Un padre non dovrebbe mai seppellire un figlio, dovrebbe essere un comandamento, una legge, qualcosa, aveva detto il Dottore. Se lo fosse stato, quella notte d’agosto avremmo fatto la scelta giusta e tutti ci avrebbero ringraziato. Invece, quando il padre del Trifo ci chiese dove fosse suo figlio e chi avesse appiccato l’incendio al mattatoio, io e Momo abbassammo la testa e restammo in silenzio. Solo il Dottore, con quella cantilena snervante che usava quando voleva convincere qualcuno, gli aveva ripetuto quello che aveva detto a noi poche ore prima, davanti alla cella frigorifera: “Un padre non dovrebbe mai seppellire un figlio”. I cacciatori lo avrebbero appeso a un ramo e frustato fino a fargli saltare la pelle dalla schiena, ma il maresciallo ci prese in disparte e uno alla volta ci chiese di nuovo se era vero che fosse scappato nel bosco, il nostro amico, il quarto, “lo scemo”. Confidava che la paura ci spingesse a incolparci a vicenda, ma i suoi occhi dicevano che aveva tanta paura quanto noi, perciò ci limitammo a ripetere la versione che avevamo concordato la notte prima. Fu l’operazione di ricerca più grande della storia di Badiascarna. I carabinieri, una squadra di sommozzatori dei vigili del fuoco, chiamarono persino un elicottero della polizia. Nonostante l’ordine di restare a casa, la gente del po5
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sto imbracciò torce e fucili e setacciò il bosco in cerca di un indizio qualunque. Le perlustrazioni proseguirono per settimane, ma s’intuì subito che sarebbe stato tutto inutile: il fuoco, prima, e la pioggia, poi, avevano cancellato ogni traccia. Una storia sfortunata, scrissero i giornali. Il caso fu chiuso e noi tornammo alle nostre vite, senza un capo d’accusa né uno straccio di sospetto. Non vedo il Dottore e Momo da vent’anni, da quando mio padre mi ha cacciato da Badiascarna, eppure penso a loro ogni sera, appena spengo la lampada sul comodino e la stanza sprofonda nel buio. Non è un sogno, lo so perché sono ancora sveglio. Assomiglia piuttosto a una delle visioni che aveva il Trifo prima di addormentarsi, quando avvolto nel suo sacco a pelo militare chiudeva gli occhi – la pancia da ippopotamo che si gonfiava, il respiro pesante –, e noi gli davamo un colpetto sulla spalla o sul fianco e gli chiedevamo: “Cos’è che hai visto?”, “Un clown che guida un trattore” rispondeva lui. “E adesso?”, “Un gatto mannaro”. “E adesso?”, “Mia mamma che fa l’amore con il fantasma del lago”. Ridevamo fino alle lacrime. Di quelle visioni, non del Trifo. Noi eravamo gli unici a non ridere di lui. Nella mia visione siamo ancora tutti e quattro assieme: Momo con la fionda che gli penzola dal collo, il Trifo nel suo ridicolo costume da Chewbecca, io con un plettro tra i denti, e il Dottore con le mani in tasca e gli occhi socchiusi come un esploratore dei ghiacci. Siamo seduti sulla nostra panchina preferita, in cima alla discarica, e una pioggia finissima inizia a cadere. Scende lenta, come se non volesse mai toccar terra, un muro umido e grigio che ci separa da tutto. Poi di colpo la pioggia finissima e lenta non cade più e si ferma a mezz’aria, e centinaia, migliaia di gocce restano sospese sui tetti di Badiascarna, sulla pompa di benzina, sull’insegna del bar, sul campanile, sulle due torri di refrigerazione della NovaLago. Immobili, che tutti le guar6
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dino, finché, come se qualcuno le avesse pregate di tornare da dove erano venute, ecco che iniziano a risalire. Ora sono fiamme che si levano verso il cielo, che incendiano il bosco e i campi di girasole, fiamme che si gonfiano e ci circondano spalancando le bocche e mostrando i denti, in attesa di sferrare l’attacco. Non so dove siano adesso e non mi interessa. Dio, come potrebbe? Eravamo compagni di banco, migliori amici, animi affini, gemelli separati alla nascita. Dopo l’estate della scomparsa del Trifo non fummo più nulla. Una cosa su di loro, però, la so. Ovunque si trovino adesso, mentre all’orizzonte il sole si spegne e il buio risale le colline come una marea, sono sicuro che sotto le loro palpebre ronza la stessa immagine che vedo ogni sera: noi quattro, immobili, seduti sulla nostra panchina preferita, divorati dalle fiamme.
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