. Durava circa 5 minuti; presentava sezioni diverse a struttura concertante. Non era fondamentale la comprensione del testo poetico cantato, ma solo la tragicità suggeritaci dalla musica. Trattavano diversi temi come, ad esempio:
un amore stilnovistico o carnale nel barocco
associato alla morte
religioso (inizio dell'oratorio)
Altri tipi di madrigali sono:
Madrigale cromatico: le note nere (ovvero quelle più brevi) sottolineano le parole foco oggetto di madrigalismo. 36
Madrigale arioso: prevale l'aria sulle altre parti accordali.
Madrigale drammatico: presentavano stati d'animo alterni e contrastanti
I testi più amati dai madrigalisti andavano da quelli dei grandi poeti del passato come Dante, Petrarca e Boccaccio, a quelli contemporanei come Ludovico Ariosto e Torquato Tasso.
Uno dei madrigali più importante è “Il combattimento di Tancredi et
Clorinda”, composto da Claudio Monteverdi, riprende l’undicesimo canto della Gerusalemme Liberata.
37
In questo canto Clorinda e Argante hanno tentato con successo una
sortita notturna nella quale hanno incendiato e distrutto la possente torre d'assedio dei crociati, servendosi di unguenti infiammabili preparati dal mago Ismeno: si apprestano a rientrare a Gerusalemme da una delle porte, incalzati dai soldati nemici, quando Clorinda si attarda a scontrarsi con un cristiano che l'ha colpita e rimane chiusa fuori. Mentre la guerriera si accinge a raggiungere un'altra porta approfittando dell'oscurità, è raggiunta da Tancredi che non la riconosce (la donna indossa un'armatura nera, diversa da quella consueta) e inizia un duello furibondo con lei, senza sapere che sta lottando contro la donna che ama. Il duello sarà senza esclusione di colpi e Clorinda avrà la peggio, anche se in punto di morte la guerriera chiederà di essere battezzata dal proprio uccisore e si salverà l'anima. La morte di Clorinda: https://www.youtube.com/watch?v=5xl6M7RyBm8 Il combattimento Tancredi e Clorinda : parte 1 https://www.youtube.com/watch?v=ouQl84QUlfY parte2 https://www.youtube.com/watch?v=lwbYgX0Mczw2 parte 3 https://www.youtube.com/watch?v=AwFyb5YYVoo
38
La Questione della Lingua
Tiziano, Ritratto di Pietro Bembo(1539) Washington, National Gallery of Art.
Il 500 è considerato il periodo culminante del Rinascimento, perché convivono artisti della mole di Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Tiziano, Giorgine e Correggio; ma è anche il periodo della grande crisi dei valori rinascimentali. Proprio in questo periodo si parlò della questione della lingua che i sviluppò in Italia per vari motivi: Il problema della ricerca di una lingua letteraria era naturale in un paese come l'Italia che, divisa politicamente e stratificata in classi sociali assai differenziate, adoperava, parlando, dialetti molto diversi tra loro. Il latino veniva ancora usato nella trattatistica filosofica e scientifica, nei congressi dei dotti, nei tribunali (giudici ed avvocati parlavano in latino, gli imputati in volgare), nella medicina, nell'insegnamento universitario di tutta Europa. Tuttavia, nelle più comuni attività pratiche, nella corrispondenza epistolare dei dotti, nei rapporti diplomatici, nella storiografia l'uso del volgare tendeva a prevalere. Nel '500 fu sentita vivamente l'esigenza di una lingua che fosse, nel contempo, nazionale (una per tutti gli scrittori) e letteraria (da potersi usare in opere di temi elevati e di forme eleganti).
Nel Cinquecento la produzione letteraria, pur continuando a presentare un carattere bilingue, mostra una prevalenza del volgare sul latino. Accertata la validità letteraria del volgare, il dibattito teorico si 39
sposta dunque verso l'individuazione del tipo di volgare adatto alla scrittura e alla comunicazione colta. Tre sono le principali tesi discusse lungo l'intero secolo: la predominante tesi classicista, propugnata da Pietro Bembo nelle Prose della volgar lingua; la tesi "cortigiana'' promossa con alcune sfumature da diversi esponenti (Calmeta, Castiglione, Trissino) e quella cosiddetta del "fiorentino parlato" sostenuta principalmente da Niccolò Machiavelli e diffusa in ambito toscano. Nelle Prose Bembo proponeva un canone letterario limitato a Petrarca per la poesia e a Boccaccio per la prosa. Dalle opere dei due grandi autori trecenteschi Bembo enucleava dettagliati precetti linguistici, oltre che stilistici, modello assoluto e inderogabile per chi voleva produrre testi letterari. Dante risultava escluso da questa operazione perché plurilinguismo e pluristilismo rendevano la sua opera un esempio irriducibile alle precise indicazioni prescrittive enunciate dal cardinale. Bembo propone dunque un modello esclusivamente letterario, fortemente elitario e svincolato dalla realtà del parlato. La contrapposizione tra uso comunicativo e uso letterario è infatti netta: la “favella” è distinta dalla “lingua”, tratta dall'opera dei grandi autori trecenteschi e adatta a perpetuare la scrittura letteraria. Se da una parte un canone cosí precisamente e indiscutibilmente delineato risulta astratto e rigido, dall'altra la proposta bembiana presenta caratteri di universalità che la rendono facilmente attuabile.Risultò infatti la soluzione trionfante. La maggior diffusione fu certo favorita anche dall'adozione nelle stamperie delle proposte normative bembiane. La tesi "cortigiana" invece si ispirava al De vulgari eloquentia dantesco e proponeva un modello linguistico ibrido, costituito dalla mescidazione di diversi volgari italici parlati nel nobile ed elegante ambiente delle corti. Il latino, lingua d'uso internazionale, allora generalmente adoperata nelle scritture e nei discorsi ufficiali, era definito da Dante come grammatica per antonomasia, cioè lingua convenzionale creata artificialmente perfetta. Tuttavia il volgare d'Italia, suddiviso al suo interno in tredici principali 40
ripartizioni dialettali, aveva meritato, grazie alla Scuola poetica siciliana, di elevarsi all'uso scritto. Restava però aperto il problema sulla conformazione di quel volgare illustre che secondo Dante avrebbe dovuto avvalersi del concorso di tutti i dialetti d'Italia. Ad ogni modo, tra i principali sostenitori di questa tesi vi fu Vincenzo Colli detto il Calmeta (1460-1508), il quale scrisse un trattato Della volgar poesia, che andò perduto e di cui possediamo contraddittorie notizie da Bembo e Castelvetro. Secondo quanto riferisce il Bembo, il Calmeta proponeva di prendere a modello la corte pontificia, dove la lingua in uso nasceva dalla mescolanza dei diversi idiomi parlati dalle persone, provenienti da tutta la penisola, che vi dimoravano; secondo Castelvetro invece si sarebbe dovuto prendere a modello il fiorentino trecentesco, innovato in base all'uso della corte romana. Altra figura rappresentativa della tesi eclettica fu Baldassarre Castiglione che nel Cortigiano proponeva un'idea di lingua libera da eccessivi condizionamenti letterari trecenteschi. Tale idioma doveva essere stabilito dall'uso e dall’ingegno degli uomini in modo da essere adatto a soddisfare le esigenze comunicative del ceto aristocratico: piú un ideale, dunque, che un modello concreto. Alla tesi cortigiana si oppose il Bembo poiché riteneva tale modello né duraturo né universale e soprattutto lo considerava privo di una produzione letteraria in grado di ergersi a modello effettivamente perseguibile. Una tesi ancora diversa fu quella del "fiorentin parlato' difesa da Niccolò Machiavelli. Egli sostenne l'egemonia del fiorentino, dicendola fondata su una tradizione letteraria superiore a quella di ogni altro volgare. Machiavelli sottolinea poi che nello scrivere bisogna preferire il fiorentino agli altri dialetti perché è la lingua parlata più vicina a quella letteraria ormai impostasi come modello. La lingua che Machiavelli usa nel Principe riflette la teoria esposta nel Dialogo per la scelta del fiorentino contemporaneo ma 41
accoglie anche latinismi. La lingua fiorentina è dunque l'unica in grado di conservare e proseguire, in qualità di erede naturale, la contesa tradizione trecentesca. Ciò è dimostrato dagli esperimenti letterari quattrocenteschi prodotti nella Firenze medicea, da Bembo ritenuti viceversa espressione di involuzione e decadenza. Machiavelli sostiene che il fiorentino ha dimostrato di essere l'unica lingua in grado di inglobare le altre lingue, dando origine ad una efficace fusione. In grado di acquisire e rielaborare apporti dall'uso orale, anche popolare. Nonostante i contorni fortemente municipali, la proposta di Machiavelli ebbe comunque diversi sostenitori in area toscana tra cui Claudio Tolomei. La questione si risolse di fatto con l'affermazione del modello bembiano, e quindi con la sanzione della lingua letteraria toscana. Dante venne escluso dal canone degli autori che facevano testo in materia di lingua in quanto il lessico del poeta era più vasto e meno riapplicabile; egli, inoltre,utilizzava vocaboli ora di livello alto ora di livello basso. Il dibattito sulla questione della lingua prosegue fino al Novecento, con momenti di particolare vivacità nel Settecento illuminista e nell'Ottocento, soprattutto all'inizio del secolo con Manzoni. Questo intervento riaccese il dibattito, che proseguì con il filosofo Benedetto Croce.
42
La Rivoluzione Scientifica (Runa Alessandri) La nascita della scienza è un evento profondamente innovatore nella storia dell'uomo. Quella che si suole denominare "Rivoluzione scientifica" è convenzionalmente datata tra la seconda metà del 1500, con la diffusione delle idee di Copernico, e la fine del 1600, che vide l'affermazione delle leggi di Newton. Dalla Rivoluzione scientifica nasce una nuova concezione della natura e delle scienza. La natura è vista come un ordine oggettivo basato su un rapporto di causa-effetto : essa, dal punto di vista scientifico, non è altro che un insieme di leggi. Dalla conoscenza delle leggi della natura scaturisce la scienza, che
è
un
sapere
sull'osservazione
e
matematico
basato
sulla
verifica
sperimentale delle ipotesi. La Rivoluzione scientifica non si sviluppa nel nulla, ma in un preciso contesto storico che vede la nascita di Stati nazionali e il consolidarsi della civiltà borghese. Di fronte alla necessità di eserciti con un più adeguato armamento, di costruire argini, di solcare oceani, di lavorare le stoffe, gli artigiani tradizionali devono necessariamente appellarsi a studiosi con più approfondite nozioni di matematica, metallurgia, architettura. Si crea così il legame tra scienza e tecnica. Infatti, anche se diverse scoperte non sono nate per rispondere ad una necessità, ma solo per un bisogno di conoscenza o per un'intuizione, poi sono state comunque utilizzate in campo pratico. Per affermarsi la scienza ha dovuto combattere una storica battaglia soprattutto contro la tradizione culturale e la Chiesa: la prima si sentiva minacciata dalla scienza, che contrapponeva all'auctoritas del passato la forza dell'esperienza e della verifica; la seconda vedeva invece crollare molte certezze, come ad esempio la teoria geocentrica dell'universo. La Rivoluzione Scientifica 43
comincia con la Rivoluzione astronomica. L'universo degli antichi, con la terra al centro (geocentrismo) era unico (in quanto considerato l'unico universo esistente), limitato (dalle stelle fisse e dal primo mobile) e quindi finito.
Copernico,
invece,
giunge
alla
convinzione
di
un
sistema
eliocentrico, con al centro il Sole, attorno al quale ruotano tutti i pianeti, Terra compresa. Con Keplero e le sue tre leggi , poi, si scopre che i pianeti descrivono intorno al Sole orbite ellittiche, e non circolari. Un secondo momento della Rivoluzione astronomica vede la diffusione delle idee di Giordano Bruno. La sua visione del cosmo, che non deriva da osservazioni astronomiche o da calcoli matematici, bensì da un'intuizione alimentata dal copernicanesimo, ammette la presenza di infiniti mondi. Egli infatti si chiede : Se la Terra è un pianeta che gira intorno al Sole, le stelle che si vedono in cielo non potrebbero essere dei soli circondati da rispettivi pianeti? Ed è proprio dopo le conclusioni di Bruno che la Chiesa interviene mettendo all'indice la opere di Copernico (1616) e iniziando un duro scontro con Galileo Galilei. Infatti la teoria della pluralità dei mondi metteva in crisi i dogmi cristiani : si doveva forse pensare che ogni mondo avesse un'Eva, un serpente e un Redentore? Inoltre creava negli uomini un senso di angoscia e di piccolezza di fronte all'idea di un universo finito. La cosmologia copernicana si affermò nonostante tutto verso la fine del Seicento. La Chiesa, invece, continuò a diffidare del copernicanesimo fino ai primi decenni dell'Ottocento. GALILEO GALILEI (1564-1642) Nato a Pisa, a Firenze approfondì i suoi studi di fisica e matematica. Egli enunciò i primi due principi della dinamica, scoprendo che l'effetto di una forza applicata ad un corpo non è una velocità,ma un'accelerazione. Inoltre arriva a concludere che tutti i corpi cadono con la stessa velocità nel vuoto, mentre l'esperienza dimostra 44
che una piuma giunge più tardi al suolo di una pietra, ma solo per la resistenza dell'aria. Con la costruzione del cannocchiale, si aprì la serie delle grandi scoperte astronomiche che : i quattro satelliti di Giove (detti medicei), la presenza
delle
macchie
solari
che
testimoniavano processi di trasformazione anche nei corpi celesti, gli anfratti della Luna, la negazione della diversità tra i moti rettilinei (ritenuti fino ad allora tipici del mondo sublunare), e quelli circolari (tipici del mondo sopralunare), e quindi della struttura di cielo e terra. Le sue scoperte lo misero in urto con gli aristotelici e con la Chiesa, tanto che nel 1616 viene ammonito dal cardinale Bellarmino, pochi giorni prima che l'opera di Copernico fosse messa all'indice. Nonostante ciò continuò i suoi studi e scrisse il "Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo", in cui mette a confronto la teoria geocentrica con quella eliocentrica di Copernico. Col pretesto di voler presentare imparzialmente i due sistemi, in realtà offre argomenti decisivi al copernicanesimo. Nel 1632 venne citato dal papa Urbano VIII a comparire davanti al S. Uffizio di Roma. Il processo si concluse con l'abiura di Galilei e il confino presso la villa di Arcetri. Qui, diventato cieco, morì. LA POLEMICA CONTRO LA CHIESA La Controriforma aveva stabilito che ogni forma di sapere non dovesse essere in contrasto con le Sacre Scritture. Per Galileo invece una tale presa di posizione avrebbe ostacolato lo sviluppo del sapere e avrebbe danneggiato la stessa Chiesa che, ignorando le nuove conoscenze scientifiche, avrebbe perso credibilità agli occhi dei credenti. Per Galileo la Bibbia è arbitra nel campo religioso, mentre la scienza lo è nel campo 45
delle verità naturali, in merito alle quali è la religione che si deve adattare alla scienza e non viceversa. Quindi la Bibbia non dev'essere interpretata come un testo scientifico, anche perché è stata scritta nel linguaggio del volgo.
LA POLEMICA CONTRO GLI ARISTOTELICI Galileo mostra grande stima per Aristotele e i sapienti antichi; egli invece disprezza i loro seguaci, soprattutto i suoi contemporanei, che pur avendo a disposizione nuovi mezzi di osservazione, passano il loro tempo nelle biblioteche. IL METODO DELLA SCIENZA Galileo, tutto preso dalle sue ricerche concrete di fisica e astronomia, applica il metodo più che preoccuparsi di teorizzarlo filosoficamente. Galileo divide il suo metodo in due momenti: quello risolutivo e quello compositivo. Nel primo risolve il fenomeno nei suoi elementi più semplici e formula un'ipotesi. Nel secondo compone o riproduce il fenomeno artificialmente in un esperimento. Se l'ipotesi risulta verificata (fatta vera), diventa legge. Egli in alcune scoperte procede per induzione, in altre per deduzione. L'induzione, che egli definisce con l'espressione "sensate esperienze", consiste nell'osservazione del fenomeno e nella sperimentazione fino ad arrivare alla formulazione della teoria. La deduzione,
che
invece
definisce
con
l'espressione
"necessarie
dimostrazioni", consiste nel partire da un'intuizione, da un'ipotesi teorica, che va poi verificata nella pratica. Galileo non è né prevalentemente induttivista, né prevalentemente deduttivista, perché induzione e deduzione galileiana si implicano a vicenda. Come logica della scienza Galileo pone la matematica, che al contrario della logica tradizionale di tipo sillogistico, porta a scoprire qualcosa di nuovo. Mentre la matematica pura non ha bisogno di dimostrazioni, la deduzione matematica deve 46
trovare riscontro nella realtà per essere valida. Ma l'esperienza di cui parla Galilei non è l'esperienza immediata dei sensi, che può confermare teorie erronee, ma l'elaborazione teorico-matematica dei dati. Infatti l'esperienza quotidiana può essere ingannevole, come nel caso della caduta dei gravi. E' necessaria quindi una verifica in laboratorio che elimini i fattori di disturbo, come ad esempio la resistenza dell'aria. Questo spiega il ricorso ai cosiddetti esperimenti mentali: Galileo, non avendo la possibilità di effettuare la verifica delle proprie teorie, soprattutto per mancanza di strumenti adeguati, è costretto a ricorrere a una fisica ideale. Ad esempio per dimostrare la falsità della teoria aristotelica sulla caduta dei gravi, Galileo escogita l'esperimento teorico dei due corpi che pur unendosi nella caduta, continuano a muoversi con la stessa velocità. Galileo, pur non essendo un filosofo, si è ispirato ad alcune idee generali di tipo filosofico: la fiducia nella matematica, di origine pitagorica; la distinzione tra proprietà oggettive e soggettive dei corpi; il principio che a cause simili corrispondono effetti simili; la fiducia nella conoscenza umana che, pur differendo da quella divina per estensione, risulta simile per grado di certezza.
47
L’alimentazione nel 500 (Leonardo Pieri) Nel corso del 1500 vennero reintrodotti alcuni prodotti vegetali come i carciofi, gli asparagi, gli spinaci e i piselli, aumentò infatti il consumo delle verdure e del pane a discapito della carne. La scoperta dell’America portò alcuni prodotti nuovi come le patate, il mais o il pomodoro, ma anche la Riforma protestante contribuì ad un cambio di alimentazione, nel nostro territorio la chiesa seguì le tradizioni della civiltà romana prediligendo alimenti come pesce, olio e vino mentre nell’ Europa settentrionale i barbari mangiavano principalmente carne e bevevano la birra. Ci furono anche delle novità come l’abitudine a lavarsi le mani prima dei pasti e anche l’utilizzo della forchetta non per mangiare, ma solo per prendere il cibo dal piatto centrale del tavolo oltre all’ invenzione della pasticceria (soprattutto marmellate paste alla frutta.) La dieta di un uomo comune o comunque di bassa estrazione sociale consisteva in mezzo bicchiere di vino e una fetta di pane al mattino come colazione, il pranzo più leggero della cena e consumato intorno alle 11 e appunto il pasto principale servito al tramonto del sole che era più lungo del pranzo poiché liberi dal lavoro e si poteva passare del tempo coi familiari.
48
La cena del povero era tuttavia molto sobria basata su un pezzo di pane delle verdure,marmellata e frutta poteva raramente essere arricchita dalle uova ed era usuale conservare i cibi con le erbe. Le spezie erano pressochè inutilizzate a causa del loro elevato costo, altri cibi molto usati erano i maccheroni e le zuppe a base di erbe odorifere che molto spesso venivano riutilizzate lungo più giorni come la zuppa di cipolle che si crede sia di origine francese ma in realtà è fiorentina. La carne e il pollo erano riservati alle grandi occasioni e quando si uccideva il maiale era abitudine dare del sanguinaccio al vicino. Una curiosità è che anche il “gelato italiano” nacque durante il 16^ secolo infatti circola una storia che durante un concorso culinario della contea dei Medici un certo Ruggeri che di professione faceva il pollivendolo sbalordì tutti con questa particolare ricetta che gli portò fama e gloria, ma in breve tempo si stancò delle pressioni e ritornò a fare il pollivendolo
49
Le Guerre d’Italia nel 500 (Fabrizio Piroli) Le guerre d’Italia furono una serie di otto conflitti, combattuti prevalentemente sul suolo italiano nella prima metà del secolo XVI.
Prima guerra d’Italia (1494-1498) La discesa del re di Francia Carlo VIII in Italia nel 1494 palesa in maniera definitiva la crisi politica e militare raggiunta dagli stati italiani e rappresenta la fine di quella politica dell'equilibrio che aveva avuto inizio con la pace di Lodi del 1454. Da un punto di vista politico l'impresa è favorita dagli stessi stati italiani, favorevoli per diverse ragioni a un intervento francese nella penisola. A Milano Ludovico Sforza, detto il Moro, auspica la discesa di Carlo VIII, perché vede nella sua figura uno strumento per colpire Ferrante I che sostiene il nipote Gian Galeazzo Sforza. Anche Venezia desidera la rovina del re aragonese che favorisce la Puglia e i suoi porti, diretti concorrenti della Repubblica di Venezia. A Firenze, invece, sono gli avversari dei Medici a sostenere un'iniziativa francese, con la speranza che possa portare a un cambiamento di regime politico. Infine, nello Stato pontificio i cardinali avversi allo spagnolo Alessandro VI sperano che con la discesa di Carlo VIII si possa deporre il papa ed eleggere al pontificato Giuliano della Rovere (il futuro Giulio II).La spedizione di Carlo VIII in Italia è preceduta da un'accurata preparazione diplomatica e si caratterizza per un ingente impiego di forze militari. Prima di avviare 50
l'impresa, Carlo VIII si assicura la neutralità delle maggiori potenze europee con una serie di concessioni territoriali e finanziarie: con il trattato di Senlis del 1493 lascia le regioni dell'Artois e della Franca Contea a Massimiliano I d'Asburgo; con il trattato di Barcellona cede alla Spagna di Ferdinando d'Aragona la Cerdagna e il Rossiglione lungo il versante francese dei Pirenei, mentre a Enrico VII Tudor promette ingenti elargizioni finanziarie in cambio di un non-intervento inglese. Da un punto di vista militare le forze dispiegate da Carlo VIII mostrano tutta la potenza francese: ventimila uomini armati, con un corpo d'artiglieria efficiente e innovativo, destinato a rendere ancora più evidente la debolezza intrinseca degli apparati militari degli stati italiani, difesi da eserciti mercenari. Il casus belli è rappresentato dalla rivendicazione degli antichi diritti che il re di Francia, erede degli Angioini vanta sul Regno di Napoli. Le giustificazioni sono tuttavia più ambiziose: dalla conquista del Regno di Napoli, il re di Francia intende muovere a un generalizzato dominio di tutta l'Italia e, in un secondo momento, organizzare una crociata contro i turchi per la riconquista della Terra Santa. In cinque mesi, dal settembre 1494 al febbraio 1495, Carlo VIII attraversa l'Italia lungo l'antica via Francigena, senza incontrare resistenze, e raggiunge il Regno di Napoli. La sua rapida avanzata si ripercuote sulla fragile politica italiana del tempo: a Milano Ludovico il Moro eredita il Ducato dal nipote Gian Galeazzo, vincendo le pretese dinastiche avanzate dagli aragonesi; a Firenze i Medici sono effettivamente cacciati dalla città, dove viene proclamata la Repubblica; a Napoli il ceto baronale, per tradizione filofrancese e ostile alla monarchia, accoglie trionfalmente il sovrano, mentre Venezia si impadronisce di alcuni porti pugliesi. Ma il trionfo stesso di Carlo VIII spaventa le diverse forze che ne hanno favorito la discesa: lo Stato pontificio, Milano e Venezia si coalizzano, formando una lega antifrancese che ottiene l'appoggio dell'imperatore Massimiliano e della Spagna. Carlo VIII si vede costretto a risalire la penisola per evitare di restare isolato nell'Italia del sud. L'esercito della lega e quello del re francese si scontrano a Fornovo sul Taro, a una ventina di chilometri dalla città 51
di Parma, nel luglio del 1495. Carlo VIII, seppure non sconfitto, è costretto a riparare in Francia, dove muore il 7 luglio 1498, mentre medita una seconda spedizione italica. Le conseguenze dell'effimera impresa del sovrano francese sono però significative. Infatti viene definitivamente dimostrata la crisi politica e la debolezza militare degli stati italiani: Carlo VIII si è inserito tra le crepe della cosiddetta "politica dell'equilibrio", sfruttando a suo favore conflitti dinastici, politici ed economici, antichi e nuovi tra i diversi stati. La repentina ricomposizione rappresentata dall'organizzazione della lega antifrancese si dimostra presto illusoria: un ritorno alle condizioni politiche precedenti la discesa di Carlo VIII non è più possibile. Al contrario quell'alleanza, per il suo carattere internazionale e il diverso peso politico-militare dei contraenti, rappresenta una definitiva apertura della penisola italiana alle mire espansionistiche e fra loro conflittuali della Francia, dell'Impero e della Spagna. A dimostrazione di ciò si pensi che, poco dopo la battaglia di Fornovo, Ludovico il Moro temendo la posizione di forza acquistata dalla Serenissima sottoscrisse prima una pace separata a Vercelli (1495) con la Francia, poi ordì una nuova alleanza (simile a quella con Carlo VIII) con Massimiliano I d'Asburgo (1496) e infine una alleanza segreta coi Turchi (1499), che coi denari milanesi invasero il Friuli.
Seconda guerra d’Italia (1499-1504) A Carlo VIII succede il cugino Luigi XII che rinnova i progetti espansionistici del predecessore avanzando pretese sul Ducato di Milano come discendente dei Visconti. Ancora una volta l'impresa è preceduta da un'attenta azione diplomatica: con un accordo firmato a Blois nel 1499 il sovrano francese si assicura l'appoggio di Venezia che mira a estendere i propri domini di terraferma; agli svizzeri, le cui truppe costituiscono il nerbo dell'esercito francese, promette la Contea di Bellinzona e al papa offre l'impegno di appoggiare il figlio Cesare Borgia nel suo progetto di conquista della Romagna. 52
Milano è espugnata il 2 settembre 1499 e Ludovico il Moro ripara in Germania presso Massimiliano I d'Asburgo (marito di Bianca Maria Sforza, nipote del Moro). Insieme alle forze asburgiche, Ludovico riesce a riprendere Milano per un breve periodo, ma nel 1500 viene fatto prigioniero e trasferito in Francia, dove muore nel 1508. Per ciò che concerne il fronte meridionale della penisola, dopo il fallimento militare dell'impresa di Carlo VIII, il nuovo re di Francia il 2 novembre 1500 stipula a Granada un trattato di spartizione dell'Italia del sud con Ferdinando il Cattolico. Il re di Spagna mira a eliminare la dinastia cadetta aragonese di Napoli e a riunire al possesso della Sicilia quello della Calabria e della Puglia, mentre ai francesi vengono riservate Campania e Abruzzo. Napoli è occupata dai francesi nel 1501, ma al momento della divisione nasce un conflitto tra i due occupanti e alla fine gli spagnoli, guidati da Consalvo di Cordova, hanno la meglio. Con il trattato di Lione del 1504 la Francia è costretta a rinunciare al Regno di Napoli che, a partire da allora, rimarrà per due secoli sotto la sfera di influenza spagnola.
Terza guerra d’Italia o Guerra della Lega di Cambrai (1508-1516) Con la sconfitta di Luigi XII le mire espansionistiche francesi in territorio italiano subiscono una battuta d'arresto. In questi anni di guerra tra la decadenza e i rivolgimenti dei vari stati regionali, solo la Repubblica di Venezia con accorte alleanze riesce a rafforzare i propri domini territoriali interni e marini. Ma la potenza di Venezia in questi anni si fonda più sulla debolezza e la rovina altrui che non sulla propria forza. Dal crollo aragonese, infatti, ricava alcuni porti della Puglia che permettono alla Serenissima di controllare e chiudere il mare Adriatico; dalla sconfitta sforzesca estende il suo dominio nell'entroterra lombardo (Cremona) e dalla rovina di Cesare Borgia, figlio 53
di Alessandro VI che tra il 1499 e il 1501 costituisce e organizza un proprio ducato in Romagna - le città di Cervia, Rimini e Faenza. All'interno del desolante panorama offerto dai differenti stati regionali italiani, Venezia rappresenta quindi un'anomalia: è l'unico Stato forte, indipendente, solido nelle antichissime strutture istituzionali, e addirittura in grado di resistere e reagire all'invadenza delle potenze straniere. Persino in un conflitto con l'imperatore, riesce a sconfiggerlo ottenendo Fiume e Trieste.Il sovrano asburgico accetta quindi di far parte di una lega, insieme a Luigi XII e alla Spagna, la lega di Cambrai, promossa dal nuovo papa Giulio II (eletto nel 1503). Tale lega, dopo gli ultimi successi della repubblica lagunare, ha una funzione eminentemente antiveneziana. La Spagna può rivendicare la Puglia, mentre la Francia la città di Cremona e il papa le terre romagnole, attenuando l'espansionismo difensivo veneziano. La lega di Cambrai dichiara guerra alla Repubblica di Venezia e la sconfigge duramente ad Agnadello il 14 maggio 1509: Venezia rinuncia a tutte le conquiste territoriali successive al 1494, ma attraverso una serie di abili accordi separati con la Spagna, la Francia e lo Stato pontificio riesce a conservare la propria integrità politica e a riconquistare gran parte dei suoi domini in terraferma. Con la sconfitta di Venezia, papa Giulio II assurge a nuovo protagonista della politica europea che si dispiega in territorio italiano. Uomo che, per indole e progetti politici, è più adatto a fare la parte del sovrano militare che quella del capo spirituale della cristianità, Giulio II si rende conto che l'iniziativa della lega di Cambrai ha rotto l'equilibrio italiano in modo eccessivamente favorevole alla causa francese e si fa promotore di una lega Santa. Per attenuare il crescente potere di Giulio II, Luigi XII di Francia promuove allora uno scisma, convocando a Pisa un concilio con l'obiettivo di deporre il papa. Alla Lega Santa aderiscono l'Inghilterra, Venezia, gli svizzeri e la Spagna. Gli eserciti si scontrano a nella battaglia di Ravenna nell'aprile 1512; l'esito della battaglia è favorevole ai francesi, ma la morte del valoroso generale Gastone di Foix non consente loro di approfittare del successo. La Francia, infatti, è costretta a rinunciare a Milano; il Ducato viene occupato dagli svizzeri che attribuiscono il governo a Massimiliano Sforza, figlio di Ludovico il Moro. Anche Firenze, nel 1513, è occupata dalle truppe spagnole che ristabiliscono i Medici al potere. Con questi avvenimenti papa Giulio II riesce ad ampliare i domini ecclesiastici, 54
annettendo Parma, Piacenza, Modena e Reggio, e riesce a escludere i francesi dalla penisola. Ma nel 1513, con la morte del papa, il suo disegno viene interrotto. Il successore di Giulio II è Giovanni de' Medici, eletto al soglio pontificio con il nome di Leone X: dall'indole e dai programmi meno bellicosi del precedente pontefice, conduce una politica di conciliazione tra i vari stati regionali con l'effimero obiettivo di ristabilire un ordine e un equilibrio tra i vari stati del territorio italiano. Ma tale programma non tarda a mostrare la sua debolezza, perchÊ prescinde da un'obiettiva valutazione del contesto internazionale.
55
La donna nel rinascimento (Lucrezia Cernusco) Nel XVI secolo un gruppo di scrittrici e di poetesse crearono un primo rapporto con la letteratura, producendo anche opere letterarie. La letteratura precedente era esclusivamente maschile ed era dedita a ricordare il ruolo della donna nella società. A seguito di questi scritti tra il 1400 e il 1600 cambia il rapporta tra i due sessi. La donna in questo periodo, ha nella bellezza una qualità imprescindibile, il suo compito è il saper governare le facoltà del marito, la casa e i figli; in più deve saper vivere secondo le regole della vita cortigiana: in particolare, deve intrattenere ogni sorte d’omo con ragionamenti grati e onesti: quindi lei deve essere a conoscenza di molti gli argomenti, ma deve essere modesta e onesta. Una donna nata nella nobiltà, tra il 1350 e il 1550 era di solito ben educata. Sapeva diverse lingue tra cui il francese e il latino, sapeva suonare il pianoforte e si intendeva di musica in generale, religiosa, ricamatrice e fine artista. Doveva essere in grado di cavalcare, usare l’arco, di essere una buona tennista (non tennis dei giorni nostri) e ballerina. Doveva dimostrarsi modesta e talentuosa. Ci si aspettava da queste giovani donne che si sposassero presto e bene (matrimoni tra famiglie benestanti), che fossero fedeli al marito e rispettose del ruolo di capofamiglia del coniuge. Doveva produrre più eredi possibili, e ci si aspettava che fosse virtuosa e donna con una grande spiritualità. Se sopravviveva a tutti questi parti, e arrivava a raggiungere l’indipendenza economica come vedova, se non la si spingeva a risposarsi, poteva approfondire le sue conoscenze e non avere bisogno di un nuovo compagno. Il nuovo ambiente sociale e culturale seguente ai cambiamenti storici del 56
‘500 porta a novità nella letteratura riguardante la donna. La maggiore comprensione, in quanto parte attiva, della crisi politica ed economica che si era formata in Italia scuote il ceto intellettuale e segna la fine del sogno rinascimentale. Con lo scisma religioso e le sue conseguenze in termini di fatti e avvenimenti, l’ambiente familiare cresce d’importanza: la solidità matrimonio è uno strumento per preservare l’integrità economica della famiglia. La ricca produzione di trattati sull’universo femminile del secondo ‘500 segna il passaggio dall’ideale di donna cortense a quello di moglie e madre, concepiti come ruoli ben segnati, con la capacità di sviluppare il potenziale disordine della natura femminile nell’ordine dell’organizzazione sociale. Uno dei temi più in voga in questo periodo è stato certamente il matrimonio; tale relazione comporta la convivenza con una realtà pericolosa e instabile come la donna. Nel periodo umanistico, la vita di coppia e l’ambiente familiare sono visti come contrastanti all’impegno civile e culturale dell’uomo nella società. Secondo altri pensatori invece il matrimonio era una forma di garanzia dell’ordine sociale e di controllo per l’imprevedibile natura femminile. Nell’opera “consigli a una moglie giovane” Ludovico Dolce presenta la sua idea di matrimonio come mezzo per dirigere nella vita sociale la forza sviante della figura femminile per fare in modo che la sua imperfezione naturale possa disciplinarsi alla presenza dell’universo maschile. La donna deve riconoscere il marito come suo unico punto di riferimento e vivere in sua funzione, ha come dovere primario l’adattarsi ad ogni situazione e di amare sempre il consorte, non considerando come si comporta. Usuali sono in Italia i testi che delineano l’ideale della bellezza femminile. È eloquente che al nuovo ideale cinquecentesco, che presenta una donna ben in carne e formosa, corrisponda anche, nei ceti alti, la diffusione di 57
nuove abitudini alimentari ricche di grassi e zuccheri; come si può scoprire dai libri di cucina e pasticceria ritrovati dagli studiosi. Per l’uomo del XVI secolo la carnagione bianca e le forme opulente del corpo evocano un pensiero di sanità fisica, di bellezza e di appartenenza all’elitè sociale, mentre la gracilità e l’abbronzatura sono associate alle donne del popolo. Aspetto degno di attenzione e particolarmente rilevante del XVI secolo è la presenza di un gruppo femminile alla vita culturale; la donna modifica il suo ruolo, oggetto di scrittura maschile, in soggetto nei discorsi al femminile dove si manifesta una visione autonoma del mondo, dell’amore, del matrimonio e del rapporto con l’altro sesso. Affiorarono figure di donne colte come Alessandra Scala e Cassandra Fedele ambedue ammirate dal Poliziano; queste donne spinsero anche la formazione di una scuola poetica al femminile. Ogni poetessa aveva caratteristiche specifiche ma tutte i loro testi erano influenzati dal genere lirico e dai testi di Petrarca. Tra le poetesse più famose dell’epoca spiccano i nomi di Vittoria Colonna, Veronica Gambara, Tullia d’Aragona, Veronica Franco e Isabella di Morra. Il loro humus culturale è rappresentato dalla corte, nella quale sono non solo partecipi in qualità di nobili dame, ma anche di cantanti e musiciste di grado sociale più modesto. Nella seconda metà del ‘500 invece si può notare la testimonianza di uno spostamento dell’interesse femminile verso altri generi letterari come il poemetto, la favola pastorale, l’epistolario, la scrittura mistico-religiosa e anche trattatistica, zona di esclusiva competenza maschile. “Il merito delle donne” di Moderata Fonte e “La nobiltà e eccellenza delle donne” di Lucrezia Borgia sono stati scritti proprio per dare risposta alla pubblicazione, sul finire del secolo, di alcuni poeti contrari che mettono in discussione il sesso femminile. Ne “Il merito delle donne” l’autrice vuole parlare dei meriti del sesso femminile, il che porta il discorso all’esame comportamenti reali, non ideali o metafisici, del soggetto: invece di celebrare la figura femminile o istruirla, Moderata Fonte preferisce 58
partire dal modello di comportamento già presente nella società ponendo in risalto le contraddizioni caratteristiche, al fine di dimostrare quanto di falso ci sia nella realtà dei rapporti fra i sessi. Tra i personaggi femminili di maggiore rilevanza del periodo possiamo ricordare: Lucrezia Borgia, Caterina de' Medici, Anna Maria Luisa de' Medici e Bianca Maria Sforza. Questo sviluppo della donna durante il XVI secolo è stato fondamentale per una presa di coscienza dello stato di inferiorità delle donne e soprattutto per la formazione di poetesse e scrittrici grazie alle quali si è potuto finalmente mostrare come la donna vedeva se stessa in rapporto all’immagine maschile.
59
Il Concilio di Trento (Mario Ciccarelli) Il Concilio di Trento o Concilio Tridentino fu il XIX concilio ecumenico, ovvero una riunione di tutti i vescovi cattolici del mondo, per discutere di argomenti riguardanti la vita della Chiesa cattolica.Il concilio di Trento, che in teoria avrebbe dovuto "conciliare" cattolici e protestanti, durò ben 19 anni, dal 1545 al 1563, sotto il pontificato di tre papi. Questa solenne adunanza si risolse in una serie di rigide affermazioni tese a sconfessare tutto ciò che Lutero sosteneva. Con questo concilio venne definita la riforma della Chiesa cattolica (Controriforma) e la reazione alle dottrine del calvinismo e del luteranesimo (Riforma protestante).Fu un concilio importante per la storia della Chiesa cattolica. Il primo ad appellarsi ad un concilio che dirimesse il suo contrasto con il Papa fu Martin Lutero, già nel 1517: la sua richiesta incontrò subito il sostegno di numerosi tedeschi, soprattutto di Carlo V, che in esso vedeva un formidabile strumento non solo per la riforma della Chiesa, ma anche per accrescere il potere imperiale. Tra i primi fautori bisogna ricordare anche il vescovo di Trento Bernardo Clesio e il cardinale agostiniano Egidio da Viterbo. A tale idea si oppose invece fermamente papa Clemente VII che, oltre a perseguire una politica filo-francese e ostile a Carlo V, da un lato vi vedeva i rischi di una ripresa delle dottrine conciliariste, dall'altro temeva di poter essere deposto. L'idea di un Concilio riprese quota sotto il pontificato del successore di Clemente VII, papa Paolo III. Egli in primo luogo allargò il collegio cardinalizio, con l'inserimento di figure che, in modo diverso, erano favorevoli ad una riforma; nel 1536 60
convocò quindi prima a Mantova e poi a Vicenza un'assemblea di tutti i vescovi, abati e di numerosi principi dell'Impero, ma senza ottenere alcun effetto. Vi erano inoltre differenze di vedute riguardo alle motivazioni e agli scopi del concilio: se Carlo V auspicava la ricomposizione dello scisma protestante, per il papato l'obiettivo era un chiarimento in materia di dogmi e di dottrina, mentre per i riformati era l'attacco dell'autorità del papa stesso. Il fallimento dei colloqui di Ratisbona (1541) segnò un ulteriore passo per la rottura con i protestanti e la convocazione di un concilio fu giudicata improrogabile, per cui con la bolla Initio nostri del 22 maggio 1542, Paolo III indisse il concilio per il 1º ottobre dello stesso anno a Trento, sede poi confermata nella bolla Etsi cunctis del 6 luglio 1543, con cui si prorogava l'inizio del Concilio a dopo la cessazione delle ostilità ancora in atto. Trento era stata scelta poiché, pur essendo una città italiana, era entro i confini dell'Impero ed era retta da un principe-vescovo; fu con la pace di Crepy che Paolo III poté finalmente emanare la bolla di convocazione, la Laetare Jerusalem (novembre 1544) e il Concilio si aprì solennemente a Trento il 13 dicembre 1545, III domenica di Avvento, nella cattedrale di San Vigilio, a fare gli onori di casa il principe-vescovo Cristoforo Madruzzo. La prima fase del Concilio Il primo periodo del concilio si svolse in 8 sessioni solenni a Trento (dal 1542 al 1547) e in altre due a Bologna (dal 1547 al 1549), dove si decise di trasferire il concilio per il timore della peste e per sottrarsi alle ingerenze imperiali. Il Concilio contò inizialmente pochi prelati, quasi tutti italiani, e fu quasi sempre controllato dai delegati pontifici. Furono 61
presenti anche alcuni prelati legati al cosiddetto evangelismo, come il cardinale Reginald Pole. Nelle prime sessioni vennero approvati i regolamenti e l'ordine di discussione degli argomenti; venne inoltre deciso, in seguito ad un compromesso fra le istanze imperiali e quelle papali, di affiancare decreti di natura dogmatica a quelli riguardanti questioni disciplinari. Venne inoltre riaffermato il simbolo niceno-costantinopolitano. Nella IV sessione vennero fissati i canoni della Sacra Scrittura e si ribadì la loro ispirazione; viene poi accettata come ufficiale la versione della Bibbia detta Vulgata e si respinse la dottrina del libero esame delle Scritture, ribadendo che la loro interpretazione spettava alla Chiesa. Nella V sessione venne trattata la dottrina sul peccato originale, che portò al decreto del 17-6-1546. Nella VI sessione fu trattata la giustificazione, da cui il decreto del 13-1-1547. Si afferma che il battesimo lava da tale peccato ma nel battezzato rimane una concupiscenza, fomite (causa, tentazione) del peccato. Nonostante il permanere della concupiscenza, si ripropone la tesi tomista dello "stato di grazia" inteso come una qualità che, quando ricevuta, diviene propria dell'uomo, e non quindi una sorte conferita sempre da Dio ma 'aliena' ad esso; anche se si abbandonano le categorie della Scolastica medievale nell'esporre questo concetto. La persona che riceve la grazia quindi cambia realmente, sia in sé sia in un nuovo comportamento, con atti meritori che a loro volta confermano ed incrementano la grazia. Gli atti sono una conseguenza della grazia, ma sono necessari. La cooperazione dell'uomo è comunque necessaria anche prima dello stato di grazia; il documento elenca la sequenza degli atti che portano un adulto alla giustificazione: dal volgere l'attenzione alle verità di fede, a dare loro un 62
assenso interiore, riconoscere di conseguenza il proprio peccato e detestarlo, amare Dio con tutto il cuore. Tutti atti compiuti per volontà umana, che si differenziano dall'esercizio delle virtù teologali (fede, speranza, carità) possibili solo dopo il battesimo e tramite l'infusione dello Spirito Santo. Sono dunque condannate le tesi luterane sulla giustificazione: sia per quanto riguarda ciò che è necessario a conseguirla (Lutero affermava che bastava la sola fede, e le opere non avevano alcun valore) sia per quanto riguarda le conseguenze sul giustificato (secondo Lutero non vi era alcun cambiamento nella persona, che rimaneva nei suoi peccati: l'unica differenza è che Dio non glieli imputa più, e lo fa con un atto puramente unilaterale).Venne inoltre condannata la teoria calvinista della predestinazione degli Eletti e venne evidenziato il ruolo della libertà umana nella propria salvezza. Non venne trattata in modo esteso la questione dell'Immacolata concezione: il concilio si limitò a dire che le affermazioni sul peccato originale espresse negli stessi documenti non riguardavano la «beata ed immacolata vergine Maria» e che venivano soltanto riprese le indicazioni di Sisto IV in merito alla questione, secondo le quali non era possibile indicare come eretica né l'affermazione contraria né quella favorevole dell'Immacolata concezione di Maria, in quanto la Chiesa non aveva ancora espresso un parere definitivo. Si stabilirono alcuni decreti di riforma, tra i quali il divieto di predicazione ai questuanti, il dovere di residenza come condizione per la rendita dei benefici ecclesiastici e l'obbligo di residenza dei vescovi nelle loro diocesi. Avveniva infatti che i benefici ecclesiastici e i vescovati venissero assegnati generalmente ai nobili, senza che corrispondesse effettivamente l'obbligo di residenza e lo svolgimento dell'incarico. Nella VII sessione venne infine ribadita la dottrina generale dei sette sacramenti, ritenuti istituiti da Gesù Cristo e efficaci 63
indipendentemente dalla loro esecuzione (ex opere operato). Vennero quindi esaminati nel dettaglio i sacramenti del battesimo e della confermazione. Di rilievo la figura del vescovo Luigi Bardone, teologo pavese, che presentò i nuovi dogmi a Carlo V. I lavori vennero quindi interrotti per via dei contrasti tra Paolo III e l'imperatore Carlo V.
La seconda fase del Concilio La morte di Paolo III e l'elezione, dopo tre mesi di conclave, di Giulio III a papa portarono nel maggio 1551 ad una riapertura del concilio che vide una maggioranza di vescovi imperiali, l'astensione della Francia e la presenza di 13 inviati protestanti. Fallì tuttavia la trattativa con questi ultimi, a causa delle loro richieste di scioglimento del giuramento di fedeltà al papa e di ridiscussione dei decreti già approvati: non fu pertanto possibile risolvere il problema dell'accordo con la religione riformata, la quale nel frattempo era stata tollerata nell'impero con l'Interim di Augusta. Vennero quindi riprese le discussioni sui sacramenti: nella XIII sessione venne ribadita la presenza reale di Cristo nell'eucarestia, la sua istituzione nell'Ultima cena e la dottrina della transustanziazione; si affermò quindi l'importanza del sacramento e vennero confermate le pratiche di culto e di adorazione ad esso collegate (come l'adorazione eucaristica e la festa del Corpus Domini). Nelle sessioni successive si riaffermò poi l'importanza dei sacramenti della penitenza (o confessione) e dell'unzione degli infermi, rifiutati da Lutero ma considerati dalla Chiesa cattolica istituiti direttamente da Cristo. Nell'aprile del 1552 il concilio venne di nuovo sospeso a causa delle guerre che vedevano coinvolte le truppe imperiali e i principi protestanti.
64
La fase conclusiva del Concilio Alla morte di Giulio III nel 1555 si susseguirono i pontefici Marcello II (al soglio pontificio per solo 23 giorni) e Paolo IV il quale, riponendo poca fiducia nell'assise conciliare, tentò di effettuare una riforma con altri metodi, potenziando il Sant'Uffizio e pubblicando nel 1559 l'Indice dei libri proibiti, un elenco di testi la cui lettura veniva proibita ai fedeli per via di contenuti eretici o moralmente sconsigliabili. Nel 1559 divenne quindi papa Pio IV, il quale con l'aiuto del nipote cardinale Carlo Borromeo, futuro arcivescovo di Milano, riaprì, nel 1562, i lavori conciliari. Venne affrontata la questione del sacrificio della Messa, considerato memoriale e "ripresentazione" in maniera reale dell'unico sacrificio di Gesù sulla croce, sacerdote e vittima perfetta, condannando con ciò le idee luterane e calviniste della Messa come semplice "ricordo" dell'ultima cena e del sacrificio di Cristo. Nella XXIII sessione si riaffermò il valore del sacramento dell'ordine, considerato istituito da Gesù, e la legittimità della struttura gerarchica della Chiesa, costituita in primo luogo dal pontefice romano, successore di Pietro, e dai vescovi, successori degli apostoli. Vennero quindi approvati i decreti di riforma sulla presenza di seminari in ogni diocesi e sull'ammissione dei candidati al sacerdozio. La XXIV sessione si soffermò invece sul sacramento del matrimonio, considerato indissolubile secondo l'insegnamento di Cristo, e stabilì le norme per un eventuale suo annullamento; venne poi confermata e resa vincolante l'usanza del celibato ecclesiastico. Si decise inoltre che ogni parroco dovesse tenere un registro dei battesimi, delle cresime, dei matrimoni e delle sepolture. Ai vescovi fu imposto di compiere la visita pastorale ogni anno, completandola ogni due anni. Nella XXV e ultima sessione venne infine riaffermata la dottrina cattolica sul Purgatorio e sul culto dei santi, delle reliquie e delle immagini sacre; venne approvata quindi la pratica delle indulgenze. Vennero infine affidate al pontefice e alla curia romana alcune 65
questioni rimaste in sospeso per la mancanza di tempo: la revisione del breviario e del messale, del catechismo e dell'Indice dei libri proibiti. Con la bolla Benedictus Deus, emanata il 30 giugno 1564, Pio IV approvò tutti i decreti conciliari e incaricò una commissione di vigilare sulla corretta interpretazione e attuazione degli stessi.
L'opera del Concilio Il concilio non riuscì nel compito di ricomporre lo scisma protestante e di ripristinare l'unità della Chiesa, ma fornì una risposta dottrinale in ambito cattolico alle questioni sollevate da Lutero e dai riformatori. Venne fornita una dottrina organica e completa sui sacramenti e si specificò l'importanza della cooperazione umana e del libero arbitrio nel disegno di salvezza.Rimasero insolute alcune importanti questioni nel campo della fede: non si trattò ad esempio in modo esaustivo il problema, sollevato dai protestanti, della natura e del ruolo del papato e del suo rapporto con l'episcopato (il quale sarà trattato dal Concilio Vaticano I); rimase anche in sospeso la questione del rapporto e della convivenza nella Chiesa tra aspetto istituzionale e misterico (per il quale bisognerà aspettare l'ecclesiologia del Concilio Vaticano II). Sul piano istituzionale, rimasero insolute inoltre le questioni dei privilegi e dei diritti attribuiti a sovrani e principi cattolici nell'intervenire nelle questioni interne alla Chiesa. Dal punto di vista disciplinare, vennero affrontati problemi come la preminenza della cura pastorale (cura animarum, cura delle anime) nell'operato del vescovo o la riforma della vita religiosa. Fu dato grande impulso alle diocesi imponendo ai vescovi la presenza nelle loro sedi, la celebrazione dei sinodi e le visite pastorali e prevedendo in ogni diocesi l'istituzione di un seminario.
66
Controriforma Il nuovo attivismo che derivò nei confronti del protestantesimo viene indicato in ambito storiografico col termine di Controriforma o, più raramente, Riforma cattolica. Furono in particolare i pontefici successivi al concilio ad attuare e portare a compimento il processo di riorganizzazione della Chiesa. Il primo di essi è Pio V, papa dal 1566, il quale promulgò il Catechismo Romano (pensato come strumento per i parroci e i predicatori); a lui si deve anche la revisione del breviario e del messale, con la conseguente uniformità liturgica della chiesa occidentale e l'adozione universale del rito romano nella sua forma tridentina (adottata con poche variazioni fino al Concilio Vaticano II e oggi celebrata come forma extraordinaria del rito romano); vennero aboliti molti riti locali e particolari, con l'eccezione del rito ambrosiano per l'arcidiocesi di Milano e di pochi altri riti. Nel 1571 Pio V istituì inoltre la Congregazione dell'Indice, con il compito di mantenere aggiornato l'Indice dei libri proibiti e la facoltà di effettuare speciali dispense. Papa Gregorio XIII, eletto nel 1572, diede notevole impulso al processo di accentramento di potere nelle mani del papato, sviluppando la nunziatura (una sorta di "ambasceria" dipendente direttamente dal papa e non dalla Chiesa locale) e promuovendo l'erezione in Roma di seminari e collegi per stranieri. Il successore, Sisto V, stabilì inoltre che i vescovi delle Chiese locali dovessero periodicamente effettuare le cosiddette visite ad limina, ovvero delle visite obbligatorie a Roma con relazione scritta sulla situazione delle proprie diocesi; riorganizzò inoltre la curia romana, istituendo 15 congregazioni al servizio del papa. Grande attuatore della riforma cattolica fu Carlo Borromeo, figura dominante del terzo periodo conciliare, arcivescovo di Milano dal 1565 e principale curatore del catechismo tridentino. Dedicò la sua attività di vescovo prevalentemente alla pastorale, distanziandosi dalla visione medievale del vescovo come uomo di potere; fondò il primo seminario a Milano e si impegnò nelle visite pastorali e nella stesura di norme importanti per il rinnovamento dei 67
costumi ecclesiastici. Dalla fine del Cinquecento questo processo riformatore trova tuttavia un rallentamento e assume una direzione conservatrice: molti decreti sono disattesi e nella vita ecclesiale si arriva ad un prevalere degli aspetti giuridico-istituzionali rispetto a quelli sociali e al ruolo dei laici.
Rinascimento (Giovanni Castaldo) 68
Con tale nome, usato per la prima volta dal Vasari nelle sue “Vite” (1550), si intende il periodo storico compreso tra la fine del „300 e la seconda metà del „500, caratterizzato dal rifiorire (rinascere) della vita culturale ed artistica. E’ un fenomeno che coinvolge tutta l’Europa e che rende possibile l’affermazione dell’uomo e delle sue libere possibilità di pensiero attraverso la riscoperta degli studi classici. Consapevole delle proprie capacità, lo studioso del Rinascimento sottolineò l’importanza dell’applicazione pratica delle proprie teorie e non pose limiti alle sue conoscenze: Leonardo da Vinci si cimentò nell’arte, nell’ingegneria, nello studio dell’anatomia; Michelangelo fu insieme scultore e architetto. L’Italia del R. fu la sede di una straordinaria fioritura artistica: architetti come Brunelleschi, Bramante e lo stesso Michelangelo rinnovarono il volto delle città, mentre pittori quali Leonardo, Tiziano e Raffaello diventarono un mito per tutta l’Europa. In campo letterario l’opera più rappresentativa fu l’ “Orlando furioso” di Ludovico Ariosto; Torquato Tasso dedicò il suo poema, “La Gerusalemme liberata”, alla prima crociata. “Il principe” di Niccolò Machiavelli inaugurò la politica moderna; l’interesse per l’uomo e la natura determinarono lo sviluppo della ricerca scientifica, per cui venne adottato il metodo dell’osservazione diretta dei fenomeni naturali e nello studio del corpo.
Curiosità 69
Il disco cifrante IL DISCO CIFRANTE Una delle scienze più antiche e più utilizzate dall’uomo è la crittografia, cioè la scrittura segreta; la crittografia moderna vive ancora sui principi elaborati tra il XV e il XVII secolo, anche se i rudimentali marchingegni rotanti sono stati sostituiti da strumenti elettronici. Esistono tre tipi fondamentali di tecniche di scrittura: le scritture invisibili, le scritture convenzionali e le scritture cifrate. Le prime si ottengono compilando i messaggi in partenza con inchiostri, detti simpatici, non appariscenti ad un esame superficiale. Le seconde consistono nell’impiego di linguaggi che hanno apparentemente un senso discorsivo, ma che contengono alcune parole chiave prestabilite. Infine abbiamo le scritture cifrate, che possono seguire due diversi meccanismi: la trasposizione (gli elementi del testo chiaro vengono cambiati di posto secondo regole stabilite) e la sostituzione. Un esempio illustre di scrittura cifrata ci è dato dal disco di Leon Battista Alberti, una delle maggiori figure del Rinascimento. Nel suo “Trattato della cifra” ha proposto un disco composto di due cerchi cifranti concentrici: uno esterno fisso con 24 caselle contenenti 20 lettere latine maiuscole ed i numeri 1,2,3,4 per il testo chiaro; ed uno interno mobile, con le 24 lettere latine minuscole per il testo cifrato. Le maiuscole sono in ordine alfabetico, le minuscole in disordine. Fissata la corrispondenza tra una lettera maiuscola e una minuscola, si possono cifrare le parole; quando si decide di cambiare la lista cifrante si scrive la nuova lettera chiave in maiuscolo. Per una maggiore segretezza l’Alberti consiglia di usare uno dei quattro numeri per segnalare il cambio di alfabeto, così da evitare la presenza di lettere maiuscole.
I GIOCHI LETTERARI 70
In pochi momenti il rapporto fra poesia e musica è stato più stretto che nel Rinascimento e in pochi ambienti lo scambio fra poeti e compositori è stato più immediato che nella Mantova di Isabella Gonzaga, promotrice di un’intensa attività culturale. Negli ambienti di corte si sviluppò il genere frottolistico, nel quale si fondevano la riscoperta dell’antichità classica, l’interesse per la declamazione, il gusto per la parodia popolareggiante. Questi elementi trovano realizzazione nelle composizioni frottolistiche di Bartolomeo Tromboncino, per lunghi anni al servizio di Isabella. Particolari sono le sue frottole su testo latino, nate dal vivo interesse degli umanisti di corte per la poesia classica latina; la caratteristica più importante di queste poesie, determinante nel suo rapporto con la musica, è il fatto che il verso si basa sulla metrica quantitativa e non sull’accento della parola. Tromboncino riesce ad ottenere nelle sue composizioni un procedere musicale fluido e scorrevole che, se non concede molto all’accentuazione delle parole, permette comunque una grande musicalità della frase senza oscurare la scansione del verso.
Stregoneria La parola strega deriva dal latino “stryx”= barbagianni; i Latini infatti credevano che alcune donne avessero il potere di trasformarsi in uccelli notturni, come gufi o barbagianni. I Francesi usano il termine sorciere, dal latino “sortilegus”= sortilega, cioè persona capace di tirare le sorti, di prevedere il futuro. Dal sassone “wicca” o “wicce”= saggio, derivano le parole inglesi wizard e witch. La maggior parte delle persone accusate di stregoneria era di sesso femminile. L’idea che le donne fossero più facilmente soggette a cedere alla tentazione del Maligno deriva dalla profonda misoginia insita nella cultura medioevale, che si riflette in opere come il Malleus Maleficarum, nel quale si sottolinea come la stessa parola 71
femmina derivi dal latino “fe-minus”= che ha minor fede, quindi più soggetta alle tentazioni. Erano particolarmente esposte all’accusa di stregoneria le levatrici, le bambinaie, le cuoche e le guaritrici, donne che in genere potevano avere conoscenze particolari ad esempio nell’uso di erbe per la preparazione di unguenti e rimedi, conoscenze che facilmente potevano essere trasferite in un contesto di magia nera. Levatrici e bambinaie subivano l’accusa perché professionalmente a contatto con i bambini in un’epoca di altissima mortalità infantile e neonatale; poiché le streghe venivano considerate avide di bambini non battezzati da sacrificare al diavolo durante il sabba, il rischio di accusa era alto. Dai documenti relativi ai processi per stregoneria risulta che spesso le accusate erano vedove o non coniugate, quindi in posizione sociale ed economica debole all’interno del villaggio; non mancano i casi di figlie giovanissime coinvolte con le madri nell’accusa di stregoneria. In genere le persecuzioni si verificavano nei centri rurali, dove erano più radicate superstizioni e diverso era il tessuto sociale ed economico. Come l’hanno tramandata le raffigurazioni tradizionali, la strega è brutta, vecchia e povera, cioè dotata di qualità negative, non essendo possibile, secondo l’opinione dei teologi, che da Satana provengano ai suoi seguaci doni di perfezione. Non sono però mancate le streghe avvenenti; in questo caso le qualità positive venivano considerate illusioni diaboliche e quindi si trovava sempre una giustificazione alle accuse. è facile capire che essere anche solo sospettate di stregoneria significava ricevere un marchio difficilmente cancellabile, soprattutto se si viveva in un ambiente chiuso come un villaggio contadino; l’accusa di stregoneria significava morte certa. I tribunali che giudicavano i reati di stregoneria erano quelli laici, 72
quelli ecclesiastici diocesani (cioè presieduti dal vescovo), e quelli inquisitoriali, fondati per occuparsi specificamente dei casi di eresia; i reati di stregoneria erano di competenza di questi ultimi solo nel caso che alla stregoneria si unisse l’eresia, cioè l’ostinazione nel professare coscientemente un’opinione contraria a quanto stabilito dalla Chiesa in materia di fede e buoni costumi. L’istruzione di un processo per stregoneria iniziava in genere in seguito a voci o specifiche denunce, spesso sollecitate dalle autorità con appositi bandi. Una volta arrestata l’imputata, si procedeva alla perquisizione della sua casa, che portava sempre al rinvenimento di oggetti sospetti. Nelle prime fasi degli interrogatori le domande vertono soprattutto sulle origini dell’imputata e sulla sua famiglia; dal momento che la stregoneria era ritenuta ereditaria, avere avuto dei parenti bruciati sul rogo era un forte indizio di colpevolezza. Se dopo i primi interrogatori l’imputata confessava, il resto del processo era volto a farle confessare il nome di eventuali complici; se invece continuava a negare, veniva sottoposta a tortura fino alla confessione, necessaria per infliggere la pena di morte. E’ quindi evidente che il verdetto era scontato fin dall’inizio. L’Italia fu il paese in cui si bruciarono meno streghe; vere persecuzioni furono però attuate in Valtellina e in altre sperdute zone di montagna. Il fatto non deve stupire: la vita in zone così lontane dai centri abitati era difficile, i mezzi di sostentamento erano pochi, le risorse naturali non adeguatamente sfruttate e bastava qualche pesante capriccio della natura per mandare all’aria i magri raccolti; se a ciò aggiungiamo l’ignoranza della gente, si capisce come facilmente si cercasse un capro espiatorio. Una caratteristica comune a tutte le donne accusate di stregoneria era l’abilità nell’utilizzare le erbe per preparare unguenti, sciroppi, decotti, a cui spesso gli abitanti del villaggio ricorrevano per curare le varie infermità, salvo poi incolpare la donna dell’ eventuale morte del malato. Secondo le credenze popolari, le erbe potevano essere usate per preparare filtri d’amore, unguenti che permettevano di volare o 73
rendevano invisibili…La scienza moderna ha dimostrato gli effetti prodotti nel corpo umano dall’ingestione di determinate sostanze; oggi sappiamo bene ad esempio che alcuni funghi hanno effetti fortemente allucinogeni e che numerose sostanze provocano effetti tali da non doversi meravigliare se chi li ingeriva giurasse di saper volare o di vedere o fare cose straordinarie. La malva veniva usata contro le rivali e per rendere invincibili; serviva a preparare filtri che toglievano il desiderio sessuale ( in effetti la malva è usata come calmante). La verbena era un antidolorifico e le streghe se ne servivano per resistere alle torture. La rosa di Natale (o elleboro) era usata per gli incantesimi potenti e rendeva le streghe invisibili. La pervinca serviva per gli incantesimi d’amore; non a caso il suo nome deriva dal latino “vincire”=legare, ad indicare la capacità di legare a sé la persona amata. La mandragora (o mandragola) serviva alle streghe per diventare invisibili e ingannare i sensi delle altre persone; bastava bere il succo della radice per riuscire ad entrare indisturbate nelle case e rapire i neonati. La sua incredibile fama deriva dalla singolare forma delle sue radici, che assumono le sembianze di un corpo umano, dalle sostanze narcotiche e velenose che contiene e infine dal suo odore nauseabondo, che provoca malessere, vertigini e allucinazioni. Lo stramonio, o erba del diavolo, possiede dei fiori che si aprono di notte ed emanano un pessimo odore; era il cibo principale delle streghe sulla mensa del sabba. I suoi poteri allucinogeni erano noti dall’antichità; la sua assunzione eccessiva può provocare anche un avvelenamento mortale, preceduto da sete inestinguibile e dilatazione delle pupille. Insieme a mandragora e belladonna era usato dalle streghe nella preparazione degli unguenti che permettevano loro i voli notturni. Tra tutte le erbe magiche, una pianta fondamentale era il giusquiamo, che contiene vari alcaloidi che provocano allucinazioni, delirio, alterazione del battito cardiaco, convulsioni e 74
persino la morte. La scopolamina contenuta nei fiori ha un forte potere ipnotico e può provocare anche la perdita del controllo della mente, per cui può essere usata come siero della verità. Si credeva che le streghe usassero il giusquiamo in piccolissime dosi nelle pozioni usate per prepararsi a volare durante il sabba; probabilmente questo volo era soltanto una fantasia mentale provocata dagli stupefacenti. La pianta veniva anche usata per realizzare sortilegi, per esempio, se in una pignatta di coccio si maceravano giusquiamo, lauro e giglio insieme a latte di pecora e si metteva la mistura ottenuta in una pelle di agnello, tutte le pecore dei dintorni potevano perdere il latte. Se ne ricavavano filtri d’amore in quanto, grazie alle proprietà allucinogene, riusciva a far cadere la resistenza della donna corteggiata; si diceva anche che ponendo il giusquiamo in una tazza d’argento questa si spezzasse. Era poi usato per guarire le ulcere applicandovi impacchi di radici pestate, ma l’operazione doveva compiersi nel periodo corrispondente al segno zodiacale cui apparteneva il malato. La civetta, che ha dato il nome alle streghe, come altri animali notturni, è stato sempre associato alle streghe; sin dall’antichità si favoleggiava che fossero donne trasformate per magia in questi demoni alati, simili a civette, dotati di artigli da rapaci, che si nutrivano del sangue e dei visceri di bambini. Al mondo delle tenebre e quindi anche alle streghe è spesso associato il pipistrello, che nei bestiari medievali era già simbolo dell’idolatra e del peccatore che vive nelle tenebre e con le tenebre verrà ripagato dal giudizio divino. Il gatto arrivò tardi in Europa (attorno al X secolo) e fu guardato con sospetto sia per la novità che per le sue caratteristiche: lo sguardo fosforescente, il passo felpato, gli improvvisi mutamenti d’umore lo fecero ritenere alleato di potenze occulte e confidente delle streghe o peggio, l’incarnazione del maligno; non stupisce quindi che i gatti venissero 75
utilizzati per operare sortilegi e stregonerie. Da sempre il topo è considerato repellente e apportatore di malattie; era uno degli ingredienti della strega per i suoi filtri. Altro ingrediente delle pozioni magiche è il rospo, nel quale la stessa strega a volte si trasforma, vestita con un mantello verde e ornata di un campanello, per partecipare al sabba.
GIOCHI NEL RINASCIMENTO La maggior parte degli adulti del Rinascimento aveva ben poche risorse di tempo e denaro da dedicare ad attività ricreative, era possibile divertirsi soprattutto durante le feste e le ricorrenze; tra i giochi più praticati in queste occasioni troviamo la tauromachia, che a Roma per alcuni anni si tenne in Piazza San Pietro durante il carnevale. Molto diverso era il discorso per le classi agiate e i nobili, presso i quali erano molto in voga giochi di società, nei quali a volte venivano sperperate grosse cifre. I giochi rinascimentali possono essere ricondotti a quattro tipologie: giochi d’azzardo, come dadi, morra, carte, praticati da tutti i ceti sociali; giochi di abilità, come gli scacchi o la dama; giochi ginnici, come l’equitazione o la scherma; giochi tipici delle corti, quali indovinelli, giochi di parole, dubbi amorosi.. A corte si gioca e si scommette, spesso proprio qui vengono inventati giochi che un po’ alla volta si diffondono a tutti gli strati della popolazione; ai giochi di carattere sportivo manca la dimensione della gara, l’aspetto competitivo non è importante.
PALLACORDA La pallacorda, detta anche gioco del tenes, fu introdotta in Italia dai cavalieri francesi al seguito di Carlo di 76
Calabria (1327). Tale gioco veniva praticato in un vasto ambiente dove i giocatori, separati da una corda tesa (da cui il nome), gareggiavano a respingere una piccola palla usando delle mestole di legno che in un secondo tempo divennero delle racchette con corde incrociate, simili a quelle moderne. Questo gioco è dunque l’antenato del tennis moderno, definitivamente regolamentato in Inghilterra nel XVIII secolo. BILBOQUET Le origini del bilboquet sono oscure, ma è certo che il gioco era popolare in Francia fin dal sedicesimo secolo. Forse l’origine del nome è da collegare a Bilboa, città dalla Spagna dove era praticato un gioco molto simile a questo. Secondo altri, il nome è di origine francese e deriva dalla combinazione di bille (pallina), bois (legno) e bocquet (punta di lancia). Il bilboquet è costituito da un bastoncino piatto o appena concavo ad una estremità e puntato all’altra; a metà del bastoncino è fissato un cordone che regge una palla forata. Il gioco consiste nel tenere il bastoncino in una mano e imprimergli bruschi strappi in modo che la palla ricada infilandosi sull’estremità appuntita. E’ un gioco diffuso in tutto il mondo; può essere di legno, di avorio, plastica e può consistere anche nel far entrare la pallina in una coppetta. SCACCHI Il gioco degli scacchi, di antichissima origine orientale, arrivò in occidente per mezzo degli Arabi all’epoca delle crociate e divenne presto un gioco in voga presso i nobili; verso la fine del 1200 il monaco domenicano Iacopo de Cessolis, appassionato del gioco, scrisse un trattato nel quale forniva ricchi ammaestramenti spirituali illustrati con similitudini tratte dal gioco degli scacchi. Nel libro i pezzi e i loro movimenti sono descritti come se si trattasse di persone; il Re deve essere giusto; la Regina deve essere di casti costumi; gli Alfieri devono essere buoni consiglieri; i Cavalieri devono essere saggi e fedeli; le Torri cioè i vicari del re, devono essere forti e solidi; ogni pedone è un popolano e rappresenta una categoria di 77
lavoratori. Il trattato contribuì non poco alla diffusione del gioco degli scacchi; nel Rinascimento anche gli scacchi, divertimento gentile e ingegnoso prerogativa del vero cortigiano, conobbero un periodo aureo e non ci fu corte illustre che non avesse tra i suoi protetti qualche giocatore. Appassionati illustri furono Isabella d’Este marchesa di Mantova, Galeazzo Maria Sforza e Ludovico il Moro (che giocavano spesso con poste altissime di denaro), Papa Leone X. La parola scacchi deriva da shah, il pezzo che nella variante araba dà il nome al gioco, il nostro re. Il re è una figura indispensabile tanto per la strategia che per una lettura simbolica e non sorprende che la formula “scacco matto” sia l’italianizzazione dell’arabo persiano shah mat: il re è morto. TRIC TRAC Il gioco deve il suo nome ad un’onomatopea, che evoca la caduta dei dadi sul tavolo da gioco. Di origini molto antiche, era molto praticato durante il Medioevo e Rinascimento; per giocarvi si fabbricavano tavolini d’avorio e di legni preziosi. Il gioco consisteva nel muovere delle pedine, simili a quelle della dama, lungo delle frecce seguendo il punteggio realizzato con i dadi. GIOCO DELL’OCA Il gioco sembra risalire alla fine del XVI secolo e la sua origine è oscura. Il pezzo principale è la tavola da gioco, che racchiude una spirale che si arrotola verso l’interno, formando 63 caselle; ogni casella ha un numero e una piccola immagine. Alla casella 9 è rappresentata un’oca, che appare ogni nove caselle, fino alla 63. L’oca e le figure classiche sono spesso sostituite da altre immagini legate all’attualità, alla letteratura, alla geografia… La più antica tavola che si conosca risale al 1640; è incisa su legno e sembra essere di origine veneziana.
78
Rinascimento Urbinate (Andrea Dolente) Il Rinascimento a Urbino fu una delle declinazioni fondamentali del primo Rinascimento italiano. Durante la signoria di Federico da Montefeltro, dal 1444 al 1482, si sviluppò a corte un clima artistico fertile e vitale, grazie agli scambi culturali con numerosi centri della penisola e anche esteri, soprattutto fiamminghi. Il movimento culturale a Urbino si esauriva all'interno della corte, attorno al suo raffinatissimo principe, e pur elaborando soluzioni avanzatissime e d'avanguardia, non generò una vera e propria scuola locale, anche per il ricorso soprattutto ad artisti stranieri. Nonostante ciò il linguaggio urbinate, in virtù proprio della circolazione degli artisti, conobbe un'ampia diffusione, che ne fece una delle declinazioni chiave del Rinascimento italiano. Tra le caratteristiche base della sua cultura umanistica ci furono il tono inconfondibile fatto di misura e rigore, che ebbe protagonisti come Piero della Francesca, Luciano Laurana, Giusto di Gand, Pedro Berruguete, Francesco di Giorgio Martini, Fra Diamante. Secondo lo storico francese André Chastel, il Rinascimento urbinate, detto "matematico", fu una delle tre componenti fondamentali del Rinascimento delle origini, assieme a quello fiorentino, "filologico e filosofico", e quello padovano, "epigrafico ed archeologico". Dei tre era quello "più strettamente connesso alle arti". Nell'avvicinarsi al XVI secolo la città, pur restando un'isola di cultura raffinatissima, vide un impoverimento della sua vitalità nelle arti figurative. Nonostante ciò, a Urbino nacque e fece i primissimi passi uno 79
dei grandi geni del Rinascimento maturo: Raffaello Sanzio. Da un punto di vista culturale e letterario invece Urbino restò a lungo uno degli ambienti più stimolanti d'Italia, come testimonia Baldassarre Castiglione, che alla corte di Guidobaldo ed Elisabetta da Montefeltro ambientò il suo Cortegiano.
CONTESTO STORICO-CULTURALE: Federico da Montefeltro, condottiero di successo, diplomatico abilissimo e patrono entusiasta di arti e letteratura, fu il responsabile della trasformazione del Ducato di Urbino da capoluogo di un territorio economicamente depresso a centro artistico tra i più fecondi e raffinati dell'epoca. Nel 1444 Federico prese il potere dopo la morte del fratello Oddantonio in una congiura. All'epoca era un capitano di ventura tra i più richiesti, ma aveva ricevuto anche una rara educazione umanistica a Mantova, a cura di Vittorino da Feltre. Dal maestro assorbì l'interesse per la matematica, che avrebbe segnato gran parte dei suoi interessi culturali e delle sue committenze artistiche, e di riflesso per l'architettura, ritenuta fondata sull'aritmetica e sulla geometria. Da ciò nacque l'interpretazione di André Chastel di Urbino come corte dell'Umanesimo matematico, che ebbe in Piero della Francesca il suo più grande interprete e alla cui influenza può essere riferita l'opera di Bartolomeo della Gatta, l'unico ad Urbino che sembrava capire Piero. Federico mise mano ai problemi politici impellenti ed iniziò una riorganizzazione dello Stato, che prevedeva anche una ristrutturazione della città secondo un'impronta moderna, confortevole, razionale e bella. Tutti i suoi sforzi, nei quasi quarant'anni di governo, furono tesi a questo 80
scopo che, grazie alle sue straordinarie doti unite a una notevole fortuna, arrivò a un soffio dalla piena realizzazione. Il punto di riferimento in questo ambizioso progetto culturale fu subito Firenze e le sue novità legate all'umanesimo e al Rinascimento. Con la città toscana, già dal 1444, si stabilì un'alleanza e un clima di reciproca protezione, che facilitò lo scambio di artisti e personalità. Federico chiamò alla sua corte Leon Battista Alberti, Paolo Uccello, Luciano Laurana, Francesco di Giorgio Martini, che per lui scrisse il Trattato di architettura, e il matematico Luca Pacioli. Grande fu anche l'interesse anche per la pittura fiamminga, a partire dagli anni settanta, tanto che il duca chiamò a lavorare presso di lui artisti come Pedro Berruguete e Giusto di Gand, che svilupparono un felice dialogo tra la tradizione figurativa nordica "realista" e quella italiana "sintetica". Giovanni Santi, padre di Raffaello, scrisse un resoconto poetico dei principali artisti del periodo. A palazzo si discuteva sulla forma che dovesse avere la "città ideale", sulla prospettiva, sull'eredità storica e morale degli "uomini illustri". Famosa la biblioteca del Duca, organizzata dall'umanista Vespasiano da Bisticci, ricca di codici dalle pregevoli pagine miniate. Federico, attraverso le descrizioni di Baldassarre Castiglione ne Il Cortegiano, introdusse i caratteri del cosiddetto "gentiluomo" in Europa, che rimasero pienamente in voga fino al XX secolo.
81
RETAGGIO ED INFLUENZA: Pietro Perugino, San Bernardino risana da un'ulcera la figlia di Giovanni Antonio Petrazio da Rieti (1473), Galleria nazionale dell'Umbria, Perugia Il clima rarefatto ed estremamente raffinato della corte di Federico riguardava essenzialmente il Palazzo, ed entro esso si esauriva, non favorendo lo sviluppo di una vera e propria scuola locale. Alla morte del duca le attività artistiche subirono un innegabile arresto, ma grazie al ritorno in patria degli artisti stranieri che vi erano convenuti si assistette a una amplissima diffusione del linguaggio urbinate, con feconde elaborazioni. Gli esempi più evidenti riguardano gli sviluppi del rapporto tra architettura reale e dipinta, inaugurato da Piero della Francesca e dai curatori delle tarsie delle Studiolo, che venne raccolto da Melozzo da Forlì, che lo esportò a Roma, e dalla nascente scuola perugina, soprattutto negli esordi di Pietro Vannucci detto il Perugino. Il clima nato nella signoria dei Montefeltro rimase comunque un pilastro nella cultura figurativa locale, influenzando la formazione di due dei principali interpreti del pieno Rinascimento, originari proprio di Urbino: Raffaello e Bramante.
URBINO.. CENTRO IDEALE La più ricordata tra le città reali ispirate a un progetto ideale è Urbino, con il suo Palazzo Ducale, la cui grande e complessa concezione monumentale si risolveva, secondo la definizione di Baldassare Castiglione, nella concezione di una «città in forma di palazzo». Tale risultato si deve alla volontà del duca Federico da Montefeltro, di inclinazioni culturali umanistiche, che volle espandere verso il basso il castello del suo potente casato, fino a congiungerlo a un'altra costruzione che insisteva su un livello altimetrico inferiore.
82
L'intervento, nella sua ampiezza e complessità, fu affidato nella seconda metà del Quattrocento all'architetto Luciano Laurana, esponente di quella schiera di intellettuali e artisti di cui il colto duca di Urbino amava circondarsi, raccogliendo attorno alla sua corte un vero e proprio cenacolo animato da figure di spicco come, oltre al già citato architetto, quelle di Piero della Francesca, Francesco Laurana, Leon Battista Alberti e Francesco di Giorgio Martini. La complessa soluzione ideata da Luciano Laurana, poi continuata da Francesco di Giorgio Martini, lasciava spazio a una nuova monumentale piazza cittadina e a un cortile d'onore interno, dalla rigorosa scansione geometrica, circondato da un chiostro. Alcuni elementi estetici di vaga impronta medievale (come gli slanciati torricini o la merlatura dell'originario progetto, poi smantellata da Girolamo Genga alla metà del secolo successivo) non travisano la matura razionalità di una concezione pienamente aderente alla sensibilità architettonica rinascimentale.
83
PALAZZO DUCALE: « Federico edificò un palazzo, secondo la opinione di molti, il più bello che in tutta Italia si ritrovi; e d'ogni opportuna cosa sì ben lo fornì, che non un palazzo, ma una città in forma di palazzo esser pareva. » Con questa frase Baldassarre Castiglione vuole descrivere la bellezza del palazzo reale di Urbino. Il progetto fu realizzato da Federico da Montefeltro che voleva trasformare la sua città, nella città ideale del principe. Prima degli interventi di Federico, la residenza ducale era un semplice palazzo sul colle meridionale, al quale si aggiungeva un vicino castellare, sull'orlo del dirupo verso la Porta Valbona. Le origini del palazzo risalgono a quando il conte Antonio da Montefeltro, nonno di Federico, decise di stabilirsi di fronte al Duomo; fu suo figlio Guidantonio a far approntare un palazzetto il cui lato lungo corrispondeva sommariamente alla facciata lunga su piazza Rinascimento (futuro Appartamento della Jole). Si ha notizia di una serie di stanze affrescate e dei loro nomi, ma oggi è difficile associarle agli ambienti attuali.
84
La Chitarra (Simone Lisi) La chitarra è uno strumento musicale cordofono, che viene suonato con i polpastrelli, con le unghie o con un plettro. Il suono è generato dalla vibrazione delle corde, che sono tese al di sopra del piano armonico che, a sua volta, poggia sulla cassa armonica che amplifica il suono. Le corde sono tese tra il tiracorde, fissato sul ponticello, ed il capotasto, essendo fissate tra il ponticello e le meccaniche poste sulla paletta. Sul manico, la tastiera consente di accorciare la lunghezza vibrante della corda e di suonare la nota o le note desiderate premendo la corda stessa appena dietro il rispettivo tasto. L’immagine sotto mostra la disposizione della chitarra.
La chitarra di tipo spagnolo o andaluso ha sei corde, ma spesso esistono delle variazioni; ad esempio in Brasile è diffuso un tipo di chitarra a 7 corde. Un'altra variazione comune è la chitarra a dodici corde, che però porta la medesima accordatura replicata in ottava da corde accoppiate più sottili. L'accordatura più comune, nota come accordatura spagnola, è MiSi-Sol-Re-La-Mi, dalla corda più acuta alla più grave; nell'uso anglosassone, invece, solitamente la si indica come accordatura EADGBE, dalla corda più grave alla più acuta.
85
STORIA E SVILUPPO DELLO STRUMENTO La chitarra, secondo alcune fonti, al contrario di quanto si suppone erroneamente, avrebbe origine non direttamente dal liuto, bensì dalla chitarra barocca. La nascita della chitarra, però, è misteriosa; si può affermare con certezza che lo strumento è di derivazione medio-orientale. Gli studiosi evidenziano che nelle antiche lingue locali e nel sanscrito, la parola "Tar" significa invariabilmente "corda" e da qui il "Do-Tar" ed il "Se-Tar" indicano strumenti, rispettivamente a due e a tre corde. La prima testimonianza scritta che descrive una chitarra si può far risalire solo al XIV° secolo, anche se esiste un significativo bassorilievo in pietra risalente al XIII secolo a. C., denominato "La chitarra ittita", che raffigura appunto un ittita nell'atto di suonare uno strumento le cui caratteristiche morfologiche sono simili alla chitarra moderna. Sembra che a quel tempo la chitarra avesse 3 corde doppie e poi una corda singola per i suoni più alti. Con la penetrazione dei costumi (la cultura musicale islamica fu notevolmente influenzata nel Medioevo da quella persiana) è facile seguire l'introduzione in Europa dello strumento al seguito degli arabi e ritrovarlo rappresentato immutato a distanza di secoli nelle "Cantigas de Sancta Maria" (1270 d. C.). Nel corso del tempo, però, questo strumento ha subito modifiche importanti: i liutai hanno apportato delle migliorie alla chitarra quasi esclusivamente lungo due direttrici: 1) l'accrescimento dell'esiguo volume sonoro; 2) l'estensione della gamma dei suoni eseguibili al registro grave con l'aggiunta di corde. Per il primo punto, si è lavorato instancabilmente maggiorando in modo apprezzabile le dimensioni della cassa armonica. Per quanto riguarda il secondo punto, l'evoluzione dello 86
strumento è avvenuta schematicamente attraverso varie tappe: la chitarra rinascimentale era armata di quattro "cori" (corde di budello appaiate ed accordate all'unisono) . La prima chitarra vera e propria probabilmente è stata creata in Spagna dove si è subito diffusa in modo estremamente rapido: già nel XVI° secolo la chitarra rappresentava lo strumento musicale per eccellenza delle classi meno agiate e come tale si contrapponeva alla più antica viola da mano (vihuela), uno strumento a corda molto diffuso nell’aristocrazia dell’epoca e che era caratterizzato dall’avere 6 corde di cui 5 doppie. Nell’immagine sottostante, potrete vedere un esempio di vihuela risalente al 1536.
Nella seconda parte del sec. XVI vi si aggiunse il quinto coro al grave. La chitarra così descritta da Juan Bermudo, si qualificherà come "chitarra spagnola" e rimarrà in auge fino allo spegnersi del Settecento. Di fattura raffinata, con notevoli decorazioni proprie dell'epoca barocca, la chitarra incontrò persino il favore di principi e di re, tant'è vero che presso la corte di Luigi XIV v'era regolarmente stipendiato un maestro di chitarra. Sul finire del sec. XVIII, lo strumento abbandonò i raddoppi delle corde ma acquistò una sesta corda al grave e con queste sembianze in un primo tempo fu chiamata "chitarra francese". Lo strumento subì un'ulteriore maggiorazione della cassa armonica, nonché un innalzamento della tastiera rispetto al piano armonico, ad opera del liutaio Antonio Torres, nella seconda metà del sec. XIX. Dalla chitarra classica deriva anche la diffusissima chitarra elettrica, nata verso gli anni ’30 negli USA.
87
LA CHITARRA NELLA LETTERATURA Le prime raccolte di composizioni destinate alla chitarra (a quattro cori) vedono la luce quasi contemporaneamente in Spagna, Francia ed Italia, attorno alla metà del sec. XVI. Il repertorio formato da tali musiche comprende: - Composizioni solistiche originali; - Trascrizioni di celebri musiche vocali; - Musiche di derivazione popolare a carattere di danza; - Brani per voce con accompagnamento di chitarra. Le composizioni per chitarra, così come quelle per liuto, suo strumento antagonista, non vengono redatte sul pentagramma, bensì in "intavolatura", cioè con un sistema di scrittura che su una pagina o "tavola", rappresenta la tastiera dello strumento in ogni momento dell'esecuzione ed indica il posto che le dita dell'esecutore debbono occupare secondo il valore di tempo indicato in verticale. Questo ingegnoso sistema di notazione è ancor oggi usato per un certo tipo di repertorio destinato a coloro che non sanno "leggere la musica".
LIUTO (ETIMOLOGIA ) Il liuto, o laùto, strumento principe del Rinascimento, fu portato in Europa in epoca medievale dagli Arabi, che esportarono anche il termine: al 'ud ()ال عود, divenuto liuto (Italia), laúd (Spagna), luth (Francia), lute (Inghilterra), Laute (Germania) ecc. L'articolo al si agglutinò al sostantivo 'ud, come nel portoghese alaúde, mutando secondo le varianti linguistiche locali. In epoca rinascimentale non era ancora chiara l'etimologia della parola, tanto che Vincenzo Galilei, padre di Galileo Galilei e tra i più brillanti e attivi frequentatori della Camerata de' Bardi, credeva che l'origine del termine fosse da 88
ricercare nella completezza dello strumento, che essendo di grande estensione poteva intavolare l'intera gamma delle humanae voces, comprendente sette esacordi (tre duri, due naturali e due molli, ma sempre formati dalle sei sillabe da UT a LA o viceversa), secondo la complessa teoria esacordale di origine medievale (solmisazione): « Fu portato à noi questo nobilissimo strumento da Pannoni, con il nome di Laut… volendoci con esso dinotare essere degli estremi suoni musicali capace… e tornando alla Timologia del Liuto, dico essere stati altri di parere, ch'egli fusse detto lauto; cioè sontuoso, magnifico, nobile, & splendido »
LA STORIA DEL LIUTO Strumento musicale a corde pizzicate, con cassa armonica piriforme; di origine orientale, fu importato in Europa durante il Medioevo e raggiunse la massima diffusione nel XVI secolo. Lo strumento era suonato con un plettro o anche, per ottenere maggiore morbidezza e fluidità d'esecuzione, con le dita nude.
La musica per liuto era scritta con l’intavolatura. Il repertorio della musica per liuto a noi pervenuta si estende dal 1507 (anno nel quale comparvero, a Venezia le prime intavolature dell'editore Ottaviano Petrucci) sino al 1770 circa. Il liuto occupò un posto di considerevole rilievo nella vita musicale, specie nel XVI sec., quando ebbe la stessa diffusione e la stessa versatilità d'impiego raggiunte nell'Ottocento dal pianoforte. Le fonti cinquecentesche comprendono sia composizioni originali per lo strumento (danze, quali pavane, gagliarde, passamezzi, 89
saltarelli; ricercari, fantasie, variazioni; preludi di carattere improvvisatorio), sia molte trascrizioni di brani vocali, profani e sacri. Si ha prova dell'esistenza di strumenti musicali del genere dei liuti sin dall'antico Egitto. Il liuto, come lo si conosce oggi (cassa armonica convessa a forma di pera costruita con doghe incollate) appare presumibilmente intorno al VI secolo in Asia Minore. Anzi è proprio il nome a tradirne l'origine: il termine "liuto" deriva infatti, attraverso varie forme ("lauto", "leuto"...) dall'arabo al oud (i.e. "legno"). Gianfranco Lotti suggerisce che questo termine fosse derogativo perché ogni musica strumentale fu vietata nei primi secoli dell'Islam. Inoltre la necessità di disporre, negli ensemble di liuto, di strumenti a cui affidare le parti gravi dell'accompagnamento, portò allo sviluppo dell'arciliuto, di dimensioni più grandi e con un numero di corde maggiore. Come per molti strumenti musicali, il liuto cadde in disuso dapprima in Spagna, sostituito dalla vihuela, e poi nel resto del continente (sec. XVIII).
90
La Stregoneria nel 500 (Emanuele Cracolici) Le credenze in stregoneria e magia fanno parte della storia dell’uomo; riti propiziatori e formule magiche compaiono in tutte le civiltà e caratterizzano soprattutto le religioni pagane; nell’Odissea troviamo la maga Circe che trasforma in porci i compagni di Ulisse, nella tragedia di Euripide e Seneca Medea si rivolge alla dea Ecate. Presso i Romani troviamo l’oraziana Canidia e la descrizione dei più svariati sortilegi lasciata nell’Asino d’oro da Apuleio, che era stato accusato di stregoneria. Molto importante era il ruolo della magia nel campo medico; infatti molte delle ricette della medicina popolare erano basate sulla magia e l’uso di erbe miracolose unite a formule magiche. Con l’avvento degli imperatori cristiani, nel IV secolo d. C. iniziò una feroce persecuzione delle pratiche magiche, spesso identificate con le pratiche religiose pagane; gli dei pagani vennero demonizzati, considerati cioè creature infernali, e il loro culto era considerato un inganno del diavolo per allontanare gli uomini dal culto del vero Dio: paganesimo e culto del diavolo venivano così a confluire, comprendendo anche tutto l’insieme di credenze magiche popolari. Nell’alto Medioevo solo sporadicamente si perseguitano le residue superstizioni pagane e l’esercizio delle arti magiche e solo nei casi in cui è chiara la rinuncia al vero Dio; dopo il Mille si ha un declino dell’interesse nel magico, in relazione alla crescente urbanizzazione che pone in secondo piano le esigenze del mondo rurale, da sempre terreno tradizionale del magico. Ma più pericolose delle superstizioni contadine si rivelano presto le varie espressioni della magia dotta, come l’astrologia e l’alchimia, il cui studio riceve impulso dai contatti con il mondo greco ed arabo in seguito alle Crociate. Gli sviluppi di questa magia dotta, tanto legati a quelli della scienza moderna, non avrebbero presto mancato di preoccupare i difensori dell’ortodossia religiosa, finora occupati a combattere gli eretici; nel XIII sec. nasce infatti l’Inquisizione, rete di tribunali ecclesiastici deputati all’indagine e all’esame dei casi di eresia, che più tardi verrà affidata all’ordine domenicano. Dalla metà del Duecento troviamo le prime bolle pontificie che lanciano la persecuzione 91
contro le streghe e assistiamo ad un cambiamento nel concetto del reato di stregoneria: se nell’alto Medioevo era solo superstizione residua del paganesimo punibile con penitenze più o meno severe, ora diventa un reato d’eresia, cioè di deviazione dalla vera fede, e come tale, in caso di ostinazione dopo la scomunica, è punibile con la consegna all’autorità civile incaricata di emanare ed eseguire la sentenza di morte. Cambia anche la credenza nei contenuti della stregoneria e si viene delineando il quadro che porterà all’inizio delle grandi persecuzioni di fine Quattrocento: il ruolo fondamentale delle donne come streghe, il patto con il diavolo e il sabba, cioè il banchetto infernale a cui la strega si reca magicamente dopo essersi cosparsa di unguenti e dove rende l’omaggio rituale al diavolo partecipando all’orgia diabolica. Fra il XIV ed il XV secolo il numero dei processi per stregoneria andò continuamente aumentando, ma fino alla fine del Quattrocento la persecuzione riguarda solo alcune aree, soprattutto montane e spesso terra di eretici: la Francia meridionale, le Alpi francesi e svizzere, l’alta Germania, la diocesi di Como. Si moltiplicano anche i trattati sulla stregoneria; è del 1486 il Malleus Maleficarum (il Martello delle streghe), in cui i due frati domenicani Institor e Sprenger, sulla base dell’esperienza acquisita come inquisitori nella Germania renana, descrivono il modo in cui vengono compiuti i malefici, i possibili rimedi e le procedure giuridiche da adottare verso streghe e stregoni. Il Malleus costituì il modello di numerosi scritti simili. Con la bolla del 1484 di Papa Innocenzo VIII e la pubblicazione del Malleus iniziò una vasta ondata di persecuzioni che si estese oltre la Germania, nella Stiria, nel Tirolo, nelle Alpi italiane, a Bologna e nei Pirenei; essa diminuì d’intensità solo verso il 1530. Un’esasperata ripresa della caccia alle streghe si avrà nella seconda metà del Cinquecento e durerà fino alla metà del Seicento: sono gli anni delle guerre di religione tra cattolici e protestanti e poi della Guerra dei Trent’anni, che insanguinerà l’Europa tra il 1618 e il 1648. Anche le guerre di religione infatti contribuirono a scatenare le persecuzioni contro la stregoneria; si trattava infatti di 92
lotte pervase di fanatismo e intolleranza, alimentate da odi e devastazioni della guerra. Spesso si cercava un capro espiatorio cui addossare la colpa di sciagure naturali, delle carestie conseguenti alle guerre, delle epidemie. In genere i processi per stregoneria si concludevano con la condanna a morte dell’imputato, sia che questi avesse confessato o no; le confessioni spesso erano estorte con la tortura, durante interrogatori condotti ovunque con modalità simili, secondo quanto prescritto dal Malleus. Anche quando l’Inquisizione e i giudici smisero di dare la caccia alle streghe, roghi e massacri continuarono, spesso provocati dagli odi e dalle paure della gente, che portavano a linciaggi senza alcun processo. “Il Diavolo, essendo venuto a prenderla per condurla al sabba, le dette n unguento nerastro col quale si stofinò la schiena, il ventre e lo stomaco. Poi, rivestitasi, uscì dalla porta e fu immediatamente sollevata in aria a grande velocità…” è la confessione rilasciata da uavedova condannata a morte per stregoneria e satanismo nel 1617. Verso la fine del Seicento, quando ormai in Europa i roghi delle streghe si facevano sempre più rari, l’ossessione per la stregoneria radicata nella cupa religiosità dei coloni puritani dava i suoi frutti nella Nuova Inghilterra, in America. La fine delle persecuzioni non avvenne contemporaneamente in tutta Europa; verso la metà del Seicento venne pubblicata un’Instructio ecclesiastica, già circolante dagli anni ‘20, che, pur non mettendo in discussione la realtà della stregoneria, raccomandava ai giudici la massima prudenza nell’istruire quelle cause. Attorno a quegli anni vari paesi europei cominciarono ad emanare editti che miravano a limitare il fenomeno; ad esempio in Francia nel 1624 si stabilì che tutti i processi per stregoneria conclusisi con una sentenza implicante la pena di morte o gravi punizioni corporali dovessero essere deferiti automaticamente in appello al Parlamento di Parigi e nel 1682 venne definitivamente soppresso il reato di stregoneria. Sempre più negli ambienti intellettuali erano fiorite teorie ardite e apertamente scettiche non solo sulla stregoneria, ma più in generale sui miracoli, sulla religione costituita, sull’uso politico di essa. 93
Limitate a gruppi ristretti di intellettuali, queste teorie non incidono direttamente sugli orientamenti dei giudici e del potere ecclesiastico, ma alla lunga contribuiscono a creare un clima sfavorevole ad ogni credenza nel magico e nel soprannaturale; parallelamente si fanno sempre più numerose le coraggiose denunce sugli abusi e le iniquità con cui venivano condotti i processi. Con l’affermarsi della nuova scienza si posero le basi per la definitiva demolizione della credenza nella stregoneria, almeno nelle classi colte. Ma i processi e i roghi non cessarono subito; spesso, infatti, persistevano le cause politiche e sociali che erano state alla base della persecuzione delle streghe. Con l’avvento degli studi psichiatrici e psicologici le streghe di un tempo vengono considerate soggetti con disturbi psichici e quindi persone da curare, anche se spesso l’unica soluzione proposta era la reclusione in manicomio. CHI ERANO LE STREGHE La parola strega deriva dal latino “stryx”= barbagianni; i Latini infatti credevano che alcune donne avessero il potere di trasformarsi in uccelli notturni, come gufi o barbagianni. I Francesi usano il termine sorciere, dal latino “sortilegus”= sortilega, cioè persona capace di tirare le sorti, di prevedere il futuro. Dal sassone “wicca” o “wicce”= saggio, derivano le parole inglesi wizard e witch. Anche i termini tedeschi hexxer ed hexxe sono legati al significato di sapiente. La maggior parte delle persone accusate di stregoneria era di sesso femminile. L’idea che le donne fossero più facilmente soggette a cedere alla tentazione del Maligno deriva dalla profonda misoginia insita nella cultura medioevale, che si riflette in opere come il Malleus Maleficarum, nel quale si sottolinea come la stessa parola femmina derivi dal latino “feminus”= che ha minor fede, quindi più soggetta alle tentazioni. Erano particolarmente esposte all’accusa di stregoneria le levatrici, le bambinaie, le cuoche e le guaritrici, donne che in genere potevano avere conoscenze particolari ad esempio nell’uso di erbe per la preparazione di unguenti e rimedi, conoscenze che facilmente potevano essere trasferite in un contesto di magia nera. Levatrici e bambinaie subivano l’accusa perché professionalmente a contatto con i bambini in un’epoca di altissima mortalità infantile e neonatale; poiché le streghe venivano considerate 94
avide di bambini non battezzati da sacrificare al diavolo durante il sabba, il rischio di accusa era alto. Dai documenti relativi ai processi per stregoneria risulta che spesso le accusate erano vedove o non coniugate, quindi in posizione sociale ed economica debole all’interno del villaggio; non mancano i casi di figlie giovanissime coinvolte con le madri nell’accusa di stregoneria. In genere le persecuzioni si verificavano nei centri rurali, dove erano più radicate superstizioni e diverso era il tessuto sociale ed economico. Come l’hanno tramandata le raffigurazioni tradizionali, la strega è brutta, vecchia e povera, cioè dotata di qualità negative, non essendo possibile, secondo l’opinione dei teologi, che da Satana provengano ai suoi seguaci doni di perfezione. Non sono però mancate le streghe avvenenti; in questo caso le qualità positive venivano considerate illusioni diaboliche e quindi si trovava sempre una giustificazione alle accuse. Il corpo della strega presenta caratteri precisi. La lunghezza dei capelli, propria della donna, già è un segno nefasto, poiché i capelli attraggono il desiderio dei demoni: una ciocca di capelli è di solito il pegno del patto tra il diavolo e la strega: il diavolo conserva quei capelli e, dopo averli tagliati in pezzetti piccolissimi, li mescola con le esalazioni atmosferiche con le quali suscita il temporale ed è per questo che, secondo un giudice, si trovano dei piccolissimi peli nella grandine. Inoltre Satana impone il proprio marchio sul corpo dei suoi devoti e quindi le streghe portano il “signum diaboli”, che con tanto accanimento gli accusatori cercavano di individuare sul corpo dell’accusata; scoprirlo era però molto difficile, dal momento che il diavolo lo nascondeva nei punti più impensabili, non aveva un colore né una forma precisi, ma solitamente era grande come un pisello e assomigliava all’impronta di una zampa di lepre. La caratteristica fondamentale del marchio diabolico era comunque l’insensibilità al dolore: in base a ciò, dopo che tutto il corpo della donna era stato depilato, un medico lo trafiggeva con uno spillone fino a trovare il punto insensibile al dolore; se l’indagine era infruttuosa, si poteva comunque sostenere che il diavolo aveva fatto scomparire quel segno presente fino al giorno prima. 95
Alle streghe venivano attribuiti vari generi di poteri: può arrecare danni con il solo sguardo, può provocare una malattia grave con il contatto della mano, uccidere una persona o provocare un aborto col fiato della sua bocca, può arrecare gravi sofferenze fisiche ad una persona infierendo contro un’immagine di cera che la rappresenta. Controlla gli eventi atmosferici e scatena disastri naturali, provoca carestie; si trasforma in animali e trasforma anche i suoi nemici. Manipola filtri, unguenti, veleni, sa ricavare sostanze sconosciute dalle piante e dai minerali: il ritrovamento in casa sua di pentolini e sacchetti di erbe secche è per i giudici un indice sicuro di colpevolezza. Tutti questi poteri le vengono da Satana, al quale si è consacrata dopo avere ripudiato il Signore con una cerimonia durante la quale rinnega il suo battesimo, distrugge oggetti sacri e giura fedeltà al diavolo, firmando questo patto con il sangue o consegnando una ciocca di capelli. Il culto a Satana si manifestava nella cerimonia del Sabba, contrapposto alla Messa cristiana. Il Sabba si teneva in luoghi lontani dai centri abitati, durante le ore notturne, più propizie al Maligno signore delle tenebre. Le streghe vi si recavano a piedi se il luogo era vicino; altrimenti vi arrivavano a cavallo di un bastone bianco o di un manico di scopa dopo essersi unte con unguenti magici che permettevano loro di viaggiare velocissime; altre volte cavalcavano un cavallo o un montone nero o le portava il diavolo sotto forma di un uomo vestito di nero. Si credeva anche che l’anima potesse abbandonare il corpo che dormiva nel letto e raggiungere il luogo del Sabba in questa forma immateriale per poi riunirsi al corpo prima dell’alba. Al Sabba è sempre presente il diavolo, con il corpo metà uomo e metà caprone, le corna in fronte, gli occhi rossi e fiammeggianti, le dita delle mani ricurve e armate di lunghe unghie appuntite. Appena arrivata la strega rende omaggio al diavolo baciandolo sulla spalla o sulle parti posteriori, poi iniziano le danze, le orge e il grande banchetto, nel quale in 96
genere mancano il vino, il sale ed il pane, alimenti accetti a Dio, simboli dell’Alleanza e perciò invisi al Maligno. Ogni strega descrive le malvagità compiute dall’ultimo incontro e promette di commetterne di peggiori; chi ha fatto poco è redarguito severamente dal demonio o frustato. Il rito culminante del Sabba è la messa nera, in cui si ha la profanazione del mistero cristiano; alla fine il diavolo si distrugge nel fuoco e si dissolve in cenere, che le streghe raccolgono per utilizzarla nei loro veleni. Le streghe formano piccoli gruppi, scavano delle buche, versano un po’ d’acqua e la mescolano con un dito pronunciando formule incomprensibili, che scatenano violente tempeste e grandinate; alcune si sollevano in aria e disperdono sui campi la polvere del diavolo, che provocherà invasioni di topi o cavallette. Dopo questi riti di morte le streghe tornano alla loro vita comune. I trattati sulla stregoneria prestavano molta attenzione alle feste che si credevano celebrate da numerosi gruppi di streghe; sembrerebbe che ogni anno ci fossero sei grandi feste del culto: la Candelora il 2 febbraio; la vigilia di Maggio il 30 aprile; la vigilia di San Giovanni il 23 giugno; la festa del Raccolto il 1 agosto; la vigilia di Ognissanti il 31 ottobre; il giorno di San Tommaso il 21 dicembre.
IL PROCESSO Dopo tutto questo, è facile capire che essere anche solo sospettate di stregoneria significava ricevere un marchio difficilmente cancellabile, soprattutto se si viveva in un ambiente chiuso come un villaggio contadino; l’accusa di stregoneria significava morte certa. I tribunali che giudicavano i reati di stregoneria erano quelli laici, quelli ecclesiastici diocesani (cioè presieduti dal vescovo), e quelli inquisitoriali, fondati per occuparsi specificamente dei casi di eresia; i reati di stregoneria erano di competenza di questi ultimi solo nel caso che alla stregoneria si unisse l’eresia, cioè l’ostinazione nel professare coscientemente un’opinione contraria a quanto stabilito dalla Chiesa in materia di fede e buoni costumi. 97
L’istruzione di un processo per stregoneria iniziava in genere in seguito a voci o specifiche denunce, spesso sollecitate dalle autorità con appositi bandi. Una volta arrestata l’imputata, si procedeva alla perquisizione della sua casa, che portava sempre al rinvenimento di oggetti sospetti. Nelle prime fasi degli interrogatori le domande vertono soprattutto sulle origini dell’imputata e sulla sua famiglia; dal momento che la stregoneria era ritenuta ereditaria, avere avuto dei parenti bruciati sul rogo era un forte indizio di colpevolezza. Se dopo i primi interrogatori l’imputata confessava, il resto del processo era volto a farle confessare il nome di eventuali complici; se invece continuava a negare, veniva sottoposta a tortura fino alla confessione, necessaria per infliggere la pena di morte. E’ quindi evidente che il verdetto era scontato fin dall’inizio. La base effettiva della condanna era costituita dalla cattiva reputazione dell’imputata, cioè dalla fama di essere una strega; oltre a ciò erano sufficienti alcuni testimoni o l’indizio del fatto, ad esempio l’avverarsi di minacce rivolte pubblicamente dalla strega a qualcuno. Una volta giudicata colpevole l’imputata rea confessa veniva consegnata alla giustizia civile per la pronuncia e l’esecuzione della condanna; se non confessava iniziava la tortura, che diventava sempre più pesante; le confessioni sotto tortura dovevano però essere poi confermate spontaneamente dall’imputata. Non è difficile immaginare che le confessioni venissero confermate pur di sottrarsi a nuove torture e che spesso nei loro deliri le accusate indicassero come complici persone del tutto innocenti o nomi suggeriti dagli stessi accusatori; non dimentichiamo che per le streghe era prevista la confisca dei beni e il coinvolgimento di persone benestanti poteva arricchire gli stessi giudici. Anche il rifiuto tenace dell’imputata di confessarsi colpevole era interpretato come frutto di incantesimi o dell’intervento diretto del diavolo; la donna era gettata in carcere e sottoposta a continue pressioni finché non confessava. Una prova spesso usata dai giudici consisteva nel gettare in acqua la strega legata e chiusa in un sacco; se restava a galla era colpevole, se andava sotto, spesso affogando, era innocente. A volte la legge non era rispettata e si procedeva alla condanna a morte anche senza confessione; altre volte le imputate morivano in carcere in seguito alle torture e in questo caso le autorità potevano sostenere che erano state strangolate dal diavolo perché non confessassero e morissero in stato di peccato mortale. I 98
diritti alla difesa non erano rispettati nei processi per stregoneria; quando veniva concesso un avvocato, questi facilmente finiva a sua volta per essere sospettato e quindi difficilmente si trovava qualcuno disposto a correre il rischio. La condanna a morte consisteva nell’essere bruciate vive sul rogo; spesso le donne venivano prima decapitate; solo raramente, in alcuni paesi, la donna aveva salva la vita se confessava. Dai resoconti dei processi colpisce il fatto che le confessioni delle streghe sono molto simili anche in paesi diversi; ciò è da attribuire al fatto che gli inquisitori si basavano sul modello di interrogatorio proposto nel Malleus e quindi ponevano tutti le stesse domande, condizionando pesantemente con minacce e torture la vittima finché le risposte non corrispondevano alle loro aspettative. Inoltre parte delle accuse venivano confessate in quanto vere, se consideriamo gli aspetti relativi ad una forma di culto prestato al diavolo durante riti notturni; secondo alcuni studiosi, il culto delle streghe era la sopravvivenza di una religione precristiana dell’Europa occidentale, identificata con il culto di Diana. E’ difficile stabilire il numero esatto di persone che caddero vittime delle accuse di stregoneria, dal momento che spesso non abbiamo documenti che attestino i processi avvenuti; secondo un calcolo attendibile, tra il XV e il XVII secolo in Europa vennero bruciate trecentomila streghe. Una vittima illustre fu Giovanna d’Arco, bruciata nel 1431 come idolatra, invocatrice di demoni, eretica, successivamente riabilitata e proclamata santa. L’Italia fu il paese in cui si bruciarono meno streghe; vere persecuzioni furono però attuate in Valtellina e in altre sperdute zone di montagna. Il fatto non deve stupire: la vita in zone così lontane dai centri abitati era difficile, i mezzi di sostentamento erano pochi, le risorse naturali non adeguatamente sfruttate e bastava qualche pesante capriccio della natura per mandare all’aria i magri raccolti; se a ciò aggiungiamo l’ignoranza della gente, si capisce come facilmente si cercasse un capro 99
espiatorio. D’altro canto la natura offriva spontaneamente frutti, erbe, radici, bacche e funghi, di cui spesso si nutrivano le donne sole e povere, ignorando gli effetti di alcune sostanze ingerite. Il luogo più celebre in Italia come ritrovo di streghe era Benevento, dove si trovava un antico noce presso il quale si recavano in volo notturno le streghe dopo aver pronunciato la formula: “Unguento, unguento, portaci alla noce di Benevento, per acqua e per vento e per ogni maltempo”. Secondo alcune fonti, presso la Curia Arcivescovile di Benevento erano conservati circa 200 verbali di processi per stregoneria, distrutti prima dell’arrivo delle truppe garibaldine nel 1860 per evitare che fossero utilizzati come materiale di propaganda anticlericale nel difficile decennio che precedette la presa di Roma. Il nome di Benevento compare anche negli atti di processi svoltisi al Santo Uffizio di Roma. Una caratteristica comune a tutte le donne accusate di stregoneria era l’abilità nell’utilizzare le erbe per preparare unguenti, sciroppi, decotti, a cui spesso gli abitanti del villaggio ricorrevano per curare le varie infermità, salvo poi incolpare la donna dell’eventuale morte del malato. Secondo le credenze popolari, le erbe potevano essere usate per preparare filtri d’amore, unguenti che permettevano di volare o rendevano invisibili…La scienza moderna ha dimostrato gli effetti prodotti nel corpo umano dall’ingestione di determinate sostanze; oggi sappiamo bene ad esempio che alcuni funghi hanno effetti fortemente allucinogeni e che numerose sostanze provocano effetti tali da non doversi meravigliare se chi li ingeriva giurasse di saper volare o di vedere o fare cose straordinarie. Allo stesso tempo è innegabile che alcune piante potessero essere utilizzate con scopi curativi, dal momento che ancora oggi se ne riconoscono le proprietà terapeutiche. Ecco allora alcune piante usate dalle streghe. La malva veniva usata contro le rivali e per rendere invincibili; serviva a preparare filtri che toglievano il desiderio sessuale (in effetti la malva è usata come calmante). La verbena era un antidolorifico e le streghe se ne servivano per resistere alle torture. 100
La rosa di Natale (o elleboro) era usata per gli incantesimi potenti e rendeva le streghe invisibili. La pervinca serviva per gli incantesimi d’amore; non a caso il suo nome deriva dal latino “vincire”=legare, ad indicare la capacità di legare a sé la persona amata. La mandragora (o mandragola) serviva alle streghe per diventare invisibili e ingannare i sensi delle altre persone; bastava bere il succo della radice per riuscire ad entrare indisturbate nelle case e rapire i neonati. La sua incredibile fama deriva dalla singolare forma delle sue radici, che assumono le sembianze di un corpo umano, dalle sostanze narcotiche e velenose che contiene e infine dal suo odore nauseabondo, che provoca malessere, vertigini e allucinazioni. La sua figura umanoide ha fatto sì che la mandragola fosse messa in rapporto con il mondo infernale, ma insieme, per certe somiglianze con il sesso, ha contribuito a diffonderne l’impiego come eccitante e afrodisiaco. Il Machiavelli imperniò la sua commedia “La mandragola” sulla credenza che la pianta doni fascino alle donne, annulli la sterilità e plachi i dolori del parto; Giovanna d’Arco la usava come amuleto, ritenendo che desse l’invulnerabilità in battaglia. Una curiosità dei nostri tempi: un disegnatore di fumetti diede il nome inglese della pianta, “mandrake”, al suo personaggio di un mago che aveva il potere di rendersi invisibile e di tramutare ogni persona, animale o oggetto. Lo stramonio, o erba del diavolo, possiede dei fiori che si aprono di notte ed emanano un pessimo odore; era il cibo principale delle streghe sulla mensa del sabba. I suoi poteri allucinogeni erano noti dall’antichità; la sua assunzione eccessiva può provocare anche un avvelenamento mortale, preceduto da sete inestinguibile e dilatazione delle pupille. Insieme a mandragora e belladonna era usato dalle streghe nella preparazione degli unguenti che permettevano loro i voli notturni. Tra tutte le erbe magiche, una pianta fondamentale era il giusquiamo, che contiene vari alcaloidi che provocano allucinazioni, delirio, alterazione del battito cardiaco, convulsioni e persino la morte. La scopolamina contenuta 101
nei fiori ha un forte potere ipnotico e può provocare anche la perdita del controllo della mente, per cui può essere usata come siero della verità. Si credeva che le streghe usassero il giusquiamo in piccolissime dosi nelle pozioni usate per prepararsi a volare durante il sabba; probabilmente questo volo era soltanto una fantasia mentale provocata dagli stupefacenti. La pianta veniva anche usata per realizzare sortilegi, per esempio, se in una pignatta di coccio si maceravano giusquiamo, lauro e giglio insieme a latte di pecora e si metteva la mistura ottenuta in una pelle di agnello, tutte le pecore dei dintorni potevano perdere il latte. Se ne ricavavano filtri d’amore in quanto, grazie alle proprietà allucinogene, riusciva a far cadere la resistenza della donna corteggiata; si diceva anche che ponendo il giusquiamo in una tazza d’argento questa si spezzasse. Era poi usato per guarire le ulcere applicandovi impacchi di radici pestate, ma l’operazione doveva compiersi nel periodo corrispondente al segno zodiacale cui apparteneva il malato. Ecco un esempio di pozione magica, che si riferisce alla ricetta dell’unguento del Sabba: Grasso umano 100 g Hashish di prima qualità 5 g Fiori di canapa un pizzico Fiori di papavero un pizzico Radice di elleboro polverizzata una manciata Un grano di girasole
Utilizzo: strofinare dietro le orecchie, sul collo, lungo la carotide, sotto le ascelle, nella regione sinistra del gram simpatico, sugli stinchi, sulla pianta del piede e nella piega del gomito.
102
GLI ANIMALI La civetta, che ha dato il nome alle streghe, come altri animali notturni, è stato sempre associato alle streghe; sin dall’antichità si favoleggiava che fossero donne trasformate per magia in questi demoni alati, simili a civette, dotati di artigli da rapaci, che si nutrivano del sangue e dei visceri di bambini. Al mondo delle tenebre e quindi anche alle streghe è spesso associato il pipistrello, che nei bestiari medievali era già simbolo dell’idolatra e del peccatore che vive nelle tenebre e con le tenebre verrà ripagato dal giudizio divino. Si riteneva che i pipistrelli si nutrissero di sangue e quindi era immediato il collegamento con le streghe, che secondo la tradizione bevevano il sangue dei bambini o lo usavano per ricavarne filtri. Il termine Belzebù, con il quale si indica comunemente il demonio, significa “signore delle mosche”; nel Medioevo si spiegava quel soprannome dicendo che la statua del diavolo era sempre coperta di mosche a causa dei sacrifici sanguinosi che gli venivano tributati. Ancora nel XVIII secolo in molti processi per stregoneria si rievocava Belzebù come il dio delle mosche che spingeva i colpevoli a rubare e profanare ostie consacrate, oppure li visitava in prigione o addirittura sul patibolo. Le streghe potevano trasformarsi in mosche e sotto tale forma abbandonare il proprio corpo per recarsi al sabba. Il gatto arrivò tardi in Europa (attorno al X secolo) e fu guardato con sospetto sia per la novità che per le sue caratteristiche: lo sguardo fosforescente, il passo felpato, gli improvvisi mutamenti d’umore lo fecero ritenere alleato di potenze occulte e confidente delle streghe o peggio, l’incarnazione del maligno; non stupisce quindi che i gatti venissero utilizzati per operare sortilegi e stregonerie. Si arrivò a perseguitarli: la notte di San Giovanni, a Parigi e alla presenza del re, si teneva il rogo dei gatti a simboleggiare il supplizio delle fattucchiere. 103
Da sempre il topo è considerato repellente e apportatore di malattie; era uno degli ingredienti della strega per i suoi filtri. Altro ingrediente delle pozioni magiche è il rospo, nel quale la stessa strega a volte si trasforma, vestita con un mantello verde e ornata di un campanello, per partecipare al sabba. OGGETTI Il tema delle streghe che si spostano in volo, ampiamente sfruttato dall’iconografia popolare, presenta effettive connessioni con il presunto uso di filtri e unguenti capaci di permettere straordinari spostamenti. La scopa, in particolare, fu una delle cavalcature più usate dalle streghe. Secondo alcuni studiosi, il rapporto sarebbe sorto in epoca remota e si spiega con il fatto che la scopa è sostanzialmente un arnese usato nella casa e quindi di proprietà della donna, l’equivalente maschile di un arnese simile al forcone. E’ questa la ragione per cui, nelle raffigurazioni medievali di danze di streghe, queste spesso tengono in mano delle scope, mentre gli uomini o diavoli impugnano un forcone. La scopa entrò con forza nella tradizione del volo delle streghe intorno alla metà del XV secolo, affermandosi anche in relazione all’uso dell’unguento magico, capace di dare all’oggetto la forza di muoversi autonomamente. In casa delle presunte streghe venivano sempre rinvenuti vari contenitori e pentole, nelle quali le donne preparavano misteriosi intrugli. ANTIDOTI…. I sistemi inventati per difendersi dalle streghe sono moltissimi e spesso diversi a seconda delle zone; sempre efficaci sembrano le immagini sacre e le croci, ma a queste si aggiungono un lungo e curioso elenco di rimedi: disegni tracciati col gesso sull’uscio, piastrelle smaltate da mettere sul camino, pezzi di ferro vecchio, rami di agrifoglio, alloro o sorbo selvatico, aglio… Nelle stalle, a protezione degli animali, ancora sopravvive l’usanza di appendere campanacci e campanelle al collo di bovini e ovini, oppure di legare con nastri colorati la criniera e i finimenti di cavalli, asini e muli.
104
LE STREGHE OGGI Le streghe popolano i racconti popolari e l’immagine tradizionale che ne abbiamo ci viene dai tanti libri di favole e cartoni animati che fin da piccoli abbiamo visto. Basti pensare alla strega di Hansel e Gretel che vive in una casetta di marzapane e con i dolciumi attira i bambini per poi mangiarseli; la strega della Bella Addormentata che, offesa per non essere stata invitata alla festa, lancia una maledizione di morte; la strega di Biancaneve, bellissima ma perfida; la strega del mare della Sirenetta, invidiosa della bella voce della ragazza…Nei paesi del nord è ben nota la regina delle nevi, splendida e glaciale strega che rapisce i ragazzi; nella tradizione irlandese troviamo Morrigan; alla tradizione russa appartiene la Baba Yaga, che viaggia nel cielo in compagnia della Morte a bordo di un calderone, lasciandosi dietro una scia di tempeste e uragani: rapisce i bambini e se li mangia, vive in una capanna appollaiata in cima ad una gigantesca zampa di gallina che si muove in continuazione, facendo roteare la casa in aria; la staccionata intorno alla casa è adorna di teschi di bambini. In Europa esiste il Museo delle streghe e dei maghi, conservato all’interno della Fortezza di Riegersburg in Austria, una delle fortificazioni più grandi e meglio conservate di tutta l’Europa, costruita sulle alte rocce di basalto nel 1170 al posto di un castello romanico. L’interno del museo comprende una specie di camera delle torture, dove si trovano varie attrezzature servite per estorcere le confessioni alle presunte streghe; tra tutte, spicca la “vergine di Norimberga”, un sarcofago di ferro della grandezza di una persona, contenente una serie di punte che andavano a conficcarsi nel corpo della vittima senza ucciderla, quando 105
veniva richiuso su di essa. Nelle altre sale del museo si trovano libri a forma di pentagono e altri oggetti appartenuti a presunti streghe o maghi; c’è perfino la riproduzione di un carro da strega, trainato da un montone. Nel castello si sono svolti moltissimi processi per stregoneria, tutti finiti con il rogo; tra le condannate anche la moglie di uno dei castellani, accusata di aver rovinato il raccolto con tempeste di acqua e grandine.
106
Le abitazioni del '500 (Marco Guerrini) Si costruivano diversi tipi di case: quelle dei nobili signori, dei borghesi, dei commercianti e dei poveri. I palazzi signorili che nascevano nelle cittĂ , si ispiravano all'architettura classica della Roma antica: avevano bellissimi giardini dove c'erano fontane con giochi d'acqua; orti dove si coltivavano i semplici e piante rare che provenivano da tutto il mondo allora conosciuto; una biblioteca e un teatro per gli spettacoli di corte. I palazzi erano costruiti in pietra, dove le cave erano vicine, ed erano molto massicci e sontuosi. La facciata era ricoperta da un bugnato (un rivestimento di pietra tagliata a diamante),o decorata ad affresco. Gli edifici erano di solito a tre piani ed erano coronati con un cornicione sporgente e molto ornato. Al piano terra e sotto i tetti, viveva la servitĂš, le finestre erano piccole e quadrate. Le finestre ai piani superiori erano ampie e luminose ed erano disposte con ordine e regolaritĂ . Erano caratterizzate da colonne ed archi e corrispondevano alle stanze dei signori. All'interno della casa c'era un cortile quadrato con porticati, che dava luce nelle stanze superiori. Le comunicazioni tra i vari piani avvenivano attraverso un ampio scalone principale. Nel palazzo esistevano altre scale di servizio anguste e nascoste. I saloni avevano pareti decorate con stucchi, affreschi, arazzi. I pavimenti erano fatti di materiali importanti come marmo o mattonelle smaltate. I soffitti avevano cassettoni in legno dipinti o intagliati. I camini in ogni stanza assicuravano un buon riscaldamento. Le camere di solito erano al 107
secondo piano ed erano locali più piccoli, meno decorati, ma ben arredati. Nella camera il letto era alto, su delle predelle, di solito con un ricco baldacchino. La biancheria era custodita in cassoni di legno di noce solitamente ricoperti di cuoio con borchie e decorazioni in ferro battuto. Nella cucina e nel salone c'erano sedie più o meno comode, con o senza schienale, ma tutte ben lavorate e con forme armoniche. I tavoli per le sale erano imponenti e finemente decorati con un appoggio unico o con una colonna. A volte i piani del tavolo erano lavorati con un mosaico di pietre dure a vari colori. Per quanto riguarda le abitazioni, questo periodo può essere definito l'età dei palazzi. Le abitazioni dei borghesi erano tutte allineate sulla strada, addossate le une alle altre. Di solito, al pianterreno vi era una bottega; il piano ammezzato era destinato a uffici e a deposito. Al piano superiore c'era l'abitazione dei proprietari. Nel cortile posteriore si trovavano una stalla per il cavallo, la legnaia, il pozzo, il pollaio. Nelle stanze da letto c'era la cassapanca che conteneva gli abiti e la biancheria e veniva usata come sedile. A quei tempi gli armadi erano molto rari. Nella camera padronale (dei padroni di casa) faceva bella mostra di sé il cassone, la cassapanca di nozze che la sposa aveva portato con la biancheria di corredo. Il letto era coperto da un baldacchino con pesanti tendaggi che proteggevano dal freddo e degli insetti. Nelle stanze c'era anche un comodino che reggeva una brocca e un catino per lavarsi. Certe volte, le camere erano così comode e ben arredate che venivano usate come salotto per ricevere le persone. Le cucine erano gli ambienti più arredati: oltre ai mobili c'erano piatti d'ottone, pentole di rame appese alle pareti e un grande camino per scaldarsi e cucinare. 108
La gente più povera viveva in piccole stanze sovraffollate in grandi edifici a più piani. Le scale erano piccole e strette. Le finestre, anch'esse piccole e strette, d'inverno venivano chiuse con telai di legno per tenere lontano il freddo. All'interno le case erano illuminate con lumini alimentati da grasso puzzolente o dal camino sul quale si cucinavano i cibi. Non c'erano i servizi e per prendere l'acqua bisognava andare in cortile nel pozzo oppure alla fontana della piazza. Quando dovevano mangiare allestivano la tavola appoggiandola su due cavalletti per poterla togliere con facilità perché nella stessa stanza si dormiva. Per sedersi si usavano delle panche. I letti erano pagliericci stesi sul pavimento. Il mobile più importante era costituito da casse di legno di olmo o di pioppo, dove si riponevano le cose più importanti.
109
La Roma del'500 (Luca Compagnucci) Nel XVI secolo iniziano le grandi trasformazioni urbane della città di Roma. In particolare, per volere del Papa Sisto V inizia il grande lavoro di costruzione del cosiddetto Tridente sistino, tre assi stradali che partono da piazza del Popolo e segnano in modo marcato lo sviluppo del centro storico della città. Dalla metà del Seicento, per merito di una vivace situazione economica e politica, Roma comincia ad assumere l’aspetto di una metropoli. Infatti nella roma papale del Cinquecento si presentarono in modo più accentuato rispetto al passato gruppi di popolazione considerati elementi socialmente pericolosi da regolare e reprimere:tra essi le prostitute e i banditi. Nel retrobottega dei commercianti di candelea Roma praticavano il mestiere della prostituzione le famose cortigiane romane dette appunto "da candela" o anche "da lume", poiché usavano le candele per misurare il tempo della loro prestazione. Queste donne erano registrate nei libri delle parrocchie come curiales cioè le donne povere che, specie nei periodi più acuti di miseria, temporaneamente si prostituivanoaumentando il numero delle prostitute di mestiere: come accadde nella grave carestia che colpì Roma nel1590-1592. Dalle statistiche del Cerasoli, sulla base dei censimenti degli anni 1590-1605 vi dovessero essere in Roma 17 cortigiane ogni 1000 donne. Umberto Gnoli in base al censimento del 1526 ha calcolato vi dovessero essere 4.900 prostitute su 55.035 abitanti romani, quindi quasi il 10% dell'intera popolazione. È evidente che questi dati variassero nel tempo a seconda delle cause predisponenti il fenomeno della prostituzione, ma è certo che il valore medio della presenza di cortigiane in Roma si doveva aggirare sulla percentuale del 10%. 110
La repressione della prostituzione fu particolarmente severa sotto il pontificato di Pio V, poiché si vedeva un nesso indissolubile tra peccato e povertà e tra questa e vizio (La storia dei Poveri, op. cit., p.159). La cortigiana è considerata particolarmente pericolosa dalla Chiesa, poiché la sua immoralità mette in pericolo la salvezza dell'anima e viola la sacralità della città di Roma: «l'infamia [...] che dalle meretrici siano habitate le più belle strade di Roma santa, ove è sparso il sangue dei santi martiri, ove sono tante reliquie, tante devotioni, ove è la Santa Sede Apostolica et tanta religione: città, che per specchio del mondo tutta doverà esser monda da vicii et peccati a confusione d'infideli et eretici.» (in Avviso di Pio V del 3 agosto 1566). La presenza delle prostitute che affollano le carceri, (si calcola che nel luglio del 1570 gli arresti fossero tra i dieci e i venti ogni giorno), è considerata anch'essa pericolosa per le risse che ne nascevano tra i carcerati tanto che spesso si preferiva mandarle libere, (frequenter carceribus mancipantur)Anche per evitare questi disordini le prostitute occupavano nelle carceri un settore separato dalle altre recluse.
Fustigazione di una prostituta Il tribunale generalmente condannava le cortigiane a ritornarsene al loro luogo d'origine oppure venivano fustigate e torturate con tre tratti di corda Il governo papale quindi condanna la prostituzione, ma ne approfitta per incamerare denari per lo stato imponendo contributi forzati, tasse per la realizzazione di opere pubbliche come fu fatto per la ristrutturazione di via Ripetta. Mentre il mestiere di cortigiane è fuori della legge, il governo papale le 111
inserirà nel sistema legislativo considerandole regolari contribuenti e imponendo loro una tassa di 10 carlini e preoccupandosi di difenderle con pene severe, da quegli esattori che avessero approfittato della loro condizione di debolezza sociale pretendendo denari per sé. Il papa quindi realisticamente sapeva della difficoltà per eliminare lo sconcio morale delle cortigiane in Roma, ma ne coglieva l'opportunità economica tassandole. Quando Pio V volle almeno togliere dalla vista le cortigiane relegandole nel 1566 prima nella zona periferica di Trastevere e poi dell'Ortaccio, si levarono numerose proteste degli affittuari delle case che videro crollare i prezzi dei canoni, dei conservatori della dogana che videro diminuire il gettito fiscale, dei commercianti per i quali divenne più difficile fare affari con loro o riscuotere i loro crediti dalle meretrici ormai lontane dalle loro botteghe. Quando venne decisa, il 19 luglio1567, la cacciata di 60 meretrici dalla città, ne nacque un forte malcontento dei cittadini romani.Con papa Sisto V la repressione del meretricio si fa ancora più severa: ora si mira anche all'umiliazione della cortigiana che, colta in flagranza di reato, viene condannata alla spoliazione di ogni suo bene, compresi gli indumenti, lasciandola così nuda ed esposta al dileggio. Si decide poi di condannare anche i complici e i clienti delle prostitute alla pena della fustigazione e dei tre tratti di corda. Agli inizi del Seicento si configura ormai nei bandi papali un nuovo reato: quello dello stupro e dell'avviamento o istigazione alla prostituzione. Per il primo, se lo stupro ha riguardato una donna onesta, la pena sarà quella della morte; se invece ad essere violentata sarà una cortigiana, il colpevole pagherà una multa o dovrà scontare sette anni di galera. Contestualmente alla repressione, la Chiesa avvia un'opera di assistenza e prevenzione per le figlie delle cortigiane o per le giovani a rischio di prostituzione. Probabilmente per ispirazione di Sant'Ignazio di Loyola nella metà del Cinquecento viene creato il "Conservatorio di Santa 112
Caterina della Rosa" che riserva, con un certo cinico buon senso, l'accoglienza e la protezione solo a giovani e belle fanciulle, mentre le donne brutte o storpie o malate, non correndo il rischio di diventare meretrici, sono lasciate alla loro povertà. Agli inizi del Cinquecento era stato fondato il "Monastero di S.Maria Maddalena che accoglieva nelle sue mura le cortigiane che, colte da crisi spirituale, avessero deciso di lasciare il loro mestiere per avviarsi alla vita religiosa. Ancora una volta non possono entrare in convento le prostitute ormai vecchie che ormai, si pensa, scelgono il monastero per curare le malattie della vecchiaia e per ricevere aiuto per la povertà che seguiva inevitabilmente al non poter più esercitare il loro mestiere. Povere tra i poveri, le meretrici del Cinquecento sono quelle in peggiori condizioni, poiché in loro è conclamato ed evidente agli occhi di tutti il loro vivere continuamente nel peccato e perché sono donne, esseri inferiori per il loro stesso sesso, fonte di disordine sociale e morale. I banditi Spesso il vagabondaggio dei poveri e dei soldati mercenari sbandati con la fine delle guerre d'Italia, nel 1559, si trasformava in banditismo. Questo accadeva nelle zone di collegamento tra pianura e montagne: l'aumento della popolazione cacciava di continuo dai monti uomini che non riuscivano a trovare spazio nell'economia dell'allevamento seminomade e la trasformazione da pastore transumante a bandito era un fenomeno molto frequente nella campagna romana caratterizzata dal latifondo nobiliare. Anche numerosi preti di campagna, simboli di un malcontento e di un malessere molto diffusi nel clero rurale, andarono ad ingrossare le file dei banditi. Contro i banditi che rendevano insicure le strade e taglieggiavano i villaggi contadini furono indette vere e proprie guerre di sterminio. Già papa Gregorio XIII si era impegnato ad affrontare e risolvere il problema del banditismo. Nel 1573 infatti, aveva emanato un bando 113
con il quale proibiva la facoltà per cardinali, baroni e ambasciatori di dare asilo ai fuorilegge per farne una quasi personale guardia del corpo; successivamente fece radere al suolo alcune selve, nascondiglio dei banditi. Ma il banditismo continuò senza interruzioni a flagellare la campagna romana. Negli ultimi anni di vita del Pontefice il numero di fuorilegge che agiva nello Stato della Chiesa variava infatti dalle 12 alle 27 mila unità, rappresentando nel suo insieme il gruppo di armati più numerosi in Italia. Papa Sisto V, fin dall'inizio del suo pontificato, s'impegnò energicamente per estirpare questo diffuso fenomeno criminale meno di due anni 7.000 briganti venissero uccisi dalla polizia e dall'esercito del papa; le teste mozzate dei banditi venivano esposti al pubblico sul ponte di Castel Sant'Angelo; dopo la prima spedizione del 1585 diceva la plebe romana che si era visto che quell'anno c'erano «più teste sul ponte che meloni al mercato» I briganti acquistavano sempre più sicurezza e certezza di rimanere impuniti al punto di sfidare le stesse autorità: si racconta che un celebre bandito, tal Della Fara, si recò una notte dai guardiani di Porta Salaria chiedendo sfacciatamente loro di portare i suoi saluti al Papa e al governatore. Così provocato Sisto V, minacciò crudeli rappresaglie corporali ai parenti del bandito ma dopo neanche un mese, al Pontefice fu recapitata la testa del fuorilegge. L'azione repressiva sembrava quindi avere efficacia: al termine del 1585 il banditismo sembrava scomparso dalla Campagna romana.Nel 1589 però il fenomeno assumeva di nuovo il carattere di una protesta generalizzata: la carestia era il motivo contingente che faceva esplodere la rivolta. Durante i brevi pontificati di Urbano VII, Gregorio XIV e Innocenzo IX i fuorusciti continuavano ad aumentare; si cercò di contrastarli ricorrendo all'esercito. Anche papa Clemente VIII, eletto nel1592, tentò di risolvere il problema con la repressione militare mediante numerose spedizioni di soldati, che 114
effettuavano però più saccheggi e furti dei fuorilegge contro cui dovevano combattere.Nel 1595 il banditismo aveva ancora una notevole rilevanza e diffusione. Paolo Paruta, ambasciatore veneziano partito in quell'anno da Roma, così riferiva al Consiglio dei Pregadi: «Mi è stato
affirmato da chi può saperlo ascendere a più di cinquantamila quelli che si trovano descritti ne' libri pubblici come banditi, che sono sparsi in diversi paesi».La repressione dunque, in complesso, fallì. Tutte le volte che la polizia e i soldati si muovevano per dare la caccia ai banditi, questi spesso trovavano rifugio presso i contadini che probabilmente temevano più le rapine dei soldati che quelle dei banditi o perché questi ottenessero con la forza i nascondigli e il cibo di cui avevano bisogno, ma colpisce il fatto che i fuorilegge diventassero eroi popolari di racconti che tramandavano la falsa figura del bandito, uomo del popolo, che ruba ai ricchi per donare ai poveri.La segregazione dei poveri, la crudeltà contro i vagabondi, le campagne di annientamento contro i briganti sono il segno di un profondo malessere sociale nella Roma dei papi rinascimentali ma soprattutto di un generale irrigidimento repressivo delle classi dominanti romane.
115