Il veneto a Cipro

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a parte orientale del bacino del Mediterraneo conserva un importantissimo patrimonio storico, culturale, artistico e architettonico, retaggio dell’antica presenza della Repubblica Serenissima. Le flotte venete solcavano le acque dell’estremità orientale del grande mare portandovi merci, tecnologia, cultura e allacciando rapporti, sviluppando collaborazioni, acquisendo conoscenze e talora anche scontrandosi con avversari e concorrenti nella forsennata competizione tra Stati e Città Stato per il commercio e il dominio in quelle terre di antichissima civiltà. L’isola di Cipro era il presidio più a oriente prima dello sconfinato continente asiatico e costituiva un’importantissima base strategica e militare per la navigazione, per il controllo delle rotte e per lo stazionamento di truppe e armamenti. Nel XVI secolo Cipro era una vera e propria enclave cristiana in un mare musulmano e rappresentava per i Turchi un obiettivo ambitissimo. Venezia riuscì per lunghi anni a ottenere il controllo dell’importante isola mediterranea che fu tenacemente contesa con l’avversario saraceno e diede luogo ad alcuni fatto storici di grandissimo eco, che sono stati cantati da scrittori e poeti. Come non ricordare Caterina Cornaro, dichiarata da Venezia sua figlia adottiva, inviata a Cipro per sposare il Re di Cipro e Armenia e rinsaldare il controllo di Venezia sull’isola, poi costretta a rientrare nel Veneto per dimorare, amata regina, ad Asolo? Come non andare col pensiero alla tragica fine di Marcantonio Bragadin per opera dei Turchi, dopo un raccapricciante supplizio, per aver troppo contrastato a Famagosta con le sue esigue forze l’enorme esercito di Mustafa Pascià? Cipro conserva di sicuro un posto importante nell’immaginario collettivo per questi eclatanti fatti storici, eppure l’isola mantiene tutt’oggi un rilevantissimo patrimonio architettonico di origine veneta che meriterebbe una maggiore conoscenza da parte di un largo pubblico. Per questo motivo la Regione del Veneto ha sostenuto questa nuova pubblicazione delle Tre Venezie Editoriale che vuole far conoscere la storia, l’arte e la cultura del “Veneto a Cipro” con la consueta dovizia di suggestive immagini fotografiche ed evocative narrazioni storiche. Quello che si conserva oggi a Cipro è soprattutto un tesoro di strutture militari di difesa, veri e propri gioielli dell’architettura militare dell’epoca: mura, fortezze bastioni. Poco resta, invece, degli edifici civili veneti, nel cui caso oltre ai bombardamenti turchi e all’azione dei terremoti e del tempo, si unirono gli sconsiderati saccheggi durante l’amministrazione britannica di Cipro che trasformarono in ruderi quello che restava di Nicosia e Famagosta. Sono lieto che la Regione del Veneto attraverso la legge regionale n. 1/2008, articolo 25, possa dare un contributo a questa importante opera di ricostruzione della memoria storica collettiva e favorire quindi la rimembranza del proprio passato, delle proprie origini e della propria storia, che sono a fondamento dell’identità e della cultura veneta. Un’identità ancora oggi viva e vitale, di cui andare orgogliosi anche per il suo glorioso passato, ma che deve anche sapere rinnovarsi e rinnovare i rapporti e le relazioni con terre che già sono state così vicine e che anche oggi possono rappresentare importanti aree di interesse per la società e l’economia veneta.

Luca Zaia Presidente Regione del Veneto



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Regione del Veneto

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venezia e cipro

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di Evangelia Skoufari

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di Gianni Perbellini

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di Lucio Costantini

Famagosta

L’assedio

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nicosia di Gabriele Caiazza

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di Francesco Boni De Nobili

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di Giacinto Cecchetto

caterina cornaro

SIGNORA DI ASOLO

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Evangelia skoufari

Secolari relazioni

Venezia e Cipro Un legame che ha origine nell’XI secolo e prosegue consolidandosi e gettando le basi di una forte economia

Famagosta, porta diamante.

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o straordinario sviluppo economico e successivamente politico della popolazione lagunare di Venezia durante il medioevo è incontestabilmente legato al commercio marittimo svolto prevalentemente nella zona del Mediterraneo orientale. Già dalla fine dell’XI secolo i mercanti veneziani avevano ottenuto da parte degli imperatori di Costantinopoli larghissimi privilegi di natura commerciale ed esenzioni dai dazi imposti sui traffici ad altre nazioni. Nel 1147 la crisobolla di Manuele I Comneno includeva fra i territori costieri nei quali i veneziani potevano commerciare liberamente anche i porti ciprioti, dove intorno alla metà del XII secolo furono create le prime comunità veneziane. La più numerosa si trovava a Limassol, nel

sud dell’isola, dove già dal 1139 si basava una compagnia mercantile veneziana. Infatti, nel 1192, subito dopo l’instaurazione a Cipro del potere della dinastia dei Lusignan – oriundi dal regno crociato di Gerusalemme – i nuovi signori dell’isola confiscarono le proprietà di almeno 90 veneziani. Dopo la caduta di Acri in mano ai mamelucchi, i veneziani divennero ancora più numerosi a Cipro e le loro operazioni commerciali con l’isola si allargarono significativamente. L’accordo che consolidava la presenza della colonia veneziana a Cipro fu stipulato nella capitale del regno, Nicosia, nel 1306 e comprendeva la totale soppressione delle imposte sul commercio, il rinnovo del diritto dei veneziani di avere chiese, fondaci, case e piazze per commer-


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ciare a Nicosia, Limassol e Famagosta, l’assunzione di autorità giuridica da parte del bailo veneziano nei confronti dei suoi connazionali. I veneziani si impegnavano a fornire armi al re e a combattere in difesa del regno. I già cospicui privilegi concessi ai veneziani vennero poi confermati e ampliati ogni volta che un nuovo re assumeva il potere. Il XIV secolo fu ugualmente prospero per i traffici tra Cipro e Venezia. Come già accennato, dopo la perdita dei territori crociati in Terrasanta, i veneziani avevano concentrato sull’isola tutto il commercio con l’Oriente musulmano. Il regno insulare divenne base indispensabile e uno dei principali fornitori di zucchero, sale e cotone. In cerca di finanziamenti e appoggi diplomatici per l’organizzazione di una crociata contro i mamelucchi, il re Pietro I Lusignan (1359-1369) si recò a Venezia dove, nel 1363, fu ospite di Federico Cornaro del ramo di San Luca, da cui ricevette 60.000 ducati, che insieme ai successivi prestiti concessi dalla famiglia furono il vero veicolo con cui i Cornaro si legarono inestricabilmente all’isola, preparando la strada per l’ascesa dell’influenza politica dei veneziani nel regno. Il re concesse a Federico, il feudo perpetuo, estese proprietà terriere in località Episcopì, sul promontorio meridionale di Cipro, oltre al titolo di cavaliere dell’Ordine della Spada, le cui insegne si vedono ancora sul suo palazzo sul Canal Grande (ora chiamato Loredan e ospitante uffici comunali). I Cornaro misero a frutto

nel loro feudo cipriota le miniere di rame e le saline, intensificando la produzione vitivinicola, di cotone, di canna da zucchero e di altri beni agricoli, sfruttando le acque del fiume Kourris – uno dei pochi corsi d’acqua non stagionali dell’isola – e la manodopera di decine di servi. Le fortune della famiglia si legarono a tal punto allo sfruttamento di queste proprietà che Fantin Corner, nipote di Federico, volle aggiungere al proprio cognome patrizio il toponimo Piscopia. Membro di questa stessa famiglia fu Elena Lucrezia, la prima donna laureata al mondo. L’appoggio economico dei veneziani al regno dei Lusignan fu veramente significativo: basti pensare che il riscatto per la liberazione del re Giano (1398-1432) – fatto prigioniero dai mamelucchi nel corso della loro incursione sull’isola nel 1426 – fu pagato dai veneziani. Il re Giovanni II (1432-1458) si era invece indebitato con Marco Cornaro, del ramo di San Cassian, che a metà Quattrocento divenne una personalità molto potente all’interno del regno cipriota. La sua influenza politica ed economica a Cipro generò fra i genovesi dell’isola la convinzione che egli stesse progettando l’annessione di Cipro alla Repubblica lagunare. Suo fratello Andrea, riuscì a convincere il re Giacomo II (1464-1473) a sposare la propria nipote e figlia di Marco, Caterina. Entrambi i fratelli Cornaro erano consapevoli delle opportunità politiche offerte alla propria patria con questo matrimonio, ma verosimilmente era-

Famagosta, fortificazione diamante.

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no più interessati all’immediato aumento del proprio prestigio fra la nobiltà veneziana. Il re cipriota accondiscese alle pressioni dei Cornaro e il fidanzamento con Caterina Cornaro fu celebrato nel luglio del 1468, nella sala del Maggior Consiglio del palazzo ducale a Venezia, sebbene in assenza del re cipriota. Nel 1472 la Signoria inviò a Cipro la futura regina dichiarandola figlia adottiva della Serenissima. In questo modo, quando, dopo appena un anno, Giacomo II morì seguito dalla morte, nell’agosto del 1474, del figlioletto, il controllo del governo fu assunto subito ed energicamente dai veneziani, che si consideravano nella persona di Caterina legittimi eredi del potere regio. Inizialmente i veneziani nella corte cipriota erano i consiglieri della regina, ma quando l’opposizione cercò di estrometterli con violenza, l’armata navale veneziana impose con un tempestivo intervento il controllo definitivo della Repubblica sul regno. Quindi già dal 1474 le magistrature veneziane avevano il diretto controllo del governo sul regno di Cipro, situazione sancita soltanto formalmente con l’allontanamento forzato della regina Caterina Cornaro dall’isola nel 1489. L’isola di Cipro fece parte dello Stato da Mar veneziano, cioè dei possedimenti della Serenissima nel Mediterraneo orientale, fino al 1571. Per non affrontare forti dissensi da parte della popolazione nell’instaurare il proprio potere a Cipro, la Signoria utilizzò in larga misura l’organizzazione amministrativa istituita dalla dinastia dei Lusignan, senza apportarvi cambia-

menti significativi se non in alcuni aspetti delle strutture istituzionali che avrebbero potuto creare problemi al nuovo equilibrio politico. I ciprioti accettarono l’assunzione del potere da parte della Serenissima in modo pacifico, soprattutto dopo la negoziazione per la conservazione di antichi privilegi feudali della nobiltà, la concessione di esenzioni per alcune imposte, l’aumento dei diritti dei contadini, il riconoscimento dell’autorità della Chiesa ortodossa e la conservazione delle sue corti ecclesiastiche. La composizione pluriculturale della popolazione cipriota rendeva necessaria la partecipazione dei locali all’amministrazione con un ruolo di mediatori, affinché facilitassero i rapporti fra i sudditi e le magistrature veneziane. Quindi Venezia riuscì a consolidare il proprio potere a Cipro sostituendo gradualmente i funzionari fedeli alla monarchia dei Lusignan con altri, sia veneziani che ciprioti, fedeli alla Serenissima, senza apportare sostanziali modifiche all’organizzazione amministrativa, giuridica, ecclesiastica e sociale del regno. L’apparato amministrativo dell’isola rimase quindi fondato sulla doppia base delle tradizioni bizantine, già in vigore a Cipro prima della conquista di Riccardo I d’Inghilterra nel 1191, e di quelle imposte dai crociati nei territori mediorientali, che a loro volta caratterizzavano l’organizzazione economico-giuridica dell’Europa feudale nei secoli XII e XIII. Le affinità tra l’amministrazione del periodo veneziano e quella precedente dei Lusignan si individuavano in particolare,

Famagosta, la Cittadella con la torre di Otello.

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Nicosia, porta Girne.

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oltre che nell’organizzazione sociale ed ecclesiastica, che rimase più o meno immutata, nella partecipazione dei ciprioti di alto rango all’amministrazione e alla scelta dei vari funzionari o beneficiari di rendite dell’isola, nel mantenimento di istituzioni cardine come quelle giudiziarie, sia secolari che ecclesiastiche, infine, nel riconoscimento di tradizioni feudali come l’accettazione dell’omaggio ligio e la concessione di contee e cavalierati. Dopo l’abdicazione di Caterina Cornaro e la sua partenza per Venezia nel 1489, a Nicosia fu installato il reggimento veneziano, composto da un luogotenente e da due consiglieri eletti dal Maggior Consiglio con incarico biennale. Il reggimento aveva in mano il controllo dell’amministrazione, della giustizia e delle finanze del regno. Il capitano di Famagosta era invece responsabile dell’organizzazione militare dell’isola. I nobili ciprioti potevano ottenere l’ufficio di giudice per le materie civili, il cosiddetto visconte della Bassa Corte. Alcune opportunità per la carriera amministrativa erano riservate anche ai ciprioti non nobili, o almeno a quelli che disponevano di un certo agio economico e che potevano vantare un percorso educativo sufficiente per l’assunzione al ruolo di scrivano negli uffici della cancelleria, oppure di amministratore di territori rurali. Attraverso questo principio organizzativo di divisione degli incarichi amministrativi tra veneziani e ciprioti i locali erano maggiormente disposti a tollerare l’imposizione del potere della Serenissima, poiché essi stessi partecipavano al governo dell’isola. La

conseguente collaborazione dei ciprioti fu il motivo principale per cui Venezia mostrò limitato interesse ad applicare provvedimenti finalizzati alla colonizzazione dell’isola da parte di famiglie veneziane, come invece era avvenuto nei primi due secoli di dominio veneziano a Creta e poi nella Morea. Ciononostante le autorità veneziane adottarono vari provvedimenti allo scopo di incoraggiare l’incremento della popolazione delle città e delle campagne cipriote. Queste disposizioni però non dovrebbero considerarsi tentativi di colonizzazione da parte della Serenissima, in quanto esse in realtà agevolarono l’immigrazione, anziché di cittadini veneziani, di popolazioni greche provenienti dagli altri possedimenti dello stato da mar caduti progressivamente in mano agli ottomani. Il principale ostacolo incontrato dai funzionari veneziani nel governo di Cipro fu la gestione della burocrazia e delle magistrature del regno Lusignan e in particolare il fatto che i documenti giuridici e fiscali fossero redatti in francese, che era la lingua ufficiale delle signorie create durante le Crociate. Le autorità dovevano pertanto affidarsi alle traduzioni o interpretazioni dei collaboratori ciprioti. Il governo veneziano conservò la legislazione del regno, cioè le Assise di Gerusalemme, che tuttavia subì con il tempo modifiche e influenze dal diritto veneziano, impiegato più diffusamente nelle cause di natura fiscale che contrapponevano i ciprioti alle autorità veneziane. In ogni caso, le Assise, come gran parte dei libri della cancelleria, non furono neppure tradotte in italiano fino al 1535.


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Famagosta, vista dei Bastioni Martinengo.

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Tale legislazione riconosceva le distinzioni religiose, etniche e culturali dei sudditi del regno: ogni testimone giurava sul libro sacro della propria religione e, per evitare dissensi intercomunitari, i testimoni dell’accusa dovevano appartenere allo stesso gruppo etnico o religioso dell’accusato. Le autorità veneziane non si preoccupavano molto delle divergenze dogmatiche professate dalle varie comunità religiose di cui erano composte le società dello Stato da Mar. Il loro principale interesse era la ricerca di una formula di convivenza pacifica con i propri sudditi non cattolici, che rappresentavano la maggioranza della popolazione locale, e non fu mai avviata una politica di imposizione del dogma cattolico nei domini, così come nella metropoli lagunare. La Repubblica tollerava la conservazione dell’identità culturale e religiosa dei vari gruppi religiosi, fintanto che l’autorità politica del governo veneziano fosse riconosciuta e gli interessi del ceto dirigente tutelati. Nelle occasioni in cui certi prelati veneziani adottavano politiche contro le differenze dogmatiche dei membri delle altre confessioni, soprattutto contro gli ortodossi dei possedimenti orientali, le autorità politiche intervenivano sempre a favore della conservazione della pace religiosa, mitigando i contrasti, con l’obiettivo di prevenire malcontenti ed eventuali insurrezioni dei sudditi. Infatti traspare spesso dai documenti la riconoscenza della popolazione cipriota per la tolleranza religiosa dimostrata dalle autorità veneziane verso le comunità non cat-

toliche. La congiunta celebrazione di alcune grandi feste religiose, come il giorno del patrono san Marco e del Corpus Domini, era l’occasione per dimostrare il buon clima che si respirava fra i membri delle diverse confessioni. Processioni comuni si svolgevano a Cipro anche per chiedere l’intervento divino in tempi particolarmente difficili, come ad esempio per la scomparsa delle cavallette, la fine della siccità, la sconfitta della peste. Senza alcun dubbio il possesso di Cipro, la terza più grande isola del Mediterraneo, posta proprio nel punto più orientale dei collegamenti marittimi con il Vicino Oriente e l’Africa, giovò agli interessi economici e diplomatici della Repubblica lagunare. Ma anche gli stessi ciprioti, di tutti i ceti sociali, ebbero l’opportunità di trarre vantaggi dalla politica veneziana messa in atto sull’isola nel Cinquecento. Ne sono prova l’aumento della popolazione, il rinforzo delle produzioni agricole e artigianali, l’aumento degli studenti ciprioti nelle università italiane, il rinvigorirsi della Chiesa ortodossa. La fedeltà dei ciprioti nei confronti del governo veneziano fu tra l’altro dimostrata con la loro partecipazione alla costruzione a Nicosia di una fortezza più sicura e consona alle nuove modalità di guerra alla vigilia dell’invasione ottomana. Giulio Savorgnan, che ebbe l’incarico di progettare e supervisionare la costruzione della fortezza nel 1567, ammirò l’obbedienza al governo veneziano e la pazienza mostrata dalle migliaia di persone, di varia provenienza sociale, le cui case furono abbattute per diminuire la


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circonferenza delle mura, e lo stoicismo con cui avevano accettato tale decisione delle autorità. Infatti, per completare il progetto oltre 1800 case, quattro bei palazzi, 80 chiese e tre monasteri furono demoliti. Le nuove mura ideate dall’ingegnere friulano sono composte da undici bastioni che portano i nomi di alcuni principali ufficiali veneziani (Mula, Querini, Barbaro, Loredan), o quelli dei nobili che hanno partecipato al finanziamento e all’organizzazione dei lavori (Flatro, Carafa, Podocataro, Costanzo, Davila, Tripoli, Rocas). Il perimetro della cinta muraria è di 4,8 chilometri ed è circondata da un grande fossato, oggi parzialmente riempito. Delle tre porte, quella ad est, la porta Famagosta, inizialmente chiamata Giuliana in onore del Savorgnan, è particolarmente impressionante per l’ampiezza della sua disposizione interna. La seconda porta, a ovest, è la porta di Pafos. La terza, a nord, la porta di Kerynia, ha subìto considerevoli cambiamenti negli anni ‘30 del Novecento, tanto da perdere la sua funzione. Malgrado le aperture fatte nei tempi moderni per facilitare l’accesso alla città al traffico automobilistico, le mura veneziane impressionano ancora per il loro volume e la regolarità della loro disposizione. Le qualità militari di questo lavoro non impedirono però la conquista della città da parte delle truppe ottomane tre anni dopo il loro completamento, il 9 settembre 1570. Le mura di Famagosta invece non furono interamente ricostruite, ma i veneziani ne avevano rinforzato alcune parti e il loro intervento è tuttora eviden-

te in vari punti. La porta del mare, aperta sul porto, ha mantenuto fino ad oggi il proprio arco e i pilastri marmorei decorati secondo i criteri dell’architettura civile del Rinascimento. Sulla sommità si vede ancora il bassorilievo del leone di san Marco e, sotto, l’iscrizione che ricorda il ripristino della torretta da parte del provveditore Nicolò Priuli, nel 1496. La cosiddetta “torre di Othello” difende la porta principale della cittadella e reca, sopra l’entrata, un enorme rilievo di marmo del leone di san Marco, simbolo della potenza veneziana su terra e mare. Un altro importante lavoro difensivo realizzato dai veneziani è il famoso bastione Martinengo, all’angolo nord-ovest delle mura famagostane, considerato uno dei capolavori militari di maggior successo del Rinascimento. Porta il nome del conte Ercole Martinengo che aveva iniziato i lavori nel 1559 e lì morì due anni dopo. Alcuni importanti architetti italiani, come Gian Girolamo Sanmicheli, avevano collaborato a questo progetto. La maggior parte delle testimonianze architettoniche della presenza ufficiale veneziana è concentrata intorno alla piazza centrale di Famagosta. Di fronte alla cattedrale gotica di San Nicola (ora convertita in moschea), quello che era il palazzo reale dei Lusignan fu restaurato e trasformato in Palazzo del Provveditore. Del monumento rimane oggi soltanto l’ingresso con la tripla arcata che formava la facciata del palazzo, su cui è scolpito lo stemma di Giovanni Renier, capitano di Famagosta nel 1552. Davanti al Palazzo del Provveditore e in una posizione centrale

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nella piazza principale sono state erette due colonne, come nella maggior parte delle città sotto dominazione veneziana, riproducenti il modello delle colonne gemelle sulla piazzetta di san Marco a Venezia, che reggono le statue di san Teodoro e del leone marciano. A Famagosta, come a Venezia e altrove, quelle due colonne avevano una funzione cerimoniale per le processioni e le punizioni. Ai primi di luglio del 1570 la flotta ottomana sbarcò a Saline, dopo aver transitato per Pafos e messo a sacco Limassol. Il 6 luglio fu dato alle fiamme il monastero di Stavrovouni, che ancor oggi, secondo la tradizione, custodisce la croce del ladrone pentito e un pezzo della Vera Croce. Fu quell’episodio, secondo le credenze religiose della popolazione cipriota, a preannunciare il destino catastrofico dell’isola: l’assedio di Nicosia non durò più di sei settimane e dopo undici mesi cadde anche Famagosta, con l’uccisione di gran parte della sua popolazione e l’imprigionamento dei sopravvissuti. La sorte riservò la fine peggiore allo strenuo difensore veneziano della città, il capitano Marcantonio Bragadin che fu torturato e scorticato vivo.

Secondo la tradizione, la sua pelle fu spedita come trofeo a Istanbul dove fu tenuta nell’arsenale per poi essere rubata e condotta a Venezia. Inizialmente conservata nella chiesa di San Gregorio, l’urna fu finalmente esposta, il 18 maggio 1596, nella chiesa dei Santi Giovanni e Paolo. La conquista ottomana collocò Cipro in un contesto politico molto più vasto di quello a cui era appartenuta per quasi un secolo quando faceva parte dei domini veneziani, cancellandone il prestigio goduto al tempo in cui era lo scalo principale nella complessa rete di traffici del Mediterraneo e il fornitore primario di Venezia per il grano, lo zucchero, il sale e il cotone. Tuttavia i rapporti dei ciprioti con la città lagunare non si interruppero dopo la conquista ottomana. I profughi furono accolti dalla comunità dei greci di Venezia, nella quale per lungo tempo furono tra i gruppi più numerosi. Inoltre, gli stessi veneziani furono i primi forestieri a ristabilirsi a Cipro dopo l’instaurazione del governo ottomano, ripristinando i rapporti commerciali fra la laguna e l’isola e confermando il secolare coinvolgimento di Cipro nell’economia veneziana.

Nicosia, chiesa di S. Giovanni.

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Limassol, il castello eretto dai Lusignano su fondazioni bizantine.

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gianni perbellini

Capitale militare veneziana

Famagosta Città portuale dove i veneziani gestivano un enorme flusso di denaro derivante dall’intenso commercio sviluppatosi negli anni

Famagosta, palazzo del Governo.

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Cipro, abitata già dall’età della pietra, di cui ha offerto importanti reperti risalenti al neolitico e al calcolitico, già all’inizio del terzo millennio forniva rame ai mercati egiziani e siriani. Non era stata estranea allo sviluppo dell’isola la sua formazione geologica avvenuta tra il cretaceo e il pleistocene con lo scontro tra la placca continentale africana e quella eurasiatica, che ha portato con la subduzione della prima all’innalzamento del massiccio del Trodos (2000 m) e all’affioramento della litosfera oceanica ricca di minerali, mentre con l’abduzione della seconda ha dato vita a nord alla catena del Pentadaktilos (1000 m), costituita da rocce permeabili e quindi importante riserva idrica. Agli estremi dell’isola si collocavano anche i regni delle due maggiori città portuali dell’isola: Paphos a sud ovest e Salamis a nord est. Ai primi coloni prove-

nienti dalle isole Egee risaliva probabilmente il ricco culto di Afrodite che successivamente, sotto i Romani, contribuì a fare della prima il centro politico amministrativo dell’isola, e di Salamis quello commerciale. La vicinanza con la Palestina e la presenza di una rilevante colonia ebrea contribuiva in un secondo momento a trasformare l’isola un importante centro cristiano, grazie alla predicazione degli apostoli: Paolo, Marco e Barnaba, che vi morì lapidato. I terremoti susseguitisi tra il III e il VI secolo squassando le difese, interrando i porti e sommandosi ai raids arabi decretarono la fine delle città costiere, destinate a rinascere come villaggi pedecollinari. Nicosia diventava la capitale del regno Lusignano e poco lontano da Salamis nel XII secolo per mano delle marinerie mediterranee si fondava la città portuale di


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Famagosta, loggia veneziana del Palazzo del Governo sulla piazza centrale, opera di Michele Sanmicheli.

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Famagosta. In questo più generale quadro evolutivo Cipro nei confronti dell’Occidente ha rappresentato l’ultimo approdo sicuro e la piazzaforte latina attraverso cui gestire quell’enorme movimento di denaro, merci e uomini derivante dal flusso commerciale che, raccolto dai mercanti italiani nei porti di Alessandria, Beirut, Tripoli e Siria, era il risultato del secolare monopolio dell’Islam sulla circolazione dell’oro sudanese e sui traffici degli schiavi neri, della seta, del pepe, delle perle dall’estremo Oriente per l’Europa. Inoltre il regno latino di Cipro con la triplice corona dell’isola, di Gerusalemme e dell’Armenia era così strettamente legato ai principati “Outremer” che ogni colpo di mano realizzato dai Saraceni nei loro confronti portava nell’isola profughi, mentre ogni crociata e ogni pellegrinaggio arricchivano il regno Lusignano attraverso il flusso di denaro e ogni spedizione disgraziata di nuovi coloni. Anche sotto il profilo urbanistico le due città differivano: Famagosta era stata impostata su due assi

ortogonali porticati con al centro una grande piazza regolare, la cattedrale e il palazzo reale (poi del provveditore), mentre Nicosia, divisa del fiume Pedieos sulla cui sponda settentrionale erano attestati gli edifici del potere, era conformata come una tipica città orientale, senza piazze e con strade anguste e tortuose. Il Mare Mediterraneo a differenza degli oceani è costituito dai due bacini Orientale e Occidentale che confluiscono in un largo arcipelago meridionale, a sua volta collegato a ovest con l’Atlantico attraverso lo Stretto di Gibilterra e ad est per mezzo della lunga e profonda ingolfatura del Bosforo con il Mar Nero nel cuore dell’Asia. La penisola Italiana divisa dagli Appennini quale spartiacque tra i bacini Orientale e Occidentale, si identifica, dal medioevo fino alla fine dell’epoca moderna, con i due sistemi territoriali di riferimento destinati a veicolare i trasporti marittimi e i traffici centro-europei, tanto con l’Oriente, come con il Nord Africa. Diverse, pur con le stesse tecnologie, erano le


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strategie, e i sistemi di navigazione adottati delle due repubbliche marinare emergenti, Genova e Venezia. I Veneziani, che uscivano della laguna poco profonda, preferivano navi leggere e veloci con motore umano e una navigazione “da costa a costa” con tutta una serie di approdi sul litorale balcanico fino a Corfù, che diventava così la porta del Golfo di Venezia; mentre nell’Egeo il collegamento col Bosforo, Costantinopoli e il Mar Nero, era assicurato dalla Grecia continentale e delle sue isole, di cui Creta, a partire dal XIV secolo, era destinata a diventare il quartiere generale della flotta dello “Stato da Mar”. I Genovesi affacciandosi sul più ampio Mar Tirreno, su cui si aprivano i porti delle marinerie concorrenti, marsigliese, catalana, pisana e amalfitana, erano costretti a più lunghi percorsi in mare aperto che obbligavano che al naviglio minore si affiancasse quello di maggior tonnellaggio, cui il solo motore umano non era più sufficiente. In Sardegna pertanto avevano organizzato gli approdi da cui partivano le rotte per Pantel-

leria, Malta e da qui verso Est, dopo Pera, per il Mar Nero, con recapito finale a Caffa e Tana, oppure per la costa Nord Africana attraverso Cipro. I Marsigliesi e i catalani erano invece costretti su rotte parallele a quelle genovesi per il Nord Africa attraverso Minorca e la Sardegna, nel cui dominio sostituirono i genovesi, contro le cui navi assai spesso esercitavano la pirateria. Quando le crociate ebbero inizio la maggior parte del commercio proveniente dall’estremo oriente seguiva la via marittima attraverso l’Oceano Indiano risalendo poi il Mar Rosso fino all’Egitto, attiratovi dalla ricchezza delle città egiziane e dalle condizioni di sicurezza offerte dal governo Fatimita, facendo preferire questa rotta a quella più antica attraverso il Golfo Persico e Bagdad. Erano state comunque le crociate tra il 1095 e il 1270 a coinvolgere le città marinare italiane, Venezia per prima, nella conquista del Mediterraneo di cui la presa di Gerusalemme nel 1099 con la conseguente

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FAMAGOSTA

Famagosta, veduta panoramnica dai resti della cittadella.

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fondazione dei principati “Outremer”, e l’assedio di Costantinopoli nella IV crociata, sono state testimonianza non tanto del cammino della fede, quanto di quell’espansione mercantile destinata a sopravvivere agli errori, alle reciproche gelosie e agli scontri tra gli stessi cristiani che portarono con la caduta di San Giovanni D’Acri nel 1291 a cancellarne la presenza in Palestina. Il duplice sistema di collegamenti tra il nord e il sud del Mediterraneo parrebbe giustificare all’epoca delle prime crociate la preferenza dei Veneziani per il porto di Acri ed eccezionalmente quello di Tiro, fino a quando non dovettero ricorrere a quello di Famagosta in Cipro, in contrasto con la concorrenza dei genovesi e con quella dei catalani. Con l’insediamento del regno Lusignano (1192) era avvenuto anche il trasferimento a Cipro dei titolari dei vari domini palestinesi man mano che venivano conquistati dai mussulmani, con i relativi istituti giuridici e le tradizioni gerosolimitane. Le Assise di Gerusalemme erano quindi lo strumento con cui l’Alta Corte gestiva le più importanti questioni di governo. Questa impalcatura feudale contrapponeva una classe nobiliare, trasposizione di quella di Gerusalemme, con la relativa conflittualità, a quella mercantile rappresentata da Genovesi, Veneziani, Pisani, Aragonesi e Catalani in concorrenza tra di loro per il monopolio del porto di Famagosta. Infatti quest’ultima città, grazie a

una legislazione privilegiata, si era conformata alle regole del mercato dettate da quella classe imprenditoriale che aveva contribuito a farne un’enclave europea, importante per attività e ricchezze, mentre la capitale Nicosia, che ospitava il patriziato, era ingessata dal regime feudale e dalle lotte dinastiche. Nel 1291 dopo la caduta di San Giovanni d’Acri, per circa un secolo il porto di Famagosta fece la fortuna del regno di Cipro, attraverso l’incremento dell’attività economica, del prestigio e della sua prosperità, dovute ai lucrosi traffici con l’Oriente. A questo periodo appartengono architetture che sono tra i migliori esempi del gotico francese importato dai Lusignano, come: i manieri e i palazzi dalla Corona, le cattedrali e le chiese latine di Nicosia e Famagosta, oltre a conventi come quello di Bellapais o quelli delle comunità trasferite dalla Terrasanta, le chiese ed monasteri ortodossi del contado. Mentre agli inizi de XVI secolo negli ultimi anni del regno di Giacomo II, della regina Caterina Cornaro e sotto il governo della Serenissima “lo stile veneziano” aveva contribuito largamente al rinnovamento dell’architettura civile e religiosa, anche se la “grande storia” ci ha tramandato solo le architetture militari, imponenti per dimensioni e innovazioni tecnologiche, portate alla ribalta dai relativi fatti d’armi. Le guerre, i terremoti e le sostituzioni degli ultimi due secoli hanno infatti pesantemente contribuito a obliterare la


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meno robusta architettura civile, spesso ridotta a reperto archeologico. Nell’isola e in particolare a Famagosta i Veneziani avevano goduto di privilegi a partire dal 1106, ma vi erano presenti anche Genovesi, Anconetani, Fiorentini, Pisani, Catalani e Marsigliesi, tutti con i loro fondaci e le loro logge. Ricchezza e benessere crebbero comunque fino al 1373 quando, la cupidigia e gli interessi attorno ai traffici con l’Oriente, fomentavano la guerra civile, conclusasi con l’occupazione genovese di Famagosta e del suo intorno per due miglia, dando inizio, con la parabola discendente del regno Lusignano, anche al decimo dell’isola. Quando a conclusione delle lotte dinastiche tra Carlotta e il fratellastro Giacomo II, questo finalmente poté affrancare il suo regno, l’alleata Repubblica di Venezia in pochi anni se lo annetteva. Tuttavia le rotte veneziane dal Golfo di Venezia e dalla Grecia verso Costantinopoli e Alessandria d’Egitto costituivano una sorta di liquido stato cuscinetto tra l’impero spagnolo, che controllava il Mediterraneo Occidentale, e quello Ottomano, che dominava i Balcani e i territori Mediorientali Egitto compreso. Lo “Stato da Mar” della Serenissima era quindi destinato a pagare lo scontro tra questi due imperi e pertanto l’Isola di Cipro, nonostante gli enormi capitali spesi per la sua difesa e l’eroismo dei contingenti veneziani, finiva in mani ottomane nel 1571.

“Volpe l’avesti, Lionessa la perdi, e mestamente ruggendo il volo piegherai su Creta” scrisse Aleardi nella sua tragedia sul Bragadino. Per la Serenissima comunque la perdita di Cipro non veniva in alcun modo risarcita dalla vittoria di Lepanto un mese più tardi. Vittoria che paradossalmente con i trattati con la Sublime Porta nel 1574 (Venezia) e nel 1580 (Spagna), segnava l’inizio del declino dell’Europa Cattolica e la fortuna di quella Protestante, che aveva scommesso sulla scienza, la conoscenza e il progresso, oltre che sulle rotte Atlantiche. Con l’occupazione Ottomana Cipro e in particolare la città di Famagosta, un tempo ricordate per gli agi ed il lusso dei suoi abitanti nell’immaginario occidentale, diventavano così il luogo delle atrocità turchesche, nell’ambito di una ben orchestrata campagna di divulgazione, utile anche a far dimenticare quanto che veniva perpetrato dalle stesse nazioni europee. Le difese dell’Isola ereditate da Venezia costituivano un complesso, tutt’altro che omogeneo concepito come risposta ad esigenze legate a situazioni geo-politiche maturate dopo l’avvento del regno Lusignano e quindi prodotto della serie di lotte dinastiche che le avevano determinate. Tali difese erano articolate in almeno tre diversi scacchieri: quello costituito dai castelli della montagna, quelli territoriali sudorientale e orientale, le difese della capitale Nicosia, nei cui confronti Famagosta rappresentava l’antipolo.

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Nicosia, bastione Costanza.

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Venezia, ai primi del Cinquecento, aveva preso possesso di Cipro in un periodo in cui, dopo aver esteso e consolidato lo “Stato di Terra”, stava soffrendo della reazione degli stati italiani congiuntamente alla pressione delle grandi monarchie nazionali esercitate con successo sui suoi confini. In questo scenario la stessa sopravvivenza della Repubblica era in pericolo e quindi a Cipro nell’immediato ogni intervento non poteva essere che limitato. Tuttavia dal punto di vista politico la Serenissima, che subentrando nel governo di Cipro ai Lusignano aveva ereditato un sistema difensivo del tutto obsoleto nei confronti della guerra moderna, non poteva ignorare il pericolo incombente costituito dall’espansione Ottomana e dalle pretese della Spagna. Pertanto in prospettiva le opere difensive finirono per assumere ogni priorità e ad esse vennero destinati notevoli finanziamenti e vi furono impegnati i migliori ingegni dell’epoca nello studio di un imponente complesso di fortificazioni nella cui realizzazione la stessa popolazione fu, suo malgrado, coinvolta. Venezia schiacciata tra l’impero spagnolo e quello ottomano cui era rimasta la sola a far fronte, non potendo contare per la scarsità di uomini e mezzi su di un diffuso scacchiere di fortificazioni, come sarebbe stato più vantaggioso, decideva di concentrare le difese dell’isola a Famagosta e in un’unica moderna piazzaforte da realizzare sulla costa centro-orientale; ma lo stato di ribellione latente delle campagne e le pressioni della nobiltà le fecero invece scegliere di fortificare Nicosia, come polo centrale di un trian-

golo che aveva ai vertici Famagosta e Kyrenia quali fortezze portuali. Sperimentata al tempo della guerra con i collegati della lega di Cambrais “la guerra d’ingegno”, questa si realizzava a Cipro attraverso una convulsa azione diplomatica sui fronti europeo e ottomano, strumentalmente supportata dall’esibizione di piazzeforti vantate come eccezionalmente sicure, tra cui figuravano l’innovazione delle bastionature adottata a Famagosta col Martinengo dai Sanmicheli e la cinta ad undici bastioni reali di Giulio Savorgnano a Nicosia, interventi comunque in anticipo di almeno un secolo sulla cultura militare dell’epoca. Il villaggio e il porto di pescatori sorto sulle rovine dell’antico insediamento di Arsinoe (300 a.C.), assunse importanza dopo che i terremoti e i raids Saraceni nel 648 (d.C.) ebbero distrutto Salamina (Constantia), diventando la tappa quasi obbligata delle spedizioni sulle rotte della Terra Santa. Dopo la perdita di Acri nel 1291, Famagosta era diventata uno dei più importanti empori del Mediterraneo Meridionale, ospitando le Logge e i Fondaci delle varie marinerie europee, oltre un gran numero di chiese, conventi e ospizi di diversi culti cristiani. Originariamente la città era nata a ridosso di un piccolo insediamento di pescatori, da una descrizione del 1211 le sue difese dovevano essere limitate ad est a una torre all’accesso del porto, essendo il lato nord accidentato garantito da una serie di paludose cavità naturali e il vertice sud-est protetto da un’altra torre. Enrico I nel


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1232, per garantire il controllo fiscale dei traffici alla corona, occupava la torre del porto che Enrico II nel 1310 sostituiva con il castello completato con le prime difese urbane da Amalrico nel 1332. Macheras ricorda anche la torre della catena eretta di fronte al castello nel 1368. Queste prime difese riguardanti sopratutto il fronte mare erano destinate a incrementarsi nel momento in cui esplodevano le tensioni tra il governo dell’isola e la borghesia mercantile di Famagosta, tant’è che nel 1372 in seguito ai disordini per la sua incoronazione Pietro II doveva sventare un attacco dei Genovesi, cui però la città dovette arrendersi l’anno successivo nell’assedio condotto da Giano da Campofregoso. Famagosta e il suo intorno passavano così sotto il governo delle Maone Genovesi che per tutto il periodo della loro occupazione (1372-1464), ne razionalizzavano e potenziavano le difese urbane con alte mura fiancheggiate da torri e bertesche, tanto da resistere a ben cinque assedi condotti dai re di Cipro dal 1383 fino a quello conclusivo del 1464. Nel XIV secolo infatti le lotte dinastiche tra i Lusignano e quelle tra le marinerie avevano finito per condurre a un secolo di guerre, col risultato di assegnare la città in regime di extraterritorialità alla Repubblica di San Giorgio e far diventare il Regno vassallo del Sultano d’Egitto. Stato di cose da cui Cipro usciva solo dopo il 1464, grazie al matrimonio del Re Giacomo II con Caterina Cornaro e quindi a quell’apparentamento con Venezia, che comunque avrebbe portato nel 1474 al suo protettorato sull’isola e nel 1489 la Serenissima

Repubblica di San Marco, a divenire Regina di Cipro. Dopo il 1489 la riorganizzazione politico-amministrativa dell’isola faceva di Famagosta la sede del capitanato militare dell’isola, conservando a Nicosia il ruolo di capitale sede del governatorato. Suddivisione dei compiti e dei poteri che attraverso l’individuazione di due responsabili pressoché paritetici finiva per reinnescare anche il vecchio contrasto tra le due città. Gli esiti nefasti di questa divisione furono infatti nel 1570 la repentina conquista di Nicosia e di buona parte dell’isola da parte delle armate ottomane. Le attenzioni Venezia, date le scarse risorse finanziarie e umane disponibili, erano state prioritariamente concentrate nella difesa della città portuale di Famagosta. Nicosia, poco edificata ma troppo estesa e difesa da un perimetro di mura tanto vasto quanto obsoleto, come piazzaforte richiedeva infatti un intervento eccezionale tanto da far pensare alla sua sostituzione con una fortezza reale. Nonostante che i Genovesi si fossero appropriati di Famagosta e detenessero l’uso esclusivo del suo porto, i Veneziani godevano ancora di ampie concessione sulle saline e in varie aree del territorio circostante da cui ricavano grano, zucchero e cotone, pertanto le varie torri costiere nate come difesa anticorsara, assunsero la funzione di sentinelle esterne, in particolare dopo l’apertura dell’approdo alternativo nella baia di Larnaca (Saline). Salvo poi diventare inutili dopo l’avvento a Cipro della Serenissima al potere. Venivano conservati in uso soltanto il torrione di Larnaca e il castello di

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Nicosia, antico palazzo veneziano del XV sec.

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Limassol, nonostanti i molti dubbi sulla loro utilità. Il primo, presso le grandi saline naturali, continuava infatti a costituire, sia pur con le sue contenute dimensioni, la difesa dell’omonimo approdo. L’importante castello medievale di Limassol ormai obsoleto non costituiva invece più un’efficace difesa, tanto che era stato più volte preso, incendiato e distrutto dai mamelucchi e soltanto nella terza decade del cinquecento veniva dai Veneziani massicciamente incamiciato e trasformato in una specie di blockhause artiglieresco a supporto di quel porto.

Le torri di Alaminos e di Pyla, ancora di impianto medievale erano strutturate su due livelli con accesso a quello più alto protetto da bertesca, solamente quella di Kiti aveva caratteristiche cinquecentesche con paramento in conci di pietra, scarpa basamentale coronata da toro e si concludeva con un apparato perimetrale sporgente su gattoni, nella fase finale il loro apporto sul piano militare era del tutto inconsistente, data anche la scarsità di uomini per presidiarle. La scelta di privilegiare la difesa di Famagosta e di Nicosia aveva però comportato l’abbandono sulla costa


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occidentale anche dei castelli medievali nel porto di Paphos e similmente a settentrione quelli sul Pentadaktilo di Sant’Ilario, Buffavento e Kantara obsoleti e di difficile accesso, salvo alla vigilia dell’assedio di Nicosia inviare a Sant’Ilario tutti coloro che non erano in grado di combattere in città. Diversamente, nonostante la città di Kyrenia (Girne) con la sua fortezza fosse nel cinquecento la terza località portuale dell’isola, a causa della sua collocazione e del suo porto troppo piccolo, era ritenuta insicura e inutile dagli esperti militari veneziani come

Giangirolamo Sanmicheli, che l’aveva fatta oggetto di un dettagliato rilievo, o da Ascanio Savorgnano. Entrambi infatti avevano suggerito la sua sostituzione e quella della stessa capitale Nicosia con la nuova moderna fortezza la cui erezione era proposta nella piana tra Larnaca e Limassol. I Veneziani, pur dubbiosi e ancora nell’incertezza di rafforzare le difese di Nicosia, nell’ipotesi di fare di Kyrenia il porto e la piazzaforte di soccorso del sistema difensivo cipriota, non trascurando le possibilità offerte dal solido anche se obsoleto castello, che aveva resistito agli assedi del 1373 e del

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Larnaca, lago salato.

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1426, incamicivano robustamente le sue cortine orientali e meridionali e aggiungevano due grossi baluardi cilindrici ai vertici nord-occidentale e sud-orientale (1508) e un protobastione pentagonale a quello sudoccidentale (1544), tutti equipaggiati con cannoniere casamattate. Il sistema era completato da una serie di gallerie di collegamento alle camere di fuoco per le artiglierie manuali a livello degli spalti e nei baluardi da un’articolata rete di distribuzione alle camere di tiro sotterranee destinate alle artiglierie pesanti. Seppur strategicamente del tutto inutili al mantenimento dell’isola nel 1571, noi dobbiamo agli interventi veneziani se oggi possiamo ammirare la fortezza di Kyrenia, esempio pressoché unico in Europa, che compendia tra le sue mura l’intero ciclo evolutivo dal castello bizantino, crociato e gotico fino alla fortificazione rinascimentale, parallela risposta allo sviluppo sia delle armi nervobalistiche che di quelle da fuoco dell’epoca moderna. La riorganizzazione delle mura di Famagosta, era iniziata ancora nel 1474 durante il regno di Caterina, ma per la maggior parte si era completata intorno al 1560 con il risultato, attraverso una massiccia cotroplaccatura delle mura, di assicurare con il loro rafforzamento strutturale anche la rapida ed effettiva mobilità delle artiglierie e delle macchine da guerra, permettendo di raggiungere i punti più elevati della fortificazione ai carriaggi ippotrainati. I lavori hanno comportato, con tempi e ruoli diversi, l’impegno di diversi esperti tra cui: Giacometto da Novello (1520), il Cav. Orologi (1536), Ercole Martinengo (1555), Michele Sanmicheli (1538-40) con il nipote Giangirolamo (1548-1558) ed il cognato Luigi Brugnoli, Agostino Chisone, Gian Battista Zanchi (1561), Ascanio (1562) e Giulio Savorgnano (1567) con Giovanni Magagnati, oltre ai molti comandanti militari che si sono succeduti nel corso delle operazioni belliche, tra questi l’ing. Girolamo Maggi, che sembra abbia sovrinteso all’erezione dei cavalieri e delle ritirate sugli spalti. Le integrazioni e le sostituzioni venete, grazie all’esperienza guadagnata dalla Serenissima durante le guerre della lega di Cambrais con Bartolomeo D’Alviano e Fra’ Giocondo e i riferimenti della lunga serie di studi e realizzazioni di Francesco di Giorgio, del Fran-

cione, dei Sangallo, del Peruzzi, di Basilio della Scola, o dei Della Rovere, avevano così trasformato le mura di Famagosta in uno dei monumenti più completi del repertorio evolutivo delle difese urbane dal medioevo all’epoca moderna delle armi da fuoco, collaudato dal lungo e duro assedio subito. Con il rinnovamento delle difese urbiche il primo nucleo fortificato costituito dal Castello Lusignano, che ne occupava la porzione centrale verso il mare ed il porto, veniva ad assumere la funzione di cittadella (Castello da Mar), come in molte altre fortezze venete, nell’Egeo ed a Candia. Concludeva il ciclo innovativo il bastione Martinengo, sintesi per mano dei Sanmicheli degli studi e delle realizzazioni degli architetti grazie alla cui esperienza la Serenissima Repubblica direttamente, od indirettamente, aveva potuto costruire la sua scuola fortificatoria. Oggi la città storica di Famagosta (Magusa, Ammochostos) ha una superficie di circa 555.000 m², racchiusa da una cinta difensiva, che ha un perimetro di 3500 m ed un’altezza variabile dai 13 ai 15 m e si affaccia sul mare ad Est, mentre a Nord, Sud ed Ovest è circondata da un fossato tagliato nel tufo largo 30m e profondo dagli 8 ai 2m contenuto verso terra da una robusta controscarpa. Il fronte verso città delle mura è stato rivestito da un largo ramparo terrapienato di circa 42.000 m², il cui fronte verso mare venne sacrificato in epoca coloniale britannica per far posto ai magazzini del porto. Le mura, dopo l’incamiciatura veneziana (N. Priuli 1496), risultavano fiancheggiate da nove baluardi cilindrici per dimensione, forma ed allestimento ancora quattrocenteschi (Diocare, Moratto, Pulacazaro, San Luca, Mozzo, Signoria, Sta Barbara, Andruzzi, Sta Napa), da due baluardi sicuramente cinquecenteschi (Diamante, Arsenale), dal baluardo del Rivellino (databile alla fine del ‘400 e formalmente simile ai bastioni di Rodi), dal grande bastione Martinego (ultima opera di G.G. Sanmicheli 1558), da una cittadella (la torre di Otello) circondata verso terra da un largo fossato acqueo, dopo il rafforzamento veneziano (N. Foscari 1491) con quattro baluardetti di vertice ed una traversa a difesa dell’accesso al porto, controfacciata dalla torre della catena sugli scogli fronteggianti.


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Gli accessi principali alla città erano costituiti: dalla Porta del Mare a metà delle cortine orientali, ricavata a baionetta nell’omonimo baluardetto in cui era aperto un arco elegantemente inquadrato da due lesene e coronato con il leone di San Marco (N. Priuli 1496) e dalla Porta di Terra o di Limassol, complessa struttura ricavata sui fianche del rivellino sul vertice sud-occidentale anteposto alla torre-porta Lusignano-genovese. A questi due si aggiungevano due pusterle una aperta nelle cortine meridionali ed una in quelle settentrionali. Trasformate la prima nella porta di Limassol in sostituzione dell’omonima veneziana in epoca ottomana e la seconda in porta carraia dall’amministrazione coloniale britannica, a cui si devono anche in occasione della realizzazione della banchine del porto i quattro varchi nelle cortine orientali. Per quanto riguarda il perimetro delle mura tecnicamente il rafforzamento veneziano era consisito nell’erezione di un robusto muro in regolari conci di tufo esterno a quello medievale controplaccato al suo interno da un largo spalto terrapienato i cui vani sottostanti servivano da depositi o ritirate, come suggerito da Ascanio Savorgnano. Alla assoluta inefficienza dei baluardetti di fiancheggiamento, ancora nelle forme della transizione, si era sopperito con una serie di nove cavalieri (Rivellino, Moratto, San Luca, Mozzo, Diamante, Arsenale,Cimitero, Andruzzi, Sta Napa) eretti sugli spalti ed il recupero per lo stesso uso di una preesistente torre (del bast-i-one) sulla spalla nord della gola del bastione Martinengo. Egualmente si era rafforzata la cittadella con un robusto muro esterno al castello ed alle sue quattro torri realizzando al suo interno una serie di gallerie le cui terrazze sommitali potevano ospitare in barbetta le artiglierie, anche in questo caso tre nuovi baluardetti ed un più tardo torrione circolare garantivano i vertici. Il secondo piano del castello affacciato sul mare veniva sacrificato per ospitare i cannoni come gli altri tre lati. Il collegamento con la città era garantito da un rivellino, ora scomparso, e da una porta aperta a lato del baluardo sud-orientale (N. Foscari 1491). Nel complesso delle difese di Famagosta due sono le opere innovative nel panorama dell’architettura mi-

litare tardo quattrocentesco e tardo cinquecentesco: il Rivellino e il bastione Martinengo. Il primo, essendovi presenti le insegne Lusignano, T. Mogabgab ritiene appartenga al periodo della regina Caterina, ipotesi plausibile per essere stato riprodotto nel modello ligneo veneziano erroneamente intitolato “Maina in Morea” (1489-96) ed infine per la sua chiara derivazione dai rivellini di Francesco di Giorgio, cui erano ispirati anche quelli di Rodi. Tale fortificazione sita nel vertice sud della nuova cinta urbana anticipava con un baluardo semicircolare, affondato nel fossato e più basso, la torre costruita dai Lusignano appena fuori Famagosta e rinnovata dai Genovesi quale porta urbica, che ne diventava così il cavaliere. Gli spalti perimetrali casamattati erano supportati da due gallerie sovrapposte, di contromina quella basamentale e quale camera di tiro quella superiore, la cui copertura era ancora destinata ad accogliere alcuni pezzi di artiglieria in barbetta. Esempio pressoché unico per l’epoca, sui fianchi della mezzaluna erano ricavate due porte contrapposte con ponti levatoi sul fossato, passaggi carrai e pusterle pedonali, che confluendo in un’unica piazza d’armi, erano ancora raccordate da un passaggio aereo con la torre-porta retrostante, da cui la nuova opera era divisa da un profondo fossato interno. Mentre lo stazionamento del corpo di guardia era protetto dal portico di supporto del terrazzo sommitale, una serie di gallerie e passaggi casamattati premettevano un sicuro collegamento con la torre retrostante, le mura e le sortite al fossato. Dato il suo ruolo strategico nei confronti del fronte sud delle mura, quello più contrastato durante l’assedio del 1571, fu gravemente danneggiato dalle mine contrapposte di entrambe le fazioni con un gran numero di caduti. Gli Ottomani, una volta conquistata la piazzaforte, restaurarono il rivellino, che, eliminati i ponti levatoi sul fossato e chiuse le porte originali, veniva riutilizzato come opera avanzata di fiancheggiamento, mentre la nuova porta di Limassol, collegata da un ponte in muratura, veniva aperta lateralmente nelle cortine sud. Diversamente il bastione Martinengo viene realizzato nel vertice Nord-Ovest intorno al 1557-60, nel quadro di un programma di ammodernamento della cinta

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Larnaca, fortezza fondata dai Turchi nel 1625 e successivamente rafforzata dai veneziani.

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di Famagosta, di cui rimase l’unica realizzazione “moderna”. Sostituisce la torre genovese Maruffi e ingloba mezzo baluardo di San Luca che utilizza come difesa di gola, sia a livello del fossato che in elevazione, con la creazione dell’omonimo cavaliere, parallelamente sull’altro fianco a un preesistente torrione arretrato (forse Lusignano) che diventa il cavaliere del bastione. Il complesso rappresenta la più matura realizzazione della scuola fortificatoria veneziana dell’epoca, così efficiente che gli ottomani nell’assedio del 1570-71 non lo attacarono mai seriamente. Il bastione planimetricamente ha schema pentagonale è stato elevato per circa un terzo dei 15 m della sua altezza sul banco roccioso in cui è scavato il

fossato; ha facce di circa 100 m e fianchi di poco più di 40 m, ritirati dietro un ampio musone a protezione delle piazze basse, destinate a ospitare il portico della batteria coperto da voltoni a prova di bomba, ma aperto su una ridotta corte d’armi fronteggiante gli alti e robusti merloni. Su entrambi i fianchi delle piazze basse ripide scale in spessore di muro permettono di raggiungere le porte delle sortite verso il fossato. Tutte le camere di tiro casamattate erano dotate di adeguati camini (sospiri) di sfiato dei fumi e gli spalti merlati di nicchie e rientri come riservette di munizioni. Dal piano della città tre ampie rampe consentivano a uomini e carriaggi di raggiungere la sommità del corpo centrale e le due


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barrerie basse, a loro volta collegate tra di loro da una galleria e da scale interne con gli spalti superiori. I cavalieri di San Luca e del Martinengo (del bastione), sul fronte di gola, ma arretrati rispetto ai fianchi, costituivano infatti la sede per ulteriori batterie soprelevate per i tiri di lunga gittata ed offrivano nelle sottostanti casematte protezione alle fanterie della piazza alta del bastione durante i bombardamenti dell’assediante. L’azione della difesa poteva così differenziarsi su tre piani diversi e con ruoli differenti, a seconda che si trattasse di fiancheggiare le mura con le batterie basse, battere il terreno antistante la controscarpa del fossato con quelle della piattaforma sommitale, oppure la campagna dall’alto dei cavalieri arretrati. L’arti-

colato impianto difensivo raggiungeva così l’obiettivo di ogni guerra d’assedio di separare gli organi destinati alla difesa ravvicinata da quelli destinati ad agire lontano, sottraendo all’azione remota le opere di protezione dei mezzi e degli uomini che dovevano entrare in azione al momento dell’attacco ravvicinato. Il bastione Martinengo mancava ancora dei merloni e degli allestimenti definitivi quando nel 1559 improvvisamente a soli venticinque anni moriva di malaria o di veleno in cantiere a Famagosta il suo ideatore Giangirolamo Sanmicheli, seguito poco dopo da Michele il suo più celebre zio, concludendo così con quest’ultima opera la storia di questa famiglia di architetti pionieri dell’architettura militare moderna.

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Limassol, il castello eretto dai Lusignano su fondazioni bizantine.

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Alaminos, antica torre veneziana.

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Con il passaggio della città in mani Ottomane il bastione, ancora in ottime condizioni, veniva orgogliosamente manutenuto e conservato, quale simbolo della grandezza dei vincitori che avevano saputo conquistare un’opera così tecnologigamente avanzata ai Veneziani. I due modelli lignei di Famagosta presso il museo navale di Venezia Circa le fortificazioni di Famagosta presso il Museo dell’Arsenale di Venezia, si trovano un modello della stessa città intitolato “Fortezza di Famagosta Isola di Cipro”, peraltro poco rispondente al vero, ed un secondo modello, intitolato “ Maina in Morea”. Mentre il catalogo ottocentesco dei modelli e dei disegni delle piazzeforti della Serenissima, pur

citando diversi disegni riferiti a Famagosta, riporta un solo modello, del secondo non figura traccia, neppure come Città di Maina. Circa il primo modello, la data risulta sicuramente più tarda di quella annotata, e nel complesso piuttosto che un rilievo di stato di consistenza, sembra il risultato di una serie di appunti presi dalla coffa dell’albero maestro di una nave al largo del porto, tenendo conto anche di riferimenti a cronache risalenti all’occupazione genovese ed a quelle dell’assedio Ottomano del 1571. Il parallelismo e le somiglianze con la pianta redatta da Antonio Tempesta e pubblicata dal Merian nel 1649, fanno pensare a una fonte romana, alternativa a quella veneziana. Ma se questa è la provenienza di una


Pyla, antica torre del XIV sec. Costruita con conci di recupero in pietra squadrata si sviluppa su tre piani elevati su di una massiccia cisterna basamentale, in cui in epoca piÚ tarda è stato aperto un varco di accesso.

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Kiti, torre di tipica architettura veneziana è la più elegante di questo sistema fortificato, elevata su di un’altrura di fronte al mare poteva scambiare messaggi verso l’entroterra con quella di Alaminos, e verso il mare con il castello di Larnaca. Nella pagina seguente il castello di Kantara il più ad est dei castelli medievali che sorge sul complesso montuoso detto delle “cinque dita”. La sua origine risale al IX sec come fortezza bizantina. Il castello fu ricostruito.

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cartografia romana e fiamminga relativa a Famagosta, non basata su documenti gelosamente conservati e protetti negli archivi Veneziani, è curiosa la presenza, presso i magistrati alle fortezze di Venezia, di un modello ligneo, successivo alla costruzione del bastione sanmicheliano nel 1558, non relazionato né al rapporto di Ascanio Savorgnano, né ai progetti conservati nel relativo catalogo e contenente informazioni a dir poco inesatte nei confronti della realtà del sito. All’opposto il modello intitolato “Maina in Morea” riproduce con grande precisione la cinta difensiva tanto da risultare sovrapponibile al rilievo catastale del 1929. La mancanza del bastione Martinengo nel vertice nord-occidentale ci permette di consideralo come la rappresentazione dello stato della fortezza tra il 1489 ed il 1496, come aveva supposto anche G. Jeffery . Trattandosi di un modello ligneo delle architetture militari era tradizione che lo stato dei suoli e le opere difensive fossero rappresentate in tre dimensioni, mentre il tessuto civile della città, spesso omesso, era solo disegnato in modo del tutto simbolico se non ca-

suale, nel nostro caso e per entrambi i modelli, tanto da apparire opera di un’altra mano (magari in occasione del restauro ottocentesco). Oltre al complesso delle opere veneziane di rafforzamento realizzate nelle ultime decadi del Quattrocento, di notevole interesse risulta anche la serie, sempre in rilievo, dei volumi edificati dipinti in rosso ed addossati all’interno della cinta difensiva che, staccati dalle cortine dello spessore del muro di rafforzamento veneziano, potrebbero rappresentare alcuni elementi delle mura Lusignano e Genovese. Era infatti consuetudine medievale realizzare a ridosso dell’interno delle cortine le fabbriche strategicamente rilevanti di coloro che erano maggiormente interessati alla difesa della città, che a Famagosta equivalevano agli ospizi, ai fondaci, od ai magazzini delle varie istituzioni o delle marinerie straniere, sostituite dai vari soci delle Maone, dopo la presa del potere da parte dei genovesi. Questi edifici blindati erano molto probabilmente a quell’epoca connessi o facevano parte integrante del numero di torri e bertesche, cui fanno riferimento gli atti dei notai geno-


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Kantara, il castello a precipizio sul mare presidiato dai veneziani fino al 1525.

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Kyrenia, il porto. Tipica cittadina di mare costruita intorno a un porto scenografico, al cui lato sorge un castello risultato di diverse addizioni nei secoli a partire da una struttura romana, le cui modifiche principali sono comunque dovute al periodo veneziano.

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vesi, che ne citano un numero assai superiore a quello dei successivi baluardi veneziani. Il rafforzamento veneziano successivamente alla data del modello, dopo la cimatura delle emergenze, ha celato sotto un robusto terrapieno questi edifici trasformandoli nei collegamenti sotterranei o nelle ritirate, citate dalle cronache dell’assedio del 1570-71, che trasformate in una seconda linea difensiva, hanno contribuito alla lunga e proficua resistenza del fronte sud. Il modello definisce anche verso città l’area di un’ampia zona militarizzata, racchiusa da un muro che perimetra con continuità l’interno delle mura a est e a nord, secondo la tradizione medioevale nord-italiana, perpetuata ancora nel Cinquecento, di separare fisicamente le aree militari a ridosso delle mura da quelle civili della città, allo scopo di controllarne l’uso, di evitare episodi di spionaggio, e di costituire un ulteriore ostacolo al nemico eventualmente infiltratosi. Tale muro e area militarizzata probabilmente preesistevano all’intervento veneziano se negli atti genovesi del giudizio contro il capitano di Famagosta Napoleone Lomellini tra le altre accuse, figura quella di aver permesso, contrariamente agli statuti, ai Catalani di andare il giro per le mura di giorno e di notte. L’area militarizzata nella zona nord-occidentale racchiude anche tutta una serie di cavità e vani ipogei, nell’ultimo secolo terrapienati, che la planimetria catastale del 1929 definisce come cave di pietra tufacea, materiale con cui sono state costruite le mura, che durante l’assedio del 1571 è servito anche per ripare la notte i guasti apportatevi dalle artiglierie ottomane durante il giorno. Interessante rilevare come in alcune delle cavità suddette, entro e fuori le mura, sia indicata la presenza d’acqua stagnante, che confermerebbe la fama di insalubre della zona, giustificando le morti

di febbre terzana come quelle più note dei re Lusignano Giacomo II e Giacomo III, o dell’architetto Giangirolamo Sammicheli. Il lungo anno di assedio tra il 1570 e il 1571 con il bombardamento della città da parte dei grossi calibri delle artiglierie ottomane oltre ad infierire contro le opere militari perseguiva la ben mirata distruzione degli edifici simbolo del potere o religiosi, coinvolgendo però anche le private abitazioni con l’obiettivo di minare il morale e fiaccare la resistenza della popolazione. All’atto della resa nell’agosto del 1571 la maggior parte delle chiese più importanti, il palazzo del provveditore e molti edifici mercantili erano infatti in rovina se non pressoché distrutti. L’amministrazione ottomana subentrata a quella veneziana, mentre sollecitamente ripristinava le strutture difensive, provvedeva solo al ripristino e alla rifunzionalizzazione delle poche chiese trasformate in moschee, lasciando allo stato di rudere la gran massa delle altre del tutto inutili alla nuova religione di stato o a quella cristiano-ortodossa ancora tollerata. Lo spesso palazzo del provveditore sulla piazza principale era praticamente abbandonato nel suo stato di rovina. Gli archi della loggia sanmicheliana sulla piazza arricchiti da una fontana e la cattedrale cattolica di San Nicolò (ora moschea Lala Mustafà Pascià), con a fianco la loggetta di una scuola cui erano state addossate le due colonne veneziane, restituivano l’immagine del fastoso centro della città, mentre le abitazioni ed i magazzini venivano in qualche modo ancora recuperati ad uso di una popolazione numericamente notevolmente inferiore a quella del passato. A questa desolante situazione dell’architettura civile della città si aggiungevano però dopo il subentro


FAMAGOSTA

dell’amministrazione britannica il forsennato saccheggio dagli edifici abbandonati dei materiali lapidei che venivano trasferiti a Porto Said in Egitto per essere impiegati nei lavori di costruzione del Canale di Suez. Gli edifici già in rovina sono stati così trasformati nei ruderi di una moderna Pompei. Il risultato era così sconvolgente da far annotare allo scrittore Lawrence Durrel, l’ultimo ufficiale del servizio informazioni del governo coloniale britannico: “Abbiamo lasciato che venissero distrutte sotto il nostro naso le due città fortificate che potevano rivaleggiare con Carcassonne, quando un minimo di pianificazione urbanistica le avrebbe salvate e fatte fruttare milioni con il turismo”. Degli edifici civili di Famagosta veneziana restano oggi la loggia e una parte delle vuote mura del palazzo del provveditore, le due colonne della piazza, qualche portale ricollocato e pochi frammenti dispersi. Ciononostante la città storica sopravvive nelle sue fortificazioni, ma soprattutto nella sua condizione di reperto archeologico vivente trasformato dalla storia ha in uno dei miti della civiltà veneziana ed europea. Nei tre secoli che seguirono la sua conquista nel 1571, Cipro rimase saldamente ancorata all’impero ottomano, di cui partecipò alle alterne vicende politicoamministrative, ma anche al suo lento usurarsi. Con la deposizione di Maometto IV (1687) era infatti iniziata la decadenza dell’impero ottomano, che pur aveva guadagnato la leadership dell’Islam trasferendone la capitale a Costantinopoli ed era stato capace di colonizzare i Balcani, di assoggettare il Nord-Africa e di ammassare enormi riserve auree, grazie ad un esercito efficiente e rigidamente organizzato, al lavoro forzato, a una burocrazia autoritaria e progressista, attraverso una politica interna omogenea. Nel Mediterraneo Ve-

nezia e Costantinopoli avevano continuato a confrontarsi con alterno successo, come per la Serenissima la riconquista della Morea da parte del Morosini (16841697), e per la Sublime Porta l’assedio di Corfù (1718) difesa dallo Schulemburg, e la ripresa agli austriaci di Belgrado (1738). A Cipro le colonizzazioni veneta, ottomana e britannica ebbero in misura maggiore o minore a confliggere non con la mancanza, ma con l’eccesso di storia del suo popolo, l’isola nell’ottica di queste nazioni era considerata la stazione del settore est del Mediterraneo, dove truppe e armamenti potevano trovare quartiere, fino alla seconda guerra mondiale quando era diventata un’importante base della Royal Air Force. Successivamente nonostante che le ragioni dell’occupazione sembrassero affievolite a Cipro veniva concessa l’indipendenza soltanto con il trattato di Zurigo, ratificato dalla conferenza di Londra nel 1959, coronando le ormai secolari aspirazioni e le lotte che avevano insanguinato l’isola nell’ultimo decennio del governo britannico. La giovane repubblica cipriota nasceva però con tre tutori (Inghilterra, Grecia e Turchia) le cui politiche spesso divergevano, quasi mai coincidevano con la loro responsabilità di garanti, e comunque, assai presto, avrebbero finito per collidere in nuovi scontri armati cui l’ONU poneva fine a scapito della stessa indipendenza e dell’integrità territoriale. Infatti avvenimenti, come il colpo di stato, di ispirazione greca, contro il presidente della repubblica e la reazione dell’esercito turco, si concludevano, dopo nuovi lutti e rovine, interponendo un’area di dissuasione vigilata dall’ONU, al centro di un paese artificialmente diviso in due comunità, le cui reciproche ostilità solo ora si stanno affievolendo, lasciando sperare in un futuro riavvicinamento.

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Kyrenia, il castello ebbe un ruolo importante durante il governo dei Lusignani. Costruito nel primo periodo romano, a quell’epoca nei castelli si collocavano i cavalieri e gli strelizzi armati. È probabile che l’edificio principale del castello di Kyrenia fu costruito nel periodo bizantino nel VII secolo. Nei periodi dei Lusignani e dei veneziani al castello furono annesse le altre strutture. E’ noto che la maggior parte del castello contemporaneo fu costruito sotto John d’Ibelin nel 1208-1211. Nello stesso tempo furono utilizzate delle fortezze che risalgono al primo periodo romano e che si sono conservate fin’ora. Quando nel 1489 i veneziani presero sotto controllo il castello di Kyrenia, fecero una ristrutturazione per la difesa dell’artiglieria osmanica. Subito dopo la caduta di Nicosia nel 1570 i veneziari cedettero il castello di Kyrenia agli osmanici.

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Kyrenia, interni del castello.

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Kyrenia antichi magazzini adiacenti il porto.

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Lucio costantini

Agosto 1570 - 1571

L’assedio La narrazione di fatti drammatici avvenuti a Famagosta fatta da un cronista d’eccezione: Emilio Salgari

Famagosta, , vista delle mura veneziane e del baluardo Diocare.

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E

milio Salgari (1862 - 1911) lo scrittore veronese noto alla maggioranza dei lettori soprattutto come creatore di personaggi ben radicati nell’immaginario collettivo quali Sandokan, Yanez, Tremal-Naik o il Corsaro Nero, ha dato alle stampe romanzi ambientati in quasi tutte le parti del mondo, dall’Alaska all’Oceania. Alcune opere, come, La capitana del Yucatan (1899) o L’eroina di Port Arthur (1904) rispettivamente collocate al tempo del conflitto ispano-americano del 1898 e di quello russogiapponese del 1904 si svolgono entro contesti storicogeografici ben definiti con riferimenti puntuali a fatti realmente accaduti, fatta salva la libertà dell’autore di costruire una trama alimentata dalla fantasia, il cui destriero egli governava con somma abilità. E’ noto che Salgari non si staccò mai dal suo traballante ta-

volino, la cui instabilità si dice favorisse la sua inesauribile vena creativa, il che tuttavia non gli impedì di documentarsi su svariati passaggi della storia, spaziando dai tempi dell’antico Egitto, fino a cogliere gli accadimenti a lui coevi o anticipare quelli a venire, come ne Le meraviglie del Duemila (1907). Non fa eccezione Il Capitan Tempesta (1905), che pur essendo un titolo declinato al maschile cela le fattezze e l’agire intrepido di una donna: la duchessa Eleonora d’Eboli. Il romanzo, considerato dai critici e anche dagli appassionati uno tra i migliori dello scrittore, è ambientato a Cipro al tempo dell’assedio di Famagosta, che durò quasi un anno, dall’agosto 1570 allo stesso mese dell’anno successivo e si risolse tragicamente per gli assediati. A mio avviso è come se Salgari con quell’opera avesse voluto rendere omaggio alla Serenissima


Famagosta, camminamento sulle mure intene alla cittadella.

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Famagosta, entrata alla cittadella o torre di Otello. Costruita nel XII sec. dai Lusignano per difendere il porto diventava un secolo dopo uno dei baluardi della cinta difensiva cittadina. Lo stemma del leone simboleggia che la Serenissima repubblica di S. Marco regna su Cipro ed intende difendere questa fortezza.

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Famagosta, il Rivellino. Costruito dai Lusignano aveva la funzione di controllare l’ingresso alla città .

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Famagosta, vista dalla sommità della cittadella. In primo piano i resti della torre del castello Lusignano. Sullo sfondo la chiesa di S. Giorgio dei Latini e la cattedrale di S. Nicola.

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e ai suoi uomini migliori, certo non dimentico dei suoi studi all’istituto nautico di quella città, che conosceva bene e che aveva dato i natali a sua madre Luigia Gradara. Non sappiamo quali testi l’autore abbia compulsato per documentarsi su quella lontana vicenda che proprio per essersi conclusa in modo così tragico ebbe delle ripercussioni talmente forti nell’ambito di tutta la cristianità da consentire all’armata della Lega Santa, appena un mese e mezzo dopo la fine dell’assedio, di ottenere sui Turchi la schiacciante vittoria nelle acque di Lepanto. Di quei fatti drammatici fu relatore circostanziato il nobile bresciano Nestore Martinengo (1548 - 1598) scampato in modo rocambolesco all’eccidio che seguì l’assedio di Famagosta. Rientrato a Venezia il 3 dicembre 1571 scrisse una Relatione che venne in breve ristampata in svariati luoghi, tra i quali Brescia, Milano, Fano e Verona e venne tradotta anche in francese e tedesco e fu uno dei testi sulla guerra contro i Turchi più letti in quell’epoca. Vivo Salgari un’opera disponibile era quella di A. Gatto, Narrazione del terribile assedio... di Famagosta, edito a Orvieto nel 1895. Salgari era un topo di biblioteca, meticoloso nel raccogliere i suoi appunti. Nell’ impostare la trama di Capitan Tempesta seppe documentarsi in modo appropriato attingendo a fonti attendibili, pur trasferendo i cognomi di alcuni personaggi storici con qualche svarione. Le pagine di storia inserite nel romanzo non lo appesantiscono, contrariamente a quelle, altrettanto documen-

tate, inserite ne Il Leone di Damasco (1910), seguito un po’ fiacco e scontato del precedente. Le forze turche assediano Famagosta, città veneziana sull’isola di Cipro. L’armatura - veste da battaglia prettamente maschile - cela il volto e il temperamento battagliero del personaggio centrale: la duchessa Eleonora d’Eboli che sta cercando di sottrarre alle mani nemiche il suo fidanzato, il visconte Le Hussière. Salgari la descrive così: Era un giovane bellissimo, anzi troppo bello per essere un guerriero, un po’ alto, snello, di forme eleganti, con due occhi nerissmi che parevano due carbonchi, una bocca da fanciulla con dei dentini superbi, la pelle leggiermente bruna che tradiva il tipo meridionale e la capigliatura lunga e corvina. Nell’insieme sembrava più una graziosissima fanciulla che un capitano di ventura. In un duello l’eroina, i lineamenti femminili accuratamente celati, vince Muley-El-Kadel, valentissimo comandante turco, noto per la sua audacia con il nome di Leone di Damasco e ne conquista rispetto e stima senza svelare il suo volto. Sarà costretta a farlo però quando gli chiederà aiuto, gravemente ferita a seguito dell’aspra battaglia che porterà i Turchi a occupare Famagosta tra inenarrabili stragi. Il Leone di Damasco favorirà la sua fuga dalla città ormai perduta, perduto a sua volta di fronte al fascino della bella capitana, indicandole anche dove potrà trovare il fidanzato, per liberare il quale la duchessa dovrà affrontare chi lo tiene prigioniero:


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la terribile, perfida principessa Haradya. Eleonora d’Eboli riuscirà a tenere celata la sua vera identità anche a colei che si rivelerà una spietata rivale, affascinandola a tal punto da riuscire a far liberare il fidanzato; a una condizione però: dovrà uccidere Il Leone di Damasco che l’aveva respinta! La ricerca della salvezza è rocambolesca e l’autore vi colloca anche il tradimento da parte della fosca figura del capitano polacco Lakzinki, passato con i Turchi, che svela ad Haradya la vera identità di Eleonora d’Eboli e giungerà perfino a uccidere il suo fidanzato. Per la duchessa pare sia giunta la fine: debilitata nel fisico, affranta, desolata, provata da vicissitudini più grandi di lei, pare priva di speranza, ma sarà Il leone di Damasco, palesandole il suo amore, a farla rivivere. Il traditore viene ucciso dalla duchessa, gli inseguitori sono battuti. Il Leone di Damasco rinnegherà la propia fede per seguire la duchessa d’Eboli in Italia. Finale lieto, anche se un po’ affrettato. Lungo tutto lo svolgersi delle vicende emergerà, come un’ombra onnipresente, anche la figura di un fedelissimo servitore della duchessa, perdutamente, quanto silenziosamente innamorato di lei; per lei alla fne del romanzo, darà la vita: una sorta di trama ulteriore racchiusa da quella più ampia e che rivela l’indubbia creatività dello scrittore, peraltro in un periodo assai fertile della sua produzione. I personaggi storici che fanno da contorno alla vicenda amorosa sono non soltanto ben delineati, ma emergono con le loro caratteristiche salienti che, tra-

sferite in gesta epiche, sono giunte fino a noi appena smorzate dal tempo trascorso. Accanto a Mustafa Pascià, alla regina Caterina Cornaro, ad Astorre Baglioni, al colonnello Martinengo, a Marco (Antonio) Querini (Quirini per Salgari) spicca la figura di Marcantonio Bragadin (1523 - 1571). Salgari ne narra la tragica, orribile fine tramite un dialogo tra Capitan Tempesta, che giace ferita, accudita dal fedele servitore El-Kadur, entro una casamatta diroccata a Famagosta, le mura ormai rovinate sotto i tiri dell’artiglieria dei Turchi, e il suo tenente, Perpignano, che la informa di quanto accaduto nel campo dei Turchi dove Marcantonio Bragadin s’era recato per concordare la resa. (...) L’infame Mustafà non ha fatto grazia a nessuno. - A nessuno! - Esclamò la duchessa con angoscia. Nemmeno ai capitani? - Nemmeno a quelli - rispose il tenente, frenando a stento un singhiozzo. Il miserabile vizir ha tagliato di sua mano l’orecchio destro del prode Bragadino e reciso un braccio, poi lo ha fatto scorticare vivo alla presenza dei giannizzeri. La duchessa aveva mandato un grido d’orrore. - Infami! Infami! - Poi ha fatto decapitare Astorre Baglione, Martinengo, tagliare a pezzi il Tiepolo e Manoli Spilotto e gettare le loro povere carni in pasto ai cani. - Mio Dio! - esclamò la duchessa, coprendosi gli occhi come se cercasse di sfuggire a qualche spaventosa visione.

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Famagosta, sulla sinistra la cattedrale di S. Nicola ora moschea. Sulla destra i ruderi della chiesa di S. Giorgio dei latini.

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Famagosta, leone di S. Marco ai piedi della torre e porta del mare. Nella pagina seguente in basso la chiesa di S. Pietro e Paolo costruita durante il regno di Pietro I. In alto una veduta interna del cortile antistante il palazzo del provveditore.

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- E gli altri, signor tenente? - chiese El-Kadur. - Tutti sterminati. Mustafà non ha risparmiato che le donne ed i bambini che manderà schiavi a Costantinopoli. - Tutto è finito dunque pel Leone di San Marco? gemette la duchessa. - La bandiera della Repubblica dell’Adriatico ha cessato pe sempre di sventolare su Cipro. Il supplizio patito dal Bragadin fu raccapricciante, molto più crudele di quanto Salgari che senza dubbio ne era a conoscenza fece trapelare nel suo romanzo. La pelle del governatore di Cipro, recuperata rocambolescamente dal veronese Giacomo Polidoro, si trova oggi dentro un’urna collocata nel monumento sepolcrale dedicato al condottiero nella chiesa veneziana dei Santi Giovanni e Paolo. Salgari ha dato il meglio di sé nel descrivere, quasi fosse stato presente, le varie fasi dell’assedio e della distruzione delle mura della città, che cominciarono a cedere soltanto quando le forze turche le cannoneggiarono senza tregua con molte bocche da fuoco. Ne è uscito un quadro estremamente vivido, a tratti crudo, entro il quale, tenacemente, continuava a snodarsi una tormentata vicenda d’amore. Nel romanzo sono sparsi dei riferimenti a Venezia, alcuni relativi proprio alla città. Ne cito uno, un po’ intrigante. Papà Stake, uno dei personaggi minori del romanzo, che Salgari presenta come “un dalmato, almeno dal nome, (...) un bel vecchio sulla sessantina”, appena riesce a rivedere la luce uscendo dal-

le profondità d’una cantina coperta di macerie dove s’era riparato col fedele compagno Simone nel corso dell’assedio di Famagosta, esclama: “Accenderò venti ceri a S. Marco e quattro nella chiesa di S. Nicoleto”. Il riferimento alla chiesa era preciso e l’omissione della lettera “t” tipico della parlata veneta. Di quella chiesa tuttavia oggi non è rimasta traccia, o quasi. Il santo era considerato a Venezia protettore dei naviganti e uno dei protettori della flotta della Serenissima. Il convento, detto di San Nicoletto della lattuga sorgeva vicino alla chiesa dei Frari e custodiva delle opere del Veronese e una pala d’altare del Tiziano ora nella pinacoteca dei musei vaticani. Durante il periodo napoleonico la chiesa venne adibita a caserma e fu poi demolita sotto la dominazione austriaca. Altre preziose opere colà custodite andarono disperse. La chiesa citata da Salgari - di cui sono rimaste solo una porta del convento presso l’attuale abitazione della comunità dei frati di Santa Maria Gloriosa dei Frari e la tomba di Nicolò Lion, custodita nella chiesa omonima, il procuratore di S. Marco che fece erigere chiesa e convento - è ricordata oggi a Venezia per la presenza di due ninzioleti, cioè due indicatori stradali che riportano la voce “calle S. Nicoleto” e “ramo S. Nicoleto”. Nel romanzo vi è un riferimento anche al canale Orfano, che si snoda dalle acque antistanti Malamocco, al Lido, costeggiando le isole di Poveglia, S. Spirito e S. Servolo. Il romanzo, che non dimostra la sua età, storicamente ben ambientato, e la cui lettura scorre via


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con piacere nonostante le vicende assai crude che fanno da contorno a una storia d’amore tormentata, può essere proposto ai giovani come un richiamo alla comprensione reciproca che sappia andare al di là delle opzioni religiose; racchiude dei richiami alla fedeltà alla parola data, alla generosità, alla lealtà, al valore dell’amicizia e dell’amore, ingredienti che Salgari sapeva amalgamare sapientemente e che mantengono la loro valenza pedagogica anche oggi, forse più di ieri, in un’epoca intrisa da un diffuso relativismo etico.

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gabriele caiazza

Reale Opera

Nicosia La fortificazione voluta da Venezia a Nicosia trasformò la capitale cipriota in una fortezza “moderna” che rimane tra i massimi esempi di città ideale rinascimentale Nicosia, antico ricovero per viaggiatori risalente al 1600.

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A

ssunto il controllo del Regno di Cipro alla morte di Giacomo II de Lusignano, dal 1473 la Repubblica di San Marco puntò su Nicosia come maggiore centro economico-direzionale del suo nuovo avamposto militare lungo la principale rotta mercantile verso il Levante, minacciata al contempo dalla crescente potenza ottomana e dalla concorrenza sviluppatasi lungo i nuovi itinerari aperti dalle più recenti esplorazioni geografiche. Presto fu reputato indispensabile il rafforzamento delle difese dell’antica capitale, che – in concomitanza con un calo demografico e una contrazione dei traffici portuali – segnò la fine delle glorie della Cipro medievale. Non poche testimonianze storiche di rilievo precedenti furono cancellate anche nella stessa Nicosia, ove si salvò la cattedrale, solitario vestigio gotico fra attestazioni architettoniche del

dominio veneto prevalentemente militari. D’altronde il Selim II, assillato da problemi interni e da contrasti esterni sui fronti ungherese e balcanico, bramava sempre più l’appetibile caposaldo in mani venete: Cipro era all’epoca una sorta di enclave cristiana in area islamica, per di più a una distanza troppo esigua dalla costa meridionale turca e sulla vitale direttrice marittima per Alessandria d’Egitto, rotta prediletta dei pellegrini diretti alla Mecca. Rinnovata nel 1567 la “pace armata” sancita con Solimano, la Serenissima cercava di non offrire ai notabili ottomani pretesti per aprire nuove ostilità, tramando piuttosto per deviare la minaccia verso qualche altra grande potenza sua rivale; ma ciononostante, e malgrado allo scontro fosse contrario nientemeno che il gran visir, il sultano decise di rompere la tregua. Se-


Nicosia, colonna trionfale di granito grigio inalzata dai veneziani nel 1550 . Un tempo era sormontata da un leone di San Marco poi crollato.


NICOSIA

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condo il diritto e il protocollo islamici, il suo ambasciatore recapitò in laguna l’istanza di “riconsegna” spontanea dell’isola in quanto già in passato appartenuta al mondo musulmano e per giunta potenziale covo di pirati: il Senato rigettò affrettatamente l’ultimatum (ignorando la conveniente ipotesi di vendere l’isola al richiedente…) e la Repubblica dovette prepararsi a combattere. Fra l’altro, si confermò l’invio dell’esperto Giulio di Savorgnano (more veneto Savorgnan) sulla strategica isola mediterranea, allora sotto il luogotenente Nicolò Dandolo: allo scopo di rafforzarne le difese, infatti, nel giugno 1552 vi era stato mandato una prima volta l’ingegnere friulano, che per la capitale più tardi progettò nuovi apprestamenti in linea coi più moderni precetti della scienza fortificatoria, in base ai quali a Cipro già il castello di Kyrenia era divenuto fortezza d’artiglieria, mentre in Famagosta il baluardo Martinengo attestava il passaggio dalle vecchie mura con torri rotonde al moderno sistema a terrapieni scelto per Nicosia. Fratello maggiore dell’Ascanio Savorgnan nominato nel ’62 Proveditore a Kyrenia e incaricato nel ’63 di valutare le migliori opportunità di fortificare l’isola (ne nacque la dettagliata Descrittione delle cose di Cipro .. et delle provisioni che erano necessarie per quel regno, che circolò parecchio pur senza mai esser data alle stampe), Giulio inviò a Venezia verso il 1565 un resoconto ufficiale in cui descrisse l’inutilità contro l’artiglieria delle mura medievali turrite allora esistenti a Nicosia, per cui due anni dopo progettò una enceinte costituita da una linea di undici bastioni “cuoriformi” alternati ad altrettante cortine murarie terrapienate, con “scarpa” ed essenziale rivestimento lapideo fino a mezza altezza (sistema “del mezzo rivestimento” erroneamente attribuito a Daniel Speckle mentre fu il Savorgnan a capire che «il muro di scarpa» non doveva «oltrepassare l’altezza dello spalto», regola che troverà piena applicazione due secoli dopo). L’intero circuito murario ebbe la forma di una “stella” a undici “punte”, la cui forma “a cuore” era ritenuta la più adeguata per le nuove artiglierie nonché garanzia di un miglior controllo da parte dei difensori. Sorse così un complesso difensivo che fu una pietra miliare nell’architettura militare rinascimentale, cui Giulio Savorgnan avrebbe ancora contribuito rafforzando in maniera innovativa luoghi muniti preesistenti, costruendone di nuovi (da ultimo la fortezza a nove punte di Palma in Friuli) e mettendo per iscritto un Discorso sulle fortificazioni, vari altri testi e le Venticinque regole (o capitoli) sull’arte di fortificare stese nel 1594 dopo una lunga rielaborazione e ben note a Galileo Galilei. Anche Bonaiuto Lorini, nel suo trattato sulle fortificationi, inserì numerose piante di fortezze “a stella” con bastioni “a cuore” secondo il principio rimasto a lungo popolare fra gli ingegneri militari dopo esser stato applicato da Savorgnano a Nicosia, che Lorini ricordò fra le «piazze tenute inespugnabili» descrivendola come una «fortezza moderna, e fabricata co’ suoi baluardi, e con le sue difese realissime, e bene intese», riportando poi le parole di un osservatore che, avendola visitata «e d’ogni intorno molto bene considerata», affermava «non senza maraviglia» d’aver visto «la più reale, e la meglio


Nicosia, palazzo veneziano nel centro di Nicosia.

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Nicosia, antico edificio coloniale. In basso foto aerea della cittĂ di Nicosia. Nella pagina seguente: Nicosia, porta Famagosta di accesso alla cittĂ . In basso: Arcivescovado greco ortodosso.



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Nicosia, Bastione Podocatoro.

Nicosia, bastione Caraffa.

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NICOSIA

Kolossi, castello costruito dai cavalieri dell’ordine di S. Giovanni nel XV sec. ed era sede della loro più importante centrale di comando. Nel XIV sec. fu sotto il controllo dei cavalieri templari.

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intesa opera (benché di terra) che al parer mio si potesse fare», ancor più essendogli stato «detto esser stata fabricata dall’Illustriss. Sig. Giulio Savorgnano solo in otto mesi di tempo, e con tanta facilità». Descritto come un uomo dall’animo vivace e perspicace, quest’ultimo era nato a Osoppo nel 1509 o ’10 primogenito del condottiero Girolamo di Savorgnano e, dopo una già cospicua carriera e la recente nomina a Sovrintendente delle artiglierie e delle fortezze dello Stato, nell’estate del 1567 fu destinato a Cipro. Raggiuntala, cominciò a rilevarne i siti più sguarniti tutt’altro che scoraggiato dalla difficoltà dell’impresa: anticipando con lungimiranza la teoria secondo cui la miglior difesa del suolo patrio si ottiene fortificando un intero territorio più che una sola località, elaborò un piano complessivo riguardante l’intera isola e comprendente la cerchia bastionata di Nicosia, di cui avviò i lavori sotto il Proveditore Francesco Barbaro già nell’agosto seguente. Innanzitutto s’iniziò la demolizione delle vecchie mura e di decine di edifici (monasteri, palazzi ecc.), soprattutto nella parte sud della città, al fine di regolarizzare il circuito protettivo, ampliare il “campo di tiro” esterno, creare una “cunetta” al centro del nuovo fossato (previa deviazione delle acque del fiume Pedieos) e infine recuperare materiali da costruzione. È chiaro che gli otto mesi citati da Lorini non possono corrispondere alla durata complessiva dei lavori, tanto più se si considera che alcuni resoconti dell’assedio subito nel 1570 ricordano l’opera come incompleta allorché fu investita dai Turchi: secondo Bar-

tolomeo Sereno (Commentari della guerra di Cipro), Savorgnan lavorò a questa fortificazione per dieci mesi ma fu destinato ad altri incarichi mentre vi era impegnato. In effetti il general d’artegliaria osovano fu richiamato in Dalmazia da governatore generale (1569) e lasciò l’ultimazione dell’opera a una commissione di ufficiali i cui nomi furono riportati nella epigrafi murate sui bastioni: verosimilmente, essi non fecero in tempo ad approfondire i fossati sì da consentire alle mura (alte 12 m e spesse oltre 5,5) di espletare appieno le proprie funzioni. Mentre i generali veneti attendevano invano risposte da potenziali alleati (dallo zar Ivan “il Terribile” al re Filippo II di Spagna), a luglio del 1570 la flotta ottomana sbarcò sull’isola e avanzò profittando soprattutto dell’esiguo numero di uomini schierati a difesa della capitale: dopo aver cannoneggiato da quattro fortini di terra innalzati davanti ad altrettante “punte” meridionali della “stella”, ci si affidò alle truppe di terra. Perso un bastione sud all’alba dell’8 settembre 1570, i difensori resistettero ancora in Piazza della Cattedrale, nel Palazzo Lusignano (ora scomparso) e ai bastioni Barbaro e Carafa, ma il 9 Nicosia era espugnata dopo poco più di sei settimane di assedio e i Turchi puntavano su Famagosta (ove la resistenza fu ostinata e durò quasi un anno malgrado non vi si disponesse di strutture paragonabili a quelle “savorgnane”; la sorte riservata agli sconfitti è tristemente nota, anche se le fonti ottomane riportano dati su cui quelle occidentali sorvolano…). Al di là di tutto, secondo Lorini e gran parte degli


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Bellapais, “abbazia della pace�. Costruita dai monaci agostiniani fuggiti da Gerusalemme nel XIII sec.

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NICOSIA

Bellapais, chiostro interno con le monumentali tombe di marmo.

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studiosi l’espugnazione della capitale fu causata soprattutto «dal poco numero de’ suoi difensori, e massime soldati pagati, quali non arrivavano al numero di mille trecento, che non erano atti a guardare undici baluardi, con che era fortificato il circuito della Fortezza, ma ne anco un solo, si come è noto a tutti», parole confermate da un interlocutore stupito «che quella Fortezza fusse poi cosi debilmente difesa», ribadendo «come passò l’espugnatione di quella così gran Fortezza di Nicosia, e con quanta facilità fusse nello spatio di quarantacinque giorni presa, che fù solo per lo mancamento de’ soldati». Per proteggere veramente una città così grande e importante, la “custodia” avrebbe dovuto essere affidata a un numero di soldati molto più grande dell’esiguo contingente allora stanziatovi, spazzato via dall’imponente armata di Selim II (le stime variano da sessantamila a centomila soldati). Si concluse così la cosiddetta “guerra di Cipro”, quarto conflitto di vasta portata fra la Sublime Porta

e la Serenissima: scoppiato per imporre armata manu l’egemonia ottomana, si risolse con una perdita duplice ma ben diversa, giacché la Porta perse momentaneamente la raggiunta supremazia navale (la notizia della battaglia “di Lepanto”, in Europa vissuta come evento epocale, a Istanbul giunse insieme alle navi cariche del bottino cipriota: una battaglia era stata persa, ma la guerra vinta e Cipro conquistata), ma la Dominante vide intaccata la propria preminenza sui mercati levantini (se ne avvantaggiarono i francesi) né poté più recuperare la “testa di ponte” nel Mediterraneo orientale a dispetto dell’innovativa fortificazione ideata dall’«ottimo architetto militare» Giulio Savorgnan per la capitale, la cui validità fu confermata dai lavori di riparazione, integrazione (fu completato il rivestimento in pietra del tracciato murario) e riutilizzo disposti e attuati dai conquistatori, che se ne giovarono per oltre tre secoli. In origine, ogni bastione della “stella” era associa-


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to ai nomi di alcuni noti personaggi (es. Barbaro) e delle più importanti famiglie allora residenti a Cipro (dai Carafa ai Costanzo, dai Flatro ai de Nores conti di Tripoli, dagli Scinclitico conti di Bocas ai Podocattaro conti di Kiti, dai d’Avila discendenti dalle antiche guardie ereditarie del Regno ai Fabrici conti del Carpasso e così via) e che finanziarono l’erezione delle nuove mura: ma quel ricordo fu cancellato dalla conquista ottomana e dalla conseguente ridenominazione in lingua turca, a sua volta dimenticata con l’arrivo degli Inglesi quantunque due degli antichi baluardi veneti fossero stati occupati come cimiteri. Secondo lo “stile italiano” di difesa delle fortezze cinquecentesche, all’inizio i pezzi d’artiglieria dei difensori furono sistemati su apposite piattaforme situate sugli orecchioni, gli angoli rientranti dei bastioni; a Nicosia però non ne sussistono tracce, così come è sparito l’armamento: nel 1878, occupando l’isola de facto, l’Inghilterra concesse ai Turchi (cui fino al 1914 rimase la sovranità formale) di

portar via tutto il bronzo, sicché di artiglieria sull’isola rimasero in sostanza solo due cannoni in ferro riusati come stipiti di Porta Kyrenia. Quest’ultima era una delle uniche tre aperture attraverso le quali inizialmente si entrò nella “stella”, situate sul lato di altrettanti bastioni e quindi più facilmente difendibili: un’entrata trionfale, Porta Famagusta a sudest, e due secondarie, Porta Paphos a sudovest e la citata Porta Kyrenia a nord. La prima, entrata principale e più grande alla città e fu anche detta Porta Giuliana o Julia in onore dell’ideatore del complesso, mentre l’altro nome Porta “di sotto” fu all’origine del nome arabo poi dato al quartiere (Taht el Kaleh, “forte inferiore”). Considerata fra le principali attrattive turistiche di Nicosia, con la sua “volta” è certo il più imponente ricordo del dominio veneziano e a tutt’oggi è annoverata fra i prototipi dell’architettura militare rinascimentale; s’ispira chiaramente alla Porta di San Giorgio o “del Lazzaretto” di Candia (scomparsa) di-

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Bellapais, veduta panoramica del chiostro. Sullo sfondo la città di Kyrenia.

segnata da Michele Sammicheli insieme al resto delle strutture difensive su cui lo stesso Savorgnano era poi stato chiamato a intervenire prima d’essere destinato a Cipro. Quanto alle altre due porte, piccoli passaggi nelle mura privi di archi trionfali, utili a controllare le persone in entrata senza intralciare la difesa militare, la settentrionale fu anche detta “del Proveditore” in omaggio a Francesco Barbaro (cui fu pure intitolato il bastione contiguo) e nel 1821 ricostruita dai Turchi aggiungendo una sala superiore e murando su pannelli marmorei una surah coranica; quella occidentale fu invece chiamata pure “Porta di San Domenico” in quanto occupante la posizione dell’omonimo ingresso medievale (annesso al monastero reale di San Domenico, fondato da re Giacomo I a fine Trecento, di cui non resta traccia), ma fu poi chiusa dagli Inglesi quando aprirono un nuovo varco sullo stesso spalto. Lo stemma reale e la data presenti su quest’ultimo attestano l’inizio delle alterazioni apportate all’enceinte durante l’amministrazione britannica di Cipro, sfociata nell’annessione ufficiale del 1914 conclusasi nel 1959. Mentre svariati “sentieri” andarono aprendosi per

normale consunzione del manufatto o a seguito della rimozione di pietre, a partire dall’epoca del dominio inglese l’antica cinta fu modificata in più punti “tagliandola” per far entrare in città strade carrozzabili e dar così accesso al traffico veicolare: in particolare, si aprirono apposite “brecce” su un fianco di Porta Paphos e su entrambi i lati di Porta Kyrenia. In seguito la pratica di “tagliare” le mura fu abbandonata in favore della prassi di gettar ponti al di sopra di esse, che però inevitabilmente andò a incidere sul “livello” della città portando alla creazione di un “anello” stradale più alto delle mura… Nella prima metà del ’900, fu creata una circonvallazione interna alla cerchia veneziana ma, per evitare un’eccessiva ristrettezza delle corsie, fu innalzata al livello del cammino di ronda: ciò garantì la larghezza della carreggiata ma stravolgendo l’assetto delle mura dal lato urbano oltreché cancellando o ridimensionando considerevolmente gradinate pedonali, rampe d’artiglieria ecc. sicché si ritiene che, mentre i bastioni sopravvivono tuttora grossomodo nella loro solida grandezza (fra tutti, quello conservato meglio è il Podocattaro, comprensivo di orecchione non modi-


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ficato), le originarie cortine veneziane siano in buona parte perdute, come del tutto sparite sono le gallerie, colmato il fossato ecc. Un’ampia documentazione se ne conserva nei documenti autografi di Giulio Savorgnan, come le lettere ch’egli inviò nel 1584 al duca di Parma offrendogli i propri servigi. Comunque, l’insieme va sempre letto nel contesto dell’ampio progetto rinascimentale mirante a realizzare la Città Ideale, nel cui ambito, così come nel contesto dell’opera fortificatoria del Savorgnan e veneziana in genere, la “stella” a undici punte di Nicosia (certo uno dei più diretti antecedenti di quella a nove punte di Palmanova) costituì tuttavia un unicum giacché sorse intorno a una città preesistente e per di più di un tal rilievo geopolitico che ancora continua a ripercuotersi sui suoi imponenti resti. Per visitarli bisogna infatti attraversare (senza difficoltà per i cittadini UE) la Green Line che dal 1974 divide la capitale e, ciò fatto, non si può in ogni caso accedere ad almeno due siti importanti: il bastione Barbaro, uno dei cinque compresi nella parte nord di Nicosia, divenuto caserma militare, e il bastione Flatro, unico incluso nella buffer zone affidata alla missione ONU.

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Bellapais, camera di consiglio dei sacerdoti. La colonna al centro è attribuita alle prime comunità bizantine.

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Bellapais, veduta della facciata anteriore dell’abazia.

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FRANCESCO boni de nobili

1454-1510

Caterina Cornaro Regina di Cipro, Gerusalemme e Armenia e signora di Asolo visse una vita tra fiaba e responsabilitĂ


CATERINA CORNARO

L

a vita di Caterina Cornaro ha il sapore della classica fiaba. Gli ingredienti ci sono tutti: nata “quasi” principessa, in una città fantastica, diventa regina di un’isola esotica e leggendaria, moglie giovanissima di un re d’antica schiatta guerriera: resta vedova quasi subito e quasi subito perde l’unico figlio. Meno che ventenne deve assumersi responsabilità molto più grandi di lei, fare da regina per poi, coinvolta in un vortice di livello internazionale, abdicare a favore della sua patria, che l’accoglierà con onori principeschi e le donerà un feudo paradisiaco, sulle verdi colline trevigiane, dove concluderà i suoi giorni, amata, adulata e corteggiata, in un ambiente “rinascimentale” colmo di poesia e di serenità, facendo la spola con Venezia, dove verrà infine sepolta. Caterina Cornaro, dell’omonima nobile famiglia mercantile veneziana del ramo di San Cassiano, nacque a Venezia, secondo Antonio Colbertaldo, suo primo biografo, il 25 novembre 1454, giorno di Santa Caterina. Era figlia del kavalier Marco di Giorgio e della duchessa di Nasso Fiorenza figlia di Nicolò Crispo di Santorini, reggente veneziano dell’Arcipelago, e di Valenza figlia dell’imperatore di Trebisonda Giovanni IV Comneno. Trascorse un’infanzia serena, prima nel palazzo paterno, sulla sinistra del Canal Grande e poi, dopo il compimento del decimo anno, nel monastero di S. Benedetto, forse a Padova, dove rimase presumibilmente sino al 1468, anno in cui, il 10 luglio secondo il Navagero, il 30 secondo il Malipiero, fu data in sposa

per procura a Giacomo II di Lusignano, re di Cipro. Ma come si erano svolti i fatti? Sembra che dopo alcuni falliti tentativi compiuti da re Giacomo di ottenere prima la mano di Sofia, figlia di Tommaso Paleologo, fratello di Costantino, ultimo imperatore di Bisanzio, poi della figlia di Ferdinando I di Napoli, Venezia abbia avanzato la candidatura di Caterina Cornaro. Giacomo II di Lusignano detto “il Bastardo” – che dal 1464 era ormai padrone di tutta Cipro, dopo avere esautorato la sorellastra Carlotta, legittima sovrana – intendeva consolidare e ufficializzare la sua posizione sul trono usurpato attraverso l’acquisizione di una “parentela” influente, e sarebbe stato persuaso dall’amico Andrea Cornaro «di non aver più bella strada di conservarsi facilmente nel regno, quanto esser difeso e protetto dalle armi di Venezia, e perciò di unirsi a una giovinetta della nobiltà veneziana». Alcuni fantasiosi romantici narrano che un giorno Andrea Cornaro avrebbe mostrato all’amico Giacomo una miniatura di sua nipote Caterina e che il re se ne sarebbe invaghito, ma sembra davvero poco probabile immaginare che una tredicenne si fosse fatta ritrarre, qualunque ne fosse il fine, e che la sua immagine di bellezza immatura potesse essere sufficiente a fare innamorare di sé un giovane scaltrito come Giacomo di Lusignano. Il fatto noto è che nel 1467 Giacomo di Lusignano aveva mandato suoi ambasciatori alla Signoria veneziana «recercandola che la fosse contenta darghe per mogièr la fia de Marco Corner K[avalier], nominada

Asolo, la Rocca.

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Veduta del castello crociato di San Ilario

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Catharina». È molto probabile che le nozze fossero state proposte al giovane sovrano proprio da Andrea, che suggerendo tale matrimonio, mirava sia a favorire la politica della Signoria, da sempre desiderosa di estendere la propria influenza su quell’importante base commerciale e strategica che era divenuta Cipro, sia gli interessi della famiglia. La richiesta ufficiale, vista con favore dalla Serenissima, fu avanzata dal Lusignano presumibilmente verso il finire del 1467 tramite l’ambasciatore Filippo Mistahel, allora a Venezia per risolvere alcune controversie commerciali. Lo stesso Mistahel ebbe poi anche l’incarico di rappresentare il proprio sovrano alla fastosa cerimonia di nozze per procura, descritta con dovizia di particolari dal Malipiero. La ragazza mostrava qualche avvenenza, in gran parte dovuta al fascino del ruolo, dell’appartenenza gentilizia, ma in parte anche alla natura, che a quell’epoca le donava la bellezza della giovinezza. Marcel Brion avanza una descrizione della nobildonna: «Di statura mezzana ma di forme armoniose e già floride, aveva gli occhi neri, luminosi, penetranti, che col loro splendore offrivano un contrasto seducente colla bianchezza delle sue carni e la dovizia magnifica della capigliatura bionda. L’espressione del suo volto era aperta e piena di una natural grazia; sì che quando Giacomo II ricevette il ritratto che era stato ordinato al pittore Dario da Treviso, dichiarò spontaneamente di non aver mai veduto giovinetta più bella». L’attesa di Caterina a Venezia durò ben quattro

anni. Nell’estate del 1472 Giacomo II, soprattutto allarmato per gli ulteriori successi degli Ottomani e per le voci di un’incombente minaccia genovese su Famagosta, si decise a inviare a Venezia gli ambasciatori incaricati di condurre la sposa a Cipro. Caterina, con numeroso seguito di popolo, venne accompagnata al porto di San Nicolò di Lido sulla barca dogale, seduta alla destra dello stesso doge Nicolò Tron, circondato da innumerevoli imbarcazioni riccamente addobbate a festa. La giovane si presentava in ottima forma. Ci racconta Colbertaldo che «… le guance non invidiavano le vermiglie rose, le labbra a somiglianza dei coralli erano, erano pregiate perle i denti, vinceva il collo la neve, e più candido il seno dei più candidi ligustri e rose; nere le ciglia come più nero ginamo dell’India prodotto, le vaghe luci degli occhi erano a somiglianza di due stelle ardenti, né aveva sì ascose le mammelle nel velo che alquanto non si mirassero oltre l’aurate chiome, che in rete d’oro erano accolte…». Salpata il 27 settembre, la giovane giunse fortunosamente a destinazione, dove l’attendeva un’accoglienza davvero entusiasmante. Per rubare le parole allo storico Giblet, sembrò che «Venere Afrodite fosse tornata nel regno dov’era nata». Subito dopo l’arrivo a Cipro di Caterina (Aikaterini nei documenti ciprioti), seguì il matrimonio, che si celebrò, presumibilmente in dicembre, nella cattedrale di S. Nicola a Famagosta con sfarzo ed esibizione di regalità. Più tardi, a Nicosia, la giovane veneziana


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fu fastosamente incoronata regina nella cattedrale di Santa Sofia. E con forza di carattere e indole da “regina”, Caterina affrontò fin da subito anche la cruda realtà di palazzo, fatta di intrighi e sotterfugi, ma anche la realtà della vita di corte, quella vera, quella che sta dietro gli arazzi, le bandiere, gli squilli di tromba, gli inchini, gli incensi e le dichiarazioni. Intrighi di Catalani e Napoletani, di Genovesi e Veneziani, e dietro a tutto questo l’ombra di Carlotta, sorellastra di Giacomo e legittima regina dell’isola, spodestata alcuni anni prima. Quale sarà stato il suo animo nel momento in cui le vennero presentati i tre figli naturali che Giacomo aveva già al suo “attivo” (Carlotta, detta Ciarla, Eugenio e Giovanni), ormai grandicelli? Sarà stata un’inattesa scoperta o della cosa era già stata messa al corrente? Non lo sappiamo e ci è difficile oggi scrutare nell’animo di una regina quasi bambina del XV secolo. Sappiamo, tuttavia, che scriverà alla famiglia lettere gioiose, nelle quali dichiarava la sua felicità di sposa e di regina, amata dallo sposo e dal popolo: «Dopo mangiato esco a passeggio a piedi per i giardini, dove incontro persone incaricate di tenermi allegra. Alla sera, dopo cena, ci ritiriamo il re e io nel mio appartamento, e là qualche volta egli trascorre con me tutta la notte». Parole sincere o solo “rassicuranti” per familiari che certamente amava e che l’amavano? Accanto a lei, onnipresente, lo zio Andrea e i cugini Marco Bembo e Giorgio Contarini, a sostenerla, a in-

coraggiarla, forse anche a rasserenarla. Presto, comunque, una fenomenale novità giunse a dare nuova vita e ad addolcire le eventuali amarezze alla regina. Agli inizi del 1473 Caterina avvertì di essere incinta, notizia che venne molto favorevolmente accolta anche dal popolo, che «offerse doni a santa Irene e si raccomandò ad Epifanio, vescovo di Salamina, che operava molti miracoli tant’era buono e pio», allo scopo di proteggere la nascita del piccolo principe. Ma la vita di Caterina Cornaro evidenziò subito una sua infelice caratteristica: gioie e dolori si manifestavano spesso insieme, come a voler sottolineare la fugacità e la vanità delle cose. All’inizio di luglio di quello stesso anno, impegnato nel divertimento della caccia, Giacomo II di Lusignano, “re Zacho”, accusò un improvviso malore e, nonostante i suoi trentatré anni e la sua robusta costituzione fisica, in breve, nella notte tra il 6 e il 7 luglio, morì. Sarà sepolto nella cattedrale di S. Nicola a Famagosta, dove già erano sepolti diversi re di Cipro. Morendo, aveva avuto comunque il tempo e la lucidità mentale di fare testamento, istituendo la linea di successione a cominciare dalla regina e dal figlio che aspettava. Narra Malipiero che «per testamento del Re, fo instituido herede del Regno, e de tutto’l so haver, la Rezina, e la creatura che doveva nascer de quella gravedanza …». Intanto le redini del governo erano state assunte da un Consiglio di reggenza, secondo le disposizioni

San Ilario, refettorio dei notabili Lusignani.

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San Ilario. Il castello prende il nome da un monaco eremita che fuggito dalla Terra Santa a seguito delle persecuzioni e visse gli ultimi vent’anni su queste cime nell’VIII sec. Nel X sec. i bizantini costruirono il castello che con Kantara e Buffafento costituivano un sistema di avvistamento. Nell’XI sec il castello divenne rifugio e residenza estiva dei Lusignano . Successivamente per diversi secoli presidio dei cavalieri templari. Il castello è costruito su tre livelli a diverse altitudini ognuno con proprie cistene e magazzini.

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San Ilario, la chiesa e gli appartamenti reali.

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stesse del morente re Giacomo, composto da Andrea Cornaro con l’assistenza del conte di Rocas, del conte di Zaffo, di Rizzo de Marino, ciambellano, e del conestabile Pietro Davila, esponenti del partito catalano. L’incomodo, adesso, era proprio quell’Andrea Cornaro, zio della regina, che probabilmente era stato anche l’artefice del “matrimonio di Stato”. Crescono i malumori, si organizza una sommossa che è diretta contro Andrea Cornaro, ma anche contro la stessa Caterina e sostanzialmente contro Venezia. Caterina cercò subito rifugio a Famagosta, forse anche dietro suggerimento di chi la proteggeva, in attesa del parto e a Famagosta partorì un figlio maschio la notte del 28 di agosto. L’evento suscitò l’entusiasmo del popolo cipriota, sulla cui pelle, in sostanza, si svolgevano gli eventi e si tramavano intrighi internazionali. Fu festa grande il giorno del battesimo, il 26 settembre. La cerimonia si svolse nella cattedrale di Famagosta, con luminarie, canti e acclamazioni. Al piccino fu posto il nome del padre, Giacomo, terzo nell’ordine di successione. Gli eventi, però, sfuggono improvvisamente di mano. Il 10 novembre torna a Cipro l’arcivescovo di Nicosia Luigi Fabricies, capo del partito catalano, porta da Napoli promesse d’aiuto e da Roma l’esortazione del papa, e accusa Andrea Cornaro e il nipote Marco Bembo addirittura di avere ucciso il re col veleno, suscitando l’ostilità verso i due veneziani e verso la complessità della burocrazia veneta sull’isola. Il

malumore, alimentato da finalità di ordine politico, sfociò nella sommossa la notte tra il 13 e il 14 novembre. I congiurati irruppero nel palazzo reale, massacrando proditoriamente i consiglieri della regina colti alla sprovvista. Per le strade di Famagosta si ode il grido «morte ai viniciani! Ammazzate i viniciani!». Le campane suonano a stormo e si diffonde il panico. I veneziani presenti sul posto sono disorientati e soprattutto impreparati. Andrea Cornaro col nipote Marco Bembo, armi alla mano, corre in difesa della regina, ma il palazzo è ormai invaso dai rivoltosi che si sono abbandonati ad atti di barbarie davanti agli occhi disperati e atterriti della stessa Caterina. Vista l’impossibilità di soccorrere la regina, i due cercano scampo nell’oscurità, ma scoperti, sono rincorsi, raggiunti, massacrati e derubati. A questa barbarie fece immancabilmente seguito la rapina. Fu rubato il tesoro reale, svaligiati gli armadi, sottratta ogni merce preziosa. Si giunse a strappare dal dito di Caterina l’anello col sigillo dei Lusignano: «Tolsero la casa e le zoie, l’anello del sigillo, e l’obbligarono a scrivere lettere ai castellani di cedere le loro fortezze». Per piegare il suo animo, non si fecero scrupolo di sottrarle perfino il figlioletto, che fu affidato alla nonna Marietta di Patrasso. E la diciannovenne Caterina fu costretta a firmare lettere dirette al senato veneto, colme di menzogne e false accuse, che miravano a gettare discredito e la colpa dei fatti accaduti nientemeno che su Andrea Cornaro e Marco Bembo.


Kantara, castello considerato strategico punto di osservazione presidiato dai veneziani fino al 1525.

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Teatro di Salamina.

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L’insurrezione, alimentata dai primi successi, si allargò velocemente. I veneziani residenti si barricarono in casa e non accennarono ad alcuna resistenza né ad alcuna reazione. Perfino i comandanti delle guarnigioni lasciate dal Capitano Generale, si arresero, consegnarono le armi e acconsentirono all’accasermamento della truppa disarmata. In tutto questo bailamme frenetico, emerge il carattere fermo e la dignità della giovane regina, che non si scompone, mantiene i nervi saldi, subendo con fierezza gli affronti e i dolori che le venivano provocati. Pietro Mocenigo, momentaneamente ritiratosi a Modone, sullo Jonio greco, venuto a conoscenza dell’accaduto, inviò subito in avanscoperta due triremi, seguite da una potente squadra di dieci galee sotto il comando del Provveditore Generale Vettor Soranzo, in osservanza del disposto del Senato che gli ingiungeva di agire con «ingenio, arte, prudentia» per conservare la regina nel governo del Regno e garantire la successione a favore del figlio.

Giunto a Famagosta il 23 novembre, Soranzo, dopo un periodo di titubanza, si decise per un’incursione armata. La notte del 31 dicembre, mentre gli occupanti allentavano la loro attenzione, distratti nei festeggiamenti di San Silvestro, spedì a terra un piccolo esercito bene armato che con rapidi colpi di mano occupò il palazzo e liberò la regina. Quindi fu la volta dei fortilizi e dei vari depositi. Al sorgere del sole e all’inizio del nuovo anno Cipro era nuovamente sotto il controllo veneziano. Quando il 2 febbraio si profilò all’orizzonte la mirabile flotta di Mocenigo al completo, Cipro era già comunque recuperata. Il Capitano Generale da mar, comandante in capo delle operazioni navali e ammiraglio del nucleo principale della flotta, riportava ufficialmente sull’isola l’autorità sovrana della Repubblica e Caterina si ritrovò de facto sotto la tutela della Serenissima. Caterina era dunque tornata ad installarsi nel palazzo di Famagosta, certo con tanta amarezza ancora nell’anima, ma anche con tanta più forza, generata


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dalle esperienze alle quali era stata suo malgrado sottoposta. Tutto era apparentemente rientrato sotto controllo, la sua posizione rafforzata, la stagione stessa volgeva ormai al bello. Eppure l’amarezza che il destino ancora le riservava era per lei alimento quasi quotidiano. Il piccolo Giacomo, che la sorte già designava “terzo” nella linea dinastica dei Lusignano di Cipro e che garantiva una successione a lei e alla Repubblica della quale era “figlia adottiva”, manifestava i segni di una febbre minacciosa. Lei faceva la regina, dava udienze, ascoltava i funzionari… governava, ma l’animo suo era colmo di ansia e dolore. Morto pochi mesi prima il suo consorte, morti lo zio Andrea e il cugino Marco, febbricitante il figlio, sicuramente anche la sua mente ne risentiva. Cercava conforto e sostegno negli amici e nei pochi parenti che le restavano accanto, specialmente nel cugino Giorgio Contarini, che nominò feudatario con atto solenne, alla presenza dei maggiori dignitari del Regno, dopo aver avuto naturalmente il placet di Venezia.

Tuttavia, a fronte di questa apparente autonomia di governo, la regina era sostanzialmente legata dalla stretta sorveglianza della Repubblica, preoccupata, tra l’altro, di controllare l’uso “disinvolto” della pubblica finanza fin qui condotto e di ristabilire un minimo di equilibrio nelle esauste finanze del Regno. E a tale scopo Venezia, che di fatto ormai considerava Cipro una sorta di patrio possedimento orientale, il 28 marzo 1474 nominò un gruppo di “consiglieri” costituito dai senatori Alvise Gabriel e Francesco Minio e dal Provveditore Giovanni Soranzo, fratello di Vettor, i quali avrebbero esercitato di fatto l’amministrazione civile, giudiziaria e finanziaria del Regno, oltreché la gestione militare, affidata a Soranzo. Una gestione veneziana del Regno di Cipro, non sempre limpida, ma sempre tesa a favorire un controllo che preludesse a un’acquisizione diretta del possedimento da parte della Signoria. Una politica svolta anche alle spalle o addirittura a discapito della giovane e a nostro avviso sfortunata regina. Ad esempio, contestualmente alla nomina dei “consiglieri”, venne-

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Salamina, la palestra con i bagni di marmo.

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ro allontanate dall’isola alcune personalità cipriote nelle quali la sovrana aveva trovato aiuto e conforto durante i giorni della congiura e nei quali ancora riponeva la sua fiducia. A questo “isolamento” affettivo della regina, si sommò in breve anche un “isolamento” doloroso della “madre” Caterina: il 26 agosto di quello stesso anno il piccolo Giacomo morì, forse di febbri malariche. Caterina dovette subire anche questo ennesimo colpo della sorte. La ventenne veneziana, designata nonostante tutto a essere regina, ne fu sconvolta, non trovò pace, faticò a rassegnarsi, tanto che qualcuno sostenne che si sarebbe «impicada de disperation». Per consolarla del grave lutto, la Signoria stabilì d’inviare presso di lei il padre Marco, che già da tempo ne aveva fatto richiesta. Va detto che l’atteggiamento della Signoria nei confronti di Caterina andò col passare dei mesi gradualmente mitigandosi. Le disposizioni inviate ai consiglieri presenti sull’isola, confermavano, è vero, la loro reale funzione di veri governatori del Regno, ma al contempo riconoscevano alla regina le spese di corte, quantificate in 8000 ducati annui. Su Caterina Cornaro pesa sempre più l’effettivo dominio di Venezia nel governo dell’isola di Cipro. Anzi, la Serenissima Repubblica portò avanti negli anni un progetto di vera annessione, programmato con meticolosa anticipazione. Da Giorgio Bustron, ad esempio, sappiamo che Venezia esiliò da Cipro molte persone, nel tentativo di

neutralizzare ed eliminare quanti avevano appoggiato e sostenuto la giovane regina, tra cui Pietro Tafour, il franco-cipriota già governatore di Famagosta, Pietro Davila, che era stato accolto con calore a Venezia, ma che non ebbe più il permesso di tornare a Cipro, come avvenne a diversi altri. Per molti di essi l’unica colpa era di essere stati “eccessivamente” fedeli a Caterina Cornaro. Desiderata per la sua avvenenza ma soprattutto per l’ambizione di un regno tramite lei possibile, furono in molti a organizzare alle sue spalle progetti matrimoniali. Che il suo aspetto infiammasse gli animi e i cuori, lo testimoniano i numerosi dipinti che la ritrassero, dal Giorgione ad Hayez, come pure i versi più o meno belli che germogliarono intorno alla sua persona. Invece non sappiamo da fonti certe come abbia accolto Caterina la proposta di matrimonio con un bastardo di Ferdinando di Napoli, offertale direttamente da questo sovrano tramite una monaca. La solitudine di Caterina è sempre più evidente, specialmente da quando anche suo padre Marco, che le era stato vicino a Cipro, è morto a Venezia (1479) e la madre Fiorenza Crispo ha lasciato l’isola. Per la Repubblica erano ormai maturati i tempi per eliminare Caterina Cornaro e assumere direttamente il governo dell’isola. Un evidente mutamento della politica della Repubblica Veneta nei confronti del Regno di Cipro si ha a partire dal gennaio del 1487, quando la situazione dell’isola tornò a essere precaria a causa delle mire avanzate su di essa sia da parte del sultano di Costan-


Salamina, antica strada di accesso al porto.

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Salamina, antica città stato dell’antica Grecia, dichiarata Patrimonio UNESCO, si trova a sei chilometri da Famagosta.Nel sito si sono rinvenuti resti fenici e testimonianze della presenza degli assiri.

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tinopoli Bayazid, sia da parte del sultano mamelucco d’Egitto Qa’it bey. Ormai il clima politico nell’isola si era calmato, eliminati possibili rivoltosi o consiglieri della regina, scomparsi i di Lusignano, morta anche Carlotta (1487), salito il grado di ostilità del Turco, che poteva anche dare una giustificazione formale a un atto di annessione, la Signoria è convinta ad agire. Nel 1488 i Dieci scrivevano direttamente alla regina un messaggio personale, col quale, attraverso una scelta oculata dei termini, giustificavano la loro decisione di sostituirsi a lei nel governo di Cipro. A seguire, i Dieci prospettano a Caterina le conseguenze “materiali” della sua rinuncia: 8000 ducati annui, da ricevere o di anno in anno o di mese in mese. Il 24 gennaio 1489 il porto di Famagosta si riempì improvvisamente di navi da guerra, silenziose quanto minacciose. Al comando, il Capitano da Mar Francesco Priuli, uno degli uomini più potenti della Repubblica, che sbarcò a terra insieme a Giorgio Cornaro, fratello della regina. Caterina, ormai ben diversa dalla giovinetta giunta a Cipro diciassette anni prima, tanto nel corpo, appesantito, quanto nell’animo, indurito dalle vicende dolorose della sua vita, accolse il fratello con affetto, ma anche con fermezza. Ci fu uno scontro. Pietro Bembo ci riferisce che «Caterina, grandemente commossa, incominciò a ricusare, e a non voler essere persuasa a dover lasciare un ricco regno […] conchiudendo che assai potuto avrebbe bastare se quella isola in balia della

repubblica dopo la sua morte venuta fosse». Fu a questo punto che Giorgio Cornaro, animosamente, cominciò a far presente alla sorella quanto precaria fosse l’indipendenza di Cipro. Quanto avrebbe potuto resistere prima di dover ricorrere lei stessa alla protezione di Venezia, destinando alla Signoria l’effettivo potere sul Regno? E al contrario, quanto di più generoso, commovente e “apprezzabile” che donare spontaneamente il proprio Regno alla sua patria d’origine? Ne avrebbe guadagnato in onori e in considerazione, e sarebbe passata alla Storia come grande benefattrice della Serenissima Repubblica. D’altra parte cosa avrebbe potuto obiettare Caterina? Isolata, disarmata e fragile com’era? Seppure a malincuore, messa alle strette nientemeno che da suo fratello Giorgio, accettò. Riporta il Bembo queste parole, pronunciate da una Caterina rassegnata e provata: «Se così a voi fratello mio pare, e a me anco pare; e vorrò che così paia, ed al mio animo il comanderò». Il 26 febbraio a Famagosta, dopo un solenne “Te Deum”, l’emblema dei di Lusignano viene ammainato e issato il gonfalone di San Marco, al suono di trombe e tamburi. Il 14 marzo, tra la commozione dei Ciprioti, la sovrana s’imbarcò sulla galea Dalmatina comandata dal cugino Nicolò Cornaro. Vestita di scuro, incoronata sui biondi capelli raccolti a crocchia, sostenuta dal fratello, Caterina salì sulla nave e agitò un braccio in segno di saluto. «Stè saldi, tornarò…» pare abbia pronunciato


CATERINA CORNARO

con un fil di voce rivolta al popolo che si assiepava a salutarla. Finiva un’epoca “favolosa”. A una regina degna del mito, a Cipro si sostituiva la burocrazia statale veneziana. Ma per una sorta di nemesi storica, tutto questo avveniva alla vigilia di un tramonto ben più grave, il tramonto di un Evo e di una “Signora” del mare quale era Venezia: già un paio di mesi prima il portoghese Bartolomeo Diaz aveva aperto la via delle Indie doppiando il Capo di Buona Speranza, che consentirà dieci anni dopo a Vasco da Gama di raggiungere Kozhikode (Kalikooth), in India, bypassando il Medio Oriente e la necessaria mediazione della Serenissima. Il 12 ottobre del 1492 Cristoforo Colombo sbarcherà in America, evento che sposterà nettamente verso Occidente gli interessi commerciali europei. Per il predominio dei mari e dei commerci da parte di Venezia era l’inizio della fine. La navigazione di Caterina verso Venezia fu lunga e travagliata, come travagliato era stato il viaggio d’andata, diciassette anni prima. La flotta fu obbligata a diverse soste e fu spesso in balia della tempesta. La “tragedia” di Caterina Cornaro si compiva, come nelle migliori tragedie, fino in fondo, con gli elementi naturali che accompagnavano l’evento. Parte del naviglio di scorta naufragò. La Tigurina, la galea che trasportava gran parte del prezioso bagaglio reale, fu gravemente danneggiata davanti al golfo di Satalia e perse una parte ingente del “tesoro” di Caterina. Al termine d’una sofferta navigazione, il 5 giugno la

regina di Cipro (il titolo le era rimasto) giunse a Venezia, ove le furono tributate accoglienze degne della sua condizione regale. Nonostante un viaggio disastroso, Caterina si presentò in gran forma. Il doge, nel pomeriggio, andò a prelevarla al Lido col Bucintoro parato a festa, carico di dame, per poi accompagnarla al palazzo del marchese d’Este, «dandosi nelle campane come s’usa ne’ dì solenni, nelle trombe e ne’ tamburi, di guisa che, tra per questi rumori e quello più soverchiale delle artiglierie, la cerimonia aveva tutto l’aspetto di trionfo». Narrano le cronache che Caterina era giunta da poco a Venezia, quando l’imperatore Massimiliano d’Austria, che tornava in Germania da Milano in grande pompa, venuto a conoscenza del rientro della regina di Cipro a Venezia, abbia fatto sosta a Treviso e mandato un messaggero a Venezia ad omaggiarla. Si dice anche che qualche tempo dopo Caterina sia voluta andare a visitare i luoghi per dove era transitato Massimiliano e sia salita fino a Fossalunga di Treviso, dove fu talmente presa dalla bellezza di quei luoghi, circondati da dolci colline e irrigati da limpidi ruscelli, che quando il Senato le offrì un feudo dove fondare la sua reggia, abbia chiesto subito che le venisse data Asolo. Passarono tre mesi prima che Caterina raggiungesse Asolo e prendesse possesso del suo nuovo dominio. Accompagnata da un seguito di cui facevano parte anche il fratello Giorgio e i cugini Nicolò Priuli e Filippo Cornaro, e da una piccola corte tra cui il medico

89 IL veneto a cipro


CATERINA CORNARO

Salamina, la palestra con i bagni di marmo.

90 IL veneto a cipro

tedesco Giovanni Sigismondo, il segretario veneziano Francesco Amedeo soprannominato Kurtio, che il Colbertaldo definisce “eccellente poeta e non mediocre filosofo”, e il cappellano cipriota Davide Lamberti, il 10 ottobre 1489 Caterina finalmente partì per Asolo. Il giorno seguente fece il solenne ingresso nella cittadina che era già buio, alla luce di torce e candele, scortata da oltre quattromila persone accorse a salutarla anche dai territori vicini. Nel duomo si cantò il Te Deum. Subito la regina si accomodò in una palazzina nel cortile del Palazzo Pretorio, edificio piuttosto semplice e modesto, ospitandovi anche una rappresentanza di nobili ciprioti venuti a renderle omaggio. Presto sentì la necessità di possedere una residenza degna non solo del suo prestigio, ma anche della piccola corte di cui era andata subito circondandosi: letterati e artisti, aristocratici ed ecclesiastici, fra i quali Pietro Bembo, ma anche Luigi da Porto, Andrea Navagero e altri meno noti. Il luogo prescelto per una tale “villa di delizie” fu Altivole, ai piedi dei colli di Asolo. La sontuosa dimora che vi fu costruita, rispondeva pienamente agli ideali cinquecenteschi di corte principesca. L’idea di chiamarla Barco fu dell’onnipresente fratello Giorgio, «havendo veduto esser vicino a Pavia un loco fabricato da Giovan Galleazzo Visconte Duca di Milano e così detto Barcho». La villa della regina Cornaro si sarebbe composta di tre circuiti di mura che formavano tre spazi rettangolari, compresi l’uno dentro l’altro: il primo più grande,

ricco di fauna e di flora, attraversato da corsi d’acqua e dominato da una grande torre; il secondo, circondato da mura merlate, con un lungo edificio su di un lato, racchiudeva una vasta corte; il terzo contenente il palazzo della regina, con giardini e una peschiera sul retro. Nell’insieme, era un edificio di circa 118 metri di lunghezza. Marin Sanudo lo descriverà «vago palazzo di campagna, architettato all’orientale». Di questa struttura, progettata da Francesco Grazioli, ma realizzata dall’asolano Pietro Lugato, oggi rimane solo una porzione dell’ala orientale. Sarà solo a partire dal 1492 che la regina comincerà a privilegiare la sua nuova residenza asolana rispetto ai palazzi familiari di Venezia, assumendo anche un ruolo di mecenate. Quello di Asolo era un vero staterello, una specie di Montecarlo o San Marino, dove circondarsi di personalità dell’arte e delle lettere, ma anche dove accogliere personalità internazionali. «Nel bell’Asolo, Caterina Cornaro, regina di Cipro, tenea tre corti ad un tempo: quella delle muse, quella d’amore e quella della magnificenza e dignità regale; di tutti e tre era il Bembo l’anima e l’ornamento». Così scriverà il Bettinelli nella parte seconda del Risorgimento d’Italia (1786). E Pietro Bembo ci ha lasciato una suggestiva descrizione dei giardini del Barco, nell’introduzione de Gli Asolani: «Era questo giardino vago molto e di maravigliosa bellezza…». Nell’insieme, Caterina Cornaro trascorse gli ultimi


CATERINA CORNARO

anni della sua vita tra gli onori e le gioie del suo Barco, di Venezia e di Murano. Ma talvolta si spinse anche oltre, sempre suscitando simpatia e accoglienza “regale”, grazie anche a quell’aura romantica della quale andava rivestendosi e che ispirerà nei secoli a seguire, artisti di ogni genere e nazionalità. Nell’autunno del 1497, Caterina era appena tornata dalla sua esaltante visita a Brescia, quando si trovò costretta ad abbandonare in fretta e furia la sua dimora asolana, alla notizia dell’arrivo delle truppe turche di Bajazet che avevano invaso il Friuli e minacciavano Conegliano. Avuta la notizia, fuggì di notte rifugiandosi a Venezia con il podestà Nicolò Priuli. L’avrebbe attesa un’altra fuga ancora nel febbraio del 1509, quando le truppe minacciose di quell’imperatore Massimiliano che alcuni anni prima si era trattenuto a Treviso proprio per inviarle i suoi omaggi, occuparono il sereno feudo di Asolo. Nel successivo mese di aprile 1510, Caterina, ormai già avanti con gli anni, ma soprattutto molto provata dalla malattia di stomaco che da anni la affliggeva, fece ritorno ad Asolo, accolta al solito trionfalmente. Ma la letizia ritrovata fu per poco. Già a maggio giunse notizia che la soldataglia tedesca si aggirava attorno al Barco con intenti minacciosi. Temendo nuovamente per la sua incolumità, forse sollecitata a ciò, la regina si decise un’altra volta alla fuga. Fuggì in laguna, a Venezia, e stavolta sarà per sempre. Nella notte tra il 9 e il 10 luglio 1510 i dolori allo stomaco si fecero più acuti e insopportabili, e il cuo-

re di Caterina non resse. Morì, annota il Sanudo, “de doja de stomecho dopo esser stata ammalata zorni 3”. La regina di Cipro passò così d’un tratto dalla storia alla leggenda. Le ultime parole di Caterina Cornaro al fratello Giorgio furono parole pervase di fede e di speranza cristiana, ma anche colme dell’amarezza di un’esistenza vissuta tra gioie e dolori a lungo soffocati in fondo all’anima: «… di questa vita transitoria, caduca, frale mi parto per andar alla perpetua, alla felice, alla beata…». La notte dell’11 la salma, vestita del saio di terziaria francescana per sua esplicita volontà, fu portata nella chiesa parrocchiale di S. Cassiano, dove rimase per ventiquattr’ore. Il doge non partecipò al funerale, adducendo problemi di salute («per non si sentir»). Fu rappresentato da Alvise Priuli, vestito di scarlatto. Dopo la funzione celebrata nella chiesa di S. Cassiano, la salma venne composta in SS. Apostoli, di là del Canal Grande, dove i Cornaro possedevano la tomba di famiglia. La partecipazione popolare fu grandissima, tanto che si rese necessario costruire un ponte di barche che collegasse Rialto e Santa Sofia. Caterina fu sepolta nella cappella di famiglia, in posizione elevata, accanto al padre, dove i suoi resti rimasero fino al 1584, quando furono traslati nella chiesa di S. Salvador, nella tomba monumentale realizzata dall’architetto Bernardino Contino, dirimpetto al monumento funebre dei cardinali Marco, Francesco e Andrea Cornaro.

91 IL veneto a cipro


CATERINA CORNARO

Villaggio di Kaplica.

92 IL veneto a cipro

Un elegante bassorilievo raffigura la regina nell’atto di consegnare la propria corona regale al doge. L’arca fu dapprima collocata su un supporto ligneo, fino al 1735, quando fu interrata davanti al monumento funebre. La “favola” della regina Caterina Cornaro non finì con la sua morte, anzi, la sua morte sarà forse l’inizio del mito. Scrittori, poeti, pittori, scultori e musicisti, gareggeranno nei secoli a seguire per tramandarne ed enfatizzarne la figura. La sua vita, reale o di fantasia, è stata ispiratrice di storici, poeti, romanzieri e commediografi. Pietro Bembo nel Barco di Asolo ha ambientato gli Asolani, e nella Historia Veneta tratta ampiamente anche delle vicende storiche attinenti alla vicenda di Caterina Cornaro. Ma non vanno dimenticati poeti “d’occasione” quali Filenio Gallo, Giovan Battista Liliani, Pietro Lazzaroni, Bartolomeo Pagello, fino a commediografi e tragediografi quali Vincenzo Formaleoni, Luigi Carrer ed Eugène Scribe, per citare i maggiori, e senza trascurare Giacomo Medici, l’unico che seppe trarre dalla storia della regina Cornaro un’opera comica. Andrea Navagero compose la sua orazione funebre.

L’ambito musicale è stato forse il più celebrativo. Jules-Henry Vernoy di Saint-Georges (1799-1875) scrisse un primo dramma sulla vicenda che verrà musicato da Jacques François Halevy (1841). Saint-Georges può essere considerato la “base” di una serie di opere successive sul tema di Caterina Cornaro, dalla traduzione in tedesco di Alois Josef Büssel per la musica di Franz Lachner (1841), a quella in italiano che ne fece Francesco Guidi per la musica di Giovanni Pacini (1846). Su ispirazione di Saint-Georges anche il libretto di Gaetano Sacchero, per la musica di Gaetano Donizetti (1842-43) e quello di Bernardo Vestris per la musica di Antonio Mussi (1843). Il perdurare del “mito” Caterina Cornaro è testimoniato oltre che dall’incalcolabile produzione letteraria che la riguarda, anche dalla regata storica annuale di Venezia, che si svolge la prima domenica di settembre, in occasione della quale si commemora il ritorno in patria della regina di Cipro. Si tratta, in realtà, di una delle tante “tradizioni inventate”, proposta per la prima volta nel 1956 e non senza significative incongruenze storiche.


Il Kamares, antico acquedotto appena fuori dalla città di Larnaca, sulla strada per Limassol. costruito per trasportare l’acqua da una fonte a 6 miglia dalla città .


Giacinto cecchetto

Caterina Corner

Signora di Asolo Nella campagna a nord di Altivole, ai piedi dei colli asolani, isolato nella sua misteriosa, rara e affascinante bellezza, sopravvive un monumento indissolubilmente legato a una personalità tra le più note della storia veneta Il Barco della Regina Cornaro ad Altivole.

94 IL veneto a cipro

C

aterina Cornaro (o Corner), appartenente a una delle famiglie patrizie più facoltose della Serenissima Repubblica di Venezia. L’edificazione del Barco, iniziata intorno al 1491 e proseguita a cavallo dei due secoli, chiude la prima, intensa fase della vita di Caterina e ne apre la seconda, in tutto diversa dalla precedente. Caterina nacque a Venezia nel palazzo di Ca’ Corner di San Cassiano il 25 novembre 1454 da Fiorenza Crispo (figlia di Nicolò, duca di Naxos e dell’arcipelago delle Cicladi), nipote per parte di madre di Giovanni IV Comneno imperatore di Trebisonda e legata da vincoli di parentela alle case regnanti di Costantinopoli e di Persia, e dal patrizio veneziano Marco Cornaro. Nel 1468, appena quattordicenne, fu data in sposa per procura al re di Cipro, Giacomo II di Lusignano, figlio bastardo di Giovanni II, il quale nel 1464 aveva usurpato il trono alla sorellastra Carlotta. Dichiarata dal Senato veneto “figlia della Repubblica” e beneficiata dallo zio Andrea di una dote di 100.000 ducati, la giovanissima veneziana e il suo matrimonio, celebrato solo nel 1472 a Famagosta, furono, in realtà, strumento politico delle mire espansionistiche veneziane sull’isola cipriota, dove gli stessi i Cornaro da lungo tempo disponevano di cospicui interessi economici. Gli anni trascorsi a Cipro da Caterina furono, sin dal primo momento, dolorosi e tormentati. L’anno successivo al matrimonio, Giacomo II moriva improvvisamente nella notte tra il 6 e il 7 luglio in circostanze oscure, lasciando Caterina incinta di un figlio, Giacomo, nato il 28 agosto. Il vuoto di potere creato dalla morte del Lusignano innescò interminabili conflitti e congiure, di tale gravità da indurre Venezia ad agire con risolutezza, ponendo fine all’endemica instabilità del governo cipriota mediante l’annessione dell’isola. Il 24 gennaio 1489, Francesco Priuli e Giorgio Corner, fratello della regina, giunsero a Cipro. Fu Giorgio a convincere Caterina a non opporsi al volere della Repubblica, ad abdicare spontaneamente al regno e a lasciare per sempre l’isola. Il 14 marzo Caterina partì da Cipro, giungendo a Venezia il 5 giugno, dopo una navigazione travagliata. Accolta come il suo rango regale esigeva, e dopo aver rinnovato la donazione dell’isola alla Serenissima, il 20 giugno ottenne l’investitura vitalizia sulla terra e il castello di Asolo, la rendita annua di 8.000 ducati e la conservazione del titolo di regina di Cipro, Gerusalemme e Armenia. Caterina entrò solennemente in Asolo l’11 ottobre, accompagnata da una piccola corte, nella quale numerosi erano i ciprioti, Trascorse gli anni successivi tra il borgo asolano, Venezia, nel palazzo di famiglia a S. Cassiano, nella sua villa di Murano e nella quiete del Barco. La costruzione del ‘luogo di delizia’ di Altivole fu certo l’espressione più eloquente del mecenatismo artistico e letterario caratterizzante il regno asolano di Caterina, promotrice di restauri e di opere d’arte tra cui, nel Duomo, il fonte battesimale (opera di Francesco Graziolo, datata 1491) e la Pala dell’Assunta di Lorenzo Lotto (1506). La Cornaro accolse, nelle sue residenze veneziana e muranese, alcuni dei personaggi più noti del mondo politico e culturale del tempo, tra cui Isabella d’Este, Eleonora d’Aragona, Pandolfo Malatesta e Beatrice Sforza. Fondamentale fu il rapporto con Pietro Bembo

(1470-1547), parente della Cornaro, umanista e poeta di prima grandezza, autore degli Asolani, poema composto nel 1505 nel quale si idealizzava la corte di Caterina e lo stesso Barco di Altivole come uno dei luoghi simbolo del Rinascimento italiano. Oltre al Bembo, anche Andrea Navagero, poeta, oratore, diplomatico, bibliotecario della Marciana e storico della Repubblica veneta, fu certamente alla corte di Caterina a Venezia e a Murano ed ebbe l’incarico di comporre e pronunciare la solenne orazione funebre alla morte della Cornaro (1510). Caterina fu pure celebrata dai poeti Filenio Gallo, Bartolomeo Pagello e Giovanni Battista Liliani, autori di componimenti celebrativi di Caterina e del suo regno asolano. La spodestata regina di Cipro amministrò con saggezza il piccolo regno, sino al 1509, quando la guerra proclamata contro Venezia dalla Lega di Cambrai condusse le truppe dell’imperatore Massimiliano ad occupare Asolo. Dopo alterne vicende, gli armati tedeschi nella primavera del 1510 giunsero al Barco, inducendo Caterina a riparare a Venezia, dove morì nella notte tra il 9 e il 10 luglio 1510. Gli furono tributate solenni onoranze e venne sepolta nella cappella di famiglia della chiesa dei SS. Apostoli. I resti furono traslati alla fine del ‘500 nella chiesa del S. Salvatore, nel monumento funebre tuttora visibile. Dopo aver donato nell’anno 1500 il Barco al fratello Giorgio, Caterina aveva disposto nel 1508, con proprio testamento, la conferma della donazione a Giorgio sia del ‘luogo di delizia’ ad Altivole sia di tutti i suoi beni.


Interventi per il recupero e la valorizzazione del patrimonio veneto nel Mediterraneo (L.R. n. 2/2007 articolo 31 e L.R. n. 1/2008 articolo 25) PROGETTI ANNO 2007 INTERVENTI Tra Candia e Cipro: per un’indagine storico architettonica sulle due più grandi isole di Venezia

PROGETTI ANNO 2010

BENEFICIARI Marco Polo System Geie

PROGETTI ANNO 2008 INTERVENTI Tra Candia e Cipro: per un’indagine storico/architettonica sulle due più grandi isole di Venezia (seconda parte)

BENEFICIARI Marco Polo System Geie

Sulle onde della Serenissima: realizzazione di una Collana editoriale denominata “Patrimonio veneto nel mediterraneo”, effettuazione di una ricerca storica per l’identificazione del patrimonio veneziano nel bacino del Mediterraneo e traduzione e pubblicazione del volume “Famagosta”

Marco Polo System Geie

Documenti d’arte veneto-bizantina nell’isola di Creta

Istituto veneto di Scienze lettere arti

BENEFICIARI

Ricerca storica: “I cannoni della Serenissima. Catalogazione, studio e pubblicazione delle artiglierie di produzione veneziana conservate nel Mediterraneo Orientale”

Università Cà Foscari di Venezia

Realizzazione di un documentario in DVD “Sulle Antiche Rotte della Serenissima: l’Albania Veneta”

Luigi Gandi

Ricerca storica “La presenza dei Veneziani nella Cipro ottomana: aspetti della vita materiale e sociale durante il XVIII secolo, attraverso gli oggetti della vita quotidiana”

Università di Cipro

Sulle Onde della Serenissima III

Marco Polo System Geie

PROGETTI ANNO 2011

PROGETTI ANNO 2009 INTERVENTI

INTERVENTI

BENEFICIARI

Restauro della Chiesa Annunziata, Corfù (Grecia)

Ambasciata d’Italia in Atene - Comune di Corfù

Sulle onde della Serenissima 2

Marco Polo System Geie

INTERVENTI

BENEFICIARI

I cannoni della Serenissima. Catalogazione, studio e pubblicazione delle artiglierie di produzione veneziana conservate nel Mediterraneo Orientale - seconda fase Il Veneto a Cipro

Università Ca’ Foscari di Venezia – Dipartimento di Studi Umanistici Le Tre Venezie Editoriale S.c.a.r.l.

Da Venezia a Corfù, sul golfo della Serenissima

Comune di Venezia

Recupero e valorizzazione della fortezza veneziana di Castel Selino

Comune di Kantano-Selino (Grecia - Creta)

I cannoni della Serenissima. Catalogazione, studio e pubblicazione delle artiglierie di produzione veneziana conservate nel Mediterraneo Orientale - terza e ultima fase Restauro delle antiche fontane veneziane Bembo e Sagredo a Creta Prosecuzione della collana editoriale “Patrimonio Veneto nel Mediterraneo”: realizzazione in coedizione del volume “Cefalonia e Itaca al tempo della Serenissima: documentazione e cartografia in biblioteche venete”

Università Ca’ Foscari di Venezia – Dipartimento di Studi Umanistici Venetian Heritage Onlus

Biblion Edizioni Srl

INTERVENTI FINANZIATI DALLA REGIONE VENETO NELL’AMBITO DELLA L.R.N. 15/1994

Legge regionale n. 15/1994 - numero progetti per area geografica dei beneficiari dei contributi - anni 1994 - 2011

Montenegro 19 4%

Slovenia 25 5%

Italia 140 27%

Iniziative Legge regionale n. 15 del 7 aprile 1994 - anni 1994 - 2011

172

180 160

Italia

140

Croazia

120

Numero progetti

117

Croazia 340 64%

108

100 80 60

50

29

40

29 16

20 0

4

Articolo 2a "Ricerche"

Articolo 2b "Seminari"

%Articolo 2c "Pubblicazione di studi"

Articolo 3a "Comunità Italiane"

Articolo 3b "Restauri"

Tipo di intervento

&Articolo 3c "Diffusione informazioni"

Articolo 4 "Gemellaggi"

Iniziative Dirette


INTERVENTI FINANZIATI DALLA REGIONE VENETO NELL’AMBITO DELLA L.R.N. 15/1994

PROGETTI ANNO 2011 INTERVENTI

BENEFICIARI

Le vere da pozzo di Dignano d’Istria

Comunità degli Italiani Dignano

Civiltà veneta e umorismo in Istria e Dalmazia. Il giornalismo umoristico – satirico in istroveneto e dalmatoveneto nelle riviste italiane dell’Adriatico orientale

Dipartimento di Italianistica dell’Università degli studi di Zara

A Valle d’Istria Venezia ha scolpito la pietra. (Studio degli stemmi e dell’araldica di Valle d’Istria, ricostruzioni di stemmi del territorio)

Comunità degli Italiani di Valle

CDA – Codex Diplomaticus Arbensis, Codice Diplomatico Arbesano

Società Dalmata di Storia Patria

MARE 2 - Le Relazioni dei Rettori dello Stato da Mar, seconda parte

Società Dalmata di Storia Patria

L’itinerario per la terraferma veneta nel 1483 di Marin Sanuto

Comitato internazionale per il ripristino dell’Itinerarium di Marin Sanuto

Da Gimino a Murano. Estrazione e lavorazione della sabbia quarzosa. Le vie del vetro. Digitalizzazione dei volumi del fondo archivistico “Atti del Provveditore straordinario di Cattaro e Albania con la Soprintendenza di Castel-Nuovo” e pubblicazione su web (seconda fase)

Comune di Gimino “NOTAR” - Centro per la preservazione e la presentazione del patrimonio documentario della città di Cattaro

La tradizione teatrale veneta lungo l’Adriatico

Associazione Istituto della Commedia dell’Arte Internazionale

Realizzazione documento con indagini, studi e ricerche sulla Dalmazia Veneto – Salonitana dei secoli XVIII e XIX e relativa pubblicazione e diffusione. Contributo alla cooperazione reciproca fra i comuni di Monte Compatri (Roma) e Solin – Salona (Spalato)

Comune di Salona (Croazia)

Convegno internazionale di studi: Una comunità di confine e le sue consuetudini. Storia, arte e cultura del territorio di Momiano durante la dominazione veneziana

Università Popolare Aperta di Buie

Radici Comuni

Comune di Conselve

La ristrutturazione della scuola di Draguccio - l’integrazione del progetto esecutivo

Comune di Cerreto

Restauro e valorizzazione dell’ultimo edificio sacro d’epoca veneta in Sissano: la Parrocchiale di SS. Felice e Fortunato (1528)

Comunità degli Italiani di Sissano

Restauro e decorazione della chiesa di S. Antonio di Padova in Albona

Città di Albona

Ricerca storica e restauro del portale con il leone marciano della fortezza di Tenin (Knin)

Kninski Muzej – Museo di Tenin

Restauro di 8 capitelli lungo le strade ed il mare nel Comune di Draga di Moschiena – Istria

Comune di Draga di Moschiena

Pubblicazione di HISTRIA TERRA (n. 12) – supplemento agli Atti e Memorie della Società Istriana di Archeologia e Storia Patria

Società Istriana di Archeologia e Storia Patria

Sculture sepolcrali dal XV al XVIII secolo nel Pisinese

Museo civico di Pisino

Verteneglio e il suo territorio in epoca Veneziana

Comune di Verteneglio

Sviluppo delle attività culturali della Comunità

Comunità degli Italiani di Zara

La Maschera Veneziana

Associazione Veneziani nel Mondo

10 corsi di lingua italiana gratuiti

Comunità degli Italiani di Montenegro

Progetto per la protezione dei Corpi Santi a Dignano (II parte) – Realizzazione di due nuovi sarcofagi Indagine scientifica e stesura di preventivo di restauro dell’altare ligneo (1480) della chiesa parrocchiale di San Lorenzo del Pasenatico

Sostegno alla redazione, stampa e distribuzione del bollettino mensile Alida Notizie

A.L.I.D.A. - Associazione Libera Italiani dell’Adriatico

Ristrutturazione – restauro della torre veneziana (sec. XIII-XIV) sede del Museo Civico di Umago – seconda fase

Città di Dignano Regione Istriana - Assessorato alla cultura Museo Civico di Umago - Città di Umago



Collezione archivistica di atti veneziani nell’Archivio della Diocesi di Parenzo e Pola

Diocesi di Parenzo e Pola

Cultura e storia delle perle veneziane: percorso culturale conoscitivo e formativo a Cattaro

Associazione Veneziani nel Mondo

Parole di pietra: leggere e comprendere i monumenti per conservare, tutelare e sensibilizzare. Il caso de La Loggia e L’Arsenale – Teatro di Lesina

Comunità degli Italiani di Lesina “G.F. Biondi”

Attività varie da organizzare all’interno della Comunità e nell’asilo italiano Pinocchio

Comunità degli italiani di Zara

Città di Buie

Attività varie per la diffusione della lingua italiana

Società Dante Alighieri di Zara

Fornitura di arredi per gli spazi della Scuola materna italiana presso la Scuola elementare italiana di Cittanova

Città di Cittanova

Pubblicazione di una monografia su Momiano

Comunità degli Italiani di Momiano

Festival dell’istroveneto

Città di Buie

Guida turistica in lingua italiana della Dalmazia montenegrina (Bocche di Cattaro) con evidenziata la presenza storica veneta e l’individuazione dei palazzi e delle case di abitazione costruite nel periodo di amministrazione della Serenissima

Fondazione Scientifico Culturale Maria e Eugenio Dario Rustia Traine

Aggiornamento DVD Interventi per il recupero, la conservazione e la valorizzazione del patrimonio culturale di origine venete in Istria e Dalmazia

Associazione Mare

Pubblicazione del V volume sugli scavi della missione archeologica dell’Università Ca’ Foscari ad Antivari: “Il Palazzo dei Dogi di Antivari”

Università Ca’ Foscari di Venezia – Dipartimento di Studi Umanistici

Pubblicazione di una serie di monografie: Il patrimonio artistico delle chiese istriane

Regione Istriana - Assessorato alla cultura

Gemellaggio con Ente territoriale della Repubblica di Croazia - associare i cittadini e i loro rappresentanti locali alla costruzione europea valorizzando il patrimonio culturale di origine veneta

Comune di Tezze sul Brenta

Conservazione e restauro di 5 leoni di pietra, simboli di S. Marco

Narodni Muzej Zadar - Museo Popolare di Zara

Recupero e valorizzazione della Torre di S. Martino: fase di restauro Prosecuzione progetto di scavo archeologico sottomarino e di studio del relitto di nave veneziana giacente presso l’isola di Meleda

Università Ca’ Foscari di Venezia – Dipartimento di Studi Umanistici

Restauro della Madonna nella Chiesa di Santa Maria Maddalena a Momorano

Comune di Marzana

Restauro della scultura “Madonna con Bambino” (1490 ca) di Verteneglio d’Istria

Regione Istriana - Assessorato alla cultura

Restauro in fasi della Chiesa parrocchiale di S. Stefano a Montona. Sistemazione delle sacrestie, degli altari laterali e delle navate laterali

Comune di Montona

Restauro del leone marciano sull’Orfanotrofio del 1769

Comunità degli Italiani di Montenegro

Restauro quadro e cornice “Il Mito di Dafne”

Comunità degli Italiani Lussinpiccolo

Restauro dei leoni marciani di Cattaro e Perasto

Comunità degli Italiani di Montenegro

Restauro della Cattedrale di San Marco a Curzola

Venetian Heritage Onlus

PROGETTI ANNO 2012 INTERVENTI

BENEFICIARI

Cielo

Terra

Il Golfo Adriatico. Storia, diritto, economia e arte nella dominazione veneziana dell’Alto Adriatico

Limes Club Verona

Volume storico-scientifico “Le confraternite istriane: una sintesi”

Società di studi storici e geografici - Pirano

Interventi di restauro degli affreschi siti in casa Tartini a Pirano

Comunità degli Italiani “Giuseppe Tartini”

Studio e pubblicazione delle ricerche archeologiche sottomarine sul relitto di nave veneziana di Meleda (ulteriore fase)

Università Ca’ Foscari di Venezia – Dipartimento di Studi Umanistici

Restauro di Palazzo Portarol (“Castelletto”) a Dignano - II fase

Città di Dignano

MARE 3 - Le Relazioni dei Rettori dello Stato da Mar, terza parte

Società Dalmata di Storia Patria

Restauro della Casa Maraston in piazza a Visinada (XVI secolo)

Comunità degli Italiani di Visinada Città di Pola

Tra Venezia e Zara - fonti per un complesso rapporto decisivo per gli equilibri adriatici

Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti

Restauro dei dettagli scultorei e degli stemmi storici del Palazzo comunale di Pola di epoca veneziana (I fase)

Corsi di lingua italiana e di cultura storica letteraria veneta e nazionale da tenersi nelle città di Veglia, Zara, Spalato, Lesina, Ragusa e Cattaro

Città di Buie

Fondazione Scientifico Culturale Maria e Eugenio Dario Rustia Traine

Recupero e valorizzazione della Torre di San Martino La ristrutturazione della scuola di Draguccio - «La casa degli affreschi istriani» - l’integrazione del progetto esecutivo

Comune di Cerreto

10 corsi di lingua italiana gratuiti

Comunità degli Italiani di Montenegro

Restauro del crocifisso ligneo della Chiesa parrocchiale di S. Eufemia a Gallignana

Regione Istriana - Assessorato alla cultura



Monastero di S. Barnabas fondatore della chiesa di Cipro, situato all’estremità occidentale della necropoli di Salamina.


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