Angelo Boemi SUL MANGIARE IN SICILIA TRA STORIA, DERIVAZIONI E GENIALITĂ€ Introduzione e ottave di Salvatore Camilleri con
13 tavole di Pino Correnti
Boemi
Introduzione
L’editore Angelo Boemi è un uomo geniale, di una genialità tutta intuitiva, priva di qualsiasi riflesso condizionato: la sua mente intuisce, e subito lampeggia, manifesta il suo giudizio, e non si salva nessuno, neanche Napoleone, il Napoleone stratega militare: Angelo intuisce il punto debole, l’anello mancante, e subito scatta il lampo. E così, l’uomo che sui campi di battaglia «più vasta orma stampò» diventa un semplice caporal maggiore. Pochi davvero resistono alle sue intuizioni, anche la concittadina Gammazita, percepita dalla intuizione del Boemi, in uno dei suoi lampi più efficaci, come una proiezione di Sant’Agata: vergine il modello, vergine l’imitazione; una morta in seguito a torture, l’altra si è buttata in un pozzo. Non vi dico poi della sua intuizione riguardo ai popoli del mare, su cui si sono fatte molteplici ipotesi, 5
in gran parte fallaci per l’Editore, che ha da tempo la sua soluzione pronta, scaturita sempre dall’improvviso lampeggiare della sua mente: se gli accademici hanno letto nei geroglifici, con molta libertà, i nomi siculi e sardi, come componenti anch’essì dei “popoli del mare”, il Boemi non vi legge solo questo, ma vi intuisce qualche cosa di più: vi intuisce il nome di Pelasgi, da cui le Isole Pelagie mediterranee. Ma andiamo più direttamente al centro del problema, cioè al libro concreto delle intuizioni boemiane: Sul mangiare in Sicilia, che sta per apparire e di cui ho sotto gli occhi le bozze di stampa. Una serie di intuizioni che chiamiamo diacronica, in quanto si manifesta e si espande nel ciclo dei secoli con un gioco pirotecnico di colori smaglianti che di volta in volta vengono assunti dagli alimenti principali del “mangiar siculo”, a cominciare dai frutti e dalle verzure. Ecco, in limine all’opera: «I Sicani e i Siculi», cioè i primi abitatori storici della Sicilia. Che cosa mangiavano? I fichi!, lampeggia l’intuizione del Boemi; i fichi, come gran parte dei popoli primitivi, e con i fichi anche il prodotto del fagus. Dodici varietà di fagus documentavano il percorso che aveva portato gli Aria, cioè i nostri antenati, dal Mar Caspio fino all’India, soffermandosi in gran numero anche in Grecia e in Sicilia, attratti e soggiogati dalla bellezza del Mongibello. Che cosa ci dava da mangiare il fagus? Ci dava le ghiande (la quercia 6
è una varietà di fagus) che costituivano – lampeggia ancora la mente di Angelo – la fonte principale dell’alimentazione dei nostri diretti antenati. E così l’intuizione si fa cultura, è cultura e prima fonte della conoscenza, come asseriva Bruner, grande filosofo, psicologo e pedagogista statunitense. E qui il richiamo all’etimologia è necessario: il verbo “fagocitare” (mangiare) deriva da fagus; ma questo fago o fagia lo troviamo spesso in parole che riguardano il mangiare non solo come prefisso, ma anche come suffisso: fagociti (che mangiano esseri unicellulari), antropofagia (cannibalismo), antropofago (cannibale), eccetera eccetera. Quante cose ci insegnano le intuizioni del Boemi sul mangiare in Sicilia, e non solo: perché al mangiare in Sicilia riguardo al periodo dei Sicani e dei Siculi segue quello del periodo greco-romano fino a quello odierno, cui si aggiunge anche il rapporto del cibo con le stagioni, e qui le intuizioni si alternano con le informazioni, che l’Editore-Autore ci dà con una prosa di una semplicità accattivante, soprattutto per la loro pregnante brevità. Un esempio di semplice informazione: «Nella Valle dei Templi i mandorli in fiore anticipano già la primavera che si approssima, e fanno prevedere l’abbondanza di mandorle, regine della pasticceria siciliana. Particolarmente pregiata è la mandorla di Avola, aromatica e soda, nella varie7
tà “pizzutella” impiegata nella pasticceria e nella confetteria.»
E concludiamo con una intuizione, la più semplice e immediata, fra il lampo e il sorriso. Nel menù dei Siciliani un posto di rilievo hanno le polpette, tanto che nel linguaggio metaforico del popolo assumono molti significati, spesso anche... maliziosi. Fra le polpette le più famose sono quelle della nonna. Di quale nonna? L’intuizione del Boemi, fra il serio e il faceto: la nonna di chi prepara le polpette! Basta aggiungere un po’ di prezzemolo o d’aglio o di albume in più e il gioco è fatto. Ci fermiamo, anche se il Boemi lampeggia anche sul bere in Sicilia.
Salvatore Camilleri
8
Età moderna Gli Spagnoli d’Aragona e Castiglia ben poco incidono sulle usanze alimentari siciliane; anzi, sono loro che beneficeranno delle maestranze e dei cuochi di corte, abili organizzatori di pranzi da favola a fine di trarre vantaggi dall’ammirazione dei nuovi padroni. Dalle Americhe arrivano pomodori, peperoni, granturco, patate, fagioli, cacao, vaniglia e caffè. Gli ospiti stranieri e i viaggiatori rimangono ammirati dai banchetti dalle centinaia di portate in cui la fantasia dei cuochi di corte non ha freni. Vengono inventati quotidianamente nuovi modi di cucinare i cibi e di portarli in tavola; la presentazione del cibo nei palazzi baronali valeva spesso più del sapore o della qualità. La pasta è già diventata la regina della tavola, non solo dei ricchi; ripiena e condita con legumi, verdure varie e carne e cotta in vari modi. Ma soprattutto, qualche secolo dopo, si sposa alle melanzane e ai pomodori, protagonisti di un matrimonio d’amore dalle 33
molteplici coniugazioni; con il velo bianco della ricotta salata, addirittura, questo “Patrimonio dell’Umanità” ci riporta alle orecchie le note di Casta Diva, dove la Diva non è la luna ma la Pasta. Risale invece al tempo degli Angioini la storiella che, per smascherare i Francesi, i Siciliani facessero loro nominare i ciciri e che passassero per le armi tutti coloro che pronunciavano “sisiri”; a quel tragico evento per i Francesi che fu il Vespro, si riferisce altresì il verso «nta n’ura fu distrutta dda simenza / fu ppi tunnina salata la Franza», che allude alla famosa attività delle tonnare siciliane della zona di Trapani, note già ai Romani e sviluppatesi notevolmente sotto gli Arabi a livello industriale grazie anche all’eccelsa qualità del sale delle vicine saline. Ai viceré spagnoli si alternano, in un balletto di potere, i Savoia agli inizi del Settecento e gli Austriaci di casa Asburgo, che in realtà non apportano grandi innovazioni; gli Inglesi al contrario, nel corso del loro breve Protettorato del 1812, incrementano la produzione di pompelmi, di cui sono golosi, e introducono nei salotti patrizi l’abitudine al consumo di tè e biscotti. Con l’avvento della dinastia borbonica e la commistione con la cultura francese, i Monzù continuano a rappresentare la sintesi perfetta di prestigio e competenza raggiunta dalla cucina siciliana, allora ricca di influssi francesi anche nel gergo tecnico. 34
La Rivoluzione francese e la creazione in Europa delle Nazioni in seguito a continue guerre che durano un secolo caratterizzeranno un predominio solo culturale della cucina francese; in realtà il livello raggiunto dalle piccole corti dei baroni in Italia, e soprattutto in Sicilia, non ha niente da invidiare alla grandeur delle corti neoclassiche europee. I banchetti continuano, tra scaramucce e sollevazioni di popolo, ad allietare le tavole dei patrizi. Per le strade, invece, il popolo delle città di Sicilia continua a soffrire la mancanza di cibo che la speculazione dei nobili fa sentire con una certa frequenza, tant’è che è la famigerata “tassa sul macinato” la causa scatenante di buona parte delle sollevazioni popolari. Sulle tavole del popolo, abilissimo nell’arte di arrangiarsi, la fantasia è d’obbligo: nelle polpette, a parte della carne si sostituisce il pane raffermo ammorbidito in acqua e insaporito con formaggio. E che dire delle celebri “sarde a beccafico”, che altro non sono che il surrogato di un prelibato piatto di selvaggina, gli uccelletti (beccafichi, appunto), con farcia – i Siciliani sono i maestri nell’improvvisare ripieni di fortuna – di pangrattato e formaggio anziché delle interiora? Appare sulle tavole siciliane la caponata, la pietanza che è diventata una primadonna della cucina isolana ma che nasce con le melanzane a sostituzione del capuni (la lampuga) cucinate con una salsa in agrodolce, e in seguito arricchita con tutti gli ortaggi 35
che si trovano in dispensa. Gli ingredienti sono sempre diversi, a volte perfino virtuali (il pesce d’uovo, la pasta col pesce “a mare”) ma il risultato, grazie all’abilità delle donne siciliane, è sempre lo stesso: meraviglioso! Nella Sicilia occidentale il cuscus si arricchisce di verdure e pesce azzurro in abbondanza: il popolo “si adatta”, è vero, ma il risultato è certamente sempre superiore alle intenzioni.
36
Mangiare oggi Negli ultimi 150 anni, alla base della gastronomia siciliana si riconfermano i prodotti derivati dalla tradizione agricola isolana, con alcune produzioni d’eccellenza che spiccano su altre non meno valide, ma solo meno note. La valorizzazione del prodotto identificato con il territorio di origine o di appartenenza diviene progressivamente un’esigenza culturale che avrà delle ricadute anche in termini economici. Ecco dunque la fortuna di prodotti come il provolone e il caciocavallo degli altipiani ragusani e modicani, il miele dell’Etna e degli Iblei, i carciofi di Ramacca, il pistacchio di Bronte, le fragole di Maletto; preparazioni diffuse come il torrone che ha punte di eccellenza nel territorio di Piazza Armerina o la cioccolata di Modica. In alcuni casi, la cucina si fa quasi arte: è il caso della “frutta martorana” originaria di Palermo, fatta dalle monache del convento della Martorana con 37
mandorle, miele e chiare d’uovo, detta “pasta reale” perché quando apparve per la prima volta fu per sostituire sugli alberi, per la visita del Re, le arance che erano già state raccolte. Alcune eccellenze, diffuse in tutta la Regione come l’olio o il vino, dalle proprietà organolettiche differenziate in base alla cultivar e al terroir, sono solo alcuni picchi di qualità impareggiabile tra quelli che la nostra terra può vantare. Dal sale alla frutta (come non ricordare i fichidindia o gli sbergi?), dalle telline della Plaja di Catania alle cozze nere di Messina, dalla tuma (pecorino pepato alla prima fase della maturazione), riverita nella scacciata, alla ricotta salata che biancheggia sulla Norma, non tralasciando il maiale prodigo di tutto se stesso – ma soprattutto, a Catania, di sajimi (sugna), zuzzu (gustosa composta di gelatina e parti meno nobili dell’animale) e sasizza – per arrivare ai prelibati mustazzola e ai viscotta dâ monica, la nostra tavola di tutti i giorni è imbandita riccamente con le pietanze e i prodotti tipici della nostra regione e della nostra tradizione culturale enogastronomica. Oggigiorno non sussiste più l’estrema differenza che vi era un tempo tra la tavola dei conti e dei baroni e il parco desco del poverello. Ma non è stato così fino a qualche decennio fa, anche se è pur vero che la ricchez38
za e la varietà odierne hanno forse la loro spiegazione nella necessità, tipica del passato, di arrangiarsi, di sostituire, di adattare e trasformare. La zucca all’agrodolce è stata per tanti contadini siciliani insieme antipasto, carne, pesce e dolce. Con cinque o sei olive, quegli stessi contadini erano capaci di accompagnare intere vastedde di pane casareccio. Sebbene il pesce azzurro fosse abbondante e non eccessivamente costoso, il “pesce d’uovo” era la soluzione, almeno nella forma, per non rimpiangerne la mancanza sostituendolo con una semplice ma gustosa frittata. È sorprendente, infine, come la Sicilia abbia adottato prodotti non autoctoni, bensì originari di paesi anche molto lontani, e ne abbia fatto, con l’amore e la capacità di accogliere di cui ha sempre dato prova, dei figli legittimi a tutti gli effetti, riconosciuti come tali dall’opinione comune. Le melanzane, ad esempio, sono originarie dell’India, mentre i pomodori, i peperoni e le patate sono stati importati dalle Americhe. Il finocchietto selvatico, inimitabile e irrinunciabile sulla pasta con le sarde, è in realtà originario delle Isole Canarie. E potremmo proseguire con un’infinità di altri esempi. Se vogliamo esempi della contaminazione di cui si è detto più volte, pensiamo al maccu, tipica pietanza preparata in occasione della festa di San Giuseppe con fave ammollate, sgusciate e cotte con cipolla tri39
tata e pomodoro a pezzetti. O alla variante siciliana del ragù, con cui condire appetitosi maccheroni fatti in casa, e che prevede che cuocia per ore, insieme a pomodoro, polpette, salsiccia e ‘u farsumàuru, rotolo di carne arricchito con mortadella d’asina e maiale. Se c’è invece, un prodotto di cui la Sicilia è madre naturale ma non riconosciuta, questo è il gelato. L’antenato di questa prelibatezza, nota già ai Romani, era realizzato con la neve dell’Etna e dei Peloritani, stipata appositamente in grandi buche scavate nel terreno e visibili ancora oggi. Utilizzando lo zucchero di canna al posto del miele come dolcificante e rielaborando il sorbetto di neve (antenato dell’odierna granita), nel 1693 il grande palermitano Procopio de’ Coltelli, il cui nonno era originario di Acitrezza, inventò una miscela simile a quella che oggi conosciamo ed ebbe uno strepitoso successo a Parigi, dove ancor oggi sopravvive il Cafè De Procope, locale da lui fondato. In conclusione, la varietà della produzione agricola siciliana è oggi l’elemento primario che permette e ha permesso nei secoli, sia alla cucina baronale che a quella popolare, di esprimersi con creatività conquistando i palati dei Siciliani e dei loro ospiti, dei visitatori dell’Isola e di chi, in tutto il mondo, conosce la Sicilia solo di fama proprio grazie alle sue colorate e profumate specialità gastronomiche. 40
Un anno a tavola
Su’ addivintati logni li nuttati, lu mmernu arriva e nivichìa di paru, c’è friddu e sunnu ncutti li jilati, chiovi ed ognunu curri a lu riparu. Ma macari ci su’ belli jurnati, cu suli spirlucenti e celu chiaru ca ’n-Sicilia ricordanu la stati… Jinnaru menzu duci e menzu amaru.
Ogni essere umano adulto ha bisogno di almeno 5 gr. al giorno di cloruro di sodio, che assimila attraverso i cibi. Il cloruro di sodio, comunemente chiamato “sale da cucina”, si trova abbondantemente in natura, disciolto nell’acqua marina oppure allo stato solido in giacimenti e miniere, e in questo caso prende il nome di “salgemma”. è ampiamente utilizzato nelle cucine di tutto il mondo come esaltatore di sapidità e per conservare i cibi. Che si estragga dalle miniere o dal mare, la Sicilia è uno dei maggiori produttori di sale: esistono importanti miniere nelle province di Agrigento e Palermo e famosissime saline a Trapani e, fino a un recente passato, nell’isola di Salina. L’importanza economica e culturale del sale è sempre stata enorme: dopo grano, vino e olio, era proprio il sale il bene più importante, tanto da scatenare addirittura guerre o determinare fortune economiche. Il sale si commercializzava, si scambiava come fosse denaro (è detto spesso “l’oro bianco”), si contrabban127
Finito di stampare nel mese di luglio 2013