La Grande Guerra in Veneto - Humana pietas tra religione e sanità

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Regione Friuli Venezia Giulia

SAN PIO X

VAL DI NON

UN PARROCO VENETO DIVENUTO PAPA

13/10/14 16:09

Da 21 anni in viaggio Galileo Galilei

Luoghi, natura, storia e arte: sono i tesori nascosti di un territorio tutto da scoprire.

Regione Veneto

LA GRANDE GUERRA IN VENETO REGIONE VENETO LA GRANDE GUERRA IN VENETO

Le Tre VENEZIE • Anno XX • 2014 • N. 128

SAN PIO X

Anno XX • N. 128 • 2014

ANTICA ANAUNIA

REGIONE FRIULI VENEZIA GIULIA

ARI

Dal 1994 la rivista “Le Tre Venezie” guida il lettore con percorsi monografici in un suggestivo itinerario turistico e culturale. Uno stimolante viaggio, ricco di immagini e testi, per “leggere” il passato e il presente della storia, le cui radici affondano nella dolce bellezza del paesaggio e nel comune patrimonio di tradizioni e cultura.

N. 130 • 2015 • € 15,00

IL VENETO NEL MEDITERRANEO

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Colli Euganei

Le Tre VENEZIE • Anno XXI • 2015 • N. 132 131 Le Tre VENEZIE • Anno XXI • 2015 • N. 132

Le Tre VENEZIE • Anno XXI • 2015 • N. 130

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La Grande Guerra sul Monte Piana.

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LA GRANDE GUERRA IN VENETO


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a terribile vicenda che ha sconvolto l’Europa e il mondo intero tra il 1914 e il 1918 ha visto queste terre trasformate in tragici scenari di guerra, lasciando tracce profonde che hanno segnato il territorio così come la storia e la comune memoria della gente veneta. Il ricordo è indelebile. Il teatro degli eventi è ancora oggi diffuso di testimonianze, forti, trincee, postazioni, strade e sentieri, cimiteri, ossari, sacrari e monumenti ai caduti: un tessuto di forme e di opere ancora oggi evidenti, che ci invitano, dopo un secolo, a riflettere su ciò che è accaduto, affermando fondamentali valori umani e civili, di pace, collaborazione e dialogo tra i popoli. La circostanza commemorativa data dal centenario della Grande Guerra ha ispirato un’azione ampia e condivisa da parte dell’Amministrazione Pubblica, che ha voluto interpretarne in questo senso lo spirito e il significato. La Regione del Veneto ha avviato un complesso programma di iniziative in occasione dell’anniversario, in parte rivolte alla pianificazione e al coordinamento di interventi conservativi sulle vestigia della Grande Guerra, e in parte mirate alla valorizzazione di quei beni, attraverso varie attività culturali, che permettono di far conoscere e capire meglio le vicende, aiutando a tenere vivo il ricordo. In questo programma si inserisce la pubblicazione che qui si presenta, dedicata in gran parte all’approfondimento di un aspetto storico particolare, quello della vita nelle ‘città al fronte’ e degli effetti che la guerra ebbe sulla popolazione civile, una delle linee indicate come prioritarie nel programma regionale. L’iniziativa, che è stata preceduta da seminari e conferenze, vuole appunto rendere conto di come la gente reagì alle terribili vicende belliche, con momenti ed episodi di grande umanità, germogliati in uno scenario di morte e devastazione. È lo stesso spirito che ha mosso il programma regionale, nella convinzione che commemorare e rievocare per la generazione di oggi serva soprattutto a saper cogliere i segni del passato, in modo da trasmetterli con i loro valori a chi verrà dopo di noi.

Cortina d’Ampezzo, Croda Rossa.

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Avv. Cristiano Corazzari Assessore alla Cultura Regione del Veneto


LA GRANDE GUERRA IN VENETO HUMANA PIETAS TRA RELIGIONE E SANITÀ S LE TRE VENEZIE Testata giornalistica multimediale di cultura, storia, arte e turismo

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VERONA E LA VALLE DELL’ADIGE

IL CADORE E LA BATTAGLIA DELLE AQUILE

di Vasco Senatore Gondola

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PADOVA, CITTÀ OSPEDALIERA

TREVISO, I LUOGHI DEL BEATO MONSIGNOR LONGHIN

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MEMORIE DELLA GRANDE GUERRA IN POLESINE

VICENZA, CITTÀ DI CONFINE di Paolo Volpato

di Sergio Garbato

Iniziativa realizzata con il contributo della Regione del Veneto, ai sensi della legge regionale 1/2008, articolo 102, nell’ambito del programma per le commemorazioni del centenario della Grande Guerra.


WALTER MUSIZZA

Il Cadore e la battaglia delle Aquile Sulle più belle montagne dolomitiche, Patrimonio UNESCO, i nostri soldati sostennero un’incredibile guerra d’alta quota, improvvisando difese e ricoveri a ridosso del fronte.

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LA GRANDE GUERRA IN VENETO


IL CADORE E LA BATTAGLIA DELLE AQUILE

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udyard Kipling, il grande scrittore inglese, Premio Nobel, in occasione della sua visita nel 1917 come corrispondente di guerra in Cadore e nell’Ampezzano, così additò all’ammirazione dei suoi tanti lettori sparsi nel mondo il valore dei nostri alpini: «Sono uomini che girano intorno a precipizi di mille piedi di profondità. Loro linguaggio è il gergo delle montagne, che ha una parola adatta per significare ogni aspetto e ogni capriccio della neve, del ghiaccio e della roccia; essi vi parlano con tanta esattezza di ogni più minuto particolare. Portano un cappello “alla lobbia”, ornato di una penna logora talvolta fino a rassomigliare a un moncone; i chiodi ritorti delle loro scarpe paiono le zanne di un lupo e sono altrettanto aguzzi; gli occhi, acutissimi». A queste autentiche “aquile” delle Dolomiti, conosciute ed ammirate in prima linea e nei ricoveri sospesi sulle cenge, egli dedicò alcune belle pagine del libro che sublimò quell’eccezionale esperienza vissuta, Le guerre nelle montagne. Impressioni del fronte italiano. Quello che forse Kipling non conosceva allora era il lungo processo evolutivo che aveva contraddistinto questo corpo di fanti proposto per la difesa territoriale dal Capitano Perrucchetti ancora nel 1872 e, soprattutto, le ragioni strategiche ed economiche che determinarono siffatto conflitto d’alta quota sulle montagne più belle del mondo, Patrimonio UNESCO. Ad una lunga e logorante guerra sulle Dolomiti il Re-

gno d’Italia s’era preparato alla conclusione stessa della IIIa guerra d’indipendenza, che nel 1866 ci aveva donato sì il Veneto e parte del Friuli, ma pure assegnato una linea di confine che Garibaldi, acciaccato ma lucido più che mai, definiva senza mezzi termini «assolutamente indifendibile». Ecco dunque che il nostro paese, pur tra difficoltà economiche e diatribe strategiche, andò allestendo una serie di apparati fortificatori ad una certa distanza dal confine, in grado di sostenere la difesa nell’intero comprensorio cadorino, occupando posizioni sempre più elevate ed adottando via via criteri e materiali al passo coi tempi. In un arco di quasi 50 anni e nel ricordo pure delle esperienze fatte nel corso dell’eroica resistenza qui organizzata da Pier Fortunato Calvi nel 1848, venne dunque realizzato un complesso di forti, batterie, postazioni, depositi, osservatori e strade, giunto ad un accettabile grado di organicità ed efficienza solo all’immediata vigilia della Grande Guerra. Dopo una serie di modeste postazioni per cannoni da campagna realizzate sui colli di Vigo di Cadore (Col Piccolo, Col Rive, Col Tagliardo, Col Ciampon) subito dopo il ‘66 per battere la sottostante strada ed in particolare il nodo nevralgico di Treponti, verso il 1880 si preferì concepire lo sbarramento in zona più arretrata, presso Pieve e Tai di Cadore, per controllare le penetrazioni nemiche dalle valli dell’Ansiei, del Boite, del Degano e del Tagliamento. Venne così

Trincee sul Monte Piana.

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LA GRANDE GUERRA IN VENETO



Vedute delle Tre Cime di Lavaredo. Patrimonio UNESCO.

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LA GRANDE GUERRA IN VENETO


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LA GRANDE GUERRA IN VENETO


Veduta delle Dolomiti Nord-orientali dalle Tofane, con la Croda Rossa d’Ampezzo. Patrimonio UNESCO.

Le Dolomiti d’Ampezzo dal Rifugio Scoiattoli; in primo piano le Cinque Torri. Patrimonio UNESCO.


Trasporto di cannone in Val Marzon.

Trasporti a dorso di mulo

Biplano catturato al nemico.

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IL CADORE E LA BATTAGLIA DELLE AQUILE

completato, tra il 1882 e il 1896, il cosiddetto Campo trincerato di Pieve di Cadore, che comprendeva i forti di Batteria Castello, Monte Ricco e Col Vaccher presso Pieve e Tai di Cadore, con tutta una serie di postazioni e strade di accesso e di cintura sui colli circostanti. Strettamente collegati ad essi erano i ricoveri predisposti a fine secolo per le esercitazioni delle truppe alpine, cui era devoluta la prima difesa del territorio: quattro furono costruiti sul Pian dei Buoi, sotto le Marmarole (Ciareido, Col Cervera, Col Vidal e Sora Crepa) a circa 1900 metri di quota, ed un altro in Val Inferna (m 1872) a nord di Col Rementera, nei pressi di Casera Razzo. Se nei primi tempi gli alpini avevano la loro sede invernale a Conegliano e salivano in Cadore solo per le manovre estive, poi ebbero delle caserme stabili, sia a Pieve (loc. Pecòl), sia ad Auronzo (loc. Ferieve). Furono essi, con le loro marce e la loro perfetta conoscenza del territorio, a favorire i primi dettagliati studi difensivi, ponendo le premesse per impedire aggiramenti delle nostre difese attraverso il controllo di ogni valico d’alta quota, nonché per la costruzione dell’indispensabile rete di sentieri e mulattiere necessaria per far affluire uomini e mezzi sul punto minacciato. Il nostro apparato fortificatorio veniva teoricamente investito pure di un compito controffensivo, in quanto permetteva la preparazione in area protetta di un corpo d’armata destinato ad un attacco rivolto alla Valle del Gail. Esso peraltro era impostato su costruzioni in muratura ordinaria, erette con criteri quasi medievali, cosicché finì col risultare ben presto obsoleto alla luce dei grandi progressi ossidionali palesatisi in Europa alla fine del secolo. Solo a partire dal 1904, con l’arrivo di altri fondi e di nuovi studi strategici, il Cadore ritornò in primo piano nella concezione strategica difensiva nazionale. Vennero così costruiti dei potenti forti corazzati, e precisamente due “opere basse” a Col Piccolo presso Vigo e a Pian dell’Antro presso Venas, e tre “opere alte”, rispettivamente su Monte Tudaio, Col Vidal e Monte Rite. Nella loro progettazione e realizzazione ebbe un ruolo decisivo il torinese maggiore F. Pecco. Per indicare l’estensione di questo apparato difensivo, dilatato anche allo Zoldano (Col Pradamio) e comprendente anche i vecchi impianti di Pieve, declassati a magazzini e prigioni, venne adottata la comune dizione di Fortezza Cadore-Maè. Il regno sabaudo alla vigilia del conflitto disponeva dunque in Cadore di un apparato difensivo che prevedeva delle vere e proprie cittadelle fortificate a 2000 e più metri, con presidî, viveri e munizioni in grado di resistere per mesi ad un’eventuale invasione nemica e, naturalmente, ad ogni condizione climatica e meteorologica. I moderni cannoni da 149 A in cupola Armstrong erano in grado di lanciare granate da 40 kg a 14 e più km di distanza, ma, al momento della nostra entrata in guerra, allorché si scoprì che a noi era riservato il ruolo di attaccanti e non di difensori, ecco che quella potenza ossidionale si palesò ininfluente, incapace di incidere su un fronte troppo lontano.


IL CADORE E LA BATTAGLIA DELLE AQUILE

Tutto ciò mise subito in crisi il generale Nava, comandante della IVa Armata, che poteva contare sul Io e sul IXo Corpo d’Armata schierati tra l’Agordino e il Monte Peralba e che si vide affidata la guida del primo balzo offensivo del nostro esercito verso la Val Pusteria subito dopo il 24 maggio 1915, per approfittare della sorpresa e delle deboli difese austriache. Nei piani del Capo di stato maggiore generale Cadorna il Io Corpo d’Armata (Divisioni IIa e Xa) avrebbe dovuto, col supporto di due frazioni di parco d’artiglieria d’assedio e delle truppe di occupazione avanzata, muovere lungo le direttrici dell’Ansiei e del Boite, sopraffare le difese nemiche a Son Pouses, investire lo sbarramento di Landro – Plätzwiese e puntare decisamente su Toblach e Niederdorf, concorrendo così alla caduta per manovra dello sbarramento di Sexten. In verità Nava manifestò fin dal principio una condotta attendistica, guardandosi bene dal procedere ad audaci penetrazioni prima di aver schierato a ridosso della prima linea le artiglierie pesanti, fatto questo che ci impedì l’occupazione preventiva di importanti posizioni e diede il tempo al nemico di organizzare gli scarsi reparti a disposizione e soprattutto il contingente inviato in soccorso dalla Germania (il famoso Deutsche Alpenkorps). I nostri soldati furono così condannati ad un’estenuante guerra di posizione, costretti ad improvvisare trincee, ricoveri e postazioni dove nulla era stato ancora preparato per fare la guerra e, ancor prima, per sopravvivere in difficili condizioni ambientali e climatiche. Su cime e forcelle rimaste fino allora vergini di installazioni militari e mete spesso di un “turismo” internazionale già affermatosi negli anni ruggenti della Belle époque, i nostri reparti dovettero realizzare in tutta fretta una serie di fortificazioni campali, sostituendo il cemento armato tanto profuso negli anni precedenti nelle retrovie, con sacchetti a terra, scudi e palizzate, il tutto rigorosamente a forza di braccia e con il solo ausilio di picconi e badili. E a sostenere questa guerra non furono solo gli alpini veri, bensì migliaia di fanti, genieri, artiglieri e bersaglieri provenienti da ogni regione d’Italia, che dovettero adattarsi all’alta quota, a neve e ghiaccio spesso mai visti, trasformandosi, per necessità o per virtù, in alpini essi stessi. Il Monte Piana è uno degli esempi più grandiosi e tragici di questo fronte “improvvisato”, di un’estenuante guerra di posizione destinata a durare fino a Caporetto. Anche qui la nostra occupazione preventiva dell’intero tavolato del monte, pur possibile nei primissimi giorni di guerra, non fu attuata e ben presto dovemmo subire l’iniziativa del feldmaresciallo Goinginger che aveva appena assunto il comando della divisione Pustertal. La situazione risultò subito chiara: la parte sud rimaneva in mano italiana, mentre gli austriaci dovevano cercare di organizzarsi alla meglio sulla parte nord, certo sfavorita da un versante più ripido. La forcella “dei castrati”, ovvero la depressione che separava la parte meridionale del monte da quella settentrionale, divenne il discriminante della lotta, una striscia di orrore e sangue refrattaria a qualsiasi eroismo, da

Monte Paterno forcella del Camoscio, punto di primo soccorso. Cani da traino.

Incidente di percorso.


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Monte Piana, Cippo che ricorda il sacrificio del Maggiore Angelo Bosi.

quello del maggiore Bosi e del capitano Gregori, caduti il 17 luglio 1915, a quello del tenente De Simone, immolatosi il 22 ottobre 1917. Tra i primi e l’ultimo vi furono circa 14.000 caduti tra italiani ed austriaci e i nostri reparti impegnati lassù furono soprattutto il 53°, 54°, 55° e 56° Reggimento Fanteria, diverse compagnie del 7° Reggimento Alpini, il 48o battaglione dell’8° Reggimento Bersaglieri, oltre a vari reparti di artiglieri, zappatori, bombardieri e minatori. Gli austriaci, abbarbicati sugli estremi lembi del monte, con ricoveri e baracche sospesi sul precipizio che incombeva sul Landro, schieravano guardie di frontiera, compagnie del 36° Reggimento Kolomea, del 59° Reggimento Landersturm, il 9o Battaglione del 3° Kaiserschützen, oltre a reparti di Kaiserjäger, soldati talvolta avanti negli anni, ma esperti e soprattutto profondi conoscitori del territorio. Il fronte rimase pressoché inalterato per più di due anni e a ben poco servirono gallerie di mina e contromina, attacchi e contrattacchi, eroismi grandiosi ed inutili, capaci solo di progressi di pochi metri di aspra pietraia distesa al cospetto della triplice cuspide di Lavaredo.

E ai piedi di quello che oggi è il simbolo stesso del nostro patrimonio dolomitico la situazione era analoga. Qui però noi italiani fummo un po’ più rapidi e reattivi, dal momento che ancora il 12 maggio il il 9o battaglione del 3° Landesschützen, che aveva l’ordine di trincerarsi sulle forcelle Lavaredo, Pian di Cengia e Giralba, le trovò già occupate dagli italiani. Non potendo ricorrere alla forza, poiché la guerra non era dichiarata ancora e le trattative diplomatiche erano in corso, gli austriaci finirono coll’attestarsi sulla Bödenalpe ed alla testata della Valle della Rienza con due manipoli, mentre altri piccoli nuclei si stabilirono presso il rifugio Tre Cime (Dreizinnenhütte) ed il Frankfurter Würstel, nonché presso il rifugio Zsigmondy per bloccare la Bachertal. La sera del 23 maggio gli austriaci sgombrarono il rifugio Tre Cime e nel contempo la 3ª compagnia ebbe l’ordine di salire sull’altopiano: su di una linea difensiva di 7 km venivano ad essere dislocati dunque poco più di 200 fucili austriaci. La dislocazione delle nostre truppe in linea nella zona di Lavaredo prevedeva un plotone alla Forcella Lavaredo, piccoli posti di vedetta alle sellette tra la


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Cima Piccola e la Grande e tra la Grande e la Ovest, un reparto alla Forcella Passaporto con piccoli posti sulla punta del Paterno e alle Forcellette Camoscio, Camoscetto, Camoscino ed Est. Alla Forcella Longere e alla Forcella Lavaredo vi erano anche aliquote di artiglieria da montagna e da campagna. All’alba del 24 maggio, le truppe italiane in zona non avevano ancora ricevuto la notizia della dichiarazione di guerra, ma a recapitarla furono i colpi di due cannoni di campagna da 90, appostati sullo Schwalbenkofel: il terzo (a Shrapnel) cadde sulla Forcella Col di Mezzo ed uccise due alpini della 67ª compagnia del Battaglione Pieve di Cadore, che furono i primi morti italiani sul fronte del Cadore. Altri colpi austriaci colpirono Misurina nel pomeriggio dello stesso giorno ed alcuni di essi, finiti nel lago, spaccarono la superficie ghiacciata, accelerando il disgelo dello specchio d’acqua tanto ammirato dalla Regina Margherita nel suo soggiorno al Grand Hotel di 15 anni prima. Il 25 maggio venne centrata la caserma italiana dei Piani di Lavaredo e in risposta il comandante del Pieve di Cadore, escludendo che il Rifugio Tre Cime

potesse ricoverare feriti, ordinò alla 58ª batteria da montagna di piazzare i pezzi a Forcella Lavaredo e di distruggere il rifugio. Anche questa era una pagina della Belle époque che si frantumava di fronte a una guerra crudele, “progressiva” sì nei suoi mezzi di distruzione, ma non certo “magnifica” nei suoi fini. E proprio sul Paterno, di fondamentale importanza, perché da esso si poteva dominare l’intero Altopiano delle Tre Cime, avvenne l’episodio più eclatante: la morte di Sepp Innerkofler, la più famosa guida di Sesto, arruolatosi volontario, benché avesse ormai più di 50 anni, assieme ai fratelli e al figlio maggiore Gottfried. Il 4 luglio 1915 era arrivato ormai sotto la postazione italiana sul Monte Paterno e stava lanciando bombe su di essa, allorché l’alpino Pietro De Luca, uno dei 6 alpini che formavano il presidio agli ordini del caporale Da Rin, riuscì a colpirlo con un masso che lo fece precipitare nel sottostante camino Oppel. Il giorno dopo la salma fu recuperata dagli italiani e sepolta con gli onori sulla cima stessa del Paterno, dove rimase fino alla ritirata di Caporetto, a dimostrazione che di fronte c’erano uomini e non solo soldati e nemici.

Monte Piana, Piramide Carducci.

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Il Lago di Misurina e le Dolomiti della Val d’Ansiei; in primo piano la Cappella degli Eroi sul Monte Piana.

E che quella guerra fosse fatta anche di vittorie sulla natura e sui propri limiti prima ancora che sul nemico, resta dimostrato dall’incredibile impresa compiuta dagli alpini della 267a compagnia del Val Piave e della 75a compagnia del Pieve di Cadore, che in tre settimane di duro lavoro riuscirono a traportare ed installare sulla Cima Grande di Lavaredo (a quota 2999) un faro da 90 cm. La cima dovette essere abbassata di qualche metro di cresta per consentire alla fotoelettrica un migliore campo visivo e fu così che la Cima perdette i suoi 3000 metri e si assestò sugli attuali 2999. Quasi contemporaneamente veniva issato pure un pezzo da montagna della 58a Batteria a quota 2850 sullo spigolo sud-est della Cima Grande, destinato a sparare con alzo negativo sulle sottostanti postazioni austriache. Racconta Antonio Berti, il medico padovano che di quella guerra sarà testimone e cantore e che darà il suo nome al famoso rifugio in Val Popera: «Postati il faro ed il cannone, lassù, a quegli atleti, che si sono fatti abituale dimora in quei nidi d’aquile, appare don Piero Zangrando. Indossa la Pianeta e celebra la Messa. Poi benedice

quegli uomini inginocchiati, e spaziando con lo sguardo da quel culmine eccelso fino all’orizzonte lontano, benedice con loro tutti i combattenti ed i morti per la Santa Causa d’Italia». Don Piero Zangrando fu il più noto dei cappellani militari impegnati in Cadore, ma accanto a lui vi furono tantissimi altri preti e frati in divisa. Furono circa 25.000 i preti-soldati chiamati a combattere o addetti ad unità sanitarie, mentre i cappellani veri e propri erano 2700, la metà dei quali impiegati in prima linea. Molti di essi divennero parte integrante e convinta dell’istituzione militare, sostenendo insieme religione e patria, nonostante le dolorose lacerazioni conseguenti alla Breccia di Porta Pia del 20 settembre 1870. Al di là del loro ruolo spirituale, essi seppero essere sostenitori e mediatori tra trincee e famiglie, ovvero tra tanti combattenti al fronte e i loro cari lontani. Furono essi a diffondere libri e doni, ad impiantare luoghi di svago e scuole per analfabeti. In particolare le “Case del soldato”, ideate da don Giovanni Minozzi, a fine guerra erano oltre 500, finanziate da benefattori privati, enti e comitati. Qui i soldati trascorrevano


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il tempo libero, disponevano di biblioteche, dischi, strumenti musicali, giochi, conferenze ecc. E qui i cappellani li aiutavano a compilare le lettere destinate ai familiari. In Cadore la prima casa fu a Calalzo, poi ne vennero altre a Pieve, Domegge, Laggio, Auronzo, Federavecchia, Tre Croci, Cortina, Santo Stefano, Sappada, Candide, Padola ecc. Erano i cappellani ad assistere i feriti nei tanti ospedaletti posti nelle immediate retrovie del fronte. La Val d’Ansiei contava ben tre ospedali militari, il più noto dei quali era il n. 042, collocato all’imbocco della Val Marzon, nei pressi del grande centro logistico colà realizzato per le truppe che operavano nella zona delle Tre Cime, dove lavorò per alcuni mesi il maggiore medico Ugo Cerletti, destinato a diventare l’inventore della spoletta a scoppio differito e del tanto discusso “elettroshock”. Fu lui, assieme al cappellano don Giuseppe Lorenzon, a far costruire una bella chiesetta in legno accanto all’ospedale, oggi purtroppo non più esistente. Più in alto, oltre il “Cason de la Crosèra” c’era anche un piccolo cimitero, i cui resti sono oggi facilmente raggiungibili tramite un piccolo e poco frequentato

sentiero, che si inoltra nel bosco di faggi e fiancheggia l’argine del letto del Rio Marzon. È rimasta solo una grande croce in cemento con la scritta “PAX”, ma si riescono a distinguere i segni delle fosse, con all’interno alcune lapidi. Più ad est delle Tre Cime, oltre il Pian di Cengia e sotto la Croda de Toni, da Forcella Giralba, partivano tutte le nostre corvées destinate ad alimentare l’attacco al Passo della Sentinella e alle posizioni austriache della Croda Rossa di Sesto. La conquista del Passo (m 2717) situato nel punto più alto della Val Popera, sulla cresta che congiunge la Croda Rossa e Cima Undici, avvenne ad opera dei nostri soldati il 16 aprile 1916 e rappresenta forse l’azione più famosa avvenuta sulle Dolomiti orientali nell’intero arco del conflitto. Fu il capitano Giovanni Sala (1883-1965), di Borca di Cadore, a dirigere le complesse operazioni che portarono, tra gennaio e aprile 1916, ad occupare tutta una serie di posizioni e alte forcelle su Cresta Zsigmondy, Monte Popera e Cima Undici, che permisero ai nostri di portarsi, senza che il nemico se ne accorgesse, proprio sopra il presidio austriaco sul passo. E fu lo stesso Sala a guidare di persona l’attac-

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Filo spinato e trincea sulla Valle di Landro.

Lago di Misurina, sullo sfondo il Monte Sorapis.


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co decisivo dall’alto lungo il gran canalone di neve, in concomitanza con l’assalto che si svolgeva dal basso ad opera del capitano Martini e dal fianco destro da parte del plotone scalatori di Italo Lunelli. Le due squadre che agirono dall’alto, di 20 uomini l’una, erano formate da alpini offertisi tutti volontariamente, denominati da Sala i “Mascabroni”, che nel gergo di Cima Undici voleva dire gente rude, ardita e, se vogliamo, anche un po’ strafottente al modo alpino, ma sempre generosa e pronta al sacrificio. La presa del Passo avrebbe dovuto preludere alla successiva conquista delle posizioni austriache sulla Croda Rossa, tra le quali la mitica “Polar”, ma ciò non avvenne e il Passo della Sentinella restò solo un’epica impresa ed una bella finestra aperta sulla Pusteria. Più ad est ancora fu sul Peralba che si consumarono, ancora una volta inutilmente, i nostri tentativi di conquista della vetta presidiata dagli austriaci. «Nella notte tra il 7 e l’8 agosto 1915 fin qui e non oltre!»: così recita ancor oggi una scritta incisa su una roccia 200 metri sotto la vetta di quel monte tanto conteso. A scriverla furono i soldati del Xo Battaglione di marcia del Kaiserlich und Königlich Infanterie

Regiment numero 7 dopo aver respinto l’attacco italiano tentato nella notte tra il 7 e l’8 agosto 1915. Gli attaccanti, 22 uomini (alpini del Battaglione Dronero, bersaglieri dell’8° Reggimento, volontari cadorini, fanti del 92° Reggimento) comprese due guide (Giuseppe Oberthaler di Sappada e Giuseppe Samassa di Forni Avoltri), agli ordini del maresciallo Berardengo, riuscirono ad espugnare il primo dei tre posti sulla vetta e ad inoltrarsi lungo la cresta orientale sino dinnanzi alla Guardia numero 2 del presidio austro-ungarico. Tuttavia, le forze austro-ungariche, appartenenti al Xo Battaglione di marcia del 7° Reggimento fanteria, poterono, nelle primissime ore della mattina, reimpossessarsi della posizione perduta e rigettare i soldati italiani in fondovalle. Nell’attacco il volontario cadorino Fabio Monti (classe 1883), di Auronzo, cadde fulminato in fronte, mentre rimase ferito a morte il maresciallo, successivamente ritrovato in fondo ad un dirupo. Le tragiche conseguenze del disastro di Caporetto costrinsero la IVa Armata ad abbondonare precipitosamente alla fine di ottobre 1917 tutte le posizioni faticosamente raggiunte e tenute per 29 mesi col sa-

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IL CADORE E LA BATTAGLIA DELLE AQUILE

Croce di Vetta del Monte Piana; sullo sfondo la Croda Rossa d’Ampezzo Patrimonio UNESCO.

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crificio di migliaia di soldati. Armi e cannoni furono gettati nei dirupi, interi villaggi e depositi finirono incendiati, mentre una massa disordinata di soldati si precipitava verso la stazione di Calalzo e il nodo stradale di Tai, dove confluivano le colonne in ritirata provenienti dalla Mauria, dalla strada del Comelico, da Auronzo e Misurina, da Cortina e dalla Val Boite. Nel tentativo di rallentare l’avanzata nemica nuclei di alpini e bersaglieri furono sacrificati in uno stillicidio di piccole battaglie di retroguardia dall’esito scontato, coll’unico obiettivo di dar respiro alla ritirata del-

la IVa armata e della zona Carnia in esiziale ritardo rispetto ai tempi imposti dal generale Robilant e, più ancora, dal Capo di stato maggiore generale Cadorna. Al Passo Mauria, a Pezzocucco, a Rementera, sui prati di Colonia di fronte a Domegge, caddero tanti oscuri eroi, i cui corpi rimasero abbandonati talvolta per anni in boschi poco frequentati. E mentre la nostra ritirata si consumava tragicamente, pagando a Longarone con 10.000 prigionieri, l’inopinata intraprendenza del maggiore Sproesser e dell’allora giovanissimo tenente Rommel, piombati


IL CADORE E LA BATTAGLIA DELLE AQUILE

alla confluenza del Maè nel Piave provenendo dalla Val Cellina, i nostri pretenziosi forti corazzati d’alta quota fallivano il loro compito. Essi avrebbero dovuto servire almeno in queste ore di disperato bisogno, ma nessuno, e a ragione, credeva più in essi, perché tre anni di guerra avevano talmente sviluppato le potenzialità ossidionali che anche le loro cupole in acciaio-nichelio erano diventate obsolete, vulnerabili e addirittura trappole mortali per chi avesse voluto resistere lassù “fino all’ultima galletta”, come predicavano gli alti comandi prima del cedimento sull’Isonzo.

Ecco dunque che il Cadore, a 100 anni o quasi di distanza, ha davvero una duplice guerra da ricordare e mostrare a suoi ospiti. Le sue “crode” sono costellate di memorie infinite, che riguardano sia la guerra scientificamente preparata per 50 anni, sia la guerra dei terribili assalti di tanti uomini mandati allo sbaraglio con criteri primitivi e selvaggi. Due osservatori complementari e comunque privilegiati per contemplare e comprendere la Grande Guerra. Ed entrambi immersi in uno scenario unico al mondo, che non può che sollecitare le nostre emozioni e riflessioni.


IL CADORE E LA BATTAGLIA DELLE AQUILE

CADORE – THE BATTLE OF THE EAGLES On the most beautiful mountains of the Dolomites our soldiers kept up an incredible war at high altitude, improvising defences and shelter and protection, whilst far away and useless, the ambitious installations, built decades before , could be seen at Fortezza Cadore.

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Cortina d’Ampezzo. Zona di Vervei. Baracche alle spalle delle Tofane dove erano situati i comandi dei reparti Alpini.

or Rudyard Kipling the Nobel Prize winning writer, our Alpine soldiers were men of valour who were familiar with the precipices, the snow, the ice, the rocks and the jargon of the mountains. What, perhaps Kipling didn’t know about the ‘Eagles’ of the Dolomites, was the long evolutionary process which distinguished this infantry nominated for the territorial defense by Captain Perruchetti in 1872, and above all as part of strategic and economic reasons for determining a high altitude conflict on the most beautiful mountains in the world. To a long and exhausting war in the Dolomites, the Kingdom of Italy had prepared itself to the conclusion of the Third War of Independence. Over a lapse of nearly 50 years, it was therefore built a complex of forts, batteries, placements, depots, observers and roads that reached an acceptable degree of structure and efficiency only on the eve of the Great War. Around 1880, it was decided to design the barrier further backward, near Pieve and Tai di Cadore, in order to control enemy invasions in the valleys of Ansiei, Boite, Degano and Tagliamento. It was so completed, between 1882 and 1896, the fortified system called entrenched Field in Pieve di Cadore that included the forts of Batteria Castello, Monte Ricco and Col Vaccher at Pieve and Tai di Cadore, with several placements and access roads on the surrounding hills. Closely related to these were the shelters prepared at the end of the century for the exercises of the Alpine troops, who were responsible for the first defense of the territory. If, in the early days, the Alpine troops had their winter headquarters in Conegliano and went up to Cadore only for summer training, later on they were given stable barracks, both in Pieve (Pecòl area) and Auronzo (Ferieve area). It was them, with their marches and thorough knowledge of the territory, that advanced the first detailed defensive studies, paving the way to prevent circumvention of our

defenses through the control of every high-altitude passage as well as for the construction of the necessary network of paths and trails needed to transfer men and equipment onto the threatened point. Our fortification system was based on plain masonry constructions, erected following quite medieval criteria (moat, drawbridge, drains, etc.), so it soon ended up being obsolete in the light of great siege progress occurring in Europe at the end of the century. Only in 1904, thanks to more funds and new strategic studies, Cadore came to the fore in the national strategic defense plan. New strong armoured forts were built, more precisely two “low works” at Col Piccolo in Vigo and at Pian dell’Antro in Venas and three “high works”, on Mount Tudaio, Col Vidal and Mount Rite respectively. In order to indicate the extension of this defense system, extended up to Zoldano (Col Pradamio) and including the old installations in Pieve, downgraded to warehouses and prisons, it was adopted the common term Fortezza Cadore-Maè. The House of Savoy on the eve of the conflict had in Cadore such a defense system, including real walled citadels at 2000 and more metres, with garrisons, food and ammunition, capable of holding out against a possible enemy invasion for months and, of course , resisting all weather or climate conditions. Our soldiers were therefore condemned to an exhausting trench warfare, forced to improvise trenches, shelters and stations where nothing had yet been prepared for war and, before that, for surviving in difficult environmental and climate conditions. On tops and cols remained virgin, until then, of military installations and that are often destinations of international “tourism” already well-known in the roaring years of the Belle Epoque, our units had to quickly build a series of field fortifications, replacing the reinforced concrete so extensively used in previous years in the rear, with bags on the ground, shields and fences, all strictly by hand and with the only aid of picks and shovels. And to support this war were not only true Alpine soldiers, but also thousands of infantrymen, sappers, artillerymen and Bersaglieri from every part of Italy. Monte Piana is one of the most important and tragic examples of this “improvised” front, of an exhausting trench warfare that was destined to last until Caporetto. Even here our preventive occupation of the entire mountain plateau, although possible in the very first days of the war, was not implemented, and soon we had to yield initiative of Field Marshal Goinginger who had just assumed command of the division “Pustertal”. The situation was soon clear: the southern part still belonged to Italy whereas the Austrians had to make the best use of the northern part which was penalized by a steeper slope. The col “castrati”, or rather the depression that divided the southern part of the mountain from the north, became the deciding factor of the battle, a strip of horror and blood: there were about 14,000 casualties among the Italians and Austrians. The front remained almost unchanged for more than two years and the mine and countermine tunnels, the attacks and counterattacks, grandiose and useless heroism were of little use and proved to be capable of advancing only a few metres of rough stony areas lying in front of the three peaks of Lavaredo. On the evening of 23rd May the Austrians evacuated the mountain hut Three Peaks and, at the same time, the 3rd company was ordered to go up the plateau: slightly more than 200 Austrian rifles were deployed along a 7-km defensive line. At the dawn of 24th May, the Italian troops in the area had not yet been informed about the declaration of war, but they received the news through the shots of two 90mm cannons stationed on the Schwalbenkofel: the third shot (a shrapnel) fell on the Col Col di Mezzo and killed two Alpine soldiers of the 67th company of the Pieve di Cadore battalion. These were the first Italian deaths on the Cadore front. Other Austrian shots hit Misurina on the same afternoon and some of them after ending up in the lake, split open the ice surface, accelerating the thawing of the lake so much admired by Queen Margherita during her stay at the Grand Hotel 15 years earlier. On 25th May the Italian barracks of Piani di Lavaredo were centred and the commander of Pieve di Cadore, excluding the possibility of sheltering the wounded at the Hut Three Peaks, ordered the 58th mountain battery to place the pieces at the Col Lavaredo and destroy the hut. This was another page of the Belle époque era that shattered due to a cruel war that was “progressive” in its means of destruction, but not “magnificent” in its goals. And the fact that this war also celebrated victories over nature and one’s limits, even before than over the enemy, is proved by the great feat accomplished by the Alpine soldiers of the 267th company of the Val Piave and the 75th company of the Pieve di Cadore, who managed to carry and install a 90-cm lighthouse on the Cima Grande (big peak) of Lavaredo (at an altitude of 2,999) in only three weeks of hard work. Among the most famous military chaplains in Cadore was Father Piero Zangrando, but also many other priests and friars in uniform. About 25,000 soldier priests were called to fight or assigned to health units, while real chaplains were 2700, half of whom were in the front-


Reparto speciale i “Mascabroni�.

Passo della Sentinella dal Rifugio Berti.


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Ruderi di postazioni austroungariche sulla Croda Rossa di Sesto.

line. Apart from their spiritual role, they gave support and worked as mediators between trenches and families, or between the many frontline soldiers and their loved ones who were far away. They helped to spread books and gifts, to create recreation areas and schools for illiterates. And the chaplains were those who took care of the wounded in the many small hospitals located in the immediate rear of the front. Higher up, beyond the “Cason de la Crosera” there was also a small cemetery, whose remains can be easily reached today through a small and little used trail which goes into the beech wood. Our corvées departed from the east of the Three Peaks and were destined to feed the attack on the Sentinel Pass and the Austrian positions on Croda Rossa di Sesto. The conquest of the Pass (2717 masl) located at the highest point of Val Popera, on the ridge that connects Croda Rossa to Cima Undici, was carried out by our soldiers on 16th April 1916 and it is probably the most famous action that occurred throughout the conflict on the Eastern Dolomites. It was Capt. Giovanni Sala (1883-1965) from Borca di Cadore that directed all the complex operations that led, between January and April 1916, to occupy a number of positions and high forks on Cresta Zsigmondy, M. Popera and Cima Undici, which allowed our soldiers to reach, without the enemies noticing it, the Austrian garrison on the pass. Capt. Sala led the decisive attack from above, along the wide rill of snow, in conjunction with the assault that was taking place from below by Capt. Martini. The two squadrons of 20 men each that attacked from above were formed by voluntary Alpine soldiers called the “Mascabroni” which meant, in the jargon of Cima Undici, rude, brave and even a little arrogant towards the Alpine way, even though always generous and ready to sacrifice. Further east it was still on Mount Peralba that we consumed, once again to no avail, our attempts to conquer the summit controlled by the Austrians. The attackers, 22 Alpine men, Bersaglieri, volunteers from Cadore and infantrymen under the command of Marshal Berardengo, managed to conquer the first of the three places on the summit and proceed along the eastern ridge up to the Guard n. 2 of the Austro-Hungarian garrison. However, the Austro-Hungarian forces, belonging to the 10th March Battalion of the 7th Infantry Regiment, were able, in the very early hours of the morning, to regain control over the lost position and send the Italian soldiers back to the valley floor. The tragic consequences of the disaster at Caporetto forced the 4th Army

to hastily abandon, at the end of October 1917, all positions that had been conquered and kept with difficulty and with the sacrifice of thousands of soldiers for 29 months. The weapons and cannons were thrown into the cliffs, entire villages and depots were set on fire, while a messy mass of soldiers rushed to the station of Calalzo and to the road junction of Tai, where retreating columns from Mauria, from the road of Comelico, from Auronzo and Misurina, from Cortina and from Val Boite were merging. In an attempt to halt the enemy advancement, Alpine soldiers and Bersaglieri’s lives were sacrificed during a steady stream of small rear guard battles and with an obvious outcome, and with the sole objective of giving a reprieve to the retreat to the troops of the 4th Army, and to the Zona Carnia who were disastrously behind according to the time scale imposed by General Robilant and even more so by Capo di S.M. General Cadorna. At Passo Mauria, Pezzocucco, Rementera and on the fields of Colonia opposite Domegge, the obscure heroes fell, and their bodies remained abandoned sometimes for years in the rarely visited woods. Whilst this tragic retreat took place, and paying the price with the capture of 10,000 prisoners at Longarone due to the unexpected initiative of Major Sproessor and the still very young Liutenent Rommel, and suddenly left at the confluence of the Maè nel Piave coming from the Val Cellina, our pretentious armoured strongholds proved useless. They should have been of use at least in this time of desperate need, but everybody, understandably, had lost faith in them, because after three years of war developments even their steel and nickel domes were obsolete, vulnerable to the point of being death-traps for anybody prepared to resist until the very last, as recommended by the high command before the concession on Isonzo. This is why Cadore at almost 100 years distance, in reality has a double war to remember and to demonstrate to its visitors. Its “pinnacles” are sprinkled with infinite memories, which pertain both to a war which had been scientifically prepared for 50 years, with fortified works representing an image of the economic, political and military future of a little Italy that did not want to be such thing, and also to a war of terrible battles and many men thrown into the fray on the base of wild and primitive criteria. Two complementary observatories to be able to judge and understand the Great War. Both immersed in a unique scenario, which can’t but stimulate our emotions and thoughts.


IL CADORE E LA BATTAGLIA DELLE AQUILE Museo della Grande Guerra al Passo Valparola.

Il gruppo della Croda da Lago e i lastroni di Formin.

Pian dei Buoi e il gruppo delle Marmarole.


Patrimonio UNESCO, le Tofane.

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Gruppo dei Cadini di Misurina. Patrimonio UNESCO.

Panorama della Conca Ampezzana dalle Tofane. Patrimonio UNESCO.

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Trincee e osservatorio sul Monte Piana.


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CADORE UND DIE SCHLACHT DER ADLER Auf den schönsten Bergen der Dolomiten, auf der Dolomitenfront führten unsere Soldaten einen unglaublichen Krieg im Hochgebirge, improvisierten Abwehrkräfte und Unterstände in der Nähe der Front, während unnötig und allzu fern sich die anspruchsvolle, in den vorherigen Jahrzehnten eingerichtete, Festung von Cadore - Maè zeigte.

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Presidio austriaco di “Torre Vinatzer”.

ür Rudyard Kipling, den großen Nobelpreis Schriftsteller, waren unsere Alpini tapfere Männer, die Felsen, Schnee, Eis, Fels und Jargon der Berge kannten. Was vielleicht Kipling über die “Adler” der Dolomiten nicht wusste, war der lange evolutionäre Prozess, der diesen, von Kapitän Perrucchetti im Jahr 1872 vorgeschlagenen, Körper der Infanterie zur territorialen Verteidigung geprägt hatte, und vor allem, die strategischen und wirtschaftlichen Gründe, die zu solchem Konflikt im Hochgebirge, in dem schönsten Gebirge der Welt, führten. Mit einem langen und anstrengenden Krieg in den Dolomiten hatte sich das Königreich Italien auf den Abschluss des Dritten Selbstständigkeitskrieges vorbereitet. In einer Spannweite von fast 50 Jahren wurde daher ein Komplex von Festungen, Batterien, Stationierungen, Lagerhäusern, Beobachtungsstellen und Straßen erstellt, um ein akzeptables Niveau der Organisation und Effizienz am Vorabend des Ersten Weltkriegs zu erreichen. Um 1880 beschloss man, die Barriere weiter zurück, in der Nähe von Pieve und Tai di Cadore, aufzustellen um feindliche Einbrüche aus den Tälern Ansiei, Boite, Degano und Tagliamento zu überwachen. Somit wurde zwischen 1882 und 1896 das s.g. Campo trincerato di Pieve di Cadore beendet, darunter die Festigungen von

Batteria Castello, Monte Ricco und Col Vaccher bei Pieve und Tai di Cadore, mit einer Reihe von Stationierungen und Zugangsstraßen und Gürtel an den umliegenden Hügeln. Eng verbunden mit diesen waren die, am Ende des Jahrhunderts vorgesehenen, Unterstände für die Übungen der Alpini, die als die ersten das Territorium verteidigten. Alpini hatten ihren Wintersitz in Conegliano und kletterten in Cadore nur für die sommerlichen Truppenübungen, sie hatten schließlich feste Kasernen sowohl in Pieve (Pecòl) und Auronzo (Ferieve). Sie waren es, die mit ihren Märschen und ihrem Wissen über das Territorium, die ersten detaillierten Defensive Untersuchungen lieferten, um eine Umgehung unserer Verteidigung durch die Steuerung jedes Bergübergangs zu verhindern, sowie ein Netz von Wegen und Saumpfaden konstruierten, um Menschen und Material an die bedrohten Punkte einfließen zu lassen. Unser System von Befestigungsanlagen, das am gewöhnlichen Mauerwerk basierte, errichtet fast nach mittelalterlichen Kriterien (Graben, Zugbrücke, Pechnasen, etc.), zeigte sich angesichts der großen Fortschritte im Stahlwesen in Europa am Ende des Jahrhunderts bald als überholt. Erst seit 1904, nachdem mehr Fonds und neue strategischen Studien angekommen sind, kam Cadore wieder in den Vordergrund im nationalen strategischen Verteidigungskonzept. Gebaut wurden so gepanzerte Festigungen, nämlich zwei “niedrige Typen” zum Col Piccolo in der Nähe von Vigo und Pian dell’Antro bei Venas, und drei “hohe Typen” jeweils zum Monte Tudaio, Col Vidal und Monte Rite. Um auf die Erweiterung dieses Verteidigungssystems, bis zum Zoldano (Col Pradamio) einschließlich alter Anlagen von Pieve, herabgestuft zu Lagerhäusern und Gefängnissen, hinzuweisen, wurde der gebräuchliche Name Festigung Cadore-Maè benutzt. Das Königreich von Savoy verfügte also am Vorabend des Konflikts in Cadore über ein Verteidigungssystem aus bewehrten Zitadellen auf 2000 Meter Höhe und höher, mit Garnisonen, Lebensmitteln und Munition und war somit in der Lage sich einer möglichen feindlichen Invasion entgegenzusetzen und sich natürlich allen schlimmen Umwelt- und Klimabedingungen zu widersetzen. Auf Spitzen und Bergpässen, die bisher unberührt von militärische Einrichtungen blieben und oft internationale touristische Destinationen in den turbulenten Jahren der Belle Époque darstellten, mussten unsere Divisionen in aller Eile eine Reihe von Feldbefestigungen ausschließlich mit Hilfe von Hacken und Schaufeln errichten und dafür anstelle des in den vergangenen Jahren auf der Rückseite der Front so reichlich benutzten Stahlbetons, Säcke, Schilder und Zäune anwenden. Diesen Krieg unterstützen nicht nur die s.g. Alpini, sondern Tausende von Infanteristen, Pioniere, Kanoniere und Schützen aus allen Regionen Italiens. Monte Piana ist eines der großartigsten und tragischsten Gesichter dieser “improvisierten” Front, ein anstrengender Stellungskrieg der sich bis hin zum Caporetto erstreckte. Selbst hier wurde unsere präventive Besatzung der Hochebene des Berges, trotz dessen Möglichkeiten in den sehr frühen Tagen des Krieges, nicht umgesetzt, und bald erlitten wir die Initiative des Generalfeldmarschalls Goinginger, der gerade das Kommando über die Division “Pustertal” angenommen hatte. Die Situation war sofort klar: der südliche Teil blieb in italienischer Hand, während die Österreicher sich am besten im Norden zu organisieren versuchten, der nördliche Teil war mit Sicherheit durch eine steilere Neigung benachteiligt. Der Bergpass “dei castrati”, oder die Senke, die den südlichen Teil des Berges vom Norden trennte, wurde zum Unterscheidungsfaktor des Kampfes; ein Streifen von Schrecken und Blut, wo etwa 14.000 Italiener und Österreicher gefallen sind. Die Front blieb für mehr als zwei Jahre nahezu unverändert und sehr wenig dienten die Mienen- und Unterminierungsstollen, Angriffe und Gegenangriffe, grandiose und nutzlose Heldentaten, die nur ein paar Meter weiter auf der rauen steinigen Fläche der dreifachen Zinne von Lavaredo führten. Am Abend des 23. Mai evakuierten die Österreicher Tre Cime und zugleich wurde die 3. Kompanie befohlen auf die Hochebene zu steigen: auf einer Abwehrlinie von 7 km wurden etwas mehr als 200 österreichische Abwehrkräfte postiert. Am Morgengrauen des 24. Mai hatten die italienischen Truppen in der Region noch keine Nachricht von der Kriegserklärung erhalten, sondern nahmen diese zur Kenntnis durch zwei Schüsse eines neunzigköpfigen Einsatzes, der in Schwalbenkofel stationiert war: der dritte Schuss (ein Schrapnell) fiel auf Col di Mezzo und tötete zwei Alpini des 67. Einsatzes von Battalion Pieve di Cadore, die ersten zwei Todesfälle auf der italienischen Seite der Front von Cadore. Weitere Schüsse von der österreichischen Seite aus trafen Misurina am Nachmittag desselben Tages und einige von ihnen landeten in den See und zerbrachen die Eisfläche; dieses Ereignis beschleunigte das Schmelzen des Wassers, welches von Königin Margherita in ihrem Aufenthalt im Grand Hotel vor 15 Jahren bewundert wurde. Am 25. Mai wurde die italienische Kaserne von Lavaredo eingeschlagen und als Reaktion befiel der Kommandeur der Pieve di Cadore der 58. Batterie die Schutzhütte von Tre Cime, die sowieso keine Verwundeten beherbergen könnte, zu zerstören. Auch dies war ein Bild der Belle Époque das, im Angesicht eines grausamen und mit “progressiven” Mitteln der Zerstörung doch keinem “edlen” Ziel geführten Krieges, zerfiel. Dieser Krieg war nicht nur ein Sieg über den Feind, sondern auch ein Sieg über die Natur und ihre Grenzen, und das zeigte die unglaubliche Leistung von Alpini, 267er Einsatz von Val di Piave und 75er Einsatz von Pieve di Cadore, die in drei Wochen harter Arbeit es geschafft haben einen 90cm hohen Leuchtturm auf die Spitze von Lavaredo (auf einer Höhe von 2999) zu transportieren und zu installieren. Don Piero Zangrando wurde als der Beste der Militärgeistlichen in Cadore bekannt, aber neben ihm, gab es viele andere Priester


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und Brüder in Uniform. Es waren rund 25.000 Priester-Soldaten zum Kampf aufgerufen oder waren in den Sanitätseinheiten tätig, darunter auch 2700 echte Kaplane, die Hälfte von ihnen kämpfte in den ersten Schusslinien. Über ihre spirituelle Rolle hinaus waren diese Männer Fürsprecher und Mittler zwischen den Unterständen und den Familien, bzw. zwischen vielen Kämpfern an der Front und ihren weit entfernten Lieben. Sie verteilten Bücher und Geschenke, sorgten für Unterhaltungsmöglichkeiten und Schulen für Analphabeten und waren Seelsorger der Verwundeten in den vielen kleinen Krankenhäusern and der unmittelbaren Rückseite der Front. Weiter oben, jenseits des “Cason de la Crosèra” gab es auch einen kleinen Friedhof, deren Überreste nun leicht, auf einem kleinen und wenig bekannten Pfad der in den Buchenwald geht, zugänglich sind. Weiter östlich von Tre Cime, waren alle unsere corvées positioniert und dazu bestimmt, den Angriff auf den Sentinella Pass und die österreichischen Positionen von Croda Rossa di Sesto zu unterstützen. Die Eroberung des Passes (2717 m), der sich an der höchsten Stelle von Val Popera befindet, auf dem Bergrücken der Croda Rossa und Cima Undici verbindet, war der Verdienst unserer Soldaten am 16. April 1916 und ist vielleicht die berühmteste Aktion an der östlichen Dolomitenfront während der gesamten Dauer des Konflikts. Es war Kapitän Giovanni Sala (1883-1965), von Borca di Cadore, der die komplexen Feldoperationen durchführte, die dazu führten, dass zwischen Januar und April 1916 eine Reihe von Positionen auf dem Bergrücken Zsigmondy, M. Popera und Cima Undici besetzt wurden, die unseren Soldaten erlaubten sich gleich hinter der österreichischen Garnison auf dem Pass zu bewegen ohne vom Feind bemerkt zu werden. Sala führte den entscheidenden Angriff von oben, entlang der großen Schlucht von Schnee, in Übereinstimmung mit dem Angriff, der von unten durch den Kapitän Martini unternommen wurde. Die beiden, jeweils aus 20 Männern gebildete, Mannschaften, die von oben reagierten, wurden von Freiwilligen Alpini gebildet, die s.g. “Mascabroni”, was im Jargon von Cima Undici derbe doch mutige und vielleicht sogar ein wenig arrogante, aber immer großzügige und auf Opfer bereite Menschen der Alm bezeichnet. Östlicher, auf Peralba, wurden wieder einmal unsere Kräfte für die Eroberung des von den Österreichern gehaltenen Gipfels ohne Erfolg verbraucht. Die Angreifer, 22 Alpini Scharfschützen, Freiwillige aus Cadore und Soldaten unter dem Kommando von Marschall Berardengo, schafften es den ersten der drei Plätze auf dem Gipfel zu erobern und sich entlang des östlichen Bergrückens auszudehnen bis zur zweiten Garde der österreichisch-ungarischen Garnison. Doch die österreichisch-ungarischen Kräfte des zehnten Bataillons der Infanterie des Postazioni austroungariche.

7. Regiments waren in der Lage, in den sehr frühen Morgenstunden, wieder in Besitz der verlorenen Position zu kommen und konnten die italienischen Soldaten im Tal ablehnen. Die tragischen Folgen der Katastrophe bei Caporetto zwang die Vierte Armee Ende Oktober 1917 alle mühsam erreichten und durch Opfer Tausender von Soldaten für 29 Monate gehaltene Positionen aufzugeben. Waffen und Kanonen wurden in die Klippen geschleudert, ganze Dörfer und Speicher gingen in Flammen auf, während eine verwirrte Masse der Soldaten zur Station von Calalzo und der Kreuzung von Tai eilte, wo die Kolonnen im Rückzug aus Mauria, Comelico, Auronzo und Misurina, Cortina und Val Boite zusammenliefen. In dem Bemühen den fortschreitenden Feind zu verlangsamen wurden die Kerne der Alpini und Scharfschützen, wie in einem endlosen Strom der Kämpfe in der Nachhut, geopfert, und zwar mit einem einzigen Ziel, den Rückzug der Vierten Armee und der Zona Carnia, auch wenn mit schrecklicher Verzögerung im Bezug auf die auferlegten Zeiten von General Robilant und Stabschef General Cadorna zu gewährleisten. Am Pass Mauria bei Pezzocucco, im Rementera, auf den Feldern von Colonia vor Domegge, fielen viele vergessene Helden, deren Leichen manchmal jahrelang in den selten besuchten Wäldern zurückgelassen wurden. Und während unser Rückzug auf tragische Weise seine Opfer nahm und unsere anspruchsvollen Panzer für den Krieg im Hochgebirge an ihrer Aufgabe scheiterten, bezahlten wir in Longarone mit 10.000 Gefangenen die unerwartete Findigkeit von Major Sproesser und des blutjungen Leutnant Rommel, die am Zusammenfluss von Maè nel Piave und Val Cellina auftauchten. Die Panzer müssten zumindest in dieser Zeit der Not dienen, aber niemand, und das zu Recht, glaubte mehr an sie, weil sie in den drei Jahren des Krieges verrosteten, sodass ihre Nickelstahl-Kuppeln obsolet und sogar zu Todesfallen für diejenigen geworden sind, die dort bis “zum letzten Bissen”, wie vom Oberkommando vor dem Versagen im Isonzotal propagiert, Wiederstand leisten wollte. Cadore erinnert und zeigt also an einen doppelten Krieg der vor ungefähr 100 Jahren stattfand. Seine Felsen “crode” bergen unzählige Erinnerungen, an einen seit 50 Jahren wissenschaftlich vorbereiteten Krieg, mit Befestigungsanlagen, die sowohl einen authentischen Einblick in die wirtschaftliche, politische und militärische Lage Italiens, die das nicht sein wollte, bieten, als auch in den Krieg mit seinen schrecklichen Angriffen und Männern, die in den Kampf auf Grund primitiver und wilder Kriterien gesendet wurden. Zwei ergänzende Beobachter und dennoch priviligiert um den Ersten Weltkrieg zu betrachten und zu verstehen; und beide in einer einzigartigen Landschaft eingetaucht, die unsere Emotionen und Gedanken immer wieder anregen. Traino di ferito austriaco su slitta.

Cannone austroungarico a Monte Rudo.

Casermetta austriaca sul Monte Rudo.


Patrimonio UNESCO, panoramica da Forcella Lavaredo: con il rifugio Locatelli-Innerkofler.

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LA GRANDE GUERRA IN VENETO


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DON LINO CUSINATO

Treviso, i luoghi del Beato monsignor Longhin IL Beato Vescovo Longhin, con la sua esemplare vicinanza alla popolazione, fu riferimento religioso, morale e civile per le comunità travolte dal conflitto

U “Il Piave mormorava, calmo e placido, al passaggio dei primi fanti il 24 maggio…”

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na delle prime biografie del Beato Longhin s’intitola Il Vescovo del Montello e del Piave. Sono i luoghi del territorio trevigiano che segnavano la linea del fronte della Grande Guerra dopo il 1917, che andava dalle Alpi al mare e tagliava da nord a sud la diocesi di Treviso. Il Montello è una piccola collina delle Prealpi, a forma di panettone, che costringe il fiume Piave, sceso dal Cadore, ad una ampia ansa prima di procedere verso la laguna veneta. La sinistra

Piave fu la terra più martoriata, dopo la disfatta di Caporetto (novembre 1917) invasa dall’esercito austroungarico. Una grossa fetta della diocesi stava al di là del fiume, dove gli abitanti che non erano fuggiti o morti, erano sotto il dominio degli austriaci e costretti dal loro fronte. Alcuni parroci rimasero là, con la loro gente, per sostenerla nella tragedia condividendola. La destra Piave era un lungo fronte italiano di operazioni militari, di retrovia nei primi due anni, poi di


TREVISO, I LUOGHI DEL BEATO MONSIGNOR LONGHIN

resistenza, infine della riscossa nel 1918. Il resto della diocesi era stata fin dall’inizio una vasta retrovia ( il Comando Supremo era a Padova): ovunque ospedali militari, caserme per lo smistamento di truppe e di armi, centri di soccorso e di vettovagliamenti, in mezzo alle popolazioni civili rimaste, diventate un unico volontariato di sostegno. La città di Treviso fu per mesi sotto i bombardamenti aerei e risultò semidistrutta, con migliaia di morti civili. Nei tre anni di guerra la persona di sicura e riconosciuta autorevolezza è risultato il vescovo Andrea Giacinto Longhin, illuminato ed eroico nell’intraprendenza eppure segno di contraddizione. Alcuni storici ritengono che egli sia diventato italiano con la guerra mondiale, pur non avendo mai avuto nostalgie imperiali, in quanto seppe far suo il valore di “patria”, che considerava fattore d’incivilimento cristiano e di riscatto degli umili, senza condividere tuttavia la politica militarista del governo. Non era mai stato per la guerra, ma fedele al dovere di cittadino e all’amore di vescovo. Per capire la sua persona e valutarne l’opera pastorale e civile verso il suo popolo in guerra, occorre partire dall’inizio.

Il vescovo di Treviso Beato Andrea Giacinto Longhin.

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LA GRANDE GUERRA IN VENETO


TREVISO, I LUOGHI DEL BEATO MONSIGNOR LONGHIN

Il vescovo Longhin osserva i resti della Chiesa di Cornuda a sinistra e di Pederobba a destra, dopo i bombardamenti.

La persona del vescovo Longhin Era nato sotto l’Austria nel 1863 a Fiumicello di Campodarsego, territorio padovano del reticolato romano, da umile famiglia contadina; era cresciuto nell’intransigentismo cattolico di cui Pio X era l’icona autorevole, un papa privo di nostalgie temporaliste, ma oppositore della politica italiana ideologicamente anticlericale e socialmente ingiusta; papa che aveva pagato con l’isolamento internazionale la difesa della libertà della Chiesa. Per questo, contrario alla guerra europea voluta e alimentata da esasperati nazionalismi, si era trovato impotente ad impedirla; ed era morto di crepacuore venti giorni dopo lo scoppio del conflitto. Longhin, fatto vescovo dal papa trevigiano nel 1904 e che con lui aveva già collaborato nel periodo veneziano, condivideva del santo pontefice l’idea di riforma della Chiesa quanto la sua visione sulla cultura moderna e sulla politica italiana ed europea. Durante l’anno 1914-1915 Longhin fu per il non intervento, in sintonia con l’indirizzo del nuovo papa Benedetto XV (il papa della inutile strage); tuttavia condividendo sinceramente l’impegno dei cattolici italiani a compiere il loro “dovere di cittadini”, qualora l’Italia

fosse entrata in guerra. Già nell’anno di neutralità, prevedendo che la guerra avrebbe investito anche l’Italia, aveva promosso una generale mobilitazione della diocesi attraverso il Comitato Diocesano, efficace strumento organizzativo che arrivava in tutte le foranie e alle 260 parrocchie, e che poteva contare su un complesso e vivace associazionismo cattolico. La diocesi perciò non si era trovata impreparata il 24 maggio 1915, quando l’Italia aderì all’Intesa ed entrò in guerra. Il vescovo non delegò il compito di guidare la sua Chiesa nell’ esperienza bellica che si annunciava difficile e non breve, per le dimensioni europee che aveva assunto; si fece carico personalmente della responsabilità pastorale per dovere di cittadino e amore di vescovo, indicando ai collaboratori i campi d’intervento, mentre già 18 sacerdoti e 43 seminaristi venivano chiamati alle armi, più 12 volontari negli ospedali cittadini (nel 1916 i seminaristi chiamati alle armi salirono a 95). La sua principale preoccupazione era che la fede dei cristiani e la vita religiosa delle comunità non ne ricevessero danno, e che il clero rimanesse unito e fedele anche nel servizio alla patria. La testimonianza della carità chiedeva in concreto e subito di prendersi cura dei bambini figli dei richiamati alle


TREVISO, I LUOGHI DEL BEATO MONSIGNOR LONGHIN

armi, di assistere le famiglie perché avessero i sussidi previsti dal governo, di creare una solidarietà fattiva per la lavorazione dei campi con scambio di manodopera e di macchinari agricoli, di fornire ai cappellani militari il necessario per il loro ministero religioso al fronte e nelle caserme, di garantire l’assistenza umana e spirituale negli ospedali. Occorreva poi accompagnare le popolazioni profughe nel centro e nel sud d’Italia affinché avessero adeguate sistemazioni, sostegno morale e spirituale, mantenessero i contatti con le parrocchie di partenza e con la diocesi di Treviso. Alle truppe, in continuo spostamento dal fronte alle retrovie e viceversa, bisognava offrire accoglienza, aiuto, conforto; altrettanto ai prigionieri. Tutta questa complessa azione umanitaria era verificata personalmente dal vescovo, attento principalmente che essa fosse vera opera di carità, testimonianza collettiva di fede. Segno di contraddizione Ciò nonostante non cessò con la guerra la diffidenza politica verso i cattolici risalente al Risorgimento, in particolare verso il clero ed anche verso la persona del vescovo, sospettati di disfattismo e di nascoste trame filo austriache. Nel 1917 erano più di quaranta i sacerdoti

sotto processo accusati di disfattismo, in alcuni casi anche di tradimento – lo sappiamo dallo stesso Longhin che ne informava la Segreteria di Stato vaticana – sulla base di calunnie, di sospetti fondati su false testimonianze, di episodi volutamente interpretati con pregiudizio ideologico: accusati, processati, internati. Scrive ai suoi preti nel 1918: «So, miei cari sacerdoti, che avete non pochi motivi di giusto lamento. La vostra opera non fu sempre né da tutti guardata con animo scevro da preconcetti. Avevamo diritto che la stampa avversaria, in occasioni così eccezionali, quando urgeva mantenere la massima concordia e unità degli sforzi per raggiungere un nobile scopo, comune a tutti, il bene della patria, dovesse usare verso di noi per lo meno la lealtà e un po’ di tregua. Ma non fu così. Il lavoro da noi con tanto sacrificio condotto a termine fu, non solo sindacato e svisato, ma posto ad arte in cattiva luce. Perfino il coraggio e la generosità, con cui siete rimasti vigili sentinelle al vostro posto di osservazione, quando altri fuggivano, fu avvolto nella nube del sospetto e della insinuazione velenosa, quasi avessimo obbedito a losche manovre, a calcoli reconditi e a simpatie con lo straniero… Si scagliava l’insulto codardo e la calunnia anche contro quei

Ospedale militare improvvisato in una chiesa.

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LA GRANDE GUERRA IN VENETO


Cavaso del Tomba TREVISO, I LUOGHI DEL BEATO MONSIGNOR LONGHIN

nostri confratelli che nell’ora dell’invasione sono rimasti a fianco del loro popolo nelle privazioni dell’esilio e nel distacco dalle persone care, consolando e confortando». Non furono dunque risparmiati nemmeno i preti che seguivano i parrocchiani profughi dalle zone di guerra. In ogni territorio diocesano ci furono preti denunciati e processati. Sempre e di tutti il vescovo fu la prima e autorevole difesa. «Dei miei preti rispondo personalmente» – scriveva all’on. Indri, deputato eletto coi voti dei cattolici, incapace anche di ottenere i “placet” governativi ai parroci non graditi; e concludeva: «Questi fatti producono in mezzo alle nostre popolazioni quel senso di sdegno, di depressione morale e di sfiducia che poi nessun discorso patriottico vale a sanare». Gli episodi sono davvero tanti, alcuni investirono la persona del vescovo. Gli era stato presentato un uomo che conosceva la lingua tedesca, utile per tenere i contatti con i preti e i fedeli che stavano al di là del fiume: fu accusato di spionaggio e faticò a discolparsene. I sospetti maggiori venivano dai suoi rapporti con la contessa Giuliana Persico Dalla Chiesa, residente a Lancenigo, parrocchia dell’hinterland trevigiano, nipote di Benedetto XV, papa antimilitarista e considerato austriacante per le sue iniziative di pace. In realtà la nobildonna era di straordinaria generosità in ogni opera di carità, nel soccorso ai bambini, alle famiglie e nel servizio ai soldati: una formidabile organizzatrice del movimento cattolico femminile dedito all’assistenza negli orfanotrofi, negli ospedali, nelle caserme, animata da spirito evangelico e di vita esemplare. Ma la parentela col papa pacifista la Covolo

Nogarè


Arcade

Cimadolmo

Nervesa della Battaglia

Candel첫

Castelli

Nervesa della Battaglia


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Ponte della Priula: Il vecchio ponte bombardato sostituito da un ponte di fortuna, su barche.

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rendeva sospetta e sospetto il vescovo che a lei ricorreva per le necessità caritative. Longhin era prudente quanto libero; l’unica paura che ebbe ( e la confessò) era dei bombardamenti aerei notturni, che gli toglievano le poche ore di sonno. Alla prudenza invitava continuamente i suoi preti, ma senza frenarli nella dedizione pastorale verso i loro fedeli. Numerose lettere attestano le sue iniziative durante i processi contro i sacerdoti, per testimoniare la verità sui loro comportamenti; quando non riusciva a farli assolvere, denunciava l’ingiustizia e assicurava loro la sua vicinanza paterna. Merita ricordare alcuni fatti tristi. Il parroco di Caselle d’Altivole (Don Angelo Gallina) era stato processato e condannato già nel 1915 per aver chiesto in un ristorante ad Asiago quanti fossero i soldati nell’altopiano. Il santo e umile vicario di Sant’Elena sul Sile, Don Carlo Noè, fu internato a Cosenza fino alla fine della guerra per una predica interpretata con malizia e falsità. Monsignor Luigi Bortolanza, che dal 1912 attendeva il placet governativo di abate del duomo di Castelfranco Veneto (negato perché proveniente dalle leghe bianche) fu ritenuto coinvolto, senza vere prove, nella uccisione di un soldato francese; il vescovo lo salvò dall’internamento ricoverandolo nell’ospedale psichiatrico di Mogliano Veneto fino al 1919. Segno dunque di contraddizione, egli che inculcava in tutti il generoso e convinto amore verso la patria e spronava i combattenti a credere nella vittoria. Non c’è segno nei documenti che indichi un qualche avvicinamento al movimento socialista, che dopo la rivoluzione russa, invitava i soldati alla diserzione, né alcuna distanza dagli sforzi militari e governativi per reagire alle sconfitte e spronare alla riscossa. Risulta piuttosto chiaramente che il Longhin tanto era stimato e venerato dalle autorità militari che, vivendo a contatto diretto

con lui lo conoscevano bene, quanto sospettato e osteggiato (anche temuto) dalle autorità politiche. Defensor civitatis Con la disfatta di Caporetto, che costò migliaia di morti e generò smarrimento e paura sia tra i militari che tra i civili, emerse con più evidenza la carismatica autorevolezza del vescovo di Treviso, quando la città, a pochi chilometri dalla linea del Piave, sottoposta a continui bombardamenti e incursioni aeree, si trovò privata delle istituzioni civili, trasferite altrove per lasciar campo alle operazioni militari. Il vescovo divenne così l’unica autorità morale e civile sulla quale la popolazione potesse contare, e in dialogo collaborativo con il comando militare. L’episcopio era diventato casa per la mensa, il seminario adibito a ospedale militare, il Palazzo Filodrammatici, sede delle organizzazioni cattoliche, era il centro delle operazioni di assistenza: preti, seminaristi, religiose, laici, quanti erano abili a un servizio, avevano ricevuto dal vescovo il compito di prestarsi al volontariato. Questo in una città semidistrutta. Non si trattava soltanto di procurare rifugio alle famiglie senza casa, di garantire i pasti agli indigenti, di assistere i feriti, di garantire un minimo di vita civile ai rimasti e l’appoggio all’opera dei volontari, di organizzare gli esodi; c’era soprattutto da sostenere il morale sia dei civili che dei soldati, combattendo le forti e diffuse tentazioni di disfattismo, di sfiducia e di smarrimento. E’ rimasta famosa la lettera pastorale dell’1 maggio 1918 intitolata Seminate i campi diffusa in 10.000 copie dalle stesse autorità militari. Rispondendo al sentimento comune ( e forse alla propaganda socialista) di non avviare le semine, poiché i raccolti li avrebbe fatti il nemico, il Longhin argomentava: come i figli e gli sposi combattevano nelle trincee rischiando la vita per la patria e credendo nel futuro, così i civili che erano rimasti a


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casa, col medesimo spirito, dovevano seminare i campi credendo nel futuro. Non farlo, significava tradire chi era al fronte. «Mi spinge dovere di cittadino e amore di Vescovo, sollecito del bene così spirituale come materiale ed economico dei suoi figli(…). Si rende quest’anno necessaria la nostra voce per togliere incertezze, dissipare equivoci e far sì che in tutte le parrocchie della Diocesi, fino all’estremo limite consentito dalle difese belliche, il terreno ancora disponibile venga tutto seminato(…). Si tratta di salvaguardare il bene economico e sociale di tutta la nazione, che potrebbe andare incontro, per la colpevole negligenza degli ignavi e per la iniqua azione dei perversi, a irreparabili sventure(…). Dite pertanto in pubblico ai vostri parrocchiani e nelle famigliari conversazioni che seminino senza risparmio e senza preoccupazioni». Il pastore con i suoi preti e la sua gente La lettera è una testimonianza eloquente dell’autorevolezza che aveva acquistato presso tutti, fedeli e avversari. Per ogni problema complesso ci si rivolgeva al vescovo, il quale tempestivamente trovava le soluzione tramite i preti e i laici suoi collaboratori. Visitava quotidianamente gli ospedali, le mense, i centri di assistenza; riceveva le persone per raccogliere le sofferenze, le fatiche, per confermare i progetti; andava di persona nei quartieri urbani bombardati per rendersi conto dei danni e dei bisogni. C’era anche da piangere i morti. Ma la città martoriata e spettrale non era l’unico orizzonte delle sue cure. Le parrocchie lungo la destra Piave, dalle Prealpi fino alla laguna, da Pederobba a Nervesa a San Donà, avevano chiese e canoniche distrutte, comunità costrette a convivere nelle retrovie di guerra, dove erano rimasti solo i parroci anziani; gli altri o erano al fronte o dispersi per l’Italia con le popolazioni profughe. Meritano un ricordo, fra quest’ultimi, Don Ferdinando

Pasin incaricato vescovile del collegamento con i profughi; Don Vincenzo Forcolin parroco di Povegliano che guidò tre esodi di profughi nel sud d’Italia fino in Sicilia ( si trattava di centinaia alla volta); Don Luigi Saretta parroco di San Donà trasferitosi a Portogruaro per assistere religiosamente la gente e i soldati prigionieri nelle zone occupate dagli austriaci e coltivare la corrispondenza con le famiglie e la diocesi. In tutte le altre zone della vasta diocesi, nella castellana, nel padovano, nella veneziana, la mobilitazione continuò ad operare fino alla fine della guerra, per garantire gli aiuti e la solidarietà necessari. Tutto preso alla carità, il santo vescovo nel suo spirito guardava quella immane tragedia, i cui orizzonti erano ben oltre quelli diocesani, cercando nella fede il significato. Per la quaresima del 1916 scrive una lettera pastorale sul dolore, facendo suoi gli interrogativi di ogni credente immerso nel male. «Perché la guerra? Perché tanto dolore e tante morti e distruzioni? Come Giobbe interroga Dio e trova nel Signore crocifisso le risposte più vere, di cui fa dono ai suoi preti e ai suoi cristiani». Stava in questa dimensione la sua forza. Amor di patria La battaglia del solstizio sulle grave del Piave, dopo quasi un anno di resistenza, segnò la riscossa che portò alla vittoria e alla fine della guerra. Anche il vescovo partecipò al sollievo e alla gioia di tutti; promosse riti di ringraziamento. Le antiche foto lo ritraggono spesso nelle cerimonie ufficiali con i massimi esponenti militari e civili, di rado in primo piano, poiché nemmeno la retorica della vittoria gli apparteneva. Le autorità militari lo decorarono ripetutamente, la classe politica continuò a condire il dovuto rispetto con il distacco verso un personaggio più scomodo ora che era più riconosciuto; negli anni successivi il fascismo lo avrebbe considerato un pe-

Barca-Monumento recuperata nel Piave con i chiari segni dell’affondamento.

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Susegana, Castello di San Salvatore.

ricoloso avversario. A lui importava non celebrare, ma ricostruire. Oltre cinquanta erano le chiese distrutte; ricomporre il clero dopo il trauma bellico nella missione pastorale quotidiana e nella formazione spirituale personale non era facile ( specialmente i chierici che dovevano ritornare alla vita di seminario); le famiglie erano ferite, quasi tutte piangevano un morto; i reduci non riuscivano a vivere come se niente fosse accaduto, né bastava la vittoria a liberarli dalle delusioni; il rientro dei profughi si rivelò complesso, provato anche dalle epidemie. La società era profondamente cambiata. Era cambiato il secolo. Il vescovo Longhin riprese subito la seconda visita pastorale interrotta, partendo dalle zone dove la guerra era stata combattuta e dove le macerie anche sociali e spirituali erano più gravi. Volle mantenere il voto fatto nel 1917 nel santuario urbano di Santa Maria Maggiore di costruire una chiesa in periferia della città intitolata a Maria Ausiliatrice dei cristiani, convinto che nella prova Dio era rimasto col suo popolo e che la materna protezione si manifestava ancora nella volontà tenace di ricostruzione. Egli intanto si faceva pastore pellegrino per predicare


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la fede in Dio e la fiducia nel futuro, spronando tutti a farsi ricostruttori forti della vita civile e di quella religiosa; non avrebbe mai cessato questo cammino, facendo seguire subito una terza visita pastorale alla diocesi. Restò pellegrino fino alla fine. La paralisi lo colse in visita a Salzano nel 1932. Gli ultimi quattro anni furono una offerta purificatrice della sua malattia che confermò la santità di tutta la sua vita. Sull’ amor di patria, che fu motivo importante della sua missione nell’esperienza bellica, vale riflettere. Ci chiediamo: avverso alla guerra, osteggiato dalla politica, poco sensibile al nazionalismo, come ha potuto guidare da protagonista la sua chiesa attraverso la guerra combattuta nella sua stessa terra? Ripassando i suoi discorsi, anche quelli in contesto civile, è certo che alla patria egli ha sinceramente creduto; forse proprio la guerra l’ha aiutato a maturarne il valore. Per lui era “la terra dei padri”, un grembo materno che coltiva e trasmette la vita, i valori umani e civili fondamentali, di generazione in generazione. Figlio di contadini, in questo credeva fortemente. Era la terra che ci sostie-

ne; ci nutre se la lavoriamo; ed è segnata dalla cultura dei padri, dalle loro fatiche, dolori e speranze, dai loro caratteri e dalle loro aspirazioni. Era la traditio custode della storia, che nella fede cristiana diventa storia di salvezza, capace di rigenerazione, e proiettata sul futuro. Per la patria perciò si può anche morire e non necessariamente in odio a qualcuno, perché sempre, quotidianamente, i figli come i padri danno la vita per la loro terra, dove vivono le loro famiglie e crescono i figli dei figli, si prepara il futuro. Amarla dando la vita, non solo i soldati, ma tutti i cittadini; i cristiani meglio di tutti, ed anche i loro pastori, che del loro gregge si sono fatti “forma”. Nella dilagante retorica patriottica, bellica e postbellica, che oggi infastidisce per la sua ridondanza ideologica, il pensiero e le parole del vescovo Longhin ( anche se non poteva sottrarsi al linguaggio del tempo, valente oratore quale era) si muovono su un orizzonte di valori diverso. Forse perché la guerra lo ha fatto padre più consapevole, nella condivisione della passione dei figli, il valore e l’amore di patria sono maturati in lui, alimentati dalla carità pastorale.

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Treviso, Santa Maria Maggiore; Monsignor Longhin in processiome.

Chiostro del seminario vescovile di Treviso.

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Castello di San Salvatore a Susegana.

Castello di San Salvatore a Susegana, dopo il bombardamento.


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TREVISO, THE BISHOP LONGHIN AND THE GREAT WAR.

T

Abbazia di Nervesa della Battaglia appena bombardata.

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he blessed Bishop Longhin was close to the people and was a religious, moral and civic reference for the communities during the first world conflict. Andrea Giacinto Longhin was born in Fiumicello di Campodarsego in 1863, at the time of the austrian domination. He was appointed Bishop by Pope Pio X in 1904; with the Pope he shared the idea of a reformed church. In the years 1914-1915 he sided with the war opponents, but when Italy joined the alliance and went into war, Longhin took the pastoral responsability to accomplish his duty as a citizen and for the love of his role as bishop. A clergyman in time of war had to give proof of Christian love, which involved taking care of the sons of those called to arms, assisting the families in need of help, supporting forms of solidarity and cooperation in farming, supplying chaplains with all the material necessary for their activity, comforting and providing assistance to the soldiers, particularly to those moving back and forth between the front lines. Priests were denounced and tried in a number of occasions; such episodes, in which even bishops were sometimes involved, happened in every parish. After the defeat at Caporetto, which costed so many lives and generated a sense of loss and fear, the charismatic and influential figure of the bishop of Treviso emerged, becoming the only moral and civic reference on which the people could count. The bishopric turned into a lunchroom during the most crucial and hardest moments of the conflict; the rectory was used as military hospital, the palace Filodrammatici was the centre of the aid and of the operations of assistance. But most of all, the bishop’s efforts were aimed at raising people’s and soldiers’ spirits and fighting widespread feelings of defeatism, untrust and sense of loss that seemed to affect the citizens of the town. The bishop became the person everybody could rely on; along with the priests and his assistants he found rush solutions to every kind of

problem. He daily visited hospitals, lunchrooms, centres of assistance; he met the people and listened to their problems and their pains becoming their main confident; he visited personally the areas hit by the bombings to better understand the amount of damages and to organize rescue and aid operations. He not only looked after the town but also the parishes along the right banks of the river Piave, from the Prealps to the lagoon of Venice, not forgetting all those small churches and rectories that had been destroyed and all the communities behind the front line that had to bear the consequences of the war; he made sure that everybody were provided with everything they needed. After a year of resistance, the battle of the Solstice marked the beginning of the counterattack leading to the victory and to the end of the war. The bishop too shared the relief and the joy the liberation. After the traumatic experience of the war it was not easy to reestablish prewar conditions; over fifty churches were destroyed, almost every family had suffered a loss during the conflict; despite the victory war veterans couldn’t easily cancel the memory of the war and the feeling of tragedy connected to it. Starting right from those areas mostly involved in the conflict and where psychological and spiritual comfort was most needed, Bishop Longhin resumed his pastoral visitation. The war had made of him a pilger whose duty was to restore a feeling of trust and faith. But his destiny had nothing good in store for him as he remained paralyzed during the visit to the small village of Salzano. Nontheless the desease, which marked the last four years of his life was proof of his sanctity and his experience was a purifying offering to the others. In his speeches, in those that dealt with civic themes as well, his true love for the nation comes out; maybe the war had fortified his feeling of belonging to a larger community. Bishop Longhin was the son of farmers, expression of a culture and values passed down from father to son and sinking its roots in the land and in a way of life made of sufferings, sacrifices, hopes and aspirations. Not only soldiers can sacrifice their life for their nation, but every man and woman can give their life for the love of their country; Cristians and pastors of the Cristianity are among them.


I resti della Abbazia di Nervesa della Battaglia.


TREVISO, I LUOGHI DEL BEATO MONSIGNOR LONGHIN

DIE STADT TREVISO, BISCHOF LONGHIN UND DER ERSTE WELTKRIEG Der Selige Bischof Longhin, mit seiner beispielhaften Nähe an die Bevölkerung, war der geistige, moralische und bürgerliche Bezugspunkt für die vom Krieg betroffenen Gemeinschaften.

A

Trincee e battaglie.

ndrea Giacinto Longhin wurde in Fiumicello di Campodarsego im Jahr 1863 unter der österreichischen Herrschaft geboren. Er wurde 1904 vom Papst Pio X zu Bischof ernannt und teilte mit diesem die Meinung einer möglichen Reform der Kirche. Im Zeitraum 1914-1915 unterstützte er das Prinzip der Nichteinmischung. Als Italien in den Krieg an der Seite der Entente eintrat, nahm Longhin seine bischöfliche Verantwortung ernst, wegen bürgerliches Pflicht und bischöflicher Liebe. Zeichen seiner Barmherzigkeit waren die Aufmerksamkeit auf die Kinder der Soldaten, die Hilfe an die Familien, die konkrete Zusammenarbeit für die Landwirtschaft und die nötige Lebensmittelversorgung der Militärgeistlicher. Die Truppen, die sich ständig vor der Front nach hinten bewegten und umgekehrt, benötigten einen Aufenthalt, sowie Hilfe und Trost, Werke der Barmherzigkeit und ein gemeinsames Glaubenszeugnis. Trotzdem waren mehr als vierzig die Priester, die wegen Defätismus und Verrat vor Gericht gestellt wurden. In jedem Gebiet der Diözese wurden einige Priester angezeigt und vor Gericht gestellt. Solche Fälle kamen öfter vor, manche von denen betrafen auch den Bischof selber. Nach der Niederlage in Caporetto, die Tausende von Töten, sowie Verwirrung und Furcht verursachte, wurde das charismatische Durchsetzungsvermögen des Bischofs von Treviso ganz deutlich: er war die einzige moralische und bürgerliche Autorität, auf der die Bevölkerung zählen konnte. Der Bischofssitz wurde zu Kantine, der Seminar zu Feldlazarett und Palazzo Filodrammatici zu Unterstützungszentrum. Vor allem musste man aber die Zivilgesellschaft und die Soldaten moralisch unterstützen und dabei auch

die weit verbreiteten Defätismus, Misstrauen und Verwirrung kämpfen. Für jedes große Problem wandte man sich an den Bischof, der in der Lage war, durch die Priester und die Laienmitarbeiter eine prompte Lösung zu finden. Er besuchte täglich Krankenhäuser, Kantinen und Unterstützungszentren, empfang die Gläubiger, um von ihren Leiden und Mühen zu hören und ihre Projekte zu verwirklichen. Er ging persönlich in die bombardierten Viertel, um sich den Schaden und den Bedürfnissen bewusst zu machen. Neben der Stadt Treviso kümmerte sich Bischof Longhin auch um die am rechten Piave-Ufer gelegenen Pfarren - von den Voralpen bis zur Lagune - wo zerstörte Kirchen und Pfarrhäuser und vom Krieg betroffenen Gemeinschaften die bischöflichen Hilfe und Solidarität benötigten. Der zweite Piave-Schlacht, die nach einem Jahr von Widerstand stattfand, war Zeichen der Rückeroberung, die dann zum Sieg und zum Kriegsende brachte. Auch Bischof Longhin teilte die gemeinsamen Erleichterung und Freude. Die zerstörten Kirchen waren mehr als fünfzig; es war nicht einfach, den Klerus nach dem Krieg wieder zu gestalten. Außerdem war fast jede Familie verletzt und weinte um einen Toten. Die Heimkehrer schafften es nicht zu leben, als ob nichts geschehen wäre, und der Sieg reichte nicht aus, um sich von den Enttäuschungen zu befreien. Bischof Longhin nahm seinen zweiten bischöflichen Besuch wieder auf und fing bei jenen Gebieten an, wo der Krieg geführt wurde und die Trümmer (auch in sozialem und spirituellem Sinne) am schwersten waren. Damit wurde er auch zum Hirte/Pilger, der den Glauben an Gott und die Zuversicht an die Zukunft predigte, und so blieb er bis zum Ende. Die Paralyse traf ihn während eines Besuchs in Salzano im Jahr 1932. Seine letzte vier Lebensjahren waren wie eine reinigende Spende ihrer Krankheit und bestätigten die Seligkeit seines Lebens. Wenn man seine geistliche und bürgerliche Reden berücksichtigt, ist es klar, dass er an die Idee von Heimat geglaubt hat. Vor allem hat der Krieg vielleicht ihm geholfen, diesen Wert zu befestigen. Als Sohn von Bauern war er überzeugt, dass das Land durch die Kultur der Väter, ihre Anstrengungen, Charaktere und Absichten geprägt war. Für die Heimat dürfe man auch sterben (nicht unbedingt gegen einen Feind), weil die Söhne, sowie die Väter, ihr Leben täglich und immer für das Land geben. Nicht nur die Soldaten, sondern auch die Bürger lieben ihr eigenes Land und geben dafür ihr Leben. Das betrifft eben die Christen als auch ihre Hirten.


Ossario francese.

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Giavera Montello, Cimitero del inglese. cimitero britannico del Commonwealth.

Alano di Piave, cimitero tedesco.

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Nervesa della Battaglia, Sacrario militare.

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PAOLO VOLPATO

Vicenza,

città di confine

I

Vicenza, vista dal Monte Berico.

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l 13 dicembre 1906, durante la discussione del progetto di legge del bilancio del Ministero della guerra, l’onorevole Attilio Brunialti, nato a Thiene e portavoce del collegio elettorale della provincia di Vicenza, così concludeva il suo discorso alla Camera dei deputati: «Il governo non può pretendere che le popolazioni dell’estrema frontiera possano essere in una eventuale invasione abbandonate al nemico…si provveda a tutte le opere necessarie a mettere la frontiera orientale del Regno in condizioni da poter resistere eventualmente ad una invasione nemica». Pur mancando poco meno di nove anni all’entrata in

guerra dell’Italia, l’onorevole Brunialti profetizza quella che sarà la sorte delle province poste sull’allora frontiera tra il Regno d’Italia e l’Impero austro-ungarico e la città di Vicenza, assieme ai comuni della sua provincia, ne saranno testimonianza dolorosa e perenne. Per tutti i quattro anni in cui l’Italia sarà coinvolta nella prima guerra mondiale, il territorio della provincia della città berica, allora città di confine, sarà campo di battaglia per centinaia di migliaia di soldati provenienti da tutta Europa. Sintetizzando cronologicamente gli accadimenti più importanti, ricordiamo la battaglia dei forti sul confine


VICENZA, CITTÀ DI CONFINE

posto tra l’Altopiano di Asiago e l’Altopiano di Vezzena della primavera del 1915, testimoniata dal primo colpo di cannone sparato alle ore 4 del 24 maggio 1915 dal Forte Verena; l’offensiva austriaca del maggio 1916 sull’ampio fronte, Pasubio – Altopiano di Asiago, meglio nota come Strafexpedition, che costituisce uno degli episodi di guerra più famosi del conflitto combattuto sul fronte italiano; la successiva controffensiva italiana del giugno 1917, nata come Operazione K e concretizzata come “Ipotesi difensiva uno”, che ebbe il suo momento più cruento nella battaglia dell’Ortigara; per terminare con la grande battaglia difensiva che si combatté nel giugno 1918 sul Monte Grappa. Le conseguenze per il tessuto civile di Vicenza e per i paesi e le altre città di frontiera come Bassano furono devastanti. L’invasiva presenza della guerra coinvolgeva, per la prima volta nella storia, la popolazione civile in misura totale e, di conseguenza, erano chiamate a fronteggiare le relative problematiche sociali sia l’amministrazione civica che la componente religiosa. Iniziate le ostilità il 24 maggio 1915, divenuta la zona di frontiera campo di battaglia, le prime popolazioni costrette ad abbandonare le proprie case e a percorrere

la triste via del profugato furono quelle della Val d’Astico, dai comuni di Lastebasse, San Pietro Val d’Astico, Forni e Pedescala, circa quattromila civili che trovarono sistemazione nei comuni limitrofi nella provincia di Vicenza. Ma ben più triste fu, l’anno seguente, la sorte degli abitanti dell’altopiano dei Sette Comuni, letteralmente fuggiti sotto l’incalzare dei bombardamenti dell’artiglieria, per poi essere distribuiti in tutta Italia, fin verso la lontana Sicilia. Vicenza e la sua provincia furono dichiarate “zona di guerra” con Decreto di mobilitazione del 23 maggio 1915, instaurando di fatto un governo militare che si affiancava a quello civile. Le conseguenze non tardarono a farsi sentire nella quotidiana vita civile: restrizioni nella percorrenza di strade e linee ferroviarie, requisizione di opere pubbliche, scuole e ospedali in primis, ma anche di abitazioni private, incetta di prodotti alimentari, di bestiame e di foraggio. Insomma, tutto ciò che serviva ad alimentare un esercito di migliaia di uomini ed animali, veniva prelevato nel territorio prealpino depauperando il tessuto industriale ed agricolo. Nel giugno 1916, un nuovo bando del 16 luglio includeva Vicenza nel territorio dichiarato “zona di opera-

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Altopiano di Asiago in Inverno.

zione”, una ulteriore limitazione al vivere civile che, peraltro, dopo una breve parentesi, persisteva anche per i restanti anni di guerra. È la conseguenza della Strafexpedition, l’offensiva austro-ungarica che portava i soldati imperiali a conquistare gran parte dell’Altopiano di Asiago. Dalle montagne che delimitano la parte meridionale dei Sette Comuni, i fanti di Francesco Giuseppe potevano vedere la pianura veneta e la città di Vicenza, pregustando una nuova conquista e il ricco bottino che la provincia poteva concedere ai vincitori. I soldati imperiali avevano già in tasca l’invito a presentarsi al duomo di Vicenza per presenziare alla cerimonia di consegna del bastone di Maresciallo per l’erede al trono asburgico, principe Carlo, ma furono fermati sul Monte Cengio ad un passo dalla pianura. Dovettero essere però abbandonati all’esercito imperiale ben 14 comuni vicentini di frontiera, occupati fino all’ultimo giorno di guerra. Proprio la Strafexpedition, probabilmente l’evento bellico più importante dell’intera guerra sul suolo vicentino, è un punto di svolta per il ruolo che assume Vicenza nella Grande Guerra.

Da città di frontiera in tempo di pace, diviene retrovia di prima linea del fronte di guerra: a Palazzo Trissino viene spostata la sede del Comando della Ia Armata, e dalla residenza di Villa Clementi sul Monte Berico, il suo comandante poteva osservare e gestire le operazioni dell’intero fronte prealpino. Di conseguenza, tutta la zona della provincia diventa non solo campo di battaglia, ma territorio oggetto di interventi strutturali necessari all’esercito italiano per alimentare una nuova armata, che sarà conosciuta come Armata degli Altipiani, appositamente costituita per arginare e poi contrattaccare l’offensiva imperiale sull’altopiano dei Sette Comuni. Migliaia di operai sono al lavoro per sviluppare le ferrovie, costruire nuove strade, innalzare teleferiche, gettare nuovi ponti, creare nuovi acquedotti. Ma accanto alle opere materiali, occorre provvedere al ben più importante conforto del fisico e del morale del soldato. Un’operazione che subisce negli anni della guerra, sul fronte vicentino come sul restante fronte di guerra, un’evoluzione che partendo da una visione del soldato strumentale, visto come macchina da riparare per rimettere al più presto nel circuito delle battaglie,


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si trasforma in un nuovo approccio che coniughi la cura sanitaria del corpo, sempre basilare, con la cura del profilo psicologico. Il fante italiano, soprattutto nel 1918, è finalmente un “uomo” che deve trovare nuove e valide motivazioni per continuare a combattere una lunga e sanguinosa guerra. Vicenza, e il suo territorio, divenne una specie di “città ospedale” capace di fornire 40.000 posti letto, circa un terzo di quelli di tutto il fronte di guerra. Scuole, istituti religiosi, ville patronali divennero altrettanti ospedali dove passarono centinaia di migliaia di feriti, italiani ma anche di altre nazionalità, come gli alleati inglesi e francesi che qui avevano le loro basi amministrative. Un lavoro sanitario che si aggravò al termine della guerra, quando la terribile epidemia di “febbre spagnola” seminò vittime tra i soldati e la popolazione civile in misura simile a quella di una guerra. Un ruolo importantissimo in questa opera di carità lo avranno soprattutto le donne venete: crocerossine, madrine di guerra, ma anche semplici madri e spose che nei fanti a riposo dal fronte rivedevano i propri figli, mariti, padri e fratelli anch’essi combattenti, da aiutare e risollevare spiritualmente e fisicamente.

Maria Teresa Guerrato Nardini, moglie del titolare dell’omonima distilleria di Bassano, conforta negli ospedali della sua città, ormai contigua al fronte di prima linea, i fanti sardi ricoverati dopo i cruenti combattimenti sostenuti sulle Melette, sul Monte Zebio, sul Col del Rosso. Diverrà la “madrina” della Brigata Sassari, un legame solidaristico e di reciproco affetto che durerà fin dopo la fine della Grande Guerra, attraverso il sostegno agli orfani di quegli uomini che avevano dato la vita per difendere Bassano e tutto il territorio della pedemontana vicentina dall’invasione. E come non ricordare quelle madri che schierate sul ponte sul Brenta a Valstagna, alzano in alto al cielo i propri piccoli in fasce chiedendo ai fanti italiani di difenderli. O l’intera popolazione di Marostica, che accoglie i Granatieri di Sardegna diretti al Cengio con “fronde di lauro e rose rosse e offre loro cibarie e dolci”. Il popolo del vicentino sente il peso di una frontiera che sta cedendo e vede in pericolo la propria casa, la propria famiglia, i propri beni. Vede in pericolo la propria piccola Patria. Ben 3.300.000 soldati vennero coinvolti nelle battaglie del territorio della provincia di Vicenza, uomini prove-


Cimitero britannico di Asiago.

Asiago bombardata in inverno.


Brigata Sassari.

Smistamento posta a Vicenza.

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Forte Rione sulla cima pi첫 alta del Monte Novegno.

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Pasubio, lungo la strada degli Scarubi.

La Chiesa di Santa Maria del Pasubio eretta per volontà della città di Schio e di Monsignor Francesco Galloni, definito l’angelo del Pasubio dagli Alpini perchè dava sempre speranza e conforto ai soldati. In primo piano la tomba del generale Vittorio Emanuele Rossi.

Forte Maso, costruito nei pressi di S. Antonio.

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Il Sacello Ossario del Pasubio sul Colle Bellavista, m. 1217, contiene i resti di migliaia di caduti, italiani ed austriaci.

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nienti da tutta Italia, alcuni dei quali strinsero un rapporto particolare con le popolazioni venete. Per tutti, valga l’esempio della Brigata Sassari, formata in prevalenza da fanti reclutati in Sardegna che, dopo la vittoriosa battaglia dei Tre Monti del gennaio 1918 sfilò per la città di Vicenza, ricevendo un’accoglienza calorosa e sincera che si concretizzò anche materialmente con la distribuzione di cibo e di beni di prima necessità. Non si può dimenticare, infine, che quest’opera di conforto venne sostenuta fattivamente anche dal clero dell’intera provincia. La profonda fede cattolica della popolazione civile, trovava la sua sponda nell’episcopato cittadino che vedeva nel Santuario della Madonna di Monte Berico di Vicenza il punto di riferimento da

additare a soldati e popolazione. Il vescovo di Vicenza, monsignor Rodolfi, sosteneva i tanti comitati, anche attraverso i sacerdoti della sua diocesi, sorti per aiutare non solo l’esercito in prima linea, attraverso la distribuzione dei pacchi dono o semplice conforto religioso, ma anche la popolazione civile colpita da lutti familiari o dalla perdita dei propri beni, fino a coloro che al termine della guerra tornavano dal profugato in una terra, ora non più di confine, devastata da una guerra


Monte Pasubio.

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Monte Pasubio, nido d’acquila.

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lunga quattro anni. Il doloroso ricordo della Grande Guerra è ancora profondo nel territorio di Vicenza e nella sua città, ma la tragedia è stata superata e in parte sopportata proprio grazie all’humana pietas che la sua popolazione, in tutte le sue componenti, ha dimostrato verso chi soffriva. E questa eredità, che ha lasciato il conflitto, è anche monito per un futuro di pace.

Strada delle 52 gallerie che da Bocchetta Campiglia sale al Monte Pasubio (Piccole Dolomiti - Alto Vicentino).

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Pasubio, teatro di guerra. Vecchio cimitero della Brigata Liguria con arco romano e Chiesa di Santa Maria del Pasubio sullo sfondo.

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VICENZA AS A FRONTIER TOWN

F

or the entire duration of the conflict, four years, during which Italy was involved in the First World War, the territory belonging to the province of Vicenza, set on the former border between the Kingdom of Italy (Italian: Regno d’Italia) and the Austro-Hungarian Empire, would be battleground for approximately 3.300.000 soldiers coming from all parts of Europe. Important battles were to be fought, such as the ‘war of the forts’ on the Plateaux, the May 1916 Austro-Hungarian counteroffensive, known as Strafexpedition (Punitive expedition), the June 1917 Italian counteroffensive that experienced its most tragic moment in the battle of the Ortigara, and finally the great defensive battle fought in June 1918 on Mount Grappa and on the Asia-

go plateaux, featuring the deployment of English and French troops. The population of the city of Vicenza and border towns was affected in the deepest way possible by the existing war. The impact on administrative civil life was obvious. As hostilities broke out on 24 May 1915, four thousand inhabitants of the frontier areas, now a battle ground, had to be evacuated and accommodated in other nearby municipalities. But much unhappier was, the following year, the fate of the inhabitants of the Asiago plateaux (Altopiano dei Sette Comuni), fleeing under unrelenting shelling, and soon to be scattered all over Italy, as far even as Sicily. Vicenza and its province were declared “war zone”, with limitations in daily civil life: restrictions on everyday mobility and travel by road or rail, requisition of public works, offices, schools and hospitals, but indeed even of private dwellings; foodstuff, cattle, fodder were also hoarded. In short, all that was necessary to feed an army of men and


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animals was drawn from the Veneto land. In June 1916, in the course of the Strafexpedition, the Empire’s soldiers conquered most of the Asiago Plateau and could see the Veneto plain and the city of Vicenza from the mountains, perfectly confident in a new conquest. But they were checked. The sector of the Vicenza province underwent major logistic intervention: thousands of workmen were busy developing railroads, building roads, installing cableways, laying bridges, constructing aqueducts. Vicenza and its district also became a sort of hospital-city with 40.000 beds, the equivalent of roughly a third of the entire battlefront’s capacity. Schools, religious institutions, landlord’s villas were turned into as many hospitals, assisting hundreds of thousands of wounded, Italian and foreign, such as the English and French Allies that had their administrative bases in the region. Medical activities got [even] more

hectic at the end of the war, when a terrible outbreak of flu, the socalled febbre spagnola, claimed as many victims among soldiers and civil population alike as the war itself had done. Women in particular took on an essential role in charitable action​: as Red Cross nurses, as “war godmothers” (madrine di guerra), but also as simple mothers and wives who saw in the men at leave from the front their own fighting sons, husbands, fathers, and brothers, to be assisted and comforted both physically and spiritually. The painful memory of the Great War still runs deep within the territory around Vicenza and in the city itself, the sense of tragedy being partly sustained and overcome simply because of the human pietas that its population, in all its groups, has shown towards the suffering. This legacy of the conflict is also a call to forgo war forever, thus entering a world of peace.

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Monte Grappa, visto dalla pianura.

GRENZSTADT VICENZA

I

n den vier Jahren, in denen Italien am ersten Weltkrieg teilnahm, war die Provinz der an der damaligen Grenze zwischen dem Königreich Italien und dem österreichisch-ungarischen Reich liegenden Stadt Vicenza das Schlachtfeld für ungefähr 3.300.000 aus ganz Europa kommende Soldaten. Wichtige Schlachten wurden gekämpft, wie z.B. die Fortsschlacht auf den Hochebenen, die Strafexpedition benannte österreichisch-ungarische Gegenoffensive im Mai 1916, die italienische Gegenoffensive im Juni 1917, deren tragischster Zeitpunkt die Schlacht auf dem Ortigara war, und zum Schluß die große im Juni 1918 auf dem Monte Grappa und auf der Hochebene von Asiago gekämpfte Verteidigungsschlacht, an der englische und französische Truppen teilnahmen. Die Bevölkerung der Stadt Vicenza und der Grenzdörfer wurde mit deutlichen Auswirkungen auf das Bürger- und Verwaltungsleben ganz und gar in den Krieg verwickelt. Als die Feindseligkeiten am 24. Mai 1915 begannen, mussten 4000 Einwohner der nun Schlachtfeld gewordene Grenzgebiete evakuiert und in anderen Gemeinden nebenan aufgenommen werden. Aber ganz trauriger war das Schicksal der Einwohner der Hochebene der 7 Gemeinden im folgenden Jahr, als sie vor dem sich überstürzenden Beschuss der Artillerie fliehen mussten, und dann in ganz Italien bis Sizilien verteilt wurden. Vicenza und seine Provinz wurden für „Kriegsgebiet“ erklärt und das bürgerliche Alltagsleben wurde beschränkt: Einschränkungen Straßen und Bahnlinien entlang, Beschlagnahme zwar von öffentlichen Bauten, Ämtern, Schulen und Krankenhäusern, aber auch von privaten Häusern, Vorrat von Nahrungsmitteln, Vieh und Futter. Kurz, alles, was eine

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Armee von Tausenden Menschen und Tieren ernähren konnte, wurde im venetischen Gebiet abgeführt. Im Juni 1916 eroberten die Kaisersoldaten während der Strafexpedition den Großteil der Hochebene von Asiago. Von den Bergen konnten sie die venetische Ebene und die Stadt Vicenza sehen und sie waren sicher neuer Eroberungen. Trotzdem wurden sie gestoppt. In der Provinz Vicenza wurde es auch logistisch sehr viel gemacht: Tausende Menschen arbeiteten, um die Eisenbahn zu entwickeln, Straßen anzulegen, Schwebebahnen zu errichten, Brücken zu schlagen, Wasserleitungen aufzubauen. Vicenza und seine Umgebung wurden fast zu einer „Krankehaus-Stadt“, die 40000 Betten, ungefähr ein Drittel an der ganzen Front, anbieten konnte. Schulen, religiöse Anstalten, Herrenvillen wurden zu Krankenhäusern, wo Hunderttausende von Verletzten, sowohl aus Italien als auch aus verschiedenen Nationen, unterkamen. Darunter waren die englischen und die französischen Alliierten, deren Verwaltungsstützpunkte da lagen. Die Gesundheitslage verschlimmerte sich am Ende des Krieges, als so viele Soldaten an der schrecklichen „spanischen Grippeepidemie“ starben wie bei einem Krieg. Eine sehr wichtige Rolle in einer solchen barmherzigen Tätigkeit spielten vor allem die Frauen: Rotkreuzschwestern, aber auch einfache Mütter und Frauen, die in den Infanteristen außer Dienst ihre Söhne, Männer, Väter und Brüder sahen, die auch kämpften und deren Geist und Körper man wieder heben musste. In Vicenza und in seiner Umgebung ist die schmerzvolle Erinnerung am ersten Weltkrieg noch tief, aber die Tragödie wurde eben dank des menschlichen Erbarmens überwunden und teilweise ertragen, das seine Bevölkerung zu den Leidenden zeigte. Eine solche Erbe, die der Krieg hinterlassen hat, ist auch eine Lehre für eine friedliche Zukunft.


Madonnina del Grappa.

Cima Grappa.

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Per ricordare i Caduti della Grande Guerra

I

l Massiccio del Grappa assume un’importanza storica internazionale durante la Prima guerra mondiale, subito dopo la disfatta di Caporetto (24 ottobre 1917). Il crollo del fronte orientale italiano e l’arretramento dall’area dolomitica, con la riduzione della lunghezza della prima linea ad una settantina di chilometri, permisero all’esercito italiano di attivare una prima difesa di contenimento dell’avanzata austro-ungarica e tedesca, dal 14 al 26 novembre 1917. A questo seguì, dall’11 al 21 dicembre, una strenua lotta per mantenere le posizioni, cercando di consentire il ricambio e la ricostituzione di intere divisioni di fanteria e di battaglioni alpini, spesso decimati dai cruenti attacchi all’arma bianca. Questa fase ha visto la perdita di una parte della dorsale del Monte Tomba e della Monfenèra. Ed è proprio grazie all’entrata in prima linea degli Chasseurs des Alpes francesi, di brigate scelte di fanteria e di bersaglieri dell’esercito italiano che la linea di fronte tra Osteria della Monfenèra (da Miét) e Monte La Castella – San Sebastiano, sopra Pederobba, sarà definitivamente riconquistata. La Battaglia del Solstizio, dal 15 giugno al 6 luglio 1918, ha visto una massiccia offensiva generale degli eserciti degli Imperi centrali. Basti evocare il simbolo dei dodici cippi che fanno da corona alla via Eroica sul Sacrario del Monte Grappa o quello della colonna che, a Ponte San Lorenzo, indica il punto di massima avanzata del nemico, che voleva occupare Bassano e circondare le truppe italiane e quelle loro alleate sui fronti del Piave e dell’Altopiano di Asiago. Ma molti altri sono stati poi i simboli posti nei luoghi dove più cruenta e aspra fu la lotta, a ricordo di atti eroici di singoli, di interi battaglioni o divisioni. E, da ultimo, a partire dalla notte del 24 ottobre 1918, un anno esatto dopo la disfatta di Caporetto, ha inizio, a partire dalla grotta della Bislónga di Pederobba, l’attacco definitivo delle truppe italiane e francesi: da un lato viene oltrepassato il Piave, puntando verso Valdobbiadene, il Quartier del Piave e Vittorio Veneto; dall’altro, seguendo la direttrice della strada imperiale Feltrina per occupare la piana di Feltre-Fonzaso e la direttrice verso il Bellunese ed il Cadore. Nel settore centro-occidentale del Grappa, verificato il consolidamento delle azioni svoltesi a oriente, si attiverà la riconquista definitiva dell’intero Massiccio a partire dal 30 ottobre, puntando con le truppe in parte verso la piana di Feltre-Fonzaso e in parte lungo la Valsugana, verso Primolano e Trento. Il tutto si concluderà con la resa dell’esercito austro-ungarico e la firma dell’armistizio a Villa Giusti il 4 novembre 1918. Silvio Reato

Scalinata d’onore del Monumento Ossario di Cima Grappa. Le urne semicircolari contengono, ognuna, i resti di un soldato italiano identificato. Ogni cella verticale conserva invece le spoglie di cento soldati italiani ignoti. Sulla sommità: il sacello della Madonnina del Grappa.

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Possagno e il Grappa.

Possagno, Collegio e Tempio Canova.

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La guerra è passata anche da qui

E

rano trascorsi pochi anni dal passaggio di Giuseppe Sarto - già patriarca di Venezia, ma non ancora papa Pio X – il quale, traversando le note plaghe, il 4 agosto 1901, si era disposto alla salita per inaugurare il sacello alla Madonna Ausiliatrice sul monte predestinato al sacrificio per la patria; meno di un anno dalla morte avvenuta il 20 agosto 1914, proprio nell’imminenza del grande conflitto mondiale, scoppiato e estesosi rapidamente a macchia d’olio, benché Pio X tanto si fosse speso, fino ad offrire la sua vita per la pace. Tra i due eventi non era mancato qualche segno di attenzione – oggi reliquie – per il Collegio dei Padri Cavanis che egli aveva conosciuto fanciullo, né aveva dimenticato in seguito, tanto che il 04 aprile 1896, da Patriarca di Venezia, «volendo dare una prova di specialissima benevolenza, nella chiesa di S. Agnese, dell’Istituto di Venezia, ricorrendo il Sabato Santo, aveva ordinati sacerdoti i due diaconi Augusto Tormene e Francesco Saverio Zanon. » Gli abitanti della Pedemontana del Grappa e dell’Asolano stavano affrontando con cospicui disagi, ma con risoluta abnegazione e con qualche barlume di ritrovata speranza la quotidiana lotta per la vita in un esordio di secolo promettente anche per coloro che si accingevano ad aggiungersi ai numerosi emigranti verso altri Paesi europei o verso le Americhe per risolvere i problemi di famiglie troppo numerose rispetto a pochi e troppo piccoli fazzoletti di terra. Le foto dell’epoca cominciano a consegnare qualche testimonianza: una, scattata attorno al 1905, illustra come si presentava il Collegio Canova affidato da mons. Giovanni Battista Sartori fratello di Antonio Canova ai padri Cavanis dal 1857 alla vigilia della Grande Guerra: la scuola sotto la vigile e severa guida di padre Vincenzo Rossi aveva il corso elementare e ginnasiale, su tre piani, con tutte le classi sistemate al piano terra, così come il refettorio e le cucine. I Padri risiedevano al primo piano, dove c’erano anche biblioteche, direzione e segreteria, mentre all’ultimo piano stavano le camerate dei convittori e un porticato correva lungo il cortile interno, permettendo di accedere all’ala dell’oratorio. Davanti alla portineria, un ameno parco giochi per i bambini. Alla notizia che a Sarajevo erano stati assassinati l’arciduca Francesco Ferdinando e la moglie, anche nelle comunità alle pendici del Grappa e in quella del Collegio i discorsi si aprono al mondo e accompagnano, dapprima con fervore poi con sconcerto, i primi sviluppi del conflitto. D’altronde non potevano essere passate inosservate neppure le fasi precedenti l’ingresso dell’Italia, dal momento che alcuni padri e allievi Cavanis erano originari del Trentino, oltre confine, e d’altra parte non si era certo cancellato in queste zone il ricordo dell’appartenenza all’Impero e delle visite a Vienna di padre Marco allo scopo di ottenere protezione e soccorsi all’opera dei padri, o dello stesso imperatore Francesco I alle scuole – nel 1815 e nel 1819 – quando aveva elogiato l’opera dei padri e promesso attenzione. Non pochi religiosi trentini sudditi austriaci, scoppiata la guerra con l’Austria, erano rimasti in Venezia dietro permesso di soggiorno da rinnovarsi ogni mese all’Arsenale1, su modulo intitolato “Soggiorno degli stranieri in Italia”, come già avevano provveduto in precedenza numerosi padri, fra i quali il Venerabile padre Basilio Martinelli, che era di Calceranica e, dal 1910 al 1921, rimase per lo più a Venezia come insegnante del Ginnasio, oltre che Maestro dei novizi, anche con incarichi di “definitore” e poi “scrutatore” nel Capitolo della Congregazione. Ma il disastro di Caporetto, nell’ottobre del 1917, in pochi giorni aveva cambiato completamente la geografia della guerra e la vita delle popolazioni. Le vicende e lo Stato Maggiore italiano avevano deciso che si ritirasse la linea difensiva sul Piave e sul Grappa, che si sarebbe rivelato il cardine della difesa di fronte agli assalti fieri e determinati dell’esercito austriaco, deluso nella sua aspettativa di vittoria e inasprito negli attacchi convulsi per avere varco verso la pianura veneta. Con trincee, camminamenti e rifugi scavati nella roccia e postazioni di artiglieria ad ogni accenno di contrafforte, dalla cima del monte gli italiani dominavano e riuscivano a tenere sotto controllo il fronte dal Monte Valderoa, al Piave, al Montello. Ma non fu possibile sottrarre la Valcavasia dagli orrori della guerra. «La dodicesima battaglia dell’Isonzo, iniziata il 24 ottobre 1917, provocò una profonda rottura del fronte italiano a


Caporetto. Una disfatta incredibile, catastrofica a seguito della quale il Comando Supremo italiano dovette ripiegare le truppe della terza e della quarta Armata sulla nuova linea Grappa-Montello-Piave dove riuscirono ad arrestare l’irruenta avanzata austriaca. Il ripiegamento, reso difficile anche dal maltempo, ebbe momenti di grave drammaticità: le popolazioni civili dovettero sgomberare in pochi giorni tutti i paesi della Carnia, del Bellunese e dell’alto Vicentino, del Feltrino, della Pedemontana trevigiana; fiumane di vecchi, donne e bambini, con poche masserizie, qualche carro trainato da animali, sotto il fuoco incrociato, scapparono dalle vallate alpine e si riversarono nella pianura veneta. Notizie catastrofiche diffuse ad arte dagli Austriaci tra le file dei nostri soldati, soprattutto delle martoriate retrovie, lasciavano intravvedere la vicina sconfitta dell’esercito italiano. Francesi e inglesi, nostri alleati, consigliavano allo Stato Maggiore italiano di ritirarsi fino al Po, considerando ormai irrecuperabile tutto il fronte meridionale della Grande Guerra. A Possagno, come in tutta la Pedemontana del Grappa, vennero sistemate le artiglierie a lunga gittata sui pendii del Monte Palòn e Archeson: il 9 novembre 1917, alle 3 del pomeriggio, venne sparato il primo colpo di cannone contro il nemico; due giorni dopo, cadde una prima granata austriaca in località Olivi, erano le 2 del pomeriggio, a cui seguì un’altra che danneggiò una casa del viale Canova. Per la popolazione civile che era rimasta in paese era ormai troppo pericoloso continuare a restare così vicini alla linea del fronte».2 Gli allievi abbandonarono il Collegio Canova e i padri si erano spostati a Venezia, tranne padre Giovanni D’Ambrosi e padre Agostino Zamattio che non si limitarono a presidiare l’edificio, ma rimasero a fianco della popolazione, al punto che furono incaricati dal vescovo di Treviso mons. Andrea Giacinto Longhin di accompagnare oltre 1400 profughi possagnesi in Sicilia. I soldati francesi e italiani ne approfittarono, durante quel rigido inverno 1917/18, per levare travi e assi di legno dal porticato per far fuoco e scaldare le truppe. «L’ordine di sgombero fu impartito dal sindaco di Possagno, Domenico Rossi, il 12 novembre 1917: circa 280 famiglie possagnesi e da Obledo, frazione della vicina Cavaso, furono ammassate nella piazzetta retrostante la Casa Canova, sotto la guida dei padri Cavanis Giovanni D’Ambrosi e Agostino Zamattio, ai quali il vicario parrocchiale don Sante Scarpa aveva passato le consegne. Il Tempio venne sprangato, le chiavi affidate ai carabinieri della stazione di Crespano. Il municipio venne trasferito a San Zenone. Per tre giorni, a gruppetti, le donne e i malati trasportati coi carri, i giovani a piedi, sotto una pioggia insistente che infangava le strade e riempiva i fossi, circa 1800 persone si recarono a Ca’ Rainati, dove passarono l’inverno, occupando stalle e fienili. Da quella vicina località, i possagnesi potevano assistere con ansia e preoccupazione agli echi e ai bagliori tremendi della guerra, ogni notte sempre più minacciosi; la Valsugana, il Grappa, l’Archeson, il Tomba, fino al Monfenera, sembravano incendiarsi, erano tutto un fuoco, tutto un crepitare di artiglierie.»3 Anche a Venezia arrivava l’eco dei bombardamenti e il sordo crepitio delle granate e la preoccupazione di un prossimo arrivo degli austriaci era tanto maggiore a motivo della presenza di tanti padri chierici e novizi sudditi dell’impero4. Era stato allora eletto Preposito Generale il padre Luigi Tormene: «La guerra ebbe conseguenze dolorose anche per la nostra Congregazione: aspiranti, novizi e chierici Cavanis furono chiamati alle armi; i religiosi e seminaristi Cavanis nati nella provincia di Trento dovettero allontanarsi da Venezia; la fame raggiunse anche le nostre comunità, durante la guerra e anche dopo la vittoria finale, in un periodo di grande miseria e di epidemie fatali. Venezia e Possagno erano situate non molto lontano dal fronte di guerra e dopo la disfatta di Caporetto il fronte si spostò ancora più vicino alle nostre case. P. Tormene dedicò molto tempo a visitare i “suoi” soldati nelle caserme e fino al fronte, lavorando per sostenere la loro vita cristiana e religiosa in una situazione così difficile e pericolosa sotto tutti gli aspetti.»5 «Dopo l’invasione dell’Ottobre 1917, sentendosi anche in Venezia il rombo del cannone, era stata stabilita la partenza del noviziato, del padre Perazzoli e di alcuni altri padri, accompagnati dal padre superiore, Augusto Tormene, per il 9 novembre 1917. Il nostro rifugio era il noviziato caritatevolmente concesso dai Cappuccini in Budrio, dove già li aveva preceduti il compianto fratello Bortolo Fedel. Sospesa la partenza, rimasero in Venezia, decisi a qualunque evento, ma sopravvenuta la disposizione del Vice-Am-


miraglio, per la quale nessun irredento poteva rimanere in Venezia, dopo replicati ed inutili ricorsi, furono costretti ad abbandonare la città.»6 Fu allora il Patriarca di Venezia, cardinale Pietro La Fontaine, a suggerire a padre Tormene di «scrivere a un Santo Sacerdote di Tortona, Don Luigi Orione, chiedendogli posto nel suo Noviziato per 7 trentini che dovranno partire il 4 gennaio»7. Don Orione rispose immediatamente: «Qualora i suoi cari figliuoli in Gesù Cristo dovessero lasciare Venezia, sono ben felice e reputo a grazia di Dio poterli subito accogliere»8. «Nell’Archivio storico c’è la corrispondenza, molto interessante di padre Tormene con i padri e i seminaristi Cavanis che erano stati richiamati dall’esercito italiano. Bisogna leggere il Diario del tempo di guerra, scritto da padre Tormene. Ci fu l’esilio a Tortona, in Piemonte: i padri e seminaristi del Trentino, benché italiani, erano ancora sudditi dell’Impero austro-ungarico e quindi, a causa della vicinanza del fronte, erano considerati, dalla polizia italiana, potenzialmente pericolosi durante la guerra contro il suddetto impero.»9 Intanto sulle pendici e sulla cresta del Grappa già dal 1916 soldati e militari del genio erano andati man mano e sempre più prendendo il posto di nativi e boscaioli, provvedendo per tempo a strade, opere di fortificazione, come in preparazione di una eventuale prima linea. Non fu dunque un caso se qui si giocarono in tre momenti decisivi gli esiti del conflitto: la battaglia d’arresto, la battaglia del “solstizio” e la battaglia di Vittorio Veneto.10 «Durante la prima fase della battaglia d’arresto, dal 10 al 27 novembre 1917, le truppe italiane si impegnarono ad arginare i numerosi fronti dell’assalto nemico tra Cismon e Piave: cominciavano a cadere fitte le granate su Possagno e la Pedemontana…. L’attacco austriaco arrivò, già il 18 novembre, al Monfenera e al Tomba, e continuò accanitissimo ... Verso le tre del pomeriggio del 13 dicembre, gli austriaci sembrarono avere il sopravvento su tutto il fronte tra Piave e Brenta, tanto che le artiglierie nemiche ripresero anche i bombardamenti sull’avamposto del Tomba e numerose granate caddero sulle abitazioni di Possagno, Cavaso e Pederobba; dal 15 dicembre, combattimenti rabbiosi e violentissimi interessarono soprattutto il monte Solarolo, il colonnello Berretta e il colonnello Caprile fino alla vigilia di Natale: migliaia di morti rimasero nel terreno squassato dai crateri delle bombe. A Possagno e in tutta la Valcavasia, sui tetti dei fienili, delle stalle, delle case vuote di tutto e rese spettrali dall’asportazione di balconi e tavolame, caddero numerose granate. Il 26 dicembre, dopo una tregua durata solo qualche ora natalizia, i bombardamenti ripresero aspri e micidiali fino ad esaurirsi l’ultimo giorno dell’anno, lasciando in tutta la Pedemontana gravi danni agli edifici pubblici e privati: un ordigno scoppiò a ridosso delle colonne del Tempio causando una profonda voragine nel sagrato.»11 Tra gli ex allievi del Collegio Canova di Possagno partecipano alla guerra un centinaio di persone (delle classi tra il 1875 e il 1899): i morti fra quei giovani ex allievi sono alcune decine riferiti in una lapide esposta nel salone delle Medie del Cavanis di Possagno. Nel salone ex aula magna del Collegio Canova, vi è una grande lapide in cui sono elencati gli ex allievi della nostra scuola che si immolarono per la Patria nella Grande Guerra. Quanti qui l’animo educarono al sacrificio per la Patria gli ex allievi vollero affettuosamente ricordare 1917-1918 Guido Negri, Commessatti Igino, Di Bartolo Alfonso, Cicconi Guglielmo, Agrizzi Giovan Maria, Andreatta Antonio, Andreatta Giustiniano, Baldironi Ferdinando, Banci Cesare, Baratto Gregorio, Bortoluzzi Giovanni, Bortoluzzi Giorgio, Breganzato Silvestro, Calvi Ivo, Calvi Giovanni, Castegnaro Federico, Coppitz Attilio, Dalla Favera Albino, Dalla Zanna Giacinto, De Zorzi Francesco, Fabbian Matteo, Faggiotto Alessandro, Fin Roberto, Fin Tullio, Fracalanza Ilario, Forcellini Federico, Forcellini Giulio, Forcellini Guido, Martinuzzi Riccardo, Mazzarolo Gino, Negroni Vincenzo, Pontarolo Vigilio, Pozza Giuseppe, Prosdocimi Antonio, Roncato Guido, Sailer Antonio, Venni Antonio, Visentin Francesco, Voltolina Clodoveo. «Il 27 dicembre, la crocerossina di Cavaso Ada Andreina Bianchi, entrò nel Museo canoviano di Possagno, colpito


da due colpi d’artiglieria nella volta della grande Gipsoteca, e osservò distruzione e macerie in ogni parte; nelle sue intense pagine di diario, la giovane donna descrive la desolante devastazione che avevano subito la collezione dei gessi: schegge di sculture in ogni parte, polvere di gesso e di calcinacci ricopriva le poche opere rimaste in piedi, teste e braccia e torsi decapitati sparsi sul pavimento, il soffitto squarciato lasciava la grande collezione canoviana in balia delle intemperie... Lo Stato Maggiore italiano, prevedendo con la bella stagione la ripresa delle ostilità, fece eseguire sul Grappa una serie impressionante di opere difensive e di supporto che ancora oggi hanno dell’incredibile …. Anche nella Pedemontana e nell’Asolano, per tutta la primavera del ’18, furono costruite opere di retrovie, dalle trincee sui colli di Monfumo agli ospedali da campo, dalle baracche di deposito alle strade, ai magazzini, alle caserme.»12 La Comunità dei padri Cavanis viene direttamente coinvolta in una delle epopee più grandi che la storia ricordi: i padri Giovanni D’Ambrosi e Agostino Zamattio, già incaricati dal vescovo di Treviso, mons. Giacinto Longhin di sostituire il parroco di Possagno don Teodoro Agnoletto nella conduzione della parrocchia, a seguito dell’ordine di sgombero della popolazione civile avevano accettato di accompagnare la comunità possagnese nel sito di Ca’ Rainati, dal novembre del 1917 all’aprile del 1918. Ma prima che infuriasse la terribile battaglia del “solstizio” o “seconda battaglia del Grappa” (15 giugno – 6 luglio 1918), per sfondare con manovra a tenaglia dall’Altopiano di Asiago e dalla valle del Piave, i possagnesi dovettero partire anche da Ca’ Rainati. Per loro è individuato un luogo di alloggio nella lontanissima Marsala, nell’estrema punta occidentale della Sicilia, in provincia di Trapani. E i padri D’Ambrosi e Zamattio, fedeli al loro mandato, accompagnano e assistono la tradotta delle centinaia di persone in Sicilia (otto giorni di treno per andarci e altrettanti per tornare) dall’aprile 1918 al gennaio 1919. Mentre loro sono profughi, in paese e in tutta la Pedemontana meridionale del Grappa furoreggia la battaglia: il Collegio, il Tempio, la Gipsoteca canoviana sono bombardati e parzialmente distrutti, oltre duecento case sono rovinate dalle granate, le travi e i tavolati di legno sono divelti dai soldati per far legna da ardere.... «…Possagno, Obledo, Cavaso, Monfumo, Pederobba vennero colpiti a più riprese da devastanti bombardamenti: la pieve di Cavaso andò quasi completamente distrutta ... Con molta difficoltà e gravi perdite, fin dal pomeriggio dello stesso 15 giugno, le truppe italiane della Quarta Armata riuscirono a contenere l’attacco e a riprendere le posizioni sul massiccio e lungo il Piave, catturando centinaia di prigionieri avversari: “ciascuno dei nostri bravi soldati che difendono il Grappa ha sentito che ogni palmo dello storico monte è sacro alla Patria”, recita il bollettino di guerra del 18 giugno 1918 e per la prima volta, nel parco di Villa Dolfin, a Rosà, il 24 agosto 1918, risuonò la canzone del Grappa, nel corso di una solenne cerimonia in onore degli “eroi del Grappa”: la musica era di Antonio Meneghetti, le parole del generale Emilio De Bono (oggi, nel Sacrario del Grappa, inaugurato il 22 settembre 1935 dallo stesso Vittorio Emanuele III, riposano le salme di 12.400 soldati italiani assieme a 10.292 soldati austriaci). Durante la battaglia del solstizio, nella località possagnese di Rover, era impiegato nell’unità di soccorso della Red Cross, la Croce rossa statunitense, il giovane Ernest Hemingway che ci ha lasciato pagine memorabili di quella battaglia nei suoi articoli e nel suo diario; un contingente francese alleato degli italiani aveva contribuito in modo determinante ai combattimenti sul Monte Tomba e alle attività di sussistenza in tutta la Valcavasia. Dal 24 al 30 ottobre 1918, un nuovo e imponente attacco da parte italiana alle vette del Pertica, dell’Asolone, del Solarolo e del Valderoa aveva l’obiettivo di far retrocedere il nemico e liberare tutto il massiccio. Il 27 ottobre, le prime truppe italiane riattraversarono il Piave: la guerra stava prendendo una piega decisamente favorevole all’Italia…»13. La conclusione era prossima e la battaglia di Vittorio Veneto era già cominciata. 1 Nel Diario della Congregazione dei padri Cavanis sono ricordati il padre Enrico Perazzoli e alcuni chierici (Amedeo Fedel, Aurelio Andreatta, Mario Janeselli, Luigi Janeselli) e novizi (Valentino Fedel, Mansueto Janeselli). 2 Giancarlo Cunial, FB Lacrocerossinadelgrappa. 3 Giancarlo Cunial, ibidem. 4 Ugo Del Debbio Il Beato Luigi Orione e i padri Cavanis. 5 Giuseppe Leonardi, Note per un corso sulla Storia della Congregazione delle Scuole di Carità, Kinshasa – R. D. C. 2007, 1913-1922 6 Diario: Nei giorni d’esilio… 7 Diario della Congregazione, 27-12-1917 8 Lettere 30-12-1917 9 Giuseppe Leonardi, ibidem, pp. 19-20 10 19 NOVEMBRE 1919 - Dopo ansie e timori, restaurato quasi del tutto il locale del Collegio Canova di Possagno, devastato dalla guerra, si riapre oggi non senza visibile protezione di Dio. Nella stessa data fu inaugurato il Probandato di Possagno con sede provvisoria nel Collegio Canova. Gli aspiranti furono poi trasferiti nella nuova sede sotto il titolo della “Madonna del Carmine”. Il 2 febbraio dello stesso anno il Cardinal Patriarca annunciava di aver firmato iersera il Decreto di introduzione alla Causa di Beatificazione dei nostri PP. Fondatori. 11 Giancarlo Cunial, FB ibidem. 12 Giancarlo Cunial, FB ibidem. 13 Giancarlo Cunial, FB ibidem.

Alessandro Gatto


DON LINO CUSINATO

L’occupazione di San Donà di Piave Monsignor Luigi Saretta, il “vescovo delle Basse”, sulla linea del fronte

San Donà di Piave, il Duomo.


L’ O C C U P A Z I O N E D I S A N D O N À D I P I A V E

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uando don Luigi Saretta arrivò a San Donà di Piave il 26 giugno 1915, nominato dal vescovo Longhin, arciprete di quel grosso centro agricolo e commerciale oltre il fiume al limite sud-est della diocesi di Treviso, trovò la casa canonica già occupata dal comando militare. L’Italia era entrata in guerra da appena un mese (24 maggio). Fu accolto con imbarazzo e sistemato, ospite scomodo, in una stanza a parte. Nessun ingresso ufficiale del nuovo pastore in parrocchia; al mattino seguente celebrò la messa in duomo e promise ai presenti che avrebbe speso tutte le sue energie per il bene spirituale e materiale della comunità diventata la sua famiglia. Aveva già scritto al sindaco Bortolotto per manifestargli i sentimenti e i propositi che lo guidavano. Il primo cittadino gli aveva risposto: «saprà cattivarsi la benevolenza di tutto il paese se, come dice, svolgerà la sua elevata missione di carità e di fede, tenendosi all’infuori del campo nel quale svolge la sua azione l’Autorità Civile». Preoccupazione inutile, perché doveva fare i conti con la guerra iniziata e la sua città era in zona di operazioni militari; e anche perché il nuovo pastore non era uomo da “tenersi fuori”. Egli voleva “stare dentro” la vita della gente; tuttavia mai “contro”, bensì “con” tutti coloro che operassero per il bene comune. Dalle parole del primo cittadino si colgono comunque due dati significativi. Primo, che non c’era neanche negli amministratori locali la percezione realistica di ciò che sarebbe stato il conflitto nel quale l’Italia si era avventurata, spinta più dalla retorica culturale dalla classe

dirigente che da sapienza politica. Secondo, che quel giovane prete, non ancora trentenne, ben conosciuto per la sua intraprendenza intelligente e colta, per le responsabilità importanti ricoperte nella direzione diocesana, per il suo coinvolgimento in tensioni politiche a Treviso, era ritenuto capace di creare problemi a San Donà, dove anche di recente i contrasti tra cattolici intransigenti e socialisti erano sfociati in pubblici episodi violenti, tali da indurre il vescovo a richiamare a Treviso l’arciprete mons. Bettamin, pastore coerente ma non intrigante, al fine di calmare gli animi della popolazione. Perché il Saretta a San Donà Non è del tutto chiaro neanche agli storici il vero motivo per cui il vescovo Longhin abbia scelto il Saretta per San Donà di Piave. Rimozione o promozione? Probabilmente tutte e due. L’accordo fatto da monsignor Brugnoli presidente della Direzione Diocesana con i responsabili trevigiani del movimento socialista, sollecitato dal prefetto, di non disturbare le reciproche manifestazioni pubbliche (per i cattolici erano principalmente le processioni del Corpus Domini) aveva creato divisione tra i cattolici della città, ed era stato disapprovato da Papa Pio X che aveva chiesto al vescovo le dimissioni della intera Direzione Diocesana, di cui anche il Saretta faceva parte, quale assistente della gioventù cattolica. Il Longhin prese tempo; poi, concluso il sinodo diocesano, inviò il Brugnoli ad Asolo nel 1911; quanto al Saretta aspettò di più: solo dopo aver chiamato a Treviso monsignor Bettamin per i mo-

San Donà di Piave, monumento a Giannino Ancillotto.

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La sorgente del Piave a Monte Peralba.

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tivi detti e a guerra già iniziata, nel 1915 lo inviò parroco a San Donà di Piave. In quel territorio strategico occorreva un pastore con energie giovanili, di forte personalità, intraprendente e aperto alle istanze del nuovo secolo ma fedele alla Chiesa e alle direttive diocesane. Lo aveva convinto la grande stima, che nutriva del giovane sacerdote, suo provato collaboratore, da lui consacrato nel 1908, incaricato subito ad insegnare nel seminario diocesano, laureato in scienze sociali a Brescia nel 1911, al quale aveva affidato la responsabilità dell’azione cattolica giovanile con incarichi anche regionali, da otto anni anche direttore del settimanale “La Vita del Popolo” (l’organo d’informazione della Direzione Diocesana). Era la persona adatta per assumere la cura pastorale di una città, il cui territorio sarebbe stato messo a dura prova dalla guerra iniziata. Certamente appare più avveduto il vescovo che il sindaco: questo ancora legato alle passate tensioni post-risorgimentali, quello proiettato con sapienza pastorale sul futuro segnato da una guerra europea che avrebbe cambiato irreversibilmente la storia. La mobilitazione diocesana lungo il basso Piave Per il nuovo parroco, coadiuvato dai due giovani e generosi cappellani don Marin e don Rossetto, dalle suore di Maria Bambina e da un gruppo nutrito di laici, giovani e adulti (del dottor Perin diremo più avanti), si trattava di sostenere e di rafforzare quella mobilitazione generale della diocesi che aveva preso avvio fin dall’inizio del 1914 e che impegnava le popolazioni a farsi carico della complessa emergenza bellica: dei

figli e delle famiglie dei richiamati alle armi, di coltivare i campi in solidarietà, di sostenere ogni attività lavorativa nelle varie forme cooperative, di procurare ai soldati gli aiuti materiali e spirituali, di prestare opera volontaria negli ospedali. Tutto questo era possibile intensificando la vita religiosa comunitaria, traendo energia dalla fede e dalla devozione, dando testimonianza civile con la coerenza morale nei comportamenti personali, familiari e sociali. Nel centro urbano il compito era relativamente agevole, ma nel territorio oltre fiume c’erano borgate distribuite nelle campagne fino alle paludi della laguna, con le quali occorreva coltivare i collegamenti, sostenerle nelle necessità, non far mancare la formazione spirituale e umana. Questa azione pastorale era resa più difficile dalla presenza dei soldati e delle salmerie che andavano e venivano dal fronte sull’Isonzo. San Donà era città di smistamento delle truppe. Occorre ricordare anche che a San Donà c’era l’unico ponte, più stretto dell’attuale, che attraversava il Piave collegando i territori di destra e di sinistra, che erano diocesani fino all’attuale Eraclea; ogni altro traversamento era fatto con barche. I primi due anni di guerra furono sì duri, ma gestibili, quanto possibile in zona militare. La tragedia incominciò con la disfatta di Caporetto del settembre 1917. Scrive lo storico Santon: «A San Donà, situata sull’argine (sinistro) del Piave e alla confluenza di più strade, da ognuna delle quali sboccavano migliaia di soldati e di civili per puntare


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su Mestre, la situazione nei mesi dell’invasione assunse aspetti drammatici. Sull’unico ponte vennero a sfociare tutti gli uomini della IIIa Armata, tutte le popolazioni delle rive dell’Isonzo, del medio e basso Tagliamento e della Livenza. Centinaia di migliaia di persone, migliaia di automezzi e di quadrupedi, con relativi carretti, puntavano su San Donà. Fino ad ottobre la città resistette, ma quando a novembre giunse la notizia che anche la linea del Tagliamento era crollata, si decise per l’esodo». Popolo e pastori, profughi insieme Aiutati dal medesimo storico, seguiamo la tragica esperienza dei tre pastori di San Donà, profughi col resto della loro popolazione. Don Saretta, con i suoi due preti, ricevette dal vescovo Longhin la consegna di non lasciare la città finché tutta la popolazione non fosse partita. Restò con gli ultimi. Dopo aver sepolto gli arredi sacri in casa di amici fidati, il 25 ottobre aveva radunato in chiesa i pochi rimasti: Se il popolo parte, partirò anch’io, se il popolo rimane il clero rimarrà in sua compagnia condividendo prigionia e sofferenze che potranno essere inflitte dal nemico. Pochi rimasero e i sacerdoti con loro. Tra il 6 e il 9 novembre furono abbattuti il campanile e i due ponti (ferroviario e carrozzabile). Ogni contatto con la madre patria era tagliato. L’esodo doveva muoversi verso est, mentre in città arrivavano gli austriaci. Le suore si fermarono in un casolare, “Il Conventino” trasformato in ospedale nei pressi di Eraclea, guardate a vista dai soldati che, sotto la pioggia battente cercavano di costruire una passerella. Ci fu la reazione italiana, violenta, così che la case dove erano rifugiati i profughi furono bersaglio delle artiglierie italiane; anche “Il Conventino” fu colpito, suor Teofila uccisa e alcuni feriti. Fu loro imposto di lasciare la casa e don Saretta col suo minuscolo gregge, s’incamminò sotto la pioggia attraverso i campi, sostando prima nella casa Pasquali, poi in quella dei Sant. Durante una tregua dei bombardamenti ottenne il permesso di visitare San Donà: ne fu sconvolto vedendola un cumulo di macerie. In casa Sgorlon incontrò i suoi due cappellani che stavano con altri gruppi. Venne l’ordine di sgombrare tutte le case dove c’erano italiani rifugiati. La carovana di un centinaio di profughi partì, scortata fino a Torre di Mosto, raggiunta da don Marin e dal parroco di Passerella don Zandomeneghi con un gruppo di suoi parrocchiani. Dopo un interrogatorio del Tribunale di guerra residente a Ceggia, don Zandomeneghi fu incaricato a far da parroco a Torre di Mosto, mentre don Saretta e don Marin il 17 dicembre ricevettero l’ordine di partire con la propria gente per Portogruaro. Prima a piedi, poi su un carro bestiame ferroviario giunsero il 18 dicembre e furono sistemati in varie case; le suore nell’ospedale, don Saretta nella canonica di Sant’Agnese. Don Saretta volle celebrare il Natale solo col gruppo dei profughi, mentre accettò l’invito del vescovo, monsignor Isola, a tenere il discorso in cattedrale la sera del 31 dicembre. Prova cruciale, perché erano presenti sia fedeli italiani che soldati tedeschi. Ma don Saretta la superò da par suo, tanto che il 5 gennaio il vescovo lo nominò parroco della cattedrale, con don Marin e don Gardin suoi coadiutori.

Costruzione del ponte di barche sul Piave e passaggio di automezzi sullo stesso..

Truppe e popolo assieme.


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Portogruaro 1918: parroco di tutti Don Saretta fece il parroco sul serio, per un anno, nella più strana delle situazioni, ma con la coscienza chiara del suo essere pastore. Si prese cura dei fanciulli, sbandati e senza famiglia: per i più piccoli con un asilo d’infanzia, per i più grandi con l’avvio della scuola elementare affidata a maestri e testi improvvisati, scrutini ed esami finali a luglio (le autorità italiane nel 1919 riconobbero la validità del percorso scolastico realizzato). Poi si occupò dei malati, visitandoli nelle case e per non destare sospetti alla polizia, indisse la benedizione delle famiglie in tutte le case. Funzioni religiose e catechesi per gli adulti la domenica pomeriggio. Tutte le manifestazioni religiose pubbliche, compresa la processione del venerdì santo. Estese la sua opera scolastica anche alle parrocchie nel territorio di Portogruaro, dove c’erano profughi sandonatesi: a San Nicolò, a Pradipozzo, a San Michele, a San Giorgio, sempre con maestri volontari; e con l’approvazione delle autorità austriache. Istituì anche l’ufficio postale, trasportando la corrispondenza da e per Udine; questo gli permetteva di far giungere e ricevere posta dall’Italia, con le necessarie furbizie. Le sue lettere Noventa di Piave.

Musile di Piave.

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però furono sempre bloccate. Per l’ascendente che si era procurato presso tutta la popolazione, in agosto, gli venne affidata la carica di economo municipale, che gli permise di distribuire molti aiuti ai bisognosi. Ma non vennero meno i sospetti delle autorità austriache su di lui; più volte lo processarono, senza tuttavia trovare motivo di condanna. Ma fu sorvegliato in modo sempre più pressante. Il 15 giugno 1918 all’ora della battaglia del “solstizio”, don Saretta aveva radunato la sua gente per un voto alla Madonna: conosceva l’ora X per vie segrete. Anche per questo fu interrogato. In ottobre volle la solenne processione del Rosario, mentre aerei italiani facevano scendere volantini invitanti a resistere. La polizia ne aveva abbastanza. Poco prima dell’arrivo degli italiani era pronto il decreto di toglierlo di mezzo definitivamente. Si salvò nascondendosi presso l’amico don Umberto Marin in San Nicolò. Riapparve quando la liberazione era compiuta. In pochi giorni prese le poche cose che aveva e con le suore ritornò a San Donà ridotta in un cumulo di rovine, per iniziare l’opera di ricostruzione con la sua gente. In realtà fu la rifondazione della città: opera di un intero popolo, che si riconosceva nella guida illuminata e forte del suo pastore.

Fossalta di Piave.

San Donà di Piave.


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Una comunità unita nel dolore e nella speranza In agosto monsignor Beccegato, vescovo di Ceneda, suo amico gli aveva scritto: «Lessi la tua lettera piena di dolore; tutte quelle che ricevo dai miei desolati parroci sono del medesimo tenore. Quante stragi! Non so come possiamo sopravvivere. Ma il Signore ti assisterà con la sua potente grazia… Sua Eminenza monsignor Isola mi disse di te un mondo di elogi; dice che sono tutti contenti, che anzi dopo non ti lasceranno più partire. Coraggio! Tu sei senza parrocchia, io sono senza diocesi». A San Donà lo aspettavano i suoi collaboratori, preti e laici, pronti a ripartire. Lo attendeva in particolare Pietro Perin, il medico eroico che era rimasto a curare feriti, italiani e austriaci senza distinzione, a soccorrere la povera gente, a pregare sui morti, a tener viva la speranza. Era stato il suo unico contatto con la città nell’anno di lontananza, quasi la sua stessa presenza. Con lui e con molti altri don Saretta incominciò a scrivere un nuovo capitolo di storia patria e della chiesa trevigiana che risorgeva dalle macerie. Il vescovo Longhin finalmente aveva potuto riprendere i rapporti epistolari con lui, che era ancora a Portogruaro, dopo un anno di censura di tutte le lettere. Il 3 novembre 1918 gli aveva scritto: «Carissimo arciprete, con vivissima gioia colgo l’occasione propizia per mandarti, forse, il primo saluto che ti giunge dopo un anno di angosce. Ho ricevuto tue notizie; ti ho scritto più volte, ma capisco che la polizia austriaca non lasciava libero il passo. Adesso, alla fine, è giunto. Stiamo tutti bene; benissimo anche tua sorella. Tante cose da monsignor Trabuchelli Onisto (il rettore del seminario) e da quanti amici ti ricordano affettuosamente. Oggi sono stato a Vittorio; di ritorno vidi anche il Prevosto di Montebelluna, che resse imperturbato mille pericoli. Saluti alla mamma; ossequi a Sua Eccellenza. Dio ci ricongiunga nella pace. Vedrai lo strazio della nostra povera diocesi! Ti benedico». Appena ritornato a San Donà, era corso a Treviso per abbracciare il suo vescovo. Dieci anni dopo raccontò, ancora commosso, quell’incontro con monsignor Longhin: «Mi par di vederlo, nei primi giorni di novembre, subito dopo la vittoria e la liberazione, quando potei recarmi per la prima volta a Treviso, per gettarmi nelle braccia del Padre, dopo tante lacrime e tanti strazi. Lo trovai ammalato e quasi sfinito, nel suo letticiolo, in seminario. Sopra il suo corpo consunto pareva che incombesse il peso di tutti i suoi figli e nel suo sguardo vibrava tutta la passione della diocesi martoriata, dispersa e convulsa. Il venerato Presule voleva essere informato minutamente di tutto, specialmente delle condizioni morali e religiose delle parrocchie. In tal modo il Pastore raccoglieva il gemito del popolo bisognoso di pace, di giustizia, di fede, di bontà, della parola viva dei suoi sacerdoti, che erano già tutti al loro posto, non inferiori alla loro ardua missione; unici, quasi, rimasti col popolo invaso. Primi erano tornati, dopo la vittoria, alle terre sconvolte, per farvi rinascere la vita». San Donà di Piave, con ricostruzione dopo la Grande Guerra, prese il volto di città, capoluogo del vasto territorio del basso Piave, vivace nelle attività indu-

striali e commerciali, dotata di molteplici istituzioni scolastiche e di iniziative culturali, cattoliche e laiche; mentre il centro urbano si articolava in quartieri popolosi, non mancò di sviluppare anche generose opere di solidarietà sociale. La comunità cristiana ne è stata il fermento mentre monsignor Saretta l’anima, con la sua autorevolezza morale da tutti riconosciuta, tanto da essere chiamato “il vescovo delle Basse”.

Ponti sul Piave.

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S. DONA’ DI PIAVE AND HIS HEROIC SHEPHERD IN THE FRONTLINE DURING THE GREAT WAR. Monsignor Luigi Saretta: “il vescovo delle Basse”*

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La foce del Piave.

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uigi Saretta was born in Montebelluna on the 4 of August 1885. He met bishop Longhin in his early years in seminary; the bishop was like a father to him and Luigi was like his intelligent and faithful son; Bishop Longhin was the one who later ordained the young Saretta a priest, when he was only 23 years old. As father Luigi Saretta arrived in S. Donà on the 26 of June 1915, he found that the rectory had been occupied by a military command as Italy had entered the war, precisely on the 24 of May, a month before Saretta’s arrival. Thus the inauguration of the new pastor could not take place; instead the next morning in the cathedral during mass father Luigi promised the people of the town he would devote all his energies for the greater good of the commnity. A strong and young personality was what a community in that strategic place needed; someone capable of facing the difficulties in time of war remainig at the same time obedient to the church’s moral guidelines. The new priest’s task was to support and strenghten that mobilization started early in 1914 which saw the people committed to facing the war emergency; this involved dealing with situations linked to a conflict such as taking care of the children and families of those called to arms, developing and supporting forms of social farming, supporting every form of team-work, providing soldiers with material and psychological aid, volounteering in hospitals. Only the promotion of a higher sense of community, only a strong faith in God and devotion could have turned father Luigi Saretta in a spiritual and material leader for the people; only his civil committment and moral consistency could have made of him an example of personal, social and familiar behaviour. But the worst came with the tragedy of the defeat at Caporetto in September 1917, a turning point for the outcome of the war; Don Saretta was ordered not to

leave the town till all the people were safe; he literally buried the sacred objects in some of his most loyal friends’ houses, he gathered the people and pronounced these words “if my people leave, i’ll follow them; if they stay, i’ll stay with them; we’ll share and bear the pain and any form of detention that may be inflicted on us”. He remained with the few that decided to stay. The evacuation of the town started; it was headed to the east while the austrian troops were entering the town. Don Saretta took his tiny herd of faithful souls and walked out of town; regardless of the rain they walked across fields to celebrate Christmas together. The day after he received the invitation of Monsignor Isola to deliver a sermon in the cathedral in the night of the 31 December; it was a crucial challenge for Father Saretta because both italian and austrian soldiers were supposed to attend Mass; he passed the test and on the 5 Januar he was appointed parish priest of the cathedral by the bishop, along with Don Marin and Don Gardin as his assistants. Such were the strange conditions in which Don Saretta carried out his duty for a year;; despite the difficulties he was determined and never lost sight of his real mission as a server of god; he took care of the orphans and abandoned children; he created a nursery to help the little ones and a real school with teachers, books and even final examinations for the older children. He visited ill people at home and gave the families his blessing by going from house to house; the austrian police followed him everywhere; they suspected the young father and tried him on a number of occasions but they never found a single evidence against him. On the 15 June 1918, the day on which the crucial battle of the Solstice took place, Don Luigi Saretta prayed the Madonna; he knew the battle would have decided the fate of the nation; the austrians once again questioned him in connection with this fact; they had enough of him this time. He saved his life only by hiding in a friend’s house in S. Nicolò. After the liberation, he took his things and went back to S. Donà; the war had turned the town into a heap of rubble but Don Saretta along with his people was ready to start the reconstruction. The refounding of San Donà was the work of all the people who identified themselves in the enlightened leadership and in the moral authority of their shepherd; from that day Bishop Saretta became known as “il vescovo delle Basse” .


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SAN DONA’ DI PIAVE UND SEIN HEROISCHER HIRTE AN DER FRONTLINIE DES ERSTEN WELTKRIEGES Monsignor Luigi Saretta – der Bischof der Ebenen

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uigi Saretta wurde am 4. August 1885 in Montebelluna geboren. Bereits in Seminar begegnete er Bischof Longhin, der ihn immer als begabten und zuverlässigen Sohn betrachtete und ihn mit nur 23 Jahren zu Priester ernannte. Als Don Luigi Saretta am 26. Juni 1915 S. Donà di Piave erreichte, war das Pfarrhaus bereits von den Soldaten besetzt, da Italien einem Monat zuvor in den Krieg eingetreten war. Ohne offizielle Einweihung des neuen Pfarrers, zelebrierte er die Messe am kommenden Tag im Dom und versprach den Anwesenden, dass er sich mit aller Kraft für die spirituelle und materielle Güte der Gemeinschaft einsetzen würde. In diesem strategischen Gebiet brauchte man einen unternehmungslustigen Hirte mit junger Energie und starker Persönlichkeit, der offen für die Ideen des neuen Jahrhunderts, aber treu an die kirchlichen Hinweisen war. Der neue Pfarrer musste die ganze Diözese bei der komplexen kriegerischen Notfall, die schon im Jahr 1914 anfing, unterstützen und stärken: Er musste sich um die Familien und die Kinder der Soldaten kümmern, die Felder solidarisch anbauen lassen, die Arbeit der Genossenschaften unterstützen, die Soldaten mit spiritueller und materieller Hilfe versorgen, sowie Freiwilligendienst in den Krankenhäuser leisten. Dafür musste er das gemeinschaftliches und geistliches Leben stärken, Energie aus Glauben und Frömmigkeit ziehen und als bürgerlicher Vorbild dienen, indem er sich auf persönlichem, familiärem und sozialem Verhalten moralisch konsequent verhielt. Die größten Schwierigkeiten fingen mit der Caporetto-Niederlage in September 1917 an. Nach Bischofs Longhin Willen hätte Don Saretta die Stadt verlassen können, nur wenn die ganze Bevölkerung weggegangen wäre. Er blieb mit den Letzten, ließ den kirchlichen Ornat bei zuverlässigen Freunden und nachher versammelte am 25. Oktober die wenigen übrigen Leute in der Kirche und sprach: Wenn das Volk weggeht, werde ich auch weggehen, wenn das Volk bleibt, werde ich auch bleiben und die vom Gegner auferlegten Ge-

fangenschaft und Leiden teilen. Wenige Personen blieben, und die Priester mit ihnen. Man musste nach Osten fliehen, da die Österreicher die Stadt fast erreicht hatten. Don Saretta setzte sich mit seinem kleinen Herde durch die Felder und unter dem Regen in Marsch. Er wollte Weihnachten nur mit der Gruppe der Flüchtlingen feiern, aber nahm die Einladung von Mons. Isola an, die Rede in der Kathedrale am Abend des 31. Dezember zu halten. Das war eine kritische Herausforderung, weil dort sowohl italienische Gläubiger als auch deutsche Soldaten anwesend gewesen wären. Aber Don Saretta bewältigte sie; Vielmehr wurde er am 5. Januar vom Bischof zu Pfarrer der Kathedrale ernannt, mit Don Marin und Don Gardin als Vikaren. Für ein ganzes Jahr und in der seltsamsten der Situationen nahm Don Saretta seine Aufgabe ernst, mit der Bewusstsein, ein Hirte zu sein. Er kümmerte sich um orientierungslose und obdachlose Jugendliche: Für die jüngeren gründete er einen Kindergarten, für die älteren eine Grundschule mit behelfsmäßigen Lehrern und Lehrbüchern, sowie Notenkonferenzen und Endprüfungen in Juli. Er besuchte die Kranken und half ihnen: Um keinen Verdacht bei der Polizei zu erregen, organisierte er Familiensegnungen in jedem Haus. Trotz dessen, verdächtigten ihn die österreichischen Behörden, ohne Verurteilungsgründe zu finden. Am 18. Juni 1918, zur zweiten Piave-Schlacht, hatte Don Saretta seine Leute für ein Gelübde der Marienverehrung versammelt: er wusste die richtige Zeit für Geheiminitiativen, und auch deshalb wurde er verhört. In Oktober verlangte er eine festliche Rosenkranz-Prozession. Während der Prozession warfen italienische Flugzeuge Flugblätter, worauf der Widerstand gefördert wurde. Die Polizei konnten das nicht mehr akzeptieren. Bevor die Italiener ankamen, war die Entscheidung, Don Saretta zu vernichten, bereits getroffen worden. Er rettete sich, weil er sich beim Freund Don Umberto Milan in San Nicolò versteckte. Er erschien wieder, als die Befreiung vollendet war. In wenigen Tagen nahm er sich seine wenige Dingen und kehrte mit den Nonnen zurück nach San Donà, die inzwischen zu einem Trümmerhafen geworden war, um den Wiederaufbau der Stadt mit seinen Leuten zu beginnen. Die Stadt wurde von der ganzen Bevölkerung, die die erleuchtete und starke Führung seines Bischofs anerkannte, neu gegründet. Die christliche Gemeinschaft war der Antrieb dieser Bewegung. Mons. Saretta war ihre Seele, dank seiner moralischen und von allen anerkannten Durchsetzungsvermögen, das ihm den Namen „Vescovo delle Basse“ (Bischof der Ebenen) verlieh.

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VASCO SENATORE GONDOLA

Verona

e la valle dell’Adige

N

Il fiume Adige da Castelvecchio di Verona.

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ell’economia generale della Grande Guerra il segmento veronese del fronte italo-austriaco, compreso tra la sponda occidentale del Lago di Garda e il Passo della Lora, sottoposto alla giurisdizione militare della Fortezza di Verona, ebbe, con quello contiguo vicentino, un’importanza strategica che va riconosciuta ed adeguatamente sottolineata. Esso coincideva, infatti, con il punto più avanzato verso sud del saliente trentino, che garantiva all’Impero austro-ungarico il possesso di territori posti a poche decine di chilometri dal cuore della pianura padana e la possibilità di lanciare da essi un attacco

che, sfociando nella pianura veronese-vicentina, sarebbe stato esiziale per l’intero schieramento italiano. Era questo il vecchio piano del generale Conrad, che già aveva proposto un attacco preventivo contro l’Italia nel 1908 e nel 1911; grazie ad esso le truppe imperiali sarebbero riuscite a spaccare l’Italia settentrionale giungendo fino al Po. Fortunatamente per noi, nel 1915, quando l’Italia entrò in guerra, i comandi austriaci non adottarono quel piano, mantenendosi su posizioni difensive; Conrad riuscì a farlo accettare solo nel 1916, come “spedizione punitiva”, quando però le posizioni italiane erano ormai consoli-


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date; quello fu per noi un pericolo gravissimo, perché una valanga di uomini e cannoni si riversò sul nostro fronte, invase l’Altopiano d’Asiago e giunse a un soffio dal dilagare nella sottostante pianura, ma quella spedizione fu infine bloccata e respinta, risolvendosi sostanzialmente in una sconfitta per l’impero e in uno smacco per lo stesso Conrad. L’originario piano di guerra italiano predisposto dal generale Alberto Pollio, comandante in capo del nostro esercito fino al 1914 e “triplicista” vicino a Conrad,prevedeva che in caso di conflitto l’Italia sarebbe rimasta su posizioni difensive; tale impostazione mutò completamente con il suo successore, il generale Luigi Cadorna; questi, trovatosi inaspettatamente in guerra contro l’Austria per la decisione interventista adottata dal governo Salandra, ideò un piano che, mentre riservava al settore occidentale presidiato dalla prima armata una funzione difensiva anti invasione lungo il confine, “a protezione del rovescio e della zona di radunata dell’esercito”, prevedeva da parte della IIa e IIIa Armata una “napoleonica” marcia d’attacco e sfondamento sulla Venezia Giulia, con successiva manovra d’avvolgimento da Lubiana-

Zagabria verso il cuore dell’impero, accompagnata da azioni dalla Carnia e dal Cadore verso il Tirolo a opera della IVa Armata. Verona, vocata al ruolo di piazzaforte militare sia per la collocazione strategica che per eventi storici succedutisi nei secoli, non solo fu punto di convergenza e di organizzazione degli irredentisti trentini, ma in vista della guerra assunse sempre più una fondamentale funzione logistica, sia come centro di mobilitazione, sia come sede di importanti attrezzature fisse (ospedale, panificio, arsenale), sia come nodo ferroviario di primaria importanza per i trasporti di truppe; essa divenne anche sede naturale del comando della Ia Armata, affidato al generale Roberto Brusati; da esso dipendevano il IIIo Corpo d’armata, dislocato dal confine svizzero al Garda, affidato al generale Camerana, con comando a Milano; la Fortezza di Verona, dal Garda al passo della Lora, affidata al generale Gaetano Gobbo, e il Vo Corpo d’armata, dal Passo della Lora all’Agordino, affidato al generale Florenzo Aliprandi, con comando in Verona. In Verona fu costituito anche il XIIIo corpo, ai comandi del generale Gaetano Zoppi, comprendente le divisioni XXVo, XXXo

Il fiume Adige e la Chiesa di San Giorgio in Braida e ponte Garibaldi a Verona.

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Le montagne e il lago di Levico in Valsugana.

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e XXXIa, a disposizione del Comando supremo. Verona ospitò pure i magazzini avanzati della Ia Armata e tre gruppi di artiglieria pesante con relativa compagnia provvisoria automobilistica per parco d’assedio per i traini; ancora a Boscomantico erano presenti un dirigibile, l’XIa e XIIa squadriglia aerei Farman ed un cantiere aeronautico. In questa sede oggetto della nostra attenzione è la Fortezza di Verona, dalla quale dipendevano tutte le truppe e le iniziative militari sul territorio veronese. Essa era strutturata in due settori, denominati rispettivamente Peschiera e Baldo-Lessini. Il primo, affidato al generale Maglietta, aveva competenza sulla zona del Garda, che controllava mediante 2 compagnie del 154° fanteria, 2 squadroni di cavalleria, 3 battaglioni rispettivamente di milizia territoriale, presidiaria e guardia di finanza, 8 batterie d’artiglieria, una flottiglia di 17 piroscafi armati ed una squadriglia di idrovolanti con sede in Desenzano. Il settore BaldoLessini, affidato al generale Antonio Cantore e, dal 27 maggio 1915, al generale Imerio Gazzola, era costituito a sua volta dal Gruppo Baldo (dal Garda all’Adige) e dal Gruppo Lessini (dall’Adige alla Lora), che

disponevano dei battaglioni alpini Verona e Valdadige, dei reggimenti fanteria 113° e 114°, del 42° battaglione di bersaglieri e di 8 batterie d’artiglieria. Tale settore l’11 agosto 1915 assunse la nuova denominazione di “Val Lagarina”, passò ai comandi del generale Armano Ricci Armani e, dal novembre successivo, alle dipendenze del Vo corpo d’armata. Alla Fortezza di Verona rimasero le attribuzioni inerenti alla difesa della Piazza di Verona, dello sbocco della Valdadige e del Lago di Garda, mentre ne fu accentuata la funzione logistica; in particolare vi fu ampliato l’Ospedale militare, che raggiunse i 6000 posti letto. Rientravano sotto la Fortezza di Verona pure una rilevante serie di opere fortificate, alcune ex austriache adattate, altre realizzate tra la fine dell’Ottocento ed il primo Novecento, dotate di numerose bocche da fuoco: il forte nell’Isola Trimelone sul lago di Garda, i forti Bocchetta Naole, Cimo Grande e le postazioni di Coal Santo, Cavallo Novezza e Cerbiolo sul Baldo, la postazione nell’opera napoleonica km.29 in Valdadige, oltre ai forti Chiusa, Mollinary, Hlawaty, Masua, Tagliata Incanale, San Marco e Wohlgemuth- Batteria bassa nella zona Pastello- Chiusa- Rivoli, ed ai forti


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di Monte Tesoro, Monte S. Viola e S. Briccio. Nell’insieme essi costituivano la Regione fortificata del Veronese, che, unitamente alle Regioni fortificate del Vicentino e del Bellunese, costituiva un saldissimo presidio della pianura veneta, atto a scoraggiare ogni tentativo di penetrazione dal saliente trentino. Sul contrapposto fronte austriaco Conrad, con i ridotti finanziamenti ottenuti dal suo governo, era riuscito a realizzare trinceramenti, fortificazioni e postazioni d’artiglieria a Folgaria e Lavarone, altre opere sull’Altissimo e zone limitrofe, sopra Nago e sui bastioni montuosi Stivo, Creino, Biaena, Corno, Perlone, Nagià-Grom, che però nell’insieme costituivano solo un terzo del sistema difensivo da lui progettato. Erano rimaste sulla carta, in particolare, le fortificazioni sul Pasubio, sullo Zugna e parte di quelle in Vallarsa, il che fu causa non ultima del fallimento della successiva spedizione punitiva da lui condotta contro l’Italia. Non ci soffermiamo qui su innumerevoli aspetti che interessarono direttamente la vita dei civili nel veronese durante la guerra e che pure meriterebbero attenzione: dall’invasione di emigrati italiani costretti

a rientrare in Italia, che a Verona trovarono la prima accoglienza, alle restrizioni quotidiane imposte dalle esigenze belliche, quali lo stato di “coprifuoco” sulla città, che comportava divieti di circolazione dalle ore 24 all’alba, i divieti di riunione, le limitazioni alla circolazione sul territorio, l’oscuramento delle vie e case, la chiusura anticipata dei locali pubblici, il divieto di porto d’armi, nonché le misure di prevenzione antiaerea messe in atto dopo il doloroso bombardamento austriaco sulla città del 14 novembre 1915, che provocò 37 morti e 48 feriti, e successivamente i razionamenti di alimenti, le requisizioni varie, la limitazione di attività zootecniche nelle zone montane; così pure non ci soffermiamo sulle innumerevoli iniziative di sostegno psicologico e materiale ai soldati al fronte ed alle loro famiglie con l’invio di indumenti di lana, scalda rancio, sussidi ed altro, attivate da appositi comitati, che testimoniavano la diffusa adesione dell’opinione pubblica veronese alle ragioni del conflitto. Ma veniamo ai primi giorni di guerra, che videro una sorta di preordinato ripiegamento austriaco su una linea arretrata e sicura a fronte di un’avanzata ve-

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loce e baldanzosa da parte delle truppe del settore Baldo-Lessini agli ordini del generale Cantore; all’alba del 24 maggio, infatti, esse valicarono il confine penetrando in territorio trentino quasi senza incontrare resistenza e riuscendo a impadronirsi di posizioni strategicamente vitali: sul Baldo tre compagnie del battaglione alpino “Verona”, guidate dal capitano Vittorio Emanuele Rossi, si spinsero oltre il passo di Novezza e raggiunsero Monte Altissimo; l’indomani avanzarono su Corna Piana, Corna di Bes e Postemone, impadronendosi dei ricoveri e dei materiali abbandonati dagli austriaci; in Lessinia due battaglioni di fanteria il 24 occuparono la linea indifesa Monte Corno-Foppiano e il 25 alcune compagnie alpine del “Verona” e del “Vicenza” s’impadronirono di Trappola, Passo Pertica, del gruppo del Carega a nord di Ronchi e Ala e successivamente di Passo Buole e Coni Zugna. In Valdadige all’alba del 27 maggio il generale Cantore, impaziente dopo tre giorni di attesa, varcò il confine e proseguì a destra e sinistra Adige con due battaglioni di fanteria, guardie di finanza e volontari ciclisti, occupando agevolmente Avio, Borghetto e Pilcante; solo ad Ala i gendarmi imperiali opposero

lunga resistenza, provocando tra i nostri 2 morti e 19 feriti; nel tardo pomeriggio, però, parte di essi si arresero, parte ripiegarono su Serravalle. Va ricordato che per il buon esito della battaglia di Ala furono preziose le indicazioni fornite dalla giovane locale Maria Briani, che per questo fu poi insignita di medaglia d’argento. Nei giorni successivi anche Serravalle cadde in mano italiana. Assicurato il possesso della linea Altissimo-Buole, quando stava per accingersi a procedere oltre, il dinamico generale Cantore venne convocato a Verona, ove gli fu comunicato il trasferimento in Cadore, sulle Tofane; là, due mesi dopo, a 55 anni di età, avrebbe incontrato la morte, colpito da una pallottola in fronte. Nei mesi seguenti le nostre truppe proseguirono nell’opera tenace di consolidamento e progressivo ampliamento delle posizioni conquistate: sul versante lessinico agli inizi di giugno gli alpini del “Verona” occuparono Zugna Torta, in novembre i fanti conquistarono Marco e Costa Violina, giungendo ad attestarsi sulla riva sinistra del torrente Leno in Vallarsa e prima della fine di dicembre con una battaglia sofferta riuscirono a impadronirsi stabilmente di Castel

Trincea nella Valdadige.

Monti Lessini, punto di sosta.

Caprino Veronese. ufficiali italiani.

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Postazione antiaerea sul Lago di Garda.


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Dante, l’altura sulla quale negli anni Trenta fu innalzato l’imponente ossario che domina Rovereto dall’alto. Sull’Altissimo gli alpini del “Verona” in luglio s’impadronirono di Monte Varagna, Monte Campo, Malga Campi, in ottobre, pur sotto i tiri delle artiglierie austriache del Biaena e di Riva, occuparono Doss Remit, Doss Casina e Val del Parol, si spinsero nella depressione di Loppio, si assicurarono il controllo della strada Nago-Mori; nell’entusiasmo dell’avanzamento, il 14 dicembre, mentre i fanti del 114° procedevano oltre i Lavini di Marco, gli alpini del Valdadige con il 42° bersaglieri ed il 113° fanteria si spinsero provocatoriamente verso le pendici a nord del solco LoppioMori; infine sul versante settentrionale dell’Altissimo gli alpini dei battaglioni “Verona” e “Valdadige” tentarono il colpo audace per sloggiare gli austriaci dalla munitissima loro posizione di malga Zures: fu quella la battaglia più cruenta che si combatté sulla catena del Baldo durante l’intera guerra; i nostri attaccarono nella notte con l’ausilio di due piccoli cannoni e riuscirono a cacciare gli austriaci; all’alba, però, questi, supportati da pesanti tiri a distanza della loro artiglieria, si lanciarono alla riconquista della posizione con forze fresche; gli alpini reagirono con vigore, malgrado i micidiali bombardamenti “chirurgici” delle artiglierie austriache, riuscirono a ricacciare alla baionetta per ben sette volte gli attacchi avversari; infine, quando i loro due cannoncini furono messi fuori uso, rimasti senza munizioni, dopo una disperata resistenza, dopo essersi battuti come leoni con le pietre e con i calci dei fucili, furono costretti alla ritirata. Malga Zures rimase in mano austriaca: dieci ore di battaglia che ci costarono 6 morti e 10 feriti tra gli ufficiali; 42 morti, 30 dispersi e 148 feriti fra gli alpini. Tra loro numerosi irredenti trentini, dei quali ricordiamo Mario Angheben, Remo Galvagni e il poeta Arturo Bonetti. Nel frattempo sul fronte della Venezia Giulia la pressione esercitata dal nostro esercito sugli austriaci nelle ripetute battaglie dell’Isonzo con l’obiettivo di conquistare Gorizia stava logorando i nostri avversari; per attenuarla e mettere in seria difficoltà l’intero nostro schieramento, Conrad, il generale in capo austriaco, pur con la contrarietà del comando alleato tedesco che temeva un indebolimento del fronte contro la Francia, ripropose un grandioso attacco di sfondamento e penetrazione contro l’altopiano d’Asiago e la Valsugana verso la pianura padana, che, se riuscito, gli avrebbe consentito di aggirare l’intero schieramento italiano, mettendo fuori gioco il nostro esercito e ipotecando l’esito stesso della guerra. Iniziò così dietro le linee imperiali un gran movimento di mezzi e uomini. Sul fronte della prima armata soldati e ufficiali compresero presto che gli austriaci stavano preparando in gran segreto qualcosa di grosso e tempestivamente ne venne informato il nostro comando supremo; questo inizialmente non dette credito alle segnalazioni fatte dal generale Brusati e dall’irredento Cesare Battisti, arruolatosi volontario tra gli alpini del Vicenza; tra marzo e aprile, però, fortunatamente Cadorna mutò parere e dispose che su quel tratto di fronte venissero fatte convergere nuove truppe, so-

spese il trasferimento da esso verso il fronte giulio delle brigate “Ivrea” e “Sicilia” e fece un’ispezione disponendo che venissero abbandonate le posizioni a rischio. Programmato per l’inizio d’aprile, l’attacco austriaco fu rinviato per le abbondanti nevicate e fissato per la metà di maggio: giusto un lasso di tempo che consentì ai nostri comandi di migliorare e rafforzare almeno una parte del proprio schieramento con arretramenti su posizioni più sicure. L’attacco iniziò il 15 maggio, puntando sul settore Adige-Brenta; le nostre truppe dovettero arretrare in vari punti, parte dell’Altopiano d’Asiago fu invasa dal nemico, ma la sua spinta fu comunque contenuta all’interno di esso. Fondamentale fu la tenuta sul Pasubio, con il generale Andrea Graziani, e a Passo Buole, dove sul finire del mese i fanti delle brigate “Taro” e “Sicilia”, oltre ad alpini del “Valdadige”, a bersaglieri, zappatori ed altri reparti, resistettero strenuamente ed al limite dell’immaginabile ai ripetuti attacchi austriaci su un terreno impervio e scosceso, a lama, che non consentiva una seconda linea di resistenza, riuscendo infine il 30 maggio a contrattaccare e a ricacciare il nemico. Nel momento del maggior pericolo Forte Bocchetta Naole.

Cima di Monte Altissimo, postazioni antiaeree; sullo sfondo l’alto Garda e Riva.


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Trincee sulla cima di Monte Altissimo.

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fu lo stesso cappellano del 207° fanteria, don Annibale Carletti, a lanciarsi nella mischia,trascinando i suoi fanti in un furibondo contrattacco alla baionetta. Quel passo fu denominato “Termopili d’Italia”, perché lì, come gli uomini di Leonida alle Termopoli dell’antica Grecia, i nostri soldati s’immolarono eroicamente riuscendo a precludere al nemico la possibilità di scendere in Valdadige, dove avrebbe potuto prendere alle spalle le nostre truppe e dilagare verso Verona. Quella interminabile battaglia ci costò la perdita di ben 872 uomini, tra morti, feriti e dispersi, ma fece meritare onore e riconoscimenti ai protagonisti e all’intera XXXVIIa divisione della Vallagarina. La notizia della sconfitta giunse la sera a Bolzano al comando del gruppo eserciti del Tirolo, dove l’arciduca Eugenio, amareggiato per l’onta subita, invitò il generale Dankl, responsabile diretto, a far ripiegare i suoi battaglioni sulle posizioni di partenza, desistendo da ogni ulteriore tentativo. Nel contesto della spedizione “punitiva” va collocato l’epilogo tragico della vita e della passione di Cesare Battisti, che, impegnato come tenente con il battaglione “Vicenza” sul Pasubio, il 10 luglio 1916, mentre comandava una com-

pagnia per conquistare Monte Corno di Vallarsa, fu catturato, riconosciuto e il 12 successivo processato e condannato al capestro. L’obiettivo di Conrad, comunque, era definitivamente sfumato, la spedizione “punitiva” era fallita; per essa anche Verona aveva trepidato. Superato il pericolo, il nostro esercito contrattaccò, riguadagnò le proprie posizioni e in agosto, sul fronte orientale, ingaggiò vittoriosamente la battaglia per Gorizia, che fu conquistata l’8 agosto. Una vittoria che, come testimoniò lo scrittore Ugo Zannoni, sollevò entusiasmo incontenibile anche a Verona. Passato il pericolo, nel nostro settore la guerra tornò a essere di posizione; sull’Altissimo, settore denominato “Alto Garda”, l’attività bellica si ridusse a piccoli scontri ed a tiri d’artiglieria a distanza; ci fu un intenso avvicendamento di reparti, vi prestarono la loro opera alpini del “Val Toce”, “dell’Aosta”, del “Monviso”, del “Valcenisca”, “dell’Argentera”, del “Valmaira”, “dell’Antelao”, del “Pieve di Cadore”, del “Val Cismon”, “dell’Exilles”, le guardie di finanza, i bersaglieri del XLII° e altri; qui sostanzialmente le posizioni rimasero pressoché invariate fino alla fine


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della guerra, malgrado i drammatici avvenimenti che in altri settori del fronte le nostre truppe dovettero affrontare. Sull’Altissimo nel gennaio del 1917 gli austriaci attaccarono senza esito Doss Casina, respinti dalle guardie di finanza; in maggio nuovamente tentarono, ancora inutilmente, di impadronirsi di Dosso Alto, ma furono respinti dagli alpini del “Monviso”; ci riuscirono solo il 15 giugno 1918, facendo una settantina di prigionieri, ma fu per poco tempo; infatti la posizione fu riconquistata dalle nostre truppe il 3 agosto successivo, con la cattura di 160 prigionieri. A metà agosto il presidio dell’Altissimo fu affidato alla legione cecoslovacca, comandata dal generale Graziani; si trattava di sudditi dell’Impero austroungarico che, aspirando all’indipendenza della propria terra, già nei mesi precedenti avevano scelto di abbandonare l’esercito imperiale, divenendo disertori, e di passare dalla nostra parte, con tutti i rischi che ciò comportava; con tali uomini nel febbraio 1918 erano stati costituiti sette battaglioni, che il 3 maggio avevano dato vita alla VIa Divisione Cecoslovacca, passata il 20 giugno sul Baldo, tra Spiazzi e Ferrara. Erano volontari estremamente audaci. La notte del 2 luglio una loro pattuglia di quattro uomini venne inviata in una missione pericolosissima in motoscafo sul Garda alle foci del Sarca per raccogliere dati sui movimenti nemici e possibilmente danneggiare le artiglierie della zona di Nago. L’esito fu negativo, dei quattro uno solo riuscì a salvarsi, uno fu colpito a morte nel lago, due furono catturati e processati come disertori; uno dei due, Luigi Stork, fu condannato e impiccato. Dosso Alto, dunque, dall’agosto del 1918 era presidiato dai cecoslovacchi; all’alba del 21 settembre gli austriaci tentarono in forze di riconquistare l’intera posizione, ma i cecoslovacchi la difesero con accanimento costringendo gli assalitori a battere in ritirata dopo aver lasciato sul campo una trentina di morti. Nello scontro, purtroppo, gli austriaci riuscirono a catturare quattro cecoslovacchi, che furono prontamente portati a Ceniga, processati come disertori e condannati alla forca. Gli abitanti, però, non vollero che l’esecuzione avvenisse in quel luogo, temendo che potesse provocare su di esso i tiri d’artiglieria da parte italiana come accaduto su Riva per l’esecuzione di Storck; per l’esecuzione fu scelta la località di Prabi; i quattro condannati furono costretti a scavarsi la fossa, indi appesi ai rami di quattro grossi olivi; la corda del primo sventurato si spezzò; per consuetudine a seguito di ciò egli avrebbe dovuto ottenere la grazia, invece fu lasciato rantolante a terra in preda alle convulsioni, si cercò un’altra corda e l’esecuzione fu portata a termine. Più immediata la fine degli altri tre. I corpi furono lasciati penzoloni per l’intera notte, poi gettati nella fossa che s’erano scavata. Nella seconda metà del 1916 la linea del fronte si stabilizzò da Serravalle, Cisterna, Malga Zugna ad est dello sperone dello Zugna e le truppe della XXXVIIa divisione provvidero ad approntare più linee difensive in vista di possibili nuovi attacchi: da queste posizioni il 2 novembre 1918 i fanti del generale Battistoni a destra Adige e gli alpini del colonello Faracovi da Serravalle avrebbero attaccato per l’ultima volta le trincee ne-

miche, raggiungendo in serata Rovereto e l’indomani l’agognata Trento. Ma per altri settori del fronte il biennio 1917-1918 riservò esperienze drammatiche. Nel maggio del 1916, durante la spedizione punitiva, gli austriaci s’erano impadroniti di Cima Ortigara e del passo dell’Agnella, che conservavano minacciosamente; passato il duro inverno, nella primavera del 1917 il nostro comando volle riprendere quelle posizioni e a partire dal 10 giugno il generale Mambretti lanciò ripetutamente da posizione sfavorevole i nostri alpini alla conquista della vetta, presidiata da nidi di mitragliatrici nascosti ovunque: impresa impossibile, che gli alpini comunque riuscirono a portare a termine, anche se, conquistata la vetta, la riperdettero poco dopo. Alla fine di giugno l’Ortigara fu per noi una disastrosa sconfitta, che ci costò 3067 morti, 4389 dispersi e 16.280 feriti. A metà settembre altra batosta fu subita dal nostro esercito a Carzano in Valsugana, dove avremmo potuto colpire pesantemente il fronte austriaco e invece, per mancanza di coordinamento e tempismo, subimmo una nuova batosta; infine il 24 ottobre arrivò l’attacco congiunto austrotedesco che portò allo sfondamento di Caporetto.

Cippo dedicato alla Prima Armata con capitello di San Valentino, in località San Valentino sopra Avio.


Laghi di Levico e Caldonazzo all’imbocco della Valsugana verso Pergine e Trento; oltre le montagne in secondo piano s’apre il solco della Valdadige; all’orizzonte le cime dolomitiche del Brenta.



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Forte Belvedere (Werk Gschwent), Lavarone (Tn), una delle più grandi fortezze austroungariche posta a strapiombo sulla Valdastico; costruito tra il 1908 e il 1912, è oggi sede museale

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Conrad volle approfittarne, attaccare ulteriormente sull’altopiano dei Sette Comuni e ipotizzò un attacco a occidente lungo l’Adige per prendere Verona e il Garda, intensificò gli attacchi contro l’Altissimo e la Valdadige, ma il comando tedesco si disse favorevole a quel piano solo se gli italiani si fossero ritirati non sul Piave, ma sull’Adige. Il re d’Italia Vittorio Emanuele III, invece, pur in contrasto con i propri alleati che prevedevano una ritirata sull’Adige e sul Mincio, se non sul Po, nella storica riunione dell’8 novembre 1917 a Peschiera decise che la linea di resistenza sarebbe stata quella del Grappa e del Piave, e ribadì che i soldati italiani s’erano sempre comportati con onore e dignità e la debacle di Caporetto non era da imputare a loro. A Peschiera si decisero le sorti della guerra. Il Piave ed il Grappa ressero; il baluardo dell’Altissimo-Valdadige-Zugna-Pasubio resse; nel giugno del 1918 l’ultimo tentativo di sfondamento fu voluto dal generale Arz contro l’Altopiano d’Asiago ed il Piave, ma fu un tentativo non condiviso, che si risolse in un doppio fallimento. La battaglia, detta del “solstizio”, costò 90.000 uomini all’Italia ma ben 150.000 all’Impero, che ne uscì esausto. Il 24 ottobre successivo il generale in capo Armando Diaz, succeduto dopo Caporetto a Cadorna, lanciò l’ultimo, decisivo attacco contro l’esercito imperiale ormai logoro e spossato,

incapace, anche per il rifiuto di interi reggimenti, di dar vita a un contrattacco; fu la battaglia di Vittorio Veneto, che segnò la rotta austriaca e per l’Italia l’inizio della vittoria. Ancora una volta il fronte della “Valdadige” ne fu protagonista. Fu infatti da Rovereto che all’alba del 29 ottobre, per ordine del generale austriaco von Weber, il capitano Ruggera si avviò con due trombettieri verso la linea di Serravalle per consegnare una nota destinata al Comando supremo italiano residente ad Abano presso Padova. La visibilità nella valle era quasi nulla, c’era la nebbia; una delle vedette italiane scorse tre austriaci con bandiera bianca usciti dalla trincea del Gufo, marciavano lungo la ferrovia lanciando squilli di tromba. Il comandante la compagnia, il tenente colonello Niccolini, sospettando un tranello, ordinò di sparare brevi raffiche; un austriaco fu ferito, gli altri due si ripararono nella scarpata, poi fecero capire che dovevano parlamentare. Era la resa dell’Austria, l’inizio del cammino per l’armistizio che fu sottoscritto in Villa Giusti a Padova alle ore 15,20 del 3 novembre successivo; le armi tacquero ventiquattr’ore dopo, nel pomeriggio del 4 novembre 1918, data che continua a essere ricordata come anniversario della vittoria. Fu finalmente pace, ma purtroppo una pace destinata a durare appena vent’anni.


Re Vittorio Emanuele III sul Baldo con il generale Armando Diaz attorniato da legionari cecoslovacchi.

Prigioniero austriaco a Caprino Veronese.

Forte Cherle – San Sebastian, Folgaria (Tn), a quota 1445, sull’altopiano dei Fiorentini, a sbarramento dell’altopiano di Folgaria, una delle sette fortezze austro-ungariche costruite nel primo Novecento tra Cima Vezzena e Dosso delle Somme

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THE FIRST WORLD WAR IN THE REGION OF VERONA

T

Lessinia, trincee del ridotto difensivo di malga Pedocchio, recuperate in ecomuseo dagli alpini di Boscochiesanuova.

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ogether with the adjoining Vicentine front, the Veronese segment of the Italo-Austrian front, nestled between the Western shore of Lake Garda and the Lora Pass, placed under the military jurisdiction of the Fortress of Verona, held strategic importance in the general economy of the Great War. It coincided, in fact, with the southernmost tip of the Trentino salient, which ensured the Austrian Empire possession of territories within a few dozen kilometres of the Po Valley heartland: a perfect launching pad for an attack swamping the Veronese-Vicentine plains, lethal to the entire Italian front line disposition. This was formerly General Conrad’s plan. He had [in fact] proposed to launch a preventive attack on Italy already in 1908 and 1911. By following this plan the Imperial army would have succeeded in splitting Northern Italy in two as it reached the River Po. Luckily for us, such plan was not adopted by the Austrian High Command, which remained on the defensive when Italy entered the War in 1915. The original Italian war plan laid down by Gen. Alberto Pollio, Commander-in-Chief of our Army, established that in case of conflict Italy would remain on the defensive. His successor, Gen. Luigi Cadorna, finding himself unexpectedly at war with Austria due to the interventionist decision taken by the Salandra administration, completely reversed the previous approach. Gen. Cadorna devised a plan that, while casting the First Army in the Western Sector in a purely defensive role against border onslaught, envisaged a breaching “Napoleonic” advance by the Second and Third Armies in Venezia Giulia, followed by a pincer movement from Ljubljana - Zagreb overrunning the Empire’s heartland, with at the same time the Fourth Army moving forward from Carnia and Cadore into Tyrol. Verona, invested with the role of military stronghold, saw the establishment of XIII Corps. It also housed the First Army’s front line warehouses and three heavy artillery groups. All troops and military actions in the Veronese district depended from the fortress of Verona. The fortress catered for the defence of the town itself, of the Adige Valley opening, and of Lake Garda. In the meanwhile, its logistic function was heightened. The Military Hospital, in particular, eventually equipped with 6000 beds, was enlarged. A considerable string of fortifications, fitted with a fair number of guns, lay under its jurisdiction, some adapted from former Austrian ones, others realized between the end of the 19th Century and the beginning of the 20th.

On the opposite Austrian front, General Conrad had managed, with reduced government funding, to create entrenchments, fortifications and artillery stations, albeit constituting altogether only a third of the defensive system he had originally outlined. But let us go back to the first days of the war, that saw a kind of predetermined Austrian withdrawal to a safe rear line of defence, as Gen. Cantore’s troops advanced rapidly and gallantly in the Mount Baldo-Lessini sector. They crossed the border on the dawn of 24 May entering Trentino and snapping strategically vital positions almost without encountering resistance. Gen. Cantore, impatient with a three days wait, crossed the border on the dawn of 27 May and moved forward left and right of the River Adige with two Infantry Battalions, Guardia di Finanza (GdF) (English: Financial Guards), and Volunteer Cyclists. Avio, Borghetto and Pilcante were easily captured; only at Ala did the Imperial Gendarmerie oppose a prolonged stiff resistance. In the following days Serravalle, too, fell into Italian hands. Once the Altissimo - Buole line was secured, ready to push forward, the dynamic Gen. Cantore was summoned to Verona, where his transfer to Cadore, on the Tofane, was announced. There, two month’s later, aged 55, he found his death, hit in the forehead by a bullet. In the following months, our troops firmly pursued their job of strengthening and progressively expanding the conquered positions: at the beginning of June, the Alpini of the Verona Battalion occupied Zugna Torta on the Lessini mountainside, in November the infantrymen conquered Marco and Costa Violina. On the Altissimo the Alpini of the Verona seized in July Mount Varagna, Mount Campo, malga ampi. In the excitement of their advance the Alpini of Valdadige, the 42nd Bersaglieri, and the 113th Infantry boldly pushed ahead toward the lower slopes North of the Loppio-Mori trough; finally, the Alpini of the Verona and Valdadige Brigades on the Northern slope of the Altissimo attempted a brave hit at the heavily fortified stronghold of malga Zures: it was the bloodiest battle on the Baldo mountain chain throughout the war; the Alpini reacted vigorously, despite the Austrian artillery’s lethal “surgical bombing”, and succeeded in repelling with bayonet rushes seven enemy attacks. Finally, when both their small calibre cannons were knocked out, without ammunition, after desperate resistance, fighting like lions with stones and rifle butts, they were forced to retreat. In the meanwhile, on the Venezia Giulia front pressure exerted by our army on the Austrians in the multiple Battles of the Isonzo aimed at capturing Gorizia was wearing out the enemy. Between March and April Cadorna arranged for fresh troops to converge on that front line. He also put off the displacement of Brigades Ivrea and Sicilia to be


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deployed on the Julian front, and after a personal inspection disposed that unsafe positions be abandoned. The Austrian attack, planned for early April, was postponed because of heavy snowfall and scheduled for mid May. The attack began on May 15, directed at the Adige - Brenta sector. Our troops had at various points to withdraw. Part of the Asiago plateau (Altopiano di Asiago or Altopiano dei Sette Comuni) was invaded by the enemy, but the Austrian thrust was however limited to the highland itself. Crucial was the stand on the Pasubio, under General Andrea Graziani, and at Passo Buole where, towards the end of the month, Brigades Taro and Sicilia, together with the Alpini of the Valdadige, Bersaglieri, Sappers and other units, resisted on steep and rugged ground continual Austrians attacks strenuously and almost pushing the limits of the imaginable. At the moment of maximum peril Father Annibale Carletti, chaplain of 207th Infantry, sprang into action, dragging his flock of footmen in a furious bayonet counter-attack: The Pass was called “the Italian Thermopylae” since there the Italians had resisted, much like Leonida’s men had done in Ancient Greece at the Thermopylae. That interminable battle caused us the loss of as much as 872 casualties, counting the dead, injured, and missing in action. Conrad’s objective, anyhow, was definitely missed, his “punitive expedition” had floundered. Verona itself had trembled. Once the danger was overcome, our army went on the counter-attack, regaining its positions and in August, on the Eastern Front, engaged victoriously in the battle for Gorizia, conquered on 8 August. Then our sector went back to a war of position. In the second half of 1916 the frontline was stationary between Serravalle, Cisterna, and Malga Zugna to the East of the crag of Mount Zugna. The 37th Division prepared in-depth defence lines in view of possible new enemy attacks: from these positions on 2 November 1918 Gen. Battistoni’s infantry from the right bank of the River Adige and the Alpini of Col. Faracovi from Serravalle would mount a final attack on the enemy trenches, reaching Rovereto by dusk and the yearned for Trento on the day after. But the biennium 1917-1918 reserved dramatic experiences in the other sectors of the front. In May 1916, during their Punitive Expedition, the Austrians had captured the summit of Mount Ortigara (Cima Ortigara) and the Pass of the Agnella, and were menacingly guarding them; after a hard winter, in Spring 1917 our Command decided to recapture those positions and, beginning on 10 June, Gen. Mambretti repeatedly launched our Alpini from unfavourable positions to conquer the peak. At the end of June the Ortigara represented for us a disastrous defeat. By mid September our army suffered another blow

at Carzano in Valsugana; finally, on 24 October came the joint Austro-German attack that lead to the breach of Caporetto. Conrad seized the opportunity to further attack on the Altopiano dei Sette Comuni. He surmised a westward attack along the River Adige to capture Verona and the Garda, intensified his attacks against the Altissimo and the Valley of the River Adige (Valdadige), but the German High Command declared itself favourable to his plan only if the Italians had retreated not beyond the Piave, but beyond the Adige. The King of Italy Vittorio Emanuele III, instead, decided that the line of resistance would run from Mount Grappa to the River Piave. At Peschiera the fortunes of war were decided. The River Piave and Mount Grappa bore the brunt of the attack; the Altissimo-Valdadige-Zugna-Pasubio stronghold held out. June of 1918 saw the last attempt at a breakthrough led by Gen. Arz against the Asiago plateau (Altopiano d’Asiago) and the River Piave, ma fu un tentativo non condiviso, ended in a double failure. The battle called of the Solstice (Solstizio), cost Italy 90.000 lives] but as many as 150.000 to the Empire, which came out exhausted from the confrontation. On the following 24 October Chief of General Staff Armando Diaz, replacing Cadorna after Kobarid (called Caporetto in Italian), launching a final, decisive attack against a by then worn-out and shattered Imperial Army, incapable of giving life to a counterattack; thus was the Battle of Vittorio Veneto, spelling débâcle for Austria and Victory’s dawn for Italy. Once more the Valdadige operation theatre found itself on the front line. Indeed, it was from Rovereto that on the dawn of 29 October Captain Ruggera moved accompanied by two trumpeters in the direction of the Italian lines at Serravalle, by order of Austrian General von Weber, to deliver a statement addressed to the Italian Supreme Command at Abano near Padua. Visibility in the valley was almost null; an Italian lookout caught sight of the three Austrians holding a white flag, walking out of the Owl Trench (trincea del Gufo) and marching along the rail tracks, blaring their trumpets. The Company Commander, Lieutenant colonel Niccolini, suspecting some sort of trick, ordered brief bursts of fire; one of the Austrians was injured, the other two took refuge in the escarpment, subsequently making it clear that they needed to parley. It was the Austrian surrender, the opening of negotiations for the armistice signed at the Villa Giusti at 15.20 on 3 November 1918; arms fell silent twenty four hours later, on the afternoon of the 4th of November 1918, remembered up to the present time as Victory Day. Peace had finally broken out, but alas it was a peace destined to last no longer than 20 years.

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Massiccio dell’Adamello selletta di Cresta Croce

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DER ERSTE WELTKRIEG IN DER REGION VERONA

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ährend des ersten Weltkriegs war der Veroneser Streifen an der italienisch-österreichischen Front, der zwischen dem Westufer des Gardasees und dem Lorapass lag und in die Zuständigkeit der Festung von Verona fiel, wie der im angrenzenden Gebiet von Vicenza, strategisch wichtig. In der Tat entsprach er dem südlichsten Punkt des tridentinischen vorspringenden Winkels, der dem österreichisch-ungarischen Reich garantierte, dem Herzen der Poebene sehr nahe Gebiete zu besitzen, und von dort Angriffe zu führen, die die Ebene um Verona und Vicenza erreichten und für die ganze italienische Soldatenabteilung verhängnisvoll sein konnte. Das war der alte Plan vom General Conrad, der schon 1908 und 1911 gegen Italien einen Präventivangriff vorgeschlagen hatte: Dank ihm sollten die Kaisertruppen Norditalien spalten und den Po erreichen. Zum Glück Italiens, als es 1915 Krieg anfing, wandte die österreichische Führung solchen Plan nicht an und nahm eine defensive Haltung ein. Der ursprüngliche italienische Schlachtplan, den der Oberbefehlshaber seiner Armee Gen. Alberto Pollio vorbereitet hatte, sah im Fall eines Kriegs eine defensive Haltung Italiens vor. Ein solcher Plan veränderte sich völlig mit seinem Nachfolger, Gen. Luigi Cadorna. Als er unerwartet wegen der Interventionsentscheidung der Regierung Salandras im Krieg lag, entwarf er einen Plan, der das Folgende bestimmte: Der von der ersten Armee besetzte Westsektor sollte eine defensive Rolle gegen der Invasion der Grenze entlang haben; die zweite und dritte Armee sollten einen „napoleonischen“ Angriffs- und Durchbrechenmarsch nach Julisch Venetien und danach von Ljubljana-Zagreb bis

zum Herzen des Reichs ein Aufrollenmanöver führen; das sollte die vierte Armee mit Angriffen von Karn und Cadore nach Tirol begleiten. In Verona, das als befestigte Stadt geeignet war, wurde auch das XII. Armeekorps gegründet und beherbarg man sogar die vorgeschobenen Warenlager der ersten Armee und drei Gruppen der schweren Artillerie. Von der Veroneser Festung hingen alle Truppen und militärischen Initiativen auf dem Gebiet um Verona ab. Dort war man für die Verteidigung des Platzes von Verona, der Mündung des Etschtals und des Gardasees zuständig. Außerdem verstärkte man ihre logistische Funktion; besonders vergrößerte man das Militärkrankenhaus, das die Zahl von 6000 Betten erreichte. Zur Veroneser Festung gehörten auch verschiedene andere befestigte Bauten: Darunter waren einige einmal österreichisch und wurden umgewandelt; andere, die man um die Jahrhundertwende aufbaute, wurden mit Geschützen ausgerüstet. An der entgegengesetzten österreichischen Front konnte der General Conrad mit den von ihrer Regierung gekriegten Finanzmitteln Schützengräben, Festungen und Artilleriestellungen aufbauen, die im Allgemeinen nur ein Drittel des Verteidigungssystems waren, den er entworfen hatte. Was die ersten Kriegstage betrifft, machten die Österreicher ein gewisses vorher bestimmtes Rückzugsmanöver in eine zurückgezogene und sichere Linie, nachdem die unter dem Befehl vom General Cantore stehenden Truppen des Sektors Baldo-Lessini schnell und selbstsicher vorgerückt waren. Am 24. Mai passierten sie die Grenze beim Morgengrauen, drangen fast ohne Widerstand ins tridentinische Gebiet ein, und bemächtigten sich strategisch wichtiger Stellungen. Im Etschtal passierte der ungeduldige General Cantore die Grenze am 27.


“Corno di Cavento” a quota m 3406: uno dei luoghi consacrati dall’eroismo degli alpini italiani nella guerra bianca sul massiccio dell’Adamello.

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Mai beim Morgengrauen, nachdem er drei Tage darauf gewartet hatte. Dann ging er mit zwei Bataillonen, in denen es Infanteristen, Steuerfahnder und freiwillige Radfahrer gab, dem rechten und linken Etschufer entlang weiter und besetzte unschwer Avio, Borghetto und Pilcante. Die Kaisergendarmen leisteten erst in Ala einen langen Widerstand. An den folgenden Tagen eroberten die Italiener auch Serravalle. Nachdem er den Besitz der Linie Altissimo-Buole gesichert hatte, wurde der schwungvolle General Cantore vor seinem Weitergehen nach Verona gerufen, wo man ihm sein Versetzen nach Cadore auf die Tofane mitteilte. Dort starb er nach zwei Monaten mit 55 Jahren, als eine KuV E R O N A E L A V A L L E D E L L’ A D I G E gel seine Stirn traf. In den folgenden Monaten verstärkten und erweiterten die italienischen Truppen progressiv und beharrlich die eroberten Stellungen weiter: Am Inzwischen Druck die Österreicher an der julisch-vefür Görz, das am 8. August erobert wurde. Danach war es wieder ein Stellungskrieg. Lessiniahangzermürbte besetzten der die italienische Alpini des Veronabataillons anfangs Janunetischen Front in wiederholten Isonzoschlachten, umMarco Görz zu In der zweiten Hälfte des Jahres 1916 wurde die Linie der Front von Serravalle, ar Zugna Torta, imden November eroberten die Infanteristen underobern. Zwischen März und bestimmte Cadorna, dort neue Truppen Cisterna und Malga Zugna östlich vom Ausläufer des Berges Zugna stabil und die Costa Violina. AufApril dem Altissimo nahmen die Verona-Alpini im Juli zusammenlaufen den zu lassen.den Dann unterbrach er das Versetzen derVorrücken Ivrea- und Siciliabrigade an die Truppen der 37. Division stellten mehr Verteidigungslinien im Hinblick auf mögliVaragna, Campo und Malga Campi ein. Vom begeistert, julische nahm eine Visitation vor42. und verfügte, die gefährdeten che neue Angriffe bereit: Von hier griffen die Infanteristen vom Gen. Battistoni und drangen Front, die Etschtal-Alpini mit dem Bersaglieri-Bataillon und Stellungen zu Der für Anfang April geplante österreichische Angriff die Alpini des Obersten Faracovi am 2. November 1918 zum letzten Mal am rechten demverlassen. 113. Infanterie-Regiment provokant auf die Abhänge nördlich vonwurde wegen der Schneefälle Mitte Mai verschoben. Etschufer beziehungsweise von Serravalle den Feindesschützengräben an und erder starken Loppio-Mori Furcheum ein; schließlich versuchten die Verona- und Der Angriff begann amNordhang 15. Mai und hielt auf den Etsch-Brenta-Sektor zu. Die reichten am Abend Rovereto und am folgenden Tag Trient. Etschtal-Alpini kühn am vom Altissimo, die Österreicher aus italienischen Truppen mussten verschiedenen Stellungen zurücktreten. Teil der Trotzdem waren die Jahre 1917 und 1918 für andere Sektoren dramatisch. Im Mai ihrer ausgerüsteten Stellung beiinMalga Zures zu vertreiben: Das war Hochebene Asiago die wurde vonauf dender Österreichern besetzt, aber ihr 1916 besetzten die Österreicher während der Strafexpedition Cima Ortigara und die blutigstevon Schlacht, man Baldobergkette während des Druck wurde auf jeden Fall kämpfte. dort gebremst. daskräftig: Andauern den Agnellapass, die sie drohend verteidigten. Nach dem harten Winter beschloß ganzen Kriegs DaraufEntscheidend reagierten diewar Alpini Trotzauf derdem Pasubio, mit dem Gen.Bombardierungen Andrea Graziani, und Buolepass, wo die Infanteristen der Tarodie italienische Führung im Frühling 1917, solche Stellungen zurückzuerobern treffsicheren der beim österreichischen Artillerie gelang und Siciliabrigade, die dem Etschtal-Alpini, Bersaglieri, die Zappatori und vom 10. Juni trieb der Gen. Mambretti mehrmals von ungünstiger Stellung es ihnen siebenmal mit Bajonett, diedie Angriffe der Feinde zurück- und andere Abteilungen Ende des Kanonen Monats kräftig auf einem und steilen Bodie Alpini zur Eroberung des Gipfels an. Am Ende Juni war der Berg Ortigara zuwerfen. Alsam ihre kleinen schließlich außerunbegehbaren Funktion gesetzt den gegen die wiederholten österreichischen Widerstand leisteten. Als die für die Italiener eine katastrophale Niederlage. Mitte September wurden sie bei wurden, wurden sie ohne Patronen und nach Angriffe einem verzweifelten WiGefahr am höchsten stürzte sich selbst sie derwie Kaplan Infanterie-RegiCavarzano in Valsugana wieder geschlagen. Schließlich griffen die Österreicher derstand zum Rückzugwar, gezwungen, nachdem Löwendes mit207. Steinen ments, Annibale Carletti, inshatten. Gewühl und führte seine Infanteristen bei einem und die Deutschen am 24. Oktober zusammen an und daraufhin fand das Durchund denDon Gewehrkolben gekämpft wilden Gegenangriff mit dem Bajonett. Solcher Pass wurde als „italienische Therbrechen bei Caporetto statt. mopylen“ bezeichnet, weil die italienischen Truppen dort fast dasselbe Schicksal Conrad beschloß, das zu nützen und zusätzlich die Hochebene der sieben Gemeinvon Leonidas Soldaten beim gleichnamigen Ort im alten Griechenland erlebten. den anzugreifen. Er schlug im Westen der Etsch entlang einen Angriff vor, um VeroBei einer solchen unendlichen Schlacht verlor Italien 872 Menschen, darunter Gena und den Gardasee einzunehmen, und er verstärkte die Angriffe gegen Altissimo fallene, Verletzte und Vermisste. und Etschtal. Trotzdem war die deutsche Führung nur mit einem solchen Plan einConrads Ziel löste sich auf jeden Fall definitiv in Rauch auf und die Strafexpedition verstanden, wenn die Italiener sich nicht an den Piave zurückzogen, sondern an die war gescheitert. Darum hatte auch Verona gabangt. Nachdem sie die Gefahr überEtsch. Im Gegensatz dazu beschloß der italienische König Vittorio Emanuele III., standen hatte, startete die italienische Armee einen Gegenangriff, kehrte wieder in dass die Verteidigungslinie am Grappa und am Piave liegen sollte. In Peschiera die eigenen Stellungen zurück und im August kämpfte sie siegreich an der Ostfront wurde das Schicksal des Kriegs entschieden.

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Der Piave und der Grappa hielten stand. Der Schutzwall Altissimo-Etschtal-Zugna-Pasubio hielt stand. Im Juni 1918 entschied sich der Gen. Arz für einen letzten Durchbrechenversuch gegen die Hochebene von Asiago und den Piave, aber man teilte einen solchen Versuch nicht, deswegen scheiterte er doppelt. Bei der Battaglia del solstizio genannten Schlacht verlor Italien 90000 Soldaten, aber das erschöpfte Reich gut 150000. Am 24. Oktober führte der Gen. Armando Diaz, der nach Caporetto Cadorna folgte, den letzten entscheidenden Angriff gegen die Kaiserarmee, die nun zermürbt und nicht imstande war, einen Gegenangriff zu starten. Es war die Schlacht bei Vittorio Veneto, die die österreichische Niederlage und den Anfang des italienischen Siegs bestimmte. Die Etschtal-Front war nochmals der Protagonist. Am 29. Oktober begab sich der Hauptmann Ruggera beim Morgengrauen auf Geheiß des österreichischen Generals von Weber mit zwei Trompetern an die Linie von Serravalle, um eine Mitteilung für den italienischen Oberbefehl zu übergeben, der in Abano bei Padua war. Wegen des Nebels konnte man auf dem Tal kaum sehen. Eine der italienischen Wachen erblickte undeutlich drei Österreicher mit weißer Fahne, die aus dem del Gufo genannten Schützengraben hinausgingen, der Bahn entlang marschierten und die Trompete schmetterten. Der Befehlshaber der Kompanie, der Oberstleutnant Niccolini, hatte den Verdacht , dass das eine Falle sein konnte, und befahl, kurze Garben zu schießen. Ein Österreicher wurde verletzt, die anderen zwei schützten sich in der Böschung und dann deuteten sie an, dass sie verhandeln mussten. Das war die Kapitulation Österreichs, der Anfang des Wegs zum Waffenstillstand, der am folgenden 3. November um 15.20 bei Villa Giusti in Padua unterzeichnet wurde. Die Waffen schwiegen nach vierundzwanzig Stunden, am Nachmittag vom 4. November 1918, an dem man noch heutzutage des Jahrestags des Siegs gedenkt. Endlich kam der Frieden, aber leider dauerte er kaum zwanzig Jahre.

Massiccio dell’Adamello, selletta di Cresta Croce (Cima Giovanni Paolo II), a 3313 metri: vi si trova “L’eterna sentinella”, era comunemente detto “L’ippopotamo” per la sua forma. Il cannone diventato monumento nazionale, trainato lassù dagli alpini nel 1916 con sforzi immani. Pesa 60 quintali, ha canna lunga 3980 mm, calibro 149, gittata fino a 9300 m.

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Il Gruppo AdamelloBrenta innevato.

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MAURIZIO RIPPA BONATI

Padova,

città ospedaliera Tappa obbligata per il ricovero dei feriti

P Padova, Piazza delle Erbe.

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er comprendere le esigenze alle quali dovette sopperire fin dal 1915 una “città ospedaliera” quale fu Padova è necessario ricordare qualche cifra: nella prima delle cosiddette “battaglie dell’Isonzo”, combattuta tra il 23 giugno e il 7 luglio del 1915, ci furono circa 2000 morti e 15.000 feriti; nella seconda, tra il 18 luglio e il 3 agosto dello stesso anno, i morti e i dispersi salirono a circa 11.000 unità e i feriti addirittura a 30.000, corrispondenti a circa 1800 feriti che

giornalmente dovevano essere allontanati dalla prima linea nel minor tempo possibile. La catena assistenziale prevedeva un percorso che partendo dai posti di medicazione, e passando per gli ospedali da campo e di tappa, portava i feriti fino agli ospedali territoriali. Vediamo innanzitutto le caratteristiche che hanno fatto di Padova una “capitale sanitaria”: troviamo innanzitutto la presenza di strutture ospeda-


PA D OVA , C I T T À O S P E D A L I E R A

liere attive e capienti e di una facoltà medica antica e famosa, l’esistenza di una sperimentata capacità ricettiva, rapidamente potenziabile, la facile raggiungibilità grazie a buone vie di comunicazione e, non ultima, la posizione prossima al teatro di guerra, seppure non eccessivamente vicina al fronte. Ecco dunque che già nella seconda metà del 1915, in pochi mesi, Padova diventa, per continuare nelle definizioni sintetico-evocative, una “città ospedale militare”. In brevissimo tempo gli “ospedali” raggiungono e superano il numero di venti ed è interessante elencare le strutture adibite al ricovero dei militari feriti o ammalati in base alla ricettività: 1060 – Ospedale di Santa Giustina 746 – Ospedale Civile 630 – Ospedale Scuola Pietro Selvatico 600 – Ospedale della Croce Rossa, Seminario 550 – Ospedale Scuola di Via Belzoni 483 – Ospedale Orfanotrofio 450 – Ospedale Convalescenziario Casa di Ricovero 400 – Ospedale Militare Principale 383 – Ospedale Scuola Ardigò 370 – Ospedale Psichiatrico Provinciale

300 – Ospedale Scuola Arria 300 – Ospedale Isolamento 290 – Ospedale Scuola Reggia Carrarese 248 – Ospedale Istituto Camerini e Rossi 200 – Ospedale Santa Croce 150 – Ospedale della Croce Rossa, Pensionato Petrarca 120 – Ospedale Fatebenefratelli 100 – Ospedale della Croce Rossa, Arsego 90 – Ospedale Patronato 20 – Ospedale Pronto Ricovero 10 – Casa di Cura Arslan. Notiamo che al primo posto non c’è, come sarebbe lecito aspettarsi, l’Ospedale Civile “Giustinianeo”. In effetti è necessario tener conto che il monumentale edificio, all’epoca attivo da poco più di cento anni, doveva continuare a sopperire alle esigenze sanitarie della popolazione civile. Esigenze che oltre alle normali patologie dovevano comprendere anche le conseguenze dirette e indirette della guerra. Se l’igiene seppe tenere a freno gran parte delle possibili epidemie, dobbiamo ricordare che Padova ha il triste primato si essere stata una delle prime città al mondo a subire bombardamenti ae-

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Ospedale, il re in visita ai feriti.

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rei, con un numero di vittime molto superiore a quanto ci si potrebbe aspettare in considerazione dei mezzi dell’epoca. Non a caso l’autorizzazione a utilizzare una parte consistente del “Giustinianeo” come ospedale militare dovette essere caldeggiata da due protagonisti di primo piano della vita medica padovana: Edoardo Bassini e Achille De Giovanni che, per la firma della convenzione, trovarono un prezioso alleato nel presidente del nosocomio, il nobile Francesco Lorenzo Lonigo. Dal 29 maggio la direzione sanitaria dell’ospedale venne affidata al professor Napoleone D’Ancona, mentre Augusto Bonome assunse la direzione dei servizi batteriologici e sieroterapici. Un discorso analogo riguarda l’ospedale psichiatrico di Brusegana, grande e all’epoca modernissimo, una vera e propria cittadella autonoma. Così la grande struttura divenne al tempo stesso manicomio civile, ospedale militare e, successivamente, sede di insegnamento universitario sotto la guida del professor Ernesto Belmondo. Fatte queste precisazioni, non sorprende che al primo posto ci sia l’ospedale situato nelle adiacenze dell’Abbazia di Santa Giustina, che già in passato avevano ospitato un ospedale militare e che anche ora sono sede di una caserma. Il grande Ospedale di Santa Giustina fu affidato al professor Luigi Sabbatani.

Degli altri ospedali temporanei basterà qui dire che alcuni vennero organizzati nelle vicinanze dell’Ospedale Militare, mentre altri – quali la Scuola Selvatico, la Scuola Ardigò, il Patronato e la Casa di Ricovero – nel 1916 cambiarono destinazione d’uso, quando, come vedremo, Padova divenne sede della Scuola medica di guerra. Una nota a parte meritano i dieci letti della Casa di cura del Professor Yerwant Arslan, perfetto esempio della partecipazione dei privati a questa gara di generosa solidarietà. Interessante è anche il Pronto Ricovero presso la stazione ferroviaria, allestito per ospitare temporaneamente i feriti arrivati con i treni “ospedale” e in attesa del loro ricovero in strutture attrezzate. A questo proposito, va detto che per un rapido smistamento dei feriti si provvedeva con vere e proprie autoambulanze, ma anche con veicoli civili e militari a trazione meccanica o animale e con una speciale carrozza appositamente allestita da attaccare al tram. Se consideriamo che Padova tra il 1916 e il 1917 fu anche sede dei “corsi di medicina e chirurgia per studenti militari”, più noti come “Università Castrense”, che interessarono circa 1300 studenti e si conclusero con il conferimento di oltre cinquecento lauree, possiamo comprendere perché possa meritare l’appellativo di “capitale sanitaria” della Grance Guerra.


Ospedale da campo. Foto archivio Giancarlo Pranovi

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PADUA, WORLD WAR ONE HOSPITAL CITY

T Padova, ospedale psichiatrico.

o understand the needs a “hospital city” like Padua had to meet as early on as 1915, some figures must be given : the First of the so-called “Isonzo Battles”, taking place between 23 June and 7 July 1915, resulted in 2,000 dead and 15,000 wounded; the Second Battle of the Isonzo, fought between 18 July and 3 August of the same year, saw 11,000 fallen and missing and as many as 30,000 wounded. This meant that approximately 1,800 wounded had to be drawn daily away from the front line in the quickest possible way. The assistance chain processed casualties from front line aid posts to casualty clearing stations and field hospitals, and on to the Local hospitals. Let us first of all look in more detail at the characteristics that made

of Padua a “Health care capital” : foremost, the presence of active hospital facilities provided with a tried and tested accommodating capacity, which could rapidly be increased, an ancient and famous Medical Faculty, easy access due to good roads and communications and, last but not least, its closeness to the war front itself, though not overly so. Thus, already by the second half of 1915, in the course of just a few months Padua turns into a “military hospital city”. In a very short while the number of “hospitals” reaches and exceeds twenty. Facilities adapted to shelter sick or wounded soldiers are hence listed below according to their bed capacity: 1060 – Hospital of Santa Giustina 746 – Civil Hospital 630 – Hospital School Pietro Selvatico 600 – Red Cross Hospital, Seminary 550 – Hospital School in via Belzoni 483 – Hospital Orphanage 450 – Rehabilitation Hospital (Casa di Ricovero) 400 – Main Military Hospital 383 – Hospital School Ardigò 370 – Provincial Psychiatric Hospital 300 – Hospital School Arria 300 – Isolation Hospital 290 – Hospital School Reggia Carrarese 248 – Institute Hospital Camerini e Rossi 200 – Hospital of the Holy Cross 150 – Red Cross Hospital, Pensionato Petrarca 120 – Fatebenefratelli Hospital 100 – Red Cross Hospital, Arsego 90 – Religious Hospital 20 – Emergency Hospital 10 – Arslan Medical Centre (Casa di Cura Arslan) Notably, the first place does not go, as might otherwise be expected, to the Civil Hospital Giustinianeo. In fact, it should be taken into account that the monumental building, by now in service for slightly over a century, would also have to continue providing for the sanitary needs of the civil population. Such needs were to include the direct and indirect consequences of war, as well as common pathologies. Though hygiene standards were able to keep most potential epidemics at bay, we must not forget Padua’s sad record of being one of the first cities in the world to undergo aerial bombing, suffering a number of casualties much higher than might be expected given the available tools of the time. Not by chance, the authorisation to use a considerable part of the Giustinianeo as a military hospital had to be warmly supported by two prominent figures in Paduan medical circles: Edoardo Bassini and Achille De Giovanni. The two found a precious ally for signing the convention in the Hospital President, nobleman Francesco Lorenzo Lonigo. On 29 May the Hospital’s Sanitary Direction was entrusted to Professor Napoleone D’Ancona, while Augusto Bonome took on the Direction of bacteriological and serotherapy services (direzione dei servizi batteriologici e sieroterapici). Similar circumstances apply to the Psychiatrical Hospital at Brusegana, large and state-of-the-art for its time, a truly autonomous citadel. The substantial structure housed at the same time a Mental Asylum and a Military Hospital. Subsequently, it became University seat under the guidance of Professor Ernesto Belmondo. That being said, not unsurprisingly the first place for bed capacity goes to the Hospital close to the Abbey of Santa Giustina, former location of a military Hospital now site of a military barracks. The large Hospital of Santa Giustina was entrusted to Professor Luigi Sabbatani. About the other temporary hospitals let us presently only say that some were placed in the vicinity of the military Hospital, while others – such as the Scuola Selvatico, the Scuola Ardigò, the Religious Hospital (Patronato), and the Rehab. Hospital (Casa di ricovero) – changed their use in 1916 when, as we shall see, Padua became the seat of the Medical War School (Scuola medica di guerra). The ten beds at the Medical Centre (Casa di cura) of Professor Yerwant Arslan are quite a different affair, perfect example of private participation in the quest for generous solidarity. Also worthy of attention, the Emergency Rehab point at the Railway station, fitted to provisionally accommodate the wounded arriving in hospital trains, awaiting to be sheltered in permanent facilities. On this issue, it must be said that actual car ambulances provided the rapid handling of the wounded, but also mechanically-powered or animal-powered civil and military vehicles were employed, and even a special carriage to be attached to a tram. If we consider that Padua was also, between 1916 and 1917, the seat of “Medicine and Surgery courses for Military Students”, better known as “Università Castrense”, involving around 1300 students, of which almost 500 graduated, we can understand why it may deserve to be called the “Sanitary Capital” of the Great War.


Ospedale da campo. Foto archivio Giancarlo Pranovi

Ospedale 007.


PA D OVA , C I T T À O S P E D A L I E R A

PADUA, KRANKENHAUSSTADT DES ERSTEN WELTKRIEGS

U

Il re in visita ai campo di battaglia.

m die Bedürfnisse zu verstehen, denen eine „Krankenhausstadt“ wie Padua von 1915 nachkommen musste, muss man einige Zahlen erwähnen: In der ersten der sogenannten „Isonzoschlachten“, die vom 23. Juni bis zum 7. Juli 1915 gekämpft wurde, gab es etwa 2000 Tote und 15000 Verletzte; in der zweiten vom 18. Juli bis zum 3. August von demselben Jahr stiegen die Toten und die Vermissten um etwa 11000 und die Verletzten sogar um 30000, die 1800 Verletzten entsprachen, die jeden Tag so schnell wie möglich aus der Front entfernt werden mussten. Die Hilfsabfolge sah ein Verfahren vor, das die Verletzten von den Behandlungsstellen über Feld- und Etappelazarette bis zu den Gebietskrankenhäusern brachte. Was zuerst die Eigenschaften betrifft, die Padua eine Krankenhaushauptstadt machten, sind sie die folgenden: Es gab erstens tätige und große Krankenhausanlagen und eine alte und bekannte Medizinische Fakultät; die Beherbergungskapazität war erprobt und schnell ausbaufähig; man konnte die Stadt dank guter Verkehrswege erreichen; es lag beim Kriegsschauplatz, obwohl es der Front nicht zu nah war. Deswegen wurde Padua schon in der zweiten Hälfte des Jahres 1915 in wenigen Monaten noch nach einer knappen und evokativen Definition eine „Militärkrankenhausstadt“. In kurzer Zeit wurden die „Krankenhäuser“ mehr als 20 und es ist interessant, die Anstalten nach der Beherbergungskapazität zu erwähnen, die zum Krankenhausaufenthalt der verletzten und kranken Soldaten bestimmt waren: 1060 – Santa Giustina Krankenhaus 746 – Ziviles Krankenhaus 630 – Scuola Pietro Selvatico Krankenhaus 600 – Krankenhaus der Roten Kreuz, Seminario 550 – Scuola di via Belzoni Krankenhaus

483 – Orfanotrofio Krankenhaus 450 – Casa di Ricovero Genesungskrankenhaus 400 – Hauptmilitärkrankenhaus 383 – Scuola Ardigò Krankenhaus 370 – Psychiatrisches Provinzkrankenhaus 300 – Scuola Arria Krankenhaus 300 – Isolamento Krankenhaus 290 – Scuola Reggia Carrarese Krankenhaus 248 – Istituto Camerini e Rossi Krankenhaus 200 – Santa Croce Krankenhaus 150 – Krankenhaus der Roten Kreuz, Pensionato Petrarca 120 – Fatebenefratelli Krankenhaus 100 – Krankenhaus der Roten Kreuz, Arsego 90 – Patronato Krankenhaus 20 – Pronto Ricovero Krankenhaus 10 – Arslan Heilanstalt Man kann bemerken, dass es an der ersten Stelle nicht das „Giustinianeo“ ziviles Krankenhaus gibt, wie man berechtigt erwarten könnte. In der Tat muss man beachten, dass das damals seit etwa hundert Jahren tätige und imposante Gebäude den Krankenhausbedürfnissen der Zivilisten weiter nachkommen musste. Solche Bedürfnisse waren nicht nur die gewöhnlichen Krankheiten sondern auch die direkten und indirekten Folgen des Krieges. Die Hygiene konnte zwar die Mehrheit der möglichen Epidemien vermeiden, aber Padua hat den traurigen Rekord, eine der ersten Städte auf der Welt zu sein, die Bombenangriffe erlitt, deren Opferzahl viel höher ist, als man in Anbetracht der damaligen Mittel erwarten könnte. Die Genehmigung, einen großen Teil vom Giustinianeo als Militärkrankenhaus zu benutzen, wurde nicht zufällig von zwei Spitzenprotagonisten des paduanischen medizinischen Lebens unterstützt, d. h. Edoardo Bassini und Achille De Giovanni. Für sie war der Krankenhauspräsident, der Adlige Francesco Lorenzo Lonigo, bei der Unterschrift der Konvention ein wichtiger Anhänger. Vom 29. Mai wurde Professor Napoleone D’Ancona mit der Krankenhausleitung


PA D OVA , C I T T À O S P E D A L I E R A

betraut, während Augusto Bonome Leiter des bakteriologischen und serumtherapeutischen Dienstes wurde. Ähnlich war die Situation des psychiatrischen Krankenhauses in Brusegana, das groß und damals sehr modern, eine regelrechte autonome Zitadelle, war. Deshalb wurde die große Anstalt gleichzeitig zivile psychiatrische Klinik, Militärkrankenhaus und später ein vom Professor Ernesto Belmondo geleiteter Universitätssitz. Nach solchen Klarstellungen ist es nicht überraschend, dass das bei der Santa Giustina Abtei liegende Krankenhaus an erster Stelle ist, wo es schon in der Vergangenheit ein Militärkrankenhaus gab und noch heutzutage eine Kaserne liegt. Mit der Leitung des großen Santa Giustina Krankenhaus wurde Professor Luigi Sabbatani betraut. Was die anderen provisorischen Krankenhäuser betrifft, wurden einige in der Nähe des Militärkrankenhauses errichtet, während andere, wie z. B. Scuola Selvatico, Scuola Ardigò, Patronato und Casa di Ricovero, 1916 eine unterschiedliche Bestimmung bekamen, als Padua Sitz der „medizinischen Kriegsschule“ wurde. Erwähnenswert sind die 10 Betten bei der Heilanstalt vom Professor Yerwant Arslan, die ein ausgezeichnetes Beispiel der privaten Teilnahme an einem solchen großzügigen Solidaritätswettkampf war. Interessant ist auch das „Pronto Ricovero“ beim Bahnhof, das errichtet wurde, um die mit dem Krankenhauszug angekommenen Verletzten provisorisch zu beherbergen, während man ihre Aufnahme bei ausgestatteten Anstalten erwartete. Dazu kümmerte man sich um eine schnelle Verteilung der Verletzten zwar mit regelrechten Krankenwagen, aber auch mit mit mechanischem Antrieb ausgestatteten oder mit Tieren bespannten Fahrzeugen und mit einem Sonderwagen, mit dem man eigens die Straßenbahn versehen hatte. Wenn man bedenkt, dass Padua von 1916 bis 1917 Sitz des öfter als „Castrense Universität“ bekannten „Medizinischen und Chirurgieseminars für Studenten beim Militär“ war , das etwa 1300 Studenten anging, und mit der Vergabe von mehr als 500 Diplomen endete, kann man verstehen, warum es den Beinamen „Krankenhaushauptstadt“ des Ersten Weltkriegs verdient. Il re con ufficiali. Foto archivio Francesco degli Azzoni Avogadro

Il re fotografa il campo di battaglia. Foto archivio Francesco degli Azzoni Avogadro


Padova, la “Specola”.

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LA GRANDE GUERRA IN VENETO


Padova, bastione con il fossato.

Padova, le mura difensive. Sullo sfondo la Basilica di S. Giustina.

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SERGIO GARBATO

Memorie della Grande Guerra in Polesine L

Rovigo, lapide a Cesare Battisti di Virgilio Miani.

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’8 maggio 1915, proprio a ridosso dall’entrata in guerra dell’Italia, Giacomo Matteotti aveva pubblicato sul giornale socialista “La Lotta” (che di lì a poco avrebbe interrotto le pubblicazioni per protesta contro la censura e le molte altre limitazioni imposte alla stampa) un articolo che, riletto oggi, appare non soltanto premonitore degli esiti di allora, ma una denuncia tanto significativa quanto attuale. Scriveva, dunque, Matteotti: «Chiunque dei

due grandi raggruppamenti dovesse vincere, vi sarà un popolo vinto che preparerà una rivincita per domani e quindi nuove guerre e vi saranno vincitori che domineranno su città, su campagne di nazionalità differente, con la scusa della civiltà superiore, con la scusa del confine d’arrotondare (…). Noi desideriamo piuttosto che tutti e due gli avversari si esauriscano, non vincano, allora soltanto forse questa potrebbe essere l’ultima guerra, per i suoi stessi errori, per la sua stessa inutilità». Parole tanto più vere per un Polesine che, nonostante la lontananza dalle zone delle operazioni militari, pagò costi sociali e umani altissimi. Per converso, ecco che, in quello stesso 1915, un giornalista di razza come Gino Piva aveva abbandonato bruscamente la sua fervida militanza socialista per passare tra le fila degli interventisti, corrispondente dal fronte per il “Resto del Carlino”, con articoli quasi quotidiani di grande forza e suggestione, che raccontavano la prima guerra mondiale come pochi altri. Curiosamente, sempre nel 1915, Rovigo aveva aperto la sua prima sala cinematografica ribattezzata Edison, grazie al riadattamento della vecchia Chiesa degli Orfani con il bel soffitto decorato da sculture lignee e deliziose pitture. La partenza per il fronte di tutti gli uomini validi aveva avuto come immediata conseguenza una fortissima penuria di manodopera, che in Polesine si era riverberata specialmente nelle campagne. Infatti, i richiamati erano in gran parte braccianti agricoli, già falcidiati dall’emigrazione e da sempre i meno protetti socialmente. Da qui, una notevole riduzione della produzione di frumento nel 1916 e una crisi ancora più grave della bieticoltura. Né mancavano le requisizioni a favore dell’esercito di grano e granoturco e capi di bestiame. Nei campi e nelle poche fabbriche lavoravano ormai quasi solo le donne e i bambini, costretti a fatiche durissime e spesso insopportabili. D’altro canto, l’aumento dei prezzi non veniva compensato da un adeguato incremento dei salari, poiché i vecchi contratti, a causa dello stato di guerra, erano stati prorogati dal governo. Mancavano grano e carne, ma anche legna e altre materie prime, rendendo la vita impossibile. Cominciarono allora i primi scioperi, che si generavano spontaneamente, ma che, idealmente, finivano per essere quasi una continuazione delle manifestazioni contro l’entrata in guerra che


MEMORIE DELLA GRANDE GUERRA IN POLESINE

si erano verificate l’anno prima in diverse zone del Polesine. Questa volta erano le donne a scioperare. Protestarono le mietitrici di Castelgugliemo, che volevano un aumento della paga, coinvolgendo anche gli addetti alla trebbiatura. L’invio di soldati e prigionieri di guerra (un decreto governativo del 1917 ne aveva autorizzato l’utilizzo nei campi) a lavorare al posto dei contadini non riuscì a piegare gli scioperanti. Nel 1918 si sarebbero ribellate le operaie del canapificio di Polesella, che non avrebbero esitato a distruggere le arelle che dovevano essere inviate al fronte per il rafforzamento delle trincee. Erano molti i disertori che si nascondevano nelle campagne e specialmente nelle coltivazioni di canapa che offrivano rifugio sicuro, protetti spesso dalla popolazione. Nel contempo si gridava contro gli «imboscati», accusati di arricchirsi mentre gli altri erano in guerra. Migliore era la qualità della vita nelle città e nei grossi centri urbani, dove le restrizioni e la penuria di materie prime si facevano sentire in maniera meno pesante, anche se erano aumentati esponenzialmente i poveri e i disoccupati, cui si aggiunge-

vano i primi reduci e i mutilati. Gli osservatori più informati temevano uno sfondamento del fronte da parte degli austro-tedeschi ed erano stati requisiti diversi edifici per trasformarli in ospedali militari, come era stato il caso del Collegio Angelo Custode (sede dell’Ospedale Territoriale Principale Chirurgico), del Collegio Sacro Cuore (che ospitava l’Ospedale Territoriale Sussidiario Medico) e ancora la Scuola Normale Comunale poi Istituto Magistrale Cristina Roccati (qui c’era l’Ospedale di Riserva), e infine un posto di soccorso presso la stazione ferroviaria di Rovigo e un Ospedale Territoriale Sussidiario ad Adria. Per tutto il periodo di guerra il sindaco di Rovigo era stato Ugo Maneo, leader del partito conservatore e anche presidente della Provincia. Il 1917, terzo anno di guerra, era stato particolarmente duro e difficile. Nevicate abbondanti e frequenti avevano reso difficile e talora impossibile la circolazione, con scarsità di legna (sovente imboscata per timore delle requisizioni) e di carbone, così che alcune fabbriche avevano chiuso i battenti e i mulini non macinavano praticamente più. Come se non bastasse, all’inizio dell’estate c’era stata una

Rovigo, Piazza Vittorio Emanuele III.

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LA GRANDE GUERRA IN VENETO


MEMORIE DELLA GRANDE GUERRA IN POLESINE

grande piena del Po, che aveva allagato i campi tra Ficarolo e Frassinelle. Scioperi e agitazioni anche violente scuotevano le campagne. La rotta di Caporetto, nel novembre del 1917, fu ancor più devastante. Ben 350.000 soldati, dopo lo sfondamento del fronte e in mancanza di ordini e coordinamento, avevano abbandonato il loro posto in maniera confusa e nello stesso tempo 400.000 civili erano in fuga dalle zone invase. Migliaia di soldati della IIa Armata, di fatto abbandonata dagli stessi ufficiali, e altrettanti profughi riempivano scompostamente le strade. Rovigo e una parte del Polesine, che erano retrovia del fronte, vennero dichiarati zona di guerra, sottoposti a norme militari, che limitavano gli spostamenti e la vita quotidiana degli abitanti. La città era attraversata da allarmi ossessivi e convogli che arrancavano per le strade fangose con la paura che gli austro-tedeschi avanzassero ancora e dilagassero nella pianura padana. Numerosi erano i feriti che arrivavano e che venivano accolti negli ospedali militari, allestiti spesso in fretta e dislocati specialmente nelle scuole e in ogni edificio pubblico, come

era stato il caso di quello di Papozze situato nella casa di riposo intitolata a Francesco Bottoni (con conseguente trasferimento degli anziani nella vecchia caserma dei Carabinieri in Ca’ dei Ruschi). A Rovigo, c’era perfino un accampamento con tanto di tende e trincea intorno alla Piazza XX Settembre, con soldati malridotti e ufficiali impettiti che davano ordini a destra e sinistra, come fossero appena usciti da qualche accademia. Quello che restava della IIa Armata si stava faticosamente ricostituendo a Lendinara, in attesa dell’arrivo di altri reparti che si stavano già riorganizzando. Nel frattempo si rinforzavano gli argini dei fiumi e specialmente quello destro dell’Adige, che era il più a rischio e si predisponevano treni armati. All’opposto, si ventilava l’eventualità di tagliare quegli stessi argini per allagare una parte della provincia così da bloccare l’avanzata delle truppe autro-tedesche. Non a caso, l’Accademia dei Concordi e altri enti, come i Consorzi polesani, avevano trasferito in zone più sicure opere d’arte, documenti, preziosi manoscritti e incunaboli. E perfino il vescovo aveva ingiunto ai parroci di mettere al sicuro nella curia gli arredi sacri e le pale più preziose. Ma in capo a un anno, era in arrivo la vittoria, o meglio l’ultima riscossa, con gli arditi che saltavano fuori dalle trincee con il pugnale tra i denti e dietro tutti gli altri con il fucile con la baionetta in canna. Immagini epiche e un poco fuorvianti se si vuole, ma, in fondo, la prima guerra mondiale era stata e resta un punto fermo della nostra storia, con generazioni di studenti in visita a Redipuglia e agli ossari in montagna e al castello di Trento, ma anche Trieste e il Carso. E nomi su nomi, insieme ai monumenti ai caduti. Ed è solo una spia di una tremenda realtà che si traduce in un’ecatombe di militari e civili, generali distratti e incompetenti, armamenti inadeguati e tutto ciò che segue. È forse per questo che, a ben pensarci, sappiamo ancora poco, e non perché le fonti siano scarse (anzi!) o non vi sia accesso ai documenti, ma perché ci si contenta di quel poco che è passato da una generazione all’altra. In realtà, al termine della guerra, che era costata al Polesine oltre 4632 caduti (il 70% dei quali erano contadini ed erano così ripartiti per distretto: Rovigo 721, Adria 1356, Badia 652, Lendinara 464, Occhiobello 449, Massa 402 e Polesella 343), la miseria delle campagne era enorme, anche se la cosiddetta commissione arbitrale per i contratti agrari aveva in qualche modo garantito gli interessi dei lavoratori. I caduti erano per lo più giovani, che avevano un’età media tra i 21 e i 26 anni, non mancavano i diplomati e gli studenti universitari e qualche laureato. Tuttavia, la Grande Guerra, più di quello che pensiamo e crediamo, fa parte ormai del nostro immaginario collettivo, come ben testimoniano tutti quei monumenti ai caduti, che, nelle piazze di ogni città e di ogni paese, rappresentano quasi esclusivamente l’umile fante del 1915-18. Chi non ha avuto in famiglia un parente coinvolto in quella guerra lontana? Da allora, è trascorso poco meno di un secolo, l’età dei nostri nonni o giù di lì e il mondo è cambiato,


MEMORIE DELLA GRANDE GUERRA IN POLESINE

ma, una volta l’anno, in occasione della ricorrenza dell’Armistizio firmato il 4 novembre 1918 a Villa Giusti fra i plenipotenziari dell’Esercito Italiano e di quello Austro-Ungarico, il tempo sembra fermarsi e i monumenti si animano sotto il peso delle corone. Non è ozioso, allora, rileggere la Grande Guerra anche attraverso i monumenti e le lapidi che in modo frammentario e postumo continuano a raccontarla. Un itinerario rodigino può prendere le mosse dalla lapide sotto il Municipio in Piazza Vittorio Emanuele IIo e dedicata ai “Martiri nostri”, Nazario Sauro, Damiano Chiesa e Guglielmo Oberdan. Nella attigua Via Battisti, nel primo anniversario della crudele esecuzione (luglio 1916) del martire, sul muro dell’ex Corpo di Guardia austriaco, quasi a rivalsa dell’antico «servaggio», era stato murato con solenne e affollatissima cerimonia un ricordo scolpito nel marmo con relativa intitolazione della breve strada. Opera di un giovane e già raffinato Virgilio Milani, la scultura non è indifferente a certe linee liberty, ma attenta anche e soprattutto a cogliere l’aura romantica del martire, rilevabile nella libera chioma e in quel tragico cappio rimasto intorno al collo. Altra lapide è quella nell’atrio del Conservatorio F. Venezze, dedicata a Ugo Migliorini, direttore d’orchestra, morto di setticemia al fronte nel 1918. Al suo nome si sarebbe richiamata anche la società corale che era stata della Filarmonica G. Verdi. Al “sottotenente di vascello e ardito aviatore” Nello Caffaratti, figlio di una insegnante dell’istituto magistrale, caduto sul finire della guerra, è intitolata la piazzetta dietro il Palazzo delle Poste. E proprio nell’atrio dello stesso Istituto Magistrale Cristina Roccati (che era stato trasformato in ospedale militare) c’è una lapide con lampada accesa per alcuni allievi dell’istituto, caduti negli ultimi mesi di guerra. Il vecchio ippodromo con il grande piazzale antistante, noto anche come piazza d’armi, era a quei tempi una precaria pista aerea, da dove si alzavano in volo i piloti militari e non. Infatti, nel primo decennio del Novecento, una grande attrazione era costituita dal volo dei monoplani sul cielo della città e del territorio. E per questo avvenivano, quando era possibile, delle vere e proprie dimostrazioni, cui assistevano migliaia di persone. Sarebbero presto arrivati anche gli eroi polesani dell’aria: Aldo Finzi compagno di D’Annunzio nel volo su Vienna nel 1918, Umberto Klinger protagonista della prima traversata dell’Atlantico (Roma-Buenos AiresRoma) con un aereo di linea civile. Ma soprattutto Umberto Maddalena che, nato a Bottrighe nel 1894, aveva conseguito il diploma di capitano di lungo corso presso l’Istituto Nautico di Venezia e solo allo scoppio della Grande Guerra, sarebbe entrato nella neonata aviazione come pilota di idrovolanti, partecipando a numerose missioni e distinguendosi spericolatezza e perizia, come testimoniano numerose decorazioni. Non c’è, a Rovigo, un monumento ai caduti, perché si preferì intitolare loro un maestoso edificio, nei pressi della stazione ferroviaria, che ospita oggi

l’università. C’è però un ossario militare, integrato nel cimitero comunale. È stato il primo sacrario a essere così definito (Legge 877 del 1931). Vi sono raccolte le spoglie di 589 soldati italiani e di 215 austroungarici. Un interessante ed efficace monumento ai caduti ad opera dello scultore rodigino Virgilio Milani, si trova nella piazza principale della frazione di Grignano. E sempre di Milani vanno ricordati i monumenti della vicina Borsea, così come quello di Ficarolo. Nella frazione di Cantonazzo, c’è invece un oratorio, eretto come ex voto da Domenico Rubello, reduce della Grande Guerra. In Piazza San Giovanni Battista, a Costa di Rovigo, c‘è l’oratorio omonimo, risalente alla metà del Seicento, ma riedificato nel 1785 e dedicato nel 1961 ai Caduti per la Patria. A Lendinara, la cinquecentesca chiesetta di San Rocco, che è all’ombra di un grande e antico albero, dopo la Grande Guerra, venne restaurata e dedicata nel 1928 ai caduti lendinaresi. A Badia Polesine, il Museo Baruffaldi con la sua notevole raccolta di documenti, oggetti e foto testi-


MEMORIE DELLA GRANDE GUERRA IN POLESINE

Rovigo, tenda della Croce Rossa per la raccolta fondi a favore sei soldati feriti.

monia la Grande Guerra in modo esauriente, diventando una autentica “memoria visiva che è anche descrittiva insieme per l’abbondanza di particolari”. Sempre a Badia, sotto il portico della Torre Civica in Piazza Vittorio Emanuele, c’è un bassorilievo bronzeo dedicato ai caduti, opera di Virgilio Milani, realizzata nel 1959. E ancora, nel cimitero comunale, è di grande suggestione il monumento a Giuseppe Gradassi, scolpito da Antonio Viaro. A Fiesso Umbertiano, lo splendido monumento ai caduti, realizzato in bronzo nel 1924 dallo scultore Gino Colognesi (autore, nello stesso anno, anche di quelli di Canaro e di Costa), sfruttando per la fusione un vecchio cannone austriaco residuo di guerra e impiegando come modelli dei cittadini fiessesi. A Stienta, in Piazza Santo Stefano, c’è un monumento in bronzo realizzato nel 1929 dallo scultore Paolo Boldrin che rappresenta un soldato che protegge una madre con il braccio. A Occhiobello, in Piazza Matteotti, si può ammirare il bel monumento ai caduti in marmo, realizzato nel 1923 dallo scultore veronese (ma originario di Loreo) Giulio Nordio. Il monumento che si trovava al

centro della piazza, è stato spostato, dopo l’alluvione del 1951, in fondo, verso l’argine del Po. Ad Adria, c’è la chiesetta di San Nicola da Tolentino, fatta edificare tra il 1634 e il 1636 dalla omonima Confraternita e poi demolita nel 1850 e ricostruita due anni dopo. Tra il 1922 e il 1931, su progetto di Giambattista Scarpari venne trasformata in luogo di culto del Monumento ai Caduti. La facciata è in pietra bianca d’Istria e presenta una perfetta simmetria dei diversi elementi architettonici arricchiti da due leoni in bronzo sul portale, realizzati dallo scultore bolognese Gaetano Samoggia (autore anche di tutte le altre opere in metallo). Di notevole interesse, infine, i residuati bellici emersi una decina di anni dopo dalle dune lungo la costa di Bonelli, a Porto Tolle, meglio nota come Busa del Bastimento. È ciò che resta in Polesine delle fortificazioni per difendere la linea costiera da Grado a Chioggia, sia sfruttando vecchi baluardi austriaci, sia costruendo robuste piattaforme in calcestruzzo che distavano 16 metri l’una dall’altra ed erano munite di obici che avevano una gittata di una ventina di chilometri.

Rovigo, cortile del seminario vescovile adibito a provvisorio ospedale militare.

Rovigo, l’istituto Roccati trasformato in ospedale militare nel 1917.

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LA GRANDE GUERRA IN VENETO

Rovigo, soldati della sanità in servizio presso l’ospedale provvisorio dell’istituto magistrale.


MEMORIE DELLA GRANDE GUERRA IN POLESINE

MEMORIES OF THE GREET WAR IN POLESINE

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The departure for the front of all able bodied men immediately entailed an extremely serious lack of manpower, reflecting itself especially on the Polesine farmland. In fact, the drafted men were for the main part farmhands, a category already decimated by emigration and who had always been the least protected socially. This led as a result, in 1916, to a significantly reduced wheat crop and to an even more severe crisis in the beet production. Nor were the peasant farmers spared army requisitions of wheat, maize, and cattle. Only women and children worked in the fields and few existing factories, forced to the harshest and often physically unbearable toil. Under such conditions the first strikes spontaneously arose, being ideally a prosecution of the non-interventionist demonstrations against Italy’s entry into the war, taking place the previous year in various areas of the Polesine. The deployment of troops and war prisoners to work en lieu of the peasants (a 1917 government decree authorised their employment in farming), did not succeed in bending the strikers. Life conditions were better in cities and large towns, where constraints and scarcity of raw materials were less heavily felt, though the number of the poor and unemployed had escalated, increased by the arrival of the first veterans and mutilated. The more attentive among observers feared an Austro-German breakthrough, so that a number of buildings had been requisitioned to turn them into military hospitals, as in the case of the Angelo Custode College (housing the Local Main Surgery Hospital, i.e. the Ospedale Territoriale Principale Chirurgico), the Sacro Cuore College (converted into the Local Subsidiary Medical Hospital, i.e. the Ospedale Territoriale Sussidiario Medico), and the Local Scuola Normale, later becoming Istituto Magistrale Cristina Roccati (seat of the Army Reserve Hospital), an emergency department at the local railway station, and a Local Subsidiary Hospital at Adria. Town mayor of Rovigo was for the length of the war Mr. Ugo Maneo, leader of the conservative party as well as President of the Province. 1917, the third year of war, had been a particularly hard and difficult one. Heavy and frequent snowfall rendered transportation laborious and at times down right impossible, with shortages of wood (often hidden for fear of requisition) and of coal, so much so that some factories had closed down and mill activity had practically ground to a halt too. Moreover, at the beginning of summer there had been a great flood of the River Po, drowning the fields between Ficarolo and Frassinelle. Strikes and at times violent unrest shook the land. The Battle of Caporetto rout, in November 1917, was even more devastating. Indeed, following the front’s breach, the lack of orders and coordination, 350,000 soldiers had abandoned their posts in confusion. At the same time, 400,000 civilians were fleeing the invaded areas. Thousands of soldiers of the Second Army, de facto bereft of their officers, and an equal amount of refugees, filled the roads in disarray. Rovigo and parts of the Polesine, an area behind the front lines, were declared war zone, and came under military standards limiting the inhabitants’ movements and daily life. Many wounded arrived and were accommodated in the military hospitals, often hastily set up, located mainly in schools and, more generally, in all kinds of public buildings. What remained of the Second Army was wearily regrouping at Lendinara, awaiting the arrival of other army units that were already reorganizing. Meanwhile, the river banks were fortified, especially on the right side of the Adige, which was most at risk, and armoured trains were outfitted. Quite to the opposite, the possibility was taken into consideration of cutting the banks in order to flood part of the Province, to thwart an Austro-German advance. The Accademia dei Concordi and other public agencies such as the Polesine partnership (Consorzi polesani) had transferred works of art, documents, precious manuscripts and incunabula to safer areas. The Bishop himself instructed the parish priests to protect vestments and the most precious altarpieces in the diocesan curia. At the end of the war, Polesine had lost over 4632 lives (70% of whom were peasants, distributed by district as follows: Rovigo 721, Adria 1356, Badia 652, Lendinara 464, Occhiobello 449, Massa 402, and Polesella 343). Extreme poverty in the fields loomed large, even though the so-called arbitral commission for rural contracts had in some way upheld the workers’ interests. Most of the casualties were young men aged between 21 and 26 on average, not without the presence of graduates, university students and a few post-graduates. The Great War belongs by now, more than we may think and believe, to the collective imagination, as witnessed by the number of Monuments to the Fallen populating the main squares of all towns and villages, monuments that portray almost exclusively the humble infantryman (G.I.) of 1915-18. Whoever has had no relative in his family involved in that distant war?

To revise the events of the Great War through the monuments and plaques that continue, posthumously and in a fragmented way, to recount its story, does not appear to be, therefore, an idle occupation. An itinerary in Rovigo could start from the commemorative plaque dedicated to ‘Our Martyrs’ Nazario Sauro, Damiano Chiesa and Guglielmo Oberdan on the wall of the Town Council (Municipio) loggia in the Piazza Vittorio Emanuele II. In the neighbouring Via Battisti, a high relief was carved in marble by Virgilio Milani on the first anniversary of the cruel execution of the martyr (taking place in July 1916) on the wall of the former Austrian Guard House, as if in vengeance for the «ancient servility». Another stone plaque is placed in the foyer of the Conservatoire F. Venezze, dedicated to Ugo Migliorini, orchestra Director who died of septicaemia at the front in 1918. A small square (Piazzetta) behind the Post Office building is entitled to Nello Caffaratti, “sub-lieutenant (US: lieutenant JD) and brave pilot”, who fell towards the end of the war. And in the atrium of the Istituto Magistrale (Teacher-training College) “Cristina Roccati” there is a stone with a burning lamp, dedicated to a number of schoolboys fallen in the final months of war. There is no actual monument to the fallen in Rovigo, because the preference went to entitling a majestic building in the vicinity of the station, now seat of the University, to them. There is, however, a military charnel house integrated in the local cemetery. It is the first sanctuary to be thus properly defined (according to 1931 Law number 877). It holds the remains of 589 Italian soldiers and 215 Austro-Hungarians. An interesting and effective Monument to the Fallen by Rovigo sculptor Virgilio Milani stands in the main square of the suburb of Grisignano. Further monuments by Milani are to be found in Borsea and the nearby Ficarolo. In the suburb of Cantonazzo there is an oratory raised as an ex voto by Domenico Rubello, a World War vet-

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LA GRANDE GUERRA IN VENETO


MEMORIE DELLA GRANDE GUERRA IN POLESINE

eran. At Lendinara, the 16th Century Church of St. Roque (San Rocco) was restored and dedicated in 1928 to the fallen of Lendinara. At Badia Polesine, the Museum Baruffaldi with its remarkable collection of documents, objects, and photos bears witness exhaustively to the Great War. At Fiesso Umbertiano, a Monument to the Fallen, was created in bronze in 1924 by sculptor Gino Colognesi (author, the same year, also of those in Canaro and Costa), who availed himself by smelting of an old Austrian cannon. At Stienta, in St. Stephen’s Square (Piazza Santo Stefano), stands a bronze monument produced in 1929 by sculptor Paolo Boldrin, representing a soldier in the act of protecting a mother with his arm. At Occhiobello, in Piazza Matteotti, a beautiful stone Monument to the Fallen, produced Rovigo, Piazza Vittorio Emanuele III.

Rovigo, Piazza XX Settembre.

in 1923 by Veronese sculptor Giulio Nordio. At Adria, the small church of St. Nicholas of Tolentino (San Nicola da Tolentino) was turned into a Monument to the Fallen on a project by Giambattista Scarpari. Also noteworthy, to conclude, are the war relics emerging ten years later from the dunes along the coast of Bonelli, at Porto Tolle, better known as the Busa del Bastimento (Ship’s Hole). This is what remains in Polesine of the fortifications erected to defend the coastal tract from Grado to Chioggia, both making good use of the old Austrian ramparts, and building sturdy concrete platforms 16 metres far apart from each other, provided with howitzers with a range of roughly twenty kilometres.


MEMORIE DELLA GRANDE GUERRA IN POLESINE

MEMORIE DELLA GRANDE GUERRA IN POLESINE

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he departure for the front of all able bodied men immediately entailed an extremely serious lack of manpower, reflecting itself especially on the Polesine farmland. In fact, the drafted men were for the main part farmhands, [a category] already decimated by emigration and who had always been the least protected socially. This led as a result, in 1916, to a significantly reduced wheat crop and to an even more severe crisis in the beet production. Nor were the peasant farmers spared army requisitions of wheat, maize, and cattle. Only women and children worked in the fields and few [existing] factories, forced to the harshest and often [physically] unbearable toil. Under such conditions the first strikes spontaneously arose, being ideally a prosecution of the [non-interventionist] demonstrations against Italy’s entry into the war, taking place the previous year in various areas of the Polesine. The deployment of troops and war prisoners to work en lieu of the peasants (a 1917 government decree authorised their employment in farming), did not succeed in bending the strikers. Life conditions were better in cities and large towns, where constraints and scarcity of raw materials were less heavily felt, though the number of the poor and unemployed had escalated, increased by the arrival of the first veterans and mutilated. The more attentive [among the] observers feared an Austro-German breakthrough, so a number of buildings had been requisitioned to turn them into military hospitals, as in the case of the Angelo Custode College (housing the Local Main Surgery Hospital, i.e. the Ospedale Territoriale Principale Chirurgico), the Sacro Cuore College (converted into the Local Subsidiary Medical Hospital, i.e. the Ospedale Territoriale Sussidiario Medico), and the Local Scuola Normale, later becoming Istituto Magistrale Cristina Roccati (seat of the Army Reserve Hospital), [and finally] an emergency department (ED) at the local railway station, and a Local Subsidiary Hospital at Adria. Town mayor of Rovigo was for the length of the war [Mr.] Ugo Maneo, leader of the conservative party as well as President of the Province (Provincia: administrative division of intermediate level between a municipality (comune) and a region (regione).) 1917, the third year of war, had been a particularly hard and difficult one. Heavy and frequent snowfall rendered transportation laborious and at times [down right] impossible, with shortages of wood (often hidden for fear of requisition) and of coal, so much so that some factories had closed down and mill activity had practically ground to a halt too. Moreover, at the beginning of summer there had been a great flood of the River Po, drowning the fields between Ficarolo and Frassinelle. Strikes and at times violent unrest shook the land. The [Battle of] Caporetto rout, in November 1917, was even more devastating. Indeed, following the front’s breach, the lack of orders and [military] coordination, 350,000 soldiers had abandoned their posts in confusion. At the same time, 400,000 civilians were fleeing the invaded areas. Thousands of soldiers of the Second Army, de facto bereft of their officers, and an equal amount of refugees, filled the roads in disarray. Rovigo and parts of the Polesine, an area behind the front lines, were declared war zone, and came under military standards limiting the inhabitants’ movements and daily life. Many wounded arrived and were accommodated in the military hospitals, often hastily set up, located mainly in schools and, more generally, in all kinds of public buildings. What remained of the Second Army was wearily regrouping at Lendinara, awaiting the arrival of other army units that were already reorganizing. Meanwhile, the river banks were fortified, especially on the right side of the Adige, which was most at risk, and armoured trains were arranged for. Quite to the opposite, the possibility was taken into consideration of cutting the banks in order to flood part of the Province, to thwart an Austro-German advance. The Accademia dei Concordi and other public agencies such as the Polesine partnership (Consorzi polesani) had transferred works of art, documents, precious manuscripts and incunabula to safer areas. The Bishop himself instructed the parish priests to protect vestments and the most precious altarpieces in the diocesan curia. At the end of the war, Polesine had lost over 4632 lives (70% of whom were peasants, distributed by district as follows: Rovigo 721, Adria 1356, Badia 652, Lendinara 464, Occhiobello 449, Massa 402, and Polesella 343). Extreme poverty in the fields loomed large, even though the so-called arbitral commission for rural contracts had in some way upheld the workers’ interests. Most of the casualties were young men aged between 21 and 26 on average, not without the presence of graduates, university students and a few post-graduates. The Great War belongs [by] now,

however [qui mi sfugge il termine di opposizione], more than we may think and believe, to the collective imagination, as witnessed by the number of Monuments to the Fallen populating the [central] squares of all towns and villages, monuments that portray almost exclusively the humble infantryman (G.I.) of 1915-18. Who ever has had no relative in his family involved in that distant war? To revise the events of the Great War through the monuments and plaques that continue, posthumously and in a fragmented way, to recount its story, does not appear to be, therefore, an idle occupation. An itinerary in Rovigo could start from the commemorative plaque dedicated to ‘Our Martyrs’ Nazario Sauro, Damiano Chiesa and Guglielmo Oberdan on the wall of the Town Council (Municipio) loggia in the Piazza Vittorio Emanuele II. In the neighbouring Via Battisti, a high relief was carved in marble by Virgilio Milani on the first anniversary of the cruel execution of the martyr (taking place in July 1916) on the wall of the former Austrian Guard House, as if in vengeance for the «ancient servility». Another stone plaque is placed in the foyer of the Conservatoire F. Venezze, dedicated to Ugo Migliorini, orchestra Director who died of septicaemia at the front in 1918. A small square (Piazzetta) behind the Post Office building is entitled to Nello Caffaratti, “sub-lieutenant (lieutenant JD (US)) and brave pilot”, who fell towards the end of the war. And in the atrium of the Istituto Magistrale (Teacher-training College) “Cristina Roccati” there is a stone with a burning lamp, dedicated to a number of schoolboys fallen in the final months of war. There is no [actual] monument Fiesso Colognesi, monumento ai caduti.

Classe 1888.


MEMORIE DELLA GRANDE GUERRA IN POLESINE

to the fallen in Rovigo, because the preference went to entitling a majestic building in the vicinity of the station, now seat of the University, to them. There is, however, a military charnel house integrated in the local cemetery. It is the first sanctuary to be thus properly defined (according to 1931 Law number 877). It holds the remains of 589 Italian soldiers and 215 Austro-Hungarians.

Borsea Milani, monumento ai caduti.

An interesting and effective Monument to the Fallen by Rovigo sculptor Virgilio Milani stands in the main square of the suburb of Grisignano. Further monuments by Milani are to be found in Borsea and the nearby Ficarolo. In the suburb [ typically the term frazioni applies to the villages surrounding the principal town (the capoluogo) of a comune.] of Cantonazzo there is instead an oratory raised as an ex voto by Domenico Rubello, a World War veteran. At Lendinara, the 16th Century Church of St. Roque (San Rocco) was restored and dedicated in 1928 to the fallen of Lendinara. At Badia Polesine, the Museum Baruffaldi with its remarkable collection of documents, objects, and photos bears witness exhaustively to the Great War. At Fiesso Umbertiano, a Monument to the Fallen, was created in bronze in 1924 by sculptor Gino Colognesi (author, the same year, also of those in Canaro and Costa), who availed himself by smelting of an old Austrian cannon. At Stienta, in St. Stephen’s Square (Piazza Santo Stefano), stands a bronze monument produced in 1929 by sculptor Paolo Boldrin, representing a soldier in the act of protecting a mother with his arm. At Occhiobello, in Piazza Matteotti, a beautiful stone Monument to the Fallen, produced in 1923 by Veronese sculptor Giulio Nordio. At Adria, the small church of St. Nicholas of Tolentino (San Nicola da Tolentino) was turned into a Monument to the Fallen on a project by Giambattista Scarpari. Also noteworthy, to conclude, are the war relics emerging ten years later from the dunes along the coast of Bonelli, at Porto Tolle, better known as the Busa del Bastimento (Ship’s Hole). This is what remains in Polesine of the fortifications erected to defend the coastal tract from Grado to Chioggia, both making good use of the old Austrian ramparts, and building sturdy concrete platforms 16 meters far apart from each other, provided with howitzers with a range of around twenty kilometres.



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UN PARROCO VENETO DIVENUTO PAPA

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Da 21 anni in viaggio Galileo Galilei

Luoghi, natura, storia e arte: sono i tesori nascosti di un territorio tutto da scoprire.

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